L’altra giustizia: la “Messa alla prova” di Carla Chiappini Ristretti Orizzonti, 2 febbraio 2020 La giustizia non belligerante, la giustizia del percorso, che chiede impegno e propone nuove strade. La giustizia che aspettavamo, dopo tanti anni di immersione nei mali e nell’impotenza del carcere. Ora, dopo aver incontrato e accolto circa una settantina di persone “messe alla prova”, siamo probabilmente in grado di formulare alcune riflessioni. La prima riguarda la precisione delle parole: si tratta di persone imputate - non condannate - come troppo spesso scrivono o dicono con un po’ di faciloneria i colleghi giornalisti. È chiaro che si tratta di due concetti e due situazioni molto differenti. Questo istituto, introdotto nel diritto penale adulto nel 2014, si definisce esattamente come “sospensione del procedimento con messa alla prova”, quindi evita sia il processo che l’eventuale condanna. È una opportunità non da poco per chi ha commesso reati la cui pena edittale non può superare i quattro anni di detenzione. Ed è così che abbiamo incontrato e tuttora accogliamo nel progetto della nostra associazione “Verso Itaca” persone che hanno spacciato, coltivato, rubato, guidato in stato di ebrezza… Persone per lo più molto giovani, in larghissima maggioranza uomini. Italiani e non. Insieme scriviamo con quel metodo autobiografico - semplice solo in apparenza - che a volte ci regala squarci di verità, a volte spunti di riflessione e discussione, altre volte imprevedibili silenzi. Si scava, si lavora su se stessi insieme ad altri, con una certa fatica, spesso una iniziale sorpresa e qualche diffidenza. Talvolta qualche lacrima ma anche risate liberatorie. La direzione del cammino è la consapevolezza rispetto a ciò che si è fatto; al danno recato a se stessi, alle persone care e alla comunità. E a quanto di peggio sarebbe potuto accadere. In particolare per le tante - purtroppo - guide in stato di ebrezza con incidenti fortunatamente non gravi. Che se va tutto bene sono una “cretinata”, altrimenti si chiamano “tragedie della strada”. E in mezzo? Che nome possiamo dare a un comportamento tanto irresponsabile quanto pericoloso? Oltre ai soliti, triti ritornelli che “poi capita a tutti una volta di bere un po’ di più” o “lo Stato è complice perché permette il consumo di alcol…” e un’infinità di altre fesserie che ormai mi escono dalla testa. Che altro possiamo dire, quali vocaboli usare per dare peso e senso a queste messe alla prova? Parole scritte, confronti in piccoli gruppi o tutti insieme e spesso, col tempo, qualcosa si muove. Una grande fatica, un investimento di energie davvero notevole, un carico importante per una piccola associazione come la nostra. Composta prevalentemente da volontari che mettono in gioco precise e certificate competenze professionali. Un gruppo di cittadini che sostiene una parte significativa dell’amministrazione della giustizia penale. Giudici piuttosto sbrigativi e Uffici Distrettuali di Esecuzione Penale Esterna oberati di lavoro affidano al volontariato la gestione di uno strumento delicato ma ad alto potenziale come la MAP, confidando nella capacità di gestirlo e anche di riempirlo di contenuti. Questione evidentemente non semplice! L’idea è che la persona imputata si impegni in un “lavoro di pubblica utilità” a titolo di risarcimento del danno provocato dalla commissione del reato; la nostra associazione, invece, ha messo in atto un significativo ribaltamento tale per cui un gruppo di volontari si mette a disposizione della persona imputata per accompagnarla in un percorso di riflessione e di presa di coscienza. Un impegno di “pubblica utilità” in linea con l’articolo 27 della Costituzione? Credo proprio di sì. La giustizia, questione di paradossi di Aldo Grasso Corriere della Sera, 2 febbraio 2020 Di paradosso in paradosso. Ieri, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario di Milano, gli avvocati sono usciti dall’aula nel momento in cui il consigliere del Csm Piercamillo Davigo ha preso la parola, ritenendo inopportuna la sua presenza. Perché? Colpa dei paradossi. Gira in Rete un vecchio filmato in cui Davigo, il “dottor sottile”, afferma che le pratiche per il divorzio in Italia durano più della pena per l’omicidio del coniuge; basta applicare le attenuanti generiche. Davigo è stato tacciato di istigare al femminicidio. Ma era un paradosso. In alcune interviste, Davigo sostiene che l’imputato assolto, o che vede ridotta la richiesta di pena, deve ritenersi un colpevole fortunato. Ma è un paradosso. In altri interventi, la sua dottrina si esplica così: non esistono innocenti; esistono solo colpevoli non ancora scoperti. Oppure: non ci sono troppi prigionieri; ci sono troppe poche prigioni. Oppure: la prescrizione va abolita perché una volta che il processo comincia non si può fare una corsa contro il tempo. Infine: gli avvocati sono degli azzeccagarbugli perché rendono difficile il facile attraverso l’inutile. Paradossi, solo paradossi, sia pure pronunciati con una certa supponenza e sarcasmo. Tanto per chiarirci, in cosa consiste il paradosso davighico? Per dar contro agli altri, saremmo pronti a mettere tutti in galera. La prescrizione divide ma il “fine processo mai” esiste già in molte sedi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 febbraio 2020 I dati che emergono dalle relazioni dell’Anno giudiziario rivelano un quadro sconosciuto e per alcuni aspetti agghiacciante. È un peccato che il tutt’altro che kolossal “Davigo-avvocati” rischi di oscurare taluni dati inediti invece tra le pieghe delle relazioni dell’Anno giudiziario. Il primo è persino agghiacciante nella sua cruda capacità di pesare quante differenti Italie, a parità di normativa ma evidentemente non di carichi-risorse-organizzazioni, ci siano dentro l’Italia giudiziaria: nelle Corti d’Appello (epicentro delle prescrizioni dei dibattimenti) si estinguono il 2,9% dei processi a Milano, il 24% nella media nazionale, il 29% a Napoli, il 48% a Roma, dove alti magistrati arrivano a prospettare la necessità di “una amnistia mirata sui reati minori” per dar fuoco a cataste di arretrati ormai inscalfibili. Secondo spunto: mentre si paventa o meno il futuribile “fine processo mai” a causa della prescrizione bloccata alla sentenza di primo grado, ci sono sedi dove il “fine mai” di fatto esiste già, perché l’arrivo in tribunale di un numero di processi incomparabilmente oltre la possibilità fisica di celebrarli fa sì che, ad esempio a Brescia, nel settembre 2019 una citazione diretta a giudizio trovasse la sua prima udienza a novembre 2023 (non è un refuso: è proprio fra 4 anni). Il terzo spunto viene da rari (e perciò preziosi) dati qualitativi forniti dal pg di Cassazione Salvi. Al netto di prescrizioni e remissioni di querele, le assoluzioni già in primo grado, che nel 2016 sfioravano un preoccupante 30%, nel 2017 sono scese al 22% e nel 2018 al 20,7% (dati anche qui da scomporre tra reati collegiali e monocratici, dove invece ci sono sedi al 40%); e in Appello le assoluzioni, che erano il 24,2% nel 2016, sono diventate 21,3% nel 2017 e 17,7 nel 2018. Numeri certo da affinare, tendenze da contestualizzare: ma sempre più proficui del derby avvocati-Davigo. Prescrizione, la legge finisce sotto attacco di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 2 febbraio 2020 Fuori dall’aula quando parla la toga. I legali stanchi di sentirsi definire una categoria di “pagati a piè di lista per tutti gli atti compiuti”. Reagisce l’Anm. Appena la fanfara dei carabinieri intona per la prima volta in una inaugurazione dell’anno giudiziario milanese l’inno di Mameli, nell’Aula magna le “squadre” sembrano già in tensione pre-partita, ma di un match “telefonato” ormai da giorni di non memorabile batti e ribatti polemico, a seguito della inusuale lettera azzardata dagli avvocati penalisti finanche al presidente Mattarella (e non a caso liquidata come “irrispettosa” dal Comitato di presidenza del Csm) per chiedere di non mandare il consigliere Piercamillo Davigo a rappresentare l’istituzione. Stanchi di sentirsi definire una categoria di “pagati a piè di lista per tutti gli atti compiuti” nel gratuito patrocinio degli imputati non abbienti dove “compiono più atti possibile per aumentare la parcella” (schema in realtà non possibile visto che il sistema di liquidazione è per fasi), e scandalizzati dalla gag cabarettistica di Davigo sull’uxoricidio più conveniente del divorzio perché ce la si caverebbe con 4 anni (matematicamente impossibile), gli avvocati scaldano i muscoli distribuendosi i fogli con gli articoli 24, 27 e 111 della Costituzione (diritto inviolabile alla difesa, presunzione d’innocenza, giusto processo): quelli che poi sventolano, in 120 a beneficio di tv e fotografi, quando lasciano la sala appena Davigo inizia a parlare. “Veto ad personam” - I magistrati in platea, invece, punteggiano di prolungati applausi la presidente della Corte d’appello Marina Tavassi “lieta di accogliere” chi “per tanti anni abbiamo avuto qui protagonista”, il procuratore generale Roberto Alfonso quando gli rinnova “la nostra solidale amicizia”, e il presidente Anm Luca Poniz che critica “gravemente impropri” l’”ostracismo preventivo” e il “veto ad personam”. “Ci siamo allontanati - rimanda al mittente Andrea Soliani, presidente della Camera penale - così come nel 2010 si allontanarono alcuni magistrati milanesi in occasione dell’intervento di un rappresentante del governo, senza che per questo fossero etichettati come antidemocratici”. Davigo non c’è già più, andatosene subito dopo la pausa successiva alla proclamazione formale d’apertura, senza far cenno alla polemica ma preferendo trattare le incognite del “procuratore europeo, autorità sovranazionale che impartirà ordini alla polizia giudiziaria italiana”. Bonafede: “Nessuna incostituzionalità” - Il 2020 è l’anno degli avvocati minacciati nel mondo, e l’evocazione delle persecuzioni dei colleghi turchi o iraniani serve al presidente dell’Ordine degli avvocati Vinicio Nardo per aggiungere che, “accanto alle aggressioni fisiche, quelle verbali possono essere ugualmente dannose: con la narrazione degli avvocati unici responsabili delle lungaggini processuali, i cui testimonial, re incontrastati dei talk-show serali, rivestono importanti ruoli, purtroppo anche nella magistratura, impegnandone l’autorevolezza, in un quasi generalizzato silenzio”. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, si tiene fuori dalla polemica, già gli basta e avanza la salva di critiche alla sua legge sulla prescrizione, a rischio incostituzionalità per Tavassi e Alfonso (non per l’Anm di Poniz, “no a contese manichee e a scenari apocalittici”): “Rispetto le opinioni divergenti - dice Bonafede - ma è evidente che, se ho proposto la legge, dal mio punto di vista non c’è alcuna incostituzionalità”. E, in generale, “mi dispiace che a volte venga etichettato come “manettaro”. Il processo penale non può essere strumento di controllo sociale di Vincenzo Comi e Antonio Mazzone Il Riformista, 2 febbraio 2020 Distinzione tra estinzione del reato ed estinzione del processo penale, introduzione dei termini di fase che ne impediscano l’irragionevole durata, previsione di cause di sospensione dei termini di fase sul modello di quanto previsto per i termini di custodia cautelare: questa la soluzione più equilibrata e costituzionalmente più adeguata che da anni viene prospettata. Il dibattito che si sta sviluppando su tale tema richiede, però, che ci si intenda sulla funzione del processo penale. In uno Stato di diritto e sociale il processo penale non può essere strumento di controllo sociale. Ciò vale anche con riferimento alle misure cautelari, laddove l’eventuale abbassamento del quantum probatorio richiesto per la loro emissione inevitabilmente comporterebbe un’estensione della loro applicazione, con conseguente aumento del numero delle persone sottoposte a restrizioni. Una tale scelta, però, contrasterebbe non soltanto con esigenze di garanzia e di rispetto della persona, ma anche con esigenze di efficacia, non essendo interesse della collettività ed essendo del tutto disfunzionale che sia sottoposto a misure cautelari chi non è responsabile di un reato (magari al posto di chi lo sia effettivamente). È, quindi, interesse della collettività che, nel momento in cui una misura cautelare venga emessa, le probabilità che sia stata emessa nella giusta direzione siano alte. In uno Stato di diritto e sociale il processo penale non può assumere caratterizzazione politica, non può essere strumento politico. Il processo deve avere soltanto il fine dell’accertamento della verità nel rispetto dei diritti della persona: questa, e soltanto questa, deve essere l’ideologia che motiva le riforme dello stesso. Da ciò deriva che il dibattito sulle riforme del processo penale deve riguardare soltanto scelte tecniche e non politiche. Nel momento in cui su tale tema si prospetti la possibilità di crisi politiche ciò starebbe a significare che il processo penale ha assunto una non condivisibile funzione politica. Che sarebbe conseguenza della trasformazione del ruolo del diritto penale negli ultimi trent’anni. Fino al 1990 il diritto penale ha riguardato, soprattutto, fasce socialmente deboli; ha riguardato, in particolare, condotte devianti espressione di una tipologia d’autore propria di settori socialmente ed economicamente svantaggiati. Dai primi anni 90 i settori che hanno acquisito maggiore rilevanza all’interno del diritto penale sono divenuti quelli del diritto penale della pubblica amministrazione e del diritto penale dell’economia, attinenti, rispettivamente, alla criminalità amministrativa e a quella economica. Cosicché il baricentro del diritto penale si è spostato sulle fasce sociali ed economiche dirigenti e sui settori amministrativi ed economici. Il processo penale, che è lo strumento di attuazione del diritto penale, andando a riguardare l’accertamento di stravolgimenti funzionali di attività amministrative e di quelle economiche attinenti a settori di vertice della società inevitabilmente è esposto al rischio di assumere una connotazione politica. L’impegno, oggi, deve essere quello di ricercare soluzioni tecniche che consentano al processo di svolgere efficacemente la sua funzione anche in relazione alla criminalità amministrativa ed a quella economica, eliminando, però, ogni rischio di una sua possibile caratterizzazione politica. In termini più incisivi può dirsi che la tutela dell’assetto costituzionale passa, anche, dal respingere ogni ipotesi di riforma del processo penale che possa consentire una sua illegittima utilizzazione come strumento per il conseguimento di finalità incompatibili con quelle di uno Stato di diritto e sociale. Enrico Costa (Fi). “Non ci sono mediazioni possibili, pronti al voto segreto sul mio ddl” di Valentina Errante Il Messaggero, 2 febbraio 2020 Per Enrico Costa, il parlamentare di Forza Italia che ha presentato una proposta di legge per cancellare la riforma della prescrizione voluta, ieri è stato un giorno importante: “Le relazioni dei presidenti delle Corti d’Appello e dei procuratori generali di tutti i distretti - commenta - dicono la stessa cosa: abolire la prescrizione non renderà migliore il sistema giustizia, anzi sarà un boomerang e ingolferà le Corti d’Appello”. E aggiunge: “Il messaggio è chiaro e non proviene dai partiti ma da chi ha a che fare con i fascicoli”. La questione ora è tutta politica: l’abolizione della prescrizione non piace neppure al Pd e a Italia Viva ma, per non alterare il fragile equilibrio della maggioranza, la proposta Costa è stata rispedita in commissione. Il deputato di Forza Italia suggerisce al Pd di approfittare del momento di debolezza dei Cinque Stelle dopo il risultato in Emilia. Ma se non avverrà è pronto a dare battaglia: “Siamo pronti a chiedere il voto segreto, così le contraddizioni interne alle forze di governo emergeranno con chiarezza”. La sua proposta è stata rispedita in commissione, cosa succederà adesso? “C’è un chiaro problema interno alla maggioranza e in particolare al Pd che, dall’opposizione, all’epoca del governo Lega-Cinque Stelle, aveva votato contro. Ora è in difficoltà. Io non sono un sabotatore dell’alleanza rosso-gialla, come qualcuno ha insinuato, la mia proposta è stata presentata il primo agosto. Il tentativo di evitare il confronto e boicottare è piuttosto del Movimento 5Stelle. L’ultimo gioco di prestigio me l’ha fatto la presidente della commissione (la grillina Francesca Businarolo ndr): ha nominato relatore della nostra proposta di legge Mario Perantoni, anche lui M5S, che si era schierato in aula a difesa della riforma Bonafede. Puoi nominare relatore uno che si è già espresso contro il provvedimento? È un chiaro sabotaggio. Attendo, ma se mi fanno lo sgambetto ci sono gli strumenti per arrivare al voto segreto e questo credo non convenga proprio ai pentastellati”. Ritiene che con il voto segreto la proposta sarebbe approvata? “Non possiamo saperlo, ma penso che tre quarti dell’aula darà un segnale forte a Bonafede. La maggioranza ha i numeri per bocciarla ma non vuole il voto e questo mi sembra un chiaro segnale. Il Pd da un lato non vuole incrinare l’alleanza con Bonafede, dall’altro sta con chi ritiene che questa riforma sia un obbrobrio. Ma non si può pensare di mettere toppe che risulterebbero peggiori del buco. Su tema non esistono mediazioni, come ha detto ieri il presidente della Camere penali Gian Domenico Caiazza”. Il prossimo passo quale sarà? “Intanto sarà votato in aula il decreto Mille Proroghe, ho presentato un emendamento, ma non sono il solo. Alcuni sono stati firmati anche da parlamentari della maggioranza, che chiedono la sospensione o la proroga dell’entrata in vigore, dello stop alla prescrizione. Quello dovrebbe essere un primo banco di prova”. Bonafede potrebbe trovarsi in difficoltà? “Se vogliono tenere la maggioranza è loro interesse non fare emergere con voto segreto le diverse sensibilità. Finora c’erano le elezioni, ma tutti i messaggi che arrivano sono in questa direzione. Per me è stata una grande soddisfazione avere trasferito sul piano del dibattito argomenti che erano tecnici. E sono orgoglioso che dall’opposizione siamo riusciti a dettare l’agenda. Non do consigli a nessuno, ma se finora c’era il problema delle elezioni, adesso il Pd è più forte. Salvini, dopo le europee, ha accelerato sulla Tav. Il partito democratico sa bene che questa riforma senza una riforma del processo penale è un modo per mettere la polvere sotto il tappeto e scaricare sui cittadini le disfunzioni della macchina della giustizia. Ma se la maggioranza non riuscirà a fare chiarezza e subirò altri sgambetti so già qual è la strada. Conosco bene il regolamento e si può arrivare al voto segreto”. Le ragioni vere della protesta e la partita politica di Massimo Adinolfi Il Mattino, 2 febbraio 2020 La riforma Bonafede, che sospende la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, è legge ormai da un mese, e le disposizioni che, contestualmente, avrebbero dovuto accompagnarla, per incidere sui tempi della giustizia, invece no. Converrà partire da qui per giudicare il percorso seguito dal ministro della Giustizia. Dico dal ministro, perché si tratta di un intervento di legge messo in campo dal governo giallo-verde, ma la cui entrata in vigore è avvenuta col governo giallo- rosso: il giallo Bonafede, però, è sempre stato lì, a via Arenula. In verità, quel che viene coni. testato al ministro è molto più che non i ritardi negli interventi legislativi che dovrebbero rendere più spedita la giustizia (e dei quali, peraltro, nulla si sa, quanto ai tempi e quanto al contenuto). Ieri, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale di Milano, unendosi alle critiche dell’avvocatura, del mondo accademico, di non pochi, autorevoli magistrati, ha detto, con parole appassionate, che la riforma è “irragionevole quanto agli scopi, incoerente rispetto al sistema, confliggente con valori costituzionali”. I maestri di retorica lo definiscono un climax ascendente: l’accusa più grave, in cui culmina la frase, è infatti l’ultima, quella secondo cui la riforma rischia di cozzare contro l’articolo 111 della Costituzione, che stabilisce il principio della ragionevole durata del processo. Ma c’è davvero lo spazio per una discussione sui principi? Temo di no, temo che alla cultura giuridica di questa maggioranza (o di suoi ampi settori, che in questa materia hanno finora sempre prevalso) sia sconosciuto non certo l’articolo della Costituzione, non arrivo a dir questo, ma la ragione per cui esso è stato introdotto, e che si può facilmente riassumere al modo in cui lo ha fatto ieri il procuratore Roberto Alfonso: “teniamo sempre bene a mente - ha detto - che il processo è garanzia, e tale deve rimanere”. Teniamo a mente, ha aggiunto, che per l’imputato, per il quale vale - sempre a norma di Costituzione - la presunzione di non colpevolezza, il processo è già una pena, “non nel senso della sanzione, ma nel senso dell’afflizione”, cioè del disagio e della sofferenza che gli vengono inflitti, trascinandolo nei gironi danteschi della giustizia, ben prima che le eventuali responsabilità siano accertate. Quando parla, il ministro Bonafede sembra invece (sembra soltanto, voglio augurarmi) non avere così ben stampato in mente che la giustizia è, in uno Stato di diritto, fatta essenzialmente di garanzie, visto che esterna sempre e solo la preoccupazione che i processi non vadano in fumo. E certo, nessuno Stato rende un buon servizio ai cittadini, se i processi non si concludono. Ma, ha continuato ancora l’alto magistrato, l’inefficienza dell’amministrazione non può ricadere sul cittadino: “la soluzione non può individuarsi nella sospensione del corso della prescrizione, a danno dell’imputato”. Ridiscendiamo il climax. La riforma è anche “incoerente rispetto al sistema”. Il che vuol dire: se tu, di punto in bianco, sospendi la prescrizione, crei uno squilibrio, per il quale non hai nel frattempo approntato alcun rimedio, che rischia di mandare in tilt la macchina della giustizia. Sempre ieri, il pg della Cassazione stimava, come effetto della riforma, “un incremento del carico di lavoro della Corte di circa 20.000-25.000 processi l’anno”. Infine, la riforma Bonafede è “irragionevole quanto agli scopi”, se lo scopo è, in generale, quello di rendere giustizia. Primo, perché proprio non è giustizia quella che arriva in un tempo indefinitamente lontano, a distanza pluridecennale dai fatti contestati, qualunque cosa pensi al riguardo il ministro. Secondo, perché, come ormai sanno anche le pietre, se tu ti preoccupi che non scatti la prescrizione a vanificare il lavoro dei magistrati, allora intervieni là dove la prescrizione incide di più, e cioè nelle fasi dell’indagine e dell’udienza preliminare. Invece no, la riforma Bonafede di queste fasi cruciali si disinteressa. Ora, gli avvocati presentatisi a Napoli, nel corso della cerimonia di inaugurazione, con le manette e la Costituzione sotto il braccio, hanno forse reso più teatrale i motivi della protesta, ma non hanno detto cose diverse. Il j’accuse del presidente Tafuri contro i processi senza fine ha risuonato infatti con altrettanta forza e pari fervore. Dopodiché, però, tutti gli argomenti di questo mondo rischiano di infrangersi contro il valore simbolico che il partito del ministro, i Cinque Stelle, ha assegnato al provvedimento. Dopo la batosta delle elezioni regionali, può darsi che siano costretti a più miti consigli, e che la mediazione Conte (i cui contorni restano in verità assai fumosi) avrà successo. Al tirar delle somme, al Pd non dispiace certo l’attuale debolezza grillina, ma da quelle parti temono anche di non poter insistere più di tanto: il rischio di un’esplosione del Movimento, di una sorta di muoia Sansone con tutti i filistei è dietro l’angolo. Per il dottor Davigo l’avvocato è un imbroglioncello, un favoreggiatore dell’imputato di Gian Domenico Caiazza Il Riformista , 2 febbraio 2020 La prima riflessione che viene da fare di fronte al precipitare delle polemiche sulla persona del dott. Piercamillo Davigo si traduce in una inconfutabile verità: chi sceglie di vivere da simbolo, deve accettare di esserlo in ogni occasione. Non puoi compiacerti di esserlo nelle tue ormai incalcolabili e sistematiche esposizioni mediatiche, e poi pretendere di proporti come uno dei tanti rappresentanti del Consiglio Superiore della Magistratura, libero di manifestare le proprie idee in una delle tante cerimonie di inaugurazione dell’Anno Giudiziario. Si spiega così, fuori da ipocrisie e protocolli istituzionali, la dura reazione dei penalisti milanesi, spintasi addirittura alla certamente irrituale richiesta rivolta al CSM di mandare alla cerimonia milanese chiunque altro fuorché l’ormai leggendario ex P.M. di Mani Pulite. L’Associazione Nazionale Magistrati reagisce con durezza, stigmatizzando le pulsioni censorie che animerebbero i penalisti meneghini nei riguardi di legittime manifestazioni del pensiero. Ma quella protesta è rivolta ad un simbolo, e per essere più precisi a chi ha scelto di esserlo con un certosino impegno durato anni. Simbolo di tutto ciò che i penalisti italiani da sempre avversano; simbolo di tutto ciò che in definitiva costituisce la ragione fondativa dell’Unione delle camere Penali Italiane. Pier Camillo Davigo ha scelto di diventare orgogliosamente e testardamente simbolo della più esplicita idea inquisitoria del processo penale, condita da una peculiare inclinazione alla divulgazione più schiettamente -e di recente anche volgarmente - populistica di quei principi, vecchi come il mondo e che ciclicamente si sono affermati, purtroppo, nella storia della civiltà umana. Si tratta di idee che rifiutano il principio stesso di presunzione di non colpevolezza, vissuto con insofferenza e sarcasmo come una bizzarria da suffragettes. Idee - per fare un altro esempio - che valutano come irritanti ostacoli alla Giustizia tutte quelle regole che negano il valore di prova piena, direttamente utilizzabile nel giudizio, agli elementi investigativi raccolti in solitudine dal Pubblico Ministero o dalla Polizia Giudiziaria. Vi è dietro questa ultima petizione, ripetutamente sostenuta dal dott. Davigo, la radicata convinzione autoritaria di una supremazia processuale ed etica della parte pubblica, che guarda con scandalo a chi metta in dubbio che una prova raccolta da ufficiali di Polizia in una stanza di una Caserma sia assistita da una presunzione di attendibilità e di verità proprio perché raccolta da un pubblico funzionario. Davigo è il simbolo di una idea del diritto penale che guarda ad ogni attenuazione di pena, ad ogni anche solo parziale giustificazione di una condotta illecita, come ad una sconfitta dello Stato. Il video, che impazza sui social, di una sua performance obiettivamente straordinaria dal punto di vista dei tempi comici, che prospetta la possibilità che un omicidio volontario possa essere punito con poco più di quattro anni di reclusione, ne è la più lampante manifestazione. In questo mondo davighiano, l’avvocato è - ormai esplicitamente - un imbroglioncello dalle cui insidie occorre che il processo si difenda; è un soggetto eticamente inaffidabile, che orienta le sue scelte pensando solo al proprio guadagno; e, nei casi più complessi, un favoreggiatore dell’imputato che consentirà al colpevole di farla franca. Ed allora, invece di invocare protocolli e bon ton dagli avvocati che protestano, la magistratura italiana farebbe bene a fare i conti con ciò di cui il dott. Davigo è simbolo indiscusso, per interrogarsi se questo tacere sull’ormai incontenibile sua esposizione mediatica sia pavidità culturale, cinico calcolo di convenienza per gli equilibri correntizi, o infine piena condivisione di quell’universo di principi. Il pg della Cassazione, Giovanni Salvi: “Magistrati siano sobri, basta giustizia spettacolo” di Giovanni Altoprati Il Riformista, 2 febbraio 2020 Le toghe non devono andare in televisione a illustrare le incriminazioni contenute nelle loro indagini. Il rischio è quello dell’effetto “sentenza anticipata”, una pratica molto in voga nell’ultimo periodo. L’intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario del neo procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, si è incentrato sul richiamo alla sobrietà comunicativa dei magistrati. Pur senza aver citato espressamente nessuno, tutti i presenti nell’aula magna della Cassazione hanno capito chi fosse il magistrato destinatario della “raccomandazione”. Un pm. “È ricorrente la polemica - ha precisato infatti Salvi - circa le dichiarazioni rese da magistrati del pubblico ministero. La moderazione nelle dichiarazioni, resa necessaria dalla precarietà dell’accertamento non ancora sottoposto alla piena verifica del contradditorio, è manifestazione della professionalità del capo dell’Ufficio”. “La comunicazione, nei toni misurati e consapevoli, deve essere tale da evitare anche solo il sospetto che non la fiducia della pubblica opinione sia ricercata, ma il suo consenso”, ha aggiunto il pg della Cassazione, secondo cui “questa sarebbe la fine dell’indipendenza del pubblico ministero”. “L’informazione non è resa nell’interesse del magistrato o della Procura; è un dovere di ufficio e il pm deve attenersi ai doveri di riservatezza e correttezza, come manifestazione e riflesso della imparzialità e della indipendenza. Ne consegue che toni enfatici, tali da generare nell’opinione pubblica la convinzione della definitività dell’accertamento, sono professionalmente inadeguati e lesivi dei diritti degli indagati”, ha quindi concluso il pg. Da parte di Salvi un richiamo alle garanzie e un ritorno allo Stato di diritto dopo anni di una narrazione che ha portato a considerare gli innocenti nei processi solo come dei colpevoli che l’hanno fatta franca. Ma oltre allo stop al processo mediatico, Salvi ha avvisato le toghe che sbagliano, per loro nessuno sconto. “Il danno che il mercimonio della funzione determina all’amministrazione della giustizia è incalcolabile: queste condotte devono trovare adeguata sanzione disciplinare”. Poi Salvi si è occupato di molti altri temi. Anche dell’immigrazione. ha criticato i decreti sicurezza e una politica dell’immigrazione che da anni non si applica alla necessità di aumentare le regolarizzazioni, creando in questo modo zone della società dove è facile l’ingresso per la malavita. Salvi ha anche detto che è una pessima idea quella di “affidare esclusivamente al diritto penale i valori della società”, ha detto che questa impostazione porta a rischi rilevanti. Così come sono rilevanti i rischi di pensare che sia una buona cosa il governo della paura, cioè l’uso della paura come strumento di governo. Il procuratore generale ha anche criticato la tendenza di alcuni magistrati a “proporsi come inquirente senza macchia e senza paura…” alimentando una cultura eroica della magistratura e quella di una sua presunta superiorità morale”. Anno Giudiziario: da Milano alla Sicilia le inaugurazioni di Silvio Buzzanza La Repubblica, 2 febbraio 2020 Protestano gli avvocati: contro Davigo e la prescrizione. A Milano si denuncia la presenza pervasiva della ‘ndrangheta. Come a Reggio Calabria. A Palermo si ricorda che la mafia è sempre forte. A Messina mancano i magistrati. A Catania contenti della lotta all’immigrazione clandestina. A Roma in aumento i casi di corruzione, i reati di natura sessuale e il traffico illecito di rifiuti. La legge sulla prescrizione “presenta rischi di incostituzionalità” e “viola l’art. 111 della Costituzione, dice il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Fuori gli avvocati penalisti manifestano con dei cartelli che riproducono gli articoli 24, 27 e 111 della Costituzione. Dentro grandi applausi per Piercamillo Davigo, che i penalisti non volevano alla manifestazione. Ma quando il presidente della II sezione penale della Cassazione prende la parola un solitario contestatore gli urla “vergogna” e interrompe il suo discorso. Alla presenza del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, della presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia e il vicepresidente del Csm David Ermini. Alfonso parla anche, fra le altre cose del “coinvolgimento di soggetti legati alla ‘ndrangheta” nelle recenti inchieste milanesi sui traffici illeciti di rifiuti. “Prova dell’estremo interesse che l’organizzazione criminale nutre per un’attività illecita che garantisce lauti guadagni, l’ampliamento della rete relazionale attraverso contatti con un’imprenditoria ingorda e spregiudicata, e un trattamento sanzionatorio ‘mite”. Dall’altro capo del Paese gli fa eco il procuratore di Reggio Calabria Luciano Gerardis, che si è sentito anche male ed è stato sostituito da un collega, dicendo che “la città è la capitale storica ed attuale dell’organizzazione criminale chiamata ‘ndrangheta”. Il magistrato mette allora in guardia rispetto alle “gravi conseguenze dell’inadeguatezza della dotazione di risorse per l’esercizio della giurisdizione”. Parla della lotta alla ‘ndrangheta che non si può fare per mancanza di mezzi, nonostante “per pervasività, capillarità, ramificazioni interne ed internazionali e potenzialità delinquenziale l’organizzazione è unanimemente ritenuta una delle più pericolose, se non la più pericolosa, del mondo”. Lontani i tempi in cui si diceva che la ‘ndrangheta al Nord non esisteva e il governatore leghista della Lombardia esigeva trasmissioni tv di riparazione dopo le denunce di Roberto Saviano. Ma quello che si sente oggi a Milano e Reggio Calabria sono solo due delle facce del pianeta giustizia. Un mondo variegato dove trovano posto molti problemi e molti spunti. Spesso contraddittori. A Catania per esempio, da dove è partita la richiesta di processare Matteo Salvini per le sue decisioni di non fare sbarcare i migranti che si trovavano sulla nave Gregoretti, il presidente della Corte d’Appello Giuseppe Meliadò fa sapere che “continua con grande efficienza e competenza l’attività di contrasto ai reati collegati al fenomeno dell’immigrazione clandestina, che, nonostante la contrazione dei flussi migratori, continua a incidere ancora sul distretto”. Tutto merito, forse, del procuratore capo Carmelo Zuccaro che ha indagato tutto e tutti. Nella vicina Messina il presidente della Corte d’Appello Michele Galluccio punta il dito contro gli infortuni sul lavoro che in un anno sono cresciuto dell’800 per cento. Insieme ai reati contro la Pubblica amministrazione quali peculato, malversazione, corruzione e concussione. Anche qui, come in molte sedi del Sud si fa notare la carenza di organici e si dice che “Il distretto di Messina è stato il più penalizzato d’Italia. Nei tribunali di Messina, Barcellona Pozzo di Gotto e Patti, mancano cinque magistrati”. Spostandosi a Palermo, il presidente della Corte di Appello Matteo Frasca bacchetta la politica: “Abbiamo assistito diverse volte all’annuncio di riforme epocali, creando l’aspettativa di soluzioni salvifiche e palingenetiche che però si sono rivelati progetti disancorati dalla realtà e destinati a rimanere soltanto pie intenzioni”, dice. E amaramente annuncia: “Cosa nostra continua ad esercitare il suo diffuso, penetrante e violento controllo sulle attività economiche e sociali del territorio”. A Roma, sono in aumento i casi di corruzione e i reati di natura sessuale. Su quelli ambientali emerge una gestione illecita dell’intero ciclo dei rifiuti. “A Roma è andato prescritto un reato su due”, ha detto il presidente Luciano Panzani nel corso del suo intervento, facendo riferimento al primo e al secondo grado. “È in aumento il numero di iscrizioni per corruzione (da 45 a 71 a noti e da 11 a 10 ignoti), così come è confermato il trend in aumento delle iscrizioni per corruzioni in atti giudiziari”, si legge nella relazione del procuratore generale facente funzioni della Corte d’appello di Roma, Federico De Siervo. “Sono in corso una serie di investigazioni che riguardano il mondo gestito da Ama (la municipalizzata dei rifiuti ndr) nel corso delle quali sta emergendo in modo abbastanza chiaro che tra cattiva gestione degli impianti di Tmb e omessi controlli di attività gestite tramite società appaltatrici, nonché cattiva gestione delle isole ecologiche, non c’è segmento di tale attività di gestione del ciclo rifiuti che non sia stata investigata e gestita in modo illecito”, continua la relazione. A Bologna, ecco un’altra contraddizione, si lamenta che proprio le norme varate da poco per tutelare le donne, il Codice Rosso, siano un po’ un ostacolo al corso della Giustizia. Roberto Aponte, presidente vicario della Corte d’Appello lo dice chiaramente: questa norma “desta qualche perplessità” e “rischia di determinare un forte aggravio di lavoro per la Polizia giudiziaria e per le Procure del distretto”. A Nord Ovest, a Torino, Edoardo Barelli Innocenti, presidente della Corte di Appello di Torino, critica invece i media. Prende spunto da due fatti di sangue avvenuti nella città della Mole e dice che le cronache di quanto accaduto hanno “messo in evidenza ancora una volta quello che a mio parere è uno dei problemi della società contemporanea italiana: il rapporto tra giustizia e informazione. Troppo spesso si dà credito a voci di corridoio, vere o presunte che siano, e si grida allo scandalo prima ancora di sapere come sono avvenuti realmente i fatti, il cui concreto svolgimento deve essere approfondito nelle sedi competenti”. A Firenze invece il problema che viene segnalato è quello delle morti per overdose. Ma soprattutto, anche qui, l’infiltrazione delle mafie nel tessuto economico: “Le numerose indagini hanno disvelato l’esistenza di meccanismi di infiltrazione delle diverse mafie nei circuiti dell’economia legale e nel tessuto dell’economia locale, con molteplici e diversificati investimenti, dall’accaparramento di lavori pubblici e privati, al settore immobiliari, dice il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze, Marcello Viola. A Foggia, epicentro negli ultimi mesi di una impennata di estorsioni e omicidi, si dice che “lo Stato e la criminalità si fronteggiano in una partita decisiva per il controllo del territorio e della società civile”. Ma il procuratore generale di Bari Franco Cassano spiega che tutto questo è avvenuto “da quando lo Stato è intervenuto in modo severo, con arresti e operazioni che hanno ristretto l’area di manovra delinquenziale, e dunque le necessità economiche delle batterie sono cresciute, per l’aumento dei sodali detenuti e delle famiglie da sostenere”. Il presidente della Corte d’appello di Roma: “Un processo su due in prescrizione” La Repubblica, 2 febbraio 2020 Panzani: “Porre rimedio all’arretrato con amnistia mirata per i reati minori”. Il pg De Siervo: Roma “snodo importante” per affari delle organizzazioni criminali. Aumentano procedimenti per corruzione. Femminicidi e violenze sessuali in crescita. È allarme prescrizione nei processi di appello a Roma. Il 48% dei dibattimenti (pari a 7743) si chiude in questo modo. “Questo è il risultato del collo di bottiglia a cui si è ridotto l’appello”, ha denunciato il presidente della corte d’appello Luciano Panzani nella relazione per l’anno giudiziario. Nel distretto del Lazio nel 2019 “i giudizi prescritti erano 19.500 su un totale di 125.000, pari al 15%. Di questi 48% in appello (7.743) e 10% al gip-gup (7.300), 12% al monocratico (4.300), 5% al collegiale (118). La prescrizione colpisce maggiormente nei processi per cui c’è condanna in primo grado e quindi quasi uno su due a Roma”. In appello “l’elevato numero delle prescrizioni è stato determinato dal notevole ritardo nell’arrivo del fascicolo in corte dopo la proposizione dell’atto di appello, cui si è aggiunto il tempo necessario per l’instaurazione del rapporto processuale, spesso condizionato da vizi di notifica”, ha spiegato Panzani. Anche se “la prescrizione non è l’unica causa della lentezza della giustizia penale e neppure la più importante” il problema ad esso connessa può essere risolto. “Se i processi prescritti sono il 10% dei definiti sul totale ed incidono soprattutto in appello, si tratta di potenziare adeguatamente le corti di appello e di porre rimedio all’arretrato che si è accumulato, per i reati minori, con un’amnistia mirata”, ha affermato Panzani. “Sospendere la prescrizione non serve a nulla - ha detto -. Significa soltanto accumulare i processi senza che ci siano le risorse per farli”. “L’impegno del Ministero per assumere personale (gli uffici hanno scoperti di personale amministrativo del 20-30%) non possono essere sufficienti e tempestivi. I vuoti di organico dei magistrati richiedono al ritmo attuale cinque anni di concorsi per essere colmati. Sospendere i processi senza farli significa ledere in modo irreparabile diritti fondamentali ad un processo equo e tempestivo, evitando che la pena venga irrogata e scontata dopo che è passato troppo tempo dal fatto e quando ormai ha perso gran parte del suo significato”, ha aggiunto il presidente Panzani. “Sono in corso una serie di indagini che riguardano il mondo gestito da Ama dalle quali sta emergendo in modo abbastanza chiaro che tra cattiva gestione degli impianti di Tmb e omessi controlli di attività gestite tramite società appaltatrici, nonché cattiva gestione delle isole ecologiche, non c’è segmento di tale attività di gestione del ciclo rifiuti che non sia stata investigata e gestita in modo illecito”, ha affermato il procuratore generale facente funzione della Corte d’appello di Roma, Federico De Siervo durante la cerimonia. “A seguito di numerosi esposti denunce di cittadini e di associazioni - ha ricordato De Siervo - si è accertato che in molte zone di Roma, per carenza di personale e di mezzi adeguati, non si è provveduto ad una regolare raccolta di rifiuti urbani dai cassonetti. È stato in questo caso contestato il reato di stoccaggio illecito di rifiuti. Inoltre è emerso che anche i servizi gestiti da Ama per il tramite di società esterne vincitrici di appalti, come la raccolta di rifiuti di utenze non domestiche, non hanno dato risultati soddisfacenti in quanto la carenza si sorveglianza e controllo da parte della partecipata del Comune ha consentito da un lato il mancato rispetto del contratto per cui i rifiuti di tali utenze venivano prelevati senza la dovuta regolarità, dall’altro si rendeva necessario l’intervento di Ama ad integrazione ovvero nei casi di siti particolarmente delicati (come d esempio per le cliniche sanitarie)”. “Particolare attenzione - ha concluso il pg - è stata dedicata alle isole ecologiche gestite da Ama: è infatti emerso che a fronte di conferimenti di rifiuti da parte di soggetti non autorizzati, vengono tollerate asportazioni di rifiuti pregiati in quanto fonti di guadagno, rifiuti successivamente conferiti illecitamente in cambio di danaro presso centri che potrebbero ricevere solo da soggetti autorizzati; spesso il passaggio di tali rifiuti viene mascherato dietro la forma, in realtà falsa, di acquisti di End of Waste (cioè rifiuti diventati a seguito di trattamenti “materie prime”), alterando in tal modo l’equilibrio che dovrebbe esistere tra costi di smaltimento e ricavi dallo smaltimento di un determinato tipo di rifiuto”. È stato accertato “un giro di affari notevolissimo” (pari a circa 17 milioni di euro) e chi indaga procede per traffico illecito di rifiuti. Roma continua a essere “uno snodo importante” per tutti gli affari leciti ed illeciti delle organizzazioni criminali tradizionali (soprattutto ‘ndrangheta e camorra) che da lungo tempo acquisiscono, anche a prezzi fuori mercato, immobili, società ed esercizi commerciali nei quali impiegano ingenti risorse economiche provenienti da delitti”, ha affermato il procuratore generale facente funzioni della corte d’appello di Roma Federico De Siervo. Le cosche, realtà “plurime e diversificate, senza che ci sia un solo soggetto in posizione di forza e preminenza su altri”, scelgono appositamente di investire “a Roma e nel basso Lazio, in quanto la vastità del territorio e la presenza di numerosissimi esercizi commerciali, attività imprenditoriali, società finanziarie e di intermediazione, immobili di pregio consentono di mimetizzare gli investimenti”. L’occupazione del territorio avviene senza l’adozione di “comportamenti manifestamente violenti”, ha evidenziato De Siervo. Aumentano procedimenti per corruzione - Aumentano a Roma le iscrizioni dei procedimenti per corruzione (da 45 a 71 a noti e da 11 a 10 ignoti), ed è in crescita il trend delle iscrizioni per corruzione in atti giudiziari che è pari al doppio dell’anno precedente (passano a noti da 13 a 25 e a ignoti da 1 a 4), si legge nella relazione di De Siervo. Aumenta anche il numero di iscrizioni per concussione (da 12 a 18 a noti e da 15 a 16 a ignoti). Femminicidi e violenze sessuali in crescita - Aumentano di una unità i casi di femminicidio (da 3 a 4), cresce il numero delle violenze sessuali (876 procedimenti nel 2019 rispetto ai 789 dell’anno prima, pari a un +11%) e quello delle violenze sessuali di gruppo (da 19 a 24). E se si aggiungono i fascicoli relativi alla pedopornografia, che sono stati complessivamente 262, i procedimenti per violenza sessuale, sono stati 1138 (nel 2018 erano 989) con un incremento del 15%, dicono i dati contenuti nella relazione di De Siervo. Nello stesso tempo si registra un incremento notevole degli arresti in flagranza per le violenze sessuali, che da 49 sono saliti a 74, con un aumento pari al +51% e sono aumentati i procedimenti iscritti per adescamento di minori (+12,8% da 117 a 132) e prevalentemente commessi attraverso la rete internet, per i maltrattamenti in famiglia (1788 quando nell’anno precedente erano stati 1596, dunque + 12%). A riprova della “diffusione e gravità dei fenomeni criminali in esame, ma anche espressione dell’intensa e qualificata attività mirata al loro contrasto apprestata dai pm capitolini e dalle forze dell’ordine” - ha osservato De Siervo - vale il numero di richieste di applicazione di misure cautelari per i delitti di competenza del gruppo specializzato. Sono state richieste 790 misure cautelari personali (e 3 interdittive) con un incremento pari a un +18,4 % (667 l’anno prima), così suddivise: 332 custodie in carcere e arresti domiciliari ( nel 2018 erano state 300), pari ad un aumento del + 10.6 %; 414 non custodiali (divieti di avvicinamento e allontanamento dall’abitazione familiare); e 15 misure di sicurezza (nel 2108 erano 10). Gli arresti in flagranza di reato ed i fermi di polizia giudiziari riferiti al 2019 riguardano 3 casi di femminicidio, 12 di tentato femminicidio, 88 di maltrattamenti, 73 di violenza sessuale (di cui 10 di violenza di gruppo), 74 di lesioni volontarie aggravate e 33 di atti persecutori. I casi di femminicidio nel periodo di riferimento sono stati 4 (nell’anno precedente erano stati 3) e 13 i tentativi di femminicidio (nel 2018 erano stati 10). Ancora elevato - ha evidenziato il pg De Siervo - il numero dei minorenni ascoltati con modalità protette in ragione della loro condizione di vulnerabilità. Nell’anno giudiziario 2019 i minorenni ascoltati con modalità protette sono stati 226 (nel 2018 erano stati 207) con un incremento del +9,2%. Si conferma la circostanza significativa della diffusione della violenza di genere dal dato significativo delle vittime poiché prevalgono sempre le bambine che sono state ben 149 (nel 2018 erano state 138) a fronte di 77 bambini. Il Pg di Bologna: “Non esiste un sistema Bibbiano, è un’idea della stampa e della politica” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 2 febbraio 2020 Inaugurazione dell’Anno Giudiziario. Allarme su reati minorili, sorveglianza e codice rosso. Gli avvocati: senza prescrizione, processi eterni. “Si tratta di casi circoscritti territorialmente. L’idea che esista un generalizzato sistema Bibbiano nasce con la complicità di un’informazione giornalistica non sempre misurata e a volte pressappochista. La polemica politica poi ci ha messo il suo, ma su questo è meglio tacere”. Il procuratore generale della Corte d’Appello di Bologna, Ignazio De Francisci, non usa mezzi termini, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario. Il sistema Bibbiano non esiste, sostiene il magistrato. Esistono dei reati di cui si sta occupando la procura di Reggio Emilia, ma si tratta di episodi che non possono mettere in discussione il lavoro della magistratura minorile. Nella sua relazione De Francisci ha spiegato che a seguito dell’inchiesta “Angeli e Demoni” è stato svolto “un doveroso controllo sugli otto casi. Due di questi sono stati definiti con decreto del tribunale, non impugnato dai genitori, in cinque casi si sono avuti collocamento extra familiari”. Per il procuratore generale “la procura minorile ha svolto un’attenta valutazione” e “l’attività giudiziaria non ha subito compromissione di rilievo”. In atri termini, se errori e forzature nell’affido dei minori ci sono state queste vanno eventualmente ricercate tra le singole responsabilità di alcuni operatori dei servizi sociali della Val d’Enza. Lapidario il commento sul ruolo della politica che ha cavalcato l’inchiesta: “È meglio tacere”. “È sicuramente necessario rafforzare i servizi di sostegno alla genitorialità e investire nella formazione e supervisione di chi opera nel campo della fragilità famigliari, evitando decisioni troppo solitarie o basate su stereotipi del buon genitore. Ma è anche necessario non adagiarsi nell’idea che la famiglia naturale sia sempre e comunque il luogo più sicuro dove crescere. Non sempre, purtroppo, è così”. Lo ha detto il presidente vicario della Corte d’Appello di Bologna, Roberto Aponte, nella sua relazione. Per Aponte, al di là dei possibili esiti dell’indagine penale di Bibbiano, è fondamentale salvaguardare “l’Istituzione Tribunale per i minorenni”, che rimane essenziale strumento di tutela per i minori. “Questa, del resto, è la finalità sempre in concreto perseguita dal Tribunale per i minorenni - ha sottolineato il magistrato - il cui presidente, Giuseppe Spadaro, può legittimamente rivendicare, insieme a tutti i giudici, il merito dei risultati di un’attività che colloca l’ufficio in questione tra i primi della nazione per carichi di produttività”. “Gli anni scorsi abbiamo commentato con preoccupazione i segnali provenienti dalla Giustizia minorile e anche quest’anno i motivi di consolazione sono pressoché assenti” ha detto ancora in un passaggio della relazione. “La devianza minorile continua dunque a crescere di intensità. Essa si manifesta in particolar modo nei reati contro la persona - ha spiegato il magistrato - essendosi consumati nell’anno scorso due omicidi, di cui uno con arma da fuoco, nonché nei reati di natura sessuale aumentati del 29%”. Viene così confermata la tendenza in atto da alcuni anni nel distretto “caratterizzata dal modesto decremento del numero di notizie di reato e dall’aumento non solo dei delitti di maggiore gravità, ma anche dal numero complessivo degli autori di reato e del numero dei minori di 14 anni autori di azioni delittuose”. In ambito civile le segnalazioni dalle quali emergono situazioni di pregiudizio di minori sono state quasi 5mila, ma solo per metà di queste la procura ha chiesto al Tribunale limitazioni di responsabilità genitoriale. La legge n. 69 del 19 luglio 2019, ‘Codice Rosso’, “rischia di determinare un forte aggravio di lavoro per la polizia giudiziaria e per le Procure del distretto” ha sostenuto ancora nella sua relazione il presidente vicario della Corte d’Appello di Bologna, Aponte,. La legge “desta qualche perplessità circa gli effetti sulla sospensione condizionale, di una partecipazione infruttuosa ai previsti percorsi di recupero presso enti o associazioni, che si occupano di assistenza psicologica ai soggetti condannati per i medesimi reati e sulle concrete caratteristiche di centri e del reperimento da parte del condannato delle necessarie risorse finanziarie, con il conseguente rischio di creare differenziazione in base al censo”. Altro punto è l’”avviso della scarcerazione del condannato alle persone offese, non previsto per alcune tipologie di provvedimenti, ad esempio licenze e permessi premio, che comunque autorizzano l’uscita dal carcere e possono essere anche più pericolosi per la loro prossimità agli eventi”. “Per la magistratura di sorveglianza, a diretto contatto con l’universo carcerario, l’ulteriore drammatico e improcrastinabile problema resta quello dei mezzi, delle risorse e delle strutture a fronte di un numero di soggetti carcerati sempre elevatissimo rispetto alla possibilità di capienza degli istituti penitenziari” ha aggiunto Roberto Aponte. Queste “carenze”, secondo il magistrato, “rischiano di pregiudicare anche la pronta adozione di basilari provvedimenti in materia di libertà, cosicché essenziale è sia la copertura delle vacanze, sia un ulteriore aumento d’organico previsto”. In particolare, nel periodo che va dal 1 luglio 2018 al 30 giugno 2019, dei 66.226 procedimenti iscritti al Tribunale e agli uffici di sorveglianza ne sono stati definiti 39.226. “Dunque si tratta di un carico di lavoro che rischia di paralizzare completamente gli uffici”, ha concluso Aponte. Nonostante poi nell’ultimo periodo si è verificato un significativo incremento delle misure alternative al carcere sul territorio emiliano, “la situazione degli istituti penitenziari è ancor più problematica rispetto allo scorso anno, perché da tempo è in atto la ripresa del fenomeno del sovraffollamento”. Al 30 giugno 2018, a fronte di una capienza regolamentare di 2.824 posti, i detenuti nelle carceri della regione erano 3.560. Nel corso dell’anno giudiziario in esame, invece, le presenze sono pari a 3.695 detenuti, a fronte di una capienza di 2.795 posti. Al 31 dicembre 2019, infine, le presenze erano pari a 3.834. L’istituto penitenziario con più detenuti è Bologna (855), seguito da Parma (639) e Modena (512). “La durata ragionevole del processo imposta dall’art. 111 della Costituzione, contrariamente a quanto si vuol fare intendere al cittadino, non sarà garantita dall’abrogazione della prescrizione”. L’ha detto la presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati di Bologna, Elisabetta d’Errico, intervenuta questa mattina. “Al contrario, l’abrogazione della prescrizione regalerà al nostro Paese, ai suoi cittadini, che siano indagati, imputati o persona offesa, la durata eterna del processo, grazie a una legge ispirata dall’idea punitiva, secondo la quale il proscioglimento dell’imputato rappresenta la sconfitta dello Stato, perché prevale l’idea becera che essere imputato equivale a essere colpevole, perché coloro che vengono assolti sono catalogati quali “furbetti che l’hanno fatta franca”. Parole che offendono la giurisdizione, la delicata e irrinunciabile funzione del giudicare e l’idea stessa del processo penale accusatorio”. “L’anno giudiziario che ci prepariamo ad affrontare, nonostante le forti e fondate critiche ha inizio con l’entrata in vigore della riforma sostanzialmente abrogativa della prescrizione dopo la pronuncia della sentenza di primo grado”, ha aggiunto d’Errico. “Il ministro, supportato nella sua scelta dalla maggioranza parlamentare, ha ritenuto di dover proseguire il cammino intrapreso, ignorando il qualificato dissenso che fonda le proprie ragioni nei principi sanciti dalla Costituzione repubblicana, primo fra tutti quello espresso nell’art. 27, il quale non prevede solo la presunzione di innocenza ma anche il fine rieducativo della pena”. Il Pg di Milano: “La riforma della prescrizione è incostituzionale” di Luca De Vito La Repubblica, 2 febbraio 2020 E 120 penalisti escono dall’aula per protesta contro Davigo. Inaugurazione dell’anno giudiziario, presente anche il ministro Bonafede: “Rispetto divergenze, non sono manettaro”. I penalisti espongono cartelli e protestano contro la presenza del consigliere del Csm Piercamillo Davigo. La sospensione del corso della prescrizione “non servirà sicuramente ad accelerare i tempi del processo, semmai li ritarderà ‘senza limiti e presenta rischi di incostituzionalità”. È uno dei passaggi della relazione del procuratore generale di Milano Roberto Alfonso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “La norma introdotta consente al processo di giungere all’accertamento del fatto e all’eventuale condanna dell’imputato, è ciò anche a tutela della persona offesa, ma non si può sottacere che essa viola l’articolo 111 della Costituzione, con il quale confligge, quanto agli effetti, incidendo sulla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo”. E per protesta contro la presenza del consigliere del Csm Piercamillo Davigo 120 avvocati della Camera penale di Milano hanno lasciato l’aula nel momento in cui ha preso la parola, mostrando cartelli con tre articoli della Costituzione: 24 (diritto do difesa), 27 (presunzione di innocenza) e 111 (giusto processo), a loro avviso violati dalla riforma sulla prescrizione. “Io rispetto le divergenze dei penalisti, sono fisiologiche”, ha risposto nel suo intervento il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, aggiungendo di essere “pronto al confronto con tutti gli attori: condivido che dobbiamo intervenire sui tempi del processo, non ho mai detto che per me la prescrizione è un modo per ridurre questi tempi, non sono manettaro”. All’inaugurazione - a cui sono presenti oltre al ministro anche Piercamillo Davigo, magistrato e membro togato del Csm, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, il sindaco di Milano Beppe Sala e la presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia - si annuncia come un’occasione di protesta contro la riforma della prescrizione anche per gli avvocati: una quarantina di iscritti alla Camera penale di Milano hanno sfilato mostrando cartelli poco prima dell’inizio delle celebrazioni per l’anno giudiziario. “Abbiamo indicato tre articoli della Costituzione: il 24 che è per il diritto di difesa, il 27 che è la presunzione di non colpevolezza è il 111 che è il giusto processo. Accoglieremo Davigo con questi cartelli”, ha detto l’avvocato Giovanni Briola del direttivo della Camera penale. Nei giorni scorsi, infatti, i penalisti milanesi avevano chiesto di revocare la designazione del consigliere Piercamillo Davigo a rappresentare il Csm all’inaugurazione dell’anno giudiziario: richiesta giudicata “irricevibile” dal comitato di presidenza del Csm. “Accanto alle aggressioni fisiche, quelle verbali possono essere ugualmente dannose. Con la narrazione degli avvocati unici responsabili delle lungaggini processuali, i cui testimonial, re incontrastati del talk show serali, rivestono importanti ruoli, purtroppo anche nella magistratura, impegnandone l’autorevolezza, in un quasi generalizzato silenzio”. Così nel suo intervento per l’anno giudiziario il presidente dell’ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo, torna sulla polemica con Davigo. Quando la presidente della Corte d’Appello di Milano Marina Tavassi nel ringraziare i principali ospiti presenti all’inaugurazione ha nominato Davigo dicendo che “siamo lieti di accogliere e che per tanti anni abbiamo avuto protagonista nella sede giudiziaria di Milano”, nell’aula si è levato uno scroscio di applausi. Ma poi, quando ha preso la parola Davigo, gli avvocati della Camera Penale di Milano hanno lasciato l’aula. Alle urla “vergogna” di uno dei presenti Davigo è stato costretto a interrompere il suo intervento. La protesta contro il presidente della II Sezione penale presso la Corte suprema di Cassazione è però stata subito bloccata dalla presidente della Corte di Appello, Marina Anna Tavassi: “Silenzio, altrimenti uscite dall’aula”. La protesta degli avvocati contro Piercamillo Davigo è una iniziativa “gravemente impropria che vorrebbe negare la presenza stessa e la voce a un interlocutore, persino nella sua veste istituzionale”, una forma di “ostracismo preventivo”. Lo ha affermato il presidente dell’Anm Luca Poniz nel suo intervento. Davigo era assente quando poi c’è stato l’intervento di Andrea Soliani, presidente della Camera penale di Milano. “A nostro modesto avviso la norma presenta rischi di incostituzionalità - aggiunge il procuratore generale nella sua relazione alla presenza del ministro della giustizia Alfonso Bonafede - essa invero appare irragionevole quanto agli scopi, incoerente rispetto al sistema, confliggente con valori costituzionali”. A Milano la prescrizione nella fase delle indagini preliminari “incide per il 3,79 per cento”. E a Milano, lamenta Alfonso, ci sono “spaventosi vuoti di organico e la mancanza di risorse che contribuiscono a determinare tempi lunghi del processo”. E ancora, nel discorso del procuratore generale si legge che per l’imputato “già solo affrontare il processo penale costituisce una pena”, anche per il “disdoro che purtroppo nella nostra società massmediatica esso provoca”. E, dunque “l’inefficienza dell’amministrazione” non può “ricadere sul cittadino, benché imputato”. Da “oltre un decennio”, prosegue Alfonso, “denunciamo gli spaventosi vuoti di organico e la mancanza di risorse che contribuiscono a determinare i tempi del lungo processo, ma certamente la soluzione ai ritardi, alla mancanza di risorse, al difetto di organizzazione, alla inefficienza dei servizi, dunque al mancato rispetto dell’articolo 111 Costituzione da parte dei Governanti, non può individuarsi nella sospensione del corso della prescrizione, a danno dell’imputato”. Per questo “il legislatore con urgenza e con sapienza” deve adottare “una soluzione che contemperi le due esigenze: la tutela della persona offesa e la garanzia per l’imputato di un processo di ragionevole durata”. In merito ai fondi stanziato per la sicurezza del Palazzo di Giustizia di Milano, dopo l’incidente capitato ad un giovane avvocato un anno fa, il ministro Alfonso Bonafede ha detto che sono stanziati “immediatamente” dei fondi per la sicurezza. Il presidente della Corte d’Appello, Marina Tavassi, ha invece affermato che “solo di recente è stato deliberato il finanziamento”. “Non è sufficiente destinare risorse, se tali risorse rimangono imbrigliate nelle reti della burocrazia - sono state le parole del ministro. È l’esperienza drammatica avvenuta proprio negli uffici milanesi, nei quali lo scorso anno è accaduto un fatto di una gravità inaudita”. “Oltre a portare la mia personale vicinanza all’avvocato Antonio Montinaro, il ministero ha tempestivamente svolto tutte le attività di sua competenza - assicura Bonafede - stanziando tra l’altro immediatamente la somma di 650mila euro, poi elevata a 900 mila euro per i lavori necessari. Eppure a causa delle lunghe procedure l’intervento non è stato compiuto e il problema non attiene soltanto alla sicurezza, ma alla percezione della trascuratezza che può notare chiunque passi in quel punto delle scale. Le procedure sono lunghe, ma oltre allo stanziamento dei fondi vi assicuro che è costante ed elevatissima su questo Palazzo e sulla vostra sicurezza”. “A distanza di un anno dal drammatico evento del 18 gennaio 2019 - ha sostenuto Tavassi nel suo intervento - in cui un giovane avvocato ha subito gravissime lesioni di carattere permanente, i lavori di messa in sicurezza delle balaustre e dei parapetti del Palazzo non sono ancora stati avviati. Solo di recente ne è stato deliberato il finanziamento, cosicché si confida che - dopo i tempi necessari per l’aggiudicazione dell’appalto - i lavori potranno finalmente avere inizio”. Presidente corte Appello Firenze: “Sospensione della prescrizione dilata tempi del processo” di Andrea Bulleri La Repubblica, 2 febbraio 2020 È un passaggio della relazione con cui Margherita Cassano ha aperto l’anno giudiziario. Numerosi i decessi per overdose. In aumento i delitti di stalking e i maltrattamenti contro familiari e conviventi. “Non si possono tacere le drammatiche conseguenze sociali provocate dalla pendenza per lunghissimi anni di un processo penale, che rende l’uomo unicamente un imputato, in palese contrasto con la presunzione costituzionale di non colpevolezza”. Con queste parole la presidente della corte di Appello di Firenze, Margherita Cassano, boccia la riforma della prescrizione in vigore dal primo gennaio 2020. Parole contenute in un passaggio della relazione con cui il magistrato ha aperto questa mattina, sabato 1 febbraio, l’anno giudiziario nel palazzo di giustizia del capoluogo toscano. “L’inevitabile dilatazione dei tempi del processo conseguenti alla sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado - ha affermato Cassano - mal si concilia con un giusto processo incentrato sul metodo dialettico nella formazione della prova”. Spiegando poi che “contrariamente a un’opinione diffusa, la percentuale più alta delle prescrizioni matura nella fase delle indagini preliminari”. E questo non per uno “scarso impegno dei magistrati”, ma a causa delle carenze di organico negli uffici requirenti e per via della “mancata riforma del codice penale, a novant’anni dalla sua entrata in vigore”. Ma nel suo intervento la presidente della corte di Appello ha criticato anche uno “spirito del popolo” che sempre più spesso “reclama il processo come anticipazione della pena, la risposta all’allarme sociale, spesso pericolosamente enfatizzato, a costo di andare oltre la legge”. “Sono consapevole - ha detto Cassano - che le aspettative che il cittadino medio nutre oggi parlano una lingua molto diversa da quella del giusto processo”. “Ritengo - ha proseguito - che a queste pressioni la magistratura debba rispondere con la forza della ragione, della serenità, della pacatezza e con la fedeltà ai valori costituzionali”. Allarme morti per overdose. Nel suo intervento il procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, ha sottolineato la preoccupazione per “i numerosi decessi per overdose, ancora tanti, verificatisi negli ultimi mesi: sono state ben 11 le morti per overdose nel 2018 e altre 9 nel 2019”. “In molti casi - ha precisato - la causa è da attribuire all’assunzione di eroina, droga che, dopo anni di sostanziale assenza dal mercato, è tornata purtroppo ad essere largamente diffusa, anche tra i giovanissimi, spesso con principio attivo assai elevato”. “La vigente disciplina normativa in materia di stupefacenti - ha affermato ancora il procuratore generale - ha sicuramente affievolito il regime punitivo e non assicura nemmeno adeguata capacità repressiva, né idonea attitudine preventiva”. Il pg Viola ha poi sottolineato come nell’ultimo anno si sia registrato un aumento “dei reati connessi allo spaccio e al consumo di sostanze stupefacenti”, con un incremento dell’11% delle persone finite sotto indagine per questo tipo di reati. “Dalla articolata relazione del procuratore per i minorenni - ha aggiunto ancora Viola - emerge la significativa e preoccupante crescita dei reati posti in essere da soggetti di età minore, anche in tema di stupefacenti, laddove lo spaccio avviene per lo più a scuola e serve ai giovani per finanziare l’acquisto di droghe da utilizzare per uso personale” Molti i temi toccati nella relazione: dalle carenze amministrative di alcuni tribunali toscani, primo tra tutti quello di Prato, all’aumento dei reati di violenza contro le donne e a danno di minori nel 2019 rispetto all’anno precedente. Fino al sovraffollamento carcerario. Viola ha posto l’accento anche sulla crescita dei casi di stalking e maltrattamenti. Calano invece i femminicidi, “ben dieci consumati e cinque tentati, rispetto ai 20 del precedente periodo, con una riduzione che non intacca la sostanza di un fenomeno di intollerabile drammaticità, spesso connotato da modalità brutali ed efferate, in un contesto di aumento delle violenze intrafamiliari”. Viola si è poi soffermato sul fenomeno delle infiltrazioni mafiose nella regione. I clan, ha sottolineato, riescono a infilarsi “nei circuiti dell’economia legale e nel tessuto dell’economia locale, con molteplici e diversificati investimenti, dall’accaparramento di lavori pubblici e privati, al settore immobiliare, a quello del turismo, all’acquisizione o alla gestione di pubblici esercizi, specie di ristorazione o intrattenimento”, “spesso con la complicità di imprenditori che trovano conveniente intrecciare rapporti con loro”. Procuratore generale di Venezia Antonio Mura: “Mafia, ambiente e furti, è boom di fascicoli” di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 2 febbraio 2020 Anno giudiziario, Zaia all’attacco: “Scandalosa mancanza di personale”. Calano gli omicidi e soprattutto i tentati omicidi ma non i femminicidi. Crescono di molto i fascicoli per mafia, furti e reati ambientali. E resta il problema dell’organico con costi fino a 2 milioni di euro per le cause lente. Una cifra record di oltre 2 milioni di euro pagati dallo Stato per la lentezza dei processi in Veneto. Ecco uno degli “effetti collaterali” della crisi della giustizia della nostra regione, che emerge dalla relazione della presidente della Corte d’appello Ines Marini. Nel 2018 si era arrivati vicini a quella soglia, che lo scorso anno è stata superata, anche se non c’è ancora il dato ufficiale. Ma a impressionare è la crescita esponenziale delle cause iscritte: erano 223 nel 2015/2016 (l’anno giudiziario va dall’1 luglio al 30 giugno), 422 l’anno dopo, poi 389, ma ora sono salite a 567. Ieri, nel corso della cerimonia a Palazzo Grimani, l’appello al governo per avere maggiori risorse, soprattutto umane, è arrivato da tutta la giustizia veneta, che non si accontenta dei 23 magistrati (o, meglio, posti) in più della recente proposta ministeriale. Oltre a Marini, anche il procuratore generale Antonio Mura, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Venezia Giuseppe Sacco (“la distribuzione “a pioggia” è una mancanza di sensibilità verso il Veneto”) e quello della Camera penale Renzo Fogliata (“sembra quasi una punizione per chi ha votato l’autonomia”), il segretario della giunta veneta dell’Anm Vincenzo Sgubbi (“anche con dieci magistrati in più la Corte d’appello di Venezia avrebbe il doppio del carico di tutte le altre Corti del nord”). “Ho visto una bella squadra di magistrati e tanta voglia di fare ha chiosato il governatore Luca Zaia - ma c’è una scandalosa mancanza di personale”. Da Roma però non sono arrivate molte risposte. Il membro del Csm Alessio Lanzi si è concentrato sugli scandali della magistratura dell’ultimo anno, la dirigente del ministero della Giustizia Gemma Tuccillo ha promesso una “particolare attenzione” sull’edilizia giudiziaria di Venezia, ma ha snocciolato una serie di cifre nazionali, dagli investimenti (9 miliardi) al personale (9 mila immissioni nel triennio) e all’informatizzazione, per dire che il governo sta facendo il possibile. Ma proprio sull’informatica, Marini e Mura hanno ricordato che il centro di assistenza è a Brescia (“troppo lontano”) e conta 22 tecnici per un’area, quella del Nordest, con 5377 tra magistrati e cancellieri. Mura ha fatto il quadro del lavoro delle procure venete. E ha spiegato che prendendo i processi con citazione diretta o per direttissima, le assoluzioni con formula piena sono il 16 per cento. “Limite fisiologico - ha detto - l’azione penale viene esercitata con ponderazione”. Venendo ai reati, calano gli omicidi (da 51 a 44), soprattutto quelli tentati (da 186 a 66), anche se restano stabili i 35 complessivi con le donne come vittime. Stabili o in diminuzione i reati di terrorismo, la corruzione, le rapine e i casi di stalking, mentre crescono i furti in abitazione e gli scippi (da 6451 a 6750), gli omicidi colposi sul lavoro (da 30 a 53), i reati informatici (sia le frodi che gli accessi abusivi), quelli ambientali. I numeri sono fortunatamente bassi, ma l’anno scorso sono stati iscritti 16 fascicoli per mafia rispetto ai 5 di 12 mesi prima. Ci sono stati inoltre 2593 “bersagli” di intercettazioni, di cui 626 per mafia e 38 per terrorismo. “C’è una stabilità dei fenomeni criminosi - ha commentato Mura - resta il problema dell’insicurezza percepita dai cittadini”. Le carceri venete continuano a essere sovraffollate, con 2432 detenuti a fronte di una capienza di 1942: ci sono stati 2 suicidi, 81 tentativi e 674 episodi di autolesionismo. Idem in quello minorile di Treviso, dove ci sono 16 detenuti per 12 posti, con 26 atti di autolesionismo. Il Presidente del tribunale di Torino: “La soluzione c’è: ridurre il numero dei processi” di Ottavia Giustetti La Repubblica, 2 febbraio 2020 “Ma la riforma è sbagliata”. Si conclude con una supplica amara “vi prego chiamate un elettrauto” la prolusione del presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario che si celebra questa mattina a Palazzo di giustizia. Un discorso che è destinato a far discutere perché è uno sfottò tagliente alle “ricette” vecchie e nuove proposte come soluzione all’inefficienza della giustizia italiana. È un “no” esplicito al processo eterno, come rischia di diventare quello che esce dalla riforma della giustizia del ministro grillino, Alfonso Bonafede. Anche a Torino, oltre che in Cassazione, si parla dunque dell’entrata in vigore della legge sulla sospensione della prescrizione all’esito del primo grado e la prospettiva di riforma, più volte annunciata, del codice di procedura penale. Con entrambe, il governo, scrive il presidente del tribunale: “ha violato la base etica della convivenza civile che si fonda sull’assunzione dei doveri prima di rivendicare diritti”. Un attacco dritto al cuore delle scelte politiche in tema di prescrizione. Un attacco da chi la giustizia l’amministra tutti i giorni. “Due facce della stessa medaglia di facilissima valutazione se si assume un atteggiamento laico e scevro della propaganda politica e dal corporativismo di tutte le categorie” dirà Terzi. “Laicamente non ci sarebbe nulla di scandaloso rispetto anche a un’abolizione della prescrizione già a decorrere dal momento dell’esercizio dell’azione penale: in astratto. Ma il diritto non è un’astrazione: in concreto, ad oggi, questo Stato, questa Amministrazione della Giustizia, con questa forzatura, ha violato la base etica della convivenza civile che si fonda sull’assunzione dei doveri prima di rivendicare diritti”. Il fatto, secondo Massimo Terzi è che “da tempo immemorabile, lo Stato non è riuscito a garantire tempi di indagine e di processi degni, prima ancora che ragionevoli”. E uno Stato che “si prenda un diritto così incidente sulle persone, essendo inadempiente da trent’anni al corrispondente dovere, incide gravemente su un caposaldo della democrazia che è in primo luogo bilanciamento tra Autorità e Libertà”. Gravità etica, prima ancora che giuridica. Che potrà emendare solo se, prima che la legge inizi a produrre effetti, riuscirà a rispettare il suo dovere. “Spero di essere smentito, ma sono molto, anzi, del tutto, pessimista”. E Terzi spiega il perché: sono i numeri a decretare il “coma irreversibile” della giustizia, le pendenze al 40 giugno 2019: 599.583 sul Tribunale monocratico 28.822 sul Tribunale Collegiale di primo grado. “Ciò vuol dire, ipotizzando una spaventosa produttività dei magistrati addetti al dibattimento, di 1 sentenza collegiale a settimana lavorativa e 1 sentenza monocratica a giorno lavorativo, uno stock di processi smaltibili dal primo grado in ben oltre tre anni”. Questo significa, cifre alla mano, che i processi in arrivo, seguendo un mero ordine cronologico, andrebbero fissati a 4 anni. “Abbiamo un’automobile che, secondo il manuale di costruzione di trent’anni fa, per funzionare e partire necessita di una batteria e di un alternatore funzionante. Da trent’anni invece stiamo riuniti lì intorno come ingegneri scienziati attoniti di fronte a un’astronave aliena” dice Terzi. “Se non fosse un sì grave problema la definirei una situazione tra il paradossale e il ridicolo. Cominciamo a chiamare un semplice elettrauto che sistemi la batteria del filtro processuale e l’alternatore dei riti alternativi”. Scacciati gli scienziati, ecco la ricetta: “il nostro elettrauto sa che il motore può funzionare, come di fatto si è riusciti a fare nel settore civile, solo se sul Giudice dibattimentale ( e prima ancora sul Pubblico Ministero) arriva un numero di procedimenti congruo”. Tradotto in numeri: non più di un quarto massimo, un terzo del carico attuale. “Tutto il resto, scusatemi il termine tecnico, ma è quello che mi sgorga spontaneo dal cuore, è purissima fuffa”. Giovanni Ilarda, Pg di Trento “Violenze, alcol, infortuni: piaghe che preoccupano” di Dafne Roat Corriere dell’Alto Adige, 2 febbraio 2020 L’allarme della presidente della Corte Incidenti e alcol: 300 casi in regione. Carcere di Bolzano, Servetti scuote la Provincia: “Ci dia tempi certi”. La relazione della Direzione nazionale antimafia preoccupa. Malgrado la resistenza, il Trentino Alto Adige è sempre più terra di conquista della criminalità organizzata. Appello per il nuovo carcere di Bolzano. Il Trentino Alto Adige resiste. Ma è sempre più terra di conquista della criminalità organizzata anche di tipo mafioso. La relazione della Direzione nazionale antimafia non può non preoccupare. D’altronde è difficile immaginare che la mafia non nutra alcun interesse verso un territorio ricco e che tutto sommato ha resistito anche alla crisi economica come quello del Trentino Alto Adige. Ma Giovanni Ilarda, procuratore generale, precisa: “Ancora una volta debbo confermare l’assenza di acquisizioni giudiziarie che dimostrino un radicamento della criminalità organizzata”. Questo non significa che non ci sia un interesse e “non vi possano essere stati tentativi di penetrazione del tessuto economico e produttivo da parte di esponenti della criminalità organizzata che oggi - evidenzia il procuratore generale - non ha più il volto di chi si nascondeva nella campagne mangiando cicoria, né quello delle belve stragiste. Oggi i rappresentanti del crimine organizzato si presentano in giacca e cravatta per investire capitali”. Preoccupa maggiormente l’aumento, purtroppo non solo regionale, dei reati contro le donne e in famiglia. “Un problema sociale di dimensioni endemiche e universalmente presente”, ha ricordato la presidente della Corte d’appello di Trento, Gloria Servetti. In regione si parla di un aumento del 19% dei reati contro la libertà sessuale, del 22%delle denunce di stalking e del 39% delle denunce per maltrattamenti in famiglia. Soffermando lo sguardo solo sui dati relativi al Trentino si scopre che nel 2019 sono stati aperti 63 fascicoli (erano 53 l’anno precedente) e i reati di maltrattamento in famiglia sono passati da 115 a 160. Nell’ambito della violenza di genere nel corso del 2019 la questura di Bolzano ha emesso 32 provvedimenti e la questura di Trento 190. I numeri sono eloquenti. Un’altra grande emergenza regionale, purtroppo testimoniata anche dalla recente terribile tragedia di Lutago, riguarda la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti e gli incidenti stradali. Un triste binomio che spesso contraddistingue le statistiche. Gli incidenti stradali causati dall’alcol e dagli stupefacenti in regione sono quasi 300. Sono aumentati anche i procedimenti per reati di omissione di soccorso sia a Trento che a Bolzano. E se in Trentino si registra una lieve flessione delle contestazioni per guida in stato di ebbrezza (sono passate dalle 476 alle attuali 443 iscrizioni), mentre sono aumentate del 10% le contestazioni relative alla guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti (da 29 a 32). Analizzando il lavoro dei magistrati del Tribunale dei minori, che purtroppo registra una sofferenza di organico, è curioso scoprire il desiderio di molte coppie di adottare bambini. Dato che può e va letto in chiave sociale. Le domande di disponibilità di adozione pendenti sono 763 e quelle presentate nel corso dell’anno sono 247. Al Tribunale dei minori di Bolzano è aumentato invece il numero dei reclami in particolate relativi a coppie di albanesi che per assicurare l’accesso dei figli al sistema scolastico e sanitario chiedevano l’autorizzazione a restare in Italia. Richiesta, però, respinta. Ma a fronte di una giustizia che comunque funziona e con poche pendenze, come ha sottolineato Servetti, l’inaugurazione dell’anno giudiziario è stata l’occasione per la presidente Servetti di lanciare un nuovo grido d’allarme sul carcere, in particolare quello di Bolzano. “È in una struttura vetusta non più compatibile con la permanenza sia della popolazione detenuta che del personale”. Manca un direttore e c’è solo un educatore, “è impossibile garantire la copertura sanitaria a tempo pieno”. Servetti sprona la Provincia, citando le parole di papa Francesco sul rischio che le carceri diventino “polveriere di rabbia”. “La Provincia dia rassicurazioni convincenti quantomeno sui tempi di attesa per il completamento della nuova struttura”. Il Pg della Corte di Appello di Bari: “Strutture al limite della decenza” di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 2 febbraio 2020 Nelle relazioni del presidente della Corte di Appello di Bari, Franco Cassano, e del procuratore generale Anna Maria Tosto, per inaugurare l’anno giudiziario sono state evidenziate, tra le altre cose, le criticità in cui opera la giustizia a Bari a causa dell’emergenza dell’edilizia giudiziaria. Si “continua a soffrire di una condizione logistica e strutturale ai limiti della decenza”. L’inchiesta sugli uffici giudiziari di Trani che ha “disvelato l’esistenza di un sistema di malagiustizia”, le “condizioni di emergenza della quasi totalità degli uffici penali del tribunale di Bari”, la crescita della percezione di insicurezza” nel distretto di Bari e la criminalità che imperversa nel territorio di Foggia. Sono stati alcuni punti della relazione del procuratore generale presso la Corte di Appello di Bari, Anna Maria Tosto, durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. Il “sistema Trani” è quello svelato da un’inchiesta della procura di Lecce nella quale sono coinvolti l’ex gip Michele Nardi, in carcere per corruzione in atti giudiziari e l’ex pm Antonio Savasta (ai domiciliari) per il quale venerdì scorso è stata chiesta la condanna a dieci anni. “Se ha potuto originarsi e operareha detto Tosto in riferimento all’inchiesta sul “sistema” Trani- è stato anche a causa delle connivenze, degli imperdonabili silenzi, dell’indifferenza consumata ai danni della collettività e dei tanti magistrati che invece hanno lavorato e lavorano nel rispetto del giuramento di fedeltà”. A proposito dell’edilizia giudiziaria, il procuratore generale ha parlato di “urgenza” e di “emergenza” sottolineando che “gli uffici del distretto, tutti, quelli di Bari in particolare, continuano a soffrire di una condizione logistica e strutturale ai limiti della decenza. Tuttavia-ha aggiunto la stipulazione del protocollo che impegna il Ministero alla costruzione di un Polo della giustizia rappresenta finalmente un passo concreto verso la realizzazione di un obiettivo”. Anche il presidente della Corte di Appello, Franco Cassano nella sua relazione, in riferimento all’edilizia giudiziaria, ha detto che “è una questione che ci affligge e ci mortifica”. Sulla situazione a Foggia e provincia il pg ha detto che “a gennaio 2020 si sono susseguiti una serie di atti intimidatori: tempistica e destinatari degli attentati denunciano che si tratta della reazione rabbiosa alla progressiva inarrestabile rivendicazione della scelta di legalità e di coraggio che ormai viene dalla società civile” e ha sottolineato che quella foggiana è “una mafia che somma in sé il familismo della ‘ndrangheta e la ferocia della camorra cutolina, capace però di evolvere e, dunque, moderna nella progressiva infiltrazione nei settori nevralgici dell’imprenditoria locale”. Pur se “il sistema criminale è stato “messo in crisi” dalle azioni di contrasto- ha aggiunto - e occorrerà continuare il lavoro intrapreso tenendo conto dell’evoluzione delle organizzazioni sempre più a vocazione affaristico imprenditoriale: la “mafia del click” che sposta il denaro, lo investe e lo occulta con un colpo di mouse”. Snocciolando i dati relativi relativo all’anno appena concluso emerge che nel distretto di Corte di appello di Bari, da giugno 2018 a giugno 2019, sono dimezzati i procedimenti per omicidio volontario (da 88 a 45), sono diminuite le denunce per reati di terrorismo (da 20 a 8). Sono però aumentate quelle per estorsione (da 840 a 1.011) e sono raddoppiati i procedimenti per i reati di mafia(da 40 a 74). Sono anche diminuiti gli omicidi stradali (da 120 a 94); delle rapine (da 1.729 a 1.301) e delle bancarotte fraudolente (da 170 a 157). Sono aumentati i procedimenti di riduzione in schiavitù (da 15 a 26) ; quelli per pedofilia e pedopornografia (da 64 a 86); e di stalking ( da 1.191 a 1.223). Di Matteo a Palermo per l’anno giudiziario: “Non avere paura dei potenti” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 2 febbraio 2020 Dopo tre anni il magistrato torna da componente del Consiglio superiore della magistratura, e pronuncia parole appassionate. “Sono certo che saprete soffocare sul nascere il pericolo di un ritorno al passato - dice Nino Di Matteo nell’aula magna della Corte d’appello dove si inaugura il nuovo anno giudiziario - un ritorno a quegli opachi contesti nei quali trovano terreno fertile stragi e delitti eccellenti”. Dopo tre anni, torna a Palermo da componente del Consiglio superiore della magistratura, e pronuncia parole appassionate, citando uno per uno i nomi dei magistrati uccisi dalla mafia: “Spero che Palermo abbia la volontà e la capacità di continuare a rappresentare l’esempio trainante di una giurisdizione che non ha paura di estendere ai potenti il controllo di legalità”. Un appello a tutti i magistrati: “Avete la grande responsabilità di sconfiggere la tentazione, sempre strisciante, dell’oblio e dell’appiattimento alle logiche del quieto vivere e, del falso e solo formale efficientismo burocratico. Sono certo che quello spirito del 92 che animò la riscossa contro il sistema mafioso venga gelosamente custodito nell’animo di ogni magistrato”. Di Matteo ricorda cosa rappresentò quella stagione: “Questo è il distretto che ha sopportato sulle sue spalle l’urto più immediato della violenza mafiosa e le innumerevoli insidie delle complicità politiche e istituzionali di Cosa nostra. Da questi uffici, pur fra mille difficoltà e resistenze anche interne, è partita, nella immediatezza delle stragi del 1992, una splendida reazione, che nella consapevolezza che la lotta alla mafia è condizione essenziale di libertà e democrazia, ha trasformato Palermo nell’avamposto del contrasto alla criminalità organizzata. Questi uffici hanno, per molto tempo, rappresentato un insostituibile punto di riferimento, anche sociale e culturale, per quella parte del Paese che non si rassegna al predominio di metodi predatori e correttivi nella gestione del potere”. Parole forti che entrano anche nella ferita grande all’interno della magistratura. “I fatti emersi con l’inchiesta di Perugia ci devono indignare ma non ci possono sorprendere. Non possiamo permetterci di essere ipocriti, rappresentano uno spaccato, una fotografia nitida, ma pur sempre parziale, di una grave patologia che rischia di minare l’intero sistema di autogoverno della magistratura”. La distorsione del sistema delle correnti, che Di Matteo definisce “una malattia che si è diffusa come un cancro, con la prevalenza di logiche di clientelismo, appartenenza correntizia o di cordata, di collateralismo con la politica”. A Napoli avvocati in manette contro la prescrizione all’apertura dell’anno giudiziario di Dario Del Porto La Repubblica, 2 febbraio 2020 Le toghe contestano la legge che, evidenziano, rischia di trasformarsi in un “ergastolo processuale per cittadini imputati a vita”. Gli avvocati napoletani sfilano in manette per protestare contro la riforma della prescrizione. È la provocazione che aprirà la cerimonia di apertura dell’anno giudiziario in programma al Maschio Angioino. Le toghe contestano la legge che, evidenziano, rischia di trasformarsi in un “ergastolo processuale per cittadini imputati a vita”. In questi mesi, l’avvocatura napoletana ha promosso incontri e dibattiti, anche con parlamentari eletti nel distretto, per sollecitare una modifica della riforma fortemente voluta dal ministro della giustizia Alfonso Bonafede. Quando ha preso la parola la rappresentante del ministero della Giustizia, la dottoressa Concetta Lo Curto, gli avvocati si sono alzati in piedi esponendo silenziosamente cartelli di protesta con scritto “rispettate la Costituzione”. La cerimonia è stata aperta dalla relazione introduttiva del presidente della Corte d’Appello Giuseppe De Carolis di Prossedi. “Viviamo in una società che sembra incattivirsi e nella quale vi è sempre più bisogno di legalità e di giustizia. È importante che chi subisce una violenza o un torto sappia di poter contare su un sistema giudiziario che è in grado di tutelare i suoi diritti”, ha detto l’alto magistrato. E ha aggiunto: “per mantenere la fiducia dei cittadini è necessario innanzitutto un recupero dell’efficienza del sistema giudiziario. Una giustizia che arriva a distanza di molto tempo rischia di essere inutile”. Per quanto riguarda i magistrati, ha detto ancora, “non credo che la fiducia dei cittadini si possa guadagnare con la ricerca del consenso popolare e con la visibilità mediatica, ma con l’applicazione indipendente della legge e con un comportamento eticamente corretto”. In rappresentanza del Csm ha preso la parola il consigliere togato Antonio D’Amato, che ha voluto ricordare l’avvocato Aldo Cafiero, decano dei penalisti napoletani, scomparso nei giorni scorsi. Sulla questione morale, D’Amato ha ricordato le recenti vicende “che hanno gettato un’ombra sull’intero ordine giudiziario. Il presidente Mattarella ha affermato che quello che è emerso ha disvelato un quadro sconcertante e prodotto conseguenze negative sull’intero ordine giudiziario. Mai come ora è necessario riaffermare l’indipendenza della magistratura e la sua autonomia”, ha evidenziato, ricordando la necessità di assicurare il rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo. D’Amato ha assicurato la “costante attenzione del Csm ai problemi e alle criticità del distretto di Napoli”. Il procuratore generale Luigi Riello ha lanciato l’idea di far “partire da Napoli un confronto franco, senza riserve mentali e senza pregiudizi, per proporre insieme, avvocati e magistrati, una riforma strutturale del processo penale”. Il pg ha aperto il suo intervento definendo l’anno appena trascorso come “il più difficile e lacerante per la magistratura perché è esplosa una questione morale anche al nostro Interno. Deve essere chiaro che le erbacce vanno decisamente sradicate, ma è necessario non consentire che sulla nave dei salvatori della Patria e della Giustizia salgano soggetti interessati non a spezzare ignobili collusioni ma a presentare il conto ai magistrati seri”. “L’Avvocatura, baluardo della democrazia e garante dei diritti, è oggi qui in questa sede, per denunziare i gravissimi attentati ai princìpi e ai valori fondamentali su cui si fonda lo Stato di diritti”, ha detto prendendo la parola il presidente dell’Ordine forense Antonio Tafuri. E ha parlato di “odiosa compressione dei diritti della difesa e del ruolo dell’avvocato sta purtroppo caratterizzando la politica giudiziaria anche nel nostro Paese”. Quindi ha lanciato per ben diciassette volte il suo “io accuso” contro il potere esecutivo, dalle scelte sui tempi del processo penale alle politiche su processo civile, tributario e sulle carceri, fino all’”abuso delle intercettazioni”. E sulla prescrizione ha ribadito: “Io accuso il potere esecutivo che ha abolito la prescrizione, spacciando questa misura come intervento acceleratorio e sapendo perfettamente, invece, che il processo senza prescrizione è un processo che non si concluderà mai”. Torino. Suicidio in carcere, dopo giorni di proteste un detenuto si toglie la vita di Cristina Palazzo La Repubblica, 2 febbraio 2020 Si era cucito la bocca più volte, aveva scioperato rinunciando al cibo e si era tagliato perché in Marocco, dove sarebbe tornato tra pochi giorni in seguito a un decreto di espulsione, non voleva andare. Stava scontando una condanna per rapina e sperava nell’udienza della prossima settimana, che ora non si terrà perché il detenuto, trentenne, si è ucciso usando una busta in testa e delle bombolette di gas venerdì sera nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, una tecnica diffusa tra chi è in carcere come gesto voluttuario, per compensare la carenza di droga. Era stato sottoposto a una visita psichiatrica la sera prima, non avrebbe mostrato di voler farla finita, e prima di quel momento non aveva mai tentato il suicidio. Ma comunque era in cella con un’altra persona, una sorta di supporter, che però venerdì sera dormiva. È stato lui comunque a lanciare l’allarme: i soccorriti hanno provato a rianimarlo ma non c’è stato più nulla da fare: la notizia della sua morte è stata data dal garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. “La sua pena sarebbe terminata tra 11 giorni - denuncia. Possibile che ciò non interroghi la società esterna e che resti soltanto un problema del carcere e di chi in esso opera? Possibile che non si legga il nesso tra l’assenza di un qualche supporto territoriale e una vita così “sprecata”?”. Cassino (Fr). Iniezione in carcere, poi la morte. Un mistero che dura da tre anni di Alessia Marani Il Messaggero, 2 febbraio 2020 Dopo tre anni è ancora un mistero chi e cosa provocò la morte di Mimmo D’Innocenzo, romano di 32 anni rinchiuso in isolamento nel carcere di Cassino. La mattina del 27 aprile del 2017 si sentì male, venne chiamata l’ambulanza, ma il ragazzo spirò nel corridoio mentre lo stavano trasportando fuori. Su un braccio, però, aveva un foro di siringa. Mimmo non faceva uso di eroina, figuriamoci poi se, isolato da tutti, avrebbe potuto “farsi” o procurarsi una sostanza. I familiari, assistiti dall’avvocato Giancarlo Vitelli, scoprono che la sera prima al ragazzo sarebbero stati somministrati degli oppiacei, un forte calmante, magari iniettato in dose troppo massiccia, che lo ha ucciso. Da allora il fascicolo aperto dal pm Roberto Bulgarini, non si è più mosso dal suo tavolo: nessuna risposta per mamma Alessandra Pasquiri che ora chiede “giustizia per mio figlio”. Nella vicenda sarebbero coinvolti una guardia penitenziaria dell’istituto di pena che avrebbe riferito agli inquirenti di avere prelevato la sera precedente il ragazzo dalla cella per portarlo in infermeria e due medici. Ma i sanitari avrebbero replicato che in infermeria quella sera non era stato visitato nessuno. Accertare questa circostanza, tuttavia, sarebbe stato semplice, se non fosse che, come spiega l’avvocato Vitelli, “è scomparso tutto il carteggio del diario clinico del carcere del mese di aprile”. In sede di autopsia venne chiarito che il foro sul braccio del ragazzo era stato praticato nell’arco delle 24 ore precedenti, quindi non ci sono dubbi sul fatto che la morte sia collegata a quella iniezione. Mimmo era un ragazzone bello robusto, qualcuno può avere pensato di tenerlo a bada. Ma chi e con quale cautele lo ha fatto? E, soprattutto, il 32enne poteva essere soccorso prima? C’è un superteste in questa vicenda che prima si è fatto avanti e poi è sparito. “Un altro detenuto nel novembre scorso mi ha contattata - racconta mamma Alessandra- era appena uscito dal carcere e la prima cosa che ha fatto fu cercarmi per dirmi che aveva questo peso dentro di cui liberarsi, per Mimmo. Mi raccontò che la sera prima a mio figlio fu fatta un’iniezione per calmarlo, perché non volevano che rompesse le scatole. Che già subito cominciò a sentirsi male. Poi però quest’uomo è scomparso”. La famiglia di D’Innocenzo ha fornito alla Procura il nome e cognome, “ma a noi non risulta che sia stato ancora sentito”, dice la mamma. “Mimmo era un giovane speciale - dice Alessandra - mi aveva scritto due giorni prima di morire, voleva tornare a essere se stesso, libero dal “mostro” della cocaina per occuparsi del fratello più piccolo che ora ha 15 anni e che lo adorava”. Quella del 32enne di Pietralata è anche una storia speciale. A vent’anni ebbe un grave incidente di moto sulla Tiburtina, finì in coma per alcuni giorni, a distanza l’assicurazione lo risarcì con 250mila euro, una cifra stratosferica per un ventenne e difficile da gestire. “Era un ragazzone buono Mimmo, fu avvicinato da brutti giri, pusher sicuri di avere trovato un cliente d’oro”. Comincia il calvario della coca. A 29 anni Mimmo decide di smettere ed entrare in comunità. Ma da solo non trova la forza. Quindi una mattina scende al supermercato sotto casa e a volto scoperto inscena una improbabile rapina, la polizia lo prende. Lui chiama la mamma al telefono: “Vedi ma’, mi sono costituito”. Al suo avvocato dell’epoca chiese di non ottenere attenuanti. “Mimmo riuscì ad entrare in comunità ad Assisi, poi però quando la condanna diventò definitiva me lo portarono a Cassino dove dopo appena un paio di giorni me lo hanno ucciso”, piange Alessandra. L’Aquila. Raddoppiati in 10 anni i detenuti in regime di 41bis di Eleonora Falci ilcapoluogo.it, 2 febbraio 2020 Raddoppiati in 10 anni i detenuti in regime di 41bis al carcere dell’Aquila. Una situazione difficile tanto per i detenuti quanto per gli operatori penitenziari. Il carcere dell’Aquila è quello con il maggior numero in Italia di detenuti in regime di 41bis: in 10 anni sono di fatto raddoppiati. Ma non sono aumentati, di contro, gli operatori penitenziari. Il regime speciale del 41bis è stato introdotto nel 1986 ma esteso nel 1992 dopo le stragi di mafia: prevede restrizioni soprattutto per gli autori di reati di criminalità organizzata. Lo scopo è quello di evitare contatti con l’esterno e con l’associazione di cui il condannato fa parte. Nel corso degli ultimi anni il numero di detenuti al 41bis alle Costarelle è però di fatto raddoppiato. Nel 2010 erano 80: adesso ne sono 166 su un totale di 760 reclusi. Tra di loro c’è chi ha ucciso Giovanni Falcone, chi ha attentato alla vita di Paolo Borsellino, chi ha ucciso Marco Biagi, chi si è macchiato le mani nell’uccisione di Massimo D’Antona. Una situazione difficile, sottolinea il segretario regionale territoriale Uil Pa Polizia Penitenziaria Mauro Nardella: “Con il raddoppio dei reclusi sono inevitabilmente raddoppiate le video conferenze, gli ingressi dei familiari impegnati nell’adempimento del diritto ad avere colloqui, le traduzioni in posti diversi e i piantonamenti nei luoghi di cura; l’attività amministrativa in tutti gli uffici”. A rimetterci in questa situazione sono però tanto i detenuti quanto gli operatori penitenziari. “In termini di organici l’amministrazione non ha risposto in maniera proporzionale all’aumento dei detenuti” sottolinea Nardella che fa un appello anche al neo-garante dei detenuti Gianmarco Cifaldi. “L’Amministrazione Penitenziaria si faccia carico della situazione difficile creatasi provvedendo più che a raddoppiare il personale di Polizia Penitenziaria a riportare il numero di sottoposti al regime speciale ai valori antecedenti il 2010. Ne varrà del mantenimento adeguato degli standard lavorativi e, per quello che più ci riguarda da vicino, della qualità di vita di tutti gli operatori penitenziari” Garantire diritti mantenendo al tempo stesso le restrizioni del regime del carcere duro: è di pochi giorni fa la vittoria di una battaglia legata proprio ad un detenuto “aquilano” cui era stato proibito di portare dolci e giochi durante il colloquio con la figlia, nata quando lui era già in carcere. Il legale dell’uomo, Nicoletta Ortenzi, ha vinto il reclamo presentato dal suo assistito. Il tribunale di sorveglianza dell’Aquila, tra le motivazioni, ha evocato le osservazioni della Corte costituzionale: “le compromissioni dei diritti nel regime del 41bis sono costituzionalmente legittime soltanto se serve a escludere contatti dei detenuti con il gruppo criminale di riferimento”. Tutto il resto, quindi, sono misure afflittive inutili. Belluno. Autolesionismo in carcere, 63 casi nell’ultimo anno di Andrea Zambenedetti Il Gazzettino, 2 febbraio 2020 Il problema, sgombriamo subito il campo, non è il sovraffollamento. Le cause vanno cercate altrove. Ma andiamo con ordine. Stando ai numeri che emergono dalla relazione del Presidente della corte di appello di Venezia, sull’amministrazione della giustizia nel distretto, è che a fronte di 73 detenuti della Casa circondariale di Belluno a fine giugno 2019 (presenza media nei 12 mesi precedenti 81 persone, tollerabile di 134 e regolamentare di 90), sono 63 quelli che hanno compiuto atti autolesionistici. Addirittura tre quelli che hanno provato a togliersi la vita. Insomma, se ci si limita a guardare i numeri e le proporzioni, è come se in media ogni quattro detenuti tre si fossero intenzionalmente feriti. Si tratta di una percentuale decisamente più elevata rispetto ai numeri delle altre province. A Venezia ci sono stati 84 casi di autolesionismo a fronte di una presenza media di 263 detenuti, a Rovigo 69 episodi con una presenza media doppia che è il doppio rispetto a quella della struttura di Belluno. La corte d’Appello spiega il fenomeno puntando il dito contro il sovraffollamento e la carenza di risorse umane specializzate. In particolare a mancare sarebbero le “competenze per la gestione dei detenuti con problematiche psicologiche o psichiatriche e nelle situazioni di disagio derivanti dalla limitata offerta di lavoro e di altre attività formative”. Un’ipotesi che vede d’accordo anche i sindacati. Leo Angiulli, segretario Triveneto della Uspt spiega che la carenza di organico nel penitenziario di Belluno pesa per il 35 per cento. “La legge Madia - spiega il sindacalista - ha portato a un impoverimento del personale. Su Belluno ha pesato in modo rilevante anche una particolare coincidenza: l’apertura della sezione psichiatrica proprio nel momento in cui veniva ridotto il personale. C’è una difficoltà oggettiva - prosegue Angiulli - che non dipende dalla direzione ma proprio dallo Stato”. Robert Da Re, della segreteria provinciale della Cisl Belluno-Treviso, spiega che gli episodi di autolesionismo sono avvenuti spesso tra i detenuti transessuali. “Mentre nel reparto “comuni” il clima è sereno e ci sono le cooperative che lavorano, nella sezione dedicata ai transessuali e alla salute mentale la situazione è più complessa. Abbiamo subito segnalato il problema - prosegue - anche perché nel territorio le strutture sanitarie non si occupano abitualmente di transessuali, visto l’esiguo numero nel territorio. Qualcosa dovrebbe cambiare con l’applicazione di una nuova delibera della giunta regionale ma al momento siamo in attesa. E fortunatamente le cose sono molto migliorate rispetto a quello che accadeva qualche anno fa quando in dodici mesi eravamo arrivati a quasi 200 aggressioni ai danni degli addetti”. Ora quel genere di episodi si è ridotto ma il numero dei casi di autolesionismo indica che è presto per abbassare l’attenzione. Treviso. Carcere minorile, i detenuti si feriscono da soli per uscire di Milvana Citter Corriere del Veneto, 2 febbraio 2020 Il carcere minorile di Treviso scoppia. A sancirlo la presidente della corte d’appello di Venezia Ines Maria Luisa Marini, nella sua relazione di apertura dell’anno giudiziario. Nel report ha messo nero su bianco i dati forniti dal presidente del tribunale per i minorenni di Venezia. Numeri che fotografano la realtà dell’istituto di pena trevigiano, l’unico carcere per minori nel Triveneto. La struttura ha una capienza massima di 12 detenuti. Ma attualmente sono 16 i reclusi, 6 dei quali stanno espiando una condanna definitiva. La media di presenze, nel corso del primo semestre del 2019, è stata sempre di 16 detenuti in quello che nella relazione è descritto come “un conseguente costante affollamento” nonostante la direzione dell’istituto “sia sempre attenta nel chiedere il nulla osta al trasferimento quando la situazione diviene di difficile gestione, sia per il superamento della capienza massima, sia per le problematiche comportamentali del detenuto”. Nel 2019, le problematiche dell’istituto si sono tradotte in 26 atti di autolesionismo compiuti dai giovani reclusi, gesti quasi sempre dimostrativi ma che in alcuni casi hanno portato a ricoveri e cure mediche. Non solo. In almeno un caso c’è stata una vera e propria sommosse a cui si aggiungono due episodi violenti commessi dai detenuti contro gli agenti penitenziari. Il primo all’inizio di maggio quando un detenuto diede fuoco a lenzuola e materasso rischiando di provocare un incendio nella struttura, il secondo quando, pochi giorni dopo, un agente rimase ferito nel tentativo di sedare una rissa scoppiata tra altri giovani reclusi. “Quando i detenuti sono troppi e hanno età così diverse, i problemi aumentano - spiega Luca Bosio della Fp Cgil Polizia penitenziaria, sindacalista e agente in servizio a Treviso. Viviamo una situazione critica da anni nonostante le ripetute segnalazioni. Ed è inevitabile perché essendo quella di Treviso l’unica struttura per minori del Triveneto, ci saranno sempre più detenuti di quelli previsti”. A risolvere la situazione dovrebbe intervenire la costruzione di un nuovo istituto di pena minorile a Rovigo, il cui progetto sarebbe stato avviato dal ministero delle infrastrutture. Per ora però, tutti i minori per i quali viene disposto il carcere tra Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, arrivano a Treviso. E non si tratta solo di minorenni perché la legge prevede che, se un minore viene incarcerato prima della maggiore età, deve restare nell’ambito della reclusione minorile fino al compimento dei 25 anni. Questo rende la convivenza ancora più complessa, perché aumentano tensioni e risse. E per gli agenti penitenziari diventa difficile gestire la situazione: “C’è stato l’adeguamento degli organici, ma ci sono problemi che dobbiamo affrontare quotidianamente e per i quali da tempo chiediamo alla direzione di aprire un tavolo di confronto”. Tra i problemi da mettere sul piatto c’è anche il problema dei piantonamenti dei detenuti all’ospedale, cresciuti con l’aumentare dei gesti autolesionistici. “Se dobbiamo accompagnarli in ospedale perché stanno male o si sono feriti - conclude Bosio -, da contratto dovremmo fare turni di 6 ore e invece rimaniamo per 10 o 12 ore. E neppure su questo, dalla direzione, abbiamo avuto risposte”. Reggio Calabria. “Dalla ‘ndrangheta si può uscire” di Danilo Loria strettoweb.com, 2 febbraio 2020 Il messaggio di don Italo Calabrò nelle scuole e negli istituti penitenziari. Melissari: “dalle mafie si può uscire. È questo il tema di una serie d’incontri che il Comunitario Agape ha organizzato nei prossimi giorni in alcune scuole della città”. “Dalle mafie si può uscire. È questo il tema di una serie d’incontri che il Comunitario Agape ha organizzato nei prossimi giorni in alcune scuole della città, c/o la comunità ministeriale della giustizia minorile, al carcere di Palmi con i detenuti dell’alta sicurezza ed al rione Archi. Porterà la sua testimonianza, Giosuè che negli anni 80 dal carcere minorile ha iniziato un percorso di liberazione dal clan di appartenenza grazie al sostegno ed al l’accompagnamento di don Italo Calabrò, di Agape e dei servizi della giustizia minorile. Una esperienza che lo ha portato oggi a vivere una attività imprenditoriale di successo nel campo agricolo che rappresenta un esempio concreto di una vita alternativa ai modelli esistenziali negativi che la criminalità propone ancora oggi ai giovani”. È quanto scrive in una nota per il centro comunitario agape, la responsabile del gruppo giovani Giulia Melissari. “Gli incontri sono - prosegue- parte del progetto “io non delego la mia vita” che il gruppo giovani dell’agape sta realizzando in alcune scuole della città. Un progetto che parte dall’invito che don Italo Calabro’ rivolgeva ai giovani di non delegare ma di essere protagonisti attivi della propria vita, Nella vita si possono delegare tante cose diceva, una sola cosa non si può delegare: il vivere. Nessuno può dire ad un altro tu vivi al posto mio! Questo concetto, che don Italo Calabrò comunicava spesso ai giovani che incontrava, ha ispirato questa iniziativa di promozione della cittadinanza attiva e del volontariato che i giovani del centro Comunitario Agape in collaborazione con Libera e con la rete delle Alleanze Educative hanno avviato presso l’Itis Panella- Valluari, l’istituto Piria, il Liceo Volta e il Fermi Boccioni, in collaborazione con Dirigenti scolastici e professori e soprattutto degli studenti che hanno aderito con entusiasmo alla proposta e si sono messi in gioco in prima persona facendosi coinvolgere in un percorso di presa di coscienza delle loro responsabilità per la costruzione di un futuro diverso per loro e per la città. Un tentativo di coinvolgerli e ridare, loro, la convinzione di avere il potere, la forza e la responsabilità di cambiare la società, impegnandosi “senza mai delegare”, per far capire che è importante oggi soprattutto tornare alla Costituzione, rileggerla e riscoprirla, perché bisogna essere coscienti, tutti, soprattutto in un momento difficile come questo, che la responsabilità è collettiva. Il gruppo giovani di Agape propone agli studenti momenti di formazione, di conoscenza delle realtà di servizio agli ultimi del nostro territorio e soprattutto darà loro la possibilità di mettersi in gioco coinvolgendosi direttamente in attività di volontariato. Anche la tappa che si farà c/o la comunità ministeriale si propone, attraverso la testimonianza di chi ce l’ha fatta e con la presenza della Dirigente della Giustizia minorile Isabella Mastropasqua e di altri operatori della giustizia minorile e delle comunità, di incoraggiare i minori a scegliere un percorso di vita di all’insegna della legalità e del lavoro onesto. Altri incontro speciale sarà quello programmato nella casa circondariale di Palmi che grazie alla disponibilità del Direttore Antonio Galati e degli operatori dell’area pedagogica offriranno ai detenuti dell’alta sicurezza la possibilità di ascoltare chi è riuscito a farsi una vita fuori dal carcere e di potere anche esprimere il loro pensiero sul progetto Liberi di scegliere confrontandosi con i referenti del Tribunale per i minorenni di Reggio che lo sta realizzando”, conclude. Sassari. Carcere di Bancali, anche i direttori girano al largo di Gianni Bazzoni La Nuova Sardegna, 2 febbraio 2020 Il nuovo funzionario ha impugnato il provvedimento. Per ora torna la Incollu, reggerà anche Nuoro. Non sono solo i detenuti - specie quelli sottoposti al carcere duro del 41bis - che non gradiscono il trasferimento nel carcere di Bancali, scelto dallo Stato come modello nel pacchetto delle iniziative per la lotta alla mafia. Anche i funzionari - specie quelli non sardi - preferiscono girare al largo e questo spiega le difficoltà finora incontrate dal ministero della Giustizia e dal Dipartimento nel trovare un direttore in pianta stabile. Finora si è andati avanti con provvedimenti a tempo e solo pochi giorni fa era trapelata la notizia della nomina di un direttore in pianta stabile: il nome era quello di Graziano Pujia che pare abbia già impugnato il provvedimento. Niente da fare, quindi, almeno per ora. E così per correre ai ripari la scelta è stata quella di puntare su un funzionario che conosce bene quella realtà e che ha dimostrato di avere professionalità e capacità di gestione di livello superiore. Così, almeno per ora, a dirigere Bancali torna una donna, la dottoressa Patrizia Incollu, che reggerà anche Nuoro e Mamone: un carico di responsabilità notevole ma che la direttrice - che vanta una esperienza pluriennale con risultati di rilievo durante la sua attività di funzionario dello Stato - ha già dimostrato di sapere fronteggiare. La Milanesi (che ha retto finora Bancali a scavalco) dirigerà invece Alghero e Tempio. In attesa che si sblocchi la vicenda del nuovo direttore, quindi, si torna al passato, con una scelta che in questo momento sembra l’unica in grado di dare garanzie. Nei giorni scorsi - dopo i gravi episodi delle aggressioni agli agenti della polizia penitenziaria che avevano fatto salire la tensione nella struttura penitenziaria di Bancali - c’era stata la visita del provveditore regionale delle carceri sarde Maurizio Veneziano. Un sopralluogo per incontrare l’agente ferito e anche il detenuto protagonista della violenta protesta che - a sua volta - ha denunciato di essere stato picchiato. Ma anche per rendersi conto di persona delle criticità esistenti in una struttura di prima fascia che merita sicuramente ben altre attenzioni a livello centrale. Il provveditore aveva confermato a breve l’arrivo del direttore e nell’arco di due settimane anche del comandante della polizia penitenziaria. E nel frattempo aveva garantito che per il periodo di vacanza avrebbe nominato un commissario per la reggenza. Nei prossimi giorni il provveditore dovrebbe incontrare i sindacati per un confronto sulle criticità a Bancali. Affidi, parla il Procuratore dei Minori del Piemonte di Marina Lomunno vocetempo.it, 2 febbraio 2020 Il disegno di legge della Regione Piemonte sugli affidamenti famigliari (“Allontanamento zero”) sta suscitando molte contestazioni nel mondo degli operatori sociali che temono la criminalizzazione dell’istituto dell’affido. Il magistrato Emma Avezzù, Procuratore dei Minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta, per la prima volta interviene sull’argomento. L’onda lunga delle vicende di Bibbiano sui presunti affidi illeciti - che hanno spopolato nelle cronache estive e continuano ad essere argomento di scontro politico - ha ispirato il Disegno di legge regionale del Piemonte “sull’allontanamento zero” presentato da Chiara Caucino (Lega), l’assessore alle Politiche della Famiglia e dei Bambini della Giunta Cirio. Il testo (scaricabile sul sito della Regione www.regione.piemonte.it) come dice il titolo, si pone come obiettivo ridurre gli affidi famigliari fino a “zero” per permettere a tutti i bambini di crescere nelle proprie famiglie d’origine. Il progetto di legge, che fino al 14 febbraio sarà oggetto di discussione nella IV Commissione Consiliare che ha avviato le consultazioni on line invitando le parti coinvolte (associazioni, ordini professionali e tutti coloro che a vario titolo si occupano di minori) ad esprimere un parere, fin dalla sua pubblicazione ha suscitato molte perplessità tra gli addetti ai lavori circa l’”utopia dell’allontanamento zero”. Contro il Disegno di Legge sono usciti documenti delle associazioni delle famiglie affidatarie, dell’Ordine degli avvocati, una petizione lanciata dall’Università di Torino a cui hanno aderito docenti di tutt’Italia, è nato un comitato “Zero allontanamento Zero” a cui aderiscono, tra gli altri, l’Ordine degli assistenti sociali di Torino e Rita Turino, Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza del Piemonte: tutti invitano la Regione a ritirare la proposta di legge e ad avviare piuttosto un tavolo regionale sulla Tutela dei minori. Ne abbiamo parlato con Emma Avezzù, da ottobre 2019 Procuratore dei minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta, con una lunga esperienza come magistrato del Tribunale minorile torinese prima di essere nominata Procuratore capo dei minori a Brescia. Procuratore cosa non funziona nell’Istituto dell’affidamento se, dopo i fatti di Bibbiano, si è rimesso in discussione tanto che la nostra Regione ha proposto un Disegno di legge che si pone l’obbiettivo di eliminare gli affidi in Piemonte almeno del 60 per cento? “Sui fatti di Bibbiano la magistratura sta ancora lavorando e se ci sono stati degli illeciti, se si sono fatti favoritismi verso alcune famiglie affidatarie o se i servizi non hanno funzionato lo capiremo al termine dell’inchiesta. Intanto mi preme ricordare che l’affido è una misura temporanea perché il minore possa trovare soccorso quando la sua famiglia attraversa un momento di difficoltà. In Italia è regolato dalla legge 184 del 1983, modificata poi dalla legge 149 del 2001. Una legge dello Stato quindi c’è e funziona. La vicenda di Bibbiano che riguarda quel caso specifico - anche grazie a certa informazione, diffusa persino dalle reti televisive pubbliche, irrispettosa della Carta di Treviso che detta le regole per i giornalisti che informano su temi legati a minori - ha messo in cattiva luce l’istituto dell’affidamento in generale e questo è pericoloso. Intanto occorre fare attenzione ai termini. Si parla spesso scorrettamente di “sottrarre un bambino alla famiglia”: “sottrarre” fa pensare ad un oggetto. I bambini non sono un oggetto, non sono una proprietà. L’intervento dell’affido temporaneo ad una famiglia o ad una comunità mira alla tutela del minore quando vengano descritte situazioni di disagio e le assicuro che nella mia esperienza - prima come giudice in questo Tribunale, poi come Procuratore a Brescia ed ora di nuovo qui a Torino - le situazioni per cui i provvedimenti di tutela si rendono necessari sono numerosi”. Il Disegno di legge regionale insiste sul fatto che la maggior parte dei disagi dei minori sono dovuti a difficoltà economiche della famiglia che starebbero alla base dei motivi per cui si avviano gli allontanamenti… “La legge 184 dice che le condizioni d’ indigenza di una famiglia debbono portare l’ente locale a predisporre strumenti di sostegno al reddito, no di certo ad allontanare i bambini: non si sono mai allontanati minori solo a causa dell’indigenza. Lo scopo della legge è la tutela rispetto a disagi ben più gravi che la povertà. In caso di carenze igienico-sanitarie dell’abitazione del nucleo, di disoccupazione, quando non si è in grado di pagare il riscaldamento o l’affitto l’Ente pubblico interviene con le provvidenze e questo già si fa. Ma può capitare che la famiglia non si avvalga o non si rivolga all’Ente, o spenda i sussidi non per beni di prima necessità facendo vivere i bambini nella sporcizia e nell’incuria: allora senza dubbio occorre intervenire. Qui non si tratta solo d’ indigenza ma di carenze educative”. Cosa vi preoccupa più della povertà? “Il disagio psicologico ad esempio: non si può affermare che non si possono allontanare i bambini per “mero disagio psicologico o per mera inadeguatezza genitoriale”. L’inadeguatezza genitoriale, la dipendenza da sostanze, la malattia psichica portano a patologie gravissime per i minori. Ho avuto esperienza di bambini che fin da neonati non venivano alzati dalla culla, non venivano presi in braccio, coccolati, mentre li si nutriva non li si guardava negli occhi. Quando ero giudice a Torino, molti anni fa, mi è capitato un caso di un bimbo di cui si sospettava una patologia neurologica perché stava immobile. Si è poi scoperto che non aveva assolutamente nulla ma non era mai stato preso in braccio… Non parliamo poi dell’incapacità dei genitori di contenere minimamente i figli, di dare delle regole: qui non si tratta di violare la privacy delle famiglie, ognuno ha le proprie modalità educative. Ma nostro dovere è pretendere il minimo e che cioè, ad esempio, i bambini non vengano maltrattati fisicamente e psicologicamente, che i figli non vengano apostrofati con parole che minano l’autostima, che non vengano umiliati o ignorati ma anche che abbiano regole negli orari, che vadano a letto col pigiama e quando si alzano si insegni loro a vestirsi: insomma i fondamentali dell’educazione. Ripeto nostro dovere è garantire il benessere fisico, materiale e psicologico del minore. Cioè garantire l’educazione”. Il testo del Disegno di legge regionale sottolinea che occorre fare il possibile perché il bambino rimanga nella famiglia d’origine e, qualora non sia possibile, che si affidi a parenti fino al quarto grado. Ci sono situazioni dove il legame di sangue non basta e interviene la genitorialità sociale, la “famiglia in prestito”… “Certamente laddove è possibile si lavora perché il minore rimanga nella sua famiglia anche allargata ma quando anche i parenti del bambino non sono idonei dal punto di vista educativo perché ne è minata la sua integrità fisica e psicologica, gli affidatari sono una risorsa da sostenere e che in questo Paese hanno salvato migliaia di adolescenti. Pensiamo a tutte le situazioni che hanno consentito a minori con storie di vita difficilissime di godere di riferimenti famigliari adeguati, pensiamo anche a tanti genitori in difficoltà che hanno dato il consenso all’affido del figlio - sono una minoranza le famiglie che si oppongono - e sono riusciti con i sostegni adeguati a superare i momenti critici”. Quali sono i suoi rilievi sulla proposta di legge? “Per ora la Regione ha inviato al Presidente del Tribunale dei Minorenni e a me il testo del progetto di legge senza convocarci per sentire un nostro parere. Con il Presidente penseremo di inviare una nota in cui esprimeremo la nostra opinione. Innanzitutto mi sento di dire che, fatti salvi i provvedimenti dell’autorità giudiziaria che sono la regola e che deve sempre intervenire, la stessa autorità giudiziaria deve però contare su servizi sociali che abbiano la possibilità di lavorare bene anche sulla prevenzione, come auspica il Disegno di legge, e di sentirsi legittimati. E qui in Piemonte i servizi sono assolutamente di prim’ordine. I limiti veri, su cui occorrerebbe che la politica si concentrasse, sono le carenze di personale e di mezzi. Accade a Torino che, anche con il consenso dei genitori all’allontanamento temporaneo di un minore o alla sua presa in carico da parte di un servizio specialistico, le liste d’attesa siano talmente lunghe che si arriva all’assurdità; e che cioè i servizi sociali chiedono a noi, autorità giudiziaria, un provvedimento d’urgenza così la pratica va avanti e il minore viene ospitato in comunità, o viene preso in carico, ad esempio dal Servizio psicologico. Diversamente si può attendere mesi… Ma un’iniziativa della Procura per i minori va messo in atto solo quando le situazioni sono molto gravi, e non vi sia consenso”. Quindi il lavoro dei servizi sociali è molto importante anche dal punto di vista della prevenzione… “Senza dubbio e si fa già moltissimo. Penso al “Progetto Pippi” per prevenire l’istituzionalizzazione e accompagnare alla genitorialità e a tanti altri strumenti messi in campo dai servizi su territorio… Tutto questo c’è già e funziona. Ma anche qui ci vogliono più risorse, altro che “costo zero” come prevede il Disegno di legge pensando di limitare i costi dell’affidamento. Anche per questo credo che sugli allontanamenti su iniziativa dell’autorità amministrativa (regolati dall’ex art. 403 del Codice civile) per mezzo dei servizi sociali il disegno di legge non faccia i conti con la realtà: io sono qui da ottobre e registro che il 50 per cento dei provvedimenti non vengono messi in atto dai servizi (che spesso non sono a conoscenza della situazione di fragilità) ma vengono attivati dalle Forze dell’ordine, dagli ospedali o dalle scuole. Cioè non sono le assistenti sociali “cattive” che portano via i bambini: accade che, quando un bambino o la mamma vengono picchiati vanno in ospedale, oppure viene fatta una segnalazione alle Forze dell’ordine dai vicini di casa o talvolta dagli stessi ragazzini che, assistendo alle violenze, chiedono aiuto alla Polizia o ai Carabinieri. Poi ci sono ragazze adolescenti che si rivolgono alla scuola e che raccontano di maltrattamenti, o le maestre che segnalano di alunni con i ferite da frustate o bruciature… Ripeto la maggior parte degli allontanamenti non vengono messi in atto per motivi economici: certo, l’indigenza non aiuta, può darsi che le famiglie che hanno più mezzi e un livello culturale più elevato abbiano qualche risorsa in più nella famiglia allargata ma non si possono fare automatismi. Il disagio è trasversale. E ci vogliono più personale e risorse per intercettarlo prima che sia troppo tardi”. In questi giorni molte associazioni, ordini professionali e chi si occupa di minori auspicano che sarebbe più opportuna un’ alleanza per i minori piuttosto che un dibattito che rischia di strumentalizzare i bambini… “Certamente. A mio parere la Regione ha la possibilità di fornire tutti i mezzi possibili ai servizi, di predisporre gli interventi, in particolare di carattere economico e pensare anche a supporti nuovi o relativamente nuovi come l’affido part-time o diurno: sostegni educativi che possono essere messi in campo per mantenere un legame con la famiglia d’origine laddove è possibile. Occorre però non partire dal presupposto che l’allontanamento è necessariamente “una cosa cattiva” e da evitare quando invece ci sono esigenze di tutela dei bambini molto pressanti. Inoltre bisogna che si riconosca l’operato che i servizi svolgono con interventi preventivi di sostegno prima di pensare ad un allontanamento. Cerchiamo allora di incidere e potenziare su quello che già funziona, evitando di insistere sul fatto che gli allontanamenti non si devono fare: è una posizione che considera la gravità delle situazioni che sono reali e le esigenze di tutela dei bambini. Anziché demonizzare assistenti sociali e servizi potenziamoli perché possano rintracciare il disagio prima che si manifesti alle Forze dell’ordine o nei Pronto soccorsi quando è degenerato. In Piemonte i servizi sul fronte della prevenzione sono sempre stati virtuosi: delegittimarli significa scoraggiare le famiglie disposte ad adottare e a prendere minori in affidamento. Già i numeri delle disponibilità rispetto alle necessità sono inferiori, se screditiamo le famiglie affidatarie e i servizi rischiamo di far male a tanti minori che invece avrebbero bisogno di genitori disponibili ad accoglierli”. Italia-Libia, no all’accordo: “È una questione di umanità” di Luca Kocci Il Manifesto, 2 febbraio 2020 Pax Christi contro l’intesa che si rinnova automaticamente oggi, anche se il governo, senza troppa convinzione, fa sapere che potrà essere modificato in ogni momento nei prossimi tre anni. “Un accordo diabolico, che va cancellato”. È il netto giudizio di don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi, sul memorandum Italia-Libia, l’accordo fra Roma e Tripoli firmato nel 2017 da Gentiloni e al-Serraj per fermare i barconi nel Mediterraneo e deportare i migranti nei centri di detenzioni libici. Il memorandum si rinnova automaticamente oggi, anche se il governo italiano, senza troppa convinzione, fa sapere che potrà essere modificato in ogni momento nei prossimi tre anni. Intanto le caselle di posta elettronica dei ministri degli Interni Lamorgese (caposegreteria.ministro@interno.it) e degli Esteri Di Maio (dimaio_luigi@camera.it) continuano a essere inondate dal mail-bombing promosso dalla rete Io accolgo, a cui aderiscono numerose associazioni laiche (Arci, Cgil, Legambiente, Medici senza frontiere) e cristiane (Acli, Caritas, Centro Astalli, Comunità Sant’Egidio, Federazione Chiese evangeliche), per cancellare il memorandum. “All’indomani della Giornata della memoria, non dobbiamo avere la memoria corta: ricordare i lager del passato ma ignorare i lager di oggi, ovvero i campi di prigionia in Libia”, spiega il coordinatore di Pax Christi, che ha aderito alla campagna “Io accolgo”, scrivendo a Lamorgese e Di Maio. “Non è una questione di legalità, ma di umanità. Senza considerare che le leggi sicurezza volute da Salvini rendono tutto ancora più disumano”, aggiunge don Sacco. Da Pax Christi, interviene un ex coordinatore nazionale, don Tonio Dell’Olio. “Trapelano alcune interpretazioni secondo le quali si potrebbero negoziare nuovi termini dell’accordo anche dopo la scadenza”, scrive Dell’Olio su Mosaico di pace, mensile promosso da Pax Christi. “Ma la verità è che il testo di quegli accordi sembra un segreto di Stato e nessuno l’ha mai letto, forse nemmeno chi l’ha firmato - prosegue. E soprattutto che sono proprio quegli accordi a produrre morte, violenze, sofferenze atroci e violazione dei diritti umani. Mille volte abbiamo ascoltato racconti raccapriccianti. Mille volte giovani migranti hanno testimoniato, talvolta documentato, le torture subite. Per questo siamo in molti a chiedere di non rinnovare quel memorandum”. Vista la sordità dei governi, Dell’Olio si rivolge direttamente a Mattarella, “perché giunga fino a lui l’urlo senza voce del dolore dei disperati e con uno scatto di dignità umana intervenga direttamente a scongiurare la nostra complicità da questa violazione dei diritti umani su vasta scala. Sarebbe la maniera più nobile per onorare la Giornata della memoria appena celebrata e riscattarci dal giudizio severo con cui ci condanneranno le generazioni a venire”. Memorandum Italia-Libia, oggi il rinnovo nonostante guerra e torture di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 febbraio 2020 Oggi, 2 febbraio, tre anni dopo la firma, il Memorandum d’intesa sulla migrazione tra Italia e Libia - la massima espressione delle politiche degli stati dell’Unione europea volte a tenere lontano migranti e rifugiati dalle loro coste - sarà rinnovato per altri tre anni senza modifiche. Firmando l’accordo, l’Italia si è impegnata ad addestrare ed equipaggiare la guardia costiera e altre autorità libiche, collaborando con esse a raggiungere l’obiettivo di intercettare persone in mare e riportarle nei centri di detenzione in Libia. Dal punto di vista di chi quell’accordo lo ha cercato e difeso, ha funzionato bene. Nei primi tre anni dalla firma almeno 40.000 persone, tra cui migliaia di minori, sono state intercettate in mare e riportate in Libia. Solo il mese scorso, sono state intercettate 947 persone. Dal punto di vista dei diritti umani, gli esiti sono stati catastrofici. I migranti e i richiedenti asilo riportati sulla terraferma e trasferiti nei sovraffollatissimi centri di detenzione libici sono sottoposti a gravi violenze, tra cui stupri e torture. Per di più, le loro vite sono messe in pericolo dall’aumento dell’intensità del conflitto. Già lo scorso 2 luglio decine di migranti e rifugiati erano stati uccisi e feriti dal bombardamento di un centro di detenzione. Due giorni fa, il 30 gennaio, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha annunciato la sospensione delle attività del suo centro di transito di Tripoli, aperto appena un anno fa, a causa dei timori per la sicurezza e la protezione delle persone ospitate nella struttura, del suo staff e dei suoi partner. Nel novembre 2019 il governo italiano ha deciso di rinnovare l’accordo. Inizialmente, le autorità italiane si erano impegnate a negoziare dei cambiamenti al testo nell’ottica di una maggiore attenzione ai diritti umani dei migranti e dei rifugiati trattenuti in Libia, ma al momento del rinnovo il negoziato è ancora in corso e pertanto il memorandum verrà prorogato nella sua formulazione originaria. “Va oltre ogni comprensione il fatto che, nonostante le prove delle sofferenze causate da questo orribile accordo e a dispetto dell’escalation del conflitto in Libia, l’Italia sia pronta a rinnovare il memorandum. Invece, l’Italia dovrebbe pretendere dalla Libia il rilascio di tutti i migranti e i rifugiati che si trovano nei centri di detenzione e la chiusura di questi centri una volta per tutte”, ha dichiarato Amnesty International. Cosa stiamo finanziando in Libia? Dal 2 febbraio accordi con Tripoli si rinnovano per tre anni di Emma Bonino Il Riformista , 2 febbraio 2020 Un presidio a Montecitorio per chiedere ancora una volta di sospendere gli accordi con la Libia che proprio il 2 febbraio si rinnovano per altri tre anni. Questo l’appuntamento lanciato da Radicali italiani per domenica pomeriggio per non cedere alla rassegnazione verso le tante storie drammatiche che arrivano dalla Libia e chiedere chiarezza e trasparenza rispetto a quanto accade in quel paese. Da ultimo, preoccupa, ma non sorprende, la decisione dell’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati di sospendere le attività nel centro di transito di Tripoli dove le persone più vulnerabili, purtroppo solo alcune tra le migliaia bisognose di protezione, nei mesi scorsi hanno trovato assistenza medica e supporto nel tentativo di lasciare la Libia e fuggire dal conflitto in corso e dagli orrori perpetrati nei centri di detenzione. La situazione sul campo è tale che non è più possibile garantire la sicurezza e la protezione delle persone ospitate nella struttura e dello staff. Con la fine dell’intervento dell’Unhcr, già ridotto al minimo e limitatissimo rispetto alla situazione drammatica vissuta in questi anni da decine di migliaia di persone, cade l’ultima ipocrisia a cui hanno fatto ricorso i governi italiani che si sono succeduti dall’accordo sottoscritto nel 2017 e che il 2 febbraio verrà rinnovato per altri tre anni. Solo pochi giorni fa, infatti, i ministri degli esteri e dell’interno hanno ripetuto che il contenuto degli accordi è in via di revisione e che l’obiettivo da parte italiana è di migliorare le condizioni dei centri di detenzione per migranti attraverso un maggiore coinvolgimento delle organizzazioni umanitarie internazionali. Ecco, la notizia della chiusura del centro di transito di Tripoli smentisce la possibilità di un intervento del genere e mette la parola fine a qualsiasi tentativo di mistificare la verità: continueremo, dal 2 febbraio in poi, ad assistere a violenze, stupri, respingimenti e morti in mare e all’attuazione di una strategia diabolica finanziata con fondi italiani ed europei che vede il nostro paese chiudere gli occhi e rinnegare i principi fondamentali del diritto internazionale, pur di fermare gli sbarchi sulle nostre coste. Con un’aggravante, se possibile, che riguarda la totale mancanza di trasparenza sui termini reali del Memorandum del 2017: cosa ha finanziato esattamente l’Italia in Libia? Che ruolo hanno giocato davvero le navi militari italiane negli interventi di respingimento della guardia costiera libica in mare? Per cosa sono state usate le nostre motovedette? Quali uomini abbiamo addestrato se è vero che il noto trafficante Bija, a capo di una delle milizie più potenti, in tutta segretezza ha addirittura trascorso un periodo di formazione in Italia ospite del nostro governo, come ha rivelato un’inchiesta giornalistica? L’ultima scoperta, in ordine di tempo, è l’esistenza di un canale sanitario tra Tripoli e Milano per curare i miliziani feriti e soprattutto la incredibile libertà di movimento da parte del personale diplomatico del governo di al-Serraj che, pare, sia stato capace di far sparire e mettere su un aereo per Tripoli due dei combattenti curati al San Raffaele di Milano denunciati per aver accoltellato un loro connazionale, prima che gli inquirenti italiani avessero il tempo di interrogarli. Tutto ciò mentre a livello mondiale altri decidono le sorti di quel paese perché l’Italia, distratta dalla situazione complessiva del Nord Africa e focalizzata solo sul tema dei migranti e sulla necessità di non farli arrivare, ha perso di vista le priorità e tutto ciò che si stava nel frattempo muovendo. Il vertice di Berlino ha dimostrato quanto sia sempre più difficile l’avvio di un processo politico e la fine delle ostilità. Di fronte a questo quadro sconfortante e sempre più fuori controllo, non possiamo che continuare a chiedere, come faremo in maniera nonviolenta con il presidio lanciato da Radicali italiani domani pomeriggio davanti a Montecitorio, la sospensione immediata del memorandum e un pieno protagonismo del Parlamento per fare finalmente chiarezza su quanto accaduto in questi tre anni, in Libia e nel Mediterraneo, a migliaia di persone sacrificate sull’altare della propaganda.