Il coronavirus può arrivare anche in carcere. Giuste le cautele ma attenzione ai diritti di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 29 febbraio 2020 In un momento in cui razionalità e ragionevolezza andrebbero potenziate in ogni ambito, è ancor più fondamentale che la facciano da padrone nella conduzione delle carceri. Se mai il virus dovesse entrare in un penitenziario, specie se di grandi dimensioni, la gestione dello spargersi del contagio diverrebbe difficilissima. Ben lo sanno le persone che in carcere lavorano e quelle che vi sono detenute, le quali tra l’altro, nell’isolamento dal mondo circostante, vedono inevitabilmente aumentata quell’ansia che ha colpito grande parte della popolazione esterna. Il carcere non è - fortunatamente - un universo a sé. In carcere c’è movimento, le mura di cinta sono quotidianamente varcate da molte persone in una direzione e nell’altra. Ci sono naturalmente i poliziotti e gli altri operatori penitenziari che si recano a lavorare dentro gli istituti. Ci sono gli avvocati che vanno a parlare con i propri assistiti. Ci sono gli insegnanti di scuola, che tengono i corsi all’interno. Ci sono i volontari, che sono i responsabili di una gran parte delle attività culturali, ricreative, sportive che si svolgono in carcere. E poi ci sono i detenuti che escono dal cancello per andare in udienza, per andare a lavorare quando sono destinatari della misura del lavoro esterno, per andare in permesso premio o addirittura per usufruire di una misura alternativa alla detenzione. Questi sono solo alcuni dei movimenti che ruotano attorno alle carceri e che potrebbero portare un virus all’interno di quello spazio chiuso. L’amministrazione penitenziaria ha diramato circolari di buon senso su come affrontare la situazione. Si prevede ad esempio che vengano predisposti dei presìdi all’esterno del carcere per controllare le condizioni di chi entra, che vengano sospesi o ridotti i trasferimenti che riguardano carceri in zone a rischio, che vengano limitati gli ingressi di persone dall’esterno. Alcuni singoli istituti di pena, però, sono andati oltre e, nonostante si trovassero in zone ben lontane da quelle a rischio, hanno disposto chiusure quasi totali verso l’esterno e sospensione di ogni attività che impegnava le persone detenute. Ma, al di là di iniziative estemporanee che non prendono troppo piede, tutti sembrano rendersi conto con equilibrio della necessità di proteggere tanto le esigenze di salute quanto quelle legate alle necessità ordinarie dei detenuti: contatti con i famigliari, colloqui con gli avvocati, vita quotidiana interna che può coinvolgere volontari o altre figure. È importante che si continui a mantenere con fermezza tale equilibrio. È importante che non si scivoli verso una compressione non strettamente necessaria della vita detentiva. Chi è in completa custodia dell’autorità pubblica ha inevitabilmente una forza limitata di protezione dei propri diritti. In un momento tanto poco ordinario quale quello che stiamo vivendo, è dall’esterno che questi diritti devono essere sorvegliati e promossi. La situazione attuale può diventare un’occasione per adeguare alcuni aspetti organizzativi delle carceri a linee di indirizzo che già più volte in passato il sistema stesso aveva tentato di darsi con scarso successo. È ad esempio del 2013 la disposizione dell’allora Commissione per le questioni penitenziarie del Ministero della Giustizia che prevedeva l’organizzazione dei colloqui via skype. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è tornato più volte sul tema, ma a oggi non sembra che i singoli istituti si siano attrezzati sufficientemente allo scopo. Oggi se ne riparla in occasione del coronavirus, incentivando anche quei detenuti che non hanno visitatori provenienti dalle zone focolaio a sostituire i colloqui visivi con telefonate e chiamate skype. Ma soprattutto si può cogliere il momento attuale per spingere in avanti il modello detentivo secondo parametri costituzionali di esecuzione delle pene. Se queste ultime devono tendere a reintegrare il condannato nella società esterna, maggiori opportunità di contatto si creano con essa e minori cesure, più facile sarà il raggiungimento dello scopo. Oggi il detenuto in regime ordinario ha diritto da legge a dieci minuti di telefonata a settimana e a sei colloqui al mese della durata di un’ora con le persone care. Che senso ha una disposizione così restrittiva? È un’inutile afflizione che non aiuta, e anzi ostacola, il reinserimento sociale e che si somma alla pena in sé, ovvero alla reclusione in carcere. In molti Paesi europei i detenuti possono usare il telefono, a volte addirittura posizionato dentro la cella, in maniera ben più libera. È un modo, tra l’altro, per contrastare quel traffico interno ed illecito di telefoni cellulari che molto preoccupa il nostro Ministero della Giustizia. Pochi giorni fa il senatore del Partito Democratico Franco Mirabelli ha presentato una proposta di legge nella quale si amplia l’accesso alle telefonate per i detenuti fino a una telefonata al giorno. La proposta va nella stessa direzione di quella avanzata da Antigone anche come prevenzione dei suicidi in carcere, percentualmente elevatissimi rispetto a quelli che si verificano nella società libera. La lontananza dagli affetti getta nella disperazione. “Se stanno in carcere qualcosa avranno fatto, peggio per loro”, si dirà. Appunto: stanno in carcere. È questa la punizione. Chi ne chiede altre aggiuntive non ha capito il senso della giustizia penale. L’emergenza sanitaria di questi giorni potrebbe essere gestita in linea profonda con un tale senso. *Coordinatrice associazione Antigone I cappellani delle carceri: “No al virus dell’isolamento” di Roberta Barbi vaticannews.va, 29 febbraio 2020 Nel messaggio per la Quaresima dell’Ispettore dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, inviato a diaconi, religiosi e volontari tutto il rischio che l'emergenza sanitaria sta comportando nell'ambito della detenzione. In seguito all’emergenza da Coronavirus, in molte carceri italiane è stato interdetto l’ingresso dei volontari, incontri e celebrazioni eucaristiche sono state annullate e perfino ridotti i colloqui con i familiari. In considerazione di questo e all’inizio del cammino quaresimale, l’Ispettore dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi, ha inviato un messaggio a tutti i cappellani d’Italia, ai diaconi, ai religiosi e ai volontari sul rischio che una realtà come quella carceraria, già ai margini della società, con l’emergenza sanitaria venga ancora più isolata. Evitare la solitudine e l'isolamento - “Tutte queste privazioni colpiscono una realtà già emarginata come quella del carcere - ha scritto -e che avrà come effetto la solitudine assoluta”. E in particolare ai cappellani, tra i pochi a essere autorizzati a entrare negli istituti penitenziari assieme alle figure professionali strettamente necessarie, offre l’antidoto all’isolamento: “Curare con l’amore il dolore di chi si sente solo, scartato, emarginato”. “Mi colpiscono alcune parole che incoraggiano il nostro ministero nelle carceri - ha scritto citando l’omelia di Papa Francesco in occasione della liturgia delle Sacre Ceneri - proprio perché siamo ‘la polvere amata da Dio’, sento di offrire questo messaggio ai nostri fratelli e sorelle reclusi, perché dalla loro sofferenza noi possiamo incoraggiarli alla speranza e alla Misericordia della riparazione”. La situazione in Italia - L’Ispettore dei Cappellani riflette anche sull’attuale situazione italiana: “Anche noi come popolo accogliente, stiamo sperimentando il rifiuto di essere accolti, sperimentando l’emarginazione e la segregazione; il virus della paura e della diffidenza hanno preso il sopravvento sulla speranza - ha aggiunto - mentre in questi giorni rileggevo alcuni episodi della vita di Gesù in cui toglieva dall’isolamento quanti lo erano a causa della malattia: il Signore con la sua azione vince la paura con l’amore, toccando e guarendo le loro ferite”. Giovanni Maria Flick: “Intercettazioni, qui si colpisce la base della nostra civiltà” di Errico Novi Il Dubbio, 29 febbraio 2020 Per il presidente emerito della Consulta, l’uso dei trojan a strascico nega l’inviolabilità delle comunicazioni, cioè la base della civiltà. “Sa, in una democrazia è importante stabilire le regole del gioco. Invece a me sembra che da un po’, anche con il decreto intercettazioni, si indulga troppo nel gioco delle regole”. Non è un calembour, no, se si pensa che persino il presidente Giovanni Maria Flick, nello sfogliare i prospetti comparativi delle nuove, vecchie e vecchissime norme sulle intercettazioni, è sconcertato dall’ “incredibile, sconcertante intreccio di modifiche, tale da prefigurare un chiarissimo rischio di conflitti interpretativi. E guardi”, dice il presidente emerito della Corte costituzionale, fin dal principio di un’ampia e per certi versi appassionata riflessione sul decreto legge e su alcuni principi fondamentali della nostra Costituzione, “che le difficoltà non saranno solo dei miei bravissimi colleghi ricercatori, destinati a misurarsi con questo groviglio nelle loro attività universitarie, ma innanzitutto dei magistrati e degli avvocati che quel groviglio dovranno applicare”. Ma un po’ l’azzardo del legislatore colto da Flick è il riflesso, il correlativo oggettivo, per così dire, della tendenza a scherzare col fuoco dei diritti, “una tendenza giustizialista che è tra le ragioni, se non la ragione ultima del Movimento 5 Stelle, ma temo sia anche radicata, seppur in modo meno profondo, nel Partito democratico, che non è mai riuscito a liberarsi davvero di quella matrice”. Non che gli interessi soffermarsi su valutazioni del genere, ma è a una simile rischiosa iperbole giustizialista che il presidente Flick riconduce “il grave tradimento della libertà di comunicazione sancita dalla nostra Carta non solo nella sua declinazione pubblica, e politica, all’articolo 21, ma anche al troppo poco evocato articolo 15, quale libertà del singolo di comunicare con chi vuole nella garanzia della segretezza, che può essere limitata solo in virtù di previsioni di legge. Tassative previsioni. Non approssimative, indefinite e confuse quali sembrano anche le norme contenute nel decreto sulle intercettazioni appena convertito in legge dal Parlamento”. Insomma, quest’ultimo provvedimento è un colpo pesante ai diritti? Aspetti un momento. Il colpo davvero decisivo, e pesante, non è tanto nel decreto appena convertito in legge. È nella cosiddetta legge spazza corrotti. È lì che si decide di introdurre un uso delle intercettazioni, in particolare di quelle acquisite con i trojan, anche per i reati di corruzione. Si è trattato dell’intervento normativo che forse più di tutti ha realizzato la pretesa assimilabilità fra mafia e reati contro la pubblica amministrazione. Una correlazione sbagliata, perché la mafia si basa sulla violenza, la corruzione su un accordo illecito. Sbagliata proprio in radice. Se vogliamo, il difetto più grave dell’ultimo provvedimento è nel metodo prima ancora che nel contenuto. Si riferisce alla sovrapposizione fra le norme appena convertite in legge e il decreto Orlando? Mi riferisco al fatto che la riforma Orlando, contenuta, attenzione, in un decreto legislativo e non in un provvedimento d’urgenza, era stata rinviata nella sua entrata in vigore assai numerose volte. Ora, mi saprebbe dire dove sarebbe la “straordinaria urgenza”, dichiarata nel testo dell’ultimo decreto, di intervenire su una materia rimasta congelata per due anni? Me lo dice dov’è l’urgenza? E poi c’è la contorsione tecnico normativa, così esiziale da condurre alla nevrosi il malcapitato costretto a leggere il testo... E sì, ma come le ho detto tra i malcapitati ci saranno magistrati e avvocati che dovranno applicarlo. Si figuri quanti conflitti d’interpretazione ne potranno nascere. È di queste ore una polemica sul rapporto della Commissione europea in materia di giustizia, che approva la riforma della prescrizione e ha perciò suscitato l’esultanza dei deputati cinque stelle: perché allora non ci si ricorda pure che in Europa siamo quelli che usano di più le intercettazioni? Non lo deve chiedere a me, almeno su questo non credo di poter rispondere. Credo solo di poter ricordare che sul consistente, forse eccessivo ricorso alle intercettazioni sono venuti richiami in numerose inaugurazioni dell’anno giudiziario, così come ne sono venute sull’eccessivo ricorso alla custodia cautelare: le sembra che la cosa abbia avuto conseguenze? Il problema del ricorso eccessivo, a mio giudizio, ha rilievo però soprattutto rispetto al rischio della pesca a strascico. Che viene innalzato, dall’ultimo decreto? Credo si debba rispondere a partire da un percorso giurisprudenziale. Si è discusso per molto tempo, lo si fa da diversi anni, sul legittimo uso di intercettazioni autorizzate per un determinato procedimento anche per l’accertamento di reati diversi. Da molto tempo è stato acquisito in modo pacifico il ricorso per reati diversi che comportino l’arresto in flagranza. In quel caso si tratta di esigenze di politica criminale e non c’è contestazione. Poi però il conflitto ha coinvolto chi ritiene insuperabile il limite della connessione fra i reati e chi invece lo ritiene superabile. Nell’ultimo caso si pone un problema enorme, perché l’uso per reati non collegati lascia sguarnita la necessità di una autorizzazione. Si pretende di far riferimento alla categoria dell’indispensabile. Ma come si fa a valutare se l’acquisizione delle captazioni in un procedimento diverso sia davvero indispensabile per la prosecuzione di quest’ultimo? Salta del tutto il principio per cui il pm domanda al giudice il via libera sulla base di quella irrinunciabilità per l’indagine. Chiarissimo. Ma allora perché con l’ultimo decreto si è esteso così allegramente l’uso per reati diversi? Va segnalato un aspetto forse decisivo, senz’altro illuminante sul modo in cui si ritiene di poter legiferare. Poco prima che l’ex presidente del Senato Pietro Grasso proponesse l’emendamento estensivo sull’uso delle intercettazioni per reati diversi da quelli per i quali sono autorizzate, era stata depositata una sentenza di straordinario rilievo della Cassazione, la sentenza Cavallo, che definiva una volta per tutte quel conflitto giurisprudenziale. La pronuncia ha stabilito che i reati diversi devono essere comunque collegati a quello per cui le intercettazioni sono state autorizzate. Vale a dire, ritiene insuperabile il limite che si riferisce all’articolo 12 del codice di procedura penale, dov’è definita la nozione di reato connesso. Deve trattarsi di un illecito compiuto per nascondere il precedente, di un reato attribuito a una persona che ha agito in concorso con l’autore del reato precedente oppure di un reato riconducibile al medesimo disegno criminoso. Da qui non si scappa. Non si dovrebbe, almeno. Perché tale logica regge, seppur forse con uno sforzo di buona volontà, in quanto la prima autorizzazione può essere considerata implicitamente riferibile anche agli altri reati. Benissimo, chiaro, solare: e allora com’è che il legislatore se n’è infischiato? È grave che se ne sia infischiato. La sentenza in questione è stata pronunciata dalla Suprema corte a sezioni unite. E appunto, tali pronunce hanno valore nomofilattico, vale a dire che è opportuno pensarci bene prima di discostarsene. I giudici difficilmente se ne sarebbero discostati. Il legislatore lo ha fatto... E qui rispondo alla sua domanda iniziale: la sola possibile logica di una simile scelta normativa si spiega nella volontà di venire incontro alle spinte dei pm affinché fosse di fatto consentita la pesca a strascico dei reati tramite intercettazioni. Della serie: noi caliamo la rete, poi vediamo cosa ci resta impigliato. Vorrei ricordare che l’estensione all’uso delle captazioni per l’accertamento di reati diversi, e non collegati, riguarda specificamente le intercettazioni ambientali effettuate con i trojan, anche per i reati di corruzione. Oltre a quelle fatte con altri strumenti se relative a reati gravi di cui all’articolo 266 primo comma. La nuova norma dice che l’uso delle intercettazioni fatte coi trojan è consentito anche per reati diversi, compresi quelli di corruzione, se però si tratta di materiale indispensabile per accertare quegli illeciti... Ecco, e allora noi veniamo al nodo chiave. La categoria dell’indispensabile rischia di non soddisfare l’esigenza di tassatività della previsione di legge, che invece è richiesta dall’articolo 15 della Costituzione, quando consente solo nelle forme garantite dalla legge di violare la libertà di comunicazione privata. Vede, qui parliamo di un bene primario parallelo alla libertà di manifestazione del pensiero sancita all’articolo 21, dov’è la base della democrazia. All’articolo 15 è consacrato il diritto alla diversità e all’identità della persona, che deve poter comunicare privatamente con chi vuole, in condizioni di segretezza. Adesso le dirò una cosa che potrà sembrare sconvolgente. Cosa? Ha presente la sentenza Cavallo che ho citato prima, che definisce il limite dei reati connessi? In quella sentenza le sezioni unite fanno ampio riferimento all’articolo 15. A un principio a cui si può, sì, contrapporre un altro interesse, quello della collettività all’accertamento delle condotte illecite, ma solo in modo proporzionato. Vuol dire che a un giudice deve essere assicurato lo strumento di legge in grado di verificare che, nel singolo caso, davvero ci sia un interesse superiore a quello dell’inviolabilità delle comunicazioni private, e cioè alla identità e diversità della singola persona. E come fa un giudice a bilanciare quegli interessi se non può autorizzare l’uso di un’intercettazione per reati diversi da quelli per i quali l’aveva inizialmente autorizzata? Il presidente del Cnf Mascherin ha denunciato il rischio che la tecnologia dei trojan sfugga di mano... E non dovremmo lasciarcela sfuggire. La tecnologia è madre, perché spalanca nuovi diritti, ma può essere anche matrigna, perché ne può soffocare altri ancora. Vede, è sorprendente davvero che si parli tanto della reputazione, delle intercettazioni diffamanti da non sbattere in prima pagina, del dovere di informazione a tutti i costi da parte dei media, del diritto di conoscere i dettagli privati della vita della persona pubblica, e così poco della libertà di comunicare il proprio pensiero nella segretezza di una relazione privata. È strano perché, se è vero che tale diritto attiene al libero manifestarsi di una identità e di una diversità della persona, ci si dovrebbe forse ricordare che proprio di fronte a una tecnologia così pervasiva, proprio in una società in cui la comunicazione e l’informazione sono tutto, dovremmo essere ancora più preoccupati dal rischio che una conoscibilità così assoluta comprometta l’identità della persona, la travolga. Ecco, in questo senso davvero l’uso di uno strumento come i trojan, se consentito in modo indiscriminato come avviene con l’ultimo decreto, può sfuggire di mano. Ma in ogni caso, lei dice, l’argine è saltato con la “spazza corrotti”, non con questo decreto... Sì, la deriva è in quell’estensione dei trojan, anche nel luogo del domicilio privato, ai reati di corruzione. Va detto che nel decreto intercettazioni appena convertito in legge si colgono anche aspetti condivisibili. Innanzitutto il ripristino del controllo del pm sulla selezione delle intercettazioni rilevanti, che invece il decreto Orlando aveva affidato in maniera quasi esclusiva alla polizia giudiziaria. Viene restituito al difensore il diritto ad estrarre copia del materiale intercettato, viene restituita la necessaria centralità all’udienza stralcio. Però vede, credo sia legittimo porsi comunque degli interrogativi sul metodo, a prescindere dai contenuti più o meno condivisibili. La scelta del decreto legge dopo anni di rinvio? Pensi a come può reagire il privato cittadino di fronte al fatto che, in piena emergenza coronavirus, si ritenga “straordinariamente urgente” intervenire su una riforma vecchia di due anni in materia di intercettazioni. Oppure si provi a immaginare cosa pensa un cittadino dell’affannarsi sulla prescrizione, con quello che gli capita intorno. Diciamo che se per caso potesse dire quello che pensa a un parlamentare incontrato per strada, il rischio che lo mandi a quel paese è elevato. Poi sa, certe tempistiche sono sempre un po’ sospette. Cioè, ha fatto comodo nascondersi all’ombra dell’emergenza? Ricorda un certo decreto in materia di custodia cautelare emanato nel 1994 in coincidenza con un’attesa gara dei Mondiali di calcio? Devo proprio tornare a quanto le ho detto all’inizio. Si dovrebbe avere non una simile disinvoltura, ma un’idea sacra delle regole del gioco. E invece ci si diletta nel gioco delle regole, ed è una cosa pericolosa quanto le intercettazioni a strascico. Caselli: “La prescrizione? Una patologia che nega elementari principi di equità” di Rossella Guadagnini MicroMega, 29 febbraio 2020 Lungaggini dibattimentali e procedure barocche hanno trasformato il processo in un percorso accidentato, pieno di ostacoli, insidie e cavilli, osserva il magistrato. Un “brodo di coltura” per avvocati spregiudicati, grazie anche alla prescrizione che non si interrompe mai. Nel nostro sistema penale coesistono due distinti codici: uno per i ‘galantuomini’, l’altro per i cittadini comuni. Tutti i nodi vengono al pettine: quando c’è il pettine, chiosava con perfidia lapidaria Leonardo Sciascia, scrittore e formidabile ragionatore. Da questione tecnica la prescrizione in Italia è divenuta “una questione politica nel senso peggiore del termine, una rissa da stadio. Si parla di orrore, catastrofe, follia, apocalisse, ergastolo permanente, bomba atomica, si arriva al tanto citato ‘vaffa’, si parla di ricatti... Non è così”. A sostenerlo è l'ex procuratore di Palermo e di Torino, Gian Carlo Caselli a cui abbiamo chiesto di fare chiarezza su questo nodo gordiano della giustizia. Prescrizione sì, prescrizione no, prescrizione forse: a che punto siamo? L’interruzione definitiva della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, la cosiddetta riforma Bonafede, è legge dello Stato dal 1 gennaio di quest’anno e quindi adesso è pienamente in vigore. All’interno del progetto di riforma del processo penale - approvato dal Consiglio dei Ministri nei giorni scorsi - è stato inserito un emendamento che, in sostanza, fa scattare la prescrizione definitiva soltanto dopo la sentenza di condanna di primo grado e non anche dopo quella di assoluzione. Peraltro, modi e tempi dell’eventuale approvazione dell’emendamento sono tutti da stabilire. Intanto, sulla riforma Bonafede si sta scatenando una battaglia campale, con tentativi di cancellarla del tutto portati avanti dalla minoranza parlamentare, appoggiata in modo spregiudicato dal gruppo renziano. In ogni caso, la riforma Bonafede ci avvicina agli altri Paesi europei: il nostro, infatti, è l’unico - con la Grecia - a non prevedere interruzioni definitive della prescrizione, ma soltanto sospensioni temporanee. Lei l’ha paragonata a una patologia: in che senso? Il combinato disposto delle lungaggini processuali, delle procedure barocche, dei troppi gradi di giudizio e dei costi elevati ha finito per fare del processo un percorso accidentato, pieno di ostacoli e trappole, infarcito di regole travestite da garanzie che, in realtà, sono insidie o cavilli: un brodo di coltura ideale per gli avvocati agguerriti, spregiudicati e costosi che puntano all’impunità, grazie anche alla prescrizione che non si interrompe mai. Con il risultato che nel nostro sistema penale hanno finito per coesistere di due distinti codici. Uno per i “galantuomini” (cioè le persone che appaiono, in base al censo o alla collocazione politico-sociale, per bene a prescindere...); l’altro per cittadini “comuni”. Nel primo caso il processo mira soprattutto a che il tempo si sostituisca al giudice, vuoi con la prescrizione che inghiotte ogni cosa; vuoi - male che vada - ammorbidendone gli esiti con indulti, condoni, scudi e leggi ad personam assortite. Nel secondo caso, invece, pur funzionando malamente, spesso il processo segna irreversibilmente la vita e i corpi delle persone. C’è dunque una specie di doppio binario della giustizia? Sta qui l’origine della patologia della prescrizione, perché - per come era congegnata prima della riforma - è stata (ed è storia anche degli ultimi 50 anni) al centro del sistema fondato su un doppio processo, fonte di ingiustizia e disuguaglianze che si risolvono nella negazione di elementari principi di equità. Un sistema dove, in realtà, è la prescrizione infinita (senza mai uno stop definitivo) che contribuisce fortemente a far proseguire certi processi. Ciò che, sul versante costituzionale della ragionevole durata, dovrebbe preoccupare anche quanti pongono il problema “a senso unico”, ossia guardando unicamente ai presunti effetti della riforma della prescrizione. Mentre a indignare dovrebbe essere proprio il ‘doppio processo’, che costituisce di per sé un ossimoro costituzionale davvero insostenibile. È usata così largamente la prescrizione? La percentuale italiana di prescrizioni è del 10/11%, contro quella dello 0,1/2% degli agli altri paesi europei; a fronte - va sottolineato - di statistiche che collocano la magistratura italiana ai primi posti per produttività (altro che “fannulloni”). Significa che ovunque la prescrizione funziona come mero rimedio fisiologico contro i pochi scarti che l’ingranaggio non è riuscito a trattare, mentre da noi ha finito per strutturarsi come fenomeno assolutamente patologico. Nel senso che da misura circoscritta a pochi casi limite, è stata trasformata in una voragine che inghiotte senza ritorno processi in quantità enorme. Sicché il sistema giustizia, in tutti questi casi, produce il suo esatto contrario: denegata giustizia per le vittime e verso i presunti responsabili. Ciò accade, di solito, per i processi di maggior impatto politico-sociale: penso al disastro ferroviario di Viareggio. La sua riforma è cosa da giustizialisti? La contrapposizione tra giustizialisti e garantisti è sempre più ridicola e strumentale. La praticano soprattutto coloro che si autoproclamano garantisti, spesso ignorando che il vero garantismo è veicolo di eguaglianza: non può essere degradato a strumento di sopraffazione e privilegio, con l’obiettivo di disarmare la magistratura di fronte al potere economico e politico, oppure di graduare le regole in base allo status sociale dell’imputato. Quanto alla parola giustizialismo, pochi ricordano che essa non esisteva neppure nel lessico italiano, se non con riferimento... al peronismo. Se non sbaglio fu Giuliano Ferrara a trasferirla ai problemi della giustizia, facendone una specie di cartellino rosso da brandire “a prescindere” (per squalificarlo) contro chi la pensa altrimenti. Giustizialista - per i sedicenti garantisti - è, in sostanza, chi cerca soluzioni non di comodo, ma è animato dall’etica della responsabilità dei risultati nel rispetto delle regole. Una diatriba che assomiglia a una scusa o, meglio, a un’accusa. Sotto la contrapposizione fra garantismo e giustizialismo si nasconde, a mio avviso, il conflitto fra illogicità e buon senso. Prendiamo il caso della polemica furibonda che - dopo quella sulla prescrizione - è scoppiata sull’uso delle intercettazioni. Il problema era questo: se intercettando una persona per un reato se ne scopre un altro, la registrazione è utilizzabile anche per il nuovo reato oppure va cancellata? Discutere sull’utilizzabilità, in un processo diverso, di prove riguardanti gravi reati legittimamente acquisite in un’altra inchiesta, si può anche fare, purché si sappia che l’alternativa è tra due comportamenti: il non trascurare nulla che serva all’accertamento della verità (il buon senso), oppure privilegiare formalismi e cavilli che della verità non si curano (l’illogicità). Gli effetti della prescrizione saranno evidenti solo nel 2025: tanto rumore per nulla dunque? È proprio così: tanto rumore per nulla. Le statistiche del Ministero della Giustizia del 2018 ci dicono che la prescrizione ha colpito 117.367 processi di cui 57.707 nelle fasi iniziali (Pm, Gip); 27.747 in primo grado; 2.250 davanti al Giudice di pace; 29.216 in Appello; 646 in Cassazione. Quindi, poiché la riforma Bonafede si applica solo ai processi già conclusi in primo grado e tenuto conto che, in Cassazione sono pochissimi i processi che si prescrivono (l’1,1 %), la riforma riguarderà il 26% circa dei processi prescritto. Ossia appena il 3% dei processi trattati ogni anno. Non propriamente una catastrofe che giustifichi i toni apocalittici dei profeti di sventura contrari al provvedimento. La riforma Bonafede in effetti scontenta molti tra magistrati, avvocati e giuristi. A fronte dei due o tre (per altro autorevoli) che hanno fatto notizia in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario, i magistrati scontenti sono ben pochi. Gli avvocati, invece, quasi tutti e si capisce bene perché. Ma se lo dici ti saltano addosso per lesa maestà. Spesso si dimenticano i sondaggi, che valgono quello che sappiamo, ma in ogni caso concordano nel dire che i cittadini sono favorevoli alla riforma Bonafede. E qualcosa, anche questo dato, vorrà pur dire. Quale strada le appare più percorribile? Occorre - come dicevo al principio - restare, realisticamente ancorati ai profili tecnici dei problemi della prescrizione e delle intercettazioni. Lasciamo da parte slogan ed esagerazioni propagandistiche messe in campo contro chi ha opinioni diverse, leggiadramente etichettato come ‘forcaiolo’ o ‘manettaro’; al punto che ‘giustizialista’ appare ormai appellativo perfino garbato. E l’Europa ci approva… Sì, una conferma ulteriore viene ora dal “Rapporto sull’Italia” di approvazione recentissima da parte della Commissione Europea, dove si legge che la riforma della prescrizione è “benvenuta” anche perché “in linea con una raccomandazione specifica” formulata al nostro Paese, che l’Europa aveva fatto a suo tempo. La Commissione esprime un giudizio favorevole anche sulla “spazza-corrotti” e sulla lotta alla corruzione che “sta migliorando”. Seppure non faccia sconti - sia sul piano civile, che penale - circa la lunghezza del contenzioso e l’efficienza del processo, soprattutto nel grado di appello. E fornisce una serie di direttive assimilabili, in buona parte, al “disegno di legge recante deleghe al governo per l’efficienza del processo penale”. Sulla giustizia il Pd non molla di Alfredo Bazoli* Il Foglio, 29 febbraio 2020 Il Partito democratico non ha mai considerato di per sé esaustivo o sufficiente il compromesso sulla prescrizione. E continuerà a lavorare, con equilibrio, per raggiungere risultati apprezzabili sul funzionamento del nostro sistema giudiziario. Non c’è troppo da stupirsi che il tema della giustizia costituisca un tema di forte contrapposizione e fibrillazione politica. Da sempre il rapporto tra lo stato e il cittadino, che sul terreno della pretesa punitiva trova la sua frizione maggiore, rappresenta uno snodo decisivo nell’idea della società che le forze politiche intendono rappresentare. Così è anche oggi, tanto più in un’epoca nella quale la nuova frontiera lanciata dalla sfida populista si colloca proprio sulla concezione dello stato di diritto. Quando quest’estate il Partito democratico ha colto l’occasione imprevista e inaspettata di formare un nuovo governo che arrestasse la deriva sovranista e antieuropea, era perfettamente consapevole delle difficoltà che si sarebbero prospettate nel condividere un’alleanza con un movimento fino allora avversario, ma era anche ben motivato dai rischi che il nuovo governo intendeva scongiurare. Anche su un terreno assai delicato come quello della giustizia. La destra populista allora al potere e oggi ancora alle porte, ma in quel momento sempre più arrogante e minacciosa era, ed è, quella dello slogan per il quale “i delinquenti devono marcire in galera”, per la quale, come disse in più occasioni il leader della Lega, occorre rivedere in termini restrittivi i benefici penitenziari, quella che si oppose allo sfinimento e affossò appena ne ebbe l’opportunità la riforma dell’ordinamento penitenziario. Una destra di impronta ultraconservatrice e securitaria, con una visione carcerocentrica della pena, secondo il modello americano che non a caso ha una popolazione carceraria oltre sette volte più alta di quella italiana, contraria ad ogni concezione moderna della pena e della sicurezza. È in radicale antitesi al concetto di giustizia conciliativa, umanizzata e riparativa espressa in modo così convincente ed esaustivo dalla presidente della corte costituzionale Marta Cartabia in una recente intervista. Ma la destra italiana e sovranista è anche quella che, per eccitare l’istinto alla vendetta serpeggiante nell’opinione pubblica, non si è fatta scrupolo di solidarizzare con un uomo condannato perché, dopo aver sorpreso un ladro nel suo stabilimento, lo immobilizzò, lo percosse, lo fece inginocchiare mani dietro la nuca, e gli sparò a bruciapelo. Secondo un modello di giustizia che asseconda le pulsioni di vendetta e le punizioni sommarie, antitetiche allo stato di diritto nel quale il monopolio della forza appartiene al potere pubblico. Ancora, la destra italiana odierna è quella che si è messa di traverso all’approvazione della legge contro la tortura, finalmente approvata dopo una lunghissima gestazione nella scorsa legislatura, e che oggi, come ha twittato Giorgia Meloni, la destra si propone di abrogare perché impedirebbe alle forze di polizia “di fare il proprio lavoro”. Voce dal sen fuggita, che tradisce una visione pericolosa del rapporto tra stato e cittadini, nel quale alla sicurezza è lecito sacrificare ogni diritto, ogni garanzia, e che dovrebbe fare inorridire qualunque autentico liberale. Ma la destra italiana è anche quella secondo la quale, in nome del consenso, a nome del popolo, non deve essere consentito di processare un ministro accusato di aver commesso un delitto contro la persona e le libertà fondamentali, un sequestro aggravato. Un precedente che, se avallato, aprirebbe la strada alla giustificazione di qualunque illecito, anche dei più gravi, da parte dell’esecutivo, come non è difficile comprendere. Anche qui, una concezione lesiva dei più elementari principi di uno stato di diritto, che mette in discussione la separazione dei poteri, e che tradisce la visione populista del diritto e della giustizia comune alle destre sovraniste odierne. Una concezione non dissimile da quella al potere in Polonia, per fare un esempio, ove in questi giorni giudici e avvocati stanno protestando insieme contro una legge che prevede sanzioni disciplinari ai giudici che disapplicano o mettono in discussione le riforme del governo. Una concezione tipicamente populista della giustizia, per cui il diritto deve uniformarsi alla volontà popolare, in totale spregio, ancora una volta, a una concezione autenticamente liberale dello stato di diritto. Questa è l’idea della giustizia che si sta affacciando con prepotenza in Italia, al traino della destra sovranista, populista e antieuropea largamente dominante. E alla quale, sia detto con chiarezza, non oppone alcun argine quella parte della destra, oggi nettamente minoritaria, che si è autoassegnata del tutto gratuitamente la patente di garantista. Una destra afona, che su tutte le questioni sopra delineate è stata complice silenziosa, quando non apertamente connivente. Una destra garantista quando le conviene, pronta a stracciarsi le vesti quando si aumentano le pene per corruzione o evasione fiscale, ma sempre in prima fila ad applaudire quando si aumentano le sanzioni per reati di strada o legati alla droga. Garantista coi forti, giustizialista coi deboli. In questo quadro politico, alla luce di questi rischi, il Partito democratico ha deciso di esercitare la propria responsabilità, anche sui temi della giustizia, e anche nel difficile e complicato rapporto con un movimento che su queste questioni ha idee molto più sbilanciate sul diritto alla punizione dello stato, che non sulle garanzie per i cittadini. E lo ha fatto cercando le soluzioni di equilibrio più avanzate possibili, senza alimentare strappi che avvicinerebbero, anziché tenere lontana, la deriva della giustizia populista. Anche sulla prescrizione, ove si è trovata una mediazione certo non esaltante - quella della distinzione tra condannati e assolti in primo grado - ma che comunque riduce l’impatto della riforma Bonafede, e si apre a ulteriori modifiche all’esito del monitoraggio che il ministro affiderà ad una commissione di esperti formata da avvocati, magistrati e professori universitari. Una soluzione che autorevoli giuristi hanno criticato, ma molti altri hanno giudicato apprezzabile, e che comunque il Partito democratico non ha mai considerato di per sé esaustiva o sufficiente. Perché siamo consapevoli che solo con una riforma ambiziosa ed efficace del processo penale che ne riduca i tempi a livelli civili si può risolvere l’obiettivo cortocircuito che si è creato nella giustizia penale in Italia: ove la prescrizione è oggi l’unico strumento che contribuisce ad accelerare i processi, peraltro senza conseguire in modo soddisfacente il risultato, visto che i processi durano comunque in modo inaccettabile. Così che oggi abbiamo insieme processi infiniti, e una prescrizione che scatta come una tagliola vanificando oltre un quarto dei processi di appello, una inaccettabile sconfitta dello stato che contrasta col comune senso di giustizia. Per questo abbiamo contribuito a elaborare una ipotesi di riforma che deve contribuire a raggiungere quel risultato, contenuta nel disegno di legge approvato la scorsa settimana in consiglio dei ministri, che si appresta ad iniziare il suo corso parlamentare. Una riforma che ha obiettivi molto chiari: modifica delle notifiche che oggi paralizzano gli uffici, tempi certi e controllabili nelle indagini preliminari, potenziamento dei riti alternativi, responsabilizzazione delle procure nella scelta dei reati da perseguire, introduzione di termini di fase, con tempi certi soprattutto per i processi di appello, potenziamento degli organici. Obiettivi apprezzabili, io credo, che sono stati declinati in un articolato normativo non blindato o immodificabile, ma anzi aperto alla discussione di tutti gli operatori del diritto. Qui stiamo, dunque. Il Partito democratico continuerà a lavorare, fino a quando possibile, e con equilibrio, per raggiungere risultati apprezzabili sul funzionamento della nostra giustizia, sapendo di dover trovare le soluzioni possibili nella interlocuzione con gli alleati di governo, ed esercitando fino in fondo la propria funzione, che è quella di agire e muoversi all’insegna di una rigorosa etica della responsabilità. È da anni che la storia del paese ci ha assegnato questo ruolo, quello di farci carico dei momenti di difficoltà del paese, di tenere per evitare derive e fare da argine alle ricorrenti pulsioni populiste: il ruolo di partito della responsabilità nazionale. Questo continueremo a fare, anche sulla giustizia, sapendo bene cosa bussa alla porta. *Deputato del Partito democratico “Abbiamo visto l’inferno in casa. Ora sogniamo una vita normale” di Antonella Rossi Corriere della Sera, 29 febbraio 2020 Sono le vittime indirette dei crimini contro le donne. Hanno assistito alle botte, qualche volta all’omicidio della madre. Hanno imparato a convivere con il dolore e chiedono giustizia. C’è chi li aiuta. Che la morte si sconti vivendo, come scriveva Ungaretti, è un dato di fatto. Per gli orfani di femminicidio però, la pena è amplificata. Dall’avere una famiglia a perdere entrambi i genitori - perché l’assassino si è suicidato, o è in carcere - è un trauma devastante. “Un bambino è tradito nel suo bisogno di accudimento, e privato della persona più cara” spiega Emanuela Iacchia, psicoterapeuta dell’età evolutiva che collabora con Il Giardino Segreto, onlus fondata dall’avvocata Patrizia Schiarizza. Le maggiori criticità? “Paura dell’abbandono, disturbi post traumatici da stress, distacco emotivo, scarsa concentrazione e attaccamento ansioso” spiega la psicologa Vincenza Cinquegrana, che ha lavorato assieme alla psicologa e criminologa Anna Costanza Baldry, esperta di livello internazionale (prematuramente scomparsa nel 2019), al progetto di respiro europeo Switch-off, che ha fornito linee guida di intervento per i figli del femminicidio (i risultati nel libro Orfani speciali, di Anna Costanza Baldry, Franco Angeli Editore). “Nelle vite di questi bambini c’è un prima e un dopo, la ripresa è sempre in salita” prosegue Iacchia. “Bisogna ridare positività, inserirli in un ambiente socializzante, invitare e accettare gli inviti, far capire che sono diversi dal loro padre, educarli al rispetto”. In genere hanno paura della violenza, anche se il progetto Switch-off ha riscontrato episodi di emulazione contro bambole o animali. Peggio è la negazione, ma spesso sono proprio i piccoli a fornire la chiave. “Una volta uno mi ha detto: “Sai che papà ha ammazzato la mia mamma?”. La mamma era sua, il papà non più. “Nell’assenza di quel mio c’era già distacco” aggiunge Iacchia. Come racconta chi ci è passato. Nonno Renato - Mentre il padre massacrava la madre, il nipotino più grande di Renato, 6 anni, prendeva per mano la sorellina di 3 e bussava alla porta della vicina. “Un miracolo, perché in questi casi il bambino resta paralizzato o fugge da solo. Secondo gli psicologi i miei nipoti erano destinati a impazzire o a troncare i rapporti con il mondo: ora siamo certi che questo rischio è superato, anche se restano criticità” spiega il nonno, che li ha in affido. “Vivono nella paura di essere uccisi, specie il maggiore, tanto che l’ho dovuto portare davanti a un carcere per fargli capire che da lì non si può uscire. Vedeva i maschi adulti come nemici, convinto che i parenti del padre potessero ucciderlo perché lui non era riuscito a farlo”. Per ridargli fiducia, sono uomini lo psicologo e l’istruttore in piscina. “La piccola ha risentito meno perché assisteva alle violenze senza subirle, ma aveva molte paure: della fiamma del gas, di salire in macchina, di chiunque bussasse alla porta e della sera, il momento dell’assassinio”. Renato non guarda la tv e non può mostrarsi debole davanti ai nipoti. “Hanno la psicosi dell’abbandono. La bambina ha vissuto come una perdita persino il pensionamento della maestra”. Tante le spese. “Faremmo qualsiasi cosa per loro, ma per lo Stato non esistono”. La figlia di Renato, invece, nelle istituzioni credeva, ma i processi sono finiti tre anni dopo la sua morte. “Spesso penso che almeno ha smesso di soffrire”. Vanessa Mele - Vanessa, 27 anni, lavora a Manchester con criminali ad alto rischio. “Controllo che rispettino le loro condizioni, sia quando sono in libertà vigilata, sia in carcere”. La passione per la criminologia è frutto della sua esperienza personale; a 6 anni è rimasta orfana di madre, a 18 ha cambiato cognome. “Volevo appartenere totalmente alla mia nuova famiglia, da piccola quando le amiche mi chiedevano perché avessimo cognomi diversi mi feriva, non mi sentivo come gli altri. Mi sarebbe piaciuta una famiglia “normale”, anche se poi ne ho avuta una bellissima: i miei zii, che sono i miei genitori, sono riusciti a ricostruire un porto sicuro. Poi non volevo avere più niente a che fare con il mio padre biologico, che aveva fatto domanda per la pensione di reversibilità di mia madre e l’avrebbe ottenuta se non mi fossi opposta. Dopo l’omicidio, è stato il momento più difficile, come rivivere tutto a distanza di anni”. Il padre di Vanessa oggi è libero. “La mia strada è completamente separata dalla sua, ma mi piacerebbe avere una conversazione adulta e delle scuse. Penso che un confronto non lo si debba negare a nessuno, ma la richiesta dovrebbe arrivare da lui”. Pasquale Guadagno - Voce allegra, 23 anni, Pasquale ne aveva 14 quando la madre è stata uccisa dal padre. Cresciuto con la nonna paterna e la famiglia di una zia, lo ha sempre visto. “Obbligato, altrimenti a casa era l’inferno, non potevo uscire con gli amici, non mi davano soldi, una prigione. Non sono mai andato da uno psicologo, nessuno mi ha mai chiesto: “Stai bene? Hai bisogno di qualcosa?”. Nessuno mi ha considerato una vittima, ho tirato fuori l’uomo che era in me e mi sono arrangiato. Ringrazio solo per il tetto e il cibo. Mi dicevano che mio padre aveva fatto bene e che mia madre era una prostituta”. Pasquale ha continuato a vedere il padre anche da maggiorenne, quando usciva in permesso. “Non so perché, era routine, sai quando ti inculcano una cosa e finisci col credere che sia giusta? Dopo l’ennesima lite, ubriaco, mi ha messo le mani addosso e ho capito che era sbagliato. Ora non lo vedo da un anno”. Tante difficoltà, dagli attacchi di panico superati da solo (“Mi sentivo la morte, stare in mezzo alla gente mi uccideva, non riuscivo a prendere un autobus”), al pensiero di poter essere come il padre: “Avevo scatti di ira, mi arrabbiavo, tutto doveva essere sotto controllo. Oggi sono molto zen, non gli somiglio”. Cambiare cognome non serve. “La mia persona la faccio con le mie azioni. Vorrei vederlo per sapere la verità su quella giornata ma penso che non dirà nulla, è convinto di aver fatto la cosa giusta”. Pasquale vorrebbe che il padre fosse allontanato una volta libero, non è disposto a cambiare città. “Gliel’ho detto in faccia: “Non farò mai scelte in base a te, ho creato la mia vita e tu non la distruggerai”“. Sensi di colpa per non aver protetto la madre? Nessuno. “Se l’avessimo salvata quel giorno sarebbe successo lo stesso, era premeditato”. Maria è stata inseguita dal marito al parco, mentre stringeva in braccio la sua bambina, Paola. stata raggiunta, presa per i capelli, trascinata, malmenata. L’hanno salvata al Pronto Soccorso dove i medici hanno iniziato a prendersi cura delle sue ferite, almeno quelle esteriori, più evidenti. Paola in ospedale non c’era, ma è come se ci fosse stata. Basta guardare il suo disegno, con al centro una bella dottoressa sorridente e rassicurante. “Oggi madre e figlia stanno bene; Maria si è separata, lei e la bambina sono seguite con attenzione, sono serene. Hanno ricominciato a vivere”. Anna Verdelocco le conosce bene: è un’educatrice della cooperativa Befree presso lo Spazio Donna dell’associazione Weworld a San Basilio, a Roma. Nel disegno di Paola, di Roma, la dottoressa che ha salvato la mamma ha un sorriso rassicurante. una porta aperta ai bisogni, all’ascolto, ai progetti. C’è chi viene per avere info pratiche, chi solo per socializzare, chi per ricevere un supporto alla genitorialità. Ci sono le italiane, le straniere, arrivano con il passaparola o su suggerimento dei servizi sociali. E con loro, i figli. Vengono per giocare o disegnare, mentre le mamme seguono una lezione d’italiano o di benessere corporeo, o hanno invece un colloquio individuale con una psicologa. La porta è aperta a tutte, con l’obiettivo che recuperino il senso perduto del proprio valore. Si cerca di prevenire gli abusi, ma ci si riesce solo se c’è consapevolezza. I tre centri di Weworld, tutti nelle periferie delle grandi città, funzionano nello stesso modo: prendono in carico la coppia mamma/ figlio con un approccio integrato. Si lavora insieme, con attività di coppia, o anche separatamente. E ci sono i momenti di svago, con la merenda, le chiacchiere, il caffè. Le mamme sanno che lì non si fa baby parking e basta, ma si ascolta, si osserva, si viene incontro ai bambini. Non sempre le donne raccontano quel che succede in casa, almeno non subito. Ancora più difficile è capire cosa i figli hanno subito o visto in famiglia (il termine corretto, in questi casi, è violenza assistita). Il lavoro con loro è lungo, indiretto ma, diciamolo subito, nella stragrande maggioranza dei casi raggiunge buoni risultati. Come nel caso di Paola: in un altro disegno ha rappresentato tutta la famiglia ma solo il papà ha la bocca all’ingiù. Ora lei e la mamma sono finalmente lontane da quell’uomo che non sorrideva. Toscana. Garante dei detenuti, Ceraudo ha profilo umano e professionale appropriato di Adriano Sofri Ristretti Orizzonti, 29 febbraio 2020 Il Garante Regionale dei detenuti per la Toscana, Franco Corleone ha completato il suo mandato, compresa la proroga prevista dalla Legge. Bisogna consultare le Associazioni e i movimenti che si occupano di Giustizia e carcere. Ora la nomina incombe, e bisogna sperare che la candidatura prescelta appartenga alla persona dal curriculum e dai titoli più appropriati alla responsabilità che assumerà. Mi auguro vivamente che i Consiglieri Regionali se ne ricordino e si guardino dal far prevalere calcoli di opportunità di partito e di correnti. Si tratta di andare nelle galere a vedere e auscultare i giorni e le notti degli esseri umani detenuti. Non di un titolo in più da stampare sul proprio biglietto da visita. Conosco bene Francesco Ceraudo, già Direttore del Centro Clinico Don Bosco di Pisa. Non immagina per sé una realizzazione migliore di quella che lo ha sempre tenuto dalla parte dei detenuti e dei diritti, a cominciare da quello alla salute. Se il Garante regionale dei detenuti dovesse essere uno intenzionato ad auscultare le pareti sudate e i pavimenti macchiati delle celle nude, uno capace di presentarsi a San Gimignano, così da essere temuto all'inizio, amato poi, allora quello buono è Ceraudo. Ha il profilo umano e professionale appropriato. Campania. Uspp: “Provvedimenti coronavirus, colloqui detenuti-parenti solo via web” Il Mattino, 29 febbraio 2020 Colloqui tra detenuti e parenti solo via web, sospensione dei permessi d'uscita e degli ingressi, l'istituzione di un'unità di crisi del Provveditorato e dotare gli operatori di mascherina e altri dispositivi di protezione. A chiederlo, al provveditore regionale dell'amministrazione penitenziaria Antonio Fullone, è Ciro Auricchio, dell'Unione Sindacati di Polizia Penitenziaria, al fine di tutelare la salute dei carcerati e del personale in servizio negli istituti di pena. “In un clima di tensione come quello che stiamo vivendo, con agenti e detenuti preoccupati - dice il sindacalista - è bene calmierare ma soprattutto prevenire la diffusione del contagio secondo le linee dettate dal Ministero della Salute: chiediamo l'individuazione di spazi nelle sezioni detentive da dedicare a eventuali soggetti in quarantena e, per eventuali casi più gravi che richiedano l'ospedalizzazione, aree dedicate esclusivamente alla popolazione carceraria”. Torino. Si rompe il ventilatore a mascherina dell’ossigeno e il detenuto muore La Stampa, 29 febbraio 2020 Aperta un’inchiesta. Il 37enne marocchino, al Lorusso e Cutugno di Torino per rapina, aveva tentato il suicidio in carcere. I soccorritori non riuscirono a salvarlo. La Procura di Torino ha aperto un fascicolo, al momento a carico di ignoti, per la morte di un 37enne di origine marocchina che la sera del 31 gennaio si era suicidato nella sua cella, sezione “Nuovi giunti” del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, inalando del gas dalla bomboletta di un fornelletto dopo aver infilato la testa in un sacchetto di plastica. Il reato ipotizzato è omicidio colposo. A quanto si apprende, durante i soccorsi si sarebbe rotto il ventilatore a mascherina utilizzato per somministrare l'ossigeno. Sul posto erano intervenute due ambulanze del 118 e il medico di guardia del carcere. Dall'esame autoptico è emerso che l'uomo è deceduto per morte per spazio confinato e che era già morto all'arrivo dei soccorsi. Il 37enne, in carcere per rapina, avrebbe dovuto essere rimpatriato a metà febbraio. San Gimignano (Si). Violenze in carcere, il video dell’aggressione al detenuto tunisino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 febbraio 2020 Il 23 aprile l’udienza preliminare per la richiesta di rinvio a giudizio per i 5 agenti. Il 23 aprile ci sarà l’udienza preliminare per la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di cinque agenti penitenziari accusati, tutti, di 613 bis (il reato di tortura) per la presunta violenza commessa nel carcere di San Gimignano e un medico per omissione d’atti d’ufficio. La vicenda è nota. Gli agenti avrebbero abusato dei poteri o comunque violato i doveri inerenti alla funzione o al servizio svolto, con il pretesto di dover trasferire coattivamente il detenuto tunisino in isolamento da una cella ad un’altra, con minaccia grave, violenza e “agendo - si legge nell’ordinanza - con crudeltà e al solo scopo di intimidazione nei confronti del medesimo e degli altri detenuti in isolamento, cagionavano a quest’ultimo acute sofferenze fisiche e lo sottoponevano ad un trattamento inumano e degradante”. Il fatto sarebbe - come riportato in esclusiva su Il Dubbio su segnalazione dell’associazione Yairaiha Onlus - avvenuto l’11 ottobre del 2018. Il malcapitato è un tunisino, classe 1988, condannato - non in via definitiva a un anno di pena da scontare. In realtà è finito in custodia cautelare in carcere, perché aveva trasgredito alle misure domiciliari. A ricostruire i fatti sono stati quelli del Nic, il Nucleo Investigativo Centrale istituito con il decreto ministeriale del 14 giugno 2007. A tutti gli effetti un servizio di polizia giudiziaria che combatte i reati commessi in ambito penitenziario. La ricostruzione dei fatti è stata agevolata dalle immagini estratte dal sistema di videosorveglianza installato nel reparto isolamento della Casa di Reclusione di San Gimignano. Il sistema si compone di quattro telecamere, due per il lato A e due per il lato B installate in maniera contrapposta. Si evince, dalla ricostruzione del Nic, che l’11 ottobre del 2018 quattordici soggetti appartenenti alla Polizia penitenziaria che in precedenza, a più riprese, erano sopraggiunti nel reparto isolamento, capeggiati da due ispettori, si sono diretti verso la cella del detenuto tunisino. C’è anche il quindicesimo agente che si trovava nell’altro lato del reparto isolamento di fronte alla cella n. 19 del lato B destinata al detenuto vittima dei pestaggi. Quest’ultimo, dopo l’apertura del cancello della sua cella da parte di un soggetto appartenente alla Polizia penitenziaria, si affacciava spontaneamente sulla porta. Egli vestiva una tuta scura e ciabatte infradito e portava nella mano destra una confezione di bagnoschiuma e nella mano sinistra un asciugamano ed un altro indumento, verosimilmente una maglietta o un asciugamano, di colore nero. Il detenuto, a questo punto, veniva preso per le braccia dai due ispettori, che lo indirizzavano con la forza verso il lato B dell’isolamento. Sempre dalle immagini si vede che il tunisino, pur se calzava delle ciabatte infradito, era costretto a correre. All’improvviso un agente penitenziario corpulento, con una maglia bianca a maniche corte, calvo, rimasto nelle retrovie, si faceva largo tra i colleghi e, giunto in prossimità dei tre, sferrava dall’alto verso il basso un pugno con il quale colpiva violentemente il detenuto. In quel momento, tirato giù anche dall’ispettore oltre che dal pugno sferratogli dall’assistente capo, cadeva a terra. Sempre dall’informativa del Nic, emerge che in questo frangente si notava l’assistente capo, del peso di circa 120 chili, montare addosso al malcapitato con le ginocchia (poste all’altezza della vita e delle gambe) mentre l’ispettore lo teneva per il braccio destro e un altro agente lo prendeva per il collo, contribuendo alla forzata immobilizzazione del detenuto. A questo punto il tunisino veniva completamente circondato da tutti i soggetti appartenenti alla Polizia penitenziaria intervenuti, che creavano una sorta di “copertura” rispetto alle telecamere. Dalla visione delle immagini “appare - scrive il Nic - possibile distintamente osservare dei movimenti di piedi e dei movimenti concitati delle braccia, che rendono altamente verosimile la circostanza che il tunisino sia rimasto vittima di un vero e proprio pestaggio”. Non mancano le testimonianze dei detenuti in alta sicurezza. Uno sarebbe stato minacciato perché avrebbe gridato di farla finita. “Mi ha aperto il blindo e mi ha detto… ora mi hai rotto i coglioni!!... La fai finita?..., urlando, e poi con un gesto violento ha inserito la mano e il braccio nel blindo e mi ha colpito sulla fronte. Io di scatto sono indietreggiato e sono caduto all’indietro e sono rimasto stordito per qualche secondo o minuto. Mi sono ripreso e sentivo che le guardie, nel corridoio, offendevano e minacciavano noi detenuti con frasi del tipo… Sei un infame, il canterino di San Gimignano! Questo per fare sentire agli altri detenuti e per metterci gli uni contro gli altri…”, testimonia un detenuto di alta sicurezza. Quattro sono i testimoni ristretti in isolamento. In quel reparto, si evince sempre dall’ordinanza, regnava un clima di tensione da almeno due mesi antecedenti all’episodio, “al quale - si legge - non era certamente estraneo l’atteggiamento aggressivo, provocatorio, vessatorio ed intimidatorio tenuto dai soggetti appartenenti alla Polizia penitenziaria a far data dal 23.8.2018”. C’è l’esempio di un altro detenuto straniero che spesso si autolesionava e - secondo una testimonianza - “non gli mandavano mai i soccorsi. Una volta dalle due del pomeriggio i soccorsi sono arrivati alle otto di sera. Il dottore non andava mai da lui…”. In questo contesto è stata importante la professionalità di una dottoressa che ha stilato i referti medici, riportando anche le testimonianze. Ciò non sarebbe andato giù all’ispettore e per questo motivo avrebbe mostrato un profondo risentimento nei confronti del medico. Si legge che l’ispettore avrebbe preteso, in maniera del tutto ingiustificata e scorretta, che le dichiarazioni provenienti dai detenuti fossero riportate nei referti medici soltanto ed esclusivamente laddove “le stesse non fossero potenzialmente pregiudizievoli per i soggetti appartenenti alla Polizia penitenziaria”. C’è un episodio spiacevole riportato dalla dottoressa. Durante un’accesa discussione, l’ispettore le avrebbe involontariamente urtato con una mano il suo seno. Allora lei, visto che la discussione si faceva con toni più accesi, presa dalla rabbia, gli ha detto che l’avrebbe denunciato per violenza sessuale se non se ne andava subito dall’area sanitaria. Dopodiché, alla presenza di tutti gli agenti che accompagnavano i detenuti, nonché delle infermiere, l’ispettore avrebbe iniziato a dirle: “Dottoressa, lei mi deve chiedere scusa anche perché lei non è manco bella… e poi a me non mi manca, anzi ne ho troppa”. Questo era il clima che si sarebbe respirato. Violenze, minacce e rimproveri anche nei confronti di chi svolgeva con professionalità il proprio lavoro. Però non mancano, come si evince dalle testimonianze, anche gli imbarazzi da parte di altri agenti penitenziari che avrebbero addirittura incoraggiato alcuni detenuti a denunciare tale situazione. Nei giorni immediatamente successivi alla notizia divenuta di dominio pubblico, a ripercorrere le vicende che hanno portato alle indagini della magistratura è stato proprio il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, durante una conferenza stampa. Sono almeno due gli elementi evidenziati. Il primo riguarda l’avvio delle indagini: se le presunte torture sono venute alla luce è per merito della stessa polizia penitenziaria che ha condotto le indagini. Il secondo riguarda l’importanza per l’amministrazione penitenziaria di avere una direzione stabile. È stato infatti durante un periodo di assenza della figura del direttore che i fatti incriminati si sono svolti. Il 23 aprile si deciderà per il rinvio a giudizio. Agrigento. Tubercolosi in carcere: controlli a detenuti e agenti, 20 test positivi agrigentonotizie.it, 29 febbraio 2020 Sono stati sottoposti all'accertamento tutti coloro che sono venuti in contatto con il detenuto malato di Tbc che è stato recluso - nella casa circondariale - dal novembre del 2019. Venti persone fra detenuti, personale civile e agenti della polizia Penitenziaria in servizio alla casa circondariale “Di Lorenzo” di Agrigento, sono risultati positivi al test della tubercolosi. Non significa che i venti siano malati, ma occorrerà che vengano sottoposti ad ulteriori indagini diagnostiche come ad esempio una radiografia polmonare. Al momento al carcere di contrada Petrusa, fra detenuti, agenti della polizia Penitenziaria e docenti, sono stati fatti circa 150 test. Ad essere controllati sono stati tutti coloro che sono venuti in contatto o che possano essere venuti in contatto con il detenuto malato di Tbc che è stato recluso - nella casa circondariale agrigentina - dal novembre del 2019. Ma non è finita perché, a quanto pare, almeno altri 150 test verranno eseguiti nei prossimi giorni. Intanto, a quanto pare, polizia penitenziaria di Agrigento e direttore della Casa circondariale sono stati convocati - il prossimo 13 marzo - dal Provveditorato dell'amministrazione penitenziaria. Verona. Tribunale, stretta anti “assembramento” di Laura Tedesco Corriere di Verona, 29 febbraio 2020 Tribunale sempre più “blindato” contro lo spettro del coronavirus. Da ieri, è infatti scattata a palazzo di giustizia un’ulteriore “stretta anti-assembramento” nelle aule e lungo i corridoi. Si tratta di un provvedimento “pilota” che potrebbe “far scuola ed essere adottato in chiave preventiva anche negli altri tribunali finché si protrarranno l’emergenza e la psicosi di questi giorni”. In che modo? È presto detto: il presidente della sezione penale Sandro Sperandio, su richiesta e iniziativa della Camera penale e del Consiglio dell’ordine, ha ordinato che le udienze filtro - le più affollate - fino a mercoledì 3 marzo siano differite dal magistrato d’udienza a patto che sia presente un difensore che sostituisca tutti gli altri. Questo allo scopo di “venire incontro agli avvocati che si lamentavano degli assembramenti fuori udienza” che avrebbero “ipoteticamente potuto agevolare il contagio da coronavirus”. Sia la Camera penale che il Consiglio dell’ordine hanno quindi messo a disposizione un difensore che sostituisca tutti. “Visto il provvedimento del Presidente della sezione penale dottor Sandro Sperandio, con il quale si dispone il rinvio delle udienze-filtro da citazione diretta dal 27 febbraio al 3 marzo 2020, il Direttivo della Camera Penale Veronese e l’Ordine degli Avvocati di Verona si rendono disponibili, per mezzo dei rispettivi Consiglieri, ad essere presenti per i giorni indicati, in sostituzione dei colleghi, e ad annotare le date di rinvio delle udienze. Pertanto - si legge nella comunicazione notificata nelle scorse ore a tutti gli iscritti all’Ordine scaligero - chi non sarà presente verrà sostituito. Sottolineiamo che la sostituzione è funzionale ad evitare la compresenza di più persone, cosa quanto mai opportuna in questo momento; vi invitiamo altresì ad evitare il più possibile la presenza in udienza delle parti. Successivamente, all’esito delle udienze, invieremo mail agli iscritti con le date dei rinvii della giornata”. A seguire, l’elenco dei nominativi dei legali “prescelti” per fare le veci dei colleghi giorno per giorno fino a mercoledì prossimo. Tutto ciò dopo che a Verona il sistema-giustizia già da alcuni giorni ha cercato di reagire al rischio coronavirus attraverso l’adozione da parte del Tribunale - con una circolare di tre pagine firmata dalla presidente Antonella Magaraggia - di una serie di provvedimenti che regolano l’accesso alle aule, accordano il legittimo impedimento alle parti che si trovano nelle zone rosse e prevedono limiti d’orario al funzionamento delle cancellerie. Misura, quest’ultima, riguardo cui serpeggiano “malumore e preoccupazione” soprattutto per le “cancellerie a orario ridotto”, che rendono problematica la visione dei fascicoli prima delle udienze, e per l’apertura della segretaria amministrativa “solo per il deposito degli urgenti dalle ore 9 alle 10 e dalle 13 alle 13.30”. A fronte di ciò, ieri si è diffuso un certo allarmismo per la presenza in tribunale e in udienza di un avvocato di Monselice, a “una manciata di km dalla zona rossa”. Trento. I detenuti di Spini a lezione di Costituzione e immigrazione giornaletrentino.it, 29 febbraio 2020 “Dietro ad ogni diritto affermato nella Costituzione c'è una situazione orribile che in futuro si vorrebbe prevenire” ha sottolineato ieri Andrea Pugiotto, docente di Diritto Costituzionale a Ferrara, portando ad esempio Auschwitz o lo sgancio delle bombe atomiche sul Giappone nel 1945. Parole forti, ma ricche di significato, pronunciate davanti ad un pubblico particolare, visto che il seminario in questione, “Principi costituzionali, migrazione e tutela dei diritti”, si è svolto nel carcere di Spini. Davanti ad un pubblico composto anche dai detenuti hanno quindi preso la parola diversi esperti del settore, che hanno detto la loro riguardo ad un tema sempre attuale come la Costituzione italiana ed i diritti dei cittadini italiani e non. Questo seminario arriva al termine di un percorso, nato grazie alla collaborazione tra la facoltà di giurisprudenza di Trento e l’associazione provinciale per l’aiuto sociale (Apas), “Oltre i confini”, che ha permesso a due classi di studenti della casa circondariale di confrontarsi con temi molto rilevanti, per contribuire al reinserimento sociale attraverso la conoscenza e la cultura. Rispetto alla prima edizione dell'iniziativa, nel 2017, in questa seconda si è deciso di raddoppiare i corsi, non parlando solo di Costituzione, ma anche dell'immigrazione. Una decisione che appare più che logica considerando che quasi il 72% dei detenuti di Spini sono stranieri. Nel corso del suo intervento “La tutela dei diritti dei detenuti stranieri”, la garante dei diritti dei detenuti per la Provincia, Antonia Menghini, ha spiegato come le difficoltà linguistiche, economiche e familiari diventino un problema quando si tratta di accedere a misure cautelari alternative, alla difesa giuridica oppure alla semplice imparzialità di trattamento. A chiudere il seminario, la giudice della Corte costituzionale Daria De Pretis che, riguardo alla Costituzione ed alle sue applicazioni, ha ricordato come: “il testo spiega modi e limiti con cui il popolo esercita il potere. Ma quello che la maggioranza della popolazione vuole non sempre è compatibile con alcuni diritti non negoziabili ed inviolabili, enunciati proprio nella Carta”. Bergamo. Rinnovata la convenzione tra Provincia e “Carcere e Territorio” informatoreorobico.it, 29 febbraio 2020 Per l’inserimento lavorativo dei detenuti. Il progetto coinvolge, oltre all’associazione Carcere e Territorio, la Casa Circondariale di Bergamo, l’Uepe (Ufficio locale esecuzione per l’esecuzione penale esterna) di Bergamo e il Consorzio Mestieri Lombardia. Ieri mattina, il presidente della Provincia Gianfranco Gafforelli, ha firmato il rinnovo per l’anno 2020 della Convenzione per la realizzazione del progetto Carcere e Territorio per l’inserimento lavorativo di persone in esecuzione penale. La Provincia di Bergamo si rende disponibile a realizzare tirocini extra curriculari nel Settore Viabilità rivolti a detenuti e a persone in esecuzione penale fuori dal carcere. Il Carcere e L’Uepe, in collaborazione con la Magistratura di Sorveglianza, individuano i soggetti in esecuzione penale da proporre come beneficiari dei tirocini. Il Consorzio Mestieri predispone la convenzione con la documentazione amministrativa e progettuale necessaria all’attivazione dei tirocini, provvedendo alle assicurazioni e all’erogazione ai beneficiari delle borse lavoro: 500 € per il tempo pieno e 350 € per il tempo parziale. La Provincia per la realizzazione del progetto assume in forma diretta le spese relative alla fornitura di divise e alle visite del medico competente, nonché la messa a disposizione di quanto è necessario per lo svolgimento del lavoro. Eroga inoltre sotto forma di contributo all’Associazione le spese relative alle borse lavoro, ai pasti, alle assicurazioni Inail e responsabilità civile e le spese relative alla formazione in tema di sicurezza del lavoro. Nel 2019 la Provincia ha impiegato tre persone nel Servizio Progettazione e manutenzione viabilità, di cui due come cantonieri e una in ufficio, con riscontro positivo sia da parte dei soggetti coinvolti che da parte dell’Ente. “Siamo molto felici di fare la nostra parte come Provincia e di dare un’opportunità a queste persone”, ha detto il presidente Gafforelli, “ci impegniamo anche a inviare una lettera a tutti i Comuni per sensibilizzare all’adesione a questo progetto e per diffondere l’iniziativa sul territorio.” Il ruolo di via Tasso anche nella sensibilizzazione dei Comuni è stato sottolineato anche dalla Consigliera provinciale, Romina Russo, rappresentante della Provincia del Comitato Carcere e Territorio, che ha commentato: “So che molti Comuni già hanno in essere convenzioni come questa, credo sia dovere della Provincia, alla luce degli esiti positivi, adoperarsi anche per promuovere l’iniziativa presso gli Enti del territorio”. La direttrice del carcere di Bergamo Teresa Mazzotta ha sottolineato le ricadute positive del progetto per il reinserimento sociale di queste persone dicendo: “Qualificarsi e inserirsi in un contesto esterno, rientrare in famiglia con un’opportunità di avere un reddito, superare la diffidenza iniziale delle persone con cui lavorano e sentirsi accolti, sono tutti elementi di vitale importanza per giungere a un vero reinserimento, che ricordo essere un principio dettato dalla nostra Costituzione”. Hanno partecipato all’incontro anche Lucia Manenti, direttrice Uepe di Bergamo, e il presidente del Comitato Carcere e Territorio, Fausto Gritti accompagnato dal vicepresidente dell’associazione, Gino Gelmi. Accanto ai tirocini previsti da questa Convenzione (tre anche per il 2020), la Provincia ha intenzione di attivare anche un progetto di lavoro socialmente utile finalizzato alla raccolta dei rifiuti lungo le strade provinciali. Bergamo. In carcere arrivano i cani per abbassare lo stress di Antonella Barone gnewsonline.it, 29 febbraio 2020 Pisa, Velletri, Livorno, Padova, Milano San Vittore, Bollate: sono solo alcuni degli Istituti penitenziari in cui ormai da anni si praticano ‘interventi assistiti con animali’ (IAA), una co-terapia integrativa degli approcci standard nel percorso riabilitativo dei detenuti. Dal 2008 cani e altri animali da compagnia hanno iniziato a essere coinvolti in progetti trattamentali strutturati all’interno degli istituti penitenziari, in seguito alla promulgazione dell’Accordo tra Stato e Regioni sulle linee guida nazionali per gli IAA. In molti casi gli interventi sono destinati non solo ai detenuti ma anche alle famiglie e, in particolare, ai figli minori, come nel caso di un progetto di sostegno alla genitorialità di Telefono Azzurro, grazie al quale dal 2018 in alcuni istituti toscani è consentito ai bambini di visitare i propri genitori detenuti alla presenza di un cane. A breve anche la casa circondariale di Bergamo avvierà un progetto di ricerca IAA con l’obiettivo di aumentare la socialità dei detenuti portatori di disagio psicologico e con difficoltà di adattamento all’interno dell’istituto di pena. I detenuti partecipanti saranno individuati dall’equipe di osservazione e trattamento della casa circondariale e sottoposti ad alcuni test di ammissione alla sperimentazione. Il progetto coinvolgerà 18 detenuti, quattro coadiutori e quattro cani. In tutto 14 incontri, uno a settimana, della durata di un’ora circa. Obiettivi del progetto: favorire un migliore adattamento al carcere, gestire la propria emotività, abbassare i livelli di ansia e di stress. Volterra (Pi). Tornano le “Cene galeotte” preparate e servite dai detenuti pisatoday.it, 29 febbraio 2020 Il progetto punta ad offrire formazione nel campo della ristorazione con i proventi che saranno devoluti in beneficenza. Dal 17 aprile al 7 agosto tornano le “Cene galeotte”, progetto ideato dalla direzione della Casa di Reclusione di Volterra e realizzato in collaborazione con Unicoop Firenze e la Fondazione Il Cuore Si Scioglie Onlus, che dal 2006 fa della struttura toscana non solo un luogo unico di integrazione e solidarietà, ma anche un punto di riferimento per tanti altri istituti italiani che propongono analoghi percorsi rieducativi. In oltre 30 casi questa esperienza si è tradotta in impiego presso ristoranti e strutture esterne, a pena terminata o secondo l'art. 21 che regolamenta il lavoro al di fuori del carcere. Oltre mille i partecipanti della scorsa edizione e più di 16mila visitatori dall'esordio di un'iniziativa che propone ai detenuti un percorso formativo attraverso cene mensili aperte al pubblico e realizzate con il supporto a titolo gratuito di chef professionisti. Il ricavato di ogni serata - 45 euro il costo, 35 per soci Unicoop Firenze per circa 100 i posti disponibili - è interamente devoluto dalla Fondazione Il Cuore Si Scioglie Onlus a progetti di beneficenza di respiro nazionale ed internazionale, realizzati in collaborazione con il mondo del volontariato laico e cattolico. Le Cene galeotte sono possibili grazie al sostegno economico di Unicoop Firenze, al fianco della struttura carceraria di Volterra fin dalla nascita del progetto, che oltre a fornire gratuitamente le materie prime necessarie alla preparazione dei menu assume regolarmente i detenuti per le giornate in cui sono impegnati nella realizzazione dell’evento. Fra le novità di questa nuova edizione la partnership con il Movimento turismo del vino Toscana, associazione vinicola di riferimento nel panorama regionale le cui aziende, coinvolte nel progetto dalla Fisar Delegazione Storica di Volterra, metteranno a disposizione gratuitamente i propri vini. Poi un progetto fotografico vedrà ogni sera raccontata dagli scatti di professionisti, presenti sempre in maniera gratuita, le cui opere saranno raccolte a fine edizione in una mostra. L'iniziativa è realizzata dalla Casa di Reclusione di Volterra con la supervisione artistica del giornalista Leonardo Romanelli. I cui vini sono abbinati e serviti ai tavoli con il supporto dei sommelier della Fisar-Delegazione Storica di Volterra, dal 2007 partner storico del progetto impegnato anche nella realizzazione di corsi di avvicinamento al vino tesi a favorire il reinserimento dei carcerati. Palermo. “Quello che rimane”, una riflessione sul tema della libertà e della reclusione finestresullarte.info, 29 febbraio 2020 Il progetto di Loredana Longo a Palazzo Branciforte. Dal 28 febbraio al 29 marzo 2020, Palazzo Branciforte a Palermo ospita “Quello che rimane”, mostra ideata dall’artista Loredana Longo (Catania, 1967) come risultato finale del progetto L’arte della Libertà, curato da Elisa Fulco e Antonio Leone, all’interno della Casa di Reclusione Calogero di Bona - Ucciardone di Palermo Il progetto si configura come un diario di bordo che documenta con scritte, disegni e oggetti il processo artistico che ha trasformato l’esperienza del tempo condiviso di trenta persone, tra detenuti, operatori socio sanitari, operatori museali e polizia penitenziaria, in installazioni, video e performance. Le opere, disseminate negli spazi labirintici del Monte dei Pegni di Palazzo Branciforte e che funzionano come capitoli di una storia attraverso cui rileggere le tappe del progetto, intendono dar corpo a una riflessione corale sul tema della libertà e della reclusione, del tempo come personale unità di misura e della creatività, come forma residuale di libertà e via di fuga da spazi chiusi e da pensieri limitanti. Dall’insegna luminosa Volare per una farfalla non è una scelta all’omonima maglietta che ospita la frase-manifesto del progetto, elaborata dal gruppo il primo giorno di lavoro; dall’installazione Il buco nella rete, composta di strisce di tessuto su cui sono raccolte le frasi sulla libertà realizzate dal gruppo misto dei partecipanti, le cui parole fluorescenti, appositamente illuminate, aprono nuove prospettive, a Il Tempo che rimane, sorta di tenda che scandisce il tempo in parti uguali, ospitando modi diversi di rappresentarlo e di interpretarlo graficamente. A questi lavori si aggiunge il ciclo di performance che, attraverso le video installazioni, mette in scena il cambiamento del rapporto tra tempo e spazio quando ci si muove in percorsi obbligati e costrittivi come in Avanti e indietro dove il corridoio diventa il luogo di passeggiate forzate; o in La mappa dell’abitudine, ricostruzione dello spazio di una cella a partire dai disegni preparatori; in Il Tempo del tempo libero, dove sono mimati i camminamenti dei detenuti nelle ore di libertà, le cui tracce diventano dei ghirigori grafici che segnano le traiettorie prodotte dai performer indossando stivali di gomma con tacchi di grafite; e in Il muro di carne dove un cerchio umano impedisce alle persone di uscire. La mostra, dunque, vuole ribaltare e cancella le distinzioni tra libertà e detenzione, rivelando l’ambiguità implicita nel concetto stesso di libertà, mostrando come la creatività, sospendendo ruoli e funzioni sociali, riporta l’attenzione sui bisogni e i desideri comuni, creando una nuova immagine del carcere, che apre e collega simbolicamente il dentro al fuori. Inoltre, in occasione dell’esposizione, sarà presentato il video documentario curato da Elisa Fulco e Antonio Leone, con la regia di Georgia Palazzolo. A fine mostra sarà pubblicato il libro del progetto (Acrobazie edizioni) con le testimonianze di tutti i partecipanti; il calendario delle attività svolte durante il workshop con Loredana Longo a cui si aggiungeranno quelle con gli artisti ospiti del laboratorio permanente (Stefania Galegati, Marco Mirabile, Ignazio Mortellaro, Sandrine Nicoletta); le lezioni di arte contemporanea in carcere, e le visite guidate nei principali musei cittadini. “Se l’arte è in generale un’espressione di libertà”, commenta Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione Con Il Sud, tra gli organizzatori della rassegna, “proporla all’interno di un carcere vuol dire farne anche un potente strumento di liberazione, attraverso il quale far emergere la conoscenza e la consapevolezza della propria persona. La sfida è di dimostrare che la pena non è l’inizio di un destino segnato, ma è piuttosto un bivio davanti al quale è possibile intraprendere una nuova strada. Avere accanto le giuste persone e le giuste opportunità in questo cammino è di fondamentale importanza per vincere. La Fondazione Con Il Sud ha sostenuto questo progetto, e altre circa 30 iniziative nello stesso ambito, perché crediamo nella possibilità di fare della pena un momento per ricostruire il rapporto con la società, non per romperlo”. “Siamo particolarmente felici di ospitare questa seconda fase del progetto per tanti motivi”, sottolinea Raffaele Bonsignore, presidente di Fondazione Sicilia, che come Fondazione Con Il Sud sostiene il progetto. “Primo fra tutti è accogliere una mostra che racchiude la sensibilità e la creatività dei detenuti su temi che li riguardano personalmente e su cui tutti noi siamo chiamati a riflettere. Tra gli obiettivi della Fondazione figurano, da sempre, il dialogo e l’inclusione, e questa iniziativa li favorisce entrambi”. La mostra apre il 29 febbraio dalle 9:30 alle 14:30, dal 1° al 29 marzo dalle 9:30 alle 19:30 (la biglietteria chiude un’ora prima). Chiuso il lunedì. Biglietti: intero 7 euro, ridotto 5 euro per (gruppi di almeno 15 persone, over 65 e convenzionati), gratis per le scuole e gli under 18. Per info: 091 8887767, 091 7657621, info@palazzobranciforte.it o collegarsi al sito di Palazzo Branciforte. Saluzzo (Cn). Posticipato a inizio aprile lo spettacolo teatrale dei detenuti ideawebtv.it, 29 febbraio 2020 “Ulisse. Una storia sbagliata” si svolgerà il 3, 4 e 5 aprile. Ingresso a pagamento, con nuova prenotazione obbligatoria, entro domenica 15 marzo. A causa dell’allarme sanitario provocato dal “Coronavirus” e in ottemperanza alle misure contenitive dell’emergenza ancora in atto, la Direzione della Casa di Reclusione di Saluzzo “Rodolfo Morandi” ha ritenuto necessario bloccare l’ingresso dei civili all’interno del carcere. Pertanto, lo spettacolo “Ulisse”. Una storia sbagliata” a cura dell’associazione di formazione e produzione teatrale Voci Erranti, inizialmente in programma nei giorni 6, 7 e 8 marzo è stato posticipato a venerdì 3, sabato 4 e domenica 5 aprile, sempre alle ore 15 e in replica alle ore 17. Tutte le prenotazioni effettuate sono state pertanto annullate: per chi desidera partecipare allo spettacolo deve necessariamente effettuare una nuova prenotazione, entro domenica 15 marzo, scrivendo una mail a info@vocierranti.org o telefonando ai numeri 380/1758323 - 340/3732192 - 339/1015657. Il costo del biglietto intero è di 10 euro, studenti 8 euro, 5 euro per gli under 14. Lo spettacolo rientra nel progetto “Per aspera ad astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, promosso da Acri (l’associazione delle Fondazioni di origine bancaria) e sostenuto da 11 Fondazioni di origine bancaria, tra cui la Fondazione Crc. Allo spettacolo teatrale hanno lavorato in questi mesi 30 detenuti: 20 saliranno sul palco come attori, 5 detenuti si occuperanno della parte audio/luci e altri 5 lavorano alla realizzazione della scenografia e dei costumi. I ricatti di Erdogan e il contagio della vergogna di Alberto Negri Il Manifesto, 29 febbraio 2020 Erdogan ricatta gli europei minacciando ondate di profughi e non è detto che non lo possa fare anche in Libia dove tiene per il bavero il governo di Tripoli, sotto attacco del generale Khalifa Haftar, alleato dei russi. Dalla Siria quasi dimenticata arriva la stagione cinica e amara dei ricatti incrociati e delle contraddizioni laceranti di un conflitto iniziato nel 2011 come una guerra civile diventata sempre di più una guerra per procura tra potenze internazionali e attori regionali. In un’area, il Medio Oriente, dove le azioni di destabilizzazione - cominciate quest’anno con l’assassinio da parte degli Usa del generale iraniano Qassem Soleimani - si accavallano alle devastanti crisi economiche, politiche e sociali interne che non lasciano scampo ai cittadini siriani, curdi, iracheni, libanesi, iraniani, palestinesi. A noi qui in Europa, per la nostra indifferenza, la mascherina del Coronavirus serve soprattutto a evitare il contagio della vergogna di non guardare quanto accade intorno a noi. Ma forse ancora per poco. A Idlib lo scenario è quello di un’immane tragedia umanitaria e di uno scontro aperto su larga scala tra Turchia e Siria nel quale Mosca, il principale sponsor di Assad con l’Iran, non può certo fare la parte dell’attore neutrale ma appare anche l’unica potenza in grado di intervenire per abbassare una tensione giunta al culmine con l’attacco aereo di Bara e Balyoun in cui sono stati uccisi 33 soldati turchi. Erdogan ricatta gli europei minacciando ondate di profughi sulla rotta balcanica che comincia in Grecia e non è detto che non lo possa fare anche in Libia dove tiene per il bavero il governo di Tripoli sotto attacco del generale Khalifa Haftar, alleato dei russi. Nelle guerre comunicanti di Siria e Libia tutto è possibile. In Grecia intanto la guerriglia per i campi profughi in costruzione sulle isole sta già favorendo l’azione di propaganda dei neonazisti di Alba dorata. La Nato - così come gli Stati Uniti - fa finta di sostenere la Turchia, membro dell’Alleanza atlantica che adesso chiede l’imposizione di una no fly zone su Idlib. Ma nessuno dei due dimentica che Erdogan ha acquistato dai russi il sistema missilistico S-400, è diventato il principale partner del gas di Mosca e che nell’ottobre scorso ha massacrato i curdi siriani, i maggiori alleati degli Usa e dell’Occidente nella lotta al Califfato. Americani ed europei non sono intervenuti allora, minacciando falsi embarghi sulle armi alla Turchia - che anche l’Italia vende a tutto spiano - difficilmente lo faranno oggi. Lo stesso capo del Pentagono Esper ha dichiarato che Washington non vuole essere coinvolta in un altro conflitto in Siria se non nella lotta al terrorismo. Se si va a guardare bene chi combatte a Idlib e provincia - dove nel 2011 vivevano 1,2 milioni di persone e adesso almeno tre, con profughi e ribelli provenienti da ogni dove - un eventuale appoggio a Erdogan significa anche un aiuto alla coalizione jihadista di Hayat Tahir al Sham, l’ex fronte al Nusra affiliato ad al Qaeda. Gli stessi soldati turchi sono mescolati ai ribelli, e non è una novità perché Erdogan ha appoggiato in questi anni i jihadisti e fatto intese con l’Isis in funzione anti-curda e anti-Assad. In poche parole, ucciso Al Baghadi, lui è diventato il vero “califfo” degli estremisti che ha spostato, insieme a truppe turche, anche a Tripoli per difendere il governo di Fayez al Sarraj in violazione dell’embargo. Secondo gli accordi di due anni fa tra Turchia, Russia e Iran nell’area di Idlib doveva essere attuato un cessate il fuoco e il disarmo dei gruppi jihadisti e ribelli con la supervisione dei militari turchi. Ma questo accordo non è stato mai attuato. Mentre Ankara occupava prima il cantone dei curdi siriani di Afrin e una parte consistente del Rojava, la Turchia - già entrata con le sue truppe in Siria nel 2016 in funzione anti-curda - ha insistito a mantenere il controllo di un territorio in base al principio di “profondità strategica”: in poche parole i turchi volevano tenere in pugno gli assi autostradali Nord-Sud verso Aleppo e Damasco e quello Est-Ovest in direzione della costa di Latakia e poi ricollocare in queste aerea una parte dei loro 3,5 milioni di profughi siriani. L’ obiettivo dell’avanzata delle truppe di Assad e dell’aviazione russa è strappare alla Turchia questi collegamenti essenziali anche con attacchi indiscriminati sui civili, come testimonia Medici senza Frontiere. Questa è la posta in gioco di una battaglia che ha già prodotto 900mila rifugiati in condizione disperate. Erdogan adesso ha cinque fronti. Due di guerra, in Siria e Libia, uno interno, sempre più insofferente sia verso i profughi siriani che nei confronti delle sue avventure militari in combutta con i jihadisti. Il quarto fronte è quello del ricatto dei profughi nei confronti dell’Europa che lo paga per tenerseli. Il quinto, il più importante, è con Vladimir Putin. Deve decidere se tentare di vincere guerre che forse non può vincere o venire a patti con il suo alleato strategico russo che gli consente di essere il più grande hub del gas nel Mediterraneo e continuare a giocare con Usa ed Europa. Forse sarà Putin a decidere per lui. La Turchia libera i migranti E l’Europa comincia a tremare di Carlo Lania Il Manifesto, 29 febbraio 2020 Frontiere aperte per 72 ore. Centinaia di profughi in marcia verso le frontiere. Subito blindate da Grecia e Bulgaria. Per i governi europei l’allarme scatta nella notte tra giovedì e venerdì quando, al termine di un consiglio di sicurezza straordinario, Recep Tayyip Erdogan decide che la Turchia non fermerà più i migranti che vogliono lasciare il Paese. “Non siamo più in grado di trattenere i profughi”, annuncia un portavoce del governo. Una decisione che nelle intenzioni di Ankara dovrebbe durare solo 72 ore, che però sono più che sufficienti per popolare di incubi la notte di molti leader del Vecchio continente. L’apertura delle frontiere è una ritorsione per l’uccisione di 33 soldati turchi avvenuta poche ore prima a Idlib, in Siria, colpiti dagli aerei di Bashar al Assad con il via libera della Russia. Un tentativo disperato, con cui Erdogan cerca di deviare l’attenzione di un’opinione pubblica interna stanca di vedere la Turchia sempre più isolata a livello internazionale, oltre che dei quasi quattro milioni di profughi presenti da anni nel Paese. Ma la decisione di aprire le porte ai migranti - più volte minacciata in passato da Ankara - è però anche un modo per tornare a ricattare l’Unione europea, che ha preso di mira la Turchia anche per le trivellazioni nel Mediterraneo. La reazione dell’Europa alle minacce è immediata e, ovviamente, non tiene conto delle sorti dei migranti che intanto, fin da ieri mattina, hanno preso a marciare incolonnati verso i confini europei e ad affollare le stazioni degli autobus comprando biglietti per le linee dirette al confine. Come è successo a Istanbul, dove nella notte decine e decine di profughi hanno acquistato biglietti per i pullman diretti a Edirne, città vicina sia al confine greco che a quello bulgaro. E proprio la Grecia è stata la prima a muoversi, preoccupata da un ulteriore aumento degli arrivi e con le isole dell’Egeo già sovraffollate all’inverosimile di profughi costretti a vivere in condizioni disperate. E lo fa con durezza annunciando un rafforzamento dei confini con la Turchia: “Non tollereremo ingressi illegali nel Paese”, dice il premier Kyriakos Mitsotakis annunciando l’aumento delle pattuglie composte da poliziotti e militari lungo il fiume Evros e il confine terrestre con la Turchia, nel nord del Paese. Ma anche l’uso massiccio di filo spinato per rendere ancora più difficili i tentativi di attraversamento. Nel frattempo non si va certo per il sottile per convincere chi non è desiderato a restarsene dall’altra parte della frontiera dove, non distante dalla città di Orestiada, nel corso della giornata si è creato un accampamento con 500 profughi. Gas lacrimogeni vengono usati dalla polizia che carica un gruppo di migranti, tra i quali anche donne e bambini, che approfittando dell’improvvisa sparizione delle guardie di frontiera turche nel pomeriggio prova ad attraversare il valico di Edirne-Pazarkule. “La Grecia non ha alcuna responsabilità per i tragici aventi in Siria e non sconterà le conseguenze delle decisioni prese dagli altri”, annuncia Mitsotakis. Stessa linea inflessibile adottata anche dalla Bulgaria, altro paese confinante con la Turchia. “Siamo preoccupati dal fatto che le guardie di frontiera turche sono state ritirate”, dice il premier Bjko Borisov che autorizzato l’invio di mille soldati lungo i 300 chilometri di confine con la Turchia. Misura che, come spiega il ministro della Difesa Krassimir Karakachanov, servono “per non far entrare neanche un singolo immigrato irregolare nel territorio bulgaro”. Come sempre, anche questa volta Erdogan alterna il bastone alla carota. E così l’apertura delle frontiere viene fatta seguire da dichiarazioni più rassicuranti come quelle con cui una nota del ministero degli Esteri assicura che la politica di Ankara nei confronti dei migranti non cambierà. Parole che servono a tranquillizzare l’Unione europea dalla quale la Turchia ha già preso sei miliardi di euro per impedire ai profughi di partire e dalla quale vorrebbe come minimo un altro miliardo. Le prime reazioni di Bruxelles sono improntate al rigore: “Dal nostro punto di vista, l’accordo sui migranti del 2016 è sempre valido e ci aspettiamo pertanto dalla Turchia che rispetti i suoi impegni”, annuncia un portavoce della Commissione europea. ma poi è tutto un susseguirsi di telefonate con esponenti del governo turco utili a cercare rassicurazioni promettendo un maggiore impegno nella ricerca di una soluzione al dramma siriano. “Ho parlato con il ministro degli Esteri turco, Mevlud Cavusoglu. La de-escalation resta la chiave per affrontare con efficacia le sfide sul terreno. La sofferenza umana e la perdita di vite devono finire”, annuncia a metà pomeriggio Joseph Borrell, rappresentante della politica Estera dell’Ue. “Ho ricevuto rassicurazioni sul fatto che la Turchia resta impegnata nell’accordo Ue-Turchia”. La Grecia chiude il confine turco ai profughi di Argiris Panagopoulos Il Manifesto, 29 febbraio 2020 L'esercito presidia la frontiera, Mitzotakis chiama Merkel. Syriza ed ex Pasok: “La Dichiarazione comune Ue-Ankara è finita”. Tensione nella Nato. La Grecia ha chiuso in pratica i suoi confini con la Turchia alle prime luci dell’alba di ieri mattina, portando centinaia di poliziotti dalle regioni della Macedonia Centrale e Orientale e dalla Tracia, mentre nelle prossime ore e giorni si aspettando nuovi rinforzi di polizia ed esercito. E ora con difficoltà passano la frontiera anche le persone con documenti regolari. “C’è una pressione sull’ingresso delle persone nei confini a causa degli immigrati. Non chiudiamo le frontiere per far passare in modo legale le persone. I confini si sigillano, ma non si chiudono. Tuttavia faremo tutto il necessario per non far passare i clandestini”, hanno riferito ieri mattina fonti del governo greco. Il primo ministro greco Mitsotakis ha avuto un colloquio telefonico con Angela Merkel, dove ha esposto le iniziative che prenderà il suo governo sui profughi e sul Coronavirus. Il portavoce della cancelleria tedesca ha detto dopo il colloquio tra Mitsotakis e Merkel che la cancelliera avrà parlerà anche con Erdogan. Mitsotakis ha parlato anche con altri leader europei per informarli del “sigillo” messo alle frontiere con la Turchia. Secondo le fonti greche Mitsotakis è in continuo collegamento con la Ue e la Nato. Perché la tensione tra Atene e Ankara si ripercuote nell’Alleanza atlantica. Dopo aver tentato invano di occupare nei giorni scorsi con forze speciali di polizia le isole di Lesbos, Chios e Samos per costruire hot spot, vale a dire carceri per i profughi e gli immigranti in mezzo al niente, Mitsotakis ha scritto su Twitter: “Un numero significativo di profughi e immigrati si è concentrato in grandi gruppi nei confini terrestri della Grecia con la Turchia e ha tentato di entrare illegalmente nel paese. Voglio essere chiaro: non tollereremo ingressi illegali. Stiamo aumentando la sicurezza nei confini. La Grecia non ha alcuna responsabilità per i fatti tragici in Siria e non subirà le conseguenze delle decisioni prese da altri. Ho informato l’Unione europea per questa situazione”. Le foto di soldati turchi che accompagnano profughi e immigrati per passare la frontiera e le notizie che la tv in turca inciterebbe i profughi e gli immigrati a passare le frontiere, anche di quelle con la Bulgaria, hanno aumentato il nervosismo sia ad Atene che a Sofia, che ha a sua volta mobilitato circa mille soldati al confine con la Turchia. Il capo dello stato maggiore greco Floros e il ministro della Protezione civile Chrisoxoidis sono arrivati ieri mattina nella regione di Evros al confine greco-turco, mentre il ministro della Marina mercantile Plakiotakis e il comandante della Guardia costiera Kliaris sono andati prima a Lesbos e dopo a Chios e Samos. Con l’obiettivo di mobilitate la polizia, l’esercito, la Guardia Costiera e la Marina militare per aumentare i controlli lungo il fiume Evros e il mar Egeo: i profughi non devono passare. Solo nel posto di frontiera di Kastanies i poliziotti in poche ore erano centinaia e l’esercito aveva già iniziato a presidiare mettendo filo spinato lungo le frontiere. Pattuglie comuni di poliziotti e soldati controllano ora tutti i passi frontalieri. A Lesbos, dove sono arrivate piccole imbarcazioni di profughi, la Guardia costiera si è rafforzata con cinque navi e 70 uomini; nell’Egeo Orientale solo la Guardia costiera ha mobilitato finora 50 navi e 1.300 uomini. In zona ci sono anche 12 navi Frontex. “La situazione è critica, una volta confermate queste informazioni, La Grecia deve chiedere la convocazione di un Consiglio europeo straordinario, per gestire la nuova situazione a livello europeo” ha detto il portavoce di Syriza ed ex ministro Charitsis. “In sostanza, se sono vere le cose venute alla luce, stiamo parlando della cancellazione della Dichiarazione comune tra Ue e la Turchia, che riguarda in primis i rifugiati dalla Siria. Politicamente è importante che la Grecia metta la questione a livello europeo”, ha continuato Charitsis. “Le minacce della Turchia per l’apertura dei confini e la moltiplicazione dei flussi migratori e dei profughi portano alla fine della Dichiarazione comune Ue-Turchia. Il governo deve proteggere con efficacia i confini e di sbloccare (da profughi e immigrati, ndr) le isole. L’Europa deve assume urgentemente le sue responsabilità”, ha scritto nel suo comunicato il Movimento Kinal, l’ex Pasok. Marijuana legale, la crisi in Borsa dei cinque big canadesi: perdite del 70% di Sergio Bocconi Corriere della Sera, 29 febbraio 2020 C’è un settore i cui big mondiali in Borsa da un anno stanno perdendo parecchio valore: quello della cannabis. I titoli dei più grandi produttori-distributori di marijuana legale, terapeutica o ricreativa, stanno attraversando una crisi significativa determinata soprattutto dalle incertezze relative al quadro regolatorio. In media i titoli dei cinque più grandi gruppi globali del settore, tutti basati in Canada, hanno perso dal febbraio 2019 il 67%. I Top5 made in Canada - Aurora Cannabis, Cronos group, Aphria, Canopy growth corporation, Tilray: quotati in Nord America (anche sul Nasdaq come Tilray), in 12 mesi hanno accusato perdite sui listini comprese fra l’80 e il 60%. In linea con il North America marijuana index, che comprende i 20 titoli maggiori, e che fra aprile e maggio 2019 ha superato quota 300 punti e ora viaggia intorno a 80. Tra l’altro i prezzi delle azioni sono soggetti anche a un’ampia volatilità, con tassi mensili di variazione che raggiungono il 15-16%. Lo rileva un’analisi di LearnBonds, sito web americano di informazione ed educazione economica relativa appunto ai Top5 mondiali del settore. Così, se nell’aprile 2019 Canopy growth (controllata dal gruppo Constellation brands, che ha marchi come la birra Corona e in Italia i vini Ruffino) quotava sopra i 48 dollari, in questi giorni scorsi è intorno a 20. Aurora Cannabis nello stesso periodo è scivolata da 9 dollari a 1,55, Cronos da 16,52 a 6,37, Aphria da 7,66 a 3,92 dollari, Tilray da 51,27 a 17,29. Se nel settembre del 2018 la capitalizzazione complessiva delle prime tre, Tilray, Canopy e Aurora, raggiungeva i 40 miliardi di dollari, oggi è intorno a 9. Incertezza regolatoria - Alla base della crisi di Borsa ci sono le molte, differenti e variabili regolamentazioni esistenti relative all’uso e quindi alla produzione-distribuzione della cannabis. Considerando gli esempi più noti e sotto i riflettori dell’industria, in Canada a fine 2018 è stata decisa la legalizzazione piena e negli Usa sono diversi gli Stati che hanno approvato norme in questa direzione, mentre a livello federale no. Fattori di variabilità e incertezza che provocano bolle speculative sulla base dei rumors (è il caso del Canada, dove seguendo indiscrezioni e attese sulla legalizzazione della cannabis i prezzi dei titoli erano saliti per poi invertire la rotta dopo l’ok ufficiale), sovra-stoccaggi, alimentano la concorrenza del mercato nero, influiscono negativamente sulle attese dei risultati, fanno percepire più rischiosi questi titoli agli investitori. Investimenti - Eppure il settore è tutt’altro che fermo. “Nonostante la sostanziale stagnazione dei temi regolatori, le corporation della cannabis stanno investendo non poco nella produzione”, dice Justinas Baltrusaitis, news editor di LearnBonds, la scommessa è rappresentata dalle promesse che sembrano pervenire da più parti relative alla legalizzazione della cannabis a uso medico. “La sfida riguarda i prodotti che vengono indicati, per esempio, per l’epilessia o i disturbi dell’Alzheimer. Il destino dell’industria della cannabis sarà dunque deciso da due fattori: la regolazione e i riconoscimenti scientifici”.