La Consulta abbandona i formalismi di Vittorio Manes* Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2020 Il legislatore continua ad attingere a piene mani alla “risorsa scarsa” del carcere, quasi inteso come strumento di “vendetta sociale”, con scelte irrispettose di ogni ordine di ragione e, prima e più in alto, del principio secondo il quale la privazione della libertà è legittima solo se limitata al “minimo sacrifico necessario”. Con una sentenza “storica”, la Corte costituzionale ha affermato l’irretroattività delle modifiche apportate all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario dalla legge n. 3 del 2019, cosiddetta “legge spazza-corrotti”, che ha esteso a molti delitti contro la Pa il regime del cosiddetto doppio binario penitenziario, tra le altre imponendo a chi subisce una condanna per reati come peculato, concussione, induzione indebita e corruzione ed altri, un forzoso “assaggio di pena”, giacché potrà chiedere l’accesso alle misure alternative solo dal carcere, e solo se saprà offrire - in linea di principio - un apprezzabile contributo di collaborazione all’autorità giudiziaria. Si era anche recentemente sostenuto che tali modifiche - in linea con l’orientamento giurisprudenziale dominante che ha sempre considerato le norme dell’ordinamento penitenziario sottratte alla garanzia dell’irretroattività - dovessero ritenersi immediatamente applicabili, anche cioè a coloro che avessero commesso il reato in un tempo precedente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. Molti giudici, peraltro, hanno sin da subito coraggiosamente contraddetto questa linea: taluni affermando la doverosità di una diversa interpretazione, conforme alla Costituzione e alla Cedu, altri sollevando, appunto, questione di legittimità costituzionale. La Corte - in una prima decisione assunta l’11 febbraio scorso e depositata mercoledì scorso - ha ritenuto fondati i profili di evidente incostituzionalità denunciati, posti “al cuore stesso del concetto di stato di diritto”: abbandonando la tradizionale impostazione formalistica ed estendendo il principio di irretroattività ogni volta che “la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”. Sono appunto tali le modifiche che - per il tramite della citata estensione del regime di ostatività di cui all’articolo 4 bis - alterano in senso peggiorativo i presupposti di ottenimento dell’affidamento in prova ai servizi sociali, della semilibertà o della liberazione condizionale; ma non - secondo il distinguo accolto dalla Corte - quelle concernenti i permessi premio e il lavoro all’esterno. Peraltro, sulla base di questa prima decisione, una seconda rosa di questioni di costituzionalità è stata restituita ai giudici che le avevano sollevate (con decisione del 26 febbraio), chiedendogli di valutare la perdurante rilevanza - o meno - nei rispettivi giudizi. Si era infatti da costoro posta in dubbio - in modo del tutto condivisibile - la “ragionevolezza intrinseca” della scelta legislativa di includere i reati contro la Pa nel famigerato catalogo dell’articolo 4 bis, con una scelta che finisce con omologarli ai reati di mafia e terrorismo. La questione - ancora aperta - è seria e grave, specie se la si analizza al metro - rigoroso - della più recente giurisprudenza costituzionale (da ultimo, la sentenza n. 253 del 2019, sul cosiddetto ergastolo ostativo); e meriterà dunque di essere riproposta. Sin da subito, forse: anche, cioè, in relazione alle modifiche concernenti gli istituti - come appunto i permessi premio e il lavoro all’esterno - che sono stati sottratti alla garanzia dell’irretroattività, e dunque oggetto di modifiche peggiorative immediatamente applicabili (sempre che, chiarisce ancora la Corte, non fossero già maturati, prima dell’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, i presupposti per l’ottenimento di tali benefici, perché a ciò osterebbero, ancora una volta, i principi di eguaglianza e del finalismo rieducativo della pena). Anche in questi casi, la presunzione legislativa di pericolosità che giustificherebbe il più severo regime - pur ritoccato dalla Corte con la sentenza n. 253 del 2019 - sembra non avere alcun fondamento empirico, e la collaborazione richiesta tanto curiosa quanto inutile: con le conseguenti ricadute in ordine alla (ir-)ragionevolezza del bilanciamento con la finalità rieducativa della pena, un principio mai “sacrificabile” - secondo la sentenza n. 149 del 2018 - a cui proprio permessi premio e lavoro all’esterno sono eminentemente ispirati. Stupisce non poco, peraltro, che mentre le Sezioni Unite della Cassazione saranno presto chiamate a decidere se nei 3 mq di “spazio minimo disponibile” da garantire ad ogni detenuto debba essere computato (o escluso) lo spazio occupato nella cella dal letto (singolo o “a castello”) e dal mobilio - giocandosi ormai la partita del rispetto dell’articolo 3 della Cedu sul filo dei centimetri - il legislatore continui ad attingere a piene mani alla “risorsa scarsa” del carcere, quasi inteso come strumento di “vendetta sociale”, con scelte irrispettose di ogni ordine di ragione e, prima e più in alto, del principio secondo il quale la privazione della libertà è legittima solo se limitata al “minimo sacrifico necessario”, e solo se impellenti ed oggettive ragioni impongano di preferire il regime custodiale rispetto ad alternative extra-murarie più congeniali all’istanza rieducativa. *Professore ordinario di Diritto penale Università di Bologna La “spazza-corrotti” resta retroattiva su permessi premio e lavoro esterno di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2020 La decisione della Corte costituzionale che ha bocciato la retroattività della stretta sulle condizioni di esecuzione della pena voluta dalla legge “spazza-corrotti” non coinvolge la totalità dei benefici penitenziari. Non colpisce, infatti, la portata retroattiva su permessi premio e lavoro all’esterno. Per quanto, ammette la Consulta, non si possa ignorare l’impatto di questi benefici sul grado di concreta afflittività della pena per il singolo condannato, “non pare a questa Corte che modifiche normative che si limitino a rendere più gravose le condizioni di accesso ai benefici medesimi determinino una trasformazione della natura della pena da eseguire, rispetto a quella comminata al momento del fatto e inflitta, sì da chiamare in causa la garanzia costituzionale in parola”. Così, nella lettura della Corte, il condannato che utilizza un permesso premio o che è ammesso al lavoro all’esterno del carcere, continua a scontare una pena che resta caratterizzata da una fondamentale dimensione carceraria. Resta in linea di principio “dentro” il carcere, continuando a essere soggetto alla disciplina restrittiva che caratterizza l’istituzione penitenziaria e che coinvolge tutti gli aspetti della vita del detenuto. Tuttavia la Corte invita a una gestione accorta dei casi. Proprio perché i condannati ammessi periodicamente all’utilizzo di permessi premio e a svolgere lavoro all’esterno restano detenuti che scontano la pena detentiva loro inflitta “non può non valere nei loro confronti l’esigenza di evitare disparità di trattamento, all’interno del medesimo istituto penitenziario, dipendenti soltanto dal tempo del commesso reato: disparità che sarebbero di assai problematica gestione da parte dell’amministrazione penitenziaria, e che verrebbero come tali difficilmente accettate dalla generalità dei detenuti”. Discorso diverso invece fa la Corte per l’affidamento in prova al servizio sociale, per la detenzione domiciliare nelle sue varie forme e per la semilibertà. Si tratta, ricorda la sentenza facendo riferimento a un precedente (sentenza n. 349 del 1993), di misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena e che hanno un impatto importante sul grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto; misure caratterizzate poi non solo dalla limitazione della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da una forte intenzione rieducativa. Stessa conclusione vale poi per la liberazione condizionale, istituto anche questo che ha come obiettivo il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena a chi ha, durante il percorso penitenziario, tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. Come pure l’esito è lo stesso per quanto riguarda il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena che ha come immediata conseguenza che una parte almeno della pena è effettivamente scontata in carcere, invece che con le modalità extracarcerarie che erano consentite per l’intera durata della pena inflitta sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto. La sentenza respinge poi l’obiezione per cui la prospettiva per il condannato di vedersi applicata una misura alternativa è solo ipotesi, non realtà. Infatti, osserva la Consulta, la valutazione sulla natura peggiorativa della disciplina sopravvenuta “non può, infatti, che essere condotta secondo criteri di rilevante probabilità: e ciò con riferimento tanto ai benefici accessibili per il condannato sulla base della disciplina previgente, quanto alle conseguenze deteriori che derivano dall’entrata in vigore della nuova disciplina”. La trovata per non risarcire i carcerati: “nei 3 mq a testa includete il letto” di Rita Bernardini* Il Riformista, 28 febbraio 2020 Dopo la condanna del 2013 della Cedu, sono stati introdotti indennizzi per chi vive la detenzione in condizioni degradanti. Invece di contrastare il sovraffollamento, il ministero contende sulla carta centimetri ai detenuti. Ventre da un lato la Consulta emette una sentenza storica dichiarando incostituzionale la parte della legge spazza-corrotti che estende retroattivamente il divieto di misure alternative al carcere per i condannati per reati corruttivi, dall’altro, la prima sezione penale della Corte di Cassazione decide, su impulso del Ministero della Giustizia, di rinviare alle Sezioni Unite la questione del computo degli spazi in cella ai fini della corresponsione o meno dei rimedi risarcitoti previsti dall’art. 35 ter dell’Ordinamento penitenziario per quei detenuti che siano stati costretti a vivere in una cella avendo a disposizione uno spazio inferiore ai tre metri quadri. Dalla parte della Corte Costituzionale la pena viene pesata e valutata al punto che se una legge successiva alla commissione di un reato correttivo preveda - diversamente dalla normativa preesistente - esclusivamente il carcere anziché la possibilità di accesso alle misure alternative, la sua applicazione non può essere retroattiva perché si violerebbe l’articolo 25 della Costituzione, secondo il quale nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Principio, quello dell’articolo 25, da legare strettamente all’articolo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che garantisce il principio di “prevedibilità”, nel senso che ogni persona deve conoscere anticipatamente quali condotte siano considerate un reato e quali pene siano previste per tali azioni. Dalla parte del Ministero della Giustizia la pena del carcere non solo viene sempre più considerata come unica pena in dispregio dell’articolo 27 della Costituzione che parla, invece, di “pene” al plurale, ma la si vuole così afflittiva le quindi affatto rieducativa) da stare a giocare con i centimetri pur di non pagare ai detenuti quei risarcimenti che il legislatore, nel 2014, è stato costretto ad inserire nel nostro ordinamento a seguito della sentenza Torreggiani del 2013; sentenza con la quale la Corte Edu ha condannato l’Italia per il sovraffollamento che determina condizioni di vita detentive disumane e degradanti. Preoccupa, e perciò dovrebbe occupare tutti i democratici del nostro Paese, questa distanza che si fa sempre più evidente dai principi e dal rispetto dei diritti umani fondamentali da parte dei rappresentanti delle istituzioni. I rimedi risarcitoti dovrebbero vedere il Ministero della Giustizia strenuamente impegnato a rimuovere le cause che generano il sovraffollamento penitenziario, magari prevedendo un maggiore accesso alle pene alternative. E, invece. ci tocca scoprirlo affannato a contendere al carcerato il centimetro in una cella sperando che le Sezioni Unite della Cassazione considerino il letto (perfino quello a castello a due o tre piani) o gli armadietti e gli altri arredi, come spazio vivibile, calpestabile e adeguato al movimento dei detenuti ristretti in una cella. Andarsi a rileggere la sacrosanta normativa riguardante il benessere animale negli allevamenti dei suini, può essere utile agli attori che si confronteranno in Cassazione sugli spazi detentivi degli esseri umani. Glielo suggerisco. Il Decreto Legislativo 20 febbraio 2004, n. 53, a proposito dei suini adulti, recita: “I recinti per i verri devono essere sistemati e costruiti in modo da permettere all’animale di girarsi e di avere il contatto uditivo, olfattivo e visivo con gli altri suini. Il verro adulto deve disporre di una superficie libera al suolo di almeno 6 mq”. *Partito Radicale “Il nostro piano per proteggere le carceri dal Covid-19” di Agnese Pellegrini Famiglia Cristiana, 28 febbraio 2020 Parla il Garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto. Introdotti controlli antivirus e colloqui con i parenti attraverso video-telefonate. Ma dietro le sbarre circolano troppe fake news angoscianti. Ha il piglio del magistrato, Francesco Maisto, ma anche l’attenzione alle persone propria di chi, per una vita, ha cercato di capire le motivazioni di quanti hanno commesso un reato. Specializzato in Criminologia clinica, già presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna, dallo scorso giugno Maisto è garante dei diritti delle persone limitate della libertà personale di Milano: un incarico che ricoprirà per tre anni. Nel capoluogo lombardo, sono circa 3 mila i detenuti, in tre istituti penitenziari per adulti (uno nel centro città, San Vittore, e due nell’hinterland a Bollate e a Opera), oltre all’istituto penale per minorenni Beccaria. Persone che, ai tempi del Coronavirus, rischiano di rimanere isolati più dall’ allarmismo che dalle sbarre. E di aumentare la loro “fragilità” psicologica. Ma Maisto avverte: “Anche sulle misure prese in carcere per il Coronavirus ci sono troppe fake news: gli istituti penitenziari non stanno ponendo ai detenuti maggiori limitazioni rispetto a quelle che già hanno, anzi. In molti casi, vengono organizzate videochiamate con i famigliari, per sopperire alle limitazioni dei colloqui”. E assicura: “Le persone detenute sono preoccupate? Sì, ma per noi esterni, non per loro! Perciò, in questi giorni, la raccomandazione è: scrivete, scrivete, scrivete e rassicurateli sulla vostra salute”. Come si sta cercando di evitare un’epidemia dietro le sbarre? “Ci sono vari livelli di intervento, armonizzati tra di loro. Prima di tutto, a livello nazionale, le disposizioni che ha dato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) e che riguardano la sospensione delle traduzioni tra i vari Istituti penitenziari, ovvero gli spostamenti con scorta dei detenuti, e le necessità di raccordarsi con i presidi sanitari territoriali. Ci sono poi le raccomandazioni dei provveditori regionali: da quello della Lombardia, ad esempio, le linee di indirizzo sono state date già lunedì mattina. Infine, il terzo livello di intervento riguarda il singolo istituto: può sembrare strano, ma molte precauzioni e avvertenze dipendono dalla tipologia architettonica della struttura, dagli accessi, dalle condizioni delle camere di pernottamento”. Non c’ è il rischio che, con le misure adottate, i reclusi si sentano ancora… più reclusi? “Certo, sembra che i detenuti possano avvertire, con queste misure, un maggiore isolamento rispetto a quello ordinario, ma a ben vedere si tratta di una sorta di cordone sanitario necessario per tutelarli. La fragilità psicologica è il vero isolamento. E, su questo, la Lombardia sta lavorando bene: purtroppo, però, anche in questo campo girano false notizie…”. Quali? “Ad esempio, è vero che l’accesso agli istituti, per gli esterni, è limitato, ma c’ è da distinguere tra le persone che lavorano in carcere e quelle che svolgono attività di volontariato. Per tutti, all’ ingresso, sono previsti presidi di triage, ovvero di controllo sanitario. Chi è in servizio deve attenersi alle norme di ogni cittadino: se si hanno sintomi, occorre accertare la situazione. Per i volontari, invece, l’ingresso dipende dal tipo e dalla frequenza dell’attività: alcuni sono ammessi, dotati di mascherina. È inesatto dire che tutti i volontari non possono entrare! Anche sui colloqui c’ è molta cattiva informazione: non sono stati sospesi, la disposizione è quella di vietare gli assembramenti e ciò dipende molto dalla struttura delle carceri, pensiamo alla differenza tra San Vittore e Bollate, ad esempio. Può comunque entrare un solo adulto, dotato di mascherina. Altra notizia falsa, è che sono stati sospesi i permessi...”. Quindi, i detenuti escono in permesso? “Dipende da quali permessi. Quelli premio sono sospesi, è vero, ma non quelli di necessità, che cioè vengono concessi in situazioni di urgenza, come per un parente in fin di vita; il lavoro all’ esterno e la semilibertà dei detenuti sono sospesi, ma si possono svolgere quelle attività lavorative che avvengono all’ interno del muro di cinta dell’istituto. Al momento, quindi, la situazione appare tranquilla, anche perché i detenuti si sono dimostrati responsabili e collaborativi”. Quale è la proposta alternativa, per evitare di far perdere il contatto con la famiglia? “Le carceri di Milano stanno facendo tanto in questo senso: sono state autorizzate maggiori telefonate ai famigliari e i colloqui attraverso videochiamate. C’ è comprensibilmente un po’ di paura, ma ci sono riunioni costanti tra educatori, direttori e detenuti. E poi c’ è la volontà da parte dei direttori stessi di venire incontro alle esigenze delle persone: a Bollate, per esempio, i detenuti che sono autorizzati ad avere un cellulare quando escono in permesso, possono utilizzarlo per contattare la famiglia anche all’ interno del muro di cinta dell’istituto”. Qual è, dunque, il consiglio per chi ha un famigliare in carcere? “Ai parenti che sono fuori occorre raccomandare di scrivere lettere e di tranquillizzare le persone ristrette sulla condizione di salute esterna, perché i detenuti sono preoccupati per coniugi e figli. Solo così è possibile non farli sentire soli”. Le misure messe in campo sono, secondo lei, adeguate? “Il carcere risente di quello che avviene nella società, non vive in modo autonomo. Tutto ciò che si poteva fare è stato fatto. Le disposizioni sono temporanee e in continuo aggiornamento. Prima di tutto, però, si cerca di tutelare la popolazione detenuta. A San Vittore, ad esempio, a chi è arrestato in flagrante vengono fatti i tamponi, ma San Vittore è una casa circondariale, cioè un carcere di primo accesso. Una misura del genere sarebbe inutile a Bollate…”. Nel caso la situazione sfugga di mano, le carceri sono attrezzate a evitare il contagio? “Le carceri milanesi sono attrezzate così come lo è la città di Milano; i servizi sanitari negli istituti sono allo stesso livello di quelli esterni, con in più il vantaggio che c’ è già una sorta di isolamento logistico. Per cui, per ora, non ci sono criticità”. Norme retroattive, manette e prescrizione bloccata. Ecco la normalità dei 5Stelle di Francesco Damato Il Dubbio, 28 febbraio 2020 È apprezzabile quanto meno la schiettezza con la quale la presidente grillina della Commissione Giustizia della Camera, Francesca Businarolo, ha voluto difendere e spiegare il controverso provvedimento sulle intercettazioni. Il cui cammino parlamentare, sino a qualche settimana fa di incerto epilogo per le forti resistenze dell’opposizione e le divisioni createsi nella maggiorana giallorossa, è stato in qualche modo sbloccato anch’esso, come quello delle cosiddette mille proroghe, dal mezzo disarmo politico provocato dalla diffusione della forma di polmonite importata dalla Cina. In particolare, l’onorevole Businarolo, quasi con voce dal sen fuggita, ha spiegato ai lettori del Dubbio che l’equiparazione dei reati contro la pubblica amministrazione a quelli di mafia e di terrorismo, con la conseguente applicazione dell’assai invasivo metodo Trojan nelle intercettazioni, deriva dalla specialità dell’Italia. Che non è per niente un paese “normale” per la diffusione che ha nei suoi confini il fenomeno della corruzione, reale o percepito che sia. Questa almeno è l’opinione fattasi dell’Italia dai grillini, che in forza dei voti, dei seggi parlamentari e delle alleanze politiche realizzate in meno di due anni di questa legislatura uscita dalle urne del 4 marzo 2018, sono riusciti ad imporla sul piano legislativo. E ciò, peraltro, nel momento non della loro maggiore forza ma della loro maggiore debolezza, vista la crisi interna al loro movimento, guidato da un reggente - Vito Crimi- dopo le dimissioni di Luigi Di Maio da capo. Della crisi del Movimento 5 Stelle sono espressioni di una evidenza disarmante anche il defilamento del fondatore, garante, “elevato” e quant’altro Beppe Grillo, preso dalle sue dichiarate apnee notturne; il rinvio a tempo sostanzialmente indeterminato dei cosiddetti Stati Generali, indetti originariamente ai fini di un chiarimento per metà marzo; le sconfitta accumulate in tutte le elezioni, di vario livello, seguite a quelle del 2018 e infine quel misero, anzi miserrimo 9,52 per cento di affluenza alle urne cui hanno concorso domenica scorsa nelle elezioni suppletive a Napoli per la sostituzione di un loro senatore defunto. Il cui seggio è andato alla fine al terrestre, diciamo così, Sandro Ruotolo col 48 per cento di quel 9,52 di votanti contro il 23,3, sempre di quel 9,52, del candidato a 5 stelle Luigi Napolitano. Secondo un sondaggio Swg ancora fresco di stampa quel che resta della militanza e dell’elettorato grillino pone le sue maggiori speranze, per cercare di uscire dalla crisi d’identità e di ogni altro tipo sopraggiunta alla vittoria elettorale di due anni fa, in Alessandro Di Battista. Che anche per questo forse sta tornando dall’Iran, dove si era avventurato per vacanza e studio, in groppa al 36 per cento delle simpatie attribuitegli, fra i grillini, contro il 26 per cento dell’ex capo ma pur sempre ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Agli altri restano le briciole: il 9 per cento al pur presidente della Camera Roberto Fico, contestato nella sua Napoli quando ha proposto come strategico il rapporto col Pd, il 6 per cento alla vice presidente del Senato Paola Taverna, che non nasconde di certo la sua ambizione o “disponibilità” a scalare il movimento, il 5 per cento alla sindaca di Torino Chiara Appendino e l’1 per cento appena al reggente Crimi. Di Battista, Dibba per gli amici, non la pensa di certo diversamente dall’onorevole Businarolo sulla specialità, diciamo così, dell’Italia. Che, non essendo un paese “normale”, meriterebbe leggi e trattamenti speciali non per diventare finalmente normale, evidentemente, ma per diventarlo sempre meno, in un inseguimento del paradosso che fa drizzare i capelli, almeno a chi li ha. La normalità targata 5 Stelle è quella delle leggi penali retroattive, e delle proteste contro la Corte Costituzionale quando si permette di censurarle. È quella della prescrizione bloccata, cioè eliminata, con l’epilogo del primo dei tre gradi di giudizio, in modo che per gli altri due i processi possono durare quanto l’ergastolo. È quella dei diritti acquisiti bollati per principio come privilegi da ghigliottinare, magari in attesa di riservare la stessa sorte alle persone che ne hanno potuto beneficiare, in una riedizione della Rivoluzione francese del 1789, con gli spettacoli del patibolo in piazza. È quella degli organi giurisdizionali, come quelli per la cosiddetta autodichia parlamentare, validi solo se emettono verdetti di un certo tipo, gradito alle 5 Stelle. Altrimenti diventano organi odiosi di casta, da abolire o ricomporre daccapo facendo dimettere chi ne fa parte, com’è accaduto praticamente al Senato per la commissione chiamata a pronunciarsi sulla riduzione dei cosiddetti vitalizi, anche a novantenni con un piede già nella fossa e l’altro già senza scarpa. Mi chiedo, a questo punto, se non ha ragione Andrea Marcenaro a scrivere sul Foglio, nella sua rubrichetta di prima pagina che ne porta un po’ il nome, se “questo nostro trojan di Paese”, per niente normale come dice la Businarolo, non sia “in quarantena minimo dal 1992”, col bambino buttato da certa magistratura insieme con l’acqua sporca. Intercettazioni, la stretta è legge. Quelle irrilevanti saranno segrete di Liana Milella La Repubblica, 28 febbraio 2020 Da maggio più poteri alla difesa, trojan con limiti e nuove regole per i media. “Innovativa, equilibrata, necessaria”. Per Pd e M5S è questa la nuova legge sulle intercettazioni votata alla Camera con lo scrutinio segreto chiesto dalla Lega e finito 246 a 169. Una legge, per il Guardasigilli grillino Bonafede, che “potenzia le intercettazioni come strumento di indagine, ma nel contempo garantisce una solida difesa della privacy”. Con “un’innovazione fondamentale perché esisteranno le intercettazioni irrilevanti” aggiunge il sottosegretario Dem alla Giustizia Andrea Giorgis. “Illiberale, scellerata, uno scempio da Stato di polizia, da grande fratello alla Orwell” per Lega, Forza Italia e Fdl che hanno votato contro. La legge dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando del dicembre 2017, bloccata per due volte dal suo successore Alfonso Bonafede, alla fine entra in vigore. Maggiori “poteri” ai difensori, il captatore Trojan potente sì ma con dei limiti, intercettazioni “irrilevanti” vietate ai giornalisti. Dal primo maggio cambiano le regole per registrare e usare le intercettazioni, ma - attenzione - solo per i procedimenti penali iscritti dopo quella data. Per tutti quelli in corso, come hanno chiesto a gran voce i magistrati, varranno le vecchie regole. Diventa legge la distinzione tra intercettazioni “rilevanti” e “irrilevanti”. Le prime avranno diritto di entrare a pieno titolo nel processo, le seconde finiranno nell’archivio riservato e saranno distrutte. Una fine che lascia molti dubbi. Non solo: le intercettazioni rilevanti potranno essere pubblicate, quelle irrilevanti no. Orlando ha sempre celiato sul “bavaglio” ai giornalisti. Ma è un fatto: non leggeremo più di Berlusconi e della “patonza che deve girare”; degli imprenditori che la notte del terremoto dell’Aquila dicono “occupati di ‘sta roba perché qui bisogna partire in quarta subito...non è che c’è un terremoto al giorno”; dell’ex ministra Guidi che all’allora fidanzato dice “mi tratti come una sguattera del Guatemala”; gli sms della Falchi all’allora marito Ricucci. Il pm vigilerà che nessun dato “sensibile” finisca nelle carte. “Una misura di civiltà” per Giorgis. Per un cronista la questione è tutta da discutere. A decidere se un ascolto è importante o no non sarà più la sola polizia giudiziaria, ma pm e gip. Brogliaccio sommario anche per le irrilevanti. Sarà consentito per i reati gravi, corruzione compresa. Per quelli commessi dai pubblici ufficiali e dagli incaricati di pubblico servizio puniti oltre i 5 anni sarà necessario “indicare le ragioni che ne giustificano l’utilizzo”. Per gli altri bisognerà dimostrare l’attività criminosa. Qualora il Trojan s’imbatta in un nuovo reato la registrazione potrà essere usata solo se è “rilevante e indispensabile” per delitti da arresto in flagranza e già intercettabili. Nello Rossi, autore in Cassazione della prima decisione sul Trojan, invita alla cautela: “Come si è visto nello scandalo sulle nomine al Csm, il Trojan può generare onde sismiche devastanti che possono propagarsi ben oltre i reati perseguiti e le persone indagate. Solo se verrà usato in modo rigoroso e sorvegliato si potrà evitare che produca disastrosi danni collaterali e che si determini un effetto di rigetto e di ripulsa capace di travolgerlo”. Intercettazioni, la riforma che moltiplica le incertezze di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 28 febbraio 2020 Il travagliato iter della nuova legge, passando da una proroga all’altra e sempre a colpi di fiducia, ha finito per produrre più dubbi di quanti volesse chiarire. Toccherà mettere sull’avviso la Treccani: può esistere qualcosa di indispensabile (“cosa assolutamente necessaria, di cui non si può fare a meno”) e tuttavia di irrilevante. Almeno per il legislatore. Nel decidere come regolare la possibilità di usare i risultati di una intercettazione in procedimenti diversi da quello nel quale era stata autorizzata, la nuova legge - oltre a richiedere che il reato sia tra quelli per cui è già consentito questo mezzo di prova - ora aggiunge la condizione che l’intercettazione debba essere non solo “indispensabile” per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza, ma anche “rilevante”. Così come si disquisirà a lungo di cosa questa o quella Procura riterrà “espressioni lesive della reputazione delle persone”, per “vigilare” (come pretende la legge) che non vengano trascritte (salvo siano rilevanti per le indagini); e di quanti equivoci e confusioni verranno fugati o causati dall’obbligo per pm e gip di riportare i “brani essenziali” nelle misure cautelari “quando è necessario”. L’”archivio digitale”, cassaforte di tutte le intercettazioni non rilevanti, perde la qualifica di “riservato”, ma nel contempo guadagna il dover essere organizzato dal procuratore “con modalità tali da assicurare la segretezza”. E qualche corto circuito si profila anche laddove la legge specifica che non è vietata la pubblicazione dell’ordinanza d’arresto (nella quale magari il Gip tra i motivi ha riportato un brano essenziale intercettato), ma è “sempre vietata la pubblicazione anche parziale del contenuto delle intercettazioni non ancora acquisite” dall’apposita successiva procedura di selezione tra le parti (come magari l’intera frase, non riportata nell’ordinanza ma depositata alla difesa insieme a tutti gli atti posti a base dell’arresto, dalla quale il gip aveva estratto quello spezzone di brano riportato nell’ordinanza). Ancora niente a confronto del mal di testa che verrà a magistrati e avvocati nel raccapezzarsi fra tre differenti regimi di utilizzo del “captatore informatico” di comunicazioni (trojan) tra presenti in un domicilio privato: in generale lo si potrà infatti utilizzare solo se vi sarà fondato motivo di ritenere che nel domicilio o luogo di privata dimora si stia svolgendo l’attività criminosa; però si potrà sempre usare se si procederà per mafia, terrorismo e reati distrettuali come contrabbando o prostituzione minorile; e invece occorrerà la “previa indicazione delle ragioni che ne giustificano l’utilizzo” se si investigherà un delitto di pubblici ufficiali (o da ora pure di incaricati di pubblico servizio) con almeno 5 anni di pena. Del resto sono contorcimenti inevitabili se, a partire dalla delega parlamentare ottenuta dall’allora governo Renzi-Orlando il 23 giugno 2017, a fine anno un decreto legislativo rimandò di 6 mesi al 26 luglio 2018 l’entrata in vigore delle norme, poi prorogata all’1 aprile 2019 da un decreto legge, poi dilazionata ancora all’1 agosto 2019 dalla legge di Bilancio (pur mentre da gennaio 2019 la legge “Spazza-corrotti” e da novembre 2019 la sentenza Cavallo delle Sezioni unite di Cassazione stratificavano già il panorama delle captazioni), poi di nuovo spostata all’1 gennaio 2020 dal decreto sicurezza-bis, e poi ulteriormente prorogata all’1 marzo 2020 dal decreto legge del 23 dicembre 2019 del governo Conte-Bonafede. Che cambia radicalmente la riforma Orlando, ma che a sua volta ora in sede di conversione viene modificato (con altra proroga all’1 maggio 2020) non da un dibattito in Parlamento, strozzato sia nelle commissioni sia in aula, ma da un maxiemendamento governativo interamente sostitutivo, per giunta fatto approvare con l’imposizione di due voti di fiducia alla Camera e al Senato. E pensare che sin dall’11 luglio 2018 lo slittamento era stato motivato dal ministro con “ragioni tecniche relative ai tempi necessari per l’esecuzione nelle Procure dei lavori per i supporti logistici e informatici per gli archivi riservati e le sale ascolto per gli avvocati”: ora quanto non è stato fatto in altri due anni dovrebbe essere completato in due mesi (sempre sotto clausola di invarianza finanziaria). Senza peraltro, invece, che si affrontino questioni cruciali: l’esternalizzazione a società private delle intercettazioni, la subalternità sinora dell’amministrazione pubblica alle loro logiche tecniche ed economiche, la delocalizzazione dei loro sistemi “cloud” di archiviazione in Paesi non soggetti a giurisdizione italiana, l’attesa del software ministeriale e del decreto sui requisiti tecnici che dovranno avere i programmi proposti dalle società (vige ancora il decreto di aprile 2018, e due anni sono un’era geologica in questo settore). Fino alla scarsa consapevolezza negli stessi pm - denunciata il 12 febbraio dal procuratore di Napoli Gianni Melillo nella Scuola della Magistratura - della tendenza dei propri ausiliari consulenti tecnici a non cancellare i dati alla fine degli incarichi conferiti loro dalle Procure, e dunque così ad accumulare misconosciuti maxi-archivi “informali” (paralleli a quelli giudiziari “ufficiali” di cui tanto si occupa la legge) passibili di alimentare un mercato clandestino delle comunicazioni. Quello che - mentre le inchieste in media usano poi nel processo solo lo 0,2-0,7% del materiale intercettato, e i giornali pubblicano intercettazioni di estranei alle indagini solo nell’1,6% degli articoli di cronaca giudiziaria (stima degli avvocati penalisti Ucpi su 7.273 articoli campionati in 6 mesi del 2015) - rumina tutto il resto. Pasquale Grasso: “Bonafede tolga le sanzioni contro noi giudici o scioperiamo” di Errico Novi Il Dubbio, 28 febbraio 2020 Intervista all’ex presidente dell’Anm: “Scaricare sul singolo magistrato, sotto minaccia di sanzioni disciplinari, il libro dei sogni rappresentato dalla durata predeterminata dei processi non sta né in cielo né in terra”. Pasquale Grasso è stato presidente dell’Anm fino a pochi mesi fa. “E nel corso del mio mandato ho detto con chiarezza che non sarebbe stato corretto far entrare in vigore la norma sulla prescrizione senza definire prima una più ampia riforma del processo. Lo penso ancora, e considero sbagliato”, dice il predecessore di Luca Poniz, “il favore incondizionato espresso, sulla nuova prescrizione, dall’attuale giunta dell’Associazione magistrati. Potrebbe persino aver indirettamente incoraggiato il governo a inserire nel ddl penale le norme punitive per i giudici. Contro le quali credo sarebbe giusto scioperare”. L’Anm ha disertato il tavolo sulla riforma penale. Eppure vi avrebbe trovato, negli avvocati, un interlocutore sensibile alla qualità della decisione come valore prioritario rispetto alla speditezza, non crede? A me sembra che la giunta dell’Anm oggi non rappresenti tutte le sensibilità dei magistrati. Non è più unitaria, Magistratura indipendente ne è rimasta estromessa, ma proprio da quello schieramento, a cui mi sento più vicino, è stata veicolata una pressione così forte, condivisa dall’intera base, da indurre i vertici dell’Anm a disertare il tavolo sul penale come necessario segnale di protesta. Rinunciare a discutere non è un’occasione persa? Dopo il via libera del governo al ddl penale, l’iniziale reazione dell’Anm è parsa a molti colleghi, me compreso, solo di facciata. Interrompere l’interlocuzione col ministro è stata invece la scelta giusta. Scaricare sul singolo magistrato, sotto minaccia di sanzioni disciplinari, il libro dei sogni rappresentato dalla durata predeterminata dei processi non sta né in cielo né in terra. È al governo che compete garantire l’organizzazione, la soluzione scelta è solo una norma di bandiera. Anm e avvocatura avevano presentato una proposta comune di riforma proprio sotto la sua presidenza. Guardi, tra magistrati e avvocati ci sono elementi di conflitto e altri di convergenza: il punto è che la terza parte, il governo a me non sembra veramente interessata ad ascoltare. Condivide la linea scelta dall’Anm sulla prescrizione? No. Il presidente Poniz ha parlato di buon punto di equilibrio, a proposito del lodo Conte. Non sono d’accordo. Parlo a titolo personale: io non credo che un sistema processuale senza prescrizione sia civile. O comunque non mi piace un sistema in cui si riforma la prescrizione senza aver prima definito una revisione complessiva del processo. Non è accettabile che si cambino le regole un pezzetto alla volta. E credo appunto che la nuova linea adottata dall’Anm sulla prescrizione abbia favorito la scelta del governo sulle sanzioni ai magistrati. Perché? Premetto una cosa: il direttivo dell’Associazione aveva dato mandato alla giunta affinché assumesse posizioni molto forti, qualora fosse sopravvissuta quella norma. Dico molto chiaramente di aver considerato inadeguate le forme di agitazione assunte negli anni contro il taglio delle ferie o la nuova responsabilità civile. Se si arriva a punire i giudici, a imporre ai capi degli uffici la responsabilità di misure organizzative che garantiscano il rispetto di tempi predeterminati, si pretende di trasformare il magistrato in qualcos’altro. E una cosa del genere credo possa condurre la magistratura a scioperare. Ciò detto, il cambio di linea uscito dal congresso di Genova potrebbe aver restituito l’immagine di una Anm troppo condiscendente, al punto da aver incoraggiato il governo a insistere sulle sanzioni disciplinari. Lei si candida con “Mi”, gruppo di cui ha fatto parte, alle elezioni Anm di marzo: si va verso una magistratura bipolarizzata? La lista in cui sono candidato per il direttivo dell’Anm è composta da “Mi” e da colleghi riuniti in Movimento per la Costituzione, in gran parte magistrati che hanno lasciato Unicost, a cominciare da Enrico Infante che ne è stato segretario fino a pochi mesi fa. È una lista ampia e moderata, certamente contrapposta ad Area. Con la mia candidatura al Csm credo di aver prefigurato un simile schema politico. E confido che ne possa nascere una vera e propria federazione associativa. Ma attenti a utilizzare per noi magistrati le categorie di destra e sinistra. Si rischia di finire fuori strada. Bonafede è una mina vagante, pericolo per le imprese di Andrea Bernaudo Il Riformista, 28 febbraio 2020 L’attuale ministro Bonafede ne ha combinata un’altra: da un lato ha modificato l’art. 2476 c.c. relativo alla responsabilità degli amministratori nelle srl, inserendo all’art. 378 del nuovo codice della crisi d’impresa (la normativa che sostituisce la vecchia legge fallimentare) un quinto comma che sancisce espressamente che “gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. L’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. La rinunzia all’azione da parte della società non impedisce l’esercizio dell’azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l’azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi”, dall’altro ha previsto la nomina di un delatore quale controllore dell’imprenditore per società che abbiano superato determinati limiti. Fino a oggi, l’attuale disciplina civilistica non prevedeva la possibilità per i creditori di citare in giudizio gli amministratori sociali, ma solo, eventualmente, di richiedere il risarcimento dei danni per atti dolosi o colposi compiuti da questi ultimi (nella pratica giudiziaria era, però, abbastanza raro). Con la nuova formulazione di cui sopra, entrata in vigore dal 16 marzo 2019 ma i cui effetti dirompenti si cominciano a vedere solo ora, il ministro Bonafede ha deciso di uccidere le srl. Infatti, moltissimi amministratori hanno deciso di dimettersi dalla carica preoccupati dall’applicazione dell’art. 378 CCII, altri hanno deciso di trasferire le aziende all’estero (Bulgaria, Montenegro, Albania, Malta, ecc.), gli amministratori stranieri sono letteralmente scappati dall’Italia e le Pmi stanno lentamente morendo. A ciò si aggiunga “la tagliola” della figura prevista dall’art. 2477co. 2 e 3 c.c. come modificato dall’art. 379 CCII i cui limiti sono stati altresì innalzati dal decreto sblocca cantieri di giugno 2019 secondo cui è prevista la nomina obbligatoria dell’organo di controllo (collegio sindacale) o del revisore quando la Srl ha superato per due esercizi consecutivi almeno uno dei seguenti limiti: 1) totale dell’attivo dello stato patrimoniale: 4 milioni di euro; 2) ricavi delle vendite e delle prestazioni: 4 milioni di euro; 3) dipendenti occupati in media durante l’esercizio: 20 unità. Tale obbligo previsto per il 16 dicembre 2019, a seguito della levata di scudi delle associazioni di categoria e degli ordini professionali, al momento è stato posticipato al 30 aprile 2020 (con l’approvazione dei bilanci). Un clima da “caccia alle streghe”, nel mirino del governo incredibilmente ci sono gli imprenditori, i produttori di pil, già considerati dal diritto tributario presunti evasori, oggi messi letteralmente nella impossibilità di lavorare. Evidentemente non bastava il total tax and contribution rate al 65%, burocrazia folle e giustizia civile in tilt. Siamo nel pantano da 15 anni col pil bloccato, sull’orlo della recessione ed il governo che fa? Continua a comprimere le libertà economiche, a mortificare la creatività imprenditoriale degli italiani e a far scappare gli investitori stranieri. Ormai l’Italia è considerato da chi fa impresa uno stato canaglia, ma gli imprenditori con questa ultima assurda misura sono stati “condannati a morte” dal ministro della Giustizia della Repubblica Italiana. Noi siamo in campo essenzialmente per questo, per liberare l’Italia e la sua economia reale da questa assurda cappa di piombo. Una donna e il suo giudice. Il caso di Marianna Manduca di Luigi Manconi La Repubblica, 28 febbraio 2020 La legittimità di uno Stato democratico a essere riconosciuto come tale e a esigere ubbidienza dai propri cittadini si fonda su un patto e si affida a uno scambio. Lo Stato, cioè, garantisce la sicurezza e l’incolumità fisica (in primo luogo fisica) dei membri della collettività: e questi si impegnano a rispettare le leggi e a onorare i doveri derivanti dall’appartenenza alla comunità nazionale. Se questo è vero, possiamo dire da subito che Carmelo, Salvatore e Stefano, figli di Marianna Manduca, dovrebbero considerarsi sciolti da ogni vincolo di lealtà verso lo Stato italiano. Quest’ultimo, infatti, ha mancato nella maniera più tragica all’impegno di tutelare la vita della loro madre non impedendone l’assassinio. La storia è nota, Marianna venne uccisa nel 2007 dall’ex marito, dopo aver sporto contro di lui una dozzina di denunce, per violenze e minacce. In primo grado lo Stato venne condannato a un risarcimento di 259.000 euro, più gli interessi a favore dei figli (all’epoca di 3, 5 e 6 anni), poi adottati tutt’e tre dal cugino di Marianna e da sua moglie. I ragazzi e la loro nuova famiglia oggi vivono nelle Marche dove - grazie al risarcimento loro riconosciuto - hanno potuto aprire un bed & breakfast che costituisce la sola fonte di reddito. Nel marzo del 2019, la Corte d’Appello di Messina ha annullato il risarcimento, imponendone la restituzione. Infatti, nonostante in primo grado fosse stata riconosciuta la “colpevole inerzia” da parte della procura della Repubblica, i giudici di secondo grado hanno scritto che “manca la prova della ricorrenza di un nesso di causalità tra l’inerzia e l’omicidio. D’altra parte - scrivono i giudici - mai l’omicida avrebbe potuto pensare di farla franca, - quindi - neanche la consapevolezza di essere controllato e di essere il potenziale sospettato lo avrebbe distolto”. In realtà la sentenza della Corte d’Appello non è così sprovveduta come potrebbe sembrare a un primo sguardo. Sottolineando come lo Stato all’epoca “non fosse dotato degli strumenti normativi per contrastare il fenomeno”, la sentenza ridimensiona “la colpevole inerzia” della Procura a una sorta di distrazione professionale o, al più, a una trascuratezza deontologica. Ed è difficile comprendere, sotto il profilo logico, il significato di una considerazione come questa: se anche la procura avesse disposto il “sequestro del coltello non avrebbe impedito la morte della giovane mamma”, in quanto - come precisa lo stesso magistrato nell’intervista di Salvo Palazzolo su queste colonne - “avrebbe potuto facilmente procurarsi un altro coltello”. Se questo assunto venisse universalmente adottato, l’intera categoria di prevenzione penale ne risulterebbe annichilita e la storia della criminologia dovrebbe essere riscritta da cima a fondo”. Aggiunge il magistrato: “Lo Stato è sicuramente in debito con quei tre orfani, perché solo dopo si è attrezzato. Quindi se un responsabile teorico c’è non è il pubblico ministero, ma lo Stato che non si era dotato” delle misure giuste. Di conseguenza, questo è il ragionamento, per quell’epoca “il delitto era inevitabile, considerata l’assenza di strumenti adeguati”. E così, sullo sfondo si materializza un crudele fantasma del passato riassumibile in una parola che è, allo stesso tempo, fatalità e condanna. “Inevitabile” è il termine maledetto, quello che sembra seppellire sotto il peso della ineluttabilità una condizione femminile che disperatamente (vanamente?) ha tentato di emanciparsi. “Inevitabile” suona come la definizione inappellabile di uno status che non può conoscere redenzione. È l’aggettivo qualificativo di una immobilità greve e vischiosa, che non consente scampo e non prevede salvezza. E tuttavia le cose non stanno affatto così. Dietro quella sentenza di appello c’è l’angustia culturale di giudici incapaci di cogliere come la giurisprudenza (non solo quella delle corti sovranazionali) vada in tutt’altra direzione. L’obbligo dello Stato di tutelare l’incolumità dei cittadini è affermata come priorità, per esempio dalla Corte europea dei Diritti umani, tanto più in presenza di una evidente vulnerabilità. La palese fragilità della possibile vittima deve indurre gli organi di contrasto ad assumere iniziative volte a tutelarla. In questo caso, il “ragionevole sospetto” di vulnerabilità della vittima - che la Cedu ritiene necessario per attivare gli obblighi positivi di protezione - era infatti reso palese dal numero così elevato di denunce sporte dalla donna, in un tempo ravvicinato. Come si vede, nulla di così assolutamente “inevitabile”. E nessuna ineluttabilità del fato. Bensì, l’eterna questione del senso d’attribuire alla giustizia. Se, come dice il Vangelo, “il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, si comprenderà che solo una giustizia fatta per gli uomini e per le donne (e non il suo contrario) potrà evitare che “gli affamati di giustizia vengano giustiziati”. Dubbia la confisca facoltativa dopo la prescrizione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione V penale - Ordinanza 27 febbraio 2020 n. 7881. Saranno le Sezioni unite a stabilire se sia legittima o meno la confisca facoltativa diretta del profitto del reato, in caso di una di una pronuncia di prescrizione che arriva dopo una condanna in primo grado. La Sezione remittente (ordinanza 7881) chiede quindi alle Sezioni unite di chiarire se la confisca facoltativa presupponga o meno un giudicato formale di condanna o, sia sufficiente un completo accertamento da parte del giudice di merito del profilo soggettivo e oggettivo del reato di riferimento, “verifica” che può essere ribadita anche in una sentenza di proscioglimento per prescrizione. Quesiti che prendono le mosse dal ricorso contro la sentenza della Corte d’Assise d’appello che, come giudice del rinvio, aveva confermato la confisca decisa in primo grado, in base all’articolo 240, comma 1 del Codice penale, sui beni dell’imputato, circa 14 milioni di euro, considerati profitto della partecipazione ad una associazione a delinquere. La stessa corte, che aveva dichiarato prescritto il reato, aveva confermato la sentenza relativamente alla confisca. La Cassazione, decidendo sul ricorso della difesa, aveva annullato la confisca, rinviando per un nuovo giudizio. In particolare la Suprema corte chiedeva di chiarire se l’ablazione dei beni fosse stata adottata in base al primo comma dell’articolo 240 o del secondo. E dunque se si trattasse di confisca facoltativa su beni che sono il prodotto o il profitto del reato o di confisca obbligatoria basata sul prezzo. Spiegazione utile vista la notevole differenza dei presupposti applicativi. Il giudice del rinvio ha confermato la confisca facoltativa del profitto del reato di associazione a delinquere. Scelta fatta malgrado il comma 1 dell’articolo 240 sembri condizionare la misura facoltativa ad una condanna. La Corte d’assise d’appello ha esteso al caso esaminato i principi affermati dalle Sezioni unite con la sentenza Lucci (31617/2015), che ha aperto alla confisca obbligatoria del prezzo e alla confisca diretta (articolo 322-ter del Codice penale) del prezzo o del profitto, anche in caso di prescrizione, purché ci sia stata una precedente condanna e a condizione che l’accertamento del reato, la penale responsabilità dell’imputato e la qualificazione del bene come prezzo o profitto, restino inalterati nel merito nei successivi gradi di giudizio. E questo considerando sostanzialmente identica la funzione delle due misure di sicurezza. Una lettura “special preventiva”, della scelta generalizzata di sterilizzazione del profitto del reato, basata sul presupposto che può essere utilizzato per crimini futuri. La conclusione è messa fortemente in dubbio dalla sezione remittente, che chiede di dare un peso al valore specifico e differenziale della disciplina sulla confisca facoltativa e diretta del profitto del reato. La Sentenza Lucci, fa notare la sezione remittente, ha a sua volta applicato in maniera “estensiva” la giurisprudenza Cedu sul caso Varvara in tema di confisca obbligatoria, di natura sanzionatoria, del prezzo del reato, per lottizzazione abusiva, prescindendo dalla formula conclusiva del processo ma legandola all’accertamento della responsabilità. I giudici con la sentenza Lucci hanno concluso che ciò che vale per il caso più grave, non può non valere per il meno grave. Ma applicare gli stessi criteri alla vicenda esaminata comporterebbe un terzo passaggio estensivo su materie per nulla omogenee, se non altro per essere una confisca facoltativa e l’altra obbligatoria. Una “forzatura” ostacolata dal principio di legalità tutelato dalla Carta. Per finire i giudici ricordano i due recenti interventi normativi Dlgs 21/2018 e legge 3/2019. Sull’attuazione del principio della riserva di codice penale e la cosiddetta Spazza-corrotti, che hanno portato a formulare l’articolo 578-bis del Codice di rito penale, che disciplina l’obbligo per il giudice dell’impugnazione che dichiari il reato estinto per prescrizione, o per amnistia, di decidere ai soli effetti della confisca, dopo l’accertamento della responsabilità dell’imputato. Ipotesi che però non vale per ogni tipo di confisca ma solo per i casi di confisca obbligatoria specificamente enunciati. La banca nella concessione del mutuo non ha responsabilità se ha agito in buona fede di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 27 febbraio 2020 n. 7879. Il credito concesso dalla banca e, che incidentalmente finisce nella disponibilità di un’organizzazione mafiosa, deve essere attentamente analizzato e il giudice deve valutare se l’istituto di credito nell’erogazione del mutuo abbia operato in buona fede ignorando la finalità illecita. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 7879/20. I fatti. Nella vicenda in cui Unicredit aveva effettuato un prestito a una spa, il gip si era pronunciato ritenendo che l’istituto di credito non potesse ritenersi in buona fede, poiché aveva omesso la doverosa istruttoria, violando le regole interne fissate dal medesimo istituto, così consentendo alla società di operare con la copertura di crediti bancari e di porre in essere attività di riciclaggio. I Supremi giudici hanno chiarito che l’insufficiente valutazione del merito creditizio del beneficiario può condurre a escludere la buona fede solo se il giudice fornisca adeguata motivazione, fondata non su un generico canone di buona gestione bancaria, ma su quello specifico della buona fede richiesta per il finanziamento del destinatario. La buona fede. E anzi (articolo 52 Dlgs 159/2011) nella valutazione della buona fede, il tribunale tiene conto delle condizioni delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolto dal creditore. Per concludere non basta - per l’esclusione del credito - che la erogazione del mutuo non sia conforme a una corretta gestione bancaria, ma occorre che il mancato rispetto degli obblighi di diligenza (cui fa riferimento il comma 3 dell’articolo 52) sia sintomatico della mancanza di buona fede. Lombardia. Coronavirus, nelle carceri i colloqui si fanno via Skype di Dario Paladini redattoresociale.it, 28 febbraio 2020 Ridotti o sospesi i colloqui con i familiari: il Provveditorato regionale ha deciso di “estendere il più possibile l’utilizzo delle telefonate” e della piattaforma di messaggistica. Il Garante Maisto: “C’è un po’ di paura, ma si fanno costanti riunioni sia con il personale che con i detenuti”. Nelle carceri della Lombardia i colloqui tra detenuti e famigliari ora si fanno via skype. Per l’emergenza coronavirus, infatti, i colloqui sono stati sospesi o fortemente ridotti. Per questo l’Osservatorio Carcere e territorio e la Camera Penale di Milano nei giorni scorsi avevano rivolto un appello al Provveditorato regionale per la Lombardia del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, perché fosse almeno tolta ogni limitazione alle telefonate ai famigliari. Ieri è arrivata la risposta del Provveditorato che, in una lettera, informa la Camera Penale di Milano di aver dato indicazioni ai direttori delle carceri lombarde di “estendere il più possibile l’utilizzo delle telefonate nonché dei colloqui a distanza attraverso l’utilizzo della piattaforma Skype for business”. Secondo il garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto, nelle carceri del capoluogo lombardo “al momento la situazione è tranquilla”, scrive sul suo profilo Facebook. “Sono autorizzate in modo abbastanza libero le telefonate e in sostituzione è attivato su richiesta il servizio Skype. C’è comprensibilmente un po’ di paura, ma si fanno costanti riunioni sia con il personale che con i detenuti”. Abruzzo. Coronavirus, il Garante chiede misure di prevenzione nelle carceri di Carmine Perantuono rete8.it, 28 febbraio 2020 La nota a firma del Garante regionale dei detenuti, Gianmarco Cifaldi destinata ai direttori degli Istituti Penitenziari Abruzzesi e all’Assessore alla Sanità. Preso atto che l’Organizzazione mondiale della sanità il 30 gennaio 2020 ha dichiarato l’epidemia da Covid-19 un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale; preso atto dell’evolversi della situazione epidemiologica, del carattere particolarmente diffusivo dell’epidemia e dell’incremento dei casi e dei decessi notificati all’Organizzazione mondiale della sanità; ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni per contrastare l’emergenza epidemiologica da Covid-19, adottando misure di contrasto e contenimento alla diffusione del predetto virus; vista la circolare del Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria Abruzzo, Lazio e Molise, la numero 4/2020; lo scrivente Garante, raccomanda di eseguire ogni forma prevista dai protocolli e invita i destinatari della presente nota ad assicurare le seguenti indicazioni: applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva ai nuovi giunti; limitazione dei colloqui con le persone esterne e familiari; aumento del numero delle telefonate previste implementando anche l’utilizzo del sistema Skype Web; controlli sanitari da protocollo per la tutela di ogni individuo; sospensione della presenza dei volontari all’interno delle strutture penitenziarie. Napoli. Un quarantenne si è suicidato nel carcere di Secondigliano linkabile.it, 28 febbraio 2020 L’anno scorso nelle carceri campane 10 suicidi. Il Garante Ciambriello: “una sconfitta per tutti”. “Ancora una volta si muore di carcere contravvenendo allo spirito costituzionale che all’articolo 27 recita che il carcere ha una funzione rieducativa e di socializzazione. Anche in questo luogo così remoto vanno rispettati i diritti e la dignità delle persone” così si è espresso il Garante Campano dei Detenuti Samuele Ciambriello dopo aver saputo del suicidio di un quarantenne avvenuto questa notte nell’infermeria del carcere di Secondigliano. Il detenuto originario di Battipaglia, D.M. nato nel 1982 era accusato di violenza sessuale (articolo 609) e fu arrestato lo scorso luglio. Si è tolto la vita impiccandosi e pare abbia lasciato una lettera spiegando le motivazioni del suo gesto. In questi giorni doveva iniziare il processo di primo grado nei suoi confronti. Era stato da settembre a dicembre dello scorso anno anche nel carcere di Vallo Della Lucania (Salerno) ed era ritornato nel carcere di Secondigliano a gennaio. Il garante Samuele Ciambriello conclude così la sua dichiarazione: “Anche in questo luogo così remoto vanno rispettati i diritti e la dignità delle persone. Quando si muore di carcere ed in carcere è una sconfitta per tutti: sia per gli operatori che si prodigano quotidianamente, tra mille difficoltà a rendere più umane le pene, sia per la politica che ha fatto del carcere e, più in generale, della giustizia penale, un luogo di afflizione, di vendetta ed esclusione sociale. Occorre bilanciare la certezza della pena, il bisogno di giustizia delle vittime, con la possibilità di recuperare e far ricominciare a chi ha sbagliato”. L’anno scorso in Campania ci sono stati 10 suicidi, tra cui uno nel carcere di Secondigliano: il 15 luglio, Giovanni Pontillo di anni 59. Con questa tragica morte, nel 2020, siamo arrivati già ad 11 suicidi nelle carceri italiane. Pavia. “Nel carcere suicidi, precarietà sanitaria dei detenuti anziani e sovraffollamento” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 febbraio 2020 La denuncia del Consigliere regionale di +Europa Michele Usuelli. Venerdì scorso ha effettuato una visita ispettiva insieme ai colleghi dell’M5S Verni e Romaniello per verificare la situazione dell’penitenziario. Lo scorso 19 febbraio un cinese di 54 anni si è tolto la vita all’interno del carcere di Torre del Gallo, a Pavia, dove stava scontando una pena di vent’anni per un duplice delitto commesso due anni fa a Cremona. Prima di lui a togliersi la vita un marocchino di 27 anni. Un terzo recluso aveva tentato il suicidio. Tutti loro erano detenuti nel reparto protetto, dove ci sono gli autori dei reati più gravi e i cosiddetti ‘ sex offender’, l’ala meno raggiungibile dal personale dell’area sanitaria, che si trova nella parte vecchia della struttura. Per questa situazione di emergenza nella mattinata di venerdì 21 febbraio il consigliere regionale Michele Usuelli, + Europa- Radicali, insieme al collega Simone Verni (M5S) e al deputato Cristian Romaniello (M5S) hanno effettuato una visita ispettiva a sorpresa presso la casa circondariale di Pavia. “L’iniziativa come spiegano i promotori - nasce dalla preoccupazione delle due forze politiche per il ripetersi di fenomeni suicidari nel carcere e per il verificarsi di incidenti ai danni delle guardie penitenziarie come quello che, nel gennaio scorso, ha coinvolto un agente colpito da infarto a seguito di un intervento di soccorso per sedare un incendio doloso”. Nel corso della visita è stata verificata la condizione delle celle, degli spazi comuni chiusi e aperti, dell’infermeria e delle cucine ed è stato possibile interloquire con i detenuti. I rappresentanti istituzionali che hanno condotto la visita denunciano una situazione sanitaria precaria a causa dell’assenza di medici e di strumentazione; la struttura, inoltre, non ha ancora attivato il fascicolo sanitario elettronico per i detenuti, per cui si rischia che il detenuto perda il suo quadro clinico in caso di trasferimento o di fine pena. “Diminuiscono i reati - dichiara Usuelli - ma aumentano i detenuti. A Pavia ne abbiamo una prova concreta: in un carcere di 518 posti i detenuti sono 730. C’è la terza branda, ci sono detenuti anziani, ci sono tanti detenuti a fine pena che, in violazione della legge, non possono accedere a trattamenti alternativi e sono costretti a fare fino all’ultimo giorno. Manca la possibilità di estendere patteggiamenti e riti abbreviati. Le manette non sono la soluzione dei problemi della Giustizia italiana”. Cassino (Fr). Morì in carcere per overdose, la disperata protesta della madre di Angela Nicoletti frosinonetoday.it, 28 febbraio 2020 La donna, che da tre anni attende giustizia, è stata ricevuta dal magistrato titolare della delicata indagine. Mimmo D’Innocenzo aveva trentadue anni e la famiglia non si rassegna. Non si rassegna alla morte del figlio di soli trentadue anni. Un decesso avvolto nel mistero quello di Mimmo D’Innocenzo giovane romano di Pietralata detenuto nel carcere di Cassino. La madre Alessandra Pasquini, unitamente a familiari ed amici, ieri mattina ha dato vita ad una protesta pacifica davanti al tribunale di Cassino. Perché da tre anni attende di sapere come suo figlio possa aver assunto un’overdose di oppiacei nella cella del penitenziario di via Sferracavalli. L’incontro con il pm - La manifestazione ha visto la partecipazione di decine di persone tra amici e parenti del giovane Mimmo. Un messaggio che non è passato inosservato. Sul posto anche funzionati del tribunale e lo stesso magistrato titolare dell’inchiesta, il sostituto procuratore Roberto Bulgarini Nomi che ha voluto incontrare di persona la donna. Un colloquio chiarificatore che è servito ai familiari del giovane a comprendere la delicatezza dell’indagine e ad avere fiducia nella Giustizia. La vicenda - L’inchiesta, che prosegue nel massimo riserbo, vedrebbe coinvolto anche un agente della Polizia Penitenziaria. L’uomo, in servizio la sera del malore di Mimmo, avrebbe prelevato il ragazzo dalla cella per portarlo in infermeria dove erano presenti due medici. Una versione che fa acqua con le dichiarazioni dei sanitari che al magistrato avrebbero riferito che quella sera non era stato visitato nessuno. Un altro mistero riguarda l’improvvisa sparizione, come riferisce l’avvocato Vitelli, che rappresenta la famiglia D’Innocenzo, “di tutto il carteggio del diario clinico del carcere del mese di aprile”. Infine e non meno importante è stato l’esito dell’autopsia che ha confermato l’avvenuta iniezione sul ragazzo. Il foro sul braccio, come refertato dal medico legale, era stato praticato nell’arco delle 24 ore precedenti la morte del giovane”. Un bravo magistrato - “Per la prima volta in tre anni ho incontrato una persona umana e di cuore - ha spiegato la signora Alessandra ai noi di Frosinone Today e parlando del magistrato. La morte di Mimmo è stata devastante ed inaspettata per tutti e io non trovo pace”. Il ragazzo in realtà ha una storia particolare alle spalle. Quando aveva venti anni rimase vittima di un gravissimo incidente stradale mentre viaggiava a bordo di una moto. Resta in coma per giorni. Poi la lunga riabilitazione e pian piano il ritorno alla normalità con un cospicuo conto in banca: aveva ottenuto un risarcimento di 250mila euro dall’assicurazione. Mimmo, giovane ed avventato, non riesce a gestire una somma tanto alta e finire in un brutto giro, compreso quello della cocaina. Per mamma Alessandra inizia un nuovo calvario. Passa qualche anno e Mimmo decide di entrare in una comunità di recupero dove resta pochi giorni. Torna a casa e una mattina entra in un supermercato e tenta maldestramente una rapina. Viene arrestato in pochi minuti. Il ritorno in una comunità sembra essere l’ultima speranza fino a quando la condanna per la tentata rapina non è divenuta definitiva e Mimmo finisce in carcere a Cassino, pochi giorni dopo l’ingresso nel penitenziario, viene trovato morto. Padova. In carcere colloqui via Skype, ridotti i permessi d’uscita di Serena De Salvador Il Gazzettino, 28 febbraio 2020 Limitare i contatti con la comunità esterna, sostituire i colloqui fisici con quelli telematici e telefonici, sospendere i permessi e l’attività delle unità cinofile. Sono i provvedimenti che il carcere Due Palazzi e tutti quelli limitrofi alle zone con focolai di Coronavirus da ieri devono adottare per ridurre il più possibile il rischio di contagio all’interno dei penitenziari. Martedì l’Amministrazione penitenziaria aveva già diramato alcune misure di gestione e prevenzione che ieri sono state ulteriormente inasprite in seguito al vertice con i provveditori di dieci regioni. Fra queste è incluso il Veneto e Padova in particolare, data la vicinanza con il comune di Vo’ e l’affluenza pressoché quotidiana di detenuti provenienti da tutto il territorio, oltre a quella di decine di operatori, volontari, figure legali e visitatori provenienti dall’esterno. Il provvedimento richiede agli istituti penitenziari di adottare una serie di misure cautelative per garantire l’impermeabilità sanitaria di operatori e detenuti. Fondamentale sarà partire da una corretta informazione verso i carcerati, che dovranno essere consapevoli di tutte le accortezze da imporre temporaneamente per avere la più ampia collaborazione possibile. Tra le misure da adottare vi è la sospensione delle attività che prevedono l’ingresso in carcere di persone provenienti dall’esterno, come pure i colloqui di persona che verranno momentaneamente rimpiazzati da quelli via Skype o telefono. Per questi il carcere autorizzerà una durata superiore rispetto alla norma, mentre i soli avvocati difensori dei detenuti potranno incontrarli di persona ma indossando gli idonei dispositivi di protezione, mascherine in primis. Anche il lavoro subirà delle modifiche, tanto quello all’esterno quanto all’interno delle strutture, nel caso preveda il contatto con persone estranee all’ambiente carcerario. Per quanto riguarda permessi premio e uscite per la semilibertà saranno le singole carceri a dover prendere contatto con le procure perché sia valutata caso per caso l’eventuale necessità di bloccarle. L’Amministrazione penitenziaria ha anche disposto la sospensione fino a nuovo ordine di tutte le attività delle unità cinofile, ritenute più a rischio di contagio specie per i controlli obbligatori su chi entra in carcere per i colloqui. Al Due Palazzi questa scelta ha fatto storcere il naso al sindacato Sinappe che, nonostante avesse già invocato misure stringenti per evitare il dilagare del virus, ritiene impari il trattamento riservato ai cinofili rispetto agli altri agenti. “Bene le nuove norme, che però devono essere ancor più rigide e soprattutto devono essere rispettate alla lettera fa sapere il sindacato Non si capisce però la scelta di limitare l’operato dei soli colleghi cinofili perché tutti gli agenti indossano la stessa divisa e meritano eguale protezione”. Nel carcere padovano le direttive sono in fase di adozione. Ieri alcuni settori erano ancora in attività e alcuni gruppi di volontari continuavano ad avere accesso al carcere, ma una buona notizia è arrivata. Il trentenne cinese incarcerato lunedì e tenuto separato dagli altri detenuti per essere sottoposto a tampone ed escludere un possibile contagio da Covid-19 è risultato negativo al test. Vasto (Aq). Progetto che coinvolge gli internati nel rifacimento della segnaletica stradale di Raffaella Piccoli centralmente.com, 28 febbraio 2020 Ha preso il via ieri 26 febbraio presso la Sala Aldo Moro il progetto condiviso con la Casa Lavoro di Vasto e che prevede, a seguito di un protocollo di intesa stipulato lo scorso mese di novembre, la messa a disposizione di alcuni internati che saranno impegnati nel rifacimento della segnaletica orizzontale. All’incontro erano presenti: l’assessore della Polizia Locale, Luigi Marcello, il comandante Giuseppe Del Moro, il dott. Nicola Sciarra formatore sulla sicurezza del lavoro, Lucio Di Blasio funzionario giuridico pedagogico e responsabile servizio protezione e prevenzione della Casa Circondariale di Vasto e Giancarlo Marasco esperto informatico della Casa lavoro di Vasto. Sono previsti corsi di formazione in aula e su strada e lezioni formative sulla prevenzione dei rischi, sulla salute e norme di sicurezza. Adeguatamente formati gli internati cominceranno progressivamente ad operare sul campo sotto la sorveglianza e l’assistenza degli addetti incaricati. Nel pieno rispetto di quanto previsto nella convenzione i detenuti saranno dotati del materiale necessario per lo svolgimento dell’attività. “È un progetto - ha dichiarato l’assessore alla Polizia locale, Luigi Marcello - che l’Amministrazione comunale ha immediatamente condiviso dando la propria disponibilità a collaborare in sinergia per sviluppare iniziative di reintegro sociale del personale detenuto”. Soddisfazione da parte del Comandante Giuseppe Del Moro deputato alla pianificazione delle attività. “Siamo certi - ha concluso Del Moro - che tale iniziativa potrà rappresentare un ottimo programma di recupero per cui non escludiamo sin da ora la possibilità di poter confermare alla scadenza il rinnovo della convenzione”. Terni: “Detenuti a lavoro per la città” umbriaon.it, 28 febbraio 2020 La proposta del gruppo consiliare della Lega: “Impegnare quelli selezionati e non pericolosi per la società in lavori socialmente utili”. “Impiegare detenuti, selezionati e non pericolosi per la società, per lavori socialmente utili”, a richiederlo, tramite un atto di indirizzo è il gruppo consiliare della Lega Terni con Devid Maggiora primo firmatario e sottoscritto da tutti i consiglieri. “Nel documento unico di programmazione di questa amministrazione - viene spiegato nel testo del documento - sono già stati previsti “Percorsi personalizzati integrati di inclusione sociale e socio lavorativa rivolti a persone detenute, donne vittime di violenza, minori sottoposti alla misura della messa alla prova”. In molti Comuni d’Italia sono già in vigore accordi tra amministrazione, ministero della giustizia e luoghi di detenzione che prevedono l’impiego di detenuti non pericolosi per la collettività che svolgono semplici attività socialmente utili a titolo gratuito e volontario”. Per questo motivo, viene richiesto nell’atto d’indirizzo della Lega Terni, “si impegna il sindaco e la giunta ad attivarsi con le amministrazioni carcerarie locali e il ministero di giustizia per concludere accordi che portino alla realizzazione di convenzioni per attività socialmente utili, a titolo gratuito e volontario, rivolte a persone detenute e che prevedano ad esempio pulitura dei parchi, raccolta delle foglie, pulitura dei muri, monumenti e panchine deturpate con vernici spray e chewing gum, raccolta mozziconi di sigarette, tinteggiature”. Bergamo. Cani da compagnia nel carcere di Michele Andreucci Il Giorno, 28 febbraio 2020 La sperimentazione del progetto “Interventi Assistiti con gli Animali”. I cani da compagnia diventano cani da terapia. Accade nella casa circondariale di Bergamo, dove quattro animali saranno i protagonisti del progetto di ricerca di “Interventi Assistiti con gli Animali” (Iaa), una sorta di terapia che ha come obiettivo di aumentare la socialità dei detenuti portatori di disagio psicologico e con difficoltà di adattamento all’interno dell’istituto di pena, con conseguente difficoltà di socializzazione e interazione con gli altri detenuti e le guardie carcerarie. I partecipanti saranno individuati dal referente del carcere e sottoposti ad alcuni test. L’intervento si articola in 14 incontri di 50-60 minuti, a cadenza settimanale, e coinvolgerà due gruppi per un totale di 18 partecipanti, quattro coadiutori e quattro cani. I dati saranno raccolti in forma anonima. Il progetto sperimentale recepisce le linee guida nazionali per Interventi Assistiti con gli Animali, perché il detenuto impari ad adattarsi al carcere, a gestire la propria emotività e il proprio stress. L’iniziativa sarà anche l’occasione, per i carcerati, di rielaborare il loro vissuto, servirà a smaltire i ricordi, anche i più duri. L’ipotesi della ricerca è che l’intervento si dimostri efficace nell’abbassare il livello di ansia e di stress, con ripercussioni positive sul benessere individuale del detenuto e del gruppo. Volterra (Pi). Teatro in carcere, affidato incarico per i “saggi” provincia.fi.it, 28 febbraio 2020 Barni: “Frutto del lavoro di squadra”. La Regione ha lavorato in questi mesi per risolvere l’enpasse che si era creato. Sbloccato il cantiere preliminare per la realizzazione del teatro stabile nel carcere di Volterra. La direttrice dell’istituto ha infatti firmato l’affidamento dei lavori alla ditta che dovrà realizzare i saggi nell’attuale area passeggi a ridosso del Mastio, l’unico spazio giudicato al momento idoneo. Soddisfatta l’assessore alla cultura della Toscana, Monica Barni, e con lei il collega assessore del comune di Volterra Dario Danti. “Abbiamo iniziato ad occuparci del teatro lo scorso agosto, un progetto e un’opera che era ferma da diversi e troppi anni, e in tempi ragionevolmente brevi vediamo adesso l’avvio del cantiere” commenta Barni. Il teatro in carcere a Volterra è un progetto, unico in Italia, che ha festeggiato nel 2019 trent’anni di attività, con molti reclusi (tra i circa 160 ospiti in media del carcere) che non sono spettatori degli eventi ma anche attori e protagonisti dietro e davanti le quinte. A stanziare i fondi per la realizzazione di un teatro da duecento posti era stato il Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: un milione e 200 mila euro. Vincoli architettonici e il fatto che il carcere sorga all’interno di un’antica Fortezza non ha aiutato nello sveltire pratiche e lavori. “L’errore in cui in questi casi non si deve cadere è però quello della ripicca dell’uno contro l’altro. Qualcuno l’ha fatto ed è il peggior modo per perdere ulteriore tempo” commenta ancora l’assessore Barni, riferendosi alle polemiche anche delle ultime settimane. Noi ci siamo concentrati invece sul raggiungimento del risultato, che si ottiene alla fine solo se si lavora tutti in squadra. Meno clamore insomma, meno annunci ma nel silenzio un gran lavorio. È quello che abbiamo fatto: con il Comune, con la Sovrintendenza di Pisa e Livorno, con il Provveditorato alle opere pubbliche e con i referenti per la Toscana del dipartimento di amministrazione penitenziaria”. Il teatro servirà a consolidare le attività teatrali, la cui metodologia, apprezzata a livello internazionale, ha modificato la vita all’interno del carcere: non solo per i detenuti, ma anche per tutti gli operatori. “Siamo soddisfatti e contenti per la bella notizia - ripete l’assessore alla cultura di Volterra, Dario Danti - Il lavoro fianco a fianco premia ed è così che dovrebbero sempre lavorare le istituzioni: in sinergia e in rapporto costante, rifuggendo dalla politica del clamore e degli annunci”. “Dagli esiti dei saggi archeologici che saranno realizzati - aggiunge - dipenderà il via libera definitivo alla costruzione del teatro”. Soddisfazione viene espressa dalla Sovrintendenza all’archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Pisa e Livorno. Acireale (Ct). Canzoni dal carcere minorile: l’Orchestra Jacarànda raddoppia il progetto di Giuseppe Attardi sicilianpost.it, 28 febbraio 2020 Il 29 febbraio vede la luce per Viceversa l’album realizzato con la collaborazione degli ospiti dell’Istituto penale per minorenni di Acireale. “Presto il secondo capitolo con il sostegno della Fondazione Treccani”. “I laboratori dietro le sbarre hanno cambiato noi e anche alcuni detenuti: in meglio” Il 29 febbraio vede la luce per Viceversa l’album realizzato con la collaborazione degli ospiti dell’Istituto penale per minorenni di Acireale. “Presto il secondo capitolo con il sostegno della Fondazione Treccani”. “I laboratori dietro le sbarre hanno cambiato noi e anche alcuni detenuti: in meglio” “Usciamo tutti quanti dal carcere e facciamo una vita diversa”. È l’augurio che si capta alla fine di Giuglianese rotante, la danza tradizionale che chiude Jacarànda, l’album di debutto della Jacarànda piccola orchestra giovanile dell’Etna. “Usciamo tutti quanti dal carcere e facciamo una vita diversa”. È l’augurio che si capta alla fine di Giuglianese rotante, la danza tradizionale che chiude Jacarànda, l’album di debutto della Jacarànda piccola orchestra giovanile dell’Etna. A esprimerlo è uno dei diciassette ragazzi, tra i 18 e i 24 anni, tre dei quali nordafricani, ospiti due anni fa dell’Istituto penale per minorenni di Acireale, coinvolti nella realizzazione del disco. Un’esperienza che abbiamo raccontato su sicilianpost.it nel reportage Acireale, un disco dai “pizzini” dei giovani detenuti. Il prossimo 29 febbraio, finalmente, quell’album vede la luce grazie a Viceversa Records, documentando una esperienza rimasta impressa nell’ensemble laboratorio diretto da Puccio Castrogiovanni, polistrumentista e compositore, storico membro de I Lautari. “La prima volta che entrammo all’Istituto penale per minorenni di Acireale fu per un concerto” ricordano i componenti della Jacarànda. “Sistemato un cerchio di pubblico e musicisti insieme, iniziammo a suonare… il pubblico inizialmente sembrava scettico, tiepido, poi sempre più coinvolto e partecipante. Alla fine, una delle educatrici ci disse: “I ragazzi hanno gradito molto la vostra musica. Nessuno ha chiesto di andare a fumare”. Così è nata una collaborazione; un afflato artistico che ha portato alla nascita di questo lavoro discografico. Ci siamo recati in carcere settimana dopo settimana per condividere lo spazio di libertà e di espressione del laboratorio di scrittura creativa condotto da Girolamo Monaco. Qui, ognuno ha portato sé stesso con onestà e l’esperienza di reclusione e di isolamento ha indotto anche in noi una riflessione più intensa. Così sono nate le nostre canzoni”. Dai racconti emergono la paura, il senso di ingiustizia, la fragilità e la voglia di pagare per i propri errori, per poter poi ricominciare. Quelli che all’apparenza sembrano scarabocchi, vengono rielaborati, tradotti in siciliano e trasformati in testi per essere adattati alla musica. Testi asciutti, duri, malinconici, commoventi, stemperati dal suono di una zampogna, di un flauto o di un canto femminile. Come Quattru. “Quattro, come gli angoli del mondo. Quattro, come le mura intorno a me. Quattro, come terra, acqua, fuoco e vento. Quattro, i pilastri della mia vita”. Quattro, come gli anni che Manuel, un ventenne di Milazzo, deve scontare a causa della somma delle condanne per una serie di piccoli reati. Vite e storie di chi sta dentro e fuori il carcere s’intrecciano, trovando punti in comune, nell’arabeggiante Porta ‘nsirrata: “Mi serve un po’ di forza / perché la libertà non c’è in questa gabbia”. In Talìu fòra un detenuto racconta di aver sentito in sogno il profumo del caffè della madre: “Rapu l’occhi / ora nta stanza c’è scuru / era ‘n sonnu / m’arristau n surrisu stampatu” (“Rapu l’occhia, la stanza è al buio, stavo sognando, un sorriso mi rimase stampato sul volto”) canta la superba voce di Valeria Grasso. “A cunfusioni pigghia u so postu / Vinci, / Propriu comu successi intra a me testa / Manca a quieti intra e fora” ha scritto Francesco in Cca manca: è la stessa confusione nella quale si trovò il venticinquenne di Adrano durante una lite finita in tragedia. La confusione creata da falsi idoli: “È inutile girarci intorno / qui si vive per il soldo / cash money è ciò che gira il mondo / oro nero bianco, rosso e giallo banconote e bancomat la missione è avere tutto quanto”, rappa Kaled Zaguez nella ritmata Cangiari jè na parola difficili. L’amore è un unguento per tutti i mali, come spiega la nonna di Gabriele Ricca in I misi di l’amuri. A smorzare tensioni ed emozioni arriva sul finire la travolgente e divertente Munnu persu, che in genere chiude le esibizioni live della Piccola orchestra giovanile dell’Etna: “Abballari, abballari, abballari”, perché “sembriamo angeli quando balliamo / e i problemi… fuori!”. “Quello che inizialmente doveva essere un laboratorio di musica d’insieme è diventato un’Orchestra” sorride Castrogiovanni che si è buttato anima e corpo in questo progetto. “Sono tutti diventati amici tra di loro. Non s’incontrano soltanto per suonare… Ci sono anche i miei figli”. Francesco e Sara. E poi ci sono Alessandra Pirrone, Simone Ardita, Benedetta Carasi, Luca e Riccardo Conte, Giuliano Ursino, Gabriele Ricca, Andrea Mirabella e Alessandro Pizzimento, che Castrogiovanni ha forgiato a sua somiglianza. E, ancora, Luca Bordonaro e Tommaso Noce. Ai quali, nell’album, danno man forte, oltre ai già citati Zaguez e Grasso, Michele Musarra, Salvatore Farruggio, altro “lautaro”, Valentina Lamartina, Lucrezia Costanzo. Special guest, Alfio Antico nelle vesti di pastore in Munnu pessu e Biagio Guerrera poeta in A ddi tempi. Jacarànda è il primo capitolo di un progetto che è stato sposato dalla Fondazione Treccani. “Stiamo già lavorando alla seconda parte”, anticipa Puccio Castrogiovanni. “Sarà più legato al Mediterraneo e vedrà la presenza di poeti tunisini. Tra gli autori dei testi ci saranno anche Faisal Taher dei Dounia e il poeta polacco Jaroslaw Miko?ajewski, traduttore nella sua lingua dei libri di Andrea Camilleri”. Punto di partenza continueranno a essere i laboratori con i ragazzi dell’Istituto minorile acese. “Che continuano a dare soddisfazioni a noi e agli educatori”, racconta il “re del marranzano”. “I laboratori dietro le sbarre hanno contribuito alla crescita dei componenti dell’orchestra e degli stessi detenuti. Nel prossimo album, ad esempio, c’è la canzone “Quannu scrivu fazzu danni” scritta da un detenuto che all’inizio snobbava i laboratori e teneva un atteggiamento spocchioso. Adesso è cambiato totalmente, è diventato più umile e disponibile, e, nella scrittura, ha trovato uno strumento per riscattarsi”. I baci perduti all’epoca del coronavirus di Gioacchino Criaco Il Riformista, 28 febbraio 2020 Chissà se ci baceremo ancora? È una domanda strana, in armonia con la stranezza del tempo in cui viviamo, all’ombra della minaccia del coronavirus. A Milano l’aria è tiepida, soffiata da una Primavera che ha precorso marzo: le scuole sono chiuse e i milanesi sciamano i figli in cortile a torso nudo, ne approfittano per estorcergli lavoretti che si rimandano di anno in anno, gli fanno ridipingere le recinzioni logorate dalla nebbia di inverni tramontati, gli permettono la trap ad alto volume. Il virus lo si teme ma gli si ruba l’effetto collaterale migliore, il tempo che regala. I meridionali in trasferta per lavoro nelle Regioni del Nord alle prese con i focolai del covid-19, approfittano dell’allarme, raccolgono un po’ di panni di rapina e montano su qualunque mezzo viaggi in direzione dell’Equatore. Tanti sudici non ancorati stabilmente a settentrione scappano via, tornano a casa fingendosi predati dal timore del contagio, facendosi alibi con i cancelli chiusi di scuole e università, di qualche azienda pavida. I meridionali, tanti, in queste ore che coincidono col carnevale, si mettono in fuga per il Sud, sentono incontenibile il richiamo del ritorno, che quando il pericolo incombe ha un solo nome: casa. È un istinto che non si controlla, basta farsi un giro delle autostazioni, vicino ai binari o agli autogrill per averne coscienza. Ma al Sud, a quelli che sono rimasti giù per privilegio o per coraggio, le nostalgie del virus fregano poco. Più che all’abbraccio dei fratelli che tornano badano alla potenziale unzione. Ed eccolo il covid-19 che perfido ribalta stereotipi e consuetudini secolari, più che dei barconi e della paura dello straniero hanno il timore delle corriere, dei compaesani che tornando dal contagio se lo portano dietro. Il nemico è tutto italiano, anzi, per una sorta di contrappasso, il Nord invidiabile per ogni classifica di benessere diventa l’appestato da evitare. E i meridionali che arrivano certi di un abbraccio fraterno si ritrovano a saluti strillati da lontano, a inviti di autorità locali all’auto-quarantena. È tramontata in un lampo la grammatica del bacio che da millenni umidifica le guance abbronzate: chi arriva non trova nessuno da cui farsi spupazzare, sguardi che si abbassano e spalle che si mostrano, un’imprecazione sussurrata dai muri: che ci siete tornati a fare, e così di corsa? Non è agosto e nemmeno Natale. Una folla così non si era mai vista per un semplice Carnevale. Neppure i mafiosi che del bacio avevano creato l’epica si azzardano ad allungare le labbra, stitiche e ritratte che mai, nemmeno le Procure, a manette sonanti, erano riuscite a spaventare. Nel tempo del coronavirus non ci si bacia più, mafiosi e non. E non esiste un Governo che ci rassicuri programmaticamente su quando ci baceremo ancora. Coronavirus, migranti negativi, equipaggi fermi in quarantena di Alessandra Ziniti La Repubblica, 28 febbraio 2020 E a Messina è arrivata la Sea Watch. È polemica. “Nel rispetto delle precauzioni sanitarie adottate, riteniamo discriminatoria l’applicazione esclusiva della misura a navi Ong”, dice Sea Watch. Sono tutti negativi i tamponi effettuati sui 274 migranti sbarcati quattro giorni fa dalla Ocean Viking di Sos Mediterranée e Msf in quarantena dentro l’hotspot del porto siciliano. Anche i test sulle tre persone che sabato erano state trasferite in ospedale con qualche linea di febbre sono negativi. E negativi anche tutti i campioni sulle altre persone asintomatiche. Resteranno comunque tutti isolati così come i componenti dell’equipaggio anche loro in quarantena a bordo della nave all’interno del porto di Pozzallo. Stesso destino per i migranti e l’equipaggio della Sea Watch 3 che approda oggi a Messina su indicazioni del Viminale nonostante la richiesta del presidente della Regione siciliana Musumeci di farli rimanere in quarantena a bordo della nave e non in una struttura a terra. Alla Ong tedesca è stato confermato che anche tutti i membri dell’equipaggio dovranno rimanere in isolamento a scopo precauzionale per due settimane. E questa volta, a far esplodere la polemica, sono le organizzazioni umanitarie che denunciano un trattamento discriminatorio nei loro confronti. “Nel rispetto delle precauzioni sanitarie adottate, riteniamo discriminatoria l’applicazione esclusiva della misura a navi Ong”, dice Sea Watch mentre Mediterranea fa notare che a Palermo da una nave da crociera sono scese migliaia di persone di varie nazionalita’ senza che sia stata adottata alcuna misura precauzionale. La quarantena forzata bloccherà quindi le due navi umanitarie in un momento in cui continuano ad arrivare richieste di soccorso da parte di gommoni e barconi. L’ultimo ieri pomeriggio da parte di 44 persone a bordo di un gommone bianco in acque internazionali. A rilanciare la polemica è la portavoce di Sea Watch Giorgia Linardi che, alla richiesta del governatore siciliano di far rimanere anche i migranti in quarantena sulla nave, replica: “ Laa nave trasporta dieci volte il numero regolare di persone previste, la quarantena a bordo sarebbe una misura disastrosa da un punto di vista umanitario e sanitario. Le autorità hanno predisposto quanto necessaario per le procedure di sbarco, le dichiarazioni del presidente Musumeci sono politiche”. Sul molo Norimberga del porto di Messina, ad accogliere la Sea Watch 3 sono presenti le forze dell’ordine e il personale dell’Asp. E anche Matteo Salvini, ma ovviamente da parte opposta, rilancia la polemica accusando il Viminale di aver consentito lo sbarco dei migranti approdati con le navi umanitarie ma di aver bloccato l’arrivo, previsto per martedi scorso, di un corridoio umanitario proveniente dal Niger. “Lo stesso governo che dall’inizio dell’anno ha spalancato i porti per 2359 immigrati - dice Salvini - ha bloccato un corridoio umanitario che prevedeva l’arrivo di 66 profughi dal Niger. Il governo è succube delle Ong: è complicità o incapacità?”. Coronavirus, bloccati i trasferimenti dei profughi dublinanti “da e per l’Italia” di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 28 febbraio 2020 In una comunicazione che Repubblica ha visionato si legge che “le autorità italiane hanno bloccato tutti i trasferimenti dei dublinanti da e per l’Italia”. Nelle prossime quattro settimane nessun aereo che trasporti profughi potrà atterrare nel nostro Paese. Nella lettera non è indicato il motivo, ma una fonte vicina al dossier parla di una decisione presa “a causa del virus”. Niente trasferimenti di profughi per tutto il mese di marzo: l’Italia ha bloccato i ricollocamenti a causa del coronavirus. Lo dimostra una lettera del tribunale di Hannover datata il 26 gennaio che ordina di liberare “immediatamente” un profugo trattenuto in via precauzionale dalla polizia che era in attesa di trasferimento in Italia. Nella comunicazione che Repubblica ha potuto visionare si legge che “le autorità italiane hanno bloccato tutti i trasferimenti dei dublinanti da e per l’Italia”. Una misura che vale “per tutto il mese di marzo”. Nelle prossime quattro settimane e mezzo “nessun aereo (che trasporti profughi, ndr) potrà atterrare” negli aeroporti italiani. Nella lettera non è indicato il motivo, ma una fonte vicina al dossier parla di una decisione presa “a causa del coronavirus”. Intanto il ministro dell’Interno Horst Seehofer ha detto la situazione in Germania si sta “aggravando” e che per ora gli aeroporti e le stazioni non verranno chiusi, si tenta di bloccare l’espansione del virus in modo mirato. Ma il suo collega, il responsabile della Sanità Jens Spahn ha detto che chi ha soggiornato in Paesi a rischio come l’Italia, la Cina, l’Iran o la Corea del Sud, dovrà dirlo all’arrivo. Dovrà compilare una Aussteigerkarte, un modulo in cui dovrà dichiarare tutti i suoi spostamenti: ha il senso di schedare tutti i soggetti a rischio per renderli rintracciabili, nel caso di un’estensione dell’epidemia. Peraltro, la quarantena per i casi sospetti, ha ricordato Spahn, “non è volontaria, è un obbligo”. In Germania si sono registrati dieci nuovi casi soltanto nelle ultime 48 ore. E in Nordreno-Westfalia oltre trecento persone sono in quarantena per una festa di carnevale a Gangelt alla quale ha partecipato una coppia di contagiati provenienti da Heinsberg. La donna, peraltro, fa la maestra e le famiglie dei bambini sono in quarantena e le autorità locali hanno chiuso l’asilo. L’uomo è un 47enne che sarebbe già stato malato prima di infettarsi con il coronavirus; da ieri è grave ma in condizioni stazionarie. Un altro caso che preoccupa è quello di un primario di Tubinga che sarebbe stato contagiato dalla coppia di Heinsberg; ha avuto contatti con altre dodici persone, e sono tutte sotto osservazione. A Coblenza un soldato 41enne ha contratto il virus, alcuni colleghi della Bundeswehr sono in quarantena. Il governo è ancora alla ricerca del “paziente zero”. Sotto la legge del maschio pakistano di Riccardo Bottazzo Il Manifesto, 28 febbraio 2020 Una donna coraggiosa lotta per riavere i suoi due figli (italiani) rapiti dal padre. Nascosti ad Islamabad, per la legge pakistana la madre non ha alcun diritto. Una donna coraggiosa. Una donna che ha avuto il fegato di ribellarsi ad una tradizione patriarcale che assegna alla madre solo un ruolo “complementare” al marito, senza nessun diritto sui figli. N.P.B., 41 anni, attualmente è costretta a vivere nascosta in una città dell’Emilia Romagna, inserita in un programma di alta protezione dall’associazione Donne e Giustizia di Ferrara. Ma N. è anche una donna disperata. I suoi due bambini, U.S, di 9 anni, e la sorellina S.S., di 8 anni, sono obbligati a vivere lontani da lei, nascosti in casa di uno zio materno, ad Islamabad. Una situazione pesantissima, che si protrae dal gennaio del 2018, da oltre due anni durante i quali i due bimbi non hanno potuto frequentare nessuna scuola e sono stati privati anche di ogni assistenza sanitaria. Una vicenda che ha del paradossale, soprattutto se si considera che i due bambini sono entrambi cittadini italiani. Sono nati e cresciuti entrambi in Italia, nelle Marche, da un padre, M.B. di 38 anni, che, se pure di origine pakistana, ha la cittadinanza italiana. Ed è proprio il padre, trovatosi una nuova compagna, li ha portati in Pakistan e abbandonati ad Islamabad, dopo aver sottratto tutti i documenti per impedire loro di far ritorno in Italia. “Una pratica di, chiamiamolo “divorzio”, purtroppo molto diffusa tra la comunità pakistana dove le caste e la tradizione patriarcale, in cui la donna conta meno di un capo di bestiame, sono regole non scritte ma accettate a tutti i livelli sociali. Quando un uomo si stufa della propria moglie, sposata, come è avvenuto per N, per procura e per intercessione delle famiglie, la rispedisce semplicemente alla sua famiglia come una merce scaduta. Poi il marito, padre e padrone, ritorna in Europa, si risposa con chi vuole lui perché il secondo matrimonio è sempre più libero - anche se le regole di casta vanno lo stesso rispettate - e non ha nessun obbligo di restituire la dote e, soprattutto, di accollarsi il mantenimento dei figli”, spiega Grazia Satta dell’associazione PortAmico del Comune di Portomaggiore (Fe) che, non a caso è uno dei Comuni italiani con maggior presenza della comunità pakistana. È a PortAmico che N. si è rivolta per cercare aiuto, dopo che è stata costretta a fuggire dalla città marchigiana in cui risiedeva per le minacce ricevute da alcuni esponenti maschili della locale comunità pakistana. La sua colpa è di non aver accettato questo costume “tradizionale” e di essere rientrata in Europa, passando per l’Inghilterra - Paese per il quale non è previsto nessun visto per chi proviene dal Pakistan - per chiedere giustizia. Non ha potuto portare con sé i suoi due bambini però, perché il padre ha sottratto tutti i loro documenti, e li ha affidati ad un suo fratello. Ottenere un duplicato, in Pakistan, è una pratica semplicemente impossibile per una donna se non c’è anche la firma di un uomo. Tutto, in una famiglia, appartiene al padre o, in alternativa, ai figli maschi. “I due bambini, che ricordiamolo ancora una volta sono cittadini italiani, stanno vivendo una situazione di altissimo rischio - spiega Germana Mascellani, operatrice di PortAmico. Se prima erano considerati solo come un fastidio, ora, grazie alla ribellione di N., sono diventati uno strumento di vendetta trasversale. La famiglia dell’ex marito, il padre e i fratelli di lui, hanno fatto istanza al tribunale di Islamabad per avere la tutela dei bimbi. Sino ad ora, lo zio materno è riuscito a rinviare le udienze grazie a certificati medici e ad altri accorgimenti, ma il tempo stringe. Noi ci siamo rivolte a tutte le istituzioni, dalla Farnesina alla Presidenza della Repubblica, perché intervengano presso l’ambasciata italiana del Pakistan perché rilascino una copia del passaporto ai due bambini che permetta loro di ricongiungersi con la madre, ma sino ad ora non abbiamo ricevuto risposte. La donna è disperata. Non può tornare in Pakistan, non può riabbracciare i figli, non può garantire loro un futuro. Ma è una donna che ha avuto il coraggio di ribellarsi. È una donna che va aiutata, e il più presto possibile, anche perché possa essere d’esempio per tante altre donne che subiscono questi soprusi”. N. non ha la cittadinanza italiana. Arrivata nel nostro Paese è sempre stata tenuta segregata in casa dal marito padrone. Prima che si rivolgesse a PortAmico, non era neppure mai stata in un supermercato. Germana e Grazia ricordano ancora la sua emozione quando l’hanno accompagnata per la prima volta a fare una spesa in un luogo per lei così strano, pieno di donne libere che riempivano il carrello dei prodotti che sceglieva loro. Se non ci fossero stati i decreti Sicurezza che hanno bloccato la sua richiesta di cittadinanza in itinere, forse sarebbe anche lei una cittadina italiana e tutto le sarebbe stato più facile. Ma senza quel pezzo di carta, all’ambasciata italiana di Islamabad non le hanno lasciato neppure mettere dentro il naso. I bambini sì, loro sono italiani, ma in Pakistan senza la firma del padre, senza la firma di un uomo, non possono chiedere neppure una copia di un qualsiasi documento. Neppure per frequentare una scuola o per andare dal medico. N. e i suoi figli possono, per questo, ringraziare Salvini. Stati Uniti. Il Colorado abolisce la pena di morte La Repubblica, 28 febbraio 2020 Lo stato americano diventerà il 22esimo senza pena capitale, il decimo ad eliminarla dal 2004. La legge entrerà in vigore a partire dal primo luglio, le modifiche non si applicano agli attuali tre condannati. Il Colorado diventerà il 22esimo Stato americano ad abolire la pena di morte. Ieri, è arrivato il via libera definitivo del Parlamento, controllato dai democratici, con il voto 38- 27 alla Camera, che ha mandato il provvedimento sulla scrivania del governatore Jared Polis, che lo firmerà. La legge si applicherà a partire dal 1° luglio 2020 ma non inciderà sul destino di tre uomini nel braccio della morte che subiranno l’esecuzione per iniezione letale, tra i quali anche ra cui Nathan Dunlap, che uccise quattro persone in un ristorante ‘Chuck E. Cheesè di Aurora nel 1993. Il governatore dem Polis ha già detto che potrebbe prendere in considerazione la grazia. “Tutte le richieste di grazia sono decisioni importanti che il governatore giudicherà in base ai meriti individuali”, ha dichiarato il portavoce di Polis, Conor Cahill. I parlamentari del Colorado hanno ripetutamente tentato di abolire la pena di morte dalla sua restaurazione nel 1979, ma finora non avevano avuto success La decisione di ieri è arrivata dopo 11 ore di dibattito, i senatori hanno discusso fino a tardi lunedì e di nuovo, molto presto, martedì. L’abolizione della pena di morte è stata molto contestata, in particolare dall’opposizione repubblicana. A corto di argomenti, un rappresentante repubblicano, Steve Humphrey, ha letto la Bibbia per quasi 45 minuti. “Sono rimasto impressionato e commosso dalla testimonianza e dai dibattiti che abbiamo ascoltato”, ha dichiarato il leader della maggioranza democratica, Alec Garnett. “Spero in una società in cui le risorse vengano spese per la riabilitazione, nel trattamento della dipendenza, non in iniezioni letali “, ha detto in una nota ai media locali. L’ultima esecuzione del Colorado risale al 1997, quando Gary Lee Davis fu ucciso con iniezione letale per il rapimento, lo stupro e l’omicidio avvenuto nel 1986 della sua vicina di casa, Virginia May. L’anno scorso sono state registrate 22 esecuzioni negli Stati Uniti, concentrate in sette Stati, quasi tutti nel sud conservatore e religioso del paese, in particolare in Texas, dove ci sono state nove esecuzioni. Movimenti e disegni di leggi per l’abrogazione della pena capitale iniziano a pesare anche in Wyoming, Utah e Ohio. Siria. Continuano i combattimenti e gli ultimatum turchi contro Assad di Chiara Cruciati Il Manifesto, 28 febbraio 2020 Ankara dà tempo a Damasco fino a fine mese per lasciare la provincia di Idlib. Intanto, secondo media russi, le truppe turche avrebbero aperto il fuoco contro caccia di Mosca. Mai la Siria è stata tanto invisibile quanto al tempo del coronavirus. Eppure si continua a combattere a Idlib, la provincia nord-ovest siriana da cui in due mesi - secondo dati Onu - 900mila persone sono fuggite per i bombardamenti russo-siriani che da mesi colpiscono la zona. Ieri le opposizioni islamiste filo-turche hanno preso la città di Saraqeb, strappandola a Damasco. Una vittoria non da poco: Saraqeb ha una posizione strategica, il punto in cui le autostrade M4 e M5 si incontrano, collegando il nord e il sud, Aleppo alla capitale Damasco passando per Homs e Hama. Ed è porta di accesso alle città di Idlib e Ariha, le più grandi della provincia. Così non da poco da ridare slancio ai gruppi islamisti che hanno fatto di Idlib, in questi anni di guerra civile, il bastione delle opposizioni, il centro amministrativo di una galassia che continua a ruotare, con più o meno fedeltà, intorno alla “filiale” qaedista siriana, l’ex Fronte al-Nusra. Riprende slancio anche il presidente turco Erdogan, impegnato da giorni in uno scontro diplomatico e militare ad alta intensità: ai ferri corti con il nemico-amico russo, prossimo a lanciare una vera e propria operazione su Idlib in chiave anti-Damasco, mercoledì Erdogan ha rimesso sul tavolo l’ennesimo ultimatum. O il governo siriano si ritira o la Turchia interverrà per impedire che Idlib torni sotto il controllo del presidente Assad. “Stiamo pianificando di liberare le nostre postazioni - ha detto all’incontro del gruppo parlamentare dell’Akp - dalle [forze siriane] che le circondano entro la fine del mese, in un modo o nell’altro”. Il riferimento è alle 12 postazioni di osservazione costruite da quando Ankara invase il nord della Siria nell’agosto 2016 per andare a occupare prima il cantone curdo-siriano di Afrin e poi 100 km di territorio del Rojava. E continua ad ammassare truppe: in queste settimane sono arrivati in territorio siriano centinaia di carri armati e artiglieria pesante a sostegno dei gruppi islamisti. Forze che esplodono anche contro il principale sponsor damasceno, la Russia: ieri, secondo l’emittente tv Rossiya 24, l’esercito turco avrebbe aperto il fuoco contro aerei da guerra russi. La battaglia per Idlib prosegue, con il suo carico di morte e di interessi di parte. In Pakistan la legge non ferma i delitti d’onore di Rafia Zakaria* Internazionale, 28 febbraio 2020 In Pakistan fa caldo, in modo soffocante e terrificante, ma il problema degli omicidi di donne (e di qualche uomo) in nome dell’onore non conosce battute d’arresto. Qualche settimana fa un uomo che ce l’aveva con le sorelle per una lite familiare ha cominciato a picchiarle con un bastone. Quando la nonna, centenaria, ha cercato di intervenire, ha cominciato a picchiare anche lei: l’età non conta davanti al privilegio maschile. Quando l’uomo si è deciso a fermarsi la nonna e una delle sue sorelle erano morte. L’altra sorella si trova in ospedale in condizioni critiche. Prendiamo il mese di maggio. Il 1 un uomo ha ucciso a colpi di arma da fuoco sua sorella e il suo presunto spasimante a Charsadda. In un altro episodio una giovane coppia di Karachi si preparava ad andare a cena con la famiglia della moglie. I due si erano sposati per loro decisione due anni prima e la famiglia di lei non era d’accordo con questa relazione. Di ritorno dalla cena, il risciò in cui la coppia viaggiava (il marito era un conducente di risciò) è stato fermato da aggressori sconosciuti che hanno imbottito i loro corpi di proiettili. Entrambi sono morti. Dai notiziari si è appreso che la polizia stava aspettando di contattare qualcuno nella famiglia del marito per una denuncia formale, poiché si ritiene che la famiglia della moglie sia coinvolta negli omicidi. Copertura familiare - Questi sono solo gli ultimi episodi della tragedia in corso in Pakistan. In poco più di settant’anni di esistenza, il Pakistan si è dato un gran da fare per uccidere le sue donne e, in alcuni casi, i suoi uomini per “reati” come il rifiuto di un matrimonio, relazioni immaginarie in cui le accuse servono da giustificazione per la rabbia maschile, relazioni inventate che fanno da copertura ad altri motivi per ottenere un’eredità o sbarazzarsi di vicini inopportuni. Quasi ogni contrasto si presta a sfociare in un delitto d’onore, una copertura grazie alla quale tutto il quartiere e la società si schierano dalla parte dell’omicida e chiudono un occhio se le indagini si impantanano e la giustizia passa in secondo piano. Dall’entrata in vigore della legge, nel 2016, sono state uccise 1.280 persone in delitti d’onore - Tutto questo sarebbe dovuto cambiare, almeno un po’, dopo l’approvazione in parlamento di una legge contro il delitto d’onore, nel 2016. Infliggendo ai colpevoli di delitti d’onore la pena obbligatoria dell’ergastolo e non permettendo alla famiglia di “perdonare” il delitto, si prevedeva una diminuzione, se non addirittura la fine, degli omicidi. Il meccanismo di collusione in base a cui le persone di una famiglia commettono questo tipo di reati e poi sono sommariamente “perdonate” dall’altra famiglia, sarebbe stato eliminato. Si sperava inoltre che la legge avrebbe inferto un colpo anche all’idea che una morte possa essere ammissibile o “onorevole”. Un omicidio è sempre un omicidio, e le pene obbligatorie erano un modo per sottolineare questo dato di fatto, che però a quanto pare in Pakistan è ancora contestato. Questo esperimento pieno di speranze è fallito. Secondo i dati forniti dalla commissione per i diritti umani del Pakistan, dall’entrata in vigore della legge sono state uccise 1.280 persone in delitti “d’onore”. In più della metà dei casi non è stata sporta denuncia formale e non sono state fornite notizie. Naturalmente in assenza di denuncia formale non c’è alcun procedimento giudiziario. Secondo gli esperti, inoltre, queste cifre, basate su quanto riportato dai mezzi d’informazione e da fonti simili, con ogni probabilità sono sottostimate. Se i delitti d’onore di cui si parla nei giornali continuano a un ritmo così impetuoso, ciò vuol dire che il numero reale potrebbe essere ancora più alto. Sbarazzarsi del “perdono” - Questi casi non ricadono nemmeno nell’ambito di cui si occupa la nuova legge, che aveva l’obiettivo di imporre pene obbligatorie in caso di delitto d’onore. Perché questo accada, infatti, il caso deve essere classificato come delitto d’onore al momento della denuncia formale. Se ciò non accade, come può essere applicata la pena? La via d’uscita più semplice allora è limitarsi a insistere sul fatto che il delitto abbia altre motivazioni. Il risultato è sotto i nostri occhi: i delitti d’onore (anche quelli classificati in questo modo) continuano a essere commessi. Anzi, potrebbero essere in aumento, anche se molte denunce formali non fanno alcun riferimento all’onore come motivazione per il delitto. Se la lotta contro i delitti d’onore è sincera e il Pakistan non è diventato talmente spietato da essere del tutto insensibile a notizie che parlano di coppie adolescenti uccise con una scossa elettrica, persone di ritorno da una cena crivellati da proiettili, donne bruciate, carbonizzate o strangolate, allora occorre un’unità d’indagine speciale che approfondisca le motivazioni di questi omicidi. L’onere di assicurarsi che gli omicidi d’onore siano classificati come tali e non sfuggano all’obbligatorietà della pena deve ricadere sulle forze dell’ordine. Se questo è ritenuto irrealizzabile perché troppo costoso, forse è giunto il momento di sbarazzarsi del “perdono” per gli assassini, in modo che tutti siano sottoposti a pene obbligatorie, un fatto che ridurrebbe non solo i delitti d’onore, ma anche il tasso complessivo di omicidi nel paese. Sistemi legali come quello in vigore in Pakistan non funzionano bene a causa di un miscuglio di motivazioni e della possibilità di pene che non implicano il carcere, come per esempio il pagamento di soldi o il perdono, che rendono inefficace l’attuale sistema. L’unico modo per porre fine a questo genere di reati, che provocano nel paese la morte di moltissime persone in modi violenti e attribuiscono al Pakistan la reputazione di paese misogino e barbaro di fronte al resto del mondo, è assicurarsi che queste misure siano intraprese e che le leggi che non funzionano siano sostituite con altre che invece funzionano. *Traduzione di Giusy Muzzopappa