Il dilemma sulle celle: nei 3 metri quadri si conta il letto? di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 febbraio 2020 La Corte di Cassazione e i diritti dei detenuti. Nel 2009 e del 2013 l’Italia fu condannata per “trattamenti inumani”. Può sembrare una barzelletta e invece è una questione tremendamente seria: nei 3 metri quadrati di spazio minimo in cella - sotto i quali per giurisprudenza europea un detenuto in carcere è considerato sottoposto a tortura, e per legge italiana va indennizzato con un rimedio risarcitorio - si deve contare o no il letto? E la risposta cambia se il letto è a castello a due e tre piani? E il terreno occupato da quel poco di armadio o comodino, vale o no? La questione ora finirà davanti alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione su impulso della I Sezione (presidente Mazzei, estensore Cairo), di fronte da un lato all’ennesimo tentativo del ministero della Giustizia di opporsi al pagamento di un indennizzo provando a giostrare sui numeri dei metri quadrati al netto del mobilio, e dall’altro a sentenze talvolta difformi. Sin da quando condannò l’Italia nelle sentenze Sulejmanovic nel 2009 e Torreggiani nel 2013, la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ravvisa “trattamenti inumani e degradanti” tutte le volte che un detenuto sia recluso in una cella collettiva con meno di 3 mq. a testa. Nel 2014 l’Italia si dotò allora per legge di un rimedio risarcitorio: chi sia stato detenuto per almeno 15 giorni nelle condizioni censurate da Strasburgo può ottenere la riduzione della pena ancora da espiare pari ad 1 giorno per ogni 10 di reclusione in quello stato, mentre se ha esaurito la pena può avere 8 euro per giorno di detenzione. L’Italia, all’epoca della sentenza Torreggiani, era arrivata ad avere 66 mila detenuti, e ora ci si sta avvicinando, visto che a novembre 2019 erano La condizione delle donne nelle carceri italiane di Irene La Mendola salernonews24.com, 27 febbraio 2020 Le riflessioni di Marta Cartabia, la prima Presidente donna della Corte Costituzionale, intervistata nel programma “Senza Distinzione di Genere”. Nella puntata di Rai Storia di giovedì 20 febbraio nel programma “Senza distinzione di genere” Stefania Battistini ha intervistato la Presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, prima donna nella storia italiana a ricoprire questo incarico. Nell’intervista la Presidente riflette sul modo in cui la Corte Costituzionale ha recepito i cambiamenti della società rispetto alle donne, in famiglia, nel lavoro e nei diritti civili, fino ad analizzare i problemi delle donne in stato di detenzione. In particolare, la sua attenzione va alle donne che in carcere sono più bisognose di tutela, come quelle con figli. Come premessa imprescindibile, l’intervista muove dall’articolo 27 della Costituzione in cui è espresso un principio fondamentale: la pena non può consistere in un trattamento contrario alla dignità umana, al senso di umanità. Questo principio è comune alle Carte dei Diritti degli altri paesi. Ma nella Carta costituzionale italiana è anche esplicitato, al medesimo articolo, qual è lo scopo delle sanzioni: la risocializzazione del condannato, per offrire una nuova opportunità di vita. Non è un caso dice la Cartabia: “molti dei Padri Costituenti hanno patito il carcere prima di occuparsene come uomini politici” e ricorda Pietro Calamandrei e il suo pensiero “se voi volete andare nei luoghi dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati”. Quanto alle donne nelle carceri, la riflessione della Presidente è che il carcere non è stato pensato per loro. La percentuale di donne in Istituti di detenzione rispetto agli uomini è bassissima: su circa 60.000 detenuti, le donne sono poco più di 2.000. Per le donne il delitto è un fatto più episodico e isolato. Ma se in passato vi era una prevalenza di delitti commessi per onore o gelosia, ora la maggior parte dei reati commessi da donne sono relativi a droga e furto. Le detenute, rispetto ai detenuti, sono più predisposte ad un trattamento di rieducazione e, quindi, più facilmente recuperabili. Alla domanda della Battistini sulle esigenze delle donne, la Cartabia elenca i bisogni dal più frivolo al più importante: essere in ordine con il proprio aspetto, avere uno spazio in cui tenere il proprio abbigliamento, fino alla esigenza di rivedere i propri cari perché soffrono molto la privazione degli affetti, oltre che della loro libertà. Ma le donne spesso lamentano che quando sono loro ad essere detenute, i loro uomini spariscono, non vanno più a trovarle. Il problema più grave è la separazione delle donne dai figli e la necessità di spazi idonei. In alcune carceri i figli possono crescere con madri che devono scontare una condanna pluriennale, ma questi bambini si trovano a vivere in reclusione senza aver commesso alcun delitto e a scontare la voragine della diffidenza da parte della società, una volta tornati in libertà. La Professoressa Cartabia continua ad analizzare una importante sentenza della Consulta del 2014 ispirata al concetto di equilibrio tra l’interesse punitivo dello Stato e l’interesse relazionale del minore innocente. Afferma che una madre in stato di detenzione può certamente essere una buona madre: “Non c’è nessuna equazione tra l’aver commesso un reato e non essere una madre adatta a mantenere un rapporto con il figlio”. Per alcuni reati la detenzione domiciliare della donna è consentita fino a quando il figlio minore compie 10 anni. L’indicazione di tale limite di età è il frutto di una serie di modifiche legislative che hanno condotto a questo punto. Diverso è il caso delle condannate con figli che hanno una grave disabilità, in quanto in questo caso non ci sono limiti di età per la detenzione domiciliare in conseguenza del grado di dipendenza dalla madre. E la prostituzione? Chiede la Battistini. Chiarisce la Cartabia che non è un reato, ma lo sono i comportamenti “paralleli” quali l’induzione alla prostituzione, lo sfruttamento e l’adescamento, fino al reclutamento mediante traffico di esseri umani. “Molto spesso le persone approdano alla prostituzione in condizioni di bisogno e di vulnerabilità”. Spesso si tratta di persone che vengono da altri paesi con l’illusione di inserirsi con lavori onesti ma, non riuscendo ad integrarsi, ripiegano su questa modalità di guadagno come scorciatoia, oppure vengono costrette in schiavitù. Figure illuminate come la Presidente Cartabia sono determinanti per il futuro del paese e degne di fiducia. Tanto è stato fatto per abbattere alcune barriere negli Istituti penitenziari negli ultimi decenni. Ma sappiamo che la strada è ancora lunga prima poter vivere in un paese in cui la pena davvero consista in un trattamento che tenga conto delle differenze di genere e che, soprattutto, sia idonea a rieducare e re inserire i condannati. Ma il recluso non è una persona col diminutivo di Lucio Boldrin* Avvenire, 27 febbraio 2020 Fin dal linguaggio colpisce l’abitudine di trattare i carcerati come bambini o “adulti incompleti”, che devono soltanto subire le decisioni altrui. C’è un aspetto della vita penitenziaria che mi colpisce quotidianamente: l’infantilizzazione. Fin dai primi giorni del mio incarico ho avuto infatti la sensazione che i carcerati siano trattati da bambini o da “adulti incompleti”. Il linguaggio ne è il primo segnale. Per esempio l’uso e l’abuso di parole col suffisso “-ino”, come “spesino” o “scopino”, che indicano i lavori svolti all’interno dell’istituto. L’istanza per l’ottenimento di un permesso premio o di una misura alternativa, poi, viene comunemente chiamata” domandina”. Termini, secondo me, da cui emerge uno scarso rispetto per l’uomo o la donna che ha inoltrato la domanda, e un senso di svalutazione della richiesta stessa, ma dalla quale talvolta dipende la libertà della persona. Faccio presente che alla “domandina” non corrisponde una “rispostina” (sempre sperando che arrivi... magari non con tempi biblici), perché nessuno oserebbe definire in tal modo la decisione del direttore, né tanto meno del magistrato o del Tribunale di sorveglianza. Per ogni detenuto è previsto un percorso individuale con i pochi educatori/educatrici e psicologi che ci sono, ma francamente mi è difficile comprendere come si possa responsabilizzare una persona, quando il ruolo della persona stessa si riduce a essere quello di ricettore di decisioni di altri. Questo percorso individuale (peraltro di difficile realizzazione, per mancanza di personale e fondi) è comunemente chiamato “trattamento”. Non si tratta in realtà di un patto trattamentale, come avviene nelle comunità di recupero, ma appunto di un “trattamento”, quasi che il detenuto ne sia solo l’oggetto e non il protagonista. Resta così la sgradevole sensazione che vi sia un agire teso a privare le persone recluse della capacità e del diritto a decidere, a gestire la propria quotidianità, a essere coinvolte in maniera attiva alla partecipazione dell’organizzazione della vita comunitaria. L’unica prospettiva per i detenuti, e ho l’impressione che sia così in tutte le carceri, è dunque formulare le famose “domandine” con la speranza di essere ascoltati. Purtroppo, se non riescono a ottenere nulla, può accadere che usino l’altro linguaggio che conoscono e che è tristemente comune all’interno di tutti gli istituti di pena: fanno “gridare” il loro corpo con atti di autolesionismo, tentativi di suicidio o simulazioni. Una condizione che meriterebbe maggiore, e concreta, attenzione. *Cappellano della Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia (Roma) Coronavirus, massima attenzione per chi lavora nei “front office” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 febbraio 2020 Le indicazioni per proteggersi nelle carceri, compresi istituti minorili e comunità. I visitatori dovranno essere sensibilizzati a un comportamento responsabile, dichiarando preliminarmente la propria provenienza. Arrivano altre disposizioni urgenti per la prevenzione dal coronavirus all’interno delle carceri italiane, compresi gli istituti penitenziari minorili e le comunità. Misure che puntano molto alla prevenzione, senza intaccare le norme primarie che riguardano le concessioni dei permessi premio e altri benefici che, per ora, non sarebbero giustificate. Quindi cautela e misure per limitare e/o proteggersi da eventuali contagi. Le indicazioni dispongono che dovrà essere assicurata una adeguata azione di informazione sulle cautele da adottare e sulle modalità di contagio, sulla base delle indicazioni fornite dal ministero della Salute e dall’Oms, attraverso l’affissione nelle bacheche e nelle aree comuni delle sedi di avvisi (laddove necessario pluri-lingua) e la diffusione dei vademecum tematici. I comandanti del Reparto e i coordinatori organizzeranno periodiche conferenze di servizio informando il personale sugli atti e disposizioni amministrative che forniscono informazioni e disposizioni in materia, ribadendo le stesse in almeno tre conferenze consecutive per rendere edotto il personale sottoposto a turnazioni. Le indicazioni del ministero puntano molto anche ai dispositivi di protezione individuale (Dpi) per il personale che opera negli istituti penitenziari. Particolare attenzione e scrupolo dovranno essere dedicati ai posti di servizio che per loro natura sono considerati di “Front- office”. Il personale in servizio dovrà adottare le consuete misure di sicurezza, secondo le indicazioni del medico competente. I visitatori dovranno essere sensibilizzati a un comportamento auto responsabile, dichiarando preliminarmente la propria provenienza. Qualora un visitatore dichiari di provenire o aver soggiornato negli ultimi 14 giorni in territori nazionali sottoposti a misure di quarantena e di aver avuto contatti con persone affette dal virus, dovrà essere interdetto l’ingresso nei servizi dell’Amministrazione, con invito al visitatore a comunicare la propria situazione alle Autorità competenti. Per quanto riguarda le collaborazioni con le comunità del privato sociale, i responsabili delle comunità dovranno essere invitati a prendere immediato contatto con le competenti autorità sanitarie per l’adozione delle opportune misure di prevenzione e protezione. I responsabili delle comunità dovranno assicurare ampia informazione al proprio personale sulle disposizioni impartite dalle Autorità sanitarie e amministrative e sulle misure di prevenzione e protezione adottate; dovranno altresì assicurare ai giovani ospiti una puntuale informazione sulle misure di igiene e prevenzione previste dalle indicazioni diffuse dal ministero della Salute e dall’Organizzazione mondiale della Sanità. Laddove se ne presentasse l’esigenza, sempre secondo le indicazioni del ministero della giustizia, gli eventuali trasferimenti intracomunitari di minori/ giovani adulti dovranno essere valutati sulla base delle disposizioni impartite dalle ordinanze operanti nei territori ove sono ubicate le strutture di partenza e di destinazione. Particolare attenzione dovrà essere dedicata al controllo sui detenuti che hanno accesso dall’esterno (i cosiddetti nuovi giunti): per costoro, secondo le indicazioni, sarà opportuno eseguire uno specifico preliminare monitoraggio. Sono indicate anche disposizioni per quanto riguarda le traduzioni dei detenuti: gli automezzi dovranno essere abbondantemente areati prima di iniziare il viaggio. Qualora prescritto dall’autorità sanitaria competente o dal medico competente, gli automezzi dovranno essere sempre sottoposti a disinfezione mediante disinfettanti e detergenti sanitari. Ogni automezzo dovrà essere dotato dei Dpi per il personale di scorta e di un kit di disinfezione sanitario per uso esterno delle mani e di confezioni di fazzoletti di carta monouso. Di Giacomo (S.PP.): “Se il coronavirus entra nelle carceri l’unica soluzione è evacuarle” palermotoday.it, 27 febbraio 2020 Chiesto un piano d’emergenza per le strutture del Sud. Così il segretario generale del S.PP. (Sindacato del corpo di Polizia penitenziaria): “Si pensi solo cosa accadrebbe in istituti come quelli di Palermo, Catania, Napoli-Poggioreale, dove il sovraffollamento è maggiore”. “Con la nostra tenace pressione siamo riusciti a far scattare nelle prime carceri del centro-nord alcune misure per prevenire il coronavirus tra le quali il blocco dei colloqui dei detenuti. Adesso è necessario estendere le misure d’emergenza anche nelle carceri del Sud senza perdere ulteriore tempo”. Ad affermarlo è il segretario generale del S.PP. (Sindacato del Corpo di Polizia penitenziaria) Aldo Di Giacomo per il quale “si pensi solo cosa accadrebbe in istituti come Palermo, Catania, Napoli-Poggioreale, dove il sovraffollamento è maggiore, un detenuto su due è malato con patologie che ne fanno un rischio per sé e per gli altri, i medici per ogni carcere si contano sulle dita di una mano, scarseggiano persino i termometri e ci sono almeno un migliaio di detenuti con più di 70 anni. Si tratta, come è noto, di due categorie - malati cronici ed anziani - che come riprovano i decessi avvenuti sinora in Italia e non solo, sono considerati dagli esperti dell’Oms “i più vulnerabili”. “Per noi - dice Di Giacomo - lo ribadiamo, l’unica forma di prevenzione possibile nelle carceri è bloccare ogni contatto con l’esterno, insieme ad una campagna di vera prevenzione e di comunicazione che coinvolga prima di tutto il personale in servizio che è invece abbandonato a sé stesso nel gestire la situazione. Se invece qualcuno pensasse ad istituire in ciascun carcere una sorta di spazio isolamento per eventuali casi coronavirus - aggiunge Di Giacomo - farebbe bene a toglierselo dalla testa perché non solo non scongiurerebbe la diffusione del virus ma determinerebbe una situazione di panico tra i detenuti del tutto incontrollabile rispetto alla quale non resterebbe che evacuare il carcere con tutto ciò che comporta. Si provi ad immaginare in un carcere di mille detenuti quale potrebbe essere la reazione alla notizia di un possibile contagio all’interno dello stesso; si consideri, inoltre, che l’unica soluzione possibile per evitare il contagio dell’intero carcere è l’evacuazione dell’intera struttura. Quest’ultima strada appare del tutto non perseguibile per ovvi motivi, senza voler creare allarmismi, vi è la necessità assoluta di chiudersi verso l’esterno al primo focolaio del virus per evitare che tutti, poliziotti, detenuti, eccetera, possano sistematicamente ammalarsi”. Di Giacomo aggiunge: “sono molti i detenuti delle carceri del centro-nord, già da qualche giorno, a dimostrare buonsenso chiedendo, sempre più numerosi, di rinunciare ai colloqui con i familiari che invece si continuano a tenere negli istituti del Sud, senza alcun controllo per chi arriva come per nuovi detenuti, proprio come se niente fosse accaduto fuori degli istituti penitenziari. Si prenda esempio da questo atteggiamento di prudenza e si intervenga rapidamente con piani e programmi che coinvolgano prima di tutto il personale penitenziario”. L’inchiesta su Palamara è il caso di scuola per l’uso dei trojan di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 febbraio 2020 Così il virus spia trasforma il telefono cellulare in un microfono sempre acceso. I ben noti effetti deleteri del “processo mediatico”, cioè la pubblicazione di atti d’indagine prima che ci sia stata la sentenza, sono molto probabilmente destinati ad aumentare con l’utilizzo dei captatori informatici. Il rischio è stato paventato in queste ore dall’intera comunità dei giuristi. Con l’approvazione della riforma delle intercettazioni voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che non ha minimamente inasprito le pene per la pubblicazione arbitraria, è stato infatti esteso l’utilizzo del cd Trojan ai procedimenti per reati contro la Pubblica amministrazione commessi sia dai pubblici ufficiali che dagli incaricati di pubblico servizio. Una platea potenzialmente vastissima. Il virus spia, trasformando il telefono cellulare in un microfono sempre acceso, diventerà lo strumento d’indagine più invasivo esistente. Le tradizionali intercettazioni telefoniche registrano solo le conversazioni effettuate. Quelle ambientali, solo le conversazioni effettuate nel luogo (auto o appartamento) dove è stata preventivamente collocata la microspia. È di tutta evidenza, dunque, l’effetto dirompente che tale strumento avrà sulla privacy dei cittadini. L’indagine della Procura di Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm ed ex consigliere del Csm Luca Palamara può sicuramente essere portata come esempio di quali potranno essere questi effetti “collaterali”. Quell’indagine fu una delle prime in Italia dove il Trojan venne utilizzato per reati contro la Pa. L’indagine, al momento ancora in corso e che inizialmente puntava ad accertare se Palamara avesse preso tangenti affinché fossero nominati alcuni procuratori, si è poi estesa a fatti che non avevano alcun legame con l’imputazione originaria. L’episodio a tal proposito più eclatante riguarda alcuni consiglieri del Csm che parteciparono alla cena con Palamara lo scorso maggio. I colloqui di quella sera, dopo essere stati trascritti dagli inquirenti, finirono nel fascicolo d’indagine al fine di meglio tratteggiare la personalità di Palamara. I consiglieri, mai indagati, furono costretti alle dimissioni all’indomani della pubblicazione sui giornali di questi colloqui che, appunto, nulla avevano di penalmente rilevante. Va ricordato, poi, che non sono state previste sanzioni per l’eventuale mancato rispetto delle norme sull’utilizzo del Trojan e che sarà possibile utilizzare gli elementi emersi dalle captazioni anche per reati diversi da quelli per i quali si procede. Il tema maggiormente sensibile ed al momento sottovalutato attiene, infine, alle società, tutte private, che forniranno i captatori informatici. Chi vigilerà sulla correttezza del trattamento dei dati? La legge non lo indica. Paolo Sisto: “Queste intercettazioni sono una barbarie incostituzionale” di Giulia Merlo Il Dubbio, 27 febbraio 2020 Intervista all’avvocato e parlamentare Forza Italia: “Il decreto è una trappola inquisitoria che ci avvicina alla giustizia dei paesi antidemocratici”. “Una trappola inquisitoria, che rende la nostra giustizia sempre più vicina a quella dei paesi antidemocratici”, è la drastica definizione del dl Intercettazioni di Francesco Paolo Sisto. Il deputato di Forza Italia, da sempre in prima linea sui temi legati alla giustizia, analizza criticamente i contenuti di un decreto che giudica “eufemisticamente incostituzionale”, in particolare nell’allargamento dell’utilizzazione dei Trojan. Quali profili di incostituzionalità rileva? Innanzitutto è violato l’articolo 15 della Costituzione, che tutela la riservatezza, qui resa un mero fantasma. Per non dire del 24, 27, 111, tutti numeri che scandiscono la tutela della difesa, della presunzione di non colpevolezza, della parità delle parti nel processo. Questo decreto legge senza urgenza introduce norme che rendono l’Italia un paese sempre più a “Costituzione di mera apparenza”: il paradosso è che questo provvedimento che era nato, nella precedente legislatura, per limitare l’ipertrofia delle intercettazioni e renderle uno strumento di indagine non puramente esplorativo. Invece ora cosa è? Questa maggioranza, guidata dal giustizialismo dei 5 Stelle per nulla arginato dalla disinvolta complicità del Pd, ha trasformato il dl Intercettazioni in uno strumento di percussione dei diritti del cittadino. Con quali effetti negativi? Il primo è la consegna de facto del processo ai Pm, che acquistano nuovi poteri, per nulla attutiti da formule vuote e facilmente aggirabili, come il concetto di “rilevante”, legato a matrici prettamente soggettive. Il secondo è il “controllo incontrollabile” da parte di chi intercetta, grazie all’estensione allegra nell’uso dei Trojan horse. Una estensione illegittima, secondo lei? Assurda e inaccettabile sul piano culturale. Trovo inconcepibile che il decreto parifichi i reati dei pubblici ufficiali e, innovativamente, degli incaricati di pubblico servizio a quelli di mafia. I Trojan verranno utilizzati senza regole e senza limiti di luogo, tempo e quantità di dati. Si tratta di un modo di intercettare talmente invasivo da poter tranquillamente essere inserito di diritto nella categoria degli strumenti “a strascico”, più volte bacchettati dai Giudici di Legittimità. Ovvero: la giornata del “trojanizzato” sarà registrata, anche nei dettagli più intimi, senza che la Legge garantisca la reale eccezionalità della deroga. Insomma, lei dice che i Trojan sono uno strumento per cercare anticipatamente gli indizi? Sì, con i Trojan applicati come nel decreto si permette l’autolegittimazione esplorativa delle procure, rendendo strutturale l’incertezza della privacy dei cittadini. Di fatto, non si intercetterà per trovare la prova di un reato già ben individuato, ma si creeranno i presupposti formali per scandagliare le vite e intercettare di tutto e di più. Questa è inquisizione allo stato puro. Se poi si aggiunge tutto questo alle pene accessorie perenni, ai processi eterni, alle spaventose prospettive del diritto penale griffato Bonafede & co., la diagnosi/ prognosi è terrificante. Un paese che si accinge a diventare giuridicamente invivibile. Esiste un filo conduttore che collega tutte queste misure in materia di giustizia? È la logica pentastellata e piddina di raggiungere l’efficienza del processo con il sacrifico delle garanzie difensive. Il fine evidente è quello di demolire la presunzione costituzionale di non colpevolezza fino a sentenza definitiva: l’indagato diventa, anzi “è”, colpevole senza nemmeno bisogno che si eserciti l’azione penale, non serve nemmeno che sia formalmente imputato. Basta una iscrizione, il resto lo decide il processo mediatico; con la conseguenza che si può fare a meno anche del giudice, perché la condanna pubblica arriva molto prima, con una sentenza terribile perché non impugnabile. Le liste di proscrizione erano più democratiche. La maggioranza sostiene che il decreto prevede misure restrittive contro la pubblicazione di intercettazioni non rilevanti. Io sono convinto che il quadrante penale non si nutre di sanzioni. Serve una logica di sistema, di equilibri veri fra le parti processuali, non solo a parole. Gli argini ai poteri delle Procure non appaiono né chiari, né solidi. Il testo usa le solite parole standardizzate: “intercettazioni rilevanti”, per esempio, una sorta formula magica ad effetto desolatamente placebo. Quanta discrezionalità, a rischio arbitrio! Stessa musica per la motivazione per disporre intercettazioni nei luoghi di privata dimora: saranno “standard” che in realtà, uguali per tutti, non tuteleranno nessuno. Quali saranno i prossimi passi del governo in materia di giustizia? Non è un mistero che i 5 Stelle, con i loro inseparabili fratelli giustizialisti per interesse del Pd, puntino a minare i gradi di giurisdizione, a colpire il divieto di reformatio in peius, e chissà che altro ancora. Per esorcizzare tutto questo, serve una lotta corale di avvocati, magistrati, giuristi e, soprattutto, la sensibilizzazione dei cittadini tutti: in gioco c’è il cuore della nostra democrazia, perché la civiltà di un paese, come insegnava Renato Dell’Andro, si misura dalla qualità del processo penale. Lei dice che è le norme del decreto sono incostituzionali, aspetta un intervento della Consulta? Sì, ma la domanda è: quanto tempo ci vorrà? Con l’articolo 4 bis della legge Bonafede ci siamo arrivati rapidamente, con la dichiarazione di incostituzionalità della folle pretesa di “galera retroattiva”. Diciamolo chiaramente: oggi i giudici, proprio per la debolezza imbarazzante del Legislatore, incompetente e ignavo, sono stati costretti a diventare Legislatori essi stessi. Non più supplenti dei vuoti parziali, ma estensori in toto. La sentenza Cappato della Consulta, le decisioni delle Sezioni Unite su rilevanti profili del processo penale e del diritto sostanziale penale ne offrono esempi. Tanto perché in questa legislatura la qualità della produzione delle leggi ha un virus mortale. E quale sarebbe? Iniziative come il dl Intercettazioni hanno come unico obiettivo il risultato politico nell’immediato, a prescindere da competenze e diritti. È la terrificante lezione del diritto penale del consenso, costruito sull’incompetenza strutturale dei 5 Stelle e sulla deliberata correità del Pd. Una stagione inaugurata da Matteo Renzi con la memorabile la genesi dell’omicidio stradale. I dem hanno maggiori responsabilità? Il Pd conosce esattamente i danni che sta arrecando al Paese con questo decreto. Ma stesso discorso vale per Italia Viva, “garantista per caso”, che simula dura lotta sulla prescrizione e poi vota la fiducia al dl Intercettazioni. Questa alternanza scientifica tra giustizialismo e garantismo la dice lunga sulla loro serietà e marca tutta la differenza tra loro e noi di Forza Italia, garantisti per Dna, sempre al fianco di chi, come le Camere penali, ha a cuore la tutela delle radici giuridiche. Non resta che aspettare la Consulta, dunque? Oppure un governo diverso dal Conte 2. Basterebbe una notte per scrivere un decreto legge che cancelli queste ignominie e restituisca all’Italia certezze e al Parlamento dignità. “I dubbi sui Trojan? Sarebbero fondati se l’Italia fosse un paese normale” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 27 febbraio 2020 Intervista a Francesca Businarolo, presidente della commissione Giustizia alla Camera, in quota Movimento 5Stelle, difende la riforma delle intercettazioni che oggi dovrebbe essere approvata definitivamente in Parlamento. “Abbiamo inserito l’uso dei Trojan in un sistema di regole, non lo abbiamo mica liberalizzato”, spiega con convinzione. Eppure, in caso di reati contro la pubblica amministrazione, da domani potrà essere ‘ spiato’ non solo il pubblico ufficiale ma anche l’incaricato di pubblico servizio. Bidelli, dipendenti comunali, dipendenti delle Asl, per intenderci: tutti potenziali obiettivi di Trojan. Non si rischia di allargare un po’ troppo la platea e creare una società di controllati? Mi rendo conto che l’allargamento della platea è uno di quei provvedimenti che suscitano controversia e forti dubbi i quali, tuttavia, sarebbero fondati in una società diversa dalla nostra, diciamo in una Italia ideale dove la corruzione fosse un accidente. Ma non è così. Il nostro paese è nella morsa della illegalità da troppi anni e, sebbene la prevenzione è sempre la misura “principe”, abbiamo bisogno di una stretta che possa far emergere fenomeni piccoli e grandi di comportamenti illeciti. Piccoli e grandi tutti nello stesso calderone? Le due categorie sono già equiparate dal Codice penale rispetto a tutti i reati contro la pubblica amministrazione. Noi non facciamo altro che adeguarci al Codice, perché mai, dunque, dovremmo rendere possibili le intercettazioni solo per pubblico ufficiale e non per incaricati di pubblico servizio? E, infine, gli stessi dubbi che lei ricorda furono sollevati per la norma sul whistleblowing, per la quale io personalmente mi sono molto battuta: “Volete le spie ovunque? Volete la società degli spiati?” dicevano gli scettici. Oggi quella misura è una avanguardia che si sta facendo strada tra le misure anticorruzione con grande soddisfazione dell’Anac. Sparisce l’obbligo del pm e del giudice di specificare le modalità d’attivazione del Trojan. Non bisognerà più definire in anticipo, in altre parole, tempi e luoghi per l’attivazione del microfono del cellulare. Qualsiasi momento della nostra vita è potenzialmente spiabile. Ma anche un indagato avrà diritto alla privacy... Guardi che noi l’uso del Trojan lo abbiamo inserito dentro un sistema di regole, non lo abbiamo mica liberalizzato! In Parlamento, grazie a noi, è avvenuto esattamente il contrario di ciò che sostiene certa propaganda falsamente garantista. Il Trojan è una modalità di intercettazione ambientale già consentita per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, questa legge la disciplina meglio. Per usare questo metodo di intercettazione bisognerà motivare la sua indispensabilità e se ci sarà un difetto di motivazione si potrà impugnare la questione e poi, a differenza delle normali intercettazioni telefoniche e ambientali, il Trojan potrà essere utilizzato solo per i reati connessi a reati di mafia, terrorismo e contro la PA. Perché volerlo dipingerlo a tutti i costi come l’invasione del Grande fratello nelle nostre vite? Le intercettazioni incidentali tra indagato e avvocato saranno possibili anche se non trascrivibili. È sufficiente questa accortezza a tutelare il diritto alla difesa? Il diritto alla difesa è sacrosanto ed io su questo giornale ho detto di essere favorevole all’inserimento del ruolo dell’Avvocatura nella Costituzione. Esso, tuttavia, non può prevaricare la sicurezza di tutti: di fronte ad inchieste di corruzione le attività dell’indagato sono centrali per capire la consistenza reale del presunto reato. Per non dire che esistono casi di finti avvocati, o meglio di difensori che in realtà svolgono in concreto altri ruoli organici al disegno criminoso: naturalmente si tratta di rarissimi casi che non ledono affatto un ordine professionale composto da persone dedite alla deontologia e che spesso svolgono il proprio lavoro in circostanze faticose, penso ai giovani avvocati. Eppure quei casi esistono. Il presidente del Cnf, Andrea Mascherin, chiede che le intercettazioni incidentali con i legali siano immediatamente interrotte, appena scoperta la natura della telefonata, e distrutte le registrazioni. Perché tenerle in archivio? Perché esiste un sistema di garanzia che vale per tutti: le intercettazioni irrilevanti vanno gestite secondo modalità stabilite e poi distrutte al momento opportuno. La regola vale per tutti. E nulla, proprio nulla, finirà nel fascicolo processuale. Il rischio è che un pm, in modo scorretto, riascolti e utilizzi quelle intercettazioni per studiare la strategia difensiva dell’imputato. O dobbiamo affidarci fideisticamente alla buonafede dei magistrati? La strategia difensiva si fa una volta formulata l’accusa e dopo che una serie di passaggi stabiliscono la fondatezza di un procedimento. Non saltiamo le tappe pur di trovare le falle di una legge che è una buona legge, un buon compromesso tra diverse esigenze. Secondo Forza Italia, il pacchetto intercettazioni fa parte di un accordo politico tra Pd e M5S, un compromesso per far digerire ai dem la riforma della prescrizione... A Forza Italia non va proprio giù la norma che interrompe la prescrizione dopo la sentenza di prima grado! E cerca in tutti i modi di screditare chi la ha promossa e chi la sostiene. Io considero un importante passo avanti del Pd quello di non ostacolare la norma Bonafede, il Movimento è stato in grado di far capire le proprie ragioni. Se ne prenda atto. Il giudice stralci le intercettazioni dei colloqui tra imputato e difensore di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 27 febbraio 2020 Si dovrebbero prevedere sanzioni anche penali per chi a qualsiasi titolo divulga il contenuto di quelle ritenute irrilevanti o attinenti a fatti e vicende private dell’imputato. Confuso tra le notizie sulla diffusione del coronavirus è tornato di attualità il tema delicatissimo delle intercettazioni di conversazioni e di altre forme di comunicazione utilizzabili nel processo penale, da sempre oggetto di incessanti modifiche. L’occasione è data oggi dal Decreto legge 30 dicembre 2019 n. 161, di cui è in corso al Senato la definitiva conversione in legge. Il decreto è intervenuto in maniera piuttosto confusa su numerosi aspetti talvolta marginali della precedente disciplina, per cui anche per gli operatori del diritto risulta assai problematico ricostruire quale sia la disciplina attualmente in vigore. In questa materia si scontrano principi costituzionali di fondamentale importanza: da un lato l’interesse della collettività a che gli autori dei reati vengano perseguiti nella maniera più efficace e diffusa possibile, sancito dall’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale; dall’altro il diritto di difesa dichiarato inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Il ricorso al c. d. trojan horse, cioè l’inserimento di un captatore informatico su un dispositivo elettronico portatile, costituisce appunto uno degli strumenti volti ad agevolare la raccolta delle prove. Il recente decreto ne ha previsto una più vasta utilizzazione, estesa anche ai reati contro la pubblica amministrazione (quali concussione, corruzione) commessi da incaricati di pubblico servizio, mentre in precedenza figuravano solo i reati commessi da pubblici ufficiali, nonché a procedimenti penali diversi da quelli per cui è stata autorizzata l’intercettazione. Rimane comunque ferma l’utilizzazione del trojan per l’acquisizione di prove relative ad una lunga serie di reati gravissimi e gravi indicati dal codice di procedura penale, cioè quelli per cui è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a cinque anni, quelli per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza, nonché reati concernenti sostanze stupefacenti, pornografia minorile, adescamento di minorenni. Il ricorso a uno strumento così invasivo ai fini della raccolta delle prove deve evidentemente accompagnarsi a un adeguato intervento del diritto di difesa. Una volta terminate le intercettazioni il difensore dell’imputato deve essere avvisato della facoltà di esaminare gli atti, ascoltare le registrazioni, prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, cioè viene a conoscenza dell’intero materiale raccolto mediante le intercettazioni, anche della documentazione ritenuta irrilevante ai fini processuali ovvero relativa a fatti e vicende di carattere riservatissimo e personale relativi al soggetto indagato o ai terzi che con lui sono venuti in contatto. Paradossalmente l’esercizio del diritto di difesa trasforma il difensore in depositario di “segreti” del tutto estranei al suo ruolo processuale. Ma non è questo l’unico paradosso degli inestricabili rapporti tra raccolta delle prove mediante il trojan e diritto di difesa. Anche il pubblico ministero viene potenzialmente messo a conoscenza di conversazioni che non dovrebbe conoscere, cioè quelle tra l’imputato e il suo difensore, che vanno a finire nel gran calderone di tutto ciò che è stato acquisito attraverso le intercettazioni e viene poi depositato al difensore e al pubblico ministero che in un’apposita udienza chiederanno al giudice di acquisire agli atti del processo gli elementi ritenuti rilevanti. Certo, la legge prevede il divieto di utilizzare a fini processuali le registrazioni dei colloqui tra l’imputato e il suo difensore, ma intanto anche il pubblico ministero deontologicamente più corretto ha ascoltato quelle conversazioni o ne ha letto la trascrizione e sia pure inconsapevolmente ne terrà conto. In sede di conversione il recente decreto legge potrebbe da un lato essere integrato dalla previsione di sanzioni anche penali per chi a qualsiasi titolo divulga il contenuto di intercettazioni ritenute irrilevanti o attinenti a fatti e vicende private dell’imputato; dall’altro si dovrebbe prevedere che prima del deposito al difensore e al pubblico ministero il giudice stralci in via preliminare le intercettazioni relative agli eventuali colloqui tra l’imputato e il difensore, in modo che questo materiale rimanga in maniera assoluta al di fuori del procedimento penale e venga così sottratto alla conoscenza del pubblico ministero. Spazza-corrotti, illegittima l’applicazione retroattiva del carcere Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2020 Corte costituzionale - Sentenza 26 febbraio 2020 n. 32. Se al momento del reato è prevista una pena che può essere scontata “fuori” dal carcere ma una legge successiva la trasforma in una pena da eseguire “dentro” il carcere, quella legge non può avere effetto retroattivo. Tra il “fuori” e il “dentro” vi è infatti una differenza radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa, perché è profondamente diversa l’incidenza della pena sulla libertà personale. È sul filo di questo ragionamento, spiega un comunicato della Corte, che, con la sentenza n. 32/2020 depositata ieri (relatore Francesco Viganò), la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima l’applicazione retroattiva della legge n. 3/2019 (cosiddetta Spazza-corrotti) là dove estende alla maggior parte dei reati contro la pubblica amministrazione le preclusioni alle misure alternative alla detenzione, già previste dall’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario per i reati di criminalità organizzata. La decisione è il risultato di una rimeditazione del tradizionale orientamento, sinora sempre seguito dalla Cassazione e dalla stessa Corte costituzionale, secondo cui le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione della pena, e non a quella in vigore al momento del fatto. Nella sentenza si legge che il principio sancito dall’articolo 25 della Costituzione, secondo cui nessuno può essere punito con una pena non prevista al momento del fatto o con una pena più grave di quella allora prevista, opera come “uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico, che stanno al cuore stesso del concetto di Stato di diritto”. Pertanto, se, di regola, è legittimo che le modalità esecutive della pena siano disciplinate dalla legge in vigore al momento dell’esecuzione e non da quella in vigore al momento del fatto (anche per assicurare uniformità di trattamento tra i detenuti), ciò non può valere, sottolinea la sentenza, “allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”. La “Spazza-corrotti” ha reso assai più gravose le condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione e alla liberazione condizionale, sicché non può essere applicata retroattivamente dai giudici. Identiche considerazioni valgono per il meccanismo processuale della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena in caso di condanna a non più di quattro anni per chiedere al tribunale di sorveglianza l’ammissione a una misura alternativa alla detenzione. Pertanto, dopo aver rilevato che la legge n. 3/2019 non contiene alcuna disciplina transitoria, la Corte ha dichiarato incostituzionale la norma della “Spazza-corrotti” “in quanto interpretata” nel senso che le modificazioni da essa introdotte si applichino anche ai condannati per fatti commessi prima della sua entrata in vigore, con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. I principi così sanciti non riguardano i permessi premio e il lavoro all’esterno, che quindi continuano ad essere regolati dalla legge in vigore al momento dell’esecuzione della pena. Tuttavia, la Corte ha chiarito che questi benefici non possono essere negati ai detenuti che abbiano già svolto un proficuo percorso rieducativo. Spazza-corrotti, no alla retroattività. “Quella norma modifica la qualità delle pene” di Simona Musco Il Dubbio, 27 febbraio 2020 Se al momento della sua commissione, per un reato è prevista una pena “fuori” dal carcere, non è possibile trasformarla, con una legge successiva, in una pena da scontare “dentro” il carcere. Dicono questo le motivazioni della sentenza con la quale il 12 febbraio la Consulta ha dichiarato incostituzionale la Spazza-corrotti nella misura in cui si applica retroattivamente. Secondo il diritto vivente, affermano i giudici, l’esecuzione della pena verrebbe normalmente sottratta “al divieto di applicazione retroattiva” stabilito dall’articolo 25 della Costituzione, rimanendo vincolata, pertanto, alla legge in vigore al momento dell’esecuzione stessa. Ma ciò non può valere per i principi sanciti dal la Spazza-corrotti, in quanto tale legge ha comportato “una trasformazione della natura delle pene previste al momento del reato e della loro incidenza sulla libertà personale del condannato. I giudici della Consulta valorizzano alcune pronunce della Cedu, in particolare la sentenza della Grande Camera Del Rio Prada contro Spagna, decisa nel 2013, quando la Grande Camera stabilì che in fatto di esecuzione delle pene il divieto di applicazione retroattiva sussiste “per quelle che determinino una “ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice”. Altrimenti, ha osservato la Corte, “gli Stati resterebbero liberi di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l’interessato”. Il che vuol dire che “la portata delle pene inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla commissione del fatto”. E il principio sancito dall’articolo 25 della Costituzione opera, appunto, come “uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico, che stanno al cuore stesso del concetto di Stato di diritto”. È proprio questo ciò che mettono in evidenza i giudici, che criticano la “Spazzacorrotti” anche per aver reso più gravose le condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione e alla liberazione condizionale, per cui “una modifica in peius, con effetto retroattivo sui processi in corso, della normativa in materia penitenziaria, è suscettibile di frustrare le (legittime) aspettative poste a fondamento di tali scelte difensive, esponendo l’imputato a conseguenze sanzionatorie affatto impreviste e imprevedibili al momento dell’esercizio di una scelta processuale, i cui effetti sono però irrevocabili”. Le stesse valutazioni valgono anche per il meccanismo della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena in caso di condanna a non più di quattro anni per chiedere l’ammissione a una misura alternativa alla detenzione. E considerato il silenzio del legislatore “sul regime intertemporale delle modifiche in esame”, la soluzione, afferma la Consulta, “è la dichiarazione di illegittimità costituzionale”. Tali principi non valgono, invece, per i permessi premio e il lavoro all’esterno, che continueranno ad essere regolati in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione della pena. Con una precisazione: “ciò non significa che al legislatore sia consentito disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio”. Su induzione e peculato la Consulta rinvia gli atti ai giudici di Simona Musco Il Dubbio, 27 febbraio 2020 La Consulta decide di non decidere e così toccherà ai giudici che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale sulla Spazza-corrotti capire se, ai fini della loro decisione, le censure sollevate siano ancora rilevanti dopo la sentenza che ha dichiarato costituzionalmente illegittima l’applicazione retroattiva della legge stessa. Ma la partita relativa alla legittimità di una equiparazione tra i reati di peculato e induzione indebita a quelli di mafia e terrorismo rimane, ancora, tutta aperta. “La Corte ha adottato una soluzione processuale in qualche modo conforme alla propria giurisprudenza - ha spiegato al Dubbio il professor Vittorio Manes - che però lascia ancora aperta la questione di fondo sulla legittimità e sulla ragionevolezza del catalogo dell’articolo 4 bis, dove è appunto stato incluso il reato contro la pubblica amministrazione. Un problema ancora irrisolto, su cui gravano tutti i dubbi di legittimità che sono stati portati all’attenzione della Corte e sulla quale, appunto, non si è intervenuti nel merito. Rimangono quindi ancora aperti i gravi dubbi di legittimità”. Tutti e tre i casi esaminati ieri dalla Consulta erano riferiti a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge bandiera del M5s e così quelle questioni non risultano più rilevanti, sgravando la Consulta dall’obbligo di pronunciarsi, almeno temporaneamente. La palla torna ora alla Corte d’appello di Caltanissetta, a quella di Palermo e alla Corte di Cassazione. Quest’ultima, assieme a quella nissena, aveva messo in dubbio la legittimità costituzionale della legge, nella parte in cui inserisce all’articolo 4bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975 numero 354 ovvero l’assegnazione dei benefici - anche il riferimento al peculato, elevato, in questo modo, a reato ostativo. Il che rende necessario, per consentire l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione (esclusa la liberazione anticipata) che il condannato sia disposto ad una effettiva collaborazione con la giustizia. I dubbi della Cassazione riguardano, dunque, la possibilità, sul piano legale, di equiparare la pericolosità sociale di chi viene condannato per peculato a colui che, invece, si macchia di reati come associazione mafiosa o terrorismo, essendo difficilmente inquadrabile, il peculato, in contesti di criminalità organizzata. Questioni sulle quali, però, la Consulta non dà risposte. Per i giudici del Palazzaccio ci sarebbe un contrasto con il principio di ragionevolezza, in quanto tale equiparazione sottrarrebbe alla discrezionalità del Tribunale di sorveglianza la valutazione concreta del fatto e della personalità dell’autore, con conseguenti ricadute sui principi di individualizzazione della pena e sul fine rieducativo della stessa. La Corte di appello di Palermo, invece, aveva sollevato la stessa questione di legittimità in relazione all’estensione di tale vincolo anche al reato di induzione indebita, presumendo, anche in questo caso, una peculiare presunzione di pericolosità simile a quella dei reati previsti dall’articolo 416 bis. Per i giudici di Palermo, non sussisterebbero, infatti, adeguati indicatori che possano giustificare tali limiti all’accesso dei benefici. Ma ora si torna al punto di partenza e non è un caso, dunque, che il deposito delle motivazioni relative alla retroattività sia avvenuto proprio ieri, quando i giudici hanno chiarito che l’articolo 25 della Costituzione - che vieta l’applicazione retroattiva di modifiche normative che incidano in senso deteriore per il condannato - non riguarderebbe, invece, la disciplina dei benefici penitenziari, come, nel caso specifico, i permessi premio e il lavoro all’esterno. Un punto sul quale, però, i giudici hanno anche precisato che al legislatore non è consentito “disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio”. Ciò si porrebbe infatti in contrasto “con il principio di eguaglianza e di finalismo rieducativo della pena”. Per conoscere quale sia la posizione della Consulta in merito all’equiparabilità dei reati di natura corruttiva con quelli di mafia o terrorismo toccherà ora attendere che la questione di legittimità venga sollevata in relazione a reati commessi dopo l’entrata in vigore alla legge o in relazione a quegli istituti che non sono coperti dall’irretroattività, spiega ancora Manes. Che ieri, nel corso dell’udienza, aveva posto l’accento sul catalogo dei reati ostativi, “ormai molto ampio”, per cui sarebbe “irragionevole” l’inserimento tra questi, per i quali è precluso l’accesso a misure alternative e benefici penitenziari, del reato di peculato, come previsto dalla legge Spazza-corrotti. “Ogni limitazione a un diritto deve implicare l’accrescimento di un altro diritto contrapposto - ha ricordato e al forzoso assaggio di carcere per il condannato per peculato corrisponde forse un incremento della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza del cittadino?”. Si tratta di “forche caudine”, ha aggiunto, di fronte a un reato come il peculato “che non è un reato di violenza, ed è commesso in situazioni monosoggettive, in cui non ha senso parlare di possibile collaborazione”. L’Avvocato dello Stato Maurizio Greco ha invece chiesto alla Corte di dichiarare inammissibile la questione per manifesta irrilevanza, in quanto la vicenda al centro del procedimento di Caltanissetta è anteriore all’entrata in vigore della norma e l’ordinanza di carcerazione per il condannato è stata intanto sospesa. La pronuncia della Corte, ha quindi evidenziato Greco, sarebbe “ininfluente” nel caso concreto. Ma nel corso della sua discussione Greco ha comunque difeso la legge voluta dal M5s, definendola “adeguata e proporzionata” e in grado di far risalire l’Italia nelle classifiche internazionali sulla lotta alla corruzione. “È stata percepita come un intervento finalizzato a incidere in maniera più puntuale su questi reati” e “ora l’Italia, che era tra gli ultimi posti, è salita nel ranking internazionale” sulla percezione della corruzione, ha evidenziato. Legittimi i limiti al potere di appello da parte del Pm di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 febbraio 2020 Corte costituzionale - Sentenza 34/2020. In un dibattito sulle politiche della giustizia da tempo monopolizzato dal tema prescrizione e, in questo contesto, dalla legittimità della distinzione tra condannati e assolti e tra parti del processo, ha una rilevanza particolare la sentenza della Corte costituzionale con la quale ieri sono stati considerati legittimi i limiti al potere di impugnazione del pm introdotti 2 anni fa. La pronuncia, la n 34, scritta da Franco Modugno, ha così respinto come infondata la questione di legittimità sollevata dalla Corte d’appello di Messina sull’articolo 593 del Codice di procedura penale, nella versione successiva alla riforma del 2018, che ammette l’appello del pm contro le sentenze di condanna, solo quando modificano il titolo del reato o escludono la esistenza di un’aggravante o stabiliscono una pena diversa da quella ordinaria del reato. Per la Corte d’appello, la norma violerebbe il principio di parità delle parti perché impedirebbe alla pubblica accusa, a confronto con il diverso potere dell’imputato, di impugnare condanna del tutto inadeguate alla gravità dei fatti. La Consulta, nell’affrontare il tema, ricorda innanzitutto, facendo riferimento a precedenti costanti, che, nel processo penale, il principio di parità tra accusa e difesa non conduce con sè necessariamente all’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato. Il processo penale è caratterizzato, infatti, da una asimmetria “strutturale” tra i due antagonisti principali. Nello specifico poi dei poteri di impugnazione, tenendo conto che la garanzia del doppio grado di giudizio è priva di un riconoscimento costituzionale, la Corte costituzionale sottolinea come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenta, così si espresse la Consulta nel 2007 con la sentenza n. 26 sulla legge Pecorella (invocata peraltro anche dalla Corte d’appello di Messina) che impediva al pm l’impugnazione delle assoluzioni, “margini di “cedevolezza” più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato”. Allora, comunque, la Consulta ritenne che la diversità di trattamento ai danni del potere del Pm fosse troppo ampia e assoluta, in contrasto quindi con adeguatezza e proporzionalità e bocciò la previsione. Con riferimento all’intervento del 2018, invece, le conclusioni sono diverse. L’obiettivo fondamentale della riforma è la deflazione e la semplificazione dei processi, per garantirne la ragionevole durata. In questa prospettiva, una specifica attenzione viene dedicata al giudizio di appello, da tempo il segmento processuale più critico. In questo caso, nella valutazione della Consulta, i limiti all’appello del Pm non sono incompatibili con il principio di parità delle parti. “La limitazione del potere di appello della parte pubblica persegue, infatti, l’obiettivo, di rilievo costituzionale (articolo 111, secondo comma, Costituzione), di assicurare la ragionevole durata del processo, deflazionando il carico di lavoro delle corti d’appello”. A differenza della legge Pecorella, prosegue la sentenza, la preclusione riguarda, sentenze che hanno accolto la “domanda di punizione” proposta dal pubblico ministero e che “non hanno, altresì, inciso in modo significativo sulla prospettazione accusatoria (mutando la qualificazione giuridica del fatto, escludendo aggravanti a effetto speciale o applicando una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato). Essa risulta, quindi, contenuta e non sproporzionata rispetto all’obiettivo”. In un sistema ad azione penale obbligatoria, infatti, osserva la sentenza, il legislatore può introdurre limiti all’esercizio della funzione giurisdizionale per garantire una durata ragionevole ai processi. Palmi (Rc). “Lasciate i vostri figli liberi di scegliere”, l’appello ai detenuti del 41bis Corriere della Calabria, 27 febbraio 2020 L’incontro si è tenuto all’istituto penitenziario con il supporto del referente di Libera Mimmo Nasone e della responsabile dell’area pedagogica Irene Venezia. È stato Sebastiano Finocchiario, giudice minorile a spiegare, ai detenuti dell’alta sicurezza, il vero significato del progetto che il tribunale per i minorenni ha voluto avviare non per togliere i figli alle famiglie di ndrangheta ma per offrire loro una opportunità alternativa di vita e per questo motivo gli incontri che si stanno realizzando negli istituti penitenziari sono occasioni per offrire spunti per la personale revisione di vita da parte dei condannati anche sotto il profilo della responsabilità genitoriale. All’incontro tenutosi all’istituto penitenziario di Palmi i detenuti si sono preparati assistendo alla proiezione della fiction di Rai Uno “Liberi di scegliere”, con il supporto del referente di Libera Mimmo Nasone e della responsabile dell’area pedagogica Irene Venezia. Attraverso i loro interventi i detenuti hanno dimostrato di avere recepito il messaggio che il presidente Roberto di Bella ha voluto mandare loro pur evidenziando la loro richiesta di potere avere una giustizia giusta e veloce. A loro ha risposto il Procuratore aggiunto della procura della Repubblica di Palmi, Giuseppe Casciaro, che ha riconosciuto come anche un solo giorno di carcere da innocente è una sconfitta per lo Stato e nel contempo ha però ricordato la grande responsabilità che hanno verso i loro figli invitandoli a distinguere tra il volere bene e il volere il loro bene. Gli interventi che hanno scosso di più le coscienze dei detenuti sono stati quelli di Giosuè D’Agostino, seguito negli anni 80 da Agape e da don Italo Calabrò nel percorso di riscatto che lo ha portato a rompere con il clan di appartenenza della piana di Gioia Tauro e di rifarsi una vita al Nord come imprenditore agricolo, Giosuè li ha invitati a non crearsi alibi, a rompere con la prigione della ndrangheta per scegliere di essere uomini liberi che non si debbano vergognare di guardare i loro figli in faccia e di vivere una vita tra carcere e rischio di essere uccisi. A seguire Vincenzo Chindamo, fratello di Maria vittima innocente di lupara bianca, che ha testimoniato il dolore e la sofferenza che la ndrangheta provoca nella vita delle persone ma anche di quanto i detenuti hanno necessità di questi confronti per trovare la forza della conversione da una condizione che li vede assieme alle loro famiglie le prime vittime dei loro errori. Anche il direttore della casa circondariale Antonio Galati si è appellato alla coscienza dei detenuti, confessando la sua sofferenza da padre prima ancora che da operatore penitenziario, ogni volta che vede i bambini recarsi ai colloqui in carcere. Della necessità di dare alla pena una valenza rieducativa, anche nelle situazioni più gravi si sono fatti portatori il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Liberato Guerriero che ha voluto assieme al garante regionale sui diritti dei detenuti Agostino Siviglia essere presente e testimoniare la validità dell’iniziativa. Mario Nasone del centro Comunitario Agape e don Ennio Stabile referente regionale di Libera che hanno organizzato analoghi incontri anche negli istituti penitenziari di Reggio, Vibo e Locri, hanno lanciato un doppio messaggio, all’amministrazione penitenziaria perché favorisca il dialogo con i detenuti condannati per mafia coinvolgendo tutti gli istituti penitenziari della Calabria e non solo, ai detenuti perché affidino i loro figli alle associazioni della rete di Libera perché possano sperimentare esperienze positive di vita. Senza crearsi illusioni di cambiamenti immediati ma nello spirito che aveva mosso don Italo Calabrò quando già negli anni 80 si rivolgeva ai boss dicendo loro “se non potete uscire voi dalla ndrangheta, fate almeno in modo che i vostri figli non vi entrino”. Il ringraziamento di uno dei detenuti al 41 bis all’associazione Agape per l’aiuto dato a sua figlia a costruirsi un futuro positivo è un ulteriore segnale di una strada già tracciata e di una speranza di cambiamento possibile per una Calabria senza ndrangheta. Como. Sovraffollamento al “Bassone”, una mozione per istituire il Garante dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbo, 27 febbraio 2020 Si sta concretizzando una prima vittoria da parte del neonato osservatorio carceri Lucio Bertè operante nella regione Lombardia. Qualche giorno fa, dopo che tale mancanza era stata segnalata dall’osservatorio, il consigliere Fulvio Anzaldo della lista “Rapinese Sindaco” ha depositato al comune di Como una mozione che impegna sindaco e giunta a “istituire il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale del comune di Como e, per l’effetto, a predisporre un testo di regolamento che disciplini l’istituzione, la modalità di nomina e la durata dell’incarico, i compiti, la relazione agli organi del comune, le strutture e il personale, e a presentarlo al Consiglio comunale per la relativa approvazione”. Nella mozione si fa esplicito riferimento - oltre all’art. 27 della Costituzione, alla raccomandazione della Cedu dell’11/1/2006 e al decreto legge 146/ 2013 alla grave situazione di sovraffollamento del carcere Bassone riportata dalla stampa. Come già riportato da Il Dubbio, lo scorso 8 febbraio una delegazione dell’Osservatorio Carcere “Lucio Bertè” (composta da Mauro Toffetti, Giulia Crivellini, Riccardo Giorgio Frega, Gianni Rubagotti, Francesco Condò, Andrea Miglio, Fabrizio Pesoli e Maurizio Pistorio) ha visitato il penitenziario comasco del Bassone. La visita aveva riscontrato un sovraffollamento vicino al 200% (442 reclusi contro una capienza di 231 posti), la cronica carenza del personale di sorveglianza, compresa la criticità nella gestione dei detenuti transgender, alcuni dei quali hanno profili psicologici piuttosto particolari, al punto da rendere difficile la convivenza con quelli che sono sani e che hanno subito anche atteggiamenti violenti dai primi. Tutte criticità che comportano sofferenza alla popolazione carceraria, difficilmente da intercettare se manca una figura indispensabile come quella del garante locale. Tale problematica, quindi, è stata colta dal consigliere comunale Anzaldo che ha prontamente presentato una mozione. In realtà la stessa problematica è stata sollevata per Monza, dove l’osservatorio Bertè ha potuto constatare che anche in quel caso manca la figura del garante. La delegazione (guidata da Simona Giannetti, del direttivo di Nessuno tocchi Caino, e composta da Francesca Bertè, Serena Marchetti, Paola Maria Gianotti, Lorenzo Ceva Valla, Chiara Villa e Simona Artesani) ha riscontrato che per 400 posti di capienza regolamentare - ma solo 300 circa disponibili, i detenuti presenti erano 631: in questa condizione di sovraffollamento la delegazione ha constatato che in quasi tutte le celle del carcere di Monza c’era la terza branda che durante il giorno viene chiusa e risposta sotto un letto. Da ricordare che l’osservatorio è dedicato al militante radicale Lucio Bertè (1940-2019) scomparso lo scorso 24 dicembre e da sempre impegnato nella difesa dei diritti del detenuto ignoto. Si propone di monitorare le condizioni delle carceri lombarde nello spirito della storica battaglia di Marco Pannella “Spes contra Spem”, attraverso la partecipazione delle diverse anime radicali del territorio accomunate dall’intento di tenere accesa l’attenzione sulle condizioni della comunità carceraria e sulle sue criticità. Terni. La proposta: “Impiegare i detenuti in lavori socialmente utili” ternitoday.it, 27 febbraio 2020 L’atto di indirizzo rivolto a sindaco e giunta è stato presentato dalla Lega con Devid Maggiora primo firmatario. “Impiegare detenuti, selezionati e non pericolosi per la società per lavori socialmente utili”. È stato presentato ieri, nel corso della seduta del consiglio comunale dal gruppo consiliare della Lega, un atto di indirizzo con Devid Maggiora primo firmatario: “Nel documento unico di programmazione di questa amministrazione - è scritto all’interno - sono già stati previsti “Percorsi personalizzati integrati di inclusione sociale e socio-lavorativa rivolti a persone detenute, donne vittime di violenza, minori sottoposti alla misura della messa alla prova”. In molti comuni d’Italia sono già in vigore accordi tra amministrazione, Ministero della Giustizia e luoghi di detenzione che prevedono l’impiego di detenuti non pericolosi per la collettività che svolgono semplici attività socialmente utili a titolo gratuito e volontario. Per tale motivo - è richiesto nell’atto di indirizzo della Lega - si impegna il sindaco e la giunta ad attivarsi con le amministrazioni carcerarie locali e il Ministero di Giustizia per concludere accordi che portino alla realizzazione di convenzioni per attività socialmente utili, a titolo gratuito e volontario, rivolte a persone detenute e che prevedano ad esempio pulitura dei parchi, raccolta delle foglie, pulitura dei muri, monumenti e panchine deturpate con vernici spray e chewing gum, raccolta mozziconi di sigarette, tinteggiature”. Alba (Cn). Se al carcere “Montalto” non partono gli interventi di riqualificazione gazzettadalba.it, 27 febbraio 2020 Maggioranza e opposizione in Comune sono pronte a unire le forze per cercare di dare una svolta alla situazione della Casa di reclusione Giuseppe Montalto di Alba, chiusa nel 2016 a causa del batterio della legionella e riaperta nel 2017 solo in minima parte, riducendo una struttura da 142 posti a 33. Nel frattempo, la maggior parte della struttura è destinata a un progressivo deterioramento, che i membri della quarta Commissione consiliare hanno potuto vedere venerdì 21, insieme al sindaco Carlo Bo, al garante per i detenuti Alessandro Prandi, al direttore della struttura Giuseppina Piscioneri e agli agenti della Polizia penitenziaria. Subito dopo, i commissari si sono ritrovati nel palazzo comunale, per fare il punto con Prandi. Il presidente della Commissione Gionni Marengo: “La casa circondariale è abbandonata, con danni da tutti i punti di vista, dagli elementi architettonici agli impianti: parlare di ristrutturazione sembra davvero riduttivo”. Eppure i fondi per ristrutturare il Montalto sono già stati inseriti nel programma triennale delle opere ministeriali 2019-2021, con uno stanziamento di 4 milioni di euro, ma i lavori non sono mai stati dati in affidamento. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha annunciato che il bando di gara avverrà a marzo. Ha commentato Prandi: “Ci troviamo in una situazione in cui i fondi ci sono, un progetto c’è, ma i lavori non partono. Nel frattempo, al Montalto sono 44 i detenuti, con un tasso di sovraffollamento del 143 per cento”. Lanciano (Ch). Le dolcezze della prigione di Linda Caglioni Avvenire, 27 febbraio 2020 A Lanciano da 6 anni i detenuti lavorano per una multinazionale di pasticceria. Il progetto di reinserimento ha coinvolto 35 persone; e qualcuno è già cambiato. “Ci vedono solo come criminali, ma quello che facciamo qui se lo mangiano in tutto il mondo”. Raffaele è un padre di 43 anni. Con una mano si sistema gli occhiali sul naso, con l’altra stringe una ciotola che trabocca di mandorle calde: emanano un profumo buono di zucchero e caramello: “Assaggi, sentirà che buone! Da questo laboratorio escono solo cose di qualità”. Il posto da cui “escono solo cose di qualità” è una stanza sterilizzata, di un biancore asettico. Si trova tra le celle del carcere di Lanciano (Chieti), dove Raffaele è recluso da due anni, da quando è stato condannato al regime di alta sicurezza previsto per reati associativi e di criminalità organizzata. Ed è sempre qui che lavora part-time, insieme ad altri 8 detenuti. Sono tutti dipendenti della D’Orsogna Dolciaria, storica ditta che sorge a pochi chilometri dal casello della A14; una specie di tempio sacro del buon cibo che, nell’immaginario di tanti, continua a essere quel gioiello a conduzione famigliare intrecciato alla storia di San Vito Chietino. Poco importa che l’azienda nel 2017 sia stata acquisita dalla svizzera Barry-Callebaut, un gigante mondiale che tra i clienti principali conta le più grandi multinazionali del dolciario. Il carcere dista un pugno di chilometri dall’industria, ci si arriva imboccando una stretta lingua di asfalto che spezza in due la campagna chietina. Con indosso una mascherina, Raffaele cammina tra le vasche d’acciaio in cui le granelle riposano. E racconta il funzionamento delle bassine, bocche metalliche in cui vengono cotti quintali di frutta caramellata. Mandorle e nocciole lavorate che, ogni giorno, escono dalle mura del penitenziario per perdersi nel mondo, approdando sotto forma di dolci e gelati a orizzonti lontanissimi, luoghi per ora preclusi alla manodopera da cui sono stati generati. Il progetto include gli obiettivi di reinserimento promossi dalla legge Smuraglia, che incentiva l’assunzione di detenuti concedendo alle aziende sgravi fiscali. Ma l’avventura cominciata nel 2014 nel carcere chietino per volontà dell’allora proprietario Valerio D’Orsogna ha anche una forte vocazione imprenditoriale. I dipendenti del penitenziario sono trattati come gli altri 290 lavoratori dell’azienda. In un anno i detenuti hanno prodotto 615 tonnellate di merce, sulle 13.794 totali uscite nello stesso arco di tempo dalla Barry-Callebaut-D’Orsogna: il laboratorio del penitenziario contribuisce cioè con una percentuale del 4,45% ai profitti dell’intera macchina. Il costo annuo di 4.000 euro per la formazione è a carico dell’azienda. “I detenuti lavorano dal lunedì al venerdì, part-time, così è stato possibile assumerne di più - spiega Gianfranco Nocilla, consulente aziendale che ha curato il progetto dall’inizio. Per loro essere assunti significa dimostrare alla famiglia che non sono più un peso. E si ritagliano una parentesi di normalità”. L’esistenza del laboratorio in carcere non è un segreto, ma non c’è stata ancora diffusione mediatica. “Sul retro della confezione dei gelati, dove si citano i luoghi di produzione, il carcere di Lanciano non compare mai - lamenta Lucia Avvantaggiato, direttrice del penitenziario -. Le multinazionali temono un cattivo ritorno di immagine. Ma il silenzio alimenta il pregiudizio che pesa su chi è in carcere”. Anche l’amministratore delegato, Lorenzo Maria Aspesi, conferma: “La questione è delicata. Alcune multinazionali vogliono rafforzare l’aspetto sociale e accettano volentieri che tra il personale ci siano detenuti. Altre non sono pronte”. Finora i detenuti coinvolti sono stati circa 35. Tra questi c’è anche Germano, oggi un uomo libero che ha trovato nello stabilimento della Barry-Callebaut-D’Orsogna una ragione per chiudere con la malavita: “Dei miei 48 anni ne ho passati dieci dietro le sbarre-racconta -. Finire in cella è stata la mia fortuna, non esistevano altre strade per uscire vivo dal giro della delinquenza”. Germano ora vive poco lontano dall’azienda, in una casa per cui ha firmato il contratto dopo aver ricevuto cinque rifiuti. “Per la gente sarò sempre un delinquente... Capisco che non si fidi; ma lavorare in carcere mi ha aiutato a convincermi che non ero soltanto quello schifo. E a non ricadere nella vecchia vita una volta fuori dalle sbarre”. Roma. Un anno in carcere da innocente. Clochard assolto, rischiava ergastolo di Giulio De Santis Corriere della Sera, 27 febbraio 2020 Il 54enne Ladislav Pala era accusato di omicidio per la morte di un 75enne durante un presunto furto da 6 euro in un supermercato. L’amarezza delle figlie della vittima: “Ormai sarà molto difficile trovare il colpevole”. La sua innocenza l’ha urlata fin dal giorno dell’arresto. “Non ho ucciso io quel signore”, ha detto il 27 marzo di un anno fa Ladislav Pala, 54 anni, nelle ore in cui era stato fermato con l’accusa di aver ammazzato Alfredo Caparelli, 75 anni, per rubargli 6 euro e la busta della spesa il 21 dicembre del 2018. Ora,dopo aver trascorso un anno in carcere, il giudice per l’udienza preliminare l’ha assolto con formula piena dall’accusa di omicidio volontario e rapina. Una sentenza che rappresenta un fallimento per le figlie di Caparelli. “Che delusione”, hanno detto uscite dall’aula Anna Maria e Silvia, entrambe quarantenni. Un esito che, da un punto di vista giudiziario, rappresenta un colpo di scena. E non soltanto perché il pm Elena Neri aveva chiesto la condanna all’ergastolo. A far finir in cella Pala, un video trovato sul suo telefonino. Un filmino girato proprio dall’imputato vicino al supermercato “Tuodì” negli attimi fatali successivi all’aggressione: Pala domanda a Caparelli, steso in terra, se ha bisogno di aiuto. La vittima viene ripresa quasi priva di coscienza. Qualcuno l’ha appena picchiato e derubato della spesa. Non dice nulla, non riesce a rispondere. Poi, dopo aver registrato la scena, Pala scappa e, nella fuga, perde il cellulare. Che, una volta ritrovato dai carabinieri, viene considerato la prova regina. D’altronde perché mai fare un video di quel tipo? Per far credere di aver cercato di soccorrere l’anziano e imbrogliare le forze dell’ordine: questa è la risposta, che si danno gli inquirenti. Dopo una lunga caccia all’uomo, il 27 marzo scorso Pala (un senzatetto) viene rintracciato e arrestato dai carabinieri della Compagnia Roma Eur. L’anziano morirà dopo una lunga agonia il 22 aprile del 2019. Sembra un processo chiuso. La difesa chiede l’abbreviato. L’udienza parte in salita: il pm chiede l’ergastolo. Tuttavia, la lettura delle prove fornita dall’avvocato Antonio Lazzara - difensore dell’imputato, nato a Praga - insinua il tarlo nel giudice che potrebbe non essere stato Pala a uccidere Caparelli. Innanzitutto, nessuno quella sera lo ha visto picchiarlo. Anzi, il contrario: due testimoni oculari lo escludono, dicendo che Pala non ha né derubato, né picchiato il 75enne. Entrambi vengono risentiti dal gup, che fa verbalizzare le contraddizioni prima di emettere la sentenza. Ancora: le buste della spesa dell’anziano non saranno mai rinvenute. A Pala, nella perquisizione effettuata al momento dell’arresto, viene un portafogli. All’inizio si crede che sia della vittima. Poi l’avvocato dimostra che invece è dell’imputato. La sentenza ha lasciato stupiti i parenti dell’anziano signore. “Forse avrebbero dovuto allargare l’indagine, soprattutto al momento della rapina. L’amarezza è tanta. Ormai trovare il colpevole sarà difficile” osserva l’avvocato Francesco Tabocchini, legale delle parti civili. Venezia. “Così da detenuto ho insegnato l’arte del ‘mascarer’ agli altri compagni” di Vittorio Pierobon Il Gazzettino, 27 febbraio 2020 Un mese fa era ancora in carcere. “Mi ha fatto bene. Da una brutta vicenda, sta venendo fuori una bella storia. Ho capito che posso essere utile agli altri”. Mauro Lucchetti di professione fa il mascarer, realizza maschere in cartapesta. È un artigiano veneziano, ma è molto più giusto dire artista, perché dipinge e ha nel suo curriculum alcune mostre con un certo successo. La sua carriera è stata macchiata da qualche incidente di percorso, che lui non nasconde. “Droga. Ci sono cascato più volte. Poi arriva un momento che la giustizia ti presenta il conto. Ora ho pagato tutto, ho saldato il mio debito e posso ricominciare con nuovo entusiasmo”. Non dice di aver chiuso con la droga, il fumo è una componente della sua creatività artistica. “Parliamo di marijuana. Io forse vivo in un altro mondo, ma credo che nella vita ci sia ben di peggio”. Ognuno è padrone delle sue scelte. In carcere Mauro è diventato docente, ha insegnato agli altri detenuti a realizzare le maschere e ora a Santa Maria Maggiore c’è un gruppetto di detenuti-artigiani che ci sa fare davvero. Il logo dice tutto: una maschera che tenta di aprire le sbarre e la scritta, Bauta libera. “Tutto è nato un po’ per caso. Frequentavo le lezioni del professor Fabrizio Longo che insegna matematica e fisica ai detenuti. Diciamo la verità molti frequentano i corsi perché è un modo per far passare il tempo e lasciare per un po’ la cella. Il prof è uno che ci sa fare anche a livello psicologico. Ha capito che io potevo aiutarlo a creare nuovi interessi per gli ospiti”. Lucchetti, con il consenso della direzione carceraria, non facile da ottenere, ha iniziato ad insegnare, assieme al professor Longo, la tecnica di realizzazione di un oggetto in cartapesta. “Siamo partiti in due o tre allievi, poi un po’ alla volta, siamo diventati più di quindici, di tutte le etnie. Pochi sapevano parlare italiano. Tutti si sono appassionati. È un’attività manuale che aiuta a rilassarsi. Chi non l’ha provato non può capire quanto il lavoro, per chi è in carcere, sia un toccasana. Quando stai in cella per venti ore, ti sembra di impazzire, non sai cosa fare, a cosa pesare. Il lavoro ti distrae, ti fa sentire ancora utile”. Il mascarer sembra davvero provato dai 18 mesi a Santa Maria Maggiore, che hanno lasciato un segno, ma soprattutto, dice lui, gli hanno aperto gli occhi. “Se non sei un delinquente il carcere è tremendo. Io non mi considero un delinquente, anche se riconosco di aver commesso sbagli. Errori che si pagano. Lo vorrei dire ai giovani: bullismo, spaccio, furtarelli, sono scelte di vita sbagliate che ti segnano. I reati restano, le condanne prima o poi si scontano. La droga è una brutta storia, lo dico io che la conosco. Oggi, poi, ci sono sul mercato porcherie che costano pochissimo. Attenti, ragazzi”. Un buonismo, per uno che è appena uscito dal carcere, che può sorprendere, ma Lucchetti non si vergogna. “Riconoscere gli sbagli non deve sembrare una debolezza. Io non ho paura di raccontare che sono stato in carcere. Gli amici lo sanno e non mi hanno abbandonato. Ora che sono fuori voglio fare qualcosa per chi è dentro. Le maschere possono essere una grande opportunità di reinserimento. A Venezia, se sai realizzare maschere non muori di fame. C’è un grande mercato”. Lucchetti vorrebbe raggiungere un accordo con il carcere e acquistare dalla cooperativa Bauta libera il prodotto al grezzo: “Loro sanno fare il bianco, cioè la base in cartapesta su cui, poi, vanno dati i colori. Un po’ come la tela per un pittore. Potrebbero vendere i bianchi, prodotti in carcere, sarebbe una bella possibilità di fare qualche soldo. Pochi, ma puliti”. L’artigiano non vuole buttare al vento il lavoro fatto in carcere e chiede il sostegno delle autorità penitenziarie. “Appena entri ti danno un libretto con informazioni ed istruzioni per la vita dietro le sbarre. C’è scritto che il carcere ha un valore rieducativo. Credo che il lavoro onesto sia il massimo in questo senso. Purtroppo dentro ci sono poche possibilità lavorative e molti ostacoli, dovuti a norme di sicurezza. Per esempio, nel nostro laboratorio c’è solo un taglierino che viene dato in consegna ad una persona fidata. Abbiamo avuto grossi problemi per introdurre le colle, perché potenzialmente possono essere delle droghe”. Il mascarer parla con entusiasmo dei suoi progetti. Nel suo laboratorio di Mestre, in zona Piraghetto, si respira un’atmosfera bohémien: maschere, quadri, tele e tubetti di colore un po’ ovunque. Opere forti, come Jesus homeless, un Gesù barbone, che non vuole affatto essere blasfemo. “Io non sono credente, ma ho profondo rispetto per la fede. Quando a Natale il patriarca è venuto a celebrare la messa in carcere io gli ho regalato una maschera che rappresenta il diavolo. I miei superiori e anche il cappellano mi dicevano che non dovevo farlo per rispetto al patriarca. Invece monsignor Moraglia ha apprezzato, ha voluto visitare il nostro laboratorio e dopo qualche giorno ci ha fatto avere mille euro per finanziare la nostra attività. È una grande persona: mi ha detto di andare a trovarlo una volta uscito dal carcere. E io lo farò di sicuro”. “Per la cronaca - aggiunge sorridendo - dopo che ho regalato la maschera al patriarca tutti hanno voluto comprarle: dalla direttrice alle guardie”. Alle pareti oltre ai quadri di Lucchetti ci sono alcune opere realizzate da Guerrino Boatto, grandissimo esponente dell’iperrealismo: “Abitava a poche decine di metri dal mio laboratorio. Per me era come Maradona, un idolo. A Mestre era semi sconosciuto, all’estero famosissimo. I suoi quadri erano identici a fotografie, una tecnica fantastica. Se n’e andato in solitudine e credo quasi in miseria. Mi ha lasciato i suoi disegni. Vorrei tanto fare una mostra per dargli, almeno da morto, quello che meritava”. Mauro Lucchetti è un vulcano di progetti. La ritrovata libertà è sicuramente una molla di entusiasmo. A giorni uscirà anche un suo fumetto “Il profumo di Venezia. Ma il vero sogno resta poter lavorare con i suoi amici di Santa Maria Maggiore: “Ho conosciuto persone dai grandi valori umani, altri con doti artistiche notevoli. Persone che potrebbero avere un futuro da artigiani o artisti. Intanto, finché sono in detenzione, potrebbero collaborare con me a realizzare maschere made in Venice autentiche. Oggi sul mercato c’è tanta merce contraffatta. Ma una maschera realizzata in carcere è sicuramente made in Venice”. Come dire: garantiscono i detenuti. Rossano Calabro (Cs). Anche dietro le sbarre nasce la sezione di Azione Cattolica di Antonio Martino Avvenire, 27 febbraio 2020 Io faccio parte del gruppo fin da quando è stato creato. Ci siamo ingranditi, ci confrontiamo e ci rapportiamo con i volontari e con noi stessi, ma la missione è sempre comune: leggere la parola di Dio in comunità e mettere in pratica i suoi comandamenti. L’esperienza è positiva perché stiamo crescendo spiritualmente tutti insieme”. Gaspare - come Giuseppe, Alfio, Sebastiano e altri ancora - è detenuto nel penitenziario di alta sicurezza di Rossano, in Calabria. Storie e vite di carcere, ma anche di rinascita, di fede e di speranza. Tutto inizia quando l’Azione Cattolica della diocesi di Rossano-Cariati decide che un incontro annuale con i detenuti della casa di reclusione della cittadina ionica era troppo poco; bisognava fare di più. “Così, ottenuti i permessi necessari e con la collaborazione del cappellano, del direttore e di tutto il personale penitenziario, siamo partiti”, racconta Achiropita Calarota, presidente dell’Ac diocesana. “All’inizio furono solo 15 minuti dopo la messa domenicale: una piccola finestra che ci ha consentito di ascoltare ogni settimana le voci dei detenuti, inizio di un cammino insieme”. Ma quello spazio minuti si è subito dilatato, anche grazie agli “esercizi di laicità” da fare durante la settimana, la meditazione e la preghiera quotidiana. “Gradualmente ho arricchito la mia conoscenza della Bibbia sino a percepire la misericordia di Dio”, testimonia Donkor. “Per 50 anni ho escluso Dio dalla vita, ero scettico. Poi, quasi senza che me ne rendessi conto, qualcuno ha bussato nel mio cuore”, aggiunge Francesco. Con il passare dei mesi, questa “famiglia” particolare (così la chiama Antonio, “perché è quello che sento dentro quando siamo tutti insieme”) è cresciuta, nei numeri ma anche nell’impegno, spronata e accompagnata dalla vicinanza dell’arcivescovo Giuseppe Satriano. È nato il laboratorio “Prima luce”, che mette in atto il percorso di catechesi di Ac, e al suo interno un percorso di interazione tra casa di reclusione e parrocchie, il servizio di tutoraggio ai detenuti iscritti all’università, la collaborazione con il periodico diocesano “Camminare Insieme” per una pagina dedicata. Lo scorso dicembre un altro passo: 27 persone hanno aderito al nuovo gruppo di Ac “Sezione Carcere”, presente il presidente nazionale dell’Azione cattolica Matteo Truffelli accompagnato da monsignor Satriano per consegnare personalmente le tessere ai soci. Domenica 16 febbraio un delegato della “Sezione Carcere” ha partecipato all’assemblea elettiva diocesana di Ac, in cammino verso la XVII Assemblea nazionale del 30 aprile: “Abbiamo bisogno di testimoni di fraternità - conclude Calarota - che sappiano far germogliare esperienze buone di solidarietà e custodia dell’umano sia nelle nostre case sia tra le mura di un carcere”. Alba (Cn). “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”, la Divina Commedia vista dal carcere targatocn.it, 27 febbraio 2020 Sabato 14 marzo alle ore 16.30 nel Palazzo Banca d’Alba, in via Cavour, 4 ad Alba sarà inaugurata la mostra fotografica che prende il nome dall’incipit della Divina Commedia di Dante Alighieri. “Nel mezzo del cammin di nostra vita…” è il nome del progetto realizzato dai fotografi dell’associazione Passo dopo Passo e da un gruppo di detenuti della Casa di Reclusione di San Michele di Alessandria. L’iniziativa parte dalla profonda convinzione che la strategia della cultura che entra nelle carceri può produrre una prospettiva importante di recupero; è stata promossa la partecipazione dei detenuti stimolandone le capacità, dando loro la possibilità di esaltare le loro doti nascoste attraverso la fotografia scoprendo forme alternative per riappropriarsi della propria dignità personale. Momenti di condivisione in cui la fotografia diventa un pretesto ed un mezzo per raccontarsi. Il progetto, realizzato in collaborazione con ICS Onlus e con il contributo della Fondazione Cassa Risparmio di Alessandria, ha come sfondo la “Divina Commedia” di Dante e, nello specifico, L’Inferno. Il tutto è nato nel laboratorio di xilografia e di pittura, istituito nel carcere alessandrino. Gli allievi hanno creato delle tavole rappresentanti le parti più significative del poema usate come fondale, nel quale sono stati inseriti i ritratti delle persone detenute coinvolte. Al momento inaugurale interverranno una fotografa dell’associazione alessandrina e tra gli autori del progetto, il presidente dell’Associazione di volontariato penitenziario Arcobaleno, il Sindaco di Alba, i Garanti regionale e comunale delle persone private della libertà personale, i rappresentanti della direzione della Casa di Reclusione di Alba e i rappresentanti della Banca d’Alba che ha concesso l’utilizzo dei locali. L’iniziativa si inserisce all’interno delle attività previste dalla rassegna “TuttiDiritti - Carcere, Legalità, Persone” progetto che tradizionalmente propone alla cittadinanza albese una serie di iniziative e attività sui temi legati alla detenzione, alla legalità e ai diritti umani.”TuttiDiritti”, patrocinato dalla Città di Alba, vede come capofila l’associazione di volontariato penitenziario Arcobaleno di Alba in collaborazione con la Casa di reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba, i garanti regionale e comunale delle persone private della libertà personale, la Compagnia di Iniziative Sociali - CIS, l’Ente Fiera Internazionale del Tartufo bianco d’Alba, il Mercato della Terra “Italo Seletto”, Libera Piemonte - presidio di Alba “Mauro Rostagno”, l’Istituto di Istruzione Statale “Umberto I”. TuttiDiritti gode del supporto del Centro Servizi per il Volontariato di Cuneo, “Società Solidale”. La mostra durerà dal 14 al 29 marzo. Giorni di apertura: venerdì dalle ore 15 alle 19; sabato dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19; domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19. Per visite di gruppo in giorni diversi dai precedenti contattare il numero 320 630 8456. “La lettura è uno strumento per evadere dal crimine” di Luca Crovi Il Giornale, 27 febbraio 2020 In “L’uomo che amava i libri” lo scrittore George Pelecanos narra il riscatto sociale di un carcerato. Sulla qualità dei crime-novel di George Pelecanos hanno garantito i vari Barack Obama, Michael Connelly, Dennis Lehane e Stephen King. E che la qualità dei romanzi di questo grande narratore fosse davvero speciale lo ha confermato nel tempo l’impianto sociale di storie come Il sognatore, Vendetta, Il giardiniere notturno, Angeli neri, Strade di sangue, in cui ha raccontato gli Stati Uniti dal punto di vista della strada e delle persone più disagiate che hanno a che fare con i crimini e la malavita. Con “L’uomo che amava i libri” (SEM, pagg. 223, euro 18, traduzione di Giovanni Zucca) Pelecanos affronta ancora una volta un tema a lui caro, quello della riabilitazione penale e della possibilità di uscire da situazioni pericolose per chi ha già pagato con il carcere i propri errori. È ciò che accade a Michael Hudson, il quale in prigione non soltanto ha scontato la sua pena, ma si è anche innamorato della lettura grazie alla bibliotecaria Anna. I libri diventano per lui una forma di evasione, ma soprattutto costruiscono nel profondo un nuovo carattere e un desiderio di ripartire su nuove basi. Una volta tornato per strada, Michael dovrà combattere contro il suo passato e sopravvivere a un presente estremamente pericoloso. E fondamentali per lui saranno i libri che ha letto: Uomini e topi di Steinbeck, i racconti western di Elmore Leonard, Il Grinta di Charles Portis, Il Padrino di Mario Puzo, Una tragedia tutta azzurra di John D. MacDonald, etc. “Nel mio lavoro filantropico - spiega Pelecanos - ho incontrato una bibliotecaria, nella prigione di Washington DC. All’epoca non c’era una biblioteca, nella prigione, quindi lei ogni giorno portava un carrello pieno di libri nei vari blocchi e parlava dei romanzi con i detenuti. Sapevo che stava cambiando la loro vita e l’ho trovata una persona affascinante. E se un detenuto si innamorasse di lei, emotivamente e forse fisicamente? E se, una volta scarcerato, si imbattesse in lei per la strada? Come reagirebbe, a questo mondo, un uomo cambiato, una volta ricattato e rispedito in una vita criminale? C’erano abbastanza idee nella mia testa per scrivere un libro”. Ha avuto spesso contatti con il mondo carcerario? “Ho lavorato nelle carceri e in strutture di detenzione per minori per molti anni, facendo programmi di lettura e conversando con i detenuti. Leggono spesso i miei libri, che sono molto popolari nelle carceri, e poi ne discutiamo insieme. Sono lettori entusiasti. Le discussioni sono spesso vivaci e divertenti. Adoro andare in prigione e passare del tempo con i detenuti. E, onestamente, da loro ricevo molto materiale...”. Perché “L’uomo che amava i libri” è dedicato a Elmore Leonard e Charles Willeford? “Elmore Leonard è uno dei miei romanzieri preferiti. Lo rileggo spesso per ricordarmi come è fatto, come si può scrivere certe cose e come le ha scritte lui. Willeford era anarchico, una voce singolare nella narrativa poliziesca e in ogni cosa che ha raccontato. Nel romanzo Pick Up, l’ultima riga ti costringe a tornare indietro e a rileggere il romanzo dall’inizio. Nel mio romanzo gli rendo omaggio nelle ultime righe. Senza anticiparvi nulla, come in Pick Up le etnie dei personaggi non vengono mai menzionate. Ho pensato che fosse tempo di provare una cosa del genere nella finzione. Ed è stato per me un buon inizio”. Che tipo è il detenuto Michael Hudson, il protagonista della sua storia? “È un uomo che ha commesso un crimine quando ancora non era maturo, come accade a molti giovani. È cambiato e vuole cambiare ulteriormente. Si innamora della lettura mentre è in carcere e quando viene rilasciato tutto ciò che vuole è un lavoro e una tessera della biblioteca. Ma le forze esterne e il suo senso dell’onore lo riportano sul lato oscuro della strada”. La lettura per lui è davvero rivoluzionaria? “Michael è mai stato fuori città. In particolare, non è mai stato fuori dal quartiere e dal suo mondo chiuso in se stesso. Una volta che inizia a leggere, la vita gli apre nuovi orizzonti. Leggiamo tutti per scappare. E, grazie alla lettura, possiamo andare ovunque”. Come ha scelto i libri che nel romanzo fa leggere a Michael? “Alcuni sono romanzi che ammiro, altri sono storie che hanno plasmato la visione del mondo di Michael Hudson e lo hanno influenzato ad agire in modo positivo”. Lei crede nella riabilitazione penale? “Credo fermamente nella capacità di crescere e cambiare. Nella mia prima infanzia ho avuto qualche problema, ma ciò mi ha aiutato a crescere. La scienza ci dice che un diciannovenne è una persona molto diversa da un trentenne. Un giovane agisce mosso dall’adrenalina e dagli impulsi. Ma quella stessa persona, qualche anno dopo mostra pensieri governati dalla coscienza e dal ragionamento. Le persone cambiano. Lei sa che le persone condannate per omicidio hanno la percentuale più bassa di recidiva? Proprio questo dovrebbe dire qualcosa sulla riabilitazione”. Come sceglie i casi criminali che racconta? “Faccio delle ricerche, parlo con le forze dell’ordine e con le persone che abitano negli inferi. Cerco di rimanere in contatto con la strada”. Quanto è cambiata la scena noir americana negli ultimi anni? “Adoro il noir classico, ma non credo possa essere replicato. Era legato al suo tempo. In gran parte era basato sul ritorno di un veterano della Seconda guerra mondiale in una città oscura e claustrofobica che lui non riusciva più a capire. Quei libri parlavano di disturbi da stress post traumatico prima ancora che ci fosse un termine specifico che li definisse. Un buon noir deve avere a che fare con i traumi psicologici, non deve descrivere il fumo di sigaretta e le ombre nelle stanze”. Sul suo sito c’è una sezione di recensioni dedicata ai classici del poliziesco italiano diretti da Fernando Di Leo ed Enzo Castellari... “Ora è molto più facile trovare questi film grazie allo streaming. Sono un fan dei film polizieschi italiani degli anni 70”. La Costituzione scritta in un’epoca dura, principi devono valere soprattutto in tempi difficili Il Riformista, 27 febbraio 2020 La presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, in un’intervista a diMartedì su La7. “I principi della Costituzione sono stati scritti dopo un’epoca molto dura, con lo scopo di mettere al sicuro come in una cassaforte alcuni valori che sono stati conquistati con grande sofferenza dall’intero popolo: i diritti della persona e i limiti al potere soprattutto, questi sono i due pilastri della Costituzione. E quei principi, quei diritti, devono valere soprattutto per i tempi difficili. Il compito della Corte Costituzionale è tanto importante quanto ingrato, perché è lì che deve sempre ricordare agli attori della politica, che hanno un grande campo d’azione, che ci sono degli argini che sono insuperabili. Un compito sempre ingrato perché è sempre un pochino controcorrente, ma la Corte lo fa non perché fa l’opposizione rispetto alla maggioranza e al governo, ma perché deve garantire quei principi che non vogliamo mai disperdere neanche nei momenti di difficoltà. Preservare i principi destinati a durare nel tempo non nonostante le contingenze del momento, ma attraverso tutte le contingenze”. Lo ha spiegato la presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ieri in un’intervista a diMartedì su La7. “La Costituzione è un limite al potere assoluto - ha sottolineato Cartabia - mentre fonda un potere ne stabilisce i limiti e i confini, il costituzionalismo è l’arte di stabilire i limiti al potere. È sempre antipatico dire “oltre questo confine non si può andare” ma in fondo è necessario ed è a tutela di tutti”. Nell’intervista la presidente della Consulta ha poi puntualizzato che “i valori della Costituzione non si trasmettono per inerzia da una generazione all’altra, ma vivono e muoiono nella vita della società. Il nostro lavoro è tutelarli nei confronti soprattutto delle azioni del potere pubblico, ma i valori vanno vissuti: solo così la Costituzione può attuarsi in tutte le sue potenzialità”. “I diritti della persona non sono mai assoluti”, ha affermato ancora Cartabia, “ma devono essere sempre affermati tenendo conto dei diritti delle altre persone e anche degli interessi generali dell’intera collettività. Il limite è sempre insito nel concetto di diritto”. La presidente Cartabia ha quindi ricordato una sentenza della Consulta sul caso Ilva, nella quale “la Corte ha affermato che il diritto assoluto diventa un tiranno”, una frase “che può sembrare strana” e che ha spiegato così: “bisognava tenere unito ciò che apparentemente non poteva trovare un contemperamento, la tutela della salute, dell’ambiente, ma anche il diritto al lavoro e i diritti economici dell’impresa. Istanze tutte buone ma che se affermate in modo assoluto rompono il tessuto sociale, e la necessità di bilanciare. Il compito fondamentale è del legislatore - ha affermato la presidente della Corte costituzionale - a noi il compito di controllare che questo bilanciamento sia proporzionato”. La Germania legalizza le organizzazioni del suicidio assistito di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 febbraio 2020 La Corte costituzionale federale dichiara illegittimo l’art. 217 c.p. che vietava l’offerta programmata di assistenza alla dolce morte. La Corte di Karlsruhe: “Il diritto alla morte autodeterminata non si limita a situazioni esterne come malattie gravi o incurabili. Esiste in ogni fase dell’esistenza umana”. La Germania depenalizza l’aiuto al suicidio organizzato, anche quando praticato da associazioni o individui professionisti dell’eutanasia. Lo ha stabilito ieri mattina una sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato incompatibile con la Legge fondamentale tedesca l’articolo 217 del codice penale varato dal Bundestag nel dicembre 2015 al fine di evitare il fiorire di un giro di “affari con la morte”. Qualcuno - lo hanno già fatto le Chiese cattoliche ed evangeliche tedesche - evocherà gli omicidi selettivi dei nazisti, ma il giudice Andreas Voßkuhle si è mosso in tutt’altra direzione decidendo di riconoscere il “diritto all’autodeterminazione nel fine vita” e dando ragione al ricorso presentato quattro anni fa da due associazioni, sette medici e due cittadini contro la norma che limitava l’offerta programmata di assistenza al suicidio (che in Germania è legale, mentre rimane fuorilegge l’eutanasia del consenziente). “La decisione presa dall’individuo nell’esercizio del diritto di porre fine alla propria vita valutando la sua concezione di qualità della vita e della ragion d’essere della propria esistenza - scrive la Corte federale - deve essere rispettata come un atto di autodeterminazione autonoma da parte dello Stato e della società”. Ogni Lander, puntualizza la sentenza del massimo organo giudiziario tedesco, può legiferare come crede in materia, ma deve sempre rispettare questo diritto elementare della persona. Dunque, non è compatibile con le libertà costituzionali l’articolo del codice penale che recita: “Chiunque intenda promuovere il suicidio di un altro, che gli offre l’opportunità commerciale di farlo, lo preveda o media, sarà punito con una pena detentiva fino a tre anni o una multa”. Una decisione non facile, quella presa dal presidente della Corte di Karlsruhe al termine di un lungo lavoro di audizioni e un tempo di riflessione che si è protratto per oltre un anno. Negli ultimi tempi, però, nel Paese si era creata una situazione di discriminazione economica, intollerabile per uno Stato democratico, tra coloro che potevano permettersi i (sempre più praticati) viaggi verso la Svizzera, i Paesi Bassi o il Belgio per ricevere l’assistenza al suicidio da parte di organizzazioni professionali, e coloro che dovevano rassegnarsi a non poter scegliere come morire. Secondo il giudice Voßkuhle, la decisione di un individuo di suicidarsi non richiede alcuna giustificazione da parte di terzi, tanto meno da parte dello Stato che può solo - e deve - aumentare le pratiche di prevenzione del suicidio e rafforzare il sistema di cure palliative: “Il diritto alla morte autodeterminata non si limita a situazioni esterne come malattie gravi o incurabili o determinate fasi della vita e della malattia - si legge nella sentenza - Esiste in ogni fase dell’esistenza umana. Un restringimento del diritto a determinate cause e motivi sarebbe equivalente a una valutazione dei motivi per i quali una persona decide il suicidio (…) che è estranea al concetto di libertà della Legge fondamentale”. Dopo la decisione del tribunale, le associazioni pro eutanasia dovranno essere autorizzate, ma potranno anche farsi pubblicità. Prende ora coraggio anche il fronte di promozione della medicina palliativa per rendere più accessibili alcuni barbiturici utilizzati per l’eutanasia. Molti medici infatti si erano schierati contro l’art.217 c.p. che vietava di “promuovere il suicidio su base commerciale” perché temevano di essere puniti per le cure mediche palliative ripetutamente fornite ai malati terminali. Per quanto riguarda invece l’eutanasia, legale in Olanda e in Belgio dal 2002 e in Lussemburgo dal 2009, è il Portogallo a prepararsi a varare una delle leggi più avanzate d’Europa. La scorsa settimana infatti il parlamento portoghese ha approvato in prima lettura la depenalizzazione dell’eutanasia e del suicidio medicalmente assistito per i malati terminali. Prima dell’estate il testo dovrebbe completare il suo iter di approvazione ed essere ratificato dal presidente della Repubblica, il conservatore Marcelo Rebelo de Sousa. Grecia, è caos sulle isole. “No ai centri per migranti” di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 febbraio 2020 A Chios e Lesvos residenti inferociti contro l’invio di 600 celerini da Atene e gli espropri ordinati dal governo per realizzare due strutture detentive per i profughi. Diverse le anime in piazza e le ragioni alla base della protesta, ma tutti concordano: “Le isole vanno evacuate”. Sulle isole greche di Chios e Lesvos è scoppiato il caos. Da lunedì notte non si fermano scontri, manifestazioni e scioperi contro l’arrivo di centinaia di celerini dalla terraferma. Nei giorni scorsi il governo di Nea Dimokratia, guidato da Kyriakos Mitsotakis, aveva espropriato con procedimenti d’urgenza i terreni per realizzare gli annunciati centri di detenzione in cui rinchiudere i profughi che arrivano dalla Turchia. Contro l’ostilità delle popolazioni locali, ha inviato due navi cariche di circa 600 agenti, idranti ed escavatori. “Nemmeno i colonnelli avevano fatto arrivare così tanta polizia dalla terraferma”, racconta Alexandros Petrou, che vive e lavora nel principale centro abitato di Chios. Da subito è stato il panico, con i residenti inferociti che hanno provato a impedire gli sbarchi. “Ci sono stati tafferugli intorno al porto di Mytilini - racconta Zaxaroula Verizi, operatrice di una Ong a Lesvos - C’erano circa 1.500 persone. Il municipio ha schierato i camion per bloccare le strade. Gli agenti hanno caricato”. A Lesvos l’area in cui dovrebbe sorgere il centro di detenzione si trova vicino al villaggio di Mantamados, famoso per un monastero dedicato all’Arcangelo Michele e la forte presenza del partito comunista greco (Kke). Martedì la polizia è stata attaccata dai due lati del presidio, per ore. Ha risposto con un fitto lancio di gas lacrimogeni che hanno incendiato un bosco. Ieri l’isola si è completamente fermata per uno sciopero e un grande corteo. Gli agenti si sono dovuti ritirare nell’area militare di Pagani, ma anche questa è stata immediatamente circondata e presa d’assalto, con scene di guerriglia urbana poco comuni sulle isole. A Chios, intanto, nel pomeriggio decine di residenti avevano invaso il resort Erytha, in località Karfàs, dove alloggiavano i celerini. Diversi di loro sono stati picchiati, mentre i relativi oggetti personali venivano gettati in strada o in mare. Sulle due isole gli abitanti sono contrari alla costruzione delle strutture detentive. La composizione delle mobilitazioni, però, è diversa e al loro interno convivono motivazioni variegate. A Lesvos c’è una presenza della sinistra partitica e delle realtà antagoniste di base, mentre a Chios la componente organizzata più forte è di ultradestra (con un aggressivo gruppo del partito neonazista di Alba Dorata). C’è chi è contro i centri di detenzione per motivi razzisti e nazionalisti e c’è chi non li vuole per solidarietà con i rifugiati. Tutti però sono d’accordo sul fatto che non devono essere costruiti e che le isole vanno evacuate. Cosa che hanno chiesto più volte gli stessi migranti, intrappolati da anni in condizioni di vita indegne. La loro presenza ha raggiunto numeri insostenibili per territori così piccoli. Secondo l’equivalente greco del ministero dell’Interno il 24 febbraio tra Lesvos, Chios, Samos, Leros e Kos c’erano 42.568 profughi (poco più di 200 mila i residenti complessivi). La capienza nelle strutture di accoglienza, però, è di soli 8.816 posti. La situazione è il riflesso più estremo delle politiche europee che in questi anni hanno scaricato sui paesi dell’Europa mediterranea il contenimento dei flussi migratori. “Molti abitanti di Chios ritengono che le isole siano state sacrificate dall’Ue e da Atene”, dice Petrou. La presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ieri in un’intervista a diMartedì su La7Mitsotakis ha espresso la volontà di ritirare gli agenti. Oggi dovrebbe incontrare il governatore della regione dell’Egeo del Nord e i sindaci delle isole. Per il governo greco si tratta della prima vera crisi politica, proprio in territori che hanno votato massicciamente il partito conservatore, ammaliati delle promesse di chiusura delle frontiere e allontanamento dei migranti.