Perché le carceri italiane possono diventare luogo di diffusione del coronavirus di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2020 Una circolare ministeriale non basta e non può bastare per affrontare l’emergenza coronavirus nei 190 istituti penitenziari italiani che ospitano complessivamente 60.769 detenuti di cui 19.888 stranieri (dati del ministero della Giustizia aggiornati a fine gennaio). I cinesi sono 226, pari all’1,1% della popolazione carceraria. Proprio le carceri - come testimoniano i 32 casi scoppiati all’interno degli istituti di reclusione cinesi della sola provincia di Hubei e di cui si è avuta notizia la scorsa settimana - possono infatti rappresentare la nuova causa di diffusione incontrollata del virus. In spazi ristretti il virus ha infatti maggiore probabilità di propagazione, avendo come unica soluzione l’evacuazione delle celle e degli uffici del personale civile e di polizia penitenziaria. Allerta rossa - Da sabato 22 febbraio i Provveditorati regionali della Lombardia e del Veneto sono entrati in fibrillazione. I motivi per correre, del resto, non sono mancati nel giro di appena 24 ore. Prima l’ordine di dare applicazione alla circolare del Capo dipartimento, Francesco Basentini e, di seguito, le allarmanti notizie che riguardano i focolai scoppiati nelle due regioni, con tanto di ricoveri e morti. Dalle 17 del pomeriggio di sabato alle 2 delle notte della domenica, i direttori, i loro facenti funzione e i comandanti della polizia penitenziaria dei 16 istituti lombardi, che ospitano complessivamente 7.084 detenuti, hanno avuto una linea rossa diretta con il Provveditorato per capire ciò che doveva essere immediatamente eseguito ma per provare anche a capire cosa, di fatto, manca alle prime indicazioni giunte da Roma. La stessa cosa, più o meno, è accaduta in Veneto, che nei 9 istituti ospita 1.635 detenuti. Prime indicazioni da Roma - Sabato scorso la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), sostanzialmente ha affermato quattro cose. Primo: il coordinamento tra istituti penitenziari e autorità sanitarie locali, “oltre agli altri eventuali referenti territoriali. Questi ultimi, però, non sono stati menzionati e dunque è un capitolo rimasto aperto”. Secondo: divieto di accesso nelle carceri di chiunque (familiare, operatore, insegnante, volontario o visitatore), provenga dai comuni di Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano. Terzo: sono sospese, fino a nuova disposizione, le traduzioni dei detenuti verso e dagli istituti penitenziari rientranti nella competenza dei Provveditorati di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze. Quarto: è istituita una unità di crisi presso il Dipartimento - Direzione generale detenuti e trattamento, coordinata da Paola Montesanti, per assicurare il costante monitoraggio dell’andamento del fenomeno. La voce dei sindacati - Troppe cose, però, restano irrisolte. Elencarle tutte è complesso ma a colmare qualche lacuna hanno pensato i sindacati degli agenti di polizia penitenziaria. Il segretario generale del S.PP. Aldo Di Giacomo, che ha scritto ai Ministri della Salute e della Giustizia, al capo del Dap e ai presidenti delle Regioni, chiede un’accelerazione alla campagna di prevenzione e di comunicazione sul coronavirus ma, soprattutto, sottolinea “l’insufficiente dotazione nelle carceri lombarde e venete di personale medico e sanitario e l’inesistente informazione che potrebbe contribuire in modo significativo nella diffusione del virus”. La lista della “spesa” - E via con l’elenco della dotazione essenziale di cui dapprima le carceri lombarde e venete e subito dopo le altre, avrebbero bisogno. La lista della “spesa” comprende termometri, mascherine, gel disinfettanti e tute speciali, considerando la molteplicità di accessi nelle carceri da parte di familiari e di personale civile, che rappresentano un rischio di trasmissione. “È opportuno spiegare a chiare lettere - continua Di Giacomo - che vista la situazione nelle regioni Lombardia e Veneto non sono più procrastinabili interventi di natura straordinaria che garantiscano la massima attenzione per evitare il propagarsi del virus all’interno delle carceri”. Gennarino De Fazio, per la Uilpa Polizia penitenziaria nazionale, poche ore fa è tornato a chiedere la costituzione di una cabina di regia che informi, istruisca e guidi operatori e detenuti. “L’ingresso nelle carceri del coronavirus sarebbe devastante anche in ragione delle particolarità e la promiscuità dei luoghi in cui transitano, molto più di quanto si creda, una molteplicità di persone, e nei quali l’igiene e la stessa salubrità degli ambienti non sempre eccelle a voler essere eufemistici”. Il filone sanitario - Sul filone sanitario insiste anche Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe). “Non c’è alcun allarme Coronavirus nelle nostre carceri, per adulti e minori - afferma -, ma è auspicabile che si adottino le opportune cautele. La promiscuità nelle celle favorisce la diffusione delle malattie, specie quelle infettive. Se si considera che un terzo della popolazione detenuta è straniera, alla luce del collasso di sistemi sanitari esteri e con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale. Se in Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie ne abbiamo rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera”. L’epatite C è tuttora l’infezione maggiormente presente nella popolazione detenuta in Italia. I protocolli interni - La premessa è che al momento dell’ingresso in carcere qualunque detenuto deve essere innanzitutto sottoposto a visita medica dopo l’immatricolazione. Se viene riscontrata una qualunque patologia, vengono attivati i protocolli sanitari di riferimento. Problema enorme e del resto accennato dalla circolare ministeriale, che al momento indica solo chi arriva dai comuni indicati, è quello relativo agli ingressi. Chiunque può arrivare da qualunque parte d’Italia e del mondo e chiedere, per motivi diversi, di avere accesso al carcere. Chi entra e chi esce - Avvocati, le imprese che trasportano generi di prima necessità per le mense degli agenti e dei detenuti e volontari in primis. Ci sono poi tutti i datori di lavoro che hanno attività all’interno degli istituti, come cooperative sociali, associazioni e aziende. Un esempio? Le compagnie di call center hanno supervisori che entrano ed escono dalle carceri dove hanno filiali operative. Un altro esempio? Chi gestisce la manutenzione delle caldaie e degli impianti elettrici, oltre a chi gestisce servizi comunali (come la raccolta giornaliera dei rifiuti), operatori sanitari e docenti. Il carcere è una comunità a sé, una piccola città auto-amministrata. Pompeo Mannone, segretario nazionale delle Federazione nazionale sicurezza della Cisl, chiede per questo “di disporre i necessari controlli su tutte le persone che accedono, sia per quanto riguarda i nuovi arrestati sia per coloro che vi accedono a vario titolo per le normali attività garantendo il corretto svolgimento delle attività istituzionali”. Sul punto, poche ore fa, il Sappe ha chiesto, come del resto accade negli aeroporti, la dotazione in ogni struttura penitenziaria dei cosiddetti “body scanner termici” per procedere ad un primo screening dei detenuti (e non solo). Il nodo traduzioni - Un problema enorme è quello delle traduzioni dei detenuti. Non solo all’interno della regione ma in giro per l’Italia. Ogni anno sono tra i 100mila e i 120mila le traduzioni effettuate e, come scrive il Sappe al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e al direttore generale del personale e delle risorse del Dap Massimo Parisi andrebbe posta maggiore attenzione. Innanzitutto “ai poliziotti che giornalmente assicurano le traduzioni da istituti a luoghi esterni (ad esempio tribunali, ndr) e soprattutto sarebbe opportuno limitare al massimo le traduzioni ospedaliere assicurando solo quelle di massima e reale urgenza (...). Sarebbe il caso di limitare il più possibile le attività che prevedono contatti fisici tra detenuti e persone del mondo libero e, se necessario, contenere e/o sospendere anche i colloqui familiari e le uscite dei semiliberi e di quelli che lavorano all’esterno”. Una circolare ministeriale non basta e non può bastare ma ha acceso comunque i riflettori su quella che rischia di diventare una “bomba” a orologeria. Coronavirus-test per tutti i “nuovi ingressi” nelle carceri e negli Ipm Il Messaggero, 26 febbraio 2020 La bozza stila le procedure da seguire per evitare il diffondersi dell'epidemia all'interno delle carceri. Tutti i nuovi ingressi nelle Case circondariali italiane, minorenni compresi, saranno sottoposti ai test per il coronavirus. “Tenuto conto delle indicazioni fornite dal ministero della Salute - si legge nel testo - le articolazioni territoriali del servizio sanitario nazionale assicurano al ministero della Giustizia idoneo supporto per il contenimento della diffusione del contagio del Covid-19, anche mediante adeguati presidi idonei a garantire i nuovi ingressi negli istituti penitenziari e negli istituti penali per minorenni, con particolare riguardo ai soggetti provenienti dai comuni” inseriti nelle zone rosse, quelle in cui la presenza della mallattie è maggiore. Prevenzione coronavirus: il punto della situazione (gnewsonline.it) In linea con le disposizioni emanate dal Ministero della Salute e dalla Protezione Civile, il Ministero di via Arenula ha adottato - a partire dalla giornata di sabato - misure rivolte sia ai lavoratori del mondo dell’Amministrazione della giustizia sia agli utenti della Giustizia. Il Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria (DOG), il Dipartimento della Giustizia Minorile e di Comunità (DGMC) e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) hanno emanato note che, basandosi sul principio della massima cautela per la tutela della salute, contengono indicazioni urgenti rivolte ai dipendenti di tutta l’Amministrazione e agli utenti della Giustizia residenti (o comunque dimoranti) nei Comuni delle zone coinvolte. Successivamente Barbara Fabbrini, capo del DOG, ha precisato che le disposizioni citate riguardano “i soli uffici pubblici dei territori nelle zone dei Comuni indicati come zone focolai e ai soggetti ivi residenti”. Per quanto concerne, invece, gli Uffici Giudiziari Centrali che appartengono a Comuni nei quali le prescrizioni non sono state emesse, “dovrà farsi riferimento solo alla necessità di attuare gli istituti di legge a fronte delle assenze del personale amministrativo e di magistratura, agli avvocati e alle parti”. Fabbrini conclude la sua nota specificando che dovranno attenersi alle disposizioni anche quei territori che in futuro dovessero “essere interessati da ulteriori analoghi provvedimenti delle competenti Autorità volti alla prevenzione del contagio”. In mattinata anche l’Ufficio Centrale degli Archivi Notarili ha fatto proprie le disposizioni emesse da DOG, DGCM e DAP. Peraltro, queste disposizioni erano già state annunciate dal ministro Alfonso Bonafede che, domenica, aveva dichiarato: “Stiamo predisponendo tutte le norme che attueranno il seguente principio: tutti i magistrati, avvocati, personale amministrativo, polizia penitenziaria e tutti gli operatori della giustizia residenti nei ‘comuni focolaio’ non si recheranno al lavoro nei rispettivi uffici amministrati dal ministero della Giustizia. Il medesimo discorso vale per i cittadini che devono recarsi in udienza in qualità di parti processuali o testimoni”. Oggi in alcuni Palazzi di Giustizia sono stati adottati provvedimenti che, senza interrompere l’attività giudiziaria, hanno regolamentato lo svolgimento. Nello specifico, a Milano, si stanno tenendo udienze a “porte chiuse” limitando l’accesso all’aula alle persone strettamente necessarie e, comunque, evitando di far affluire troppe persone contemporaneamente. Stesso criterio adottato anche a Foggia. L’UIEPE (Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna) di Emilia-Romagna e Marche ha disposto l’interdizione dall’accesso agli uffici di Bologna, Modena, Forlì e Rimini da parte dell’utenza e delle visite domiciliari, per lo stesso periodo indicato nell’ordinanza del presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, e del Ministro della Salute, Roberto Speranza, relativa alla chiusura per una settimana dal 23 al 29 febbraio 2020, della scuole di ogni ordine e grado e di altri luoghi pubblici. L’UIEPE della Lombardia ha comunicato che gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna della regione resteranno chiusi nelle prossime giornate di sabato fino al 28 marzo compreso. Udienze sospese al Tribunale di Piacenza. Coronavirus, il Sindacato di Polizia penitenziaria: “bloccare contatti con l'esterno” firenzetoday.it, 26 febbraio 2020 “Ascoltateci o vi riterremo tutti responsabili di quanto potrà accedere per il coronavirus nelle carceri”. È l'appello lanciato dal segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Aldo Di Giacomo ai Ministri della Salute Roberto Speranza e della Giustizia Alfonso Bonafede, ai provveditorati regionali dell'amministrazione penitenziaria e ai prefetti di Firenze, Torino, Milano, Padova, Bologna, nonché ai presidenti delle regioni coinvolte. “Sono i detenuti, già da qualche giorno, a dimostrare buonsenso chiedendo, sempre più numerosi, di rinunciare ai colloqui con i familiari che invece si continuano a tenere come se niente fosse accaduto fuori degli istituti penitenziari - spiega Di Giacomo - gli stessi detenuti chiedono agli agenti di indossare le mascherine per evitare una eventuale trasmissione del virus dell’esterno”. “Ad oggi nessuna mascherina è disponibile per la polizia penitenziaria né tanto meno termometri laser. La sottovalutazione - dice ancora il segretario del sindacato - è ancora più grave e ingiustificata tenuto conto che un detenuto su due è malato con patologie che ne fanno un rischio per sé e per gli altri e che ci sono migliaia di detenuti con più di 70 anni”. “Per noi - ribadisce Di Giacomo - l'unica forma di prevenzione possibile nelle carceri è bloccare ogni contatto con l'esterno; la nostra non è solo una convinzione di buon senso ma anche scientifica confermata da tutti i medici a cui ci siamo rivolti, insieme ad una campagna di vera prevenzione e di comunicazione che coinvolga prima di tutto il personale in servizio che è invece abbandonato a sé stesso nel gestire la situazione”. Se invece qualcuno pensasse ad istituire una sorta di spazio isolamento per eventuali casi coronavirus - conclude Di Giacomo - farebbe bene a toglierselo dalla testa perché non solo scongiurerebbe la diffusione del virus ma determinerebbe una situazione di panico tra i detenuti del tutto incontrollabile rispetto alla quale non resterebbe che evacuare il carcere con tutto ciò che comporta”. La recente politica securitaria tra riforma della prescrizione e sovraffollamento carcerario di Orlando Sapia lanuovacalabria.it, 26 febbraio 2020 La sicurezza, ora declinata quale sicurezza dei confini rispetto alle migrazioni in atto dall’Africa/Asia verso l’Europa, ora quale sicurezza interna rispetto al presunto aumento dei fenomeni criminali, in realtà in costante diminuzione da diversi anni[1], è la bussola che segna la rotta politica degli esecutivi susseguitisi negli ultimi decenni. La riforma in materia di prescrizione, entrata in vigore in data 1 gennaio, ne è un chiaro esempio. In un contesto di povertà crescente e diffusa (le ultime statistiche parlano di quasi cinque milioni di persone sotto la soglia della povertà), ricorrere all’inasprimento di pene, in vero già alte, introdurre nuove fattispecie di reato o reintrodurre reati come il blocco stradale e il divieto di accattonaggio e prevedere il blocco della prescrizione dopo la sentenza di I grado è espressione di un ricorso massimo ed eccessivo al diritto penale, tanto da aver suscitato le critiche del mondo accademico, dell’avvocatura, in particolare dell’UCPI, e di una parte della stessa magistratura. Risultato di queste politiche in materia penale è il costante incremento della popolazione detenuta, che il 30/01/20 ha toccato la cifra di 60.971 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 50.692, con ciò segnando un tasso di sovraffollamento del 120%. La realtà del sovraffollamento carcerario è ormai una costante dell’ultimo quarto secolo, frutto sia della riforma costituzionale del 1992, che ha reso estremamente difficile la promulgazione dei provvedimenti clemenziali (amnistia e indulto), sia del costante inasprimento del sistema delle pene, in particolare per i reati c.d. di natura predatoria ed in violazione del Testo unico sugli stupefacenti. Nonostante la narrazione mainstream dei mezzi di comunicazione spesso sostenga la necessità di interventi dello Stato in materia di sicurezza al fine di fronteggiare i pericoli legati alla presenza della criminalità organizzata, di stampo mafioso o terroristica, verificando i dati statistici del DAP si scopre che poco più del 10% sono i detenuti per reati connessi al 416 bis c.p. ed appena 149 (nell’anno 2018) coloro i quali rispondono per i delitti contro la personalità dello Stato, quindi ascrivibili alla categoria generale del c.d. terrorismo. La maggior parte dei detenuti, in verità, sono stati condannati per reati contro il patrimonio o in violazione del testo unico sugli stupefacenti. Violazioni molto spesso di non grande allarme sociale e sicuramente connesse sotto il profilo causale a condizioni di povertà ed emarginazione sociale. In tale contesto, la riforma in materia di prescrizione, appena inizierà a produrre i propri effetti, comporterà un aumento del contenzioso penale e del sovraffollamento carcerario. Infatti, l’interruzione del decorso del termine prescrizionale dopo la sentenza di I grado causerà un allungamento della durata dei processi in grado di appello e l’aumento del contenzioso dinanzi alle corti territoriali, così violando il principio della ragionevole durata del processo. Altra conseguenza sarà l’incremento delle condanne e il conseguente aumento della popolazione carceraria. Sono state raccolte le indicazioni provenienti dai settori più intransigenti della Magistratura, come dimostra la nota della corrente giudiziaria Autonomia e Indipendenza, a cui appartiene il dott. Piercamillo Davigo: “Le attuali norme sulla prescrizione rendono in gran parte inutili i procedimenti penali per i reati puniti con pene pari o inferiori a sei anni di reclusione, ovvero la stragrande maggioranza. Riteniamo necessario un intervento legislativo sulla durata e sulla sospensione della prescrizione, in modo da evitare l'effetto distorto di ‘amnistia permanentè che tale istituto ha assunto nel corso degli anni a causa di un sistema processuale farraginoso e di difficile gestione”. L’altra faccia della medaglia di questa visione securitaria è la necessità di costruire nuove carceri, come previsto dalle recentissime linee programmatiche del DAP. Tali istituti dovranno essere di grandi dimensioni e si avrà così la chiusura degli istituti penitenziari di piccole dimensioni considerati antieconomici, che in verità sono quelli che funzionano meglio, essendo l’attività trattamentale più personalizzata ed il rapporto personale specializzato/ detenuti più proporzionato rispetto alle grandi carceri. Ancora una volta la ricetta è più carcere e meno misure alternative, in totale contrasto con la logica ispiratrice della recente, purtroppo naufragata, riforma dell’Ordinamento Penitenziario, che valorizzava il dato costituzionale della “rieducazione” del condannato e del suo reinserimento sociale, basandosi sulla circostanza, emergente dalle statistiche del mondo penitenziario, che la recidiva riguarda soprattutto coloro che scontano l’intera pena in carcere e molto meno chi è tenuto a seguire la strada dell’esecuzione penale esterna. Le ragioni giuridiche contro la recente riforma in materia di prescrizione sono ampiamente conosciute e dibattute: il principio della ragionevole durata del processo, tant’è che qualche autorevole commentatore ha parlato di una “giustizia infinita”; il principio del venir meno dell’interesse dello Stato alla pretesa punitiva nei confronti dell’autore di un determinato reato (con il corrispettivo sorgere in capo all’autore medesimo del “diritto all’oblio”), come conseguenza del trascorrere del tempo. Sotto il profilo politico, la battaglia portata avanti in special modo dall’UCPI contro la recente riforma è, altresì, un argine ad ulteriori svolte giustizialiste, tra le quali spicca addirittura l’abolizione dell’appello quale secondo grado di merito[4], che oggi sono sempre più ventilate ed auspicate dai settori politico-istituzionali che fanno della sicurezza una calamita per l’attrazione del consenso sociale. Inoltre, è doveroso evidenziare che la previgente disciplina in materia di prescrizione comportava non solo uno sgravio del contenzioso giudiziario, ma soprattutto evitava un’ulteriore ed insostenibile aumento della popolazione detenuta. In un contesto sociale, fatto di povertà crescente, e penitenziario, fatto di sovraffollamento carcerario, la prescrizione produceva, per fortuna, gli effetti di quei provvedimenti clemenziali, che per lungo tempo hanno consentito la gestione del sistema penale e penitenziario italiano[5] e che oggi il sistema politico per non alienarsi il consenso elettorale non ha alcuna intenzione di realizzare. Analizzata in quest’ottica la riforma della prescrizione non è una semplice riforma giuridica, dettata dalla necessità di uniformare l’Italia al resto del mondo civile, al contrario si tratta di una riforma politica che ha come finalità aumentare il ruolo del sistema penale nel governo di una società sempre più attraversata dalla povertà. Molto spesso la narrazione dominante ci restituisce un’immagine della realtà giudiziaria che consente ad esponenti di ceti privilegiati, laddove incappano in accuse di corruzione o similari, di farla franca e restare, così impuniti, magari proprio grazie al “cavillo” della prescrizione. In vero, a seguito delle riforme legislative che nel corso dell’ultimo decennio hanno innalzato le pene per i delitti contro la p.a., i reati di corruzione/concussione e similari sono oramai, da qualche anno, difficilmente prescrittibili. Quasi impossibile è raggiungere la prescrizione quando si tratta di reati, per fare qualche esempio, quali associazione mafiosa, violenza sessuale, associazione per il traffico di sostanze stupefacenti, i cui massimali di pena sono molto alti e i tempi di prescrizione per legge, art. 157 c.p., sono addirittura raddoppiati. Per non parlare dell’omicidio che, laddove punito con l’ergastolo, è addirittura imprescrittibile. La conseguenza della riforma sarà di colpire con maggiore durezza i reati di natura predatoria (in particolare il furto nelle sue svariate declinazioni), la ricettazione, l’occupazione di terreni ed edifici, i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale ed, infine ma non ultimo, l’ipotesi lieve del delitto di detenzione ad uso non esclusivamente personale di stupefacenti. In sostanza, reati compiuti da coloro i quali vivono ai margini della società. Lo scenario descritto è preoccupante, non solo per la attuale realtà ma soprattutto per il futuro, molto prossimo, che si prospetta. La povertà crescente, il ricorso esasperato al diritto penale, la lungaggine dei processi, il sovraffollamento carcerario e la vetustà degli istituti di pena sono una triste realtà che solo peggiorerà. La politica nel suo complesso dimostra di voltare le spalle a quella che è la sfida principale: garantire i diritti umani e con essi la funzione rieducativa della pena. In questo frangente, l’Unione delle Camere Penali rappresenta una delle poche soggettività in grado di offrire una prospettiva differente, contrapposta alla logica giustizialista, e capace di lottare per la realizzazione di riforme che siano rispettose dei diritti della persona nel processo e nell’esecuzione penale. *Avvocato e Responsabile Osservatorio Carcere - Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” Intercettazioni, sì alla fiducia. L’opposizione: così il Paese ai pm di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 26 febbraio 2020 La maggioranza giallorossa ha dato il via libera alla Camera. Per il deputato di Forza Italia Sisto è un “provvedimento barbaro”. Incassata la fiducia, la maggioranza ha deciso di posporre il voto finale per il decreto sulle intercettazioni a domani, anticipando quindi l’esame del decreto sul coronavirus, come chiesto dall’opposizione. Nessun problema per la fiducia, che è passata con 304 sì, 226 no e un astenuto. Il nuovo calendario dei lavori messo a punto dalla conferenza dei capigruppo - per consentire l’approvazione del decreto legge coronavirus nella giornata di oggi - prevede il via libera definitivo al provvedimento, nel testo già votato dal Senato, per domani sera. Rivendicano la “vittoria” sia la Lega sia Forza Italia. Per il capogruppo del Carroccio alla Camera, Riccardo Molinari, “è una vittoria della Lega: una decisione logica e di buon senso che poteva essere assunta prima, invece di perdere tempo prezioso”. Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia, scrive su Twitter: “Prima la salute. Finalmente accolta la richiesta che ho avanzato fin da domenica e che è stata condivisa da tutta l’opposizione. Ogni tanto prevale il buon senso”. Diversi esponenti della maggioranza avevano sostenuto, fino a ieri, che l’inversione del calendario non era necessaria, visto che il decreto sul coronavirus è già stato emanato ed è operante. E che invece bisognava fare in fretta con la conversione del decreto sulle intercettazione, che scade il 29 febbraio. Ma il nuovo calendario, evidentemente, consente di contemperare le due esigenze. Restano tutte le distanze sul contenuto del decreto, fortemente osteggiato dall’opposizione. Per il deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, intervenuto durante le dichiarazioni di voto, “la gravità della contingenza che sta vivendo il Paese non attenua la portata di un provvedimento barbaro: baloccandosi con le norme costituzionali per puro spirito di sopravvivenza, il governo sta consegnando l’Italia ai pm. Il 1 maggio, giorno in cui entrerà in vigore la riforma, non sarà più solo la festa del lavoro ma anche quella delle Procure: mi aspetto cortei di pm che osannano questo scellerato esecutivo. Finora erano un optional straordinario, ora i processi avranno le intercettazioni di serie”. In disaccordo, naturalmente Alessandro Zan, del Pd, che rivendica “una sintesi migliorativa” trovata in questi mesi: “Viene vietata la pubblicazione di quelle intercettazioni che nulla hanno a che vedere con l’oggetto delle indagini”. Per raggiungere questo obiettivo, spiega, “abbiamo spostato dalla polizia giudiziaria al pm la rilevanza delle conversazioni intercettate. Consentendo ai difensori di accedervi”. Il leghista Flavio Di Muro spiega invece: “Nei 200 emendamenti presentati dalle minoranze, cancellati col colpo di spugna della fiducia, c’erano molte proposte di buonsenso che avrebbero messo a riparo il decreto dai profili di incostituzionalità”. L’avvocato? Resta spiabile: il vulnus inquietante del decreto intercettazioni di Errico Novi Il Dubbio, 26 febbraio 2020 Sì della Camera alla fiducia su una riforma contraddittoria. Via libera della Camera alla fiducia posta dal governo sul decreto Intercetta-zioni. I voti a favore sono 304, i contrari 226 e 1 astenuto. L’esame del provvedimento riprenderà domani per il voto definitivo di conversione. Nella norma manca un effettivo divieto di spiare gli avvocati. Di qui il duro avvertimento da parte del presidente del Cnf, Andrea Mascherin: “Il tema delle intercettazioni si sposa col diritto costituzionale alla tutela del domicilio e, aggiungo, della libertà di pensiero e parola in casa propria. La tecnologia del Trojan è così avanzata da rischiare di sfuggire di mano. Non dimentichiamo che invadere il domicilio è come limitare la libertà personale, beni supremi. Bisognerebbe iniziare a riflettere sulla possibilità di non ritorno nell’utilizzo di certe tecnologie. È questione culturale e di democrazia prima che di rimedi di natura penale”. Il leghista Jacopo Morrone: “Un pateracchio indegno”. Forse esagera, Jacopo Morrone, a parlare di “pateracchio indegno” : ex sottosegretarto alla Giustizia, dunque interlocutore privilegiato di Alfonso Bonafede finché è durato il governo gialloverde, il deputato leghista ha parole sempre definitive, per il guardasigilli. Un pateracchio no, ma un vestito d’arlecchino un po’ inquietante certamente lo è, il decreto intercettazioni. Anche perché, in mezzo alla snervante aporia delle norme a tutela della privacy mescolate con la solita spruzzata di trojan, manca un effettivo divieto di spiare gli avvocati. Ieri le nuove norme hanno ottenuto la fiducia a Montecitorio: 304 sì e 226 no. Saranno convertite in legge solo con il voto finale, calendarizzato dalla capigruppo per domani sera in modo da dare precedenza al decreto coronavirus. Nato nell’ormai lontano 2015 da una costola della riforma penale di Andrea Orlando, incistato in quello sterminato ddl sotto forma di dettagliatissima delega, emanato a fine 2017 ma sottoposto a una serie di rinvii che ne hanno congelato l’entrata in vigore, il decreto intercettazioni ha preteso infine una sorta di appendice integrativa, cioè il testo di cui si discute in queste ore alla Camera, varato stavolta dalla maggioranza giallorossa e a un passo dal decollo definitivo. Storia travagliata, ma anche contraddittoria. Soprattutto perché l’attuale vicesegretario dem, quando era ministro della Giustizia, lo aveva concepito soprattutto per limitare la diffusione indiscriminata dei brani captati dalle Procure. Ecco, sul punto sopravvivono alcune buone intenzioni, ma intrecciate con la discutibilissima estensione dei “trojan horse” oltre il confine già spostato in avanti dalla legge “spazza corrotti”: adesso i captatori informatici potranno essere attivati per i reati contro la pubblica amministrazione commessi non solo dal “pubblico ufficiale”, come sancito dalla legge Bonafede, ma anche dall’ “incaricato di pubblico servizio”. Non solo. Perché dal Senato i deputati hanno ereditato un’altra piccola codificazione estensiva, quella che ha rischiato di causare feriti nella commissione Giustizia di Palazzo Madama, dove si è sfiorata la rissa, e che modifica l’articolo 270 del codice di procedura penale in modo da sdoganare l’uso delle intercettazioni “in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti”, a una, anzi due condizioni: che si tratti di acquisizioni “indispensabili” e che i reati in questione siano fra quelli per cui è previsto l’arresto in flagranza oppure riconducibili al catalogo delle condotte più gravi, annoverate all’articolo 266 del codice di rito (oltre a mafia e terrorismo, anche i reati di corruzione con pena non inferiore a 5 anni e tutti i reati di droga). Vista l’occasione, non ci si è lasciati sfuggire naturalmente analoga previsione anche quando e captazioni avvengono coi terribili virus spia. Proprio su quest’altra forzatura sulla frontiera dell’intrusività arriva un richiamo del presidente Cnf Andrea Mascherin: il tema delle intercettazioni “si sposa con l’altro molto delicato del diritto costituzionale alla tutela del domicilio e, aggiungo, della libertà di pensiero e parola a casa propria”, ricorda il vertice dell’istituzione forense. “La tecnologia del trojan è così avanzata da rischiare di sfuggire di mano. Non dimentichiamo”, aggiunge, “che invadere il domicilio è come limitare la libertà personale, beni supremi. Allora bisognerebbe iniziare a riflettere sulla possibilità di non ritorno nell’utilizzo di certe tecnologie. È questione culturale e di democrazia prima che di rimedi di natura penale”. Il punto dunque è l’abbattimento di ogni remora nell’usare in modo cauto i trojan. Pericolo generale che trascende la stessa norma sull’uso “ipertestuale” delle intercettazioni. Anche perché si tratta di un principio sdoganato ampiamente dalla Cassazione, con diverse pronunce ma in particolare con la 41317 del 2015. In fondo la puntualizzazione normativa rende certo il quadro e non lo peggiora, anzi. Il punto è che l’avanzamento complessivo della frontiera dei trojan contraddice bellamente lo spirito originario della riforma, ispirato innanzitutto alla tutela della reputazione degli intercettati (indagati o “incidentali”), e in particolare dei “dati personali definiti sensibili dalla legge”. Non c’è un divieto di trascrivere. Benissimo. Perché così il difensore non dovrà impazzire o rinunciare al sonno per ascoltare tutte le conversazioni, alla ricerca di spunti utili alla difesa. Potrà invece effettuare ricerche sui file dei verbali ai quali, una volta depositati, potrà accedere “in via telematica”. L’avvocato? È spiabile E chiarissimo d’altronde come l’argine alle ondate di brogliacci penalmente irrilevanti ma oggettivamente devastanti per l’immagine sia affidata alla civiltà dei magistrati. E fin qui il margine di rischio potrebbe apparire talmente basso da essere tollerabile. Ma è invece intollerabile che sia decisiva ancora una volta la buonafede del pubblico ministero anche per la paradossale questione dei difensori intercettati. Il provvedimento che domani sarà convertito in legge non aggiunge nulla a quanto previsto dal testo Orlando (in vigore, come le nuove norme, solo dal 1° marzo): vale a dire il divieto di trascrivere le comunicazioni fra difensore e assistito. Divieto giusto ma insufficiente. Perché i brani resteranno comunque nell’archivio segreto del pm. E anche se non potranno mai entrare nel fascicolo (a meno che non si tratti di intercettazioni che costituiscano esse stesse corpo del reato) saranno di fatto nella disponibilità del pm. Che, se particolarmente scorretto, resta libero di approfittarne per spoilerare la strategia difensiva. Non il massimo della coerenza con la parità fra accusa e difesa di cui all’articolo 111. Ed è davvero incredibile che, dopo una gestazione durata 5 anni, neppure questa riforma abbia risolto il problema. Più potere ai pm, ecco cosa dice la nuova norma di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 febbraio 2020 Maggiori poteri ai pm, forte estensione dell’utilizzo dei “captatori informatici”, sanzioni pressoché simboliche per chi viola il divieto di pubblicazione fuori dai casi consentiti. In estrema sintesi, sono questi i punti centrali della riforma delle intercettazioni telefoniche che troverà applicazione per i procedimenti penali iscritti a partire dal prossimo mese di maggio. Per tutti i procedimenti in corso continuerà ad applicarsi la disciplina attuale. La norma stravolge completamente la disciplina del 2017, voluta dall’allora ministro Andrea Orlando (Pd), e mai entrata in vigore in quanto oggetto di numerose proroghe. La novità più rilevante riguarda, come detto, l’incremento del poteri dei pm. Saranno loro, e non più la polizia giudiziaria come previsto nella riforma Orlando, a determinare e scegliere cosa è rilevante per le indagini e cosa non lo è. Sarà consentita, poi, la possibilità di usare i risultati delle intercettazioni in procedimenti penali diversi rispetto a quello nel quale l'intercettazione è stata autorizzata. Oltre che per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza, tale possibilità è prevista anche per l'accertamento dei reati indicati nell’art. 266 del cpp qualora le intercettazioni siano ritenute “indispensabili e rilevanti” per l'accertamento della responsabilità penale. Questo in dettaglio. Per quanto attiene l’esecuzione delle intercettazioni, il testo ripropone sostanzialmente la formulazione antecedente la riforma del 2017 per la trasmissione dei verbali delle intercettazioni, la comunicazione ai difensori (che avranno facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le registrazioni), il procedimento incidentale finalizzato alla cernita ed alla selezione del materiale probatorio nell'ambito di una apposita udienza. Lo stralcio potrà riguardare, oltre alle registrazioni di cui è vietata l'utilizzazione, anche quelle che riguardano dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza. Vengono ripristinate le disposizioni relative alla possibilità che alle operazioni di stralcio partecipi il pm ed il difensore; quest’ultimo potrà estrarre copia delle trascrizioni integrali delle registrazioni disposte dal giudice e potrà far eseguire copia. Come in passato, il gip disporrà la trascrizione integrale delle registrazioni, o la stampa delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, da acquisire poi con le forme della perizia tecnica. I verbali e le registrazioni, e ogni altro, saranno conservati integralmente nell’apposito “archivio delle intercettazioni” gestito e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica. Non sarà, comunque, un archivio “riservato”. Le attività di intercettazione ambientale mediante utilizzo dei cd virus Trojan, già consentite per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, saranno estese anche ai delitti degli incaricati di pubblico servizio. Sono esclusi i delitti contro la pubblica amministrazione da quelli per i quali sarà necessario indicare “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l'attivazione del microfono”. Viene consentita l'utilizzabilità delle intercettazioni effettuate per mezzo del captatore anche per la prova dei reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, a condizione che si tratti di reati contro la pubblica amministrazione puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni o di delitti attribuiti alla competenza della procura distrettuale. I risultati delle intercettazioni dovranno essere indispensabili per l'accertamento di tali delitti. Nulla, invece, viene specificato circa le società private che forniranno le dotazione tecnologiche alla Procure. Essendo la riforma a ' costo zero', non è prevista una gara per l'identificazione di un fornitore unico nazionale o la creazione di un albo a cui rivolgersi. Un tema, dunque, molto delicato, quella della tenuta dei dati sensibili appaltati ai privati, su cui non è stata fornita alcune risposta chiara. Anche le conversazioni fra l'avvocato e il suo assistito, pur restando inutilizzabili, potranno continuare ad essere ascoltate dal pm meno ' corretti', svelando di fatto la strategia difensiva. Sparisce definitivamente l’ipotesi di “carcere” per chi viola il divieto di pubblicazione delle intercettazione, rimanendo in vita le sanzioni dell’articolo 114 cpp. Sulle intercettazioni selezione non affidata più alla polizia giudiziaria di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2020 Decreto legge in materia di intercettazioni coordinato con modifiche parlamentari. Il Governo incassa la fiducia della Camera sul decreto intercettazioni (304 i sì, 226 i no e 1 astenuto). Domani il via libera definitivo, dopo la rinuncia dell’opposizione all’ostruzionismo per favorire una rapida trattazione delle misure urgenti sul contrasto al coronavirus. Il decreto legge corregge in passaggi non marginali la riforma Orlando del 2017 con la quale da una parte si puntava a conciliare necessità investigative e tutela della privacy e dall’altra si introduceva per la prima volta una disciplina di nuovi e discussi strumenti d’indagine come i trojan. Le modifiche entreranno in vigore solo per i procedimenti iscritti a partire dal 1° maggio, mentre a tutti quelli in corso continueranno ad applicarsi le vecchie regole. Quanto ai contenuti, il decreto sopprime l’assai controverso, anche da parte dei capi delle principali procure del Paese, punto della riforma del 2017 sull’iniziale valutazione discrezionale della polizia giudiziaria, chiamata a decidere cosa trascrivere per il pubblico ministero, e stabilisce che sarà quest’ultimo a dovere vigilare perché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano particolari categorie di dati personali, a meno che non si tratti di intercettazioni rilevanti per le indagini. È esteso poi il regime del divieto di pubblicazione a tutte le intercettazioni non acquisite al procedimento e sono inseriti nel catalogo dei reati per i quali sono ammesse le intercettazioni anche i delitti commessi utilizzando le condizioni previste dall’articolo 416-bis del Codice penale (associazione di tipo mafioso) oppure per agevolare le associazioni di stampo mafioso. Quanto ai trojan, si stabilisce che le attività di intercettazione ambientale già consentite per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione sono riferite anche ai delitti degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione, e si escludono espressamente i delitti contro la pubblica amministrazione da quelli per i quali è necessario indicare “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”. Cambia, anche per fare fronte a una recente sentenza delle Sezioni unite penali della Cassazione, la disciplina dell’utilizzo delle intercettazioni in procedimenti diversi da quello oggetto dell’originaria autorizzazione. L’utilizzo sarà possibile solo se le intercettazioni sono “rilevanti e indispensabili” per l’accertamento della responsabilità per reati per i quali è previsto l’arresto in flagranza o rientrano comunque tra quelli intercettabili(al di sopra del tetto di 5 anni di detenzione nel massimo). Ammessa l’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni effettuate attraverso trojan anche per la prova dei reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, a patto che si tratti di reati contro la pubblica amministrazione puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni o dei gravi delitti attribuiti alla competenza della procura distrettuale. Nell’esecuzione delle intercettazioni, rivive sostanzialmente la formulazione antecedente alla riforma Orlando per la trasmissione dei verbali delle intercettazioni, per l’immediata comunicazione ai difensori che hanno facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le registrazioni, per il procedimento di selezione del materiale probatorio nell’ambito di una udienza stralcio dedicata. In questa fase il decreto legge specifica che lo stralcio al quale partecipano sia il pm sia i difensori con possibilità di copia, può riguardare, oltre alle registrazioni di cui è vietata l’utilizzazione, anche quelle che riguardano categorie particolari di dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza. Nell’avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari dovrà poi essere contenuto anche l’avvertimento che l’indagato e il suo difensore hanno facoltà di esaminare per via telematica gli atti relativi alle intercettazioni e ascoltare le registrazioni, con possibilità di farne copia. Il decreto riconosce al difensore la facoltà, entro 20 giorni, di depositare l’elenco delle ulteriori registrazioni ritenute rilevanti di cui chiede copia. Sulla richiesta decide il pm con decreto motivato. Infine, spazio alla possibilità per il giudice, con il consenso delle parti, di disporre l'utilizzazione delle trascrizioni delle registrazioni già effettuate dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini, senza procedere alla trascrizione integrale attraverso perizia. In caso di contestazioni si dovrà procedere alla trascrizione integrale. Il cavallo di trojan del giustizialismo Il Foglio, 26 febbraio 2020 Perché il decreto sulle intercettazioni ingrasserà ancora il circuito della gogna. Nella disattenzione generale degli organi di informazione, impegnati ad alimentare la psicosi sul coronavirus, l'aula della Camera ha approvato la questione di fiducia posta dal governo sul decreto intercettazioni, con 304 voti favorevoli e 226 contrari. Il voto finale sul provvedimento è previsto per la serata di giovedì, ma i contenuti del decreto (che modifica la precedente riforma varata due anni fa dal governo Gentiloni, ma mai entrata in vigore) sono ormai definiti. Il decreto estende innanzitutto l'utilizzo dei trojan, cioè dei captatori informatici inoculati nei dispositivi elettronici per effettuare intercettazioni ambientali, anche nei confronti degli incaricati di pubblico servizio, per i reati contro la Pubblica amministrazione, e quindi non più solo nei riguardi dei pubblici ufficiali. Una modifica non da poco, visto che nella nuova categoria ricadono tutti coloro che svolgono una funzione pubblica (dai medici ai postini e bidelli). Il decreto dà il via libera anche alla pratica delle intercettazioni “a strascico”, prevedendo la possibilità di usare i risultati delle captazioni anche in procedimenti diversi rispetto a quello nel quale l'intercettazione è stata autorizzata (purché si tratti di reati che prevedono una pena superiore a cinque anni). Cambia anche il meccanismo che mira a limitare la pubblicazione di intercettazioni penalmente irrilevanti sui giornali. Sarà il pubblico ministero, e non più la polizia giudiziaria come previsto dalla precedente riforma, a dover selezionare il materiale per stabilire quali siano le intercettazioni di rilievo per le indagini e quelle, invece, irrilevanti. Il pm sarà anche formalmente responsabile della sorveglianza dell'archivio digitale delle intercettazioni, mentre nessuna novità viene prevista nei confronti dei giornalisti che dovessero pubblicare le intercettazioni coperte da segreto, per i quali continueranno ad applicarsi le norme (inconsistenti) attualmente in vigore. Su questo fronte, insomma, la riforma pare essersi sgonfiata, con il rischio che la gogna mediaticogiudiziaria prosegua senza tante preoccupazioni. Per ora, però, una cosa è certa: la promessa di “più trojan per tutti”. Legge Pinto, sanzione per chi chiede l’indennizzo se il processo presupposto è estinto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 25 febbraio 2020 n. 4973. Via libera a 3mila euro di sanzione per chi intenta una causa per l’equa riparazione basata su un giudizio presupposto che non avrebbe dovuto iniziare per mancanza di interesse. La Cassazione (sentenza 4973) respinge il ricorso contro il versamento alla cassa delle ammende, per aver portato avanti una causa pur avendo già ottenuto l’inquadramento che voleva. La ricorrente aveva chiesto alla Corte d’appello l’equo indennizzo per l’ulteriore durata, a suo dire di quasi dieci anni, ancora non risarcito di un procedimento - iniziato in prima battuta davanti al Tar e concluso per difetto di giurisdizione nel 2009 e già indennizzato - riassunto davanti al Tribunale e chiuso per estinzione del processo a causa della mancata riassunzione per difetto di giurisdizione. Per i giudici l’assenza di danno era evidente dall’esame degli atti. La pretesa era relativa al ritardo di un giudizio presupposto che non doveva essere iniziato per carenza di interesse: già tre anni prima della fine della causa davanti al Tar, la ricorrente aveva ottenuto l’inquadramento dall’Inps nella categoria richiesta. Questo malgrado il disinteresse fosse scattato con la dichiarazione di estinzione. Per la Cassazione è applicabile la legge Pinto, nel testo introdotto dalla legge 208/2015 (articolo 2, comma 2 sexies, lettera c) che presume non esistente il pregiudizio che deriva dal processo lumaca, salvo prova contraria, nel caso di estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti (articoli 306 e 307 del Codice di rito civile). Inutile per la ricorrente obiettare che la condanna a 3mila euro era sproporzionata rispetto all’indennizzo chiesto e che la forbice prevista dalla norma, che va dai mille ai 10mila euro, rende gravoso l’accesso alla giustizia. Un “effetto collaterale” potenzialmente condiviso dalla Cassazione. Che tuttavia difende la norma per la sua chiarezza e per gli obiettivi. Il legislatore ha infatti dato priorità alla repressione dell’abuso del processo. La strada per farlo è sanzionare sia chi inizia una causa pur non avendo in origine diritto all’equo indennizzo, sia chi propone ricorsi viziati da irregolarità non sanabili per colpa della parte. Né ci sono dubbi di incostituzionalità in assenza di disparità di trattamento, di lesione dei principi del giusto processo o del diritto di difesa. La sanzione è del tutto coerente con lo scopo di disincentivare, senza automatismi, le pretese delle parti fatte valere, anche se temerarie o inosservanti delle norme processuali. Per la Suprema corte l’introduzione del meccanismo “potrebbe all’opposto ridurre il carico delle corti territoriali consentendo una più sollecita e celere definizione delle controversie nelle quali venga fondatamente fatto valere il diritto al riconoscimento della violazione del termine di ragionevole durata del processo”. I giudici compensano però le spese “in considerazione della particolarità della fattispecie, derivante dall’assoluta novità delle questioni”. Toscana. I detenuti senza un Garante, da quattro mesi Corriere Fiorentino, 26 febbraio 2020 Il mandato di Corleone è finito a ottobre: “Pronto allo sciopero della fame”. L’appello di Sofri. “Serve prima possibile un nuovo garante per i diritti dei detenuti. Non si può più aspettare. La Toscana è stata tra le prime regioni a nominarne uno, il posto non può restare vacante così a lungo. Anche perché le questioni sul tappeto sono tante e tutte delicate”. Franco Corleone, ex garante della Regione Toscana, lancia l’allarme. Il suo mandato di sei anni è scaduto il 26 ottobre, la sua attività è proseguita durante i 90 giorni di proroga ma ancora non si vede all’orizzonte una soluzione. Ci sono stati due rinvii in Regione della commissione affari istituzionali. “Se entro metà marzo non dovesse esserci la nomina - dice Corleone - non escludo di ricorrere al digiuno come forma di protesta”. Ci sono una quindicina di temi aperti, spiega: dalle scelte per il teatro stabile di Volterra, dai lavori nella sezione femminile del carcere di Pisa, la seconda cucina a Sollicciano, il ritardo dell’apertura della Rems a Empoli”. Due giorni fa anche Adriano Sofri su Facebook ha lanciato un appello: “Franco Corleone ha completato il suo mandato, compresa la proroga ammessa. Ora bisogna sperare che la candidatura prescelta appartenga alla persona dal curriculum e dai titoli più appropriati alla responsabilità che assumerà. Mi auguro - ha scritto Sofri - che i consiglieri se ne ricordino e si guardino dal far prevalere calcoli di opportunità di partito e di correnti. Si tratta di andare nelle galere a vedere e auscultare i giorni e le notti degli esseri umani detenuti. Non di un titolo in più da stampare sul proprio biglietto da visita”. Milano. Coronavirus, permessi-premio sospesi, gli agenti chiedono più tutele di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 26 febbraio 2020 Nelle carceri per definizione, di libertà ne hanno già poca, ma quella che resta a una fetta di detenuti se la mangia il famigerato Covid-19. Il Tribunale di Sorveglianza di Milano è stato costretto a sospendere fino al 2 marzo le uscite all'esterno per evitare il rischio di contagio sia per i detenuti che ne beneficiano, sia per i compagni che potrebbero essere contagiati al loro rientro in cella con enormi problemi per gli istituti di pena. Da lunedì scorso, dopo l'innalzamento del livello di allarme, i magistrati di sorveglianza hanno dovuto sospendere alcuni benefici che, da un lato, riducono la pressione nelle carceri sovraffollate, da un altro, consentono il percorso di rieducazione al quale deve tendere la pena secondo la Costituzione. I giudici dell'ufficio diretto da Giovanna Di Rosa hanno boccato permessi premio, che permettono ai carcerati di uscire per periodi limitati, semilibertà per trascorrere parte del giorno fuori in attività di impiego utili al reinserimento, e lavoro esterno, uscire dal carcere per svolgere un'attività lavorativa o di frequentare un corso di formazione professionale. A San Vittore, gli avvocati che si recheranno per incontrare i reclusi indosseranno la mascherina. Sospesi, per gli stessi motivi, gli ingressi dei volontari che prestano la loro opera dentro le mura. Gli stessi rischi riguardano la salute degli agenti di polizia penitenziaria, i cui sindacati hanno chiesto provvedimenti urgenti a tutela della salute. Bologna. Coronavirus, sospesi i colloqui dei detenuti e l’accesso dei volontari di Ambra Notari redattoresociale.it, 26 febbraio 2020 Niente colloqui, niente volontari, niente traduzioni da e verso gli istituti delle carceri delle regioni in cui si sono riscontrati casi di coronavirus. Lo comunica in una nota il Garante per i detenuti di Bologna: “Si ritiene opportuno l’ampliamento delle possibilità di effettuare comunicazioni telefoniche o via Skype”. Sospeso l’accesso in istituto di tutti i volontari e i colloqui con familiari e terze persone; impossibilità di accedere agli istituti penitenziari per coloro che dimorano nei Comuni sottoposti a quarantena (per gli operatori vari, i volontari e i parenti delle persone detenute); sospese, anche per quanto riguarda la detenzione minorile, delle traduzioni da e verso gli istituti penali minorili di Torino, Milano, Treviso, Bologna, Pontremoli e Firenze. Sono queste le misure adottate dall’istituto penitenziario Rocco D’Amato di Bologna per prevenire il contagio dovuto alla diffusione del coronavirus. La comunicazione arriva in una nota di Antonio Ianniello, Garante per i detenuti del Comune di Bologna: “Considerata la sospensione in atto dei colloqui, si ritiene inoltre opportuno l’ampliamento delle possibilità di effettuare comunicazioni telefoniche o via Skype, laddove possibile”. Nella nota il Garante aggiunge: “Si raccomanda l’adozione di adeguate misure di informazione nei confronti delle persone detenute circa le principali misure igieniche da assumere per le malattie a diffusione respiratoria, nonché il deciso incremento dell’attenzione circa l’igienizzazione degli ambienti in cui vivono le persone detenute e degli ambienti in cui lavorano gli operatori penitenziari, anche con riferimento alle dotazioni di dispositivi di protezione individuale”. Intanto, dopo le denunce dei giorni scorsi, il Sinappe ha ringraziato l’amministrazione della Dozza e degli istituti regionali “per la tempestiva presa d’atto della delicatezza della situazione e, anche se non ancora in maniera omogena e capillare, ha portato all’attuazione di interventi mirati, quali la distribuzione di mascherine filtranti, gel antibatterico, guanti, sapone antisettico”. Accolta con soddisfazione anche la decisione di sospendere i colloqui, “in alcuni contesti invocata perfino dagli stessi ristretti a tutela della salute dei rispettivi familiari”. Contestualmente, il sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria avanza alcune ulteriori richieste: “Riteniamo che vada completata la distribuzione in tutti gli Istituti del Distretto dei DPI; disciplinato il divieto temporaneo di fruire del campo sportivo da parte dei detenuti, in ossequio alle ultime disposizioni ministeriali, e istituito l’obbligo da parte di tutte le Direzioni di predisporre una sezione per l’esclusiva accoglienza e/o cura dei detenuti nuovi giunti che, in alcuni istituti regionali, anche di rilievo, vengono ancora destinati ai reparti detentivi ordinari, cosa che riteniamo grave e molto rischiosa. Si sollecita, infine, l’adozione delle misure necessarie a monitorare costantemente le condizioni di salute di tutto il personale”. Reggio Emilia. Coronavirus, “in carcere sospesi i colloqui tra detenuti e familiari” di Roberto Fontanili Gazzetta di Reggio, 26 febbraio 2020 La creazione di una apposita sezione in cui tenere in quarantena per due settimane i nuovi arrivati nella casa circondariale di via Settembrini e il divieto, già in vigore, di tradurre o ricevere carcerati provenienti da altri istituti penitenziari, sono solo le due prime misure assunte dalla Direzione del carcere reggiano per evitare che il Coronavirus possa entrare in via Settembrini. “Siamo in attesa di disposizioni da parte della Direzione che ha già avuto un colloquio con i dirigenti della Sanità pubblica. Inoltre abbiamo chiesto un protocollo da seguire per non lasciare spazio allo spontaneismo dei singoli e al tempo stesso non creare allarmismo” hanno detto ieri i rappresentanti degli agenti della Polizia Penitenziaria che, nel frattempo, hanno chiesto che venga loro fornito tutto il materiale necessario (dai guanti alle mascherine alle tute) per non essere esposti a un eventuale contagio da parte di un detenuto che risultasse positivo ai controlli sanitari. Una situazione tutt’altro che improbabile per il carcere di via Settembrini, che oltre a essere sovraffollato come qualsiasi altra Casa circondariale, è studiato e progettato per evitare le evasioni ma non per essere impermeabile agli agenti patogeni che arrivano dall’esterno. “Il carcere è una città nella città, in cui quotidianamente entrano decine e decine di persone. Da fornitori, agli operatori sanitari, agli educatori, agli avvocati e ai familiari stessi che hanno ottenuto un colloquio con un detenuto”, spiega Giovanni Trisolini della Fp-Cgil, consapevole che le spesse mura non possono fermare il contagio dal coronavirus. “Ho già avvertito la mia famiglia che nel caso sospetto o positivo di infezione potremmo doverci trovare nella situazione di essere anche noi agenti messi in quarantena”, conclude con fatalismo Vito Bonfiglio della Fns-Cisl. Anche il segretario provinciale del Sappe, Michele Malorni, evidenzia la preoccupazione per la possibile diffusione del Coronavirus nel carcere di Reggio. “Particolari linee guida sono state dettate per una attività di prevenzione al contagio mediante il ricorso all’uso di guanti, mascherine, occhiali para schizzi e camice, igienizzanti di superfici, strumenti di lavoro, automezzi e persone. Sono state avviate riunioni operative di confronto e coordinamento per un’attività di prevenzione alla diffusione del Coronavirus”. “In via cautelativa - rimarca Malorni - sono stati sospesi i colloqui visivi tra i detenuti e familiari, intensificando i colloqui telefonici: altresì saranno sospese le attività collettive interne alla struttura penitenziaria. Il Sappe vigilerà sul delicatissimo tema trattato per ridurre al minimo i rischi per la salute della polizia penitenziaria e delle restanti persone, riferendo ogni altra notizia utile atta a ridurre allarmismi che possano scaturire panico”. Messina. Il calvario di Rosa: in carcere senza cure per una frattura calcificata male di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 febbraio 2020 Qualche giorno fa c’è voluta la solidarietà da parte di tutte le detenute che, tramite diverse ore di battitura, sono riuscite a far trasportare Rosa Zagari in ospedale. Dolori lancinanti, non riusciva a stare né in piedi né seduta in carrozzina, una sofferenza abnorme che porta con sé da ormai più di un anno. Dpo poche ore è stata riporta in cella nel carcere di Messina. La sua è una storia ampiamente riportata da Il Dubbio, fin da quando cadde da quella maledetta doccia del carcere di Reggio Calabria che le provocò una grave lesione alle vertebre, con tanto di frattura all’anca. Da lì, il calvario che diventa sempre più insostenibile. Che l’assistenza sanitaria nelle patrie galere sia una utopia, lo ha ammesso anche recentemente il Dap tramite le sue nuove linee guida. Rosa non è nemmeno una spietata criminale, la sua unica colpa è stata quella di aver amato - e quindi protetto l’ex latitante Ernesto Fazzalari di Taurianova, catturato nel 2016, il quale era considerato il ricercato più pericoloso dopo l’imprendibile Matteo Messina Denaro. Grazie all’interessamento dell’associazione Yairaiha Onlus - la quale si è attivata fin dal luglio scorso scrivendo al Garante nazionale delle persone private della libertà, a quello regionale, al ministro della Giustizia e al magistrato di sorveglianza -, Rosa Zagari era stata trasferita nel carcere di Messina per ricevere cure adeguate. Ma nulla da fare, le sue condizioni non sono cambiate. L’unico risultato avuto, inaccettabile in un paese civile, è che la frattura scomposta dell’anca ormai si è calcificata in maniera errata. “L’immobilismo forzato dei mesi a seguire a causa del busto - denuncia Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha Onlus -, fece sì che l’anca fratturata si calcificasse in maniera scomposta e, probabilmente, questa è una concausa delle prolungate sofferenze che sta subendo questa donna senza essere nemmeno creduta dal personale sanitario e penitenziario”. Perché non sarebbe stata creduta? Rosa stessa, tramite una lettera inviata al fratello, racconta un episodio avvenuto il 16 gennaio scorso: “Hanno chiamato il dottore perché ero piegata in due e mi hanno fatto una puntura di “toradol”, quando è arrivato il medico di guardia si è messo a urlare sia con l’assistente sia con il medico di turno perché “era stato disturbato”. È intervenuta allora la mia compagna dicendogliene quattro e lui ha proposto di lasciarmi su una barella lì nel corridoio (dove peraltro già ero e non potevo stare perché reparto di media sicurezza) fino a che non mi passasse il dolore, o in lavanderia che è una stanza fatiscente e tutta aperta. L’assistente ha risposto di no ad entrambe le proposte, mentre la mia compagna di cella è intervenuta dicendo che mi avrebbero portato loro in sezione”. Rosa Zagari continua nel suo racconto drammatico: “In quanto alle cure che mi ha prescritto il neurologo, non le sto facendo perché, anche se risultano in cartella clinica, l’infermiera mi ha informato che loro non ce l’hanno, hanno solo la “Lirica” da 75 mg mentre quella che mi ha prescritto sono da 25 mg e le devo comperare a spese mie, ma ci vorrà un mese prima di averle. Per quanto riguarda la finta fisioterapia che mi stavano facendo, ora non me la fanno più il lunedì ma solo martedì e mercoledì, in pratica 20 minuti di tens. Per pararsi le spalle mi avevano fatto due sedute di magnetoterapia e solo quando gli ho detto che il giorno prima non ero andata perché stavo male ed avevo pure il ciclo mi hanno detto che con il ciclo la magnetoterapia non si può fare, ma a me la avevano già fatta fare durante il ciclo nei mesi precedenti senza avvisarmi”. L’associazione Yairaiha Onlus ha ricevuto riassicurazioni dal Dap circa lo stato di salute di Rosa Zagari. Ma da quando traspare dai suoi racconti e l’ultimo trasporto in ospedale a causa dei suoi dolori, sembra che tutto sia rimasto così com’è. Una donna, Rosita, di 42 anni che sta scontando una doppia, tripla pena. Eppure lo Stato di Diritto contempla la possibilità di una pena alternativa, soprattutto quando emerge una incompatibilità con l’ambiente carcerario che sa essere feroce anche con chi ha solo la colpa di essere un familiare del ristretto. Il pensiero va infatti alla madre di Rosita che, nonostante la malattia, ha combattuto per la figlia. Aveva detto che si sarebbe lasciata morire se le autorità non avessero preso provvedimenti. È stata purtroppo di parola. Reggio Calabria. Carenza infermieri al carcere di Arghillà: la denucia del Nursind reggiotoday.it, 26 febbraio 2020 Ennesimo capitolo legato a disservizi e problematiche del sistema sanitario calabrese. Siamo nelle carceri dove, spesso, manca il personale infermieristico per prestare le cure ai detenuti. In particolare, è la casa circondariale di Arghillà a destare non poche preoccupazioni in merito alla gravissima carenza di operatori, come denunciato dal Nursind. Il sindacato delle professioni infermieristiche, tramite una nota a firma del segretario territoriale Vincenzo Marrari, segnala “il continuo e cronico disagio dovuto alla carenza di personale infermieristico all’interno della Casa Circondariale di Arghillà. Nonostante il diretto impegno del Dott. Bray, che ha convocato una riunione con i dirigenti e i coordinatori infermieristici e sollecitato agli uffici preposti di procedere “con somma urgenza”, a distanza di quasi due mesi, la problematica è ancora irrisolta.” “Solo silenzio assoluto e totale immobilismo - afferma ancora Marrari - da parte dell’Azienda Sanitaria e non si riesce a capire dove sia il bandolo della matassa circa l’invio di unità infermieristiche che possano consentire un’adeguata turnazione al personale, nonché l’attivazione della fondamentale assistenza anche nelle ore notturne.” “Alle nostre richieste di informazioni - rivela il segretario - gli uffici continuano a tergiversare fornendo risposte equivoche e banali, con un continuo rimpallo di responsabilità. Non è servita nemmeno la chiara e netta posizione espressa (caso unico in Italia) dalla popolazione detenuta che ha richiesto la risoluzione delle problematiche dell’area sanitaria mediante la raccolta di ben 250 firme!” “La scrivente Oo.ss. a tutela degli infermieri operanti e del diritto alla salute dei detenuti, ribadisce ad alta voce a codesta Amministrazione - si conclude la nota - l’urgente necessità dell’incremento di organico e della sostituzione del personale infermieristico assente e/o che abbia formalmente espresso richiesta di trasferimento in altre U.o; ricordando che eventuali criticità riconducibili a violazioni del vigente Ccnl non imputabili al personale in servizio, saranno valutate nelle sedi più opportune”. Torino. I kit della Caritas per aiutare chi esce dal carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 febbraio 2020 Il progetto “Way Out” prevede sostegni a chi è privo di rete familiare o amicale. Quando un detenuto, soprattutto se ha perso tutto ed è straniero, esce dal carcere si trova molto spesso smarrito, senza alcun punto di riferimento, senza sapere come attivarsi, chi cercare. La Caritas di Torino si è attivata in tal senso attraverso un kit informativo che non a caso si chiama “Way Out”, la “via di uscita” appunto. Il progetto prevede sostegni a persone in uscita da percorsi detentivi, e in special modo chi è privo di rete famigliare o amicale. Attraverso la distribuzione di kit si vuole agevolare la ricongiunzione con le famiglie e l'orientamento ai servizi di prima necessità esistenti sul territorio. L'Arcidiocesi di Torino attraverso il centro d'ascolto “Due Tuniche” della Caritas Diocesana, in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, la Clinica Legale Carcere e Diritti del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Torino e l'Ufficio del Garante delle persone private della libertà, si è occupata della realizzazione di kit di uscita da percorsi detentivi attraverso la partecipazione al Bando “Pon Inclusione - Po I Fead”. Diversi sono gli obiettivi principali previsti dal progetto approvato: L’attivazione di un tavolo di coordinamento finalizzato all’individuazione della composizione del “kit di uscita da percorsi detentivi' con i partner coinvolti e gli educatori dell'Istituto penitenziario; incentivare gli ex detenuti a soddisfare i loro bisogni primari in autonomia e con responsabilità e favorire il loro reinserimento sociale; attività diretta dei volontari del centro d’ascolto Due Tuniche nei blocchi dell’istituto penitenziario con i detenuti in uscita per individuazione dei bisogni. I kit informativi sono suddivisi in 12 capitoli dove vengono forniti indirizzi, orari e indicazioni di mezzi pubblici su tutti i dormitori, mense, servizi sanitari e dentistici, igiene della persona, lavoro, assistenza legale come gli “avvocati di strada”, vestiario, centri diurni, ostelli e centri di ascolto. Hanno introdotto la pubblicazione con un sintetico vademecum sugli uffici informativi del Comune che si occupano di persone senza dimora, del Garante dei diritti dei detenuti, dell’anagrafe. Ci sono poi informazioni sui servizi riservati ai cittadini stranieri (permesso di soggiorno, Informa stranieri, Ufficio pastorale migranti) e sulle modalità per scegliere il medico di base, per richiedere il reddito di cittadinanza e per gestire un eventuale conto corrente. Non mancano - precisamente alle pagine finali dell’opuscolo, le mappe per orientarsi in modo che i servizi per la persona siano raggiungibili anche da chi non è pratico di Torino. I kit saranno anche abbinati i materiali di prima necessità come il borsone, prodotti igienici, un telefono cellulare per mettersi in contatto con i famigliari o con i servizi indicati nella guida e i biglietti del bus. I detenuti in uscita che riceveranno la guida sono segnalati alla Caritas dall’Ufficio della Garante dei detenuti del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo, che ha contribuito alla pubblicazione del libretto. Lucera (Fg). “La luce dentro”, documentario sull’esempio virtuoso del volontariato in carcere immediato.net, 26 febbraio 2020 La “Nuova Aula dei Gruppi” della Camera dei Deputati, la settimana scorsa, è stata teatro della proiezione del docufilm “La luce dentro”, ultima opera del regista lucerino Luciano Toriello. L’evento - promosso dal deputato Antonio Tasso con Gennaro Pesante, responsabile del canale satellitare di Montecitorio - ha visto una larga partecipazione, registrando l’esaurimento dei posti disponibili. Oltre a giornalisti ed operatori di alcune delle maggiori testate televisive e ad una nutrita rappresentativa di studenti, erano presenti il presidente di Apulia Film Commission Simonetta Dellomonaco, il presidente di Fondazione Con il Sud, Carlo Borgomeo, il sindaco di Lucera, Antonio Tutolo, accompagnato dal vicesindaco e da alcuni consiglieri e assessori. Il saluto ai partecipanti è stato rivolto dal Vice Presidente della Camera Ettore Rosato e dal questore della Camera, Francesco D’Uva, oltreché dall’On. Tasso. Dopodiché la parola è passata al regista Luciano Toriello, che ha puntato le telecamere sulla genitorialità dei detenuti, analizzando le numerose, piccole e grandi difficoltà che emergono nella costruzione di un rapporto coi propri figli attraverso gli incontri nel luogo di detenzione; e facendo affiorare le fragilità non solo dei soggetti ristretti in carcere, ma di tutti i componenti della famiglia, i quali non sempre godono delle attenzioni e dell’assistenza necessarie. Il documentario mette discretamente in risalto l’esempio virtuoso del volontariato che ruota incontro alla casa circondariale di Lucera e le attività svolte all’interno e fuori dall’istituto di pena dalle associazioni Paidos Onlus e Lavori in Corso. “Questa opera vuole essere anche il racconto di una presa di consapevolezza individuale e di un desiderio di cambiamento che unisce genitori e figli: insieme in un percorso in cui ci si pensa - o ripensa - come persone e come parte di una comunità” spiega Toriello. “La Luce Dentro” era stato selezionato e ammesso a finanziamento con le risorse messe a bando dal Social Film Fund, finalizzato a raccontare per immagini il Sud attraverso i fenomeni sociali che lo caratterizzano e condiviso da “Apulia Film Commission” e “Fondazione Con il Sud” col duplice scopo di promuovere anche l’incontro tra imprese cinematografiche ed enti del terzo settore meridionale e favorire percorsi di coesione sociale attraverso l’approfondimento dei temi sociali più rilevanti per il Mezzogiorno. Una consapevolezza che non sempre matura, come avvenuto per i tre detenuti intervistati nel film tra cui Mario Battista (presente anche lui alla proiezione con sua moglie e i due figli Simone e Gianni), ma della quale il documentario potrebbe rappresentare uno stimolo, al pari di quello esercitato sulle Istituzioni coinvolte. “Un altro tassello inserito in quella opera di sensibilizzazione verso la cultura e l’arte in tutte le forme conosciute, che recentemente mi ha portato a Sanremo e Montecarlo per promuovere iniziative che possano rivitalizzare un processo economico anche, e soprattutto, sui territori ove opero quando non sono a Roma” conclude il parlamentare della Capitanata. Coronavirus, se la paura diventa malattia di Gianrico Carofiglio* La Repubblica, 26 febbraio 2020 Quello che molti di noi credono sulla consistenza dei pericoli ha poco a che fare con i pericoli oggettivi. Se il rischio è volontario ci sembra più basso e governabile, se ci viene imposto da altri o non si può controllare viene percepito con maggiore intensità. La “Logica di Port-Royal” è un testo filosofico opera di due giansenisti francesi, Antoine Arnauld e Pierre Nicole, che lo pubblicarono, anonimo, nel 1662. In questo trattato i due autori si proponevano di studiare le regole della logica per giungere ad enunciare le regole del pensiero. Perché ci interessa questo lavoro di due lontani (e sconosciuti, al di fuori della cerchia degli specialisti) filosofi francesi? Perché in esso viene esaminato per la prima volta il tema dell'asimmetria fra paure e pericoli. In particolare nel trattato i due autori si occupano della paura dei fulmini e della sproporzione fra tale paura, spesso vivissima, e il pericolo oggettivo, modestissimo, di essere effettivamente colpiti da una saetta. Nel mondo in cui viviamo - complesso e per molti aspetti indecifrabile, ben più di quello del diciassettesimo secolo - quello che molti di noi credono sulla consistenza dei pericoli ha poco a che fare con i pericoli oggettivi. In una duplice direzione: ci preoccupiamo per eventi o fenomeni assai improbabili e al tempo stesso, proprio per la medesima ragione (l'incongruenza fra paure e rischi), ci esponiamo a gravi pericoli senza alcuna consapevolezza. Un mio amico ha, come tanti, paura di volare e dunque per nessuna ragione sale su un aereo, notoriamente il mezzo di trasporto più sicuro che esista. Però viaggia alla guida della sua potente vettura, spesso superando i centocinquanta chilometri all'ora, convinto di avere tutto sotto controllo ma in realtà esponendosi a un rischio di gran lunga maggiore rispetto a quello, minimo, del volo moderno. Se il rischio è volontario ci sembra più basso e governabile; se ci viene imposto da altri o non si ha la possibilità di controllarlo - come nel caso delle epidemie - viene percepito, soggettivamente, con molto maggiore intensità. Le influenze normali producono oltre seimila decessi all'anno per cause dirette e indirette. L'inquinamento dell'aria produce da cento a duecento decessi al giorno in Italia, eppure nessuno pare preoccuparsi di questo rischio, rispetto a quelli connessi all'attuale epidemia. La possibilità di entrare in contatto con un virus misterioso mette in moto una preoccupazione diversa e, per quanto possa apparire assurdo, maggiore rispetto a quella di respirare particelle cancerogene. Questo è uno dei tanti segni della nostra irrazionale relazione con il mondo e l'incertezza. Parlando di paura viene naturale passare alla questione del coraggio, individuale e collettivo; dei cittadini e di chi ha responsabilità pubbliche. Certo non è una manifestazione di coraggio porre in essere reazioni sproporzionate, formulare dichiarazioni non sempre composte al solo scopo di sottrarsi all'eventuale futura contestazione di non aver fatto tutto quello che era necessario. Il coraggio è una dote del carattere ma anche dell'intelligenza: esso consiste fra l'altro nella capacità di entrare in un rapporto razionale ed equilibrato con il pericolo e il rischio, gestendoli nei limiti in cui questo è possibile. In questa accezione di virtù dell'intelligenza, il coraggio assomiglia molto a quella che John Keats chiamava “Capacità Negativa”. Questa, per il poeta inglese, era la dote fondamentale dell'uomo in grado di conseguire risultati autentici, di risolvere davvero i problemi e superare le difficoltà. Keats chiamò negativa questa capacità per contrapporla all'atteggiamento di chi affronta i problemi alla ricerca di soluzioni immediate, nel tentativo di piegare la realtà al proprio bisogno di certezze. “Vi è capacità negativa quando un uomo è capace di stare nell'incertezza, nel dubbio senza l'impazienza di correre dietro ai fatti... perché incapace di rimanere appagato da una mezza conoscenza”. Per Keats, accettando l'incertezza, l'errore, il dubbio è possibile osservare più in profondità, cogliere le sfumature e i dettagli, porre nuove domande, anche paradossali, e dunque allargare i confini della conoscenza e della consapevolezza. Dunque risolvere i problemi. Il senso di questa riflessione, riportato alle vicende odierne, è che bisogna affrontare la vita accettandone l'ignoto e la complessità. Bisogna affrontare il rischio prendendo tutte le precauzioni sensate (quelle suggerite dai veri esperti) ma non quelle insensate, generate da un bisogno immaturo e pericoloso di governare l'ingovernabile, cioè l'incertezza. Bisogna usare la paura come uno strumento di lavoro per cambiare le cose e non lasciare invece che diventi una forza incontrollabile e distruttrice. Viene naturale chiudere queste riflessioni evocando la frase forse più celebre sulla paura, quella di Franklin D. Roosevelt pronunciata durante il suo discorso inaugurale, riferendosi alla Grande Depressione. È una frase che spesso è stata archiviata come un semplice gioco di parole. Il suo significato è però assai più ricco, va molto al di là dell'artificio linguistico. Il concetto espresso da Roosevelt è che, oggi come non mai, dobbiamo temere la paura - e combatterla e sconfiggerla con le armi dell'intelligenza - perché dalla paura non governata derivano conseguenze rovinose. Materiali e morali. La paura può essere essa stessa una malattia, oppure uno strumento dell'intelligenza per affrontare i pericoli e sconfiggerli. La scelta fra l'una e l'altra possibilità, inutile dirlo, tocca a noi. *Scrittore. Il suo ultimo libro è “La misura del tempo” (Einaudi, 2019) La paura fa più danni che il coronavirus di Eugenia Tognotti La Stampa, 26 febbraio 2020 L’altra epidemia che dilata gli effetti di quella medica. Due virus circolano oggi in Italia, biologico l’uno, il coronavirus - che ha immediatamente conquistato l’arena mediatica; immateriale, l’altro, il virus della paura. Fatto di chiacchiere, impressioni, reazioni emotive, parole, quest’ultimo sta dilagando molto più velocemente del primo, attraverso la rete e le agenzie di stampa, contagiando un numero di persone enormemente più elevato di quello toccato dal virus bilogico, di tutte le età e condizioni e ben al di là della famosa “zona rossa”, blindata da cordoni sanitari e quarantene. Si tratta di un virus pericoloso, che riceve una copertura mediatica senza precedenti per nessun evento o catastrofe nell’Italia contemporanea. Capace di diffondere il panico, di paralizzare gli sforzi necessari a contenere la diffusione dell’”altro” virus, di dilatare gli effetti sull’economia e di “disunire” l’Italia, come stiamo vedendo in queste ore. Non per niente era la paura stessa durante le crisi epidemiche a incutere i più grandi timori negli antichi magistrati di sanità che dovevano governare l’emergenza. Ben consapevoli che la diffusione di una malattia mortale e contagiosa non incideva solo sulla salute fisica, alimentando la “fobia da contatto”. Le pulsioni di panico, l’incubo dell’imprevisto e dell’ignoto spingevano a dare la caccia a presunti “untori”, a forzare i cordoni sanitari, a sottrarsi all’isolamento forzato, a fuggire dai lazzaretti, diffondendo l’epidemia nelle zone “sane”, mettendo a repentaglio l’economia. Lo “sbigottimento delle genti” poteva uccidere, come riferiva un anonimo cronista orvietano della peste descritta da Boccaccio nel Decamerone. Alcuni secoli dopo, citando Tucidide e la peste di Atene - che colpiva prima i “melancolici e i paurosi” - Ludovico Ariosto chiamava in causa “le gagliarde passioni dell’animo” che definiva “i primi beccamorti dell’uomo regnando il contagio”. Gli sforzi delle autorità sanitarie per dominare la paura e l’irrazionalità, capaci di rendere le popolazioni “più proclivi ai morbi”, trovano nuovi argomenti in tutte le epidemie, impreviste e imprevedibili, fino alla Spagnola. Ma in quel 1918, a guerra non ancora conclusa, il carico di angoscia e di ansia non trova voce e spazio nei giornali per il divieto di evocare persino il nome della “madre di tutte le influenze” che avrebbe contribuito a “deprimere lo spirito pubblico”. L’infezione da Coronavirus non è la Spagnola. L’infezione da Coronavirus è ancora un’epidemia più mediatica che medica, con una diffusione circoscritta, grazie alle severe misure cautelative adottate, e con tassi di mortalità molto vicini a quelli dell’influenza. Occorrerebbe interrogarsi forse su che cosa ha innescato il virus della paura, ingiustificata, irragionevole, su cui s’infrange la voce della scienza e l’evidenza dei numeri. Non sarà, a fare paura, il termine stesso di “contagio”, in cui s’intrecciano i concetti di “diffusione”, “epidemia”, “infezione”, “trasmissione”, “mescolanza”? Angosce, paure, reazioni emotive appartengono al presente quanto al passato. Mentre la scienza sta mettendo a punto un efficace vaccino immunizzante e altre strategie terapeutiche, s’impone la necessità di addomesticare la paura nei confini della nostra cultura, operando secondo ragione. Coronavirus. Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata di Giorgio Agamben Il Manifesto, 26 febbraio 2020 La paura dell’epidemia offre sfogo al panico, e in nome della sicurezza si accettano misure che limitano gravemente la libertà giustificando lo stato d’eccezione. Di fronte alle frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona, occorre partire dalle dichiarazioni del Cnr, secondo le quali “non c’è un’epidemia di Sars-CoV2 in Italia”. Non solo. Comunque “l’infezione, dai dati epidemiologici oggi disponibili su decine di migliaia di casi, causa sintomi lievi/moderati (una specie di influenza) nell’80-90% dei casi. Nel 10-15% può svilupparsi una polmonite, il cui decorso è però benigno in assoluta maggioranza. Si calcola che solo il 4% dei pazienti richieda ricovero in terapia intensiva”. Se questa è la situazione reale, perché i media e le autorità si adoperano per diffondere un clima di panico, provocando un vero e proprio stato di eccezione, con gravi limitazione dei movimenti e una sospensione del normale funzionamento delle condizioni di vita e di lavoro in intere regioni? Due fattori possono concorrere a spiegare un comportamento così sproporzionato. Innanzitutto si manifesta ancora una volta la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo. Il decreto-legge subito approvato dal governo “per ragioni di igiene e di sicurezza pubblica” si risolve infatti in una vera e propria militarizzazione “dei comuni e delle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un’area già interessata dal contagio di virus”. Una formula cosi vaga e indeterminata permetterà di estendere rapidamente lo stato di eccezione in tutte le regioni, poiché è quasi impossibile che degli altri casi non si verifichino altrove. Si considerino le gravi limitazioni della libertà previste dal decreto: a) divieto di allontanamento dal comune o dall’area interessata da parte di tutti gli individui comunque presenti nel comune o nell’area; b) divieto di accesso al comune o all’area interessata; c) sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in un luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico; d) sospensione dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, salvo le attività formative svolte a distanza; e) sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura di cui all’articolo 101 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché l’efficacia delle disposizioni regolamentari sull’accesso libero e gratuito a tali istituti e luoghi; f) sospensione di ogni viaggio d’istruzione, sia sul territorio nazionale sia estero; g) sospensione delle procedure concorsuali e delle attività degli uffici pubblici, fatta salva l’erogazione dei servizi essenziali e di pubblica utilità; h) applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva fra gli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusa. La sproporzione di fronte a quella che secondo il Cnr è una normale influenza, non molto dissimile da quelle ogni anno ricorrenti, salta agli occhi. Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite. L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo. Droghe. Il rinvio della conferenza non ci ferma di Stefano Vecchio Il Manifesto, 26 febbraio 2020 Purtroppo l’emergenza corona virus ha costretto la Rete che aveva convocato - in assenza di un impegno del Governo - una Conferenza sulle politiche sulle droghe partecipata da operatori, consumatori e militanti a rinviare l’appuntamento. Rimangono valide le ragioni alla base della proposta e il numero rilevante di iscritti ci conferma l’esigenza di tenere alto il livello di attenzione e mobilitazione per realizzarla entro giugno. L’ultima Conferenza Nazionale governativa è stata nel 2009. I diversi governi che si sono succeduti, hanno accuratamente evitato non solo la convocazione prevista per legge ogni tre anni, ma tutto il tema delle politiche sulle droghe. Questo compare solo quando si vuole promuovere allarme sociale e mediatico, come nel caso della proposta di legge di Salvini con l’ulteriore inasprimento delle pene per il piccolo spaccio. E preoccupa che il ministro dell’Interno abbia poi sostanzialmente confermato questa linea, senza che nessun esponente del governo o delle forze politiche che lo sostengono abbia preso le distanze. Questa situazione confusa e scivolosa sul piano politico conferma le nostre analisi del documento preparatorio della Conferenza Autoconvocata: “30 anni di politiche imperniate sul contrasto penale e la criminalizzazione/patologizzazione di qualsiasi forma di consumo hanno aggravato i danni e i rischi per la salute dei consumatori e dell’intera società, sia della diffusione di stigmi e pregiudizi. Uno scenario di “guerra” che ha ostacolato e spesso impedito ogni tentativo di promuovere nella società una cultura della riduzione del danno e del consumo più sicuro in un quadro di relazioni sociali pacifiche e coese”. Nel Libro Bianco 2019 (fuoriluogo.it) i dati parlano chiaro: un terzo dei detenuti è condannato per violazione dell’art 73 della legge sulle droghe, il 25% è tossicodipendente. Complessivamente i detenuti legati al Dpr 309/90 raggiungono circa il 50% con un effetto drammatico sul sovraffollamento delle carceri. E valutando gli effetti della legge sul mercato delle droghe e sui consumi, l’obiettivo prefissato di “un mondo senza droghe” non è stato raggiunto. Anzi osserviamo, come paradossalmente riporta in modo acritico la stessa Relazione al Parlamento, una diffusione di modelli di uso e consumo differenziati che va in direzione opposta. I danni sono evidenti e i passi in avanti completamente assenti! La realtà dei servizi è ferma al modello degli anni 90. Dalla stessa Relazione governativa si rileva che attualmente questi intercettano meno dell’1% delle persone che usano droghe. Con un mandato istituzionale “forzato” di produrre malati cronici in trattamento a vita, con tutti i rischi collegati di una nuova istituzionalizzazione. In questi 30 anni la nostra rete però ha realizzato molteplici esperienze innovative nei servizi, insieme a ricerche indipendenti, studi di valutazione sugli effetti delle politiche in dialogo costante con le esperienze internazionali. Un “imponente bagaglio di conoscenza e sperimentazione capace di disegnare strategie di regolazione sociale e culturale alternative a quelle penali”. In questa prospettiva presenteremo le nostre proposte di riforma radicale della legge sulle droghe che preveda la completa depenalizzazione e decriminalizzazione di tutte le condotte legate al consumo personale e la ridefinizione e riscrittura del sistema dei servizi e degli interventi capace di integrare definitivamente il modello della Riduzione dei Danni e dei Rischi. Forum Droghe la prossima settimana sarà a Vienna a rappresentare il movimento italiano per la riforma alla riunione dell’Onu che discuterà della raccomandazione dell’Oms per la riclassificazione della cannabis nelle tabelle delle Convenzioni internazionali riconoscendone il valore terapeutico. È un appuntamento decisivo e sfidiamo il Governo a sostenere il cambiamento. Da Addis Abeba all’Onu: la scienza è un diritto umano di Andrea Spinelli Barrile Il Manifesto, 26 febbraio 2020 Salute e democrazia. Dal VI Congresso mondiale della Ricerca scientifica arriva la spinta: l'11 marzo la ricerca e il diritto a beneficiarne saranno riconosciuti diritti universali dalle Nazioni unite, contro oscurantismo, scarsa democrazia e poca condivisione delle informazioni. Ubuntu. Ovvero, io sono perché tu sei. È con il concetto di Ubuntu che permea le culture africane che la Commissaria alle risorse umane, alla scienza e alla tecnologia dell’Unione africana ha aperto il VI Congresso mondiale della Ricerca scientifica, organizzato da Associazione Luca Coscioni, Science for Democracy e Commissione dell’Unione africana ad Addis Abeba, Etiopia. “Significa che l’Africa ha un impatto sul mondo e il mondo ha un impatto sull’Africa: insieme, e solo insieme, possiamo raggiungere il pieno godimento, per tutti, dei benefici della scienza. In questo senso l’Africa gioca un ruolo fondamentale, la prospettiva africana è essenziale: ciascuno degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni unite, dell’Agenda africana 2063, deve poggiare sulla scienza”. La scienza declinata come diritto umano, in particolare negli aspetti della libertà della ricerca scientifica e nella possibilità per tutti di godere dei suoi benefici, vedrà la luce ufficialmente il prossimo 11 marzo, quando a Ginevra l’Onu adotterà alcune disposizioni che, ha spiegato il fondatore di Science for Democracy e coordinatore del Congresso Marco Perduca, daranno mandato ai governi di creare una strategia nazionale sulla scienza: “Non è una critica ai governi ma un aiuto, a loro e ai cittadini, per vivere in un mondo più prospero” ha dichiarato Perduca. “Dobbiamo affrontare le sfide della nostra società in modo unitario, sfide che sono pressanti: far fronte al deficit energetico, affrontare le malattie, mitigare i cambiamenti climatici, migliorare le infrastrutture. Ecco perché c’è bisogno, in Africa e nel mondo, di misure legislative per valorizzare scienza e democrazia: senza un avanzamento della scienza e dell’innovazione non può esserci sviluppo economico e sociale - ha detto la commissaria Agbor - La vostra presenza qui è il riflesso potente del desiderio collettivo di vedere un cambiamento positivo attraverso una risposta responsabile”. Dall’11 marzo la scienza, il diritto alla ricerca scientifica e soprattutto il diritto a beneficiare di questa saranno annoverati tra i diritti umani tradizionali. È questa la prima notizia che emerge potente dal Congresso, organizzato in Africa attraverso una spinta diametralmente opposta a quella dell’aiuto nord-sud: “Volevamo anche dare una forma psicologica a questo Congresso. Oggi sui giornali etiopi si legge che il 75% dei giovani africani ritiene che si può cambiare il mondo con la scienza e si sente fiduciosa nel futuro”, ha spiegato Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, contrapponendo questo al “pessimismo diffuso in Europa verso il futuro, pessimismo che sta aggredendo la scienza: la gente non ha più fiducia nella scienza e nella democrazia, nel metodo scientifico. Vi è la paura che la tecnologia possa essere usata contro l’interesse generale. Per questo abbiamo organizzato il Congresso in Etiopia: in Europa abbiamo bisogno di apprendere nuove modalità per investire sulla fiducia nella scienza e nel metodo scientifico”. Una spinta che si lega a doppio filo con il lavoro portato avanti alle Nazioni unite negli anni scorsi: “Si stabilirà che all’Onu sarà obbligatorio discutere di scienza come si discute già di diritti umani. Noi chiediamo di più: vogliamo che l’Onu nomini un rappresentante speciale con lo scopo di rapportarsi con il mondo scientifico”. Usare il diritto internazionale per rafforzare le ragioni degli scienziati nella libertà di ricerca e di ciascun essere umano nel difendere il proprio diritto a beneficiare del progresso scientifico e delle sue applicazioni. Non è una spinta banale: il costo di alcuni farmaci, che impediscono l’accesso alle cure a chi non può permetterselo; la possibilità di condividere le informazioni scientifiche affinché tutti possano apprenderle da fonti dirette e lavorarci sopra; la spinta verso tecnologie come gli organismi geneticamente modificati, che come ha spiegato il Nobel per la medicina Richard Roberts “nessun anti-Ogm vi dirà che l’insulina è pericolosa ma per farla occorre clonare un gene all’interno di un batterio usando Dna ricombinante per creare un nuovo batterio”; o il genome editing, l’applicazione di queste tecnologie in campo agricolo e produttivo, oltre che medico, sono tutte facce della stessa medaglia. Quella che si scontra quotidianamente con fiumi di burocrazia, oscurantismo e leggi anti-scientifiche nel cuore del Vecchio Continente, effetti di politiche ancor peggiori. Ungheria. Risarcimenti a detenuti ufficialmente sospesi fino a 15 giugno agenzianova.com, 26 febbraio 2020 Il parlamento ungherese ha votato la sospensione dei risarcimenti ai detenuti che hanno fatto causa allo Stato per le cattive condizioni della loro detenzione. Lo rende noto l'agenzia di stampa “Mti”. La sospensione è in vigore fino al 15 giugno. La legge approvata impone anche al governo di elaborare una riforma dei risarcimenti per le vittime di reati entro il 15 maggio, basandosi sui risultati di una consultazione nazionale in corso. All'esecutivo magiaro viene imposto di azzerare il problema del sovraffollamento delle carceri entro il 30 settembre. Il deputato di maggioranza Gyula Budai ha accusato dopo il voto l'opposizione di “essersi nuovamente schierata con i criminali e con Soros”. Né la Coalizione democratica (Dk), né i socialisti (Mszp), né Dialogo per l'Ungheria (Parbeszed) hanno votato a favore della sospensione. Egitto. Zaky trasferito in un altro carcere. La sorella: “I miei genitori sono disperati” di Francesca Caferri La Repubblica, 26 febbraio 2020 Lo studente dell'Università di Bologna era stato arrestato al Cairo l'8 febbraio. Visite negate fino al 5 marzo. Un nuovo trasferimento e, contrariamente a quanto promesso dal procuratore alla famiglia sabato scorso, visite negate fino al 5 marzo. La vicenda di Patrick George Zaky, 28 anni, lo studente egiziano dell'università di Bologna arrestato al Cairo l'8 febbraio con l'accusa di diffusione di materiale dannoso per lo Stato, rischia di complicarsi ulteriormente. Ieri, al momento della visita per portargli abiti puliti e cibo, la famiglia di Patrick è venuta a sapere del nuovo trasferimento: una novità che ha gettato nella disperazione i genitori e la sorella del ragazzo, a cui solo sabato erano state promesse visite senza restrizioni. A complicare ulteriormente la situazione, l'allergia agli occhi che Patrick ha sviluppato a causa del fumo nella cella che nelle ultime due settimane ha condiviso con altri 34 detenuti, per la maggior parte fumatori: il giovane non fuma. “Non abbiamo idea di cosa questo significhi - dice al telefono da Mansura la sorella di Patrick, Marize - nessuno ci ha detto cosa sta succedendo. I miei genitori sono disperati”. Alla famiglia non sono state date spiegazioni sul trasferimento, ma potrebbe essere un segnale di ulteriori complicazioni del caso, che erano apparse all'orizzonte già sabato, quando nel tribunale di Mansura gli amici, gli avvocati e i giornalisti che seguivano il caso del ricercatore erano stati strattonati e maltrattati dai poliziotti presenti. “Il governo egiziano approfitta del fatto che il governo italiano è impegnato con il coronavirus e punisce intenzionalmente Patrick”, scrive su Twitter Amr, un amico egiziano del ricercatore, che vive a Berlino. Intanto in Italia continua la mobilitazione per il giovane, guidata dall'Università di Bologna e da Amnesty International, in vista del nuovo esame del caso da parte della procura di Mansura, in calendario per sabato 7 marzo.