Niente trasferimenti di detenuti dalle carceri di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 febbraio 2020 Nuove regole per i colloqui a Milano. L’allarme del cappellano di Rebibbia: “non c’è alcuna possibilità di isolamento e di cura. Non si può evacuare un carcere”. Nessun allarmismo, ma la parola d’ordine è “prevenzione” per quanto riguarda il contenimento della diffusione del nuovo ceppo virale del coronavirus. I luoghi più sensibili sono quelli dove ci sono persone più vulnerabili e dove, soprattutto, c’è una concentrazione che renderebbe rapidissimo il contagio. Uno di quei luoghi sono le carceri italiane. Per questo è stata istituita dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria una unità di crisi presso la Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento. Il Dap si è preparato nel prevenire il contagio dovuto alla diffusione del coronavirus in alcune località lombarde e, conformandosi alle indicazioni del ministero della Salute e d’intesa con il presidente della Regione Lombardia, ha inviato un ordine di servizio ai Provveditorati e a tutti gli istituti penitenziari italiani. Quindi, fino a nuove disposizioni, ha esonerato dal servizio tutti gli operatori penitenziari residenti o comunque dimoranti nei comuni di Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano. Analoga impossibilità di accedere agli istituti penitenziari anche per il personale esterno: gli insegnanti, i volontari e i familiari di detenuti che provengano dai suddetti comuni. Sospese, inoltre, con effetto immediato e fino a nuova disposizione, le traduzioni dei detenuti verso e dagli istituti penitenziari rientranti nella competenza dei Provveditorati di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze. A Milano, in particolare, sono state varate delle direttive per i colloqui in carcere. Gli incontri dei parenti con i detenuti sono stati, al momento, ridotti a un parente, di età superiore a 12 anni, per ciascun recluso. Il colloquio avverrà con mascherina e previ accertamenti. Non mancano però le polemiche da parte dei sindacati della Polizia penitenziaria che chiedono più strumenti per la prevenzione. Ad esempio c’è il Sinappe dell’Emilia Romagna che ha sollecitato più volte il provveditorato ad avviare un costante monitoraggio delle condizioni di salute di tutto il personale che opera negli istituti di Pena e dell’utenza detentiva, soprattutto presso quelle sedi penitenziarie geograficamente più esposte al rischio contagio. Nel carcere di Bologna il sindacalista e operatore penitenziario Nicola D’Amore del Sinappe ha appreso che in alcune delle unità operative dell’istituto mancano le mascherine, per questo ha chiesto subito una verifica per segnalare la carenza di dispositivi di protezione individuale e rimediare. Il carcere è un luogo dove - come confermato anche dal Dap attraverso le linee guida - l’assistenza sanitaria è carente e il sovraffollamento non aiuta. Un possibile contagio renderebbe più problematica la vita nei penitenziari: sia per i reclusi, che per gli operatori. C’è il cappellano del carcere nuovo complesso di Rebibbia, Mauro Leonardi, che ha espresso preoccupazione. “Cosa avviene - spiega il cappellano - al Nuovo Complesso, il carcere dove sono volontario, 1700 detenuti circa, quando arriva l’influenza? Che la prendono immediatamente tutti. Celle da sei con promiscuità assoluta, quasi completa assenza di farmaci, una piccola infermeria, un reparto ‘ protetto” per poche unità al Pertini per i casi più gravi”. Sottolinea che a Rebibbia è persino complicato misurarsi la febbre e se arrivasse il Coronavirus non ci sarebbe scampo “né per i detenuti, né per le guardie carcerarie, né per i volontari”. Se dovesse arrivare nuovo virus, secondo il cappellano, si ammalerebbero tutti o quasi tutti i detenuti. “Non c’è alcuna possibilità di isolamento e di cura. Non si può evacuare un intero carcere per evidenti motivi: primo dei quali la necessità che per ogni detenuto ci siano parecchie guardie. E poi dove li porti? Si aprono scenari apocalittici”, denuncia il cappellano nel blog personale dell’agenzia stampa Agi. Carcere deterrente? No, la giustizia esemplare non esiste di Alberto Cisterna Il Riformista, 25 febbraio 2020 Ogni processo deve essere personale. Non può essere a fini di intimidazione. Il lapsus di un pm strappa il velo dell’ipocrisia. Un’indagine di corruzione, come altre, come tante. Un’indagine all’apparenza anche ben condotta e capace di incidere in un ganglio di malaffare di un certo livello. Sin qui nulla da dire, anzi non si può che essere soddisfatti. Poi, come un’ombra che rannuvola, le parole del pubblico ministero. Si duole la toga della circostanza che “i numerosi provvedimenti restrittivi emessi” in altri procedimenti “non abbiano esercitato alcun effetto deterrente rispetto alle analoghe condotte contestate agli odierni indagati nella presente vicenda”. Parole che schiudono, con una certa schiettezza e sincerità, uno scenario non certo imprevisto o eccentrico, ma tenuto sempre in disparte e in ombra dai tempi di Tangentopoli in poi. Ossia che le manette dovessero avere anche un “effetto deterrente” per i consociati. Si badi bene non per gli stessi indagati - magari arrestati in altre indagini e incalliti recidivi - ma per tutti coloro i quali operano come loro in quel mondo, si muovono in quell’amministrazione consumando altre corruzioni e altro malaffare. E qui si impone una riflessione. Non sta scritto in nessuna norma del codice che si possa rimproverare a un indagato di non aver subito l’effetto deterrente di altre misure emesse in altri processi. Non sta scritto perché ogni misura restrittiva costituisce o dovrebbe costituire l’esito di una rigorosa valutazione “personalizzata” dei fatti in cui a rilevare dovrebbero essere solo le condotte dell’arrestato, non la sua insensibilità al monito pubblico che deriva dall’enfatizzazione mediatica di precedenti catture. Appare chiaro, non nelle parole ora ricordate, in sé marginali, ma nell’ideologia dell’uso della custodia cautelare che esse evocano che il ricorso alle manette risente (ancora e in modo prepotente) della volontà dell’inquirente di imprimere un monito, una deterrenza nella comunità in modo da frenare ogni malintenzionato dall’idea di commettere lo stesso reato. Non è una volontà obliqua o illecita quella dell’inquirente, si badi bene, ma piuttosto appare direttamente coerente a una radicata visione della giurisdizione investigativa intesa come strumento per realizzare e affermare il controllo di legalità. Se il fine dell’attività inquirente è quello di vigilare sulla legalità/ moralità (si vedano le insuperabili parole di Filippo Sgubbi in “Diritto penale totale”) dei consociati e dei pubblici amministratori in particolare, allora è necessario, anzi indispensabile che ogni tintinnar di manette susciti una deterrenza ovvero la paura di subire la stessa sorte se si commetteranno gli stessi reati. E questo a prescindere da ogni “personalizzazione” e da ogni adeguamento della misura al singolo fatto in modo da affermare un’uguaglianza cieca che equipara tra loro i sudditi, senza considerarli cittadini. Alla pena esemplare si sostituisce, anticipandola, la misura esemplare quale conseguenza diretta proporzionale e proporzionata alla callidità del reo non per ciò che ha commesso, ma per il fatto che subdolamente ha anche ignorato l’ammonimento impartito agli altri e non si è preoccupato di modificare repentinamente le proprie condotte per non incorrere nello stesso rigore. Certo traspare in questa posizione un senso di impotenza e di sconsolato pessimismo sulla condizione della società, ma questo non può giustificare un fallo da frustrazione sul reprobo di turno. Se non si vince la partita non si può certo azzoppare il lesto attaccante avversario che continua a fare goal, pensando così di intimidire tutta la squadra avversaria e tutte le altre formazioni delle dispute a venire. Il processo ha delle regole, efficaci o inefficaci non tocca ai magistrati stabilirlo, che devono essere osservate sempre e comunque quanti reti segni l’avversario e quanto pesante possa sembrare la posizione di classifica. Semplicemente perché non esiste un campionato e non sono previsti bilanci consuntivi per l’inquirente, ma ogni processo è una partita singola, irripetibile e unica da giocare sempre con lealtà e senza rancori o accanimenti di sorta. Non si mandano segnali agli avversari, né li si intimidisce con messaggi trasversali, avvantaggiandosi degli immancabili coreuti del manettarismo (ulteriore degenerazione del giustizialismo). Infine, trattandosi di corruzione e di appalti, proprio le considerazioni da cui ha preso avvio questa breve riflessione inducono a un ulteriore punto di analisi circa l’efficacia che la legge Severino, prima, e la legge Spazzacorrotti, dopo, hanno avuto sul versante della prevenzione del malaffare. Innanzitutto pare evidente il sostanziale fallimento in Italia dei sistemi di prevenzione della corruzione nel settore sia pubblico che privato. Le inchieste svelano mercimoni non occasionali o episodici, ma sistemici e profondamente radicati nel business che coinvolge la pubblica amministrazione. Se ne desume che i modelli di prevenzione sono praticamente carta straccia e che nessuno in verità riesce a vigilare efficacemente su quanto accade negli uffici di spesa del Moloch amministrativo del Paese. Secondariamente par chiaro che se l’intento del legislatore era quello di coltivare l’inasprimento delle pene per esercitare un “effetto deterrente” sui rei, la strada scelta sta consegnando risultati scarsi e di gran lunga distanti dall’obiettivo prefisso. Restano, invece, in ombra strumenti importanti come l’agente sotto copertura e il whistleblowing (ossia la segnalazione anonima delle condotte illecite) e si continua ancora a puntare tutto sulle intercettazioni con un’auspicata, ulteriore agevolazione nell’uso dei trojan informatici nella conversione in legge del decreto intercettazioni. Una strada palesemente inefficace e, ormai, di corto respiro che consente di incastrare i soliti voraci “pesci piccoli” e che non riesce a colpire i protagonisti delle reti complesse della corruzione sistemica. Gli uni e gli altri, però, sembrano così somiglianti a quell’indimenticabile scena di “Guardie e ladri” in cui un ansimante Aldo Fabrizi, in divisa da poliziotto, vuole costringere a un pari esausto e riluttante Totò de Curtis, ladro incallito, a farsi ammanettare; con il secondo che, alla minaccia del primo di sparare in aria un colpo di pistola a scopo intimidatorio, gli risponde “fai pure tanto io non mi intimido”. Decreto intercettazioni, corsa contro il tempo: il governo pone la fiducia sul decreto di Liana Milella La Repubblica, 25 febbraio 2020 Il provvedimento va convertito entro il 29 febbraio, pena la decadenza. Ma le opposizioni insistono: “Bisogna dare la priorità al coronavirus”. Tagliola del Pd contro l’ostruzionismo leghista. Il governo ha posto la questione di fiducia alla Camera sul decreto intercettazioni, che va convertito entro fine mese pena la sua decadenza. La conferenza dei capigruppo ha quindi stabilito che l’Aula si riunirà domani alle 15 e che il voto sulla fiducia partirà dalle 16,35. Poco prima, nel tentativo di bloccare l’ostruzionismo della Lega, a Montecitorio era scattata la tagliola. Il Carroccio aveva infatti provato a ostacolare la conversione del decreto iscrivendo a parlare oltre cento deputati. Ecco perché il Pd è intervenuto e ha chiesto di chiudere anticipatamente la discussione generale sul provvedimento. La proposta del “taglio” della discussione è passata con 299 voti a favore e 153 contrari. A seguire, l’Aula ha bocciato le pregiudiziali dell’opposizione al decreto legge. In apertura della seduta le opposizioni avevano reclamato una modifica del calendario, che ha all’ordine del giorno il decreto sulle intercettazioni. Forza Italia, con Roberto Occhiuto, aveva chiesto che di esaminare subito il decreto varato sabato dal governo contenente le misure per arginare il contagio, rinviando il dl intercettazioni a una fase successiva. Ma se il dl intercettazioni non venisse convertito entro il 29 febbraio decadrebbe. La richiesta era stata condivisa da FdI e Lega. Sia Pd che Leu hanno chiesto che entrambi i decreti vengano esaminati, magari dopo una accelerazione dei tempi del dl coronavirus, e comunque dopo una conferenza dei capigruppo. Una deputata di Fratelli d’Italia, Maria Teresa Baldini, si è presentata in aula con la mascherina. L’unico deputato in isolamento a Codogno è Guido Guidesi della Lega, considerato assente e non in missione ai sensi del regolamento di Montecitorio. Il regolamento della Camera non prevede, infatti, tra le ipotesi di missione, che giustificano le assenze dei deputati dalle sedute, le cause di forza maggiore come chiaramente è quella che trattiene il parlamentare leghista lontano da Roma. Ieri il deputato di Forza Italia Enrico Costa ha ritirato gli emendamenti al provvedimento in materia di prescrizione. “Noi pensiamo che in questa fase debbano essere messi da parte i temi divisivi. In questo momento di fronte al Parlamento ci sono altre priorità”, ha fatto sapere l’esponente azzurro. In tal modo i forzisti potrebbero consentire l’approvazione del decreto senza ostruzionismi già domani. A patto che però il governo porti subito in aula il decreto sul coronavirus. Come già detto le altre opposizioni in aula invece insistono sullo stop al proveddimento: “Interrompete l’esame di questo decreto sulle intercettazioni e coinvolgete l’opposizione nell’affrontare l’emergenza del coronavirus” ha chiesto Andrea Delmastro di Fdi, chiedendo uno stop dell’esame del dl intercettazioni. I deputati del gruppo della Lega si preparano a fare ostruzionismo. In 125, infatti, si sono iscritti alla discussione generale e ognuno di loro potrà parlare per 30 minuti per un totale di oltre 62 ore. Dal Pd arriva un invito alla responsabilità: “Siamo davanti a un provvedimento divisivo, quello sulle intercettazioni, su cui si preannuncia una dura opposizione ed una ferma volontà della maggioranza di non farlo decadere. In momenti come questi il Parlamento non dia prova di polemiche ed urla ma semmai di consapevolezza” ha detto ndeputato Pd Walter Verini chiedendo che “nel più breve tempo possibile si chiuda l’esame di questo decreto per poi passare in un clima anche dialettico ma molto sereno al tema del coronavirus”. Il vicepresidente della Camera Ettore Rosato, oggi di turno alla presidenza dell’aula, ha preso atto dell’unanimità della volontà di esaminare in tempi rapidi il dl coronavirus, ma ha ricordato che per legge il dl deve prima passare in commissione e quindi ogni accelerazione non potrà assolutamente avvenire prima delle 14 di oggi; nel frattempo l’aula è libera di esaminare il dl intercettazioni. Rosato ha anche informato che si terrà a breve una conferenza dei capigruppo della Camera per un esame celere del decreto coronavirus. La maggioranza accelera, fiducia sulle intercettazioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2020 Il decreto alla Camera. Oggi il voto per lasciare spazio al Dl con le misure sull’emergenza sanitaria Arriverà questo pomeriggio alla Camera il voto di fiducia sul decreto legge intercettazioni. Una corsa contro il tempo, il provvedimento va convertito entro fine mese, che Governo e maggioranza hanno deciso, ma era nell’aria, di accelerare, come avvenuto al Senato la scorsa settimana. A complicare le cose per i giallo-rossi ci si è però messa anche l’emergenza sanitaria, conl’interccio quanto a tempi di esame del decreto, con le misure d’urgenza approvate sabato per contrastare il Coronavirus. In apertura di seduta, Forza Italia ha provato a chiedere un cambio di ordine del giorno, esaminando subito le norme per arginare il contagio, e rinviando a un secondo momento il decreto intercettazioni, senza contrarietà a una sua reiterazione. Proposta però respinta dalla maggioranza che ha anche votato, soprattutto dopo che la Lega aveva iscritto a parlare tutti i suoi deputati, il taglio dei tempi della discussione generale. Immediata la polemica con il leader del Lega Matteo Salvini all’attacco: “Non sarebbe più serio ritirare quel decreto intercettazioni peraltro discutibile? Neanche un briciolo di vergogna. Nella prima settimana di emergenza sanitaria Camera e Senato sono obbligate a esaminare il decreto del Governo sulle intercettazioni telefoniche. È veramente folle”. Ma per Vito Crimi, neo capo politico dei 5 Stelle, i due provvedimenti non si sovrappongono quanto a tempi di esame, visto che il decreto sull’epidemia da Coronavirus è destinato non all’Aula, ma alla commissione Affari sociali. Nel merito, la versione del decreto uscita dal Senato prevede un limitato slittamento dell’entrata in vigore delle misure che correggono la riforma Orlando del 2017. Se il Csm aveva chiesto 3 mesi in più, il testo ora ne stabilisce 2, rendendo quindi applicabili le novità solo ai procedimenti penali iscritti a partire dal i° maggio prossimo; per tutti quelli in corso a quella data continuerà così a essere applicata la vecchia disciplina. E poi, il decreto estende il regime del divieto di pubblicazione a tutte le intercettazioni non acquisite al procedimento; dispone che le attività di intercettazione ambientale attraverso l’uso del trojan già consentite per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione siano riferite anche ai delitti degli incaricati di pubblico servizio ed esclude esplicitamente i delitti contro la pubblica amministrazione da quelli per i quali è necessario indicare “i luoghi e il tempo, anche indirettamente determinati, in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”. Sempre per le intercettazioni attraverso trojan è disciplinato l’uso dei risultati in procedimenti diversi da quello per il quale vennero autorizzate. Soppressa poi la riforma del 2017 per quanto riguarda la iniziale valutazione discrezionale della polizia giudiziaria chiamata a decidere cosa trascrivere e cosa annotare per il pubblico ministero, stabilendo invece che sarà quest’ultimo a dovere vigilare perché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone. Intercettazioni, cosa prevede il decreto che calpesta la libertà di Giorgio Spangher Il Riformista, 25 febbraio 2020 Decreto intercettazioni. Confermati gli ampi poteri al Pm sotto tutti i profili, con sottrazione degli stessi alla polizia giudiziaria, come richiesto dai Procuratori della Repubblica; ampio uso del captatore informatico, anche nei luoghi di privata dimora per i reati dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio per i reati contro la pubblica amministrazione, parificati in tutto ai reati di criminalità organizzata; diritto di accesso dei difensori delle parti all’ascolto e alle copie delle registrazioni solo nel caso del venir meno del segreto investigativo, che è rimesso alle determinazioni della Procura. La conversione risolve un dubbio interpretativo, confermando - quanto deciso dalla Corte costituzionale - relativamente al diritto della difesa di avere copia delle registrazioni che il Pm ha trasmesso al giudice con la richiesta delle misure cautelari. Si precisano le condizioni per l’accesso all’archivio delle registrazioni. Mentre va valutata positivamente la previsione per la quale l’intercettazione nei luoghi riservati con il trojan per i reati contro la pubblica amministrazione dovrà indicare le ragioni di questa intrusione che aggredisce la tutela costituzionale del domicilio, va valutata negativamente la disciplina dell’utilizzazione dei risultati intercettativi in altri procedimenti, diversi da quelli nei quali l’intercettazione è stata disposta. Si prevede, infatti, che i risultati siano utilizzati come prova - in violazione della regola del divieto - se si tratta dei reati per i quali l’arresto è obbligatorio, nonché per tutti i reati che consentono il ricorso alle intercettazioni, con la specificazione della loro indispensabilità e rilevanza. A parte l’elasticità di questi criteri, si autorizza - in questo modo - la cosiddetta pesca a strascico: avviata una intercettazione, sulla base di una ipotesi delittuosa prospettata dall’accusa, sarà utilizzabile tutto ciò che emergerà dall’attività di captazione, andando così di fatto alla ricerca di nuovi reati. Il dato trova una ancora più ampia estrinsecazione nel caso dei reati di criminalità organizzata e di criminalità economica: tutto ciò che emergerà dall’uso del trojan sarà utilizzabile come prova o ai sensi di quanto appena delineato, ovvero per quanto attiene ai reati della stessa natura, sempre alla luce del canone della indispensabilità da valutarsi dagli organi investigativi. Peraltro, ciò che non sarà direttamente utilizzabile, potrà costituire notitia criminis, avviando una autonoma attività di intercettazione, che sarà possibile anche nei casi appena indicati avviando una attività di captazione con il virus informatico a catena, cioè, senza fine. Già questo basterebbe per allarmare in ordine alla lesione dei diritti di libertà che in questo modo si pregiudicano e che sono tutelati dalla Costituzione. La materia si presta a qualche considerazione più ampia in considerazione del fatto che su questo tema si erano appena pronunciate le Sezioni unite che, alla luce dei presidi della materia (principio di legalità e tutela giurisdizionale) avevano dato una lettura costituzionalmente (e convenzionalmente) orientata del tema. Si vuole, cioè, sottolineare come ormai le forze politiche e il Governo, non riescano più a tener conto di quanto la giurisdizione nel suo massimo livello indica. In altri termini, il senso di inquisitorietà ha pervaso a tal punto le forze di governo che ritengono di poter calpestare anche le sentenze della Suprema Corte. Legge Spazza-corrotti di nuovo al vaglio della Consulta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2020 Torna all’esame della Corte costituzionale la legge “spazza-corrotti”.Oggi e domani, le udienze e la camera di consiglio su punti sostanziali della legge. 3 del 2019. In particolare, la questione di legittimità costituzionale investe l’inserimento dei reati di peculato e induzione indebita nel catalogo di quelli che impediscono la concessione di benefici alternativi alla detenzione per chi, condannato, non collabora. Elementi non certo marginali della nuova disciplina di contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione e che, più di altri, rendono evidente la linea ispiratrice della legge, quella di considerare il carcere come la soluzione tipica, quasi la sola, per una categoria di delitti tipica dei “colletti bianchi”. Pochi giorni fa la Consulta, era il 12 febbraio, cambiando una prassi giurisprudenziale consolidata, ha già censurato un’omissione della “spazzacorrotti”, quella di una disciplina della fase transitoria. Assenza che non aveva impedito, sulla base dell’orientamento sino ad allora seguito dalla maggioranza delle pronunce in merito, l’applicazione in via retroattiva della stretta per le alternative al carcere. In sostanza, anche ai condannati per fatti antecedenti all’entrata in vigore della legge era stata applicata la linea dura che impediva la concessione di misure alternative alla detenzione, della liberazione condizionale, del divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo al verdetto di condanna. Secondo la Consulta, infatti, l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle sanzioni. Ora, a chiamare in causa la Corte costituzionale sono la Cassazione e la Corte d’appello di Caltanissetta per la quale è dubbia la idoneità del peculato a fondare la presunzione di accentuata pericolosità sociale del suo autore, che legittima l’iscrizione nel catalogo dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. La condotta di peculato, sottolinea la Cassazione, “non parrebbe contenere, fermo restando il suo comune disvalore, la connotazione di elevata pericolosità generalizzata, essendo difficilmente inquadrabile in contesti di criminalità organizzata”. Sarebbe, pertanto, in contrasto con il principio di ragionevolezza, conclude la Cassazione, la sottrazione alla discrezionalità del Tribunale di sorveglianza della valutazione sul fatto concreto e sulla personalità dell’autore, con conseguenze gravi ed evidenti sui principi di individualizzazione della pena e della sua finalità rieducativa. Di tenore analogo le considerazioni fatte dalla Corte d’appello di Palermo, a proposito però del reato di induzione indebita. A dire la verità, se la Corte costituzionale deciderà di entrare nel merito delle questioni sollevate, la conclusione dovrebbe essere in qualche modo scontata. Perché la Consulta in realtà ha già censurato, nella sentenza sull’ergastolo ostativo, la n. 253 del 2019, la presunzione assoluta che impedisce la concessione di permessi premio non solo ai condannati per mafia ma anche a quelli per i reati contro la pubblica amministrazione. La dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale ha investito infatti tutti i reati inseriti nell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario (catalogo tra l’altro esteso via via dal legislatore e senza più che se ne potesse rintracciare un logica di ragionevolezza) e, ultimi tra questi, dall’inizio dell’anno scorso, la gran parte dei reati contro la pubblica amministrazione. Non è però detto che la Corte decida di affrontare le questioni sollevate. Potrebbe infatti concludere per un giudizio di inammissibilità delle questioni sollevate dalla Cassazione e dalla Corte d’appello di Palermo, proprio sulla base di quanto sostenuto, per ora solo in un comunicato stampa (le motivazioni ancora devono essere depositate), pochi giorni fa. Se infatti l’applicazione retroattiva della “spazza-corrotti” è già stata considerata incostituzionale, allora il verdetto potrebbe avere reso, di fatto, irrilevanti le questioni sollevate nei procedimenti approdati alla Consulta. A quel punto il destino sarebbe segnato, ma il tema potrebbe, ed è facile ritenere che lo sarà, essere riproposto in un futuro assai prossimo. Codice antimafia, interdittive prefettizie in linea con il diritto Ue di Raffaele Ruberto Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2020 L’ordinamento giuridico italiano prevede l’informazione antimafia come uno dei principali strumenti amministrativi per prevenire le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore dei contratti pubblici. Il provvedimento, di natura preventiva, in quanto finalizzato ad anticipare la soglia della difesa sociale, è emanato dal prefetto al termine di un’istruttoria. Il 13 gennaio 2020 il Tar Puglia - Bari, sezione III, con la pronuncia n. 28, ha rimesso alla Corte di giustizia Ue la questione pregiudiziale diretta a chiarire se la disciplina italiana in tema di informazione antimafia (articoli 91, 92 e 93 del Codice antimafia), nella parte in cui non prevede il contraddittorio con il soggetto nei cui confronti si intende adottare un’informativa antimafia interdittiva, sia compatibile con il principio del contraddittorio così come ricostruito e riconosciuto quale principio di diritto dell’Unione. Il collegio, dopo aver descritto la vicenda processuale, ha ipotizzato la violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea, e in particolar modo dell’articolo 41 della Carta, che prevederebbe - a giudizio del Tribunale - un principio del contraddittorio di carattere generale e assoluto. Sennonché, la tesi non è affatto pacifica e sussistono opposte ragioni di forte pregnanza. Premesso che sulla dibattuta questione del contraddittorio procedimentale in materia di informazioni antimafia è intervenuto in seguito il Consiglio di Stato con la sentenza n. 820 del 30 gennaio 2020, la tesi contraria all’esigenza palesata dal Tar Puglia trova invece autorevole conforto proprio nella lettura completa dell’ articolo 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Nell’ordinamento italiano, il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento pregiudizievole e, dunque, il diritto a partecipare, è assicurato in generale dalla legge n. 241 del 1990. Questa forma di accesso incontra, tuttavia, proprio ai sensi dell’articolo 41 prima citato, il limite del rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto (si veda Corte di giustizia, sezione I, 6 giugno 2013, n. 536). Non solo. Ulteriori limitazioni possono essere apposte per tutelare esigenze di efficienza dell’amministrazione (come si è visto a proposito del diritto di essere ascoltato), allorché l’accesso, per esempio, possa nuocere alle indagini in corso. Ne consegue, che le considerazioni che precedono, realizzando una deroga al generale favor partecipationis che caratterizza la legge sul procedimento amministrativo, trovano applicazione con riguardo ai procedimenti che conducono ai provvedimenti interdittivi prefettizi. Inoltre, occorre anche ricordare che nel nostro ordinamento il contraddittorio procedimentale è comunque contemplato nelle procedure antimafia, poiché l’articolo 93, comma 7, del decreto legislativo n. 159 del 2011 prevede che “il prefetto competente al rilascio dell’informazione, ove lo ritenga utile, sulla base della documentazione e delle informazioni acquisite invita, in sede di audizione personale, i soggetti interessati a produrre, anche allegando elementi documentali, ogni informazione ritenuta utile”. In conclusione, l’ordinamento vigente, dal cosiddetto Codice antimafia sino alle sue più recenti integrazioni, ha voluto apprestare, per l’individuazione del pericolo di infiltrazione mafiosa nell’economia e nelle imprese, strumenti sempre più idonei e capaci di consentire valutazioni e accertamenti tanto variegati e adeguabili alle circostanze, quanto variabili e diversamente atteggiati sono i mezzi che le mafie usano per cercare di moltiplicare i loro illeciti profitti. Nella ponderazione degli interessi in gioco, tra cui certo quello delle garanzie dell’interessato da una misura interdittiva è ben presente, non può pensarsi che gli organi dello Stato contrastino con armi impari la pervasiva diffusione delle organizzazioni mafiose che hanno, nei sistemi globalizzati, vaste reti di collegamento e profitti criminali quale ragione sociale per tendere al controllo di interi territori. Lo scudo non protegge dal reato di riciclaggio di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 24 febbraio 2020 n. 7257. Si commette riciclaggio in caso di somme detenute all’estero, frutto di evasione fiscale di decenni precedenti, regolarmente scudate e poi trasferite sui conti degli interessati. A fornire questa rigorosa interpretazione è la Corte di Cassazione sezione 3 penale con la sentenza 7257 depositata ieri. In estrema sintesi, secondo i giudici di legittimità, è irrilevante ai fini della sussistenza del riciclaggio che le singole operazioni poste in essere siano tutte lecite (nella specie utilizzo scudo fiscale, deposito su conti cointestati, donazione delle somme) in quanto occorre far riferimento alla sola finalità del soggetto agente volta a schermare la provenienza delittuosa del denaro o dei beni. Nella vicenda veniva sequestrata una significativa somma proveniente dai delitti di evasione fiscale, contrabbando e truffa commessi a metà degli anni 90, perché secondo l’accusa era stata realizzata la condotta di riciclaggio articolata in una pluralità di atti nell’arco di quindici anni. Uno degli indagati, in estrema sintesi, socio di una impresa svizzera, nel 2000 depositava somme in conti elvetici. Dopo alcuni anni (2003) le somme rientravano in Italia attraverso lo scudo fiscale e venivano depositate su conti a lui intestati con delega ad operare ad altro soggetto. Successivamente con una serie di operazioni e con un atto di donazione le somme erano definitivamente trasferite (nel 2015) a un terzo soggetto La difesa eccepiva tra l’altro, che tutte le operazioni contestate erano perfettamente legittime ed eseguite in modo trasparente. Era peraltro inverosimile che la condotta illecita si fosse perfezionata in circa quindici anni. La Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso evidenziando che per la sussistenza del riciclaggio non è rilevante la liceità o meno dei singoli atti compiuti ma la direzione finalistica volta a schermare la provenienza delittuosa del denaro. Inoltre, il reato essendo permanente si consuma con il compimento dell’ultimo atto della sequenza (si tratta cioè di un solo reato a formazione progressiva). Sempre ieri, la Suprema Corte (sentenza 7259) ha ritenuto astrattamente configurabile il concorso tra la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte e l’autoriciclaggio. Ciò in quanto il provento del reato presupposto (nella specie la sottrazione) può consistere non solo in un incremento del patrimonio ma anche in un risparmio suscettibile di essere “riciclato”. Nella specie l’utilità della sottrazione fraudolenta si è realizzata nel risparmio di spesa non derivante dalla imposta evasa bensì dal valore dei beni sottratti alla garanzia patrimoniale. Reati tributari, vincolo della continuazione solo con violazioni vicine nel tempo di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2020 Per i reati i fallimentari il vincolo della continuazione è ammissibile nel solo caso di contiguità temporale tra le diverse violazioni Lo afferma la corte di cassazione con la sentenza n. 48489/2019. Il caso - Il caso di specie trae origine dal rigetto della richiesta di riconoscimento del vincolo della continuazione da parte del tribunale di Milano. I giudici di merito erano giunti alla conclusione che l’istanza dell’imputato era priva di fondamento sulla base della considerazione delle modalità di svolgimento dei singoli episodi criminosi, e del loro carattere del tutto autonomo, in particolare al fine di escludere la presenza del vincolo della continuazione nel caso di specie, era stato il mancato accertamento della unicità del decisione di commettere i reati contestati nel corso del procedimento de quo. Infatti, al fine di potere riconoscere la presenza del reato continuato è necessaria la positiva verifica di una sola decisione criminosa da parte del reo, dovendosi in caso contrario essere applicata la normativa prevista per gli illeciti non vincolati dal vincolo della continuazione. L’ imputato ritenendo, comunque la decisione di merito del tutto infondata, proponeva ricorso per cassazione deducendo comunque un unico motivo. Osservava infatti nella propria tesi difensiva come nel corso del procedimento fosse stata indiscutibilmente raggiunta la prova, dei collegamenti tra le diverse società ad ogni modo coinvolte nelle operazioni criminose, pertanto per tale carattere della condotta criminosa complessiva che aveva avuto origine da una sola decisione da parte del reo avrebbe dovuto essere rilevata la presenza del reato continuato e del più miti trattamento sanzionatorio per esso previsto. La posizione della Cassazione - Il procedimento dopo avere compiuto il proprio corso veniva deciso dai giudici della corte suprema con la sentenza qui in commento. Infatti se è pur vero che nel caso in cui l’ esecuzione di molteplici illeciti, sia il prodotto di una sola deliberazione e di una un unica decisione da parte del reo di porsi contro la legge paia necessario un diverso e più mite trattamento sanzionatorio rispetto alle ipotesi in cui le condotte criminose paiono il prodotto di molteplici decisioni di porsi contro l’ ordinamento. Tuttavia tale esigenza sia pure indubbiamente meritoria, deve essere contemperata con la necessità di non ridurre in maniera indiscriminata il trattamento sanzionatorio e di evitare che l’accertamento del vincolo della continuazione consenta di evitare i rigori della legge penale. Pertanto il discorso si porta sulle modalità concrete di accertamento dell’unicità della decisione da parte del reo, secondo i giudici della corte suprema di cassazione infatti si sarà in presenza di una sola deliberazione nel caso in cui le condotte poste in essere in violazione alla legge penale siano ravvicinate nel tempo e contigue. Tale necessità è di intuitiva evidenza, infatti nel solo caso in cui le condotte siano ad ogni modo ravvicinate nel tempo paiono il prodotto della medesima deliberazione, nel caso contrario invece che le singole condotte criminose siano distanziate nel tempo e nello spazio non potrà che sostenersi di essere in presenza di una molteplicità di decisioni da parte del reo e di un atteggiamento che presenta una maggior riprovevolezza da parte del reo, che pertanto deve essere sanzionato con superiore rigore. Nel caso di specie, contrariamente a quanto sostenuto dal difensore dell’ imputato non poteva esser riconosciuta l’unicità della decisione criminosa dato che le singole violazioni erano piuttosto distaccate nel tempo pertanto il prodotto di diverse decisioni criminose. Il fascismo non è un’opinione. Neanche su Facebook di Giansandro Merli Il Manifesto, 25 febbraio 2020 Ordinanza del Tribunale di Roma conferma esclusione di Forza Nuova dal social network. Per la giudice l’organizzazione diffonde odio e si richiama al Ventennio: chiuderne le pagine è un “dovere giuridico”. Il Tribunale ordinario di Roma, sezione diritti della persona e immigrazione civile, ha pubblicato ieri l’ordinanza di respingimento del procedimento cautelare di Forza Nuova (Fn) contro Facebook. Per la giudice Silvia Albano non solo la società di Menlo Park aveva diritto a cancellare le pagine e gli account personali collegati all’organizzazione, ma ne aveva anche il “dovere giuridico”. Fn è stata condannata a pagare 4.500 euro di spese legali. La decisione, contenuta in un documento di 43 pagine, risponde a un procedimento d’urgenza ex art. 700 del tutto simile a quello che il 13 dicembre scorso si era concluso con esito opposto per Casapound Italia (Cpi). In entrambi i casi i fatti risalgono alla mattina del 9 settembre 2019, quando Facebook e Instagram eliminarono simultaneamente decine di pagine e account individuali afferenti alle due organizzazioni con l’accusa di “diffondere odio”. Nel caso di Cpi la giudice Stefania Garrisi (Tribunale di Roma, sezione specializzata in materia di impresa) aveva ordinato alla società che gestisce il social network di riattivare pagine e account dell’organizzazione e dei suoi membri. Due le argomentazioni principali: il “rilievo preminente” della funzione svolta da Facebook per l’attuazione del principio cardine del pluralismo dei partiti politici; il fatto che le pagine non fossero direttamente utilizzate per promuovere azioni illecite e che di quelle commesse dai singoli membri non sia automaticamente responsabile l’organizzazione. Tale ordinanza, di 6 pagine, impose anche a Facebook di versare 15mila euro di spese legali nelle casse di Cpi. Il 28 dicembre scorso la società ha presentato reclamo, si passerà così a un procedimento a “cognizione piena” in cui il Tribunale dovrebbe presumibilmente stabilire se CasaPound è effettivamente impegnata a promuovere “odio organizzato”. La giudice Albano, invece, ha ricostruito già nel procedimento d’urgenza, quindi con accertamento “parziale” della prova, che Fn è una “organizzazione d’odio”, impegnata nella discriminazione a danno di rom, migranti e omosessuali. Dopo una lunga e dettagliata ricognizione del quadro normativo internazionale e interno sul bilanciamento tra il diritto di libera espressione del pensiero e i divieti di incitamento all’odio attraverso discorsi razzisti o discriminatori e di apologia di fascismo, l’ordinanza descrive la natura e gli scopi politici di Fn. Sono citate manifestazioni, iniziative pubbliche e dichiarazioni alla stampa in cui l’organizzazione si richiama esplicitamente al fascismo e diffonde idee razziste e discriminatorie. Viene anche fatto un elenco parziale di post comparsi sul social e poi rimossi. Questi “non solo violano le condizioni contrattuali, ma sono illeciti in base a tutto il complesso sistema normativo di cui si è detto all’inizio, con la vasta giurisprudenza nazionale e sovranazionale citata”, afferma l’ordinanza. Pertanto: “Facebook non solo poteva risolvere il contratto grazie alle clausole contrattuali accettate al momento della sua conclusione, ma aveva il dovere legale di rimuovere i contenuti, una volta venutone a conoscenza, rischiando altrimenti di incorrere in responsabilità”. Lombardia. Emergenza coronavirus, sospesi permessi premio, lavoro esterno e semilibertà agi.it, 25 febbraio 2020 Sospesi permessi premio, il lavoro all’esterno e la semilibertà se fuori dal muro di cinta per i detenuti nelle carceri della Lombardia. È questa la decisione, a quanto apprende l’Agi, del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria lombarda, Pietro Buffa, per fronteggiare l’emergenza coronavirus. Inoltre, è stata decisa l’istituzione di un’unità di crisi all’interno del Provveditorato, che gli operatori esterni siano dotati di mascherina, che i colloqui si riducano a un parente, maggiore di 12 anni, per ogni detenuto e avvengano con la mascherina. Toscana. Conferenza stampa di Franco Corleone sulla situazione delle carceri Ristretti Orizzonti, 25 febbraio 2020 Elezione del Garante: un ritardo incomprensibile e intollerabile. Le conseguenze del Coronavirus in carcere. Il blocco dei lavori urgenti. Franco Corleone, ex Garante dei detenuti della Regione Toscana lancia l’allarme di un vuoto pericoloso e fa il punto sul coronavirus nelle carceri in Toscana e lavori urgenti ad oggi irrisolti negli istituti penitenziari della Toscana: Teatro Stabile di Volterra; sezione Femminile nel carcere di Pisa e seconda cucina a Sollicciano. Il 26 ottobre il suo mandato di sei anni era scaduto, l’attività è proseguita per tre mesi in un periodo previsto dalla legge di proroga. Questo periodo è stato utilizzato per continuare un’attività intensa presentando ricerche e proposte su temi scottanti come le droghe, le misure di sicurezza e l’imputabilità e con visite agli istituti monitorando situazioni di crisi che si sono presentate. Una nota positiva è stata l’approvazione in Consiglio regionale della proposta di legge per il Parlamento elaborata dall’ufficio del Garante sul diritto all’affettività e alla sessualità in carcere. Purtroppo il Consiglio regionale non ha utilizzato questo tempo né per esaminare le proposte di modifica della normativa al fine di rafforzare autonomia e indipendenza della figura, né per accogliere l’invito delle associazioni di volontariato e dei movimenti che si occupano di giustizia in carcere per audizioni dei candidati e delle stesse associazioni allo scopo di rendere trasparente la scelta del Garante. Vi sono stati già due rinvii della Commissione affari istituzionali, ora il tempo delle decisioni è scaduto. Su questi temi Franco Corleone terrà una conferenza stampa martedì 25 febbraio alle ore 11:00 presso la sede de La Società della Ragione, Palazzina 35, San Salvi. Nell’occasione sarà illustrata l’agenda delle urgenze per superare una grave impasse, per rendere efficace la richiesta di adempiere a un dovere istituzionale preciso e saranno definite iniziative di mobilitazione e azioni di disobbedienza civile. Puglia. Sostegno della relazione genitoriale tra detenuti e figli minori consiglio.puglia.it, 25 febbraio 2020 Azione sinergica tra il Garante detenuti Rossi ed il Presidente della VI Commissione “Santorsola”. Importante sinergia in Consiglio regionale tra il Garante regionale dei diritti delle Persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Piero Rossi ed il Presidente della VI commissione consiliare Domenico Santorsola. Nel corso degli ultimi anni l’Ufficio del Garante ha sviluppato in Puglia significative esperienze sperimentali in collaborazione con soggetti e realtà del Terzo Settore, vincitori di due avvisi promossi dai Garanti per la realizzazione di progetti sperimentali finalizzati a preservare, sostenere e ripristinare la relazione genitoriale tra detenuti e figli minori. Lo scopo di tali azioni è stata la volontà di sperimentare possibili e nuovi modelli di intervento, di trarne spunti generali e di diffondere le migliori esperienze progettuali, mettendole a fattor comune su tutto il territorio regionale, sulla scorta di valutazioni espresse sul piano della sostenibilità, della efficienza e della efficacia sotto l’aspetto dei risultati raggiunti. La naturale evoluzione di tali interventi è attribuire agli stessi carattere di regolarità e organicità. In linea con questo principio Il Presidente Domenico Santorsola ha presentato una Proposta di legge regionale finalizzata a sviluppare un rapporto quanto più sereno possibile (pur nella obiettiva difficoltà data dalla condizione di detenzione) tra figli minori e genitori detenuti o sottoposti a misure di restrizione della libertà personale a seguito di provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, prevedendo per legge la promozione e il sostegno, da parte della Regione Puglia, delle attività finalizzate a favorire il corretto rapporto tra genitori detenuti o sottoposti a misure restrittive della libertà personale e figli minori. Agrigento. Detenuto di 60 anni si impicca in cella di Nino Ravanà La Sicilia, 25 febbraio 2020 Un detenuto italiano di 60 anni si è tolto la vita, l’altro pomeriggio, impiccandosi alle sbarre della sua cella con delle lenzuola. Il tragico fatto è accaduto nel carcere “Pasquale Di Lorenzo”, di Agrigento. Dopo la lunga serie di episodi di violenza, e aggressioni, al personale della polizia Penitenziaria in cui sono stati protagonisti più detenuti, la denuncia e l’inchiesta sui presunti casi di maltrattamenti ai reclusi, e le molteplici criticità strutturali, e di organico, adesso anche un suicidio. L’uomo è stato trovato dai due compagni di cella, e dagli agenti della Penitenziaria, che hanno dato l’allarme, ma nemmeno i tentativi del personale medico sono riusciti a rianimarlo. Sull’accaduto sono in corso le indagini del dipartimento di polizia Penitenziaria e dei vertici della stessa casa circondariale per chiarire i fatti. Bologna. Coronavirus, in carcere sospese anche le visite di familiari e “terze persone” bolognatoday.it, 25 febbraio 2020 La nota del Garante dei detenuti. “Per quanto riguarda la complessiva situazione presso la Dozza, sulla base delle indicazioni provenienti dagli Uffici superiori, si è provveduto a sospendere l’accesso in istituto di tutti i volontari e i colloqui con i familiari e terze persone”. È un passaggio della nota del garante dei detenuti della regione Antonio Iannello, che è intervenuto sulle implicazioni all’interno delle strutture detentive nel contenimento precauzionale alla diffusione del coronavirus. Fatto salvo il divieto di visitare i familiari, il garante apre alla possiblità di “comunicazioni telefoniche o via skype, laddove possibile”. “Per quanto riguarda la detenzione minorile” si legge ancora “ sono state sospese le traduzioni da e verso gli Istituti Penali Minorili di Torino, Milano, Treviso, Bologna, Pontremoli e Firenze”. Del pari, sul fronte della popolazione carceraria “si ritengono opportuni l’adozione di adeguate misure di informazione nei confronti delle persone detenute circa le principali misure igieniche da assumere per le malattie a diffusione respiratoria nonché il deciso incremento dell’attenzione circa l’igienizzazione degli ambienti in cui vivono le persone detenute e degli ambienti in cui lavorano gli operatori penitenziari, anche con riferimento alle dotazioni di dispositivi di protezione individuale”. Reggio Emilia. Coronavirus, nella sezione “nuovi giunti” quarantena per quindici giorni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 febbraio 2020 Il carcere di Reggio Emilia è pronto a ospitare una sezione ad hoc per i nuovi arrivati che siano contagiati. L’evoluzione prevista, riportata dalle organizzazioni sindacali degli agenti di Polizia penitenziaria, riguarda appunto l’apertura di una nuova sezione dove i cosiddetti “nuovi giunti”, gli arrestati nei prossimi giorni fino alla conclusione dell’epidemia, saranno ristretti in quarantena per almeno 15 giorni. Locali dove, riferiscono gli agenti, potrebbero essere confinati anche loro, auspicando in quel caso “che ci possano essere le condizioni per lavorare in tranquillità e che vengano forniti dispositivi di protezione individuale”. Se si verificassero focolai nell’istituto penitenziario sarebbero cancellati anche gli spostamenti in Tribunale e annullati i colloqui con esterni. A Reggio Emilia c’è anche la nuova struttura, ancora non operativa, nata per essere una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), che è stata individuata dal presidente della Regione Stefano Bonaccini per mettere in quarantena eventuali pazienti che non hanno nelle loro abitazioni le condizioni per l’isolamento domiciliare. Se, insomma, ci sarà bisogno di mettere in quarantena qualche persona che si sospetta possa sviluppare il coronavirus, si apriranno le porte del Rems che diventerà, per l’appunto, una sorta di Cecchignola dell’Emilia- Romagna. La struttura, realizzata nella zona sud della città, non distante dal carcere, dovrà ospitare, nel prossimo futuro, i pazienti dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario, ma è al momento inutilizzata. La costruzione è iniziata nel 2016 ed è stata portata a termine da qualche mese con una spesa di oltre 5 milioni di euro finanziati dalla Regione. Avrebbe dovuto diventare operativa a partire da gennaio, ma una serie di problemi relativi alla delicata funzione cui sarà destinata, ha fatto rinviare l’inaugurazione. Nel frattempo il virus è entrato nelle carceri cinesi. La Cina ha segnalato circa 500 casi nelle sue prigioni, di cui almeno 200 nello stesso istitutodo i timori di ulteriori epidemie. Funzionari locali hanno confermato che almeno 200 detenuti e sette guardie di Rencheng, a Jining, nella provincia orientale dello Shandong, sono risultati positivi. “L’attuazione delle misure di prevenzione e di controllo non è stata efficace”, ha riconosciuto venerdì Wu Lei, capo dell’amministrazione penitenziaria dello Shandong. Il governo centrale ha annunciato il licenziamento di Xie Weijun, responsabile della giustizia nello Shandong, così come di altri due funzionari. Per tutti e tre l’accusa è di negligenza. Individuati almeno 34 casi nella prigione di Shilifeng, nello Zhejiang. Anche a Hubei, la provincia epicentro dell’epidemia, ha segnalato venerdì 271 casi nelle sue prigioni, tra cui 220 non ancora registrati. Secondo un giornale locale, l’Hubei Daily, sono stati segnalati 230 casi nella prigione femminile di Wuhan, dove le guardie sono state licenziate per non aver contenuto l’epidemia, mentre gli altri 41 casi si sono verificati in un’unica struttura nella municipalità di Shayang. Padova. La Polizia penitenziaria chiede “celle chiuse” per contrastare il coronavirus padovaoggi.it, 25 febbraio 2020 Dinamiche sanitarie in continua evoluzione, contatti frequenti con persone che frequentano i penitenziari, colloqui, detenuti con permessi premio e di lavoro. Sono tutti fattori che, secondo Sinappe, potrebbero favorire il contagio da Coronavirus anche all’interno delle carceri italiane. La segreteria padovana del sindacato di polizia penitenziaria appoggia le proposte avanzate da quella nazionale ai vertici dell’amministrazione chiedendo maggiori controlli. Lunedì è stata redatta una nota inviata al presidente dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini dove vengono espressamente richieste misure di gestione più stringenti da applicare non solo nelle strutture vicine ai focolai del contagio (tra cui il Due Palazzi) ma in tutte le carceri, in risposta al documento diramato il 22 febbraio a livello nazionale con le direttive da adottare. La prima richiesta è di tornare temporaneamente al sistema “a celle chiuse”: la maggior parte dei penitenziari applica le “celle aperte” per gran parte del giorno, con i detenuti liberi di raggiungere gli spazi comuni e partecipare alle attività di reintegro sociale. “Anche se sono ambienti più facilmente controllabili - si legge nella nota - il contagio non si può escludere a causa dei numerosi contatti con la comunità esterna come i colloqui con familiari, avvocati, magistrati, religiosi, educatori, psicologi, volontari. Senza contare i detenuti in ingresso di cui è impossibile ricostruire storia e itinerari recenti”. Inoltre Sinappe propone di sospendere temporaneamente attività e incontri, ma anche di evitare le prestazioni sanitarie non urgenti: “Sarebbe opportuno aumentare i colloqui telefonici e diminuire quelli di persona, chiedendo il supporto delle Asl per avere personale specializzato che controlli le persone che entrano ed escono come avviene negli aeroporti, compresi i detenuti che lavorano all’estero o sono in semilibertà e in permesso”. Preoccupazione destano anche le dotazioni per gli agenti: “Auspichiamo che a tutti siano fornite mascherine, guanti e disinfettanti - prosegue Sinappe - e che venga normativizzata la regola su eventuali assenze per giorni di esenzione”. Piacenza. Il coronavirus ferma anche la giustizia, uffici chiusi per una settimana ilpiacenza.it, 25 febbraio 2020 Tribunale e Procura, processi solo con i detenuti e in aula poche persone. Gli avvocati: “Provvedimento giusto, andava fatto anche prima”. Il coronavirus rallenta anche la Giustizia. Gli uffici del Tribunale e della procura non saranno più aperti ai cittadini per una settimana. Il presidente del Tribunale, Stefano Brusati, ha disposto un’ordinanza che prevede “la sospensione dello svolgimento delle udienze ordinarie civili e penali” eccetto quelle con detenuti o che vedono imputati con misure cautelari. Inoltre, è previsto un controllo preventivo agli ingressi svolto dai carabinieri e dal personale dell’Ivri. Lo scopo è quello di limitare il numero di persone - e quindi i possibili contagi - e i contatti fra le centinaia di persone che ogni giorno frequentano gli uffici giudiziari e le aule, dove spesso si ritrovano insieme numerose persone fra avvocati, testimoni, imputati e forze dell’ordine. Anche gli avvocati potranno depositare nelle cancellerie solo gli atti urgenti, così come i cittadini che, ad esempio, si recano in procura per chiedere un certificato penale: se è urgente si dovrà inoltrare una richiesta. Cittadini e avvocati potranno comunque utilizzare internet, sui siti del Tribunale, per gli atti che si possono redigere anche on line. Il 24 febbraio, primo giorno, delle disposizioni, alcune udienze sono state rinviate dal giudice monocratico: solo un avvocato in aula, distanziato dagli altri colleghi e accesso impedito a chi è in attesa al di fuori. Molte le persone che sono state fermate agli ingressi e informate che gli uffici non erano più accessibili. Soddisfatto il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Giovanni Giuffrida: “Bene questo provvedimento, si sarebbe dovuto fare anche prima”. Milano. Coronavirus, il procuratore Greco: “Non possiamo permetterci quarantena” di Zita Dazzi La Repubblica, 25 febbraio 2020 Uffici chiusi al pubblico: “Dobbiamo evitare che si ammali qualcuno”. Vertice al tribunale per la gestione dei detenuti in udienza. “Questo ufficio non può permettersi di rimanere chiuso: se anche solo uno si ammala si rischia la quarantena per tutti e non è possibile”. Così il procuratore di Milano, Francesco Greco, parlando della decisione di chiudere al pubblico gli uffici della procura, dove da oggi - ma la comunicazione ufficiale delle linee guida avverrà nelle prossime ore - si riceverà solo “su appuntamento o per impegni giustificati”. Il procuratore ha ricordato il fatto che “si tratta dell’ufficio più pubblico del tribunale; possiamo continuare a lavorare al limite minimo come d’estate, ma dobbiamo evitare che si ammali qualcuno”. Tra le variabili da considerare c’è anche il fatto che “il Lodigiano è strettamente interconnesso con Milano”, e ci sono pm e amministrativi che vivono in quelle zone e ai quali è già interdetto di recarsi in ufficio. “In quest’aula tra magistrati, imputati e avvocati siamo spesso decine di persone, una situazione ambientale che contrasta con la circolare della Corte d’Appello di Milano” sull’emergenza coronavirus. Così il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha chiesto e ottenuto dai giudici della settima penale il rinvio del processo milanese Ruby ter a carico di Silvio Berlusconi e altri 28 imputati. Il pm, infatti, ha ricordato ai giudici che le direttive della presidenza della Corte d’Appello richiedono una distanza minima tra le persone in aula di due metri e che si “entri in aula 3-4 persone alla volta”. La Procura, tra l’altro, aveva già avvisato i difensori ieri, tanto che in aula stamani erano presenti solo tre avvocati e 7-8 persone in tutto. Il presidente del collegio Marco Tremolada inizialmente ha spiegato che “i servizi pubblici devono proseguire, salvo che per i lavoratori provenienti” dalle zone rosse. Poi, però, ha deciso di rinviare al 9 marzo anche per l’assenza dei testimoni. Tanti altri procedimenti sono stati rinviati. In una riunione tra i vertici degli uffici giudiziari milanesi, tra cui il procuratore Greco e il presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi, e il presidente dell’Ordine degli avvocati milanesi Vinicio Nardo è stato affrontato, tra le altre cose, anche il tema dei detenuti in questi giorni di emergenza coronavirus. Non è ovviamente possibile limitare le “traduzioni” ovvero i trasporti in tribunale, perché questo causerebbe un caos anche per quanto riguarda i termini delle custodie cautelari e quindi una lesione della libertà e dei diritti fondamentali. Si continuerà quindi a trasferirli per le udienze limitando però gli assembramenti nei corridoi. Solo in alcuni casi si potranno fare udienze in videoconferenza: la limitazione deriva dal fatto che non tutte le aule del Palazzo di Giustizia sono attrezzate e tantomeno le carceri, fatta eccezione per quelle di massima sicurezza. Le visite dei difensori in carcere saranno limitate e dove necessario (ma solo in caso di sintomi) si dovranno usare le mascherine chirurgiche. E mentre si firma questo provvedimento, contemporaneamente i vertici degli uffici giudiziari di Milano sono costretti a firmare anche ordini di materiale sanitario da inviare con urgenza. Lucca. La Garante dei detenuti: “Manca il dialogo fra carcere e comunità” di Barbara Antoni Il Tirreno, 25 febbraio 2020 Obiettivi dell’avvocata Severi sono di instaurare più conoscenza fra dentro e fuori e dare opportunità di lavoro ai detenuti. Il 26 un incontro anche con le aziende. Dal suo insediamento è al lavoro “per aprire il carcere al dialogo” Alessandra Severi, garante dei diritti dei detenuti del carcere San Giorgio e delle persone private di libertà nominata dall’amministrazione comunale. Trentacinque anni, lucchese, avvocata e crimonologa, Severi è arrivata a ricoprire questo ruolo dopo un percorso di approfondita conoscenza del mondo carcerario, svolto tramite il servizio civile prima e poi proseguito con un impegno di ricerca e di volontariato. Tra le esperienze che ha condotto in carcere come volontaria, in particolare, ce ne sono alcune che, racconta, non dimenticherà mai per intensità e profondità. Come “la lettura con i detenuti de “L’asino di apuleio” e del libro “Donne che corrono con i lupi”. “Ci sono stati momenti toccanti, con i detenuti che raccontavano della loro vita. Mi piacerebbe che questi racconti fossero conosciuti da più persone, all’esterno, mentre ad oggi sono rimasti solo in chi li ha ascoltati. Il carcere manca di un passaggio con l’esterno”, spiega Severi. È questa, l’idea del ponte con l’esterno, dal quale possono scaturire opportunità di relazioni sociali per i carcerati, come anche di formazione e lavoro per quelli che si trovano a fine pena o comunque nei termini per affrontare un percorso di recupero anche attraverso il lavoro, che la garante vuole rendere un fatto concreto. “Mi stupisce che la città non abbia mostrato molta curiosità verso il mondo carcerario: vorrei assolvere a questa idea, portare le persone a riflettere su cosa il carcere realmente è - spiega l’avvocata Severi, autrice insieme alla sociologa Wilma Cocci di un libro sul mostro di Firenze dal titolo”Flop criminologico: il caso Pietro Pacciani, edito da Ibiskos. Nel carcere non vivono solo i detenuti ospiti, ma anche le persone che ci lavorano, in particolare gli agenti penitenziari, con tutte le difficoltà che incontrano nel quotidiano. In carcere si vive l’esasperazione delle solitudini di entrambi. Sarebbe bene invece che la comunità lucchese conoscesse molto più la realtà del San Giorgio: sono convinta che se il carcere di Lucca fosse “aperto” al dialogo, tantissime persone vi si avvicinerebbero, ci sarebbe una grande risposta dalla comunità”. Il San Giorgio è una casa circondariale: il numero dei detenuti oggi è sui 115, la polizia penitenziaria, spiega sempre la garante, è numericamente sotto organico. Ci sono detenuti in attesa di giudizio e condannati, ma con condanne entro i cinque anni. La presenza di detenuti stranieri è alta, ma molti sono anche della zona. Nel San Giorgio è attivo il Gruppo Volontari Carcere. Al momento, oltre alle attività teatrali di Empatheatre, all’attività sportiva svolta dalla Libertas, al corso di cucina e a quello per il conseguimento della licenza Haccp, ci sono proposte per altri due progetti destinati ai detenuti. “Ho proposto un corso di formazione per volontari in carcere alla Caritas - spiega la garante -. Persone che possano entrare e semplicemente parlare con i detenuti, ascoltarli. C’è poi un progetto dell’Associazione Musicale Lucchese per un corso di chitarra e canto”. Severi in questo momento si sta concentrando su un punto di forza del recupero dei detenuti: il lavoro. Nasce da questo intento il l’incontro “Carcere e lavoro” in programma il 26 febbraio alle 15,30 nell’auditorium di San Micheletto, organizzato insieme all’amministrazione comunale e con la commissione consiliare per il sociale. “Facendo i colloqui con gli ospiti - spiega infatti Severi - è emersa la grande esigenza che ravvisano a fine pena: la necessità di un lavoro: esco e dove vado? È molto importante aiutare le persone nel reinserimento. Per questo abbiamo deciso con il Comune di invitare all’incontro di mercoledì 26 febbraio aziende del settore agricolo e della ristorazione, quelle per le quali anche la formazione può essere più facile. Il nostro obiettivo, con l’incontro, è di far conoscere soggetti che ruotano intorno al mondo del carcere: ci saranno anche esponenti del Consorzio Mestieri Toscana, della Camera Penale di Lucca, della Caritas e di Confcommercio. Tra i relatori, anche lo studio legale Tirrito specializzato nella consulenza sugli sgravi fiscali per le aziende che assumono un detenuto. Ci saranno anche il garante dei detenuti di Firenze Eros Cruccolini, le associazioni di categoria e Slow Food Toscana. Ma anche, non ultimo, il direttore del Centro per l’Impiego di Lucca Antonio Fanucchi, l’Uepe (ufficio esecuzione penale esterna, ndr). Lo scopo, ribadisco, è accrescere la conoscenza del carcere nella comunità lucchese. Sono state realizzate anche brochure per le aziende, con i contatti e le informazioni necessarie”. Milano. Alla “Cattolica” il primo Master d’Italia in Psicologia penitenziaria affaritaliani.it, 25 febbraio 2020 Il Master in Psicologia Penitenziaria e? unico nel panorama formativo accademico nazionale in collaborazione con il Provveditorato Regionale della Lombardia. A Milano è nato il primo Master in Psicologia Penitenziaria d’Italia. Una nuova offerta formativa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore della città meneghina. Il Master in Psicologia Penitenziaria e? unico nel panorama formativo accademico nazionale. In Italia non esistono altri percorsi formativi che preparano il corsista a svolgere il ruolo e le funzioni dello psicologo in ambito penitenziario. Il programma didattico risulta improntato alla multidisciplinarieta? e sara? in grado di offrire la trasmissione del sapere, sia teorico che pratico, da parte di professionisti impegnati sul campo ai piu? elevati livelli. Il piano didattico innovativo offre l’opportunita? di uscire dall’aula e organizzare alcune lezioni direttamente presso il contesto d’interesse, ossia gli istituti penitenziari. Ai sensi della normativa ministeriale i partecipanti saranno esonerati dall’obbligo di crediti Ecm per gli anni concomitanti alla frequentazione del master. Il Master si configura come un percorso specifico per gli psicologi che intendono operare in ambito penitenziario. Attraverso una formazione che prevede l’uso di percorsi integrati di apprendimento dati dall’alternanza di momenti teorici e gruppali, esperienze sul campo, didattica on-line ecc.., il Master si propone l’obiettivo di fornire un’articolata e ampia preparazione nell’ambito della Psicologia penitenziaria, con particolare attenzione allo sviluppo degli strumenti necessari per svolgere attivita? di valutazione, osservazione e trattamento dei detenuti;supportare gli operatori e programmare interventi di accompagnamento al cambiamento istituzionale;sviluppare nuove progettualita? di intervento e di lavoro in e?quipe. Il Master in Psicologia penitenziaria è realizzato in collaborazione con il Provveditorato Regionale della Lombardia, al fine di garantire ai frequentanti la possibilita? di esperire le differenti realta? penitenziarie. Perche? un Master in Psicologia penitenziaria e profili criminologici? Lo abbiamo chiesto alla Direttrice del Master Emanuela Saita. “Sebbene la figura dello psicologo penitenziario (“ex art. 80”) sia, ad oggi, solo “tratteggiata”, il “contesto carcere” pone quotidianamente alla scienza psicologica articolate e complesse domande relative sia alla valutazione sia alle prospettive trattamentali del detenuto, vanno inoltre considerate le questioni inerenti il supporto agli operatori penitenziari. La peculiarita? degli interventi psicologici entro la realta? intramuraria non autorizza ad un uso generico della strumentazione psicologica, le caratteristiche di questa istituzione condizionano il soggetto sia sotto il profilo intrapsichico che comportamentale e influenzano le dinamiche professionali di coloro che vi operano; piuttosto si rende necessario l’utilizzo di metodologie di intervento specifiche, cioe? adatte alle problematicita? della esperienza detentiva, ai moventi e alle azioni che hanno determinato tale esito, alla progettualita? per il futuro entro e fuori dal carcere, ai ruoli e all’identita? dei professionisti penitenziari. In questa ottica il Master in Psicologia penitenziaria e profili criminologici, nella sua prima edizione, si propone di selezionare e preparare professionisti di eccellenza che vogliono sviluppare le conoscenze e le abilita? necessarie ad operare nell’ambito penitenziario” Quali sono le maggiori criticità riscontrate nelle carceri italiane e qual è il compito di uno psicologo penitenziario? Le maggiori criticità riguardano i detenuti con disagio psichico e disturbi psichiatrici non diagnosticati. Difficile includerli in attività trattamentali convenzionali. Quali sono le problematiche maggiori riscontrate nei carcerati non italiani? I reclusi stranieri, soprattutto nord africani, presentano frequenti comportamenti autolesivi ed un più elevato rischio suicidario, difficile da identificare e gestire se non parlano italiano. Palermo. Teatro in carcere, una mostra racconta i quattro anni della compagnia “Evasioni” Quotidiano di Sicilia, 25 febbraio 2020 Una mostra fotografica per raccontare i quattro anni di lavoro svolti all’interno del carcere Pagliarelli di Palermo dalla compagnia teatrale Evasioni. “Dove abita il teatro”, è il nome del progetto fotografico curato da Francesca Lucisano, che sarà possibile ammirare dal 26 febbraio dalle ore 10 e fino a domenica 1 marzo da Minimum, che si trova in via Giacalone, 33. “Il processo creativo, seguito dalla sua genesi fino all’approdo della rappresentazione teatrale, equivale a una catarsi, una rigenerazione dell’uomo che trova nel potere della parola e nella forza del gesto i frammenti del suo essere soggetto sociale. Il progetto non è solo il documento visivo di un processo creativo, ma un frammento di una epifania esistenziale potente nella sua unicità” spiega Francesca Lucisano. Il progetto è finanziato dall’assessorato alla Famiglia, alle politiche sociali e del lavoro della Regione Sicilia - Ministero della gioventù e del servizio civile nazionale. “Il Teatro che percorriamo ogni giorno costruisce relazioni e produce bellezza umana” afferma Daniela Mangiacavallo. Il 25 e il 26 febbraio inoltre, a Palermo, all’interno del carcere Pagliarelli si svolgerà un incontro tra i partner italiani del progetto “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”. Il piano prevede una formazione professionale sui “mestieri del Teatro” dentro il carcere, secondo la metodologia e il modello della compagnia della Fortezza diretta da oltre 30 anni da Armando Punzo nel carcere di Volterra. Sono 10 le associazioni partner che operano nelle carceri italiane. Bologna. Shiatsu in carcere: così nasce il progetto “Non solo mimosa” di Sabrina Servucci cure-naturali.it, 25 febbraio 2020 Stefania Ferri ha incontrato lo Shiatsu alla fine degli anni 70 e si è sempre impegnata per far entrare questa tecnica nei luoghi di cura. Nella casa circondariale di Bologna “Non solo mimosa” è il progetto rivolto alle detenute. Lo shiatsu, allora, può diventare un servizio, un contributo alla comunità in cui si vive come atto importante di impegno civile e di gratitudine. Per questo Stefania si è impegnata in particolar modo a far conoscere lo shiatsu nei contesti dove si svolgono “relazioni di cura”, focalizzando la sua attenzione alle problematiche connesse ai comportamenti devianti e deviati della persona. Il carcere di Bologna è uno di questi luoghi. Parlaci del Progetto “Non solo mimosa”… È stato promosso nel 2014 dalla Consigliera Comunale Mariaraffaella Ferri, allora Presidente della “Commissione delle Elette” del Comune di Bologna (oggi “Parità, pari opportunità e Diritti”), insieme a Claudia Clementi, Direttrice della Casa Circondariale e dalla Dott.ssa Laganà, allora Garante per i diritti delle persone private della libertà. “Non solo Mimosa” è pensato per la salute e il benessere fisico e psicologico delle donne detenute nella Sezione femminile del carcere bolognese e vede attualmente coinvolte numerose associazioni e singole professioniste di vario genere che offrono, oltre a una simbolica mimosa il giorno dell’8 marzo quando si va in visita, una concreta e ampia programmazione di attività dedicate alle donne e al tema della detenzione. Il Progetto “Non solo Mimosa” ha visto la luce iniziando proprio con un laboratorio di shiatsu, poi è stato ampliato con Podologia e Riflessologia con l’obiettivo di coinvolgere il più ampio numero di detenute. Lo shiatsu raccoglie in sé il significato di Contatto, Sostegno, Protezione e Ascolto, elementi che non sono solo circoscritti alla pressione con le mani durante un trattamento. Contestualmente esprimono anche una qualità empatica fisica, energetica, emozionale e spirituale di comunicazione non verbale e non violenta con l’altro. Qualità queste che mi permettono di poter accogliere e integrare nel gruppo di lavoro persone di lingue e culture diverse e soggetti più fragili, come i soggetti psichiatrici detenuti nell’Articolazione (un’area presente nella Sezione Femminile). Inizialmente la maggiore difficoltà è stata quella di rompere la diffidenza non solo delle detenute ma delle Assistenti di Guardia, poiché senza il loro supporto non avremmo potuto comunicare e informare dell’attività le donne che non parlano italiano. Non è stato semplice stimolarle, motivarle e toglierle dal torpore dei giorni tutti uguali ma già dai primi incontri le partecipanti aumentavano di numero e tutte le praticanti si ponevano in una condizione di ascolto percettivo e disponibilità, con un atteggiamento di fiducia e di cura, di reciproco “maternage”. È stato quindi possibile costruire insieme un percorso di conoscenza, percezione e consapevolezza corporea, insegnare alle partecipanti a utilizzare strumenti utili nella gestione e nel contenimento di stati fisici ed emotivi come stress, tensione, rabbia, ansia e dolore, anche fisico, che possono emergere in una condizione di “chiusura”, come quella in cui si vive all’interno del carcere. Non è facile alienarsi dal contesto in cui si pratica, il carcere, e sono consapevole della particolare condizione che queste donne vivono, quindi agisco con massimo rispetto e cautela nel condurle in luoghi profondi del loro sentire, a contatto con la loro anima. Qui e ora. Nel Qui e Ora possiamo toccarci e guardarci negli occhi senza imbarazzo e senza il bisogno di parole, qui e ora nascono spontanei il sorriso e un autentico abbraccio affettuoso, libero da pregiudizi, che porto con me ogni volta che torno a casa. Libera. Chi sono le donne che hai incontrato? Donne di ogni età, dalle ventenni alle ultrasessantenni. Alcune sono italiane ma prevalentemente si tratta di straniere - ad esempio donne sudamericane “usate” senza scrupoli nel traffico della droga - donne dell’est, rom. Molte di loro sono afflitte da un alto grado di ansia e depressione, spesso utilizzatrici di psicofarmaci; ci sono tossicodipendenti che mi seguono benissimo e attuano un percorso di crescita che fa ben sperare. Non tutte sono provenienti da situazioni di degrado o da ceti meno abbienti, ci sono anche donne che hanno compiuto errori o sono state coinvolte, forse per ingenuità, in attività illecite legate al loro lavoro. Sono, guardando al loro passato, preoccupate per il loro futuro ma hanno maturato maggiore consapevolezza; “approfittano” della molteplicità degli strumenti messi a loro disposizione non solo per crescere interiormente ma anche per imparare, per ottenere nuove competenze, personali, relazionali, formative, da utilizzare un giorno all’esterno. Alcune seguono corsi universitari, vogliono diventare avvocati o psicoterapeuti. Io spero in un carcere educativo e riabilitativo, non meramente punitivo come rischia di accadere oggi in molti luoghi di detenzione. Conseguentemente, tutte le attività che propongo vanno in questa direzione perché ritengo che lo shiatsu sia in grado di supportare una profonda trasformazione nelle persone, educandole e rendendole maggiormente consapevoli di ciò che sono e delle azioni che mettono in pratica. C’è un incontro che ti ha più colpito? In questo contesto ogni storia è unica, talvolta lacerante ma ho fatto la scelta di non chiedere troppo circa le motivazioni che le hanno condotte in carcere, per rispetto, per riservatezza e per non essere condizionata da un eventuale giudizio nei loro confronti. A proposito del pre-giudizio e del condizionamento che possiamo subire, anche inconsciamente, posso invece raccontare un episodio che mi è capitato. Prima di una lezione, mentre stavo entrando nella piccola palestra dove mi aspettava il gruppo, vengo avvicinata da un’assistente di guardia che, sottovoce, mi chiede se posso ammettere una detenuta dell’Articolazione, l’area psichiatrica della Sezione Femminile. Il fare “guardingo” dell’assistente mi turba un po’ ma acconsento incuriosita. Si presenta una ragazza molto giovane con due grandissimi occhi neri, spalancati, che mi scrutano fissi da capo a piedi. Non è molto alta, ma ha una stazza “ben piazzata”. Noto un filo di agitazione nelle altre partecipanti, come la superficie dell’acqua che si increspa appena con un lieve soffio e immediatamente decido di fare coppia con lei, evitando qualsiasi eventuale scena di imbarazzo. Tutte le donne si mettono a coppie e cominciamo a praticare. Ogni tanto, mentre tratto la ragazza, lei fa gesti inconsulti come per attirare l’attenzione e, all’improvviso, emette una possente e inquietante risata, poi si acquieta e, infine, si addormenta. Al termine del trattamento si solleva un po’ stranita e mentre mi giro per rispondere a una richiesta, mi prende alle spalle cingendomi il collo con le sue braccia forti. Per un attimo ho sospeso il respiro, mi sono irrigidita e ho pensato a vie di fuga, poi lei mi ha dato un tenerissimo bacio. Mentre io mi ero lasciata inconsapevolmente condizionare dalle circostanze e dal vissuto delle varie persone coinvolte, lei voleva solo ringraziarmi per lo Shiatsu che aveva ricevuto! Mi dice, inoltre, che nessuno l’aveva mai trattata in tutta la sua vita con tanta gentilezza e affetto. Questa ragazza è stata poi tra le più assidue, appassionate e attente praticanti di Shiatsu che io abbia incontrato in carcere. Solo in seguito lo psichiatra che la segue, stupito delle sue positive reazioni, mi ha raccontato la sua raccapricciante storia personale e famigliare fatta di abusi e violenze subite in un contesto degradato. In quali altri progetti ti sei impegnata con questa stessa motivazione? Dal 1995 al 2013 ho promosso e coordinato iniziative per l’assistenza e il recupero di tossicodipendenti nei Sert, nei Centri Diurni, in case protette (piccole comunità) e nel reparto di “Disintossicazione, Diagnosi e Cura” di una struttura convenzionata di Modena. Nel 1996 ho attivato un progetto pilota all’interno dell’Unità Operativa di Neuropsichiatria Infantile e Centro Regionale per i Disturbi del comportamento alimentare (Dca) del Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna, per il trattamento di anoressia e bulimia. In seguito agli eventi sismici del maggio 2012 sono stata promotrice di “Tocchiamo il cuore dell’Emilia” a San Felice sul Panaro lavorando in una casa di cura psichiatrica. Cosa ti auguri per il futuro? Penso che lo shiatsu sia una disciplina che può avere un forte ricaduta sociale, basta anche solo pensare ai comportamenti virtuosi che suscita e ai molteplici progetti di volontariato sparsi sul territorio italiano e nel mondo, che erogano migliaia di trattamenti a costo nullo per la comunità migliorando la qualità della vita delle persone. Lavorando in molti contesti e spesso in strutture sanitarie, sono frequentemente a contatto con professionalità di ogni tipo; ho sempre cercato di essere molto chiara sul tipo di intervento che propongo e non l’ho mai messo in contrapposizione o in sostituzione di altre tipologie di trattamenti o terapie. Negli anni lo Shiatsu si è fatto strada e ha conquistato la fiducia di questi professionisti. Nonostante le mie positive esperienze e quelle di tanti altri colleghi, penso che sia necessario l’impegno di tutti gli shiatsuka per riuscire a far comprendere e apprezzare i vantaggi di questa straordinaria Disciplina, perché gli attuali modelli organizzativi, i protocolli, il concetto di salute e soprattutto la cultura dominante, ostacolano la realizzazione di reali interventi integrati e sinergici dove la persona è posta al centro del proprio progetto vitale. La “dittatura” della vittima ha cambiato il diritto: l’assoluzione è diventata un’offesa di Davide Varì Il Dubbio, 25 febbraio 2020 “Il diritto penale totale”, di Filippo Sgubbi. Il “paradigma vittimario” è usato contro giudici e avvocati creando una pericolosa degenerazione del diritto. “La vittima è l’eroe moderno, ormai santificato. L’abuso del paradigma vittimario frutto del diritto penale emozionale e compassionevole, ha fatto si che lo stato di vittima sia diventato desiderabile nello Stato di oggi”. È uno dei passaggi, e forse neanche il più duro e diretto, del libro di Filippo Sgubbi “Il diritto penale totale”, edizioni Il Mulino. Un testo che non fa alcuno sconto, che mira dritto al cuore del problema senza timori né riguardi. E la chiave di volta del testo di Sgubbi, avvocato e professore nelle università di Cagliari, Bologna e Roma, è proprio quel termine: “totale”: “Totale perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua”. Totale, inoltre, perché da decenni la politica e la società civile sono convinte che ingiustizie e mali sociali possano trovare una soluzione solo ed esclusivamente nel diritto penale. Ed è questo il motivo per cui la giustizia è diventata il centro della vita politica e l’epicentro delle scosse che di volta in volta minano la tenuta di governi e maggioranze: vedi il recente scontro sulla prescrizione e sulla riforma del processo penale. E così Filippo Sgubbi ci aiuta a mettere a fuoco il vero nodo, quel groviglio tra politica e giustizia che è più di un’osmosi: non un confronto dialettico tra pari, quanto una sottomissione della prima nei confronti della seconda. Perché quel grido “vogliamo giustizia”, (e torniamo alla teoria del “paradigma vittimario) urlato nelle aule dei nostri tribunali e usato come arma contundente contro quei giudici che si permettono di assolvere o non infliggere “pene esemplari”, riecheggia nelle stanze dei Palazzi della politica e diventa centro, manifesto e proclama di gran parte dei partiti. E così accade che il processo “sia chiamato a cercare colpe prim’ancora che cause”. Nasce in questo modo “una nuova forma di ricerca processuale del capro espiatorio e nel contempo un nuovo tipo di processo politico dovuto alle pressioni politico- sociali”. Non solo, “la voce intimidatoria delle vittime, adeguatamente amplificate dai media, - spiega Sgubbi - trascende l’ambito risarcitorio e vorrebbe poter determinare la sanzione, chiedendo pene più severe. E trascende perfino l’ambito del processo con la richiesta anche di sanzioni penali sociali extrapenali”. E, seguendo Sgubbi, possiamo senz’altro dire che la “dittatura” del “paradigma vittimario” arriva a giustificare anche le minacce a quegli avvocati che osano difendere i diritti degli imputati. Se nelle visione distorta di media e pubblica opinione il processo non è più ricerca di cause e responsabilità ma mero dispensatore di pene esemplari, allora l’avvocato difensore diventa necessariamente “complice” insieme al giudice che non punisce in modo “adeguato”. Con buona pace del diritto, delle garanzie e della democrazia stessa, la quale, spiega Sgubbi, “è travolta dagli stessi inconvenienti caratteristici dei processi politici di ogni tempo”. Ma la dittatura del “paradigma vittimario” è solo uno degli argomenti sezionati da Sgubbi. Con la stessa efficacia e durezza Sgubbi ci parla di “tipicità postuma”, di “reati percepiti”, fino ad affrontare il binomio “puro/ impuro” che ha sostituito quello di “innocente/colpevole”. “La responsabilità penale si può allora spiegare anche con le categorie puro/impuro, come nella visione selvaggia del peccato”. Secondo Sgubbi il reato e la colpa sono infatti uno “stato” che precede la commissione di un fatto. Una sorta di peccato originale che macchia fin dall’origine alcune “caste”, quella politica su tutte. Ma questa degenerazione del diritto colpisce tutti, anche chi si è ritrovato a urlare “giustizia” chiedendo pene esemplari. Perché “nel diritto penale totale il cittadino si presenta solitamente inerme e con scarso potere difensivo”. Immerso in un Medioevo che ha contribuito a generare. E all’improvviso siamo diventati i monatti d’Europa di Gennaro Malgieri Il Dubbio, 25 febbraio 2020 L’amaro e spaventoso senso della solitudine. Una domenica trascorsa ad inseguire motivi di vita, mentre intorno si assiepavano dinieghi, rifiuti, richieste di sigilli, perfino militari, alle nostre frontiere. E mentre i motivi di vita si rarefacevano ora dopo ora, accompagnati da apprensioni crescenti man mano che le notizie affogavano la resistenza psicologica in un torbido lago di premonizioni, svaniva una certa idea di umana solidarietà che mi rimbalzava nella mente affollata dalle pagine manzoniane. Agonizzanti e monatti, senza nessuna pietà intrecciavano una danza macabra tra giornali stropicciati accatastati sul tavolo, notizie in affanno, aggiornamenti continui. Poi alcune grida, disumane come sanno essere quelle che invocano protezione, incuranti delle ambasce dei propri vicini. Dalla Francia, dall’Austria, ai Paesi dell’Est (quelli a cui non risparmiammo le carezze pericolose del nostro dolore, tanti anni fa), e perfino alle Mauritius, abbiamo sopportato increduli l’intimazione della chiusura dei confini “a prescindere” per i nuovi lebbrosi. E capisco così che quest’Europa non può davvero essere la mia Europa. Perfino nel vortice di un momento dannato è lecito attendersi una mano tesa. Ho sentito, invece, il risentimento latino e quello slavo nel mettere in guardia tutti i governi dall’offrire un briciolo di solidarietà a chi probabilmente si è fatta male da sola, alla mia nazione, piegata dal malsano vento cinese spirato da Wuhan. E guardando il cielo increspato non di nuvole grigie, ma di rancori mai immaginati, di egoismi imprevisti, di accese parole prive di virtù civili, ho capito che l’Europa non esiste. Per carità, la signora Marine Le Pen può stare tranquilla: nessun untore italiano attraverserà le Alpi per turbare la serenità francese. “Oggi o domani potrebbero essere necessari controlli alle frontiere”, ha sentenziato l’esponente del neo-patriottismo transalpino. E, se non fosse stata abbastanza chiara, ha aggiunto: “Il governo deve essere in grado di prevederlo e preferisco che faccia di più o troppo che non abbastanza. Al momento non ha fatto abbastanza visto che consente i voli dalla Cina”. E chi potrebbe negarglielo. Ma avremmo gradito che spendesse qualche altra parola sul dolore in cui è immerso il nostro Paese, a prescindere dal fatto che il suo governo tiene ancora in piedi il sistema di voli con Pechino. Sospettiamo per affari. Da parte nostra cercheremo di dare il minor disturbo, così anche Salvini, che le ha dato ragione, sarà contento. Ma che discorso: è ovvio che i controlli sono indispensabili; quanta finezza, quanta eleganza nell’intimare l’adozione di un provvedimento che era ed è nell’ordine delle cose. Vorremmo ricordare alla signora Le Pen che quando in Francia si è registrato il primo decesso causato dal Covid- 19 (la vittima un turista cinese ultra ottantenne), l’Italia se n’è rammaricata, ma non ha intimato aut-aut, e adesso apprezza la notizia data dal ministro della Salute Olivier Véran secondo il quale il suo Paese si sta preparando ad aumentare “il numero di laboratori dotati di test diagnostici per poter arrivare a condurre diverse migliaia di analisi al giorno e su tutto il territorio, contro i 400 di oggi”. Ed eccessivo ci è sembrato il blocco della circolazione ferroviaria deciso dal governo di Vienna tra l’Austria e l’Italia dopo che un Eurocity proveniente da Venezia e diretto a Monaco era stato fermato al Brennero per la presenza a bordo di due casi sospetti di Coronavirus. Forse occorrerebbe una misura diversa, più sobria, nel valutare pericoli di infezioni. La Romania, nazione amica, ha disposto, la quarantena obbligatoria per tutte le persone in arrivo dalla Lombardia e dal Veneto o che siano stati nelle due regioni italiane negli ultimi 14 giorni. Di fronte alle centinaia di contagiati in Italia, ai pazienti in rianimazione, a coloro che non ce l’hanno fatta, a quanti sono in quarantena, a tutti quelli che temono di ammalarsi, alle famiglie divise tra Sud e Nord che non sanno come e quando potranno ricongiungersi, vorremmo che l’Europa “sana” o meno acciaccata fosse più vicina non tanto con gesti concreti - si può fare poco - quanto con sentimenti e atteggiamenti semplicemente più umani, a meno che la disumanità non sia necessaria... La solitudine di domenica vorrei che fiorisse nel tempo stretto di una settimana in un campo di solidarietà. E che l’Europa, per una volta almeno, si ritrovasse non su ciò che solitamente non c’è, la politica, ma nello sguardo sconcertato e affaticato di ricercatori, medici, biologi che insonni lavorano perché una Nazione torni al più presto a vivere. La “vendetta” del Sud sul Nord: non vi vogliamo di Fulvio Bufi Corriere della Sera, 25 febbraio 2020 Il cartello con la scritta “Non si affitta a settentrionali” per adesso gira soltanto sui social e sui gruppi WhatsApp dove tutti sono bravi a ironizzare con il virus degli altri. Però se va avanti così, prima o poi si rischia di trovarlo anche affisso su qualche portone di un paese qualsiasi al di sotto del Garigliano. Perché di fronte alla paura del contagio, sono in tanti a scoprirsi salviniani al contrario, pronti ad adottare una improvvisata politica di respingimenti, con gli indesiderati che stavolta non arrivano dall’Africa ma dalla Lombardia e dal Veneto. I primi a muoversi in questo senso sono stati sei sindaci ischitani, rimessi subito in riga dal prefetto di Napoli che ha annullato l’ordinanza con la quale vietavano lo sbarco sull’isola a turisti provenienti dalle due regioni dove si è maggiormente sviluppata l’infezione. “Non ci sono i presupposti giuridici per un provvedimento del genere - spiega al Corriere il prefetto Marco Valentini - e compito delle istituzioni, in un momento del genere, è mantenere la calma e l’equilibrio, non fare inutili fughe in avanti”. Fughe che però ci sono state comunque. In Basilicata il governatore Vito Bardi ha disposto la quarantena per gli studenti lucani che rientrano da Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria e Emilia Romagna. Regioni elencate pure dal sindaco di Gravina di Puglia, Alesio Valente, che ha invitato chiunque intenda entrare in paese provenendo da quelle zone a comunicarlo telefonicamente alla polizia locale, fornendo nome, data di arrivo e indirizzo di dove si intende soggiornare. Insomma, che si tratti di connazionali o concittadini non fa molta differenza: se stanno dove il Covid-19 ha attecchito è meglio che ci restino, sembra essere l’auspicio di chi da quelle aree è lontano centinaia di chilometri. In Irpinia, per esempio, nessuno ha accolto con piacere i due insegnanti fuggiti da Codogno prima che scattasse la quarantena, e che ora l’isolamento obbligato lo stanno facendo a casa loro, dove avranno tutto il tempo di leggere la valanga di insulti ricevuti su Facebook. E peggio ancora è andata a una comitiva di turisti provenienti proprio da Lombardia e Veneto (ma non dalla zona rossa) che a Benevento si sono visti cancellare dal titolare dell’albergo le prenotazioni fatte nelle scorse settimane. Perché, pure se non c’è nessun cartello, in certi posti adesso davvero non si fitta a settentrionali. Ecco perché la sindrome della Grande Paura ci rende ombre senz’anima di Giorgio Villa* Il Dubbio, 25 febbraio 2020 I più scettici - e non solo gli ipocondriaci - hanno sobbalzato quando sabato scorso è stato sospeso il campionato di calcio in Lombardia e in Veneto. Tutti si sono detti: ma, allora, siamo in un pericolo serio, se perfino Codogno diventa d’un tratto il paese più noto d’Italia! E sono corsi a comperare le mascherine per il viso e a fare incetta di pasta, frutta e carne. Non si sa mai. I complottisti (ovvero paranoici lucidi) argomentano che è tutta una manovra pilotata dalla Cia per ridurre lo strapotere economico della Cina o anche è un astuto stratagemma creato da una Spectre cinese e finalizzato a sfruttare il rebound economico post crisi. Da un punto di vista psicoanalitico ricordo che i testi più sociologici di Freud sono stati composti a cavallo della Prima Guerra Mondiale, il primo evento che ebbe una ripercussione mondiale quasi generalizzata. Basti pensare che la famosa pandemia di Febbre Spagnola (una influenza da Mixovirus) che sterminò fra il 1919 e il 1922 almeno cento milioni di persone nella sola Europa, fu così denominata perché nel vecchio continente solo i giornali spagnoli non erano sottoposti a censura, giacché la Spagna fu estranea al conflitto. Erroneamente si diffuse l’idea che il morbo provenisse dalla Spagna e non, come sempre, dall’Oriente. Ciò dipende dalla maggiore pressione demografica e dai flussi migratori che hanno portato l’umanità a colonizzare il pianeta compiendo un curioso percorso che, partito dall’Africa, ha raggiunto l’Asia e, da qui, andando verso Occidente, l’Europa. D’altro canto la misteriosa entità della causa patogena è sempre alla base delle grandi pestilenze del passato. Che sia la peste descritta da Tucidide nella Grecia classica di Pericle, o la peste della metà del Trecento che dimezzò la popolazione europea, o l’epidemia misteriosa che afflisse Londra alla fine del regno di Elisabetta I, o la peste lombarda del secondo decennio del Seicento descritta dal Manzoni, o il disastroso colera che ridusse ad un quarto in pochi anni la popolazione di Napoli a metà del Seicento o anche il tremendo colera (ancora lui!) descritto da Jean Jono ne L’ussaro sul tetto nella Provenza di metà Ottocento… ebbene in tutti i casi siamo di fronte a un grave evento infettivo che determina una straordinaria mortalità. Nel palazzo Abbatellis a Palermo è conservato uno stupefacente affresco che ritrae gli effetti tremendi provocati da una Morte indiscriminata che si abbatte su ricchi e poveri, su potenti e indigenti. Uno scheletro spietato cavalca un cavallo spettrale che calpesta una incredibile varietà umana caratterizzata da una appartenenza sociale che la Morte rende, d’un tratto, ridicola. È proprio questo carattere universale che colpisce e che ci permette di esaminare gli effetti psicologici sulla popolazione in generale. La vita è pericolosa e ciò genera, a tratti, una paura di cui diventiamo consumatori, correndo il rischio di vedere nella paura una forma diffusa di intrattenimento (Franco Arminio). Una ulteriore risposta è quella volta a individuare gli ipotetici responsabili del male, isolarli e ritualmente eliminarli come veri e propri Capri Espiatori. Questo processo di trasferimento del male è stato magistralmente illustrato ed esemplificato da René Girard che ha mostrato come neppure una raffinata cultura potesse impedire a un intellettuale come Guillaume de Machaut, di individuare negli ebrei gli avvelenatori di fiumi all’origine della pestilenza del Trecento e, quindi, di portare al rogo centinaia di poveracci. L’eliminazione dei Pharmakòi greci, la pratica dell’ostracismo, la caccia alle streghe su su fino alla Storia della Colonna Infame del Manzoni, mostrano il bisogno profondo dell’umanità di utilizzare una procedura di trasferimento del male (e, quindi, dell’ansia) dalla collettività a pochi individui. La difesa depressiva fa sì che la vitalità si restringa e non si compiano più tanti gesti e occupazioni che riempivano la nostra vita. Non si esce, non si vedono amici e parenti, si cessa anche di portare al parco il cane, uscendo solo per pochi minuti, sotto casa, naturalmente con la mascherina. Si tratta di una vera e propria vita catacombale che ricorda le fasi della nostra vita che seguono i grandi lutti. È un po’ come se noi stessi diventassimo delle ombre e la nostra immagine ci viene restituita dagli specchi come se fosse fuori fuoco. Tutto ciò è spesso un residuo post epidemico che colpisce molte persone che trovano straordinarie difficoltà a riprendere la vita cosiddetta normale. Il prevalere delle difese ossessive era alla base della costruzione dei Lazzaretti e delle norme di Quarantena in epoca prescientifica. Naturalmente tutto ciò non aveva nessuna incidenza positiva rispetto al fine di arginare il male, anzi talora ne aumentava la diffusione. Allo stesso modo, accanto alla salutare indicazione a lavarsi spesso e accuratamente le mani, si vanno diffondendo pratiche bizzarre del genere: non cambiarsi gli abiti usati ritenuti indenni, come argomentava proprio ieri un mio paziente che pensava, invece, fossero contaminati i vestiti provenienti dalla lavanderia o dal guardaroba; lavarsi le mani con l’aceto; mangiare almeno sette spicchi di aglio crudi al giorno; recitare il Rosario quotidianamente e così via. Nelle epoche segnate dalle pandemie trionfano, poi, le difese ipocondriache e non è un caso che i primi segni di surmenage siano registrati proprio dai Medici di Medicina Generale che sono letteralmente “presi d’assalto” dai propri assistiti terrorizzati al solo pensiero di avere un accenno sintomatologico sospetto. In questi periodi critici assumono un aspetto saliente tutte le “difese” paranoiche, depressive, ossessive insieme a quelle ipocondriache. Occorre osservare che, tuttavia, di fronte ad una emergenza reale vengano meno molti aspetti deteriori legati alla quotidianità, cosiddetta normale. Cessano i balletti della politica, gli insulti fra maggioranza e opposizione, le performance balorde di un uomo di spettacolo o, comunque, pubblico. Sembra, quindi, di essere calati più concretamente nel Registro del Reale, con una netta attenuazione della chiacchiera e della fantasticheria vacua. La paura ha, quindi, un lato positivo e dinamico e può attivare straordinarie energie volte alla cooperazione, le uniche, a ben vedere, che possono evitare che il singolo sprofondi nel panico. Vi è, comunque, una difesa economica e meravigliosa ad un tempo. Si tratta della difesa che il Boccaccio rese immortale con il suo Decameron. Di fronte alla paura possiamo sempre ricorrere alle risorse della fantasia e della narrazione, non solo perché ciò ha un evidente effetto consolatorio, ma soprattutto perché ascoltare e raccontarsi delle storie stimola la nostra capacità di condividere i momenti di sporgenza della esistenza e di sviluppare la risorsa neotenica dell’aver fiducia, di sperare sempre che un nuovo e migliore mondo sia possibile. *Psichiatra e Psicoterapeuta Perché i social network creano dipendenza? di Andrea Daniele Signorelli La Stampa, 25 febbraio 2020 Fare ricadere la colpa sugli utenti è scorretto: Facebook e gli altri sono progettati per tenerci incollati agli schermi. Quanto tempo riuscite a stare senza controllare lo smartphone e i social network? Stando agli studi che si sono susseguiti sul tema, la risposta è quasi certamente: poco, molto poco. In Italia, le persone utilizzano lo smartphone in media per due ore e mezzo al giorno. Un 20% di utenti arriva anche a quattro ore e mezzo. Un tempo lunghissimo, suddiviso in una miriade di brevi intervalli: secondo uno studio di Deloitte, attiviamo il display del telefono 47 volte al giorno; altre ricerche arrivano a conteggiare fino a 80 attivazioni quotidiane. Se prendiamo per buono quest’ultimo dato (ed escludiamo le ore trascorse a dormire), significa che non riusciamo a stare più di 12 minuti senza prendere in mano il telefono e dare un’occhiata a Facebook o Instagram. Sono numeri che fanno impressione, ma che riflettono l’esperienza di ciascuno di noi: lo smartphone è sempre al nostro fianco, le notifiche continuano ad accumularsi e resistere alla tentazione di controllarle immediatamente è difficilissimo. È per questa ragione che si parla di dipendenza da smartphone e social network, un termine che però non incontra il favore di tutti gli esperti: “Le ricerche indicano che solo una piccola minoranza di individui è dipendente dai social network nello stesso modo in cui altri possono esserlo dal gioco d’azzardo o dall’alcool”, spiega a Gizmodo Mark Griffiths, docente di Dipendenze comportamentali alla Nottingham Trent University. “La maggior parte delle persone che utilizza massicciamente i social media le descriverei come utenti abituali, più che dipendenti”. Per parlare correttamente di dipendenza è infatti necessario che si verifichino conseguenze molto serie: l’attività in questione deve diventare la più importante della nostra vita e compromettere le attività lavorative, scolastiche o sociali. Detto questo, alcuni elementi che riguardano la dipendenza si ritrovano facilmente anche nell’uso massiccio di smartphone e social network, in particolare - come spiega Ofir Turel, esperto di Neuroscienze alla University of Southern California - “i falliti tentativi di autoregolarne l’uso”. Il punto più importante, però, è un altro: “Parlare di dipendenza localizza il problema nell’individuo (...) invece che nella progettazione del dispositivo stesso”, specifica Jenny Radesky, pediatra dell’Università del Michigan. “Penso sia importante enfatizzare che il problema si risolverebbe più facilmente cambiando il design dell’ambiente digitale piuttosto che chiedendo a ogni individuo di resistere a prodotti che sono creati appositamente per essere coinvolgenti a livello ottimale”. Proprio per questa ragione, Jenny Radesky preferisce utilizzare il termine “engagement-promoting” (incentivazione al coinvolgimento), che attribuisce la responsabilità dell’abuso dei social network ai veri responsabili: designer e produttori. In poche parole, non sono gli utenti a essere incapaci di resistere alle sirene di Facebook e Instagram: sono i social network e gli smartphone a essere progettati appositamente per ottenere questo risultato. Per farlo - come ha più volte sottolineato Tristan Harris, ex designer di Google e oggi in prima fila nella denuncia di questi sistemi - sono stati mutuati gli stessi meccanismi delle slot machine o delle macchinette del poker. A spingerci a controllare in continuazione le notifiche non è solo il nostro bisogno di socializzare e connetterci con altre persone, ma soprattutto, come spiega ancora Griffiths, “la imprevedibilità e casualità delle ricompense che riceviamo all’interno delle piattaforme social”. Ricompense che si presentano sotto forma di notifiche, messaggi o altro e che sono in grado di stimolare la produzione di dopamina. Per questa ragione “anche solo l’anticipazione di una di queste ricompense può essere psicologicamente o fisiologicamente piacevole. È ciò che gli psicologi chiamano ‘programma di rinforzo variabilè ed è una delle principali ragioni per cui gli utenti di social network controllano in continuazione il loro smartphone”. Da questo punto di vista, un ingrediente fondamentale è stata l’introduzione del like: “Uno strumento molto semplice”, prosegue Griffiths, “ma che ha raccolto enorme successo nel far sì che gli utenti continuino a controllare i social media e che stimola ciò che è stata descritta da alcuni come una brama di conferme”. Ridurre al minimo le notifiche o impostare lo smartphone in bianco e nero può anche essere utile, ma gli unici che possono davvero aiutarci a combattere la dipendenza da smartphone sono coloro i quali l’hanno consapevolmente creata in primo luogo. Se la Cina diventa un’isola di Federico Rampini La Stampa, 25 febbraio 2020 Il mondo sta facendo le prove generali di come vivere senza la Cina. L’Europa le farà su come vivere senza l’Italia? Le conseguenze economiche del coronavirus sono già pesanti. Rischiano di aggravarsi ad ogni impennata del contagio, con le inevitabili misure di quarantena che isolano intere zone del mondo. È cominciato quando Xi Jinping - dopo aver colpevolmente censurato per un mese le notizie - ha deciso di bloccare la vita sociale ed economica di 60 milioni di persone, attorno alla città-focolaio di Wuhan: un importante centro siderurgico e metalmeccanico, definita “la Chicago cinese”. Poi il resto del mondo ha dovuto proteggersi dalla Cina, imponendo un isolamento che cancella dalla mappa terrestre un mercato di viaggiatori da 150 milioni di voli annui. Altri cominciano a prendere provvedimenti altrettanto drastici in casa propria: la Corea del Sud cinge un cordone sanitario attorno a una delle sue maggiori metropoli. Il Giappone scivola verso una recessione. Questo accade dopo due anni in cui l’America aveva già tentato di avviare un decoupling, un divorzio economico e tecnologico dalla Cina. Non solo con la guerra dei dazi di Donald Trump o con le pressioni sugli europei contro il 5G di Huawei. In realtà tutto l’establishment americano, incluso il partito democratico e l’intellighenzia progressista, hanno rivisto radicalmente i propri giudizi sulla Cina di Xi Jinping: sinistra e destra la considerano un rivale minaccioso, la cui ascesa va fermata prima che sia troppo tardi. Il coronavirus è un cataclisma che nessuno poteva prevedere, neppure nei suoi sogni più selvaggi Trump avrebbe immaginato un simile colpo sferrato alla superpotenza avversaria. Sta di fatto che l’emergenza sanitaria accelera quelle prove generali di decoupling o de-strutturazione della globalizzazione. Il clima da guerra fredda, già percepibile l’anno scorso, sta peggiorando. La dice lunga l’incidente diplomatico attorno al Wall Street Journal, culminato con l’espulsione dalla Cina di tre corrispondenti di quel quotidiano. L’antefatto è un editoriale pubblicato nella pagina dei commenti del Wall Street Journal, a firma di uno storico autorevole, Walter Russell Mead. La tesi di Mead - ampiamente diffusa negli Stati Uniti - è che il coronavirus mette a nudo la debolezza di un regime autoritario, che censurando le cattive notizie ha danneggiato il proprio popolo e ha esportato una malattia nel resto del mondo. Il titolo che il giornale ha dato a quell’intervento, “La Cina è il vero malato dell’Asia”, ha fatto infuriare Xi Jinping. Il governo cinese ha accusato il Wall Street Journal di riesumare pregiudizi razzisti dell’Ottocento, il mito del “pericolo giallo”. La reazione di Xi è stata spropositata, con l’espulsione dei tre giornalisti, prontamente condannata dal Dipartimento di Stato americano. È una spirale che nessuno sembra in grado di fermare. Da una parte l’istinto autoritario di Xi lo porta a vedere ovunque complotti contro la Cina, e a reagire peggiorando la propria immagine internazionale. Xi ne approfitta anche per rimangiarsi le promesse fatte a Trump su un aumento delle importazioni agricole dall’America. Sul fronte opposto, negli Usa si rafforza una visione negativa della Cina che sembra precludere un ritorno alla competizione costruttiva dei trent’anni precedenti. Il tono dei commenti sulla stampa americana è sferzante, vedi l’ultimo sul Wall Street Journal a firma del presidente di Next Di gital, Jimmy Lai: “Non c’è vaccino per il coronavirus, ma questa malattia rivela una verità che pone un rischio maggiore per Xi: non c’è cura per il comunismo cinese se non il crollo del partito”. I costi economici? Non si contano più le grandi fiere cancellate per tenere fuori i potenziali visitatori dalla Cina (che comunque verrebbero bloccati agli aeroporti). Apple è stata la prima delle mega-imprese americane ad annunciare un ribasso nei risultati economici, sia per la caduta delle vendite sul mercato cinese sia perché le sue fabbriche cinesi non forniscono la produzione attesa. I settori produttivi cominciano a prendere le misure del danno: dopo i trasporti e il turismo anche l’auto e il farmaceutico, l’elettronica e l’abbigliamento. Perfino chi è scarsamente presente in Cina, non vi ha fabbriche né reti commerciali, scopre che nei propri prodotti sono incorporati componenti che venivano da là e scarseggiano. Trent’anni di globalizzazione, fondati sul dogma dell’apertura dei mercati e della complementarietà, hanno costruito catene produttive e logistiche così complesse che si fa fatica a districare il groviglio, a estrarne la parte cinese e farne a meno. Amazon, che domina il commercio online in Occidente, non sa esattamente quanta parte dei 100 milioni di prodotti che mediamente tiene nei suoi magazzini siano destinati a scarseggiare per qualche interruzione nei flussi dalla Cina. Le prove generali per smontare la globalizzazione ora rischiano di trasferirsi su scala minore anche in Europa, dopo che l’area più produttiva d’Italia è colpita. Le prime reazioni dalla Francia o dall’Austria indicano che rischiamo di diventare i cinesi d’Europa. Le due superpotenze rivali su una sola cosa reagiscono all’unisono. In Cina la banca centrale ha ripreso a pompare credito a buon mercato, e il governo prepara piani d’investimenti pubblici per attenuare la crisi. In America la Federal Reserve è pronta a ridurre nuovamente i suoi tassi, e il Congresso potrebbe varare un bilancio espansivo. L’Italia e l’Europa erano già in stagnazione prima dello shock da coronavirus, hanno bisogno di reagire senza indugi: dopo aver salvato le vite umane bisogna occuparsi del tenore di vita, del lavoro e del reddito di tutti.