Bonafede: emergenza coronavirus, misure di cautela per tribunali e carceri agenzianova.com, 24 febbraio 2020 Il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, informa che le misure messe a punto nel Consiglio dei ministri di ieri per l’emergenza coronavirus sono improntate alla “cautela” che “vale, ovviamente, per la protezione delle donne e degli uomini che lavorano nella giustizia”. Su Facebook il Guardasigilli quindi spiega: “Stiamo predisponendo tutte le norme che attueranno il seguente principio: tutti i magistrati, avvocati, personale amministrativo, polizia penitenziaria e tutti gli operatori della giustizia residenti nei ‘comuni focolaio’ non si recheranno al lavoro nei rispettivi uffici amministrati dal ministero della Giustizia. Il medesimo discorso vale per i cittadini che devono recarsi in udienza in qualità di parti processuali o testimoni”. Inoltre “col dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, abbiamo disposto - prosegue Bonafede - il divieto d’ingresso nelle strutture per tutte le persone che provengono dai luoghi attualmente investiti da episodi di contagio”. E ancora il ministro rende noto che è stata istituita “un’unità di crisi per assicurare il costante monitoraggio dell’andamento del fenomeno”.ùGrazie al coinvolgimento dei presidi medici degli istituti penitenziari, è stato “avviato uno stretto coordinamento con le autorità sanitarie locali”, spiega ancora il guardasigilli che per maggiori informazini rinvia al sito internet https://www.gnewsonline.it. “Oltre che con gli uffici giudiziari, verranno tenuti i contatti, nelle modalità che verranno a loro comunicate, con i Consigli dell’ordine distrettuali dei territori interessati”, aggiunge Bonafede per poi rivolgere un pensiero ai colpiti dal virus: “La mia più profonda solidarietà va a tutte le persone che hanno subito il contagio e alle loro famiglie”. Uspp: “In carcere nessun allarmismo per coronavirus, ma servono interventi adeguati” piacenzasera.it, 24 febbraio 2020 “In Italia ci sono complessivamente oltre 60 mila 700 persone detenute. Gli stranieri sono poco meno di 20mila ed i cinesi ristretti in carceri italiane sono circa 225 secondo gli ultimi dati al 31 dicembre 2019. Non c’è alcun allarmismo circa il “coronavirus”, ma invitiamo il Ministero della Giustizia a predisporre adeguati interventi a tutela delle donne e degli uomini del Corpo della Polizia penitenziaria, in servizio anche presso la struttura del carcere di Piacenza che dista solo pochissimi chilometri dalle città interessate dal virus. “La promiscuità nelle celle - spiega Gennaro Narducci, segretario regionale del sindacato Uspp - favorisce la diffusione delle malattie, specie quelle infette. L’epatite C è tra quelle maggiormente presente nella popolazione detenuta in Italia. Sulla questione pochi giorni fa è intervenuto direttamente da Roma il leader del sindacato Uspp, Giuseppe Moretti, il quale in una nota diretta al Ministro della Giustizia, al Ministro della Sanità e agli uffici superiori del Dap ha espresso la propria preoccupazione per la salute della polizia penitenziaria del carcere delle Novate, affermando che se il dipartimento non fornirà in dotazione l’uso delle mascherine, guanti al personale, gel disinfettante, si farà carico personalmente di acquistare il materiale, aggiungendo di predisporre dei piani di emergenza sanitaria per gli istituti penitenziari”. “Moretti ha detto che la procedura di ingresso in istituto non contempla l’obbligo di alcuna analisi per nessuna persona sottoposta a misura detentiva, ragione per la quale in talune circostanze si verificano anche altre infezioni del personale operante nella struttura penitenziarie, prime fra tutte quella derivanti dai casi di tubercolosi e di epatite. Vorremmo non dover essere noiosi, e non parlare cosi spesso di condizioni di vita indecenti nelle carceri, ma la situazione sta precipitando. L’inserimento della quarta branda in alcuni reparti del nuovo padiglione delle Novate, potrebbe rendere lo spazio invivibile. Nel gioco del poker il bluff è quell’escamotage per cui il giocatore simula di avere in mano carte migliori di quelle reali. Succede lo stesso con i numeri dei posti nelle carceri, la cui capienza regolamentare ha avuto degli aumenti irrefrenabili. Questo vuol dire che i servizi (cucine, docce, scuole, spazi, dedicati ad attività lavorativa) che erano state calcolate per 200/250 persone circa, oggi devono fornire un servizio doppio delle loro possibilità, e con un numero ridotto di personale”. Il segretario della Uspp, Narducci, lamenta la mancata applicazione di misure alternative per i reati minori, che davvero ridurrebbe il sovraffollamento. Aggiungendo una quarta branda alle celle, già raddoppiate, non si supera il problema: il personale sarà sempre più carente, sottoposto a turni massacranti. Vanificando il lavoro dei pochi educatori e assistenti sociali, i detenuti verranno posti nella condizione di vivere sempre più compressi in spazi invivibili. In questo contesto non può che esserci la trasformazione di quei pochi agenti moltiplicandoli per due, cosi riusciranno a stare contemporaneamente nello stesso posto per le varie attività trattamentali”. Intercettazioni, domani l’ok. Regge la tregua nel governo di Emilio Pucci Il Messaggero, 24 febbraio 2020 Un ministro tra il serio e il faceto azzarda una battuta: “Questa storia ha salvato il governo”. Anche un big renziano avalla la stessa tesi: “Resteremo sulle nostre posizioni ma non credo che il confronto proseguirà con lo stesso livore. Anzi”. La crisi di governo per ora è congelata ma potrebbe non essere solo rimandata. Perché da una parte il Pd e il Movimento 5 stelle hanno frenato la caccia ai responsabili, dall’altra Italia viva ha abbassato i toni e andrà avanti su questa linea anche nelle prossime settimane. Strappare in questo momento sarebbe assurdo, la convinzione in Iv.Ecco il motivo per cui il partito non ha votato in Commissione Giustizia alla Camera con le opposizioni sul dl intercettazioni, che ieri ha avuto il via libera e oggi approda in aula. Ed è confermato per ora anche il programma del prossimo Consiglio dei ministri, sempre che non cambi l’agenda dell’esecutivo per l’emergenza sanitaria in atto: sul tavolo del governo dovrebbe arrivare sia il dossier sull’autonomia, con il lavoro del ministro Boccia, sia quello sul Family act della ministra Bonetti. Certo FI, Lega e Fratelli d’Italia hanno protestato perché avrebbero voluto esaminare subito il decreto sul Coronavirus, ma il provvedimento sulle intercettazioni va convertito entro la fine di febbraio, da qui la decisione della maggioranza di andare avanti con i lavori. Il centrodestra commenta: “Assurdo”. Un messaggio distensivo tuttavia è arrivato dallo stesso capogruppo in commissione Giustizia di FI Costa che ha ritirato gli emendamenti sulla riforma della prescrizione. “Non sono urgenti. Ora occorre concentrare l’attenzione su quello che sta succedendo nel nostro Paese”, la posizione degli azzurri. Il calendario tuttavia è confermato, anche se la presidenza di Montecitorio ha fatto sapere che si atterrà alle indicazioni che arriveranno dal Servizio sanitario nazionale (è possibile in questi giorni una informativa dell’esecutivo sul diffondersi del contagio del virus). Per ora comunque niente quarantena per il Parlamento. Alcuni deputati, coinvolti nelle misure del governo perché residenti nelle zone off limits (tra questi, per esempio, il leghista Guidesi, residente a Codogno), non verranno ma un eventuale stop dei lavori verrà deciso solo se la situazione dovesse degenerare. Di sicuro la vita dei partiti è destinata ad essere stravolta. Il 2 marzo, per esempio, era prevista la kermesse degli Stati generali dell’economia di Iv a Milano, appuntamento che dovrebbe perlomeno slittare. Un esponente di primo piano di Italia viva confida pure che la mozione di sfiducia al ministro Bonafede, annunciata per aprile, potrebbe restare nel cassetto. Sulla riforma della prescrizione la battaglia continuerà ma non sarà più uno scontro all’arma bianca. Insomma il clima di emergenza nazionale cambia le carte sul tavolo e l’opposizione che nei giorni scorsi aveva minacciato un ostruzionismo duro sul dl intercettazioni ha riconsiderato la propria strategia. C’è perfino chi comincia a chiedere il rinvio del referendum sul taglio dei parlamentari previsto per il 29 marzo. “L’emergenza è un’altra. Non siamo sulla luna. Niente polemiche, lavoriamo e sosteniamo il premier Conte e il ministro Speranza”, il messaggio spedito da Renzi ai suoi. Mentre nel centrodestra è Berlusconi - ieri ha sentito di nuovo il presidente del Consiglio Conte mentre il vicepresidente di FI Tajani ha incontrato il responsabile della Salute, Speranza - ad aver marcato la distanza dagli alleati: “Niente attacchi in questo momento”, l’ordine impartito agli azzurri. In ogni caso ci sarà la fiducia domani a blindare i numeri dei rosso-gialli con Italia viva che voterà a favore, cosi’ come sul Milleproroghe al Senato (è l’ultimo passaggio). Da Forza Italia armistizio sulle intercettazioni di Liana Milella La Repubblica, 24 febbraio 2020 Il coronavirus cambia anche il destino del decreto intercettazioni in Parlamento. Perché il centrodestra - che pure lo avversa in tutti i modi - s’interroga sulla già programmata strategia dell’ostruzionismo alla Camera per bloccarne l’entrata in vigore entro il 29 febbraio perché teme contraccolpi sul piano dell’immagine. Tant’è che già di mattina Forza Italia, con la capogruppo Gelmini, propone alla maggioranza gli estremi di un patto: rinviare il decreto, lasciarlo decadere reiterandolo per altri 60 giorni, e poi dare spazio al dibattito sul coronavirus. Di pomeriggio, la soluzione cambia e si adegua al deciso niet di Pd e M5S che irridono la proposta. I forzisti consentirebbero, senza ostruzionismo, di far approvare le intercettazioni già martedì, a patto però che il governo, già il giorno dopo, porti subito ín aula il decreto sul coronavirus. Altrimenti il centrodestra si scatenerebbe ugualmente con gli ordini del giorno, da mercoledì in avanti, per bloccare comunque il decreto. Operazione però che potrebbe essere bloccata dal presidente della Camera con la ghigliottina sui tempi parlamentari. Come antipasto, nella riunione domenicale della commissione Giustizia, Fi ha voluto comunque dimostrare che, con l’epidemia in atto, non è il momento degli scontri. Tant’è che il peggior nemico delle intercettazioni, il forzista Enrico Costa, ha ritirato l’emendamento per rinviare al 20211a prescrizione, “che sicuramente avrebbe comportato un lungo dibattito”. E la presidente gríllina Businarolo gliene ha dato pubblicamente atto. Una battaglia dalla quale peraltro si erano già sfilati i renziani che non hanno riproposto il lodo Annibali, identico alla proposta di Costa. Ma cosa succederà oggi? Di certo, dopo il via libera della commissione Giustizia convocata in via straordinaria di domenica in una Montecitorio deserta, il testo andrà nella Bilancio dove la destra vuole verificare l’assenza, che considera anomala, di sufficienti coperture di spesa. Dalle 10 e 30 il decreto poi sarà in aula con la discussione generale. Poi le pregiudiziali di costituzionalità, che ugualmente passeranno senza ostacoli. Infine l’annuncio da parte del governo del voto di fiducia che si terrà, come prassi, dopo 24 ore. I numeri della Camera consentono al governo di non avere problemi. Ma è scontato che l’opposizione è intenzionata a far pagare un prezzo pesante, giocato sull’urgenza di pretendere il decreto sul coronavirus per approvarlo al più presto. E in piena emergenza coronavirus le nuove intercettazioni diventano legge Il Dubbio, 24 febbraio 2020 Il forzista Costa ritira gli emendamenti in materia di prescrizione e la commissione Giustizia dà l’ok alle nuove norme. Oggi il voto alla Camera. Salvini: “Follia parlare di intercettazioni”. “Noi pensiamo che in questa fase debbano essere messi da parte i temi divisivi. Abbiamo pertanto ritirato i nostri emendamenti in materia di prescrizione. In questo momento di fronte al Parlamento ci sono altre priorità”. Parole di Enrico Costa, il forzista che in questi ultimi due mesi aveva messo all’angolo e diviso la maggioranza di governo, di fronte alla nuova emergenza sanitaria ha deciso di fare un passo indietro ritirando gli emendamenti al dl intercettazioni presentati in commissione Giustizia alla Camera. In questo modo la stessa commissione ha dato il via libera al dl Intercettazioni, che stamattina sarà discusso in Aula a Montecitorio. Il provvedimento è già stato approvato al Senato, con la fiducia. “Sono soddisfatta del lavoro svolto oggi e che ha portato alla approvazione da parte della commissione Giustizia del dl sulle intercettazioni, un provvedimento molto importante per lo svolgimento delle inchieste e per la tutela della privacy dei cittadini”, ha dichiarato Francesca Businarolo, presidente della commissione Giustizia di Montecitorio. “Ho apprezzato la scelta di Enrico Costa di ritirare i due emendamenti relativi alla prescrizione che noi avevamo ammesso”, aggiunge. “In queste ore - prosegue - il pensiero di tutti noi va ovviamente alle persone colpite dall’emergenza sanitaria e a tutti coloro che sono in prima linea a contrastarla ma, nel pieno rispetto delle mie prerogative, ho ritenuto di portare avanti il lavoro e di non accogliere la richiesta di interruzione delle opposizioni perché completamente priva di alcuna efficacia. Il senso di responsabilità di ciascuno si dimostra in queste ore stando al proprio posto”. Per Matteo Salvini, invece, “è surreale che domani la Camera discute di Intercettazioni. Ma io mi domando: non sarebbe più normale se Camera e Senato si occupassero di quanto sta succedendo nei nostri paesi e smettessero di litigare sulle Intercettazioni?”. “La prescrizione di Bonafede fa già danni” di Tobia De Stefano Libero, 24 febbraio 2020 Intervista all’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali. “Centinaia di condannati con rito per direttissima potranno essere perseguiti per tutta la vita. Sui legali Davigo dice falsità”. Un giorno appare in tv, pronto a battagliare con i grillini come se fosse un politico di professione, l’altro lo si vede sullo stesso piccolo schermo, impeccabile, rispondere in punto di diritto al magistrato di riferimento dei Cinque Stelle, Piercamillo Davigo. Il principe del foro del “garantiamo” contro l’eroe dei “giustizialisti”. Il presidente dell’unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, è l’avvocato del momento. Ha scritto, manifestato, scioperato e inveito contro la riforma Bonafede, quella che abolisce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La considera un abominio dello stato di diritto che umilia le garanzie dell’accusato e adesso aspetta di capire come andrà a finire la disputa parlamentare dalla quale dipende il futuro del governo giallorosso. Avvocato Caiazza, un pronostico? “Più che quello che penso io, le posso riportare quanto detto da Renzi che due giorni fa è intervenuto alla nostra inaugurazione dell’anno giudiziario”. Prego… “Nella sostanza, che non finirà nel modo auspicato da Bonafede”. Cioè? “Renzi ci ha detto che finirà nell’unico modo che ha un senso dal punto di vista giuridico, con il cosiddetto lodo Annibali, la sospensione dell’efficacia della prescrizione voluta da Bonafede in attesa di una riforma della giustizia che accorci i tempi dei processi”. Vedremo. Intanto dall’inizio del 2020 la nuova prescrizione è in vigore... “Appunto e sta già facendo danni gravissimi. Chi a gennaio o febbraio è stato condannato con rito direttissimo non ha più la garanzia che il suo processo abbia un termine, può essere perseguito per il resto dei suoi anni. E non parliamo di pochi casi, bensì di centinaia al giorno. Ma il danno peggiore sta nel principio di quella norma che umilia le normali garanzie di un indagato e mina le fondamenta dello stato di diritto”. Mi scusi ma lei ha mai parlato di tutto questo con il ministro Bonafede? “Certo, più di una volta. E devo riconoscergli una certa coerenza. Nel senso che qualsiasi argomento gli venga posto lui segue sempre con grande attenzione e poi risponde che è il rappresentante del popolo e che quel popolo gli ha dato il mandato di abolire la prescrizione, senza mai entrare però nel merito della questione che gli è stata prospettata”. Davigo accusa voi avvocati di essere tra le cause principali dei tempi lunghi del processi perché usereste tutti “i trucchetti” del mestiere per arrivare alla prescrizione... “E Davigo dice una cosa falsa, perché con le norme in vigore dal 2006 tutte le istanze di rinvio o impedimento che possono essere proposte dai legali (malattia, astensione, ecc.) comportano la sospensione dei termini di prescrizione. Insomma, se fino a quindici anni fa gli avvocati avevano degli strumenti per portare un processo verso la prescrizione, oggi non ce li hanno più”. Mi scusi, ma vuol dirmi che Davigo ignora queste norme? “Assolutamente no. E visto che non le ignora penso solo che dia una rappresentazione distorta dalla realtà che parte da una visione ideologizzata del diritto. Tant’è che quando lui parla della percentuale altissima di appelli e impugnazioni che ci sono in Italia si dimentica di dire che i tre quarti delle prescrizioni arrivano prima della sentenza di primo grado. Quindi, appelli e impugnazioni degli avvocati non c’entrano nulla”. Resta il fatto che i processi In Italia durano troppo.. “Certo, ma la colpe non è degli avvocati. Bisogna lavorare su altre criticità del sistema”. Ce le dica… “Bisogna per esempio ridurre il numero dei dibattimenti. In Italia si fanno solo dibattimenti e pochi patteggiamenti e riti abbreviati”. Perché? “Perché evidentemente sono poco appetibili, bisognerebbe renderli più “convenienti”... Negli Stati Uniti, per dire, dove l’azione penale è discrezionale, è possibile patteggiare anche per un solo reato, l’omicidio per esempio, mentre la procura rinuncia a perseguirne altri come può succedere per la rapina nella quale è avvenuto l’omicidio. Poi va potenziata la funzione da filtro dell’udienza preliminare”. E perché non si va in questa direzione? “Beh, con il precedente governo (Lega-Cinque Stelle) ci stavamo lavorando, innalzando i limiti delle pene patteggiabili e potenziando il rito abbreviato, con quello attuale mi sembra che invece si stiano facendo passi indietro”. Ma lei crede che basterebbero queste riforme per portare i processi in Italia a una livello di durata ragionevole? “No, ma migliorerebbero di certo la situazione. Poi c’è il vero grande tema, come accennavo prima, cioè quello dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Dovremmo eliminarla? “Già oggi l’azione penale non è obbligatoria in assoluto, nel senso che c’è un potere discrezionale, quello delle procure che decide quali processi hanno la priorità rispetto ad altri e quindi di conseguenza quali vertenze debbano essere indirizzate verso la prescrizione”. Quindi? “Quei pm non rispondono a nessuno di quelle scelte di politica criminale, e questo è democraticamente inaccettabile. Dunque quel potere di scelta deve essere dato al parlamento che dirà di volta in volta quali sono i reati che vanno perseguiti prioritariamente rispetto ad altri, rispondendone davanti al corpo elettorale”. Avvocato, non è che tra poco la ritroviamo in politica? “Guardi, ho avuto diverse volte questa possibilità e non l’ho sfruttata quando avevo 30 anni, si figuri se mi interessa adesso che ne ho più di 60 anni”. Glielo aveva proposto Pannella… “Certo, me l’aveva proposto Marco, ma la mia priorità restava la professione legale. Oggi purtroppo non vedo politici di quel livello. C’è un vuoto di rappresentanza della cultura liberale... un vuoto che per il bene del Paese deve essere riempito nel più breve tempo possibile”. Concorso “pieno” se l’evento diverso cagionato non è stato solo previsto ma anche accertato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2020 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 2 gennaio 2020 n. 4. La responsabilità del compartecipe per il fatto più grave rispetto a quello concordato, materialmente commesso da un altro concorrente, integra il concorso ordinario ex articolo 110 del codice penale, se il compartecipe ha previsto e accettato il rischio di commissione del delitto diverso e più grave, mentre configura il concorso anomalo ex articolo 116 del codice penale, nel caso in cui l’agente, pur non avendo in concreto previsto il fatto più grave, avrebbe potuto rappresentarselo come sviluppo logicamente prevedibile dell’azione convenuta facendo uso, in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, della dovuta diligenza. Così la Cassazione con la sentenza 2 gennaio 2020 n. 4 in una fattispecie nella quale correttamente erano state contestate anche al correo, a titolo di concorso morale, le lesioni provocate materialmente dall’altro correo alla vittima.Risultava dimostrato, infatti, che l’azione era stata programmata per realizzare il sequestro di persona della vittima, per indurla a confessare un furto, e, dinanzi alla resistenza opposta dalla vittima, l’evoluzione dell’azione criminosa era uno sviluppo del quale i compartecipi avevano quantomeno accettato il rischio, considerando le modalità violente della condotta - posta in essere attivamente da entrambi i correi - diretta a sequestrare la persona offesa, costringendolo a salire sull’auto; sicché le lesioni personali erano state, appunto, correttamente ascritte, a titolo di concorso morale, anche al correo, diverso dall’autore materiale delle stesse. In tema di concorso di persone nel reato - È affermazione pacifica quella secondo cui, in tema di concorso di persone nel reato, la responsabilità del compartecipe (cosiddetto “concorso anomalo”) richiede, innanzitutto, l’adesione di tutti a un reato concorsualmente voluto e un evento diverso che costituisce altro reato, voluto e cagionato certamente da uno dei concorrenti nel reato voluto da tutti; si richiede, inoltre, un rapporto di causalità psichica tra la condotta dei compartecipi che hanno voluto solo il reato concordato e l’evento diverso voluto e cagionato da altro concorrente. Occorre, cioè, che il reato diverso deve potersi rappresentare, nei suoi elementi essenziali, alla psiche del concorrente, come sviluppo logicamente prevedibile e possibile del reato concordato e voluto. Da ciò consegue il fatto che, qualora l’evento diverso, materialmente cagionato da uno dei concorrenti, non sia rimasto nella sola prevedibilità, ma sia stato ragionevolmente non solo previsto concretamente, ma anche accettato come rischio pur di realizzare l’obiettivo concordato da tutti, si versa non nell’ipotesi del “concorso anomalo”, ma in quella del concorso “pieno”, atteso il significativo contributo di rafforzamento “morale” all’azione criminosa dell’autore materiale, “appoggiato” dalla consapevole condotta del concorrente nel reato voluto rispetto alla realizzazione dell’evento diverso materialmente posto in essere dal predetto autore di tale reato. In questa ottica ricostruttiva, è altrettanto pacifico l’assunto secondo cui la responsabilità del compartecipe può essere esclusa solo quando il reato diverso e più grave, voluto e cagionato da uno dei concorrenti nel reato voluto da tutti, si presenti come “evento atipico”, dovuto a circostanze eccezionali e del tutto imprevedibili, non collegato in alcun modo al fatto criminoso su cui si è innestato, oppure quando si verifichi un rapporto di mera occasionalità, idoneo a escludere il nesso di causalità. Circolazione: fiducia mal riposta del conducente sui comportamenti altrui è condotta negligente di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2020 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 7 gennaio 2020 n. 138. In tema di reati commessi con violazione di norme sulla circolazione stradale, il principio dell’affidamento nell’altrui osservanza delle norme di cautela trova un temperamento nell’opposto principio secondo il quale l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui purché questo rientri nel limite della prevedibilità. Lo ricorda la Cassazione con la sentenza 7 gennaio 2020 n. 138. Infatti, nella materia della circolazione stradale, il principio di affidamento - che costituisce applicazione di quello del rischio consentito ed è inteso a evitare l’effetto paralizzante di dover agire prospettandosi tutte le altrui possibili trascuratezze - viene meno allorché l’agente sia gravato da un obbligò di controllo o sorveglianza nei confronti di terzi o, quando, in relazione a particolari contingenze concrete, sia possibile prevedere che altri non si atterrà alle regole cautelari che disciplinano la sua attività: ciò che è quanto si verifica nella materia de qua, in ragione del rilievo che il contesto della circolazione stradale è meno definito rispetto, per esempio, a quello di équipe proprio della responsabilità derivante dall’esercizio delle professioni sanitarie, ma anche in ragione dell’ulteriore rilievo che alcune norme del codice della strada estendono al massimo l’obbligo di attenzione e prudenza, sino a ricomprendervi il dovere dell’agente di prospettarsi le altrui condotte irregolari. Da queste premesse, è stato rigettato il ricorso del conducente di un camion coinvolto in un incidente stradale con esito mortale per il passeggero di un motoveicolo, ritenendosi irrilevante la circostanza che il conducente del motoveicolo aveva assunto anche da parte sua una condotta irregolare, sotto il profilo della velocità. Un principio convincente - Principio assolutamente convincente e in linea con l’assunto secondo cui l’utente della strada, nel caso di infortunio subito da un terzo anche per colpa di questi, potrebbe andare esente da responsabilità solo se provi che la sua condotta fu immune da qualsiasi addebito, sia sotto il profilo della colpa specifica, che della colpa generica, sì da presentarsi in tal caso la condotta medesima quale semplice occasione dell’evento. Ciò si spiega in quanto le norme riguardanti la circolazione stradale impongono severi doveri di prudenza e diligenza proprio per fare fronte a situazioni di pericolo, anche quando siano determinate da altrui comportamenti irresponsabili, cosicché la fiducia di un conducente nel fatto che altri si attengano alle prescrizioni del legislatore, se mal riposta, costituisce di per sé condotta negligente: il principio dell’affidamento, infatti, nello specifico campo della circolazione stradale, trova un opportuno temperamento nell’opposto principio secondo cui l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente di altri utenti purché rientri nel limite della prevedibilità (si veda, tra le altre, sezione IV, 20 febbraio 2015, Gennari, nella quale, sulla base di questi principi, la Corte ha ritenuto non erronea la determinazione del giudice di merito, che aveva ravvisato la colpa nell’eziologia dell’incidente a carico del conducente di un autoarticolato, il quale, in violazione delle regole cautelari, non solo si era impegnato nell’attraversamento di un passaggio a livello senza la certezza di poter superare l’area in sicurezza, ma, rimasto il proprio mezzo bloccato a seguito dell’abbassamento delle sbarre del passaggio a livello, aveva contravvenuto all’obbligo di attivazione per evitare il pericolo che il treno sopraggiungesse a binario ingombro e all’ulteriore obbligo di impedire che altro utente della strada, rimasto poi coinvolto nell’incidente mortale provocato dal sopraggiungere del treno, entrasse di propria iniziativa nell’area di transito del treno per cercare di aiutarlo). Le fattispecie di furto aggravato ex articolo 625, comma 1, n. 7 del codice penale Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2020 Reati contro il patrimonio - Furto - Circostanze aggravanti - Nozione di bene pubblico - Accezione in senso funzionale. Risponde del reato di furto aggravato dalla circostanza di cui all’articolo 625, c. 1, n. 7), cod. pen., l’operatore ecologico che abbia rubato il carburante destinato ai mezzi di raccolta dei rifiuti, configurandosi il furto di un bene destinato a pubblico servizio. La Corte ha respinto il ricorso fondato sulla esclusione dal novero degli incaricati di un pubblico servizio di coloro che svolgono mansioni di carattere materiale, come nel caso di specie, ribadendo l’irrilevanza della natura pubblica o privata del soggetto esercente ed accogliendo una nozione di bene destinato a pubblico servizio di natura eminentemente funzionale. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 6 febbraio 2020 n. 5078. Furto - Oggetti lasciati all’interno di autovettura - Aggravante dell’esposizione alla pubblica fede per necessità o consuetudine - Fattispecie. In tema di furto aggravato ex articolo 625, n. 7, c.p. devono ritenersi esposti alla pubblica fede per necessità o consuetudine gli oggetti lasciati, per comodità di custodia o perché di difficile trasporto per ingombro e peso, in autovetture regolarmente chiuse (nella specie, la Suprema corte ha ravvisato l’aggravante de qua in relazione al furto - tentato o consumato - di borse, fotocamere, scatole contenenti scarpe, certificati, tessere varie e mazzi di chiavi, lasciati all’interno di autovetture parcheggiate lungo la pubblica via). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 20 settembre 2019 n. 38900. Reati contro il patrimonio - Furto - Acquedotto comunale - Furto aggravato da impossessamento mediante allaccio abusivo. L’impossessamento abusivo di acqua già convogliata nelle condutture dell’ente gestore, configura il reato di furto aggravato ex articolo 625, n. 7, cod. pen., e non la violazione amministrativa prevista dall’art. 23 del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, che si riferisce invece alle sole acque pubbliche non ancora convogliate in invasi o cisterne. (Nella specie l’imputato aveva prelevato acqua convogliata nell’acquedotto comunale in misura eccedente il limite quantitativo autorizzato). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 12 gennaio 2018 n. 1010. Reati contro il patrimonio - Furto - Circostanze aggravanti - Esposizione alla pubblica fede - Autovettura lasciata incustodita sulla pubblica via con sportelli aperti e chiavi nel cruscotto - Sussistenza dell’aggravante. (Cp,articoli 624e 625, numero 7). In caso di furto di autovettura lasciata incustodita sulla pubblica via, la circostanza aggravante della esposizione per consuetudine alla pubblica fede, non presupponendo la predisposizione di un qualsiasi mezzo di difesa avverso eventuali azioni criminose, sussiste anche se l’autovettura sia stata lasciata con gli sportelli aperti e le chiavi inserite nel cruscotto. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 20 giugno 2017 n. 30730. Reati contro il patrimonio - Furto - Circostanze aggravanti - Cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici - Furto commesso all’interno di una banca - Insussistenza della circostanza aggravante prevista dall’articolo 625 n. 7 cod. pen. - Nozione di pubblico ufficio. In caso di furto commesso all’interno di una banca deve escludersi la sussistenza della circostanza aggravante prevista dall’articolo 625 n. 7 cod. pen. atteso che, ai fini della qualificazione di un ufficio come “pubblico”, rileva esclusivamente la sua destinazione allo svolgimento di una funzione di pubblico interesse o di pubblica utilità perseguita, direttamente o indirettamente, dallo Stato o da altro ente pubblico. (In motivazione la Corte di cassazione ha escluso che la banca possa considerarsi quale stabilimento pubblico, trattandosi di un ente privato che esercita un’attività commerciale destinata alla produzione di un servizio). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 31 marzo 2016 n. 13067. Reati contro il patrimonio - Delitti - Furto - Circostanze aggravanti - Cose destinate a pubblico servizio, utilità, difesa o reverenza - Furto di somme di denaro dai locali delle “poste italiane” - Circostanza aggravante di cui all’articolo 625, comma primo, n. 7 cod. pen. - Ragioni. Integra il reato di furto aggravato (articoli 624e 625, comma primo, n. 7 cod. pen.) l’impossessamento di somme di denaro sottratte dai locali delle “Poste italiane”, attualmente costituenti S.p.A., in quanto il servizio postale ha conservato natura pubblicistica, in ragione dell’interesse squisitamente pubblico che continua a perseguire, con la conseguenza che i locali nei quali detto servizio si svolge assumono la qualifica di ufficio o stabilimento pubblico, nei termini intesi dall’articolo 625, comma primo, n. 7 cod. pen., precisamente in vista della loro destinazione, concernente attività di indiscutibile interesse pubblico. • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 31 ottobre 2011 n. 39257. Toscana. Garante regionale dei detenuti: in campo nove candidati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 febbraio 2020 Le associazioni e i penalisti chiedono che scelta sia fatta in base alle competenze. Dal 24 gennaio, giorno della fine del mandato di Franco Corleone, la regione Toscana è senza Garante dei diritti dei detenuti. Dopo l’ennesima fumata nera, la decisione da parte della prima commissione è stata rinviata a martedì prossimo. C’è un’ampia rosa di nomi candidati come garante, ma c’è una preoccupazione - soprattutto da parte delle associazioni impegnate sul tema carcerario - che tale scelta potrebbe diventare il frutto prettamente politico, senza un confronto aperto e trasparente che tenga conto delle competenze. Proprio per questo motivo le Associazione di tutela dei diritti dei detenuti (Arci Toscana, Associazione Progetto Firenze, Associazione volontariato penitenziario, Diaconia Valdese Fiorentina, Società della Ragione, L’altro diritto), i rappresentanti delle Camere penali di Firenze e di Prato, i Garanti comunali di Firenze e di San Gimignano, hanno inviato una lettera agli organismi preposti e ai consiglieri regionali dove chiedono, appunto, che la decisione sul nome del nuovo Garante sia fatta a partire dalle competenze e dal programma di lavoro presentato, non concordata nelle riunioni di partito. Le associazione hanno scritto, in particolare, al presidente del Consiglio, al presidente della Prima Commissione e ai presidenti dei Gruppi politici per porre la questione urgente della nomina del nuovo Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, sottolineando l’opportunità, oltre che di una celere presa in carico della questione da parte della Prima Commissione, anche di considerare gli indirizzi contenuti nelle Linea d’indirizzo sugli organi di garanzia prima di procedere alla nomina. Ma purtroppo nessuna risposta. Il Consiglio della regione Toscana aveva votato all’unanimità una mozione, il 23 ottobre 2019 scorso, presentata dalla consigliera Serena Spinelli del gruppo misto, in cui si impegnava a valutare le Linee di indirizzo in merito alla disciplina degli organi di garanzia prima della nomina del nuovo Garante, esaminando in particolare le nuove Linee d’indirizzo delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano, già adottate dalla Conferenza dei presidenti dei Consigli regionali, tese a rafforzare le prerogative e le condizioni operative del ruolo del Garante. Ma la mozione non ha avuto seguito, nonostante ci fossero i tempi necessari per esaminare il testo. “Quello che chiediamo - spiega Massimo Lensi, militante radicale e presidente di Progetto Firenze - è che la Regione valuti sulle competenze e non sulla ragion di partito”. Le associazioni, considerando che i tempi per la nomina si stanno allungando a causa di rinvii senza discussione nel merito, hanno chiesto alla consigliera Spinelli di sostenere la sua mozione e di portare nella Prima Commissione la discussione in merito alle Linee d’indirizzo, e in ogni caso di invitare alla sua seduta le persone che hanno presentato le autocandidature e procedere alla loro audizione, in modo che possano esporre il proprio programma di lavoro come eventuali Garanti. La Spinelli non è stata indifferente alla lettera delle associazioni e ha sollecitato la Commissione a indire il prima possibile la riunione e tenere conto, appunto, delle competenze. Molti, come detto, sono i candidati. Esattamente sono nove e martedì la Commissione dovrebbe farne una scrematura. Tra loro c’è il professore Francesco Ceraduo, riconosciuto per essere stato il pioniere della Medicina penitenziaria italiana, che per 40 anni ha diretto, da medico di primissimo ordine, il centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa. Recentemente un gruppo di detenuti di varie carceri toscane hanno inviato una lettera al presidente della regione Enrico Rossi per sostenerlo. La sua figura si è distinta per la sua indipendenza, ma forse questa sua posizione potrebbe essere un problema se l’elezione del Garante regionale dipenda dalle riunioni di partito e non dalla valutazione delle competenze. Roma. Cosa succede se il coronavirus arriva a Rebibbia? di Mauro Leonardi* agi.it, 24 febbraio 2020 La promiscuità assoluta delle prigioni renderebbe rapidissimo il contagio. E non si può evacuare un intero carcere. L’opinione di Mauro Leonardi, prete della Casa circondariale. Cosa accadrebbe a Rebibbia se arrivasse il Coronavirus? Anzi, formulo la domanda all’indicativo, cosa accadrà a Rebibbia quando arriverà il Coronavirus? Da quando sono prete ex. art 17 nella casa circondariale della capitale - all’interno delle mura di cinta, quattro carceri per un totale di detenuti che varia tra i 2000 e i 3000 - non mi era mai capitato di sentir crescere l’angoscia dentro di me entrando e di sentirla ancor più uscendo. Mi è accaduto ieri, per la consueta Messa dove offro il mio servizio, il reparto dei detenuti “precauzionali”: pedofili, autori di femminicidi, ex carabinieri, ex-poliziotti, e così via. Tanti nomi che a loro tempo hanno preso le prime pagine dei giornali e che non vale la pena ripetere ora perché, quando sei lì, quando siamo lì, siamo tutte persone qualsiasi, uomini con il corpo e l’anima nuda. Cosa avviene al Nuovo Complesso, il carcere dove sono volontario, 1.700 detenuti circa, quando arriva l’influenza? Che la prendono immediatamente tutti. Celle da sei con promiscuità assoluta, quasi completa assenza di farmaci, una piccola infermeria, un reparto “protetto” per poche unità al Pertini per i casi più gravi. Tanto per essere chiari, a Rebibbia è persino complicato misurarsi la febbre, tanto scarseggiano i termometri. In genere si conta sulla buona salute degli “ospiti” e ce la si cava, ma se arrivasse il Coronavirus non ci sarebbe scampo. Né per i detenuti, né per le guardie carcerarie, né per i volontari. Quando arriva l’influenza la prendono tutti: tutta la cella, tutto il corridoio, tutto il reparto. Diciamo la verità, in genere non è un enorme problema: passare la maggior parte del tempo in branda purtroppo è per un detenuto una deprecabile consuetudine. Farlo con un po’ di febbre e qualche sintomo è un fastidio, non una tragedia. Ma se e quando dovesse arrivare il Coronavirus (se e quando il Coronavirus arriverà) sarà una tragedia dalle enormi proporzioni. Rischia di essere una carneficina, non esagero. Se si ammalano tutti o quasi tutti i detenuti non c’è alcuna possibilità di isolamento e di cura. Non si può evacuare un intero carcere per evidenti motivi: primo dei quali la necessità che per ogni detenuto ci siano parecchie guardie. E poi dove li porti? Si aprono scenari apocalittici. È urgente che le autorità prendano delle misure affinché il Coronavirus non entri in carcere: a Rebibbia e in ogni altro carcere. Al momento, non esiste alcun controllo sul personale, sugli avvocati, sui parenti che vanno ai colloqui, sui fornitori, sui preti, sui volontari. Non esiste, ancora più grave, alcun controllo sui nuovi arrivi. I nuovi arrestati che, presi ovunque, spesso per strada e sotto i ponti, non sono sottoposti ad alcun tipo di controllo, vengono da vite assolutamente improbabili e potrebbero benissimo essere stati in contatto con il virus. Nessuna di quelle precauzioni che, per dire, sono messe in atto negli aeroporti di Fiumicino e di Ciampino, vengono adottate a Rebibbia. Chiunque di noi arrivi a Rebibbia potrebbe, inavvertitamente, essere il protagonista di una strage. Prima che sia troppo tardi, urge, assolutamente urge, che le autorità prendano dei provvedimenti. Sarebbe bello che qualcuno mi smentisse e dichiarasse che proprio questa mattina, la mattina di domenica 23 febbraio 2020, a Rebibbia sono iniziati dei controlli rigorosi su tutti coloro che varcano la soglia del carcere. Sarebbe bellissimo. Ieri pomeriggio alle 18 non era così. Non aspettiamo. “Cappellano della Casa circondariale di Roma Rebibbia Belluno. Caso Uepe, l’Onorevole De Carlo interroga il ministro della Giustizia Corriere delle Alpi, 24 febbraio 2020 Belluno. Il caso dell’Uepe, l’ufficio esecuzione penale esterna, è rimbalzato da Palazzo Rosso al Parlamento. Il deputato Luca De Carlo ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede per chiedere che venga istituito un ufficio di questo tipo anche a Belluno. Oggi i bellunesi devono recarsi a Venezia per usufruire del servizio. Che è molto importante, visto che si occupa di fare le relazioni per i detenuti che richiedono l’affidamento in prova al servizio sociale. Un servizio essenziale per l’espletamento della funzione rieducativa della pena detentiva. De Carlo si è mosso su sollecitazione del consigliere comunale Raffaele Addamiano, che aveva già portato il tema in aula a Palazzo Rosso a novembre dell’anno scorso. Il suo ordine del giorno era stato approvato all’unanimità. “Ma da allora nulla si è mosso”, spiega Addamiano. La scorsa settimana il tema è stato affrontato in terza commissione consiliare. Era presente il Garante dei detenuti Emilio Guerra, che ha illustrato ai consiglieri la situazione del carcere di Belluno e evidenziato che l’Uepe ha trattato, nel 2019, ben 787 casi bellunesi. Numero che dimostra, spiega Addamiano, la necessità di aprire un ufficio esecuzione penale esterna anche nel capoluogo. Stessa richiesta di De Carlo, che si è rivolto al ministro Bonafede evidenziando che altre province montane, come Bolzano, Trento, Aosta e Cuneo, hanno questo servizio. Belluno no. “Ho chiesto anche che nel frattempo sia permessa la fruibilità di un centro più vicino rispetto a Venezia, Treviso in particolare”, afferma De Carlo. “Avere una risposta positiva su un argomento così delicato sarebbe di fondamentale importanza, in particolare se a dover fruire di determinati servizi sono i cittadini della provincia provenienti dalle aree più marginali, con tutte le relative difficoltà che la montagna comporta”. “Lo stesso Garante dei detenuti ha invitato il sindaco a prendere una posizione decisa”, aggiunge Addamiano. “Basterebbe sollecitare il ministero, abbiamo un documento votato a Palazzo Rosso da far valere”. Per quanto riguarda, infine, la situazione del carcere cittadino, Guerra ha spiegato che non ci sono problemi di sovraffollamento, perché i detenuti sono 88 su 87 posti disponibili. Sessanta stanno scontando la pena definitiva, 28 si trovano in cella come misura cautelare. Napoli. Presentazione del progetto di reinserimento “Accogliere per ricominciare” istituzioni24.it, 24 febbraio 2020 Presenti il cardinale Crescenzio Sepe, il presidente di “Fondazione per il Sud” Carlo Borgomeo, il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello e il direttore della Pastorale carceraria don Franco Esposito. Oggi, lunedì 24 febbraio, dalle 17:00, presso la sede della Pastorale Carceraria in Via Buonomo, 39, la presentazione del progetto alla presenza del Cardinale Crescenzio Sepe. Molto spesso ai margini di una società che non offre una concreta possibilità di reinserimento sociale. Ecco l’esigenza di un progetto in grado di sistematizzare un modello di intervento complesso e multidimensionale a favore dei detenuti ed ex detenuti, offrendo un’opportunità di integrazione con il tessuto sociale che si fonda sul reinserimento lavorativo delle persone con problemi di detenzione in area penale, sulla ricostruzione dei legami familiari e sul soddisfacimento dei bisogni contingenti, come quello abitativo e lavorativo. Parte da Napoli “Accogliere per ricominciare” che sarà presentato Lunedì 24 febbraio dalle ore 17:00 in Via Buonomo, 39 (alla Sanità) presso la sede della Pastorale Carceraria alla presenza dell’Arcivescovo di Napoli, Cardinal Crescenzio Sepe; dal Direttore della Pastorale Carceraria, Don Franco Esposito; dal Presidente di “Fondazione per il Sud”, Carlo Borgomeo; dalla referente dell’associazione “Liberi di Volare”, Valentina Ilardi; dalla Presidente della cooperativa “Articolo 1”, Marina D’Auria; dal Garante delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello. Modera Emanuela Scotti. Il progetto vede il sostegno della Fondazione con il Sud, della Curia Arcivescovile di Napoli, della Fondazione Peppino Vismara, della Fondazione San Gennaro e della fondazione UBI Banca. Le finalità sono ben precise e saranno raggiunte mediante una accoglienza residenziale per i detenuti e la realizzazione di lavoratori artigianali come bigiotteria, falegnameria, grafica, informatica, pittura, cuoio e laboratori combinati. In particolare “Accogliere per ricominciare” è stato realizzato dall’Associazione “Liberi di volare onlus” che gestisce la casa di accoglienza e il centro diurno laboratoriale, dalla Cooperativa “Articolo1” che gestisce il coordinamento delle attività e i percorsi di inserimento lavorativo (bilancio delle competenze e piano di inserimento lavorativo), la Cooperativa “Il Quadrifoglio” che gestisce la comunicazione e gli eventi. Nuoro. “Corsa rosa” per l’8 marzo, un banchetto solidale dei detenuti di Badu e Carros La Nuova Sardegna, 24 febbraio 2020 Rispetto allo scorso anno, e a diversi giorni di distanza dalla data dell’evento, sono stati già venduti 200 kit in più. Ma l’obiettivo, da adesso in poi, è quello di venderne altri 300 per segnare un nuovo piccolo record di vendite nel nome della solidarietà e della lotta contro la violenza sulle donne. All’avvio della sesta edizione della “Corsa rosa” che si terrà domenica prossimo 8 marzo, organizzata, come sempre, dall’Atletica amatori Nuoro presieduta da Tonino Ladu, mancano due settimane ma tra vendita delle magliette e del kit e una valanga di nuovi iscritti, le premesse sin da ora promettono decisamente più che bene.ù E spunta anche qualche nuova adesione del tutto speciale. Un gruppo di detenuti del carcere di Badu e Carros, infatti, proprio in queste ore ha deciso di dare il suo contributo all’evento chiedendo e ottenendo di poter essere presente, il giorno della manifestazione, con un banchetto in piazza Vittorio Emanuele dove i detenuti potranno vendere le loro creazioni. Quelle che hanno realizzato durante i laboratori che organizza l’insegnante Pasquina Ledda. Ci saranno anche loro, dunque, domenica 8 marzo, in piazza, a dare una mano alla causa della Corsa rosa. Il ricavato della “Corsa Rosa” sarà devoluto a tre associazioni: l’associazione L’Isola che non c’è di Nuoro, l’associazione trapiantati Aitf Nuoro-Ogliastra, e l’associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica Nuoro. I kit si possono acquistare in diversi negozi della città ma un punto vendita, nei prossimi giorni, potrebbe essere sistemato anche nella hall dell’ospedale San Francesco. Il medioevo del diritto nel “processo penale totale” di Davide Varì Il Dubbio, 24 febbraio 2020 Il libro di Filippo Sgubbi: duro, tagliente e senza sconti. “La vittima è l’eroe moderno, ormai santificato. L’abuso del paradigma vittimario frutto del diritto penale emozionale e compassionevole, ha fatto si che lo stato di vittima sia diventato desiderabile nello stato di oggi”. È solo uno dei passaggi, e forse neanche il più duro e diretto, del libro di Filippo Sgubbi: “Il diritto penale totale”, edizioni Il Mulino. Un testo che non fa alcuno sconto, che mira dritto al cuore del problema senza timori né riguardi. E la chiave di volta del testo di Sgubbi, avvocato e professore nelle università di Cagliari, Bologna e Roma, è proprio quel termine: “totale”. “Totale perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua”. Totale, inoltre, perché da anni, decenni, la politica e la società civile sono convinte che ingiustizie e mali sociali possano trovare una soluzione solo ed esclusivamente nel diritto penale. Ed è questo il motivo per cui la giustizia è diventata il centro della vita politica e l’epicentro delle scosse che di volta in volta minano la tenuta di governi e maggioranze: vedi il recente scontro sulla prescrizione e sulla riforma del processo penale. E così Filippo Sgubbi ci aiuta a mettere a fuoco il vero nodo, quel groviglio tra politica e giustizia che è più di un’osmosi: non un confronto dialettico tra pari, quanto una sottomissione della prima nei confronti della seconda. Perché quel grido “vogliamo giustizia”, (e torniamo alla teoria del “paradigma vittimario) urlato nelle aule dei nostri tribunali e usato come arma contundente contro quei giudici che si permettono di assolvere o non infliggere “pene esemplari”, riecheggia nelle stanze dei palazzi della politica e diventa centro, manifesto e proclama di gran parte dei partiti. E così accade che il processo “sia chiamato a cercare colpe prim’ancora che cause”. Nasce in questo modo “una nuova forma di ricerca processuale del capro espiatorio e nel contempo un nuovo tipo di processo politico dovuto alle pressioni politico-sociali”. Non solo, “la voce intimidatoria delle vittime, adeguatamente amplificate dai media, - spiega Sgubbi - trascende l’ambito risarcitorio e vorrebbe poter determinare la sanzione, chiedendo pene più severe. E trascende perfino l’ambito del processo con la richiesta anche di sanzioni penali sociali extrapenali”. E, seguendo Sgubbi, possiamo senz’altro dire che la “dittatura” del “paradigma vittimario” arriva a giustificare anche le minacce a quegli avvocati che “osano” difendere i diritti degli imputati. Se nelle visione distorta di media e pubblica opinione il processo non è più ricerca di cause e responsabilità ma mero dispensatore di pene esemplari, allora l’avvocato difensore diventa necessariamente “complice” insieme al giudice che non punisce in modo “adeguato”. Con buona pace del diritto, delle garanzie e della democrazia stessa, la quale, spiega Sgubbi, “è travolta dagli stessi inconvenienti caratteristici dei processi politici di ogni tempo”. Ma la dittatura del “paradigma vittimario” è solo uno degli argomenti sezionati da Sgubbi. Con la stessa efficacia e durezza Sgubbi ci parla di “tipicità postuma”, di “reati percepiti”, fino al binomio “puro/impuro” che ha sostituito quello di “innocente/colpevole”. “La responsabilità penale si può allora spiegare anche con le categorie puro/impuro, come nella visione selvaggia del peccato”. Secondo Sgubbi il reato e la colpa sono uno “stato” che precede la commissione di un fatto. Una sorta di peccato originale che macchia fin dall’origine alcune “caste”, quella politica su tutte. Ma questa degenerazione del diritto colpisce tutti, anche chi si è ritrovato a urlare “giustizia” chiedendo pene esemplari. Perché “nel diritto penale totale il cittadino si presenta solitamente inerme e con scarso potere difensivo”. Immerso in un medioevo che ha contribuito a generare. La disuguaglianza di riconoscimento, l’ingiustizia sociale di cui si parla troppo poco di Alessia Zabatino L’Espresso, 24 febbraio 2020 Quando alcune persone e gruppi non vengono considerati da parte dei policy maker si prepara il terreno alle disuguaglianze economiche e sociali. Perché i singoli e i gruppi non riconosciuti così scompaiono dai disegni delle politiche pubbliche. Il nostro Paese è ingiusto. I dati sulla disparità di reddito, di ricchezza, di accesso ai servizi fondamentali e in generale le disuguaglianze economiche e sociali rendono inconfutabile questa percezione nel senso comune. Sono queste le responsabili dell’ingiustizia sociale? Ne sono sicuramente le componenti più visibili e le più facili da misurare. C’è però una terza dimensione dell’ingiustizia sociale sulla quale poco si dice e su cui quasi nulla si fa, che spesso anticipa le altre due: la disuguaglianza di riconoscimento. Le disuguaglianze di riconoscimento si manifestano quando il ruolo, i valori e le aspirazioni di alcune persone e gruppi non vengono considerati da parte della collettività e dei policy maker. Si prepara così anche il terreno alle disuguaglianze economiche e sociali perché i singoli e i gruppi non riconosciuti non hanno alcun potere negoziale e scompaiono dai disegni delle politiche pubbliche. Pensiamo agli abitanti di quartieri e aree fragili e marginali o ai lavoratori e alle lavoratrici di settori poco presenti nel dibattito politico come il settore agricolo, culturale o quello dell’industria meccanica. Le disuguaglianze di riconoscimento alimentano un senso di esclusione e di mancanza di rispetto per la dignità personale che può generare paure, risentimenti e rabbia, avvicinando le fasce sociali non riconosciute a chi è fautore di politiche autoritarie. Rispetto alle altre forme di disuguaglianza, quelle di riconoscimento sono più difficili da misurare e concettualizzare, per questo appare più complicato intervenire per mitigarle. Appare, ma non lo è: per iniziare, basterebbe attivare processi partecipativi quando si progettano politiche e pratiche per lo sviluppo territoriale e il miglioramento della qualità della vita. Oggi si percepisce spesso un velo di scetticismo sui processi partecipativi, cioè al rapporto binario tra rilevazione dei bisogni e disegno di una risposta soddisfacente. Diversi processi di questo tipo si sono rivelati degli esercizi di stile, nei quali l’innovazione di una risposta soddisfacente è stata connessa più al metodo che alla qualità e all’attuazione degli esiti del processo, riproponendo inoltre le gerarchie sociali dominanti nell’anagrafica dei partecipanti, lasciando fuori le fasce sociali deboli e non riconosciute. È vero anche, però, che i processi partecipativi, a determinate condizioni, hanno avuto e hanno ancora un enorme potenziale di attivazione della visione comune, del desiderio e della capacità di trasformazione delle persone e dei luoghi, rivelano possibilità, costruiscono capacità collettive, cioè opportunità che nascono grazie all’azione congiunta e all’intelligenza collettiva. Alcune storie recenti in Italia lo testimoniano a diverse latitudini. Nel 2004 il piano di gestione dei rifiuti della Regione Sicilia decide che nella Valle del fiume Simeto verrà costruito un inceneritore. Nell’area, già provata da scarichi illegali nel fiume e discariche abusive, la comunità locale si mobilita per controproporre una via diversa per lo sviluppo locale. L’università di Catania, chiamata a supporto, facilita un processo partecipativo che coinvolge centinaia di cittadini in una mappatura di comunità, la quale disegna una rappresentazione condivisa dello stato attuale e del futuro possibile (priorità e progetti) della valle. La comunità locale è talmente compatta in questo percorso che gli amministratori sottoscrivono un Contratto di Fiume, cioè un protocollo giuridico per la rigenerazione ambientale del bacino idrogeografico di un corso d’acqua, come strumento di tutela attiva del territorio. La costruzione dell’inceneritore viene così bloccata e il contratto di fiume apre la strada per una nuova fase di sviluppo dell’area, che ha trovato risorse economiche nella Strategia Nazionale per le Aree Interne e che oggi viene portata avanti dal Presidio partecipativo del patto di fiume Simeto con una leadership di giovani che ha scelto di non emigrare e di dare vita a startup e progetti per la tutela del territorio. Nel 2017, nella provincia di Bari, ActionAid Italia, in collaborazione con Labsus, laboratorio per la sussidiarietà, sperimenta una progettazione partecipata di servizi di welfare comunitario con le braccianti agricole, le amministrazioni locali, alcune imprenditrici e organizzazioni del terzo settore. Il progetto si chiama Cambia Terra e ha l’intento di creare con le braccianti le condizioni per un cambiamento della loro condizione di esclusione socio-economica, attivando anche strumenti per la fuoriuscita dai sistemi illegali di sfruttamento. Il processo di progettazione partecipata fa emergere che basta apportare piccoli cambiamenti a servizi esistenti (come gli orari degli asili) o facilitare l’accessibilità a servizi (come l’assistenza socio-sanitaria) oppure ancora creare dei servizi (come il trasporto verso i luoghi di lavoro) per migliorare la qualità del lavoro agricolo. Il prototipo di Cambia Terra funziona al punto che, con la collaborazione del Consiglio Nazionale per la Ricerca in Economia Agraria, nel 2018 è stato replicato in Cambia Terra Sud che allarga il progetto ad altre aree rurali di Puglia, Basilicata e Calabria. Sono due storie diverse, ma dalla matrice comune, che mostrano come i processi di partecipazione incidano sulle disuguaglianze di riconoscimento perché aprono spazio all’autodeterminazione degli individui e delle comunità ai margini riconoscendo legittimità al loro sguardo, formando capacità progettuale, redistribuendo potere decisionale.nPerché ciò avvenga bisogna però riconoscere che si può lavorare sulle disuguaglianze di riconoscimento solo se si mettono da parte le forme usuali di programmazione e controllo, introducendo buone dosi di flessibilità. I centri urbani sono spaccati al loro interno: disoccupazione, accesso ai mezzi pubblici, scuole e molto altro differiscono immensamente da una zona all’altra. I progetti per cambiare non mancano, ma la politica li ignora. Nei processi partecipativi raccontati si è deciso prima cosa fare e poi come farlo cioè quante e quali risorse economiche usare e quali iter burocratico-amministrativi seguire, inventandone di nuovi se necessario. Questo ha permesso di evitare una predeterminazione degli esiti e una reale attuazione di ciò che il processo partecipativo ha generato. Inoltre si riconosce una persona o un gruppo non solo se si invitano a partecipare, ma quando i tempi e i luoghi della partecipazione sono per loro comodi e si prende in considerazione ciò che esprimono al pari di un sapere tecnico, dando loro il tempo di vivere a fondo spazi di libertà di espressione e dunque anche di confronto e conflitto. Così le politiche e le azioni co-progettate fanno lievitare il senso di comunità e la fiducia. Per tutte queste ragioni, una delle 15 proposte per la giustizia sociale del Forum Disuguaglianze Diversità riguarda il disegno e l’attuazione di strategie di sviluppo “rivolte ai luoghi” nelle aree fragili e nelle periferie basate su una forte partecipazione di tutti gli abitanti, combinando il miglioramento dei servizi fondamentali con lo sviluppo economico e nuove opportunità date da un utilizzo giusto e sostenibile delle nuove tecnologie. Diverse amministrazioni si sono alleate per l’attuazione della proposta, i lavori sono in corso, nuove storie stanno per arrivare. Migranti. Ius culturae, chi cerca di demolire la legge va contro la Costituzione di Renata Polverini Il Riformista, 24 febbraio 2020 Caro direttore, come certamente saprà sono la presentatrice della proposta di legge sullo “ius-culturae” che, tra mille difficoltà, sta finalmente percorrendo il suo iter in Parlamento. L’altro ieri Galli della Loggia ha firmato in prima pagina sul Corriere della Sera un lungo articolo nel quale, pur senza mai citarmi, commenta questa iniziativa provando a demolirla con argomenti tanto assurdi quanto pretestuosi. Il professore considera la proposta di concedere la cittadinanza - al compimento di un intero ciclo di studi - ai ragazzi nati in Italia, contraria al sentimento prevalente degli italiani che, evidentemente, deduce dai consensi che i sondaggi assegnerebbero a Salvini e a quanti sostengono le tesi sovraniste sul rischio di una immigrazione incontrollata. Tante volte siamo stati rimproverati, come legislatori, di agire sotto l’impulso della piazza ma mai mi era capitato di essere accusata del contrario, e questo, si badi bene, mentre si denuncia, come fa l’autore, “la vista corta” della classe politica italiana. Ma c’è di peggio; il professore ci chiede di “guardare avanti” ma propone metodi didattici per questi ragazzi (campeggi estivi, concorsi culturali, soggiorni presso prestigiose scuole Militari, ecc.) che sembrano avere lo sguardo rivolto all’indietro quantomeno di una ottantina di anni. Infine trovo incompatibile con la nostra Costituzione e con la concezione di uno Stato di diritto e liberale la considerazione di Galli della Loggia circa il fatto che l’osservanza della religione islamica possa, anzi debba, in qualche modo compromettere il riconoscimento della cittadinanza italiana. Per rafforzare questo incredibile concetto l’autore fa l’esempio di genitori di religione islamica che hanno costretto (costretto, appunto) i propri figli a seguire tradizioni tribali o religiose tipiche di altre culture e Paesi. Insomma, il classico caso in cui le colpe dei padri (cioè l’attaccamento a tradizioni che nel nostro Paese possono arrivare a costituire anche un reato) debbano ricadere inevitabilmente sui figli, ancorché questi pratichino ed anelino diversi stili di vita. Con queste motivazioni e con un malcelato disprezzo per il ruolo che la scuola svolge nel nostro Paese, il professore liquida una proposta sulla quale, invece e per fortuna, convergono tanti parlamentari ma, soprattutto, gran parte del mondo del volontariato e del terzo settore che si occupa di diritti dei minori e di integrazione. Personalmente nutro maggiore fiducia sia nei ragazzi e nella loro, a volte disperata, volontà di integrarsi, sia nella nostra scuola; che non sarà forse più maestra di vita ma che rappresenta un’istituzione fondamentale per forgiare e realizzare una nuova cittadinanza. Migranti. Ecco perché la sentenza su Carola è un assist a Salvini di Astolfo Di Amato Il Riformista, 24 febbraio 2020 La lettura della motivazione della sentenza della Corte di Cassazione, che ha escluso la legittimità dell’arresto di Carola Rackete, può suscitare le seguenti connessioni di pensiero: il Giudice è soggetto solo alla legge = il Giudice è la Legge = il Giudice è come il Marchese del Grillo, la cui celebre frase suona così “che ci volete fare: io so’ io e voi non siete un c…”. Come è noto Carola Rackete al timone della nave Sea Watch, con a bordo alcuni migranti salvati in mare, nella notte tra il 28 e 29 giugno ha deciso di entrare nello scalo portuale di Lampedusa, violando l’alt dato dalla Guardia di Finanza e rischiando lo schiacciamento contro il molo di una motovedetta della stessa. Arrestata, siccome in flagranza di reato, il Gip del Tribunale di Agrigento non convalidò l’arresto. La Cassazione ha ritenuto che quella decisione fosse pienamente legittima. Le riflessioni che sono immediatamente sollecitate dalla lettura della motivazione sono essenzialmente tre. Esse muovono da una preliminare considerazione. In questo caso il tema non era se Carola Rackete meritasse o no la sanzione penale, ma se gli organi di polizia avessero o no agito correttamente nell’arrestarla. La prima è che la decisione della Corte di Cassazione sembra porre a carico delle forze di polizia una valutazione in ordine alla esistenza o no di controverse condizioni per la operatività della scriminante. Anche l’adempimento di un dovere richiede, come ogni altra scriminante, una valutazione di proporzionalità. Per fare un esempio estremo, ma comprensibile, l’adempimento del dovere avrebbe legittimato Carola Rackete ad uccidere qualcuno? Si tratta di valutazioni complesse e che richiedono analisi non superficiali, del tutto inconciliabili con i tempi, i criteri, i poteri che hanno le forze di polizia. Le quali si sono trovate di fronte alla violazione di un alt ed allo speronamento di una loro motovedetta. Di qui evidenti perplessità sulla pretesa illegittimità della loro condotta. La seconda riflessione, ancora più rilevante, è che gli effetti scriminanti dell’adempimento di un dovere sono considerati, nella decisione, in modo del tutto astratto, ideologico, senza alcuno specifico riferimento alle condizioni reali, in cui si trovavano i migranti e senza alcuna considerazione della circostanza che al momento del salvataggio in mare segue una fase procedurale. Manca una adeguata valutazione della possibilità di considerare un luogo sicuro, in quel momento e con le esistenti condizioni di mare, la Sea Watch, tenuto conto dei trasbordi effettuati sino a quel momento delle persone bisognevoli di cure e dell’assistenza prestata alla nave. La motivazione esprime, in definitiva, non già una valutazione in ordine alla concreta situazione in essere nel momento, in cui è stato eseguito l’arresto, ma una astratta presa di posizione meramente ideologica, che nulla ha a che fare con il momento giurisdizionale. La terza riflessione è che una presa posizione da parte dei supremi Giudici, cosi smaccatamente ispirata da motivazioni di ordine ideologico e politico, appare solo utile a fornire ulteriore alimento alla ventata populista che sta attraversando l’Italia. Migranti. Minniti: “I decreti Sicurezza da cambiare del tutto. In Libia navi militari” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 24 febbraio 2020 “Svuotare i Centri con corridoi tra Tripoli e la Ue”. Missione militare navale e corridoi umanitari per affrontare la crisi libica, modifica radicale dei decreti sicurezza. Marco Minniti - l’ex ministro dell’Interno indicato dal vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermans come “mediatore ideale tra le parti in conflitto” - non usa mezzi termini per indicare la strada da seguire. Matteo Salvini chiede la chiusura di porti e frontiere per il coronavirus… “Al di là di inaccettabili strumentalizzazioni, quanto sta accadendo ci impone di avere una strategia verso l’Africa che contrasti con fermezza i canali illegali, i trafficanti di esseri umani, è costruisca canali legali, controllati dal punto di vista sanitario d’intesa con le nazioni unite e l’Oms. Più in generale non sottovaluto il pericolo della destra radicale e il nazional populismo. E per questo dico che bisogna svuotare i giacimenti di consenso a queste forze politiche con un’imponente operazione riformista”. Modificando i decreti? “Apprezzo molto la ministra Lamorgese. Quei decreti vanno profondamente cambiati perché hanno creato le condizioni per una profonda insicurezza. La strada è obbligata: bisogna tornare all’accoglienza diffusa e ripristinare la protezione umanitaria. Un vero piano di integrazione passa per la gestione di piccoli gruppi di persone. In questo modo sí superano le diffidenze e si smonta un pezzo importante della fabbrica della paura”. L’opposto di quanto fatto da Salvini al Viminale… “La protezione umanitaria tiene le persone nella legalità, impedisce che diventino preda della criminalità. L’integrazione non è un riflesso caritatevole, ma è il cuore delle politiche di sicurezza. Chi meglio integra è più sicuro. Basta alzare lo sguardo e vedere quello che succede nel resto dell’Europa. Sono principi ineludibili non si deve avere timore che il popolo non le capisca”. Vuol dire che l’opinione pubblica non conta? “Esattamente l’opposto. Una coalizione, un partito deve essere molto preoccupato quando ritiene che i propri principi siano impopolari. Se così fosse questo colpirebbe al cuore la funzione di un partito. Partiamo dai principi per tornare al popolo attraverso le politiche concrete”. La coalizione mostra di avere numerosi problemi… “L’azione di governo non può essere prigioniera di rendite di posizione. Un sistema o un esecutivo che si affida alle “utilità marginali” non fa gli interessi del Paese”. Pensa che Italia viva uscirà dalla maggioranza? “Non credo sia questo il problema. Ma non può essere tutto tattica, un vecchio saggio cinese molto prima di Cristo parlando dell’arte della guerra diceva: la strategia senza tattica è la via lunga per la vittoria; la tattica senza strategia è la via più breve per la sconfitta”. L’Italia ha una strategia per la Libia? “Deve averla, ma deve averla soprattutto l’Ue. Noi stiamo assistendo a un radicale cambiamento geopolitico nel Mediterraneo. Il ruolo di primo piano di Russia e Turchia in Libia costituiscono un cambiamento epocale con cui bisogna fare fino in fondo i conti. Nessuno in Europa può accettare una nuova Siria a poche decine di miglia dalle nostre coste. E una gigantesca sfida sulla quale ci giochiamo un pezzo decisivo del nostro futuro. Sarebbe un drammatico errore se “democrazie riluttanti” lasciassero ai cosiddetti “sistemi forti” il compito della sicurezza e della stabilizzazione del Mediterraneo”. Come si affronta? “La conferenza di Berlino ha segnato un primo passo, ora si tratta di essere coerenti con quello che si è firmato. E venuto il momento di chiudere per sempre il doppio forno delle diplomazie nascoste, in stretto rapporto con l’Onu e con la risoluzione del consiglio di sicurezza”. Come? “Bisogna far partire la missione navale che controlli il Mediterraneo centrale per bloccare il traffico d’armi. L’Europa non deve aver paura di garantire una presenza militare. In questo momento nel Mediteranno centrale e orientale ci sono presenze imponenti di Paesi non dell’Unione europea Anche la Nato deve porsi il problema di avere una strategia su queste questioni. Non dimentichiamo che la Turchia è un’importante Paese Nato. L’Europa, la comunità internazionale devono comprendere che possono essere strette dentro una tenaglia fatta da due formidabili strumenti di pressione: il blocco dei pozzi petroliferi e i flussi migratori. Siamo a un passo dall’allarme rosso”. A che cosa si riferisce? “Una Libia destabilizzata e con una permanente guerra civile a bassa intensità può diventare un rifugio sicuro per i foreign fighters e produrre una gigantesca emergenza umanitaria. La stessa presenza di milizie turco siriane con una storia jihadista incontrandosi con la realtà libica, potrebbe portare ulteriori elementi di radicalizzazione. Secondo le Nazioni Unite già adesso ci sono più di 200 mila sfollati. A partire potrebbero essere dunque gli stessi libici. Per questo quel Paese va aiutato anche nella dimensione umanitaria. I centri di accoglienza ufficiali vanno svuotati attraverso una missione europea. Corridoi per mettere in sicurezza i migranti esposti a una guerra civile e aiutino il popolo libico”. Anche scatenando proteste e polemiche in Italia? “Non stiamo parlando di grandi cifre, tantomeno impossibili per l’Europa. Si tratta di avere una visione strategica che tenga insieme il profilo militare, profilo umanitario, protagonismo del popolo libico”. Pensa che trattare con Al Sarraj e Haftar sia sbagliato? “Penso che bisogna avere il coraggio di andare oltre. È evidente che non si può prescindere da loro, ma la Libia anche quella attuale, è molte altre cose. In una società in cui l’unico elemento di tenuta in tutti questi anni è stato garantito dalle tribù, penso sia necessario coinvolgere i sindaci. Sono loro che in qualche modo rappresentano il popolo che paga il prezzo più alto al conflitto. Una grande assemblea dei rappresentanti del popolo libico”. L’Italia ha sbagliato a rinnovare il Memorandum? “No, così come ha fatto bene a chiedere modifiche. Il problema più delicato è che nelle more c’è stata una piccola novità: Tripoli ha firmato un trattato di cooperazione militare con la Turchia che, temo, ha cambiato la gerarchia delle influenze politiche nella capitale libica”. L’Europa della disumanità: chiusa ai migranti ma vive la tendopoli di San Ferdinando di Gioacchino Criaco Il Riformista, 24 febbraio 2020 Apparteniamo all’Europa della disumanità, quella che conta ventimila esseri umani seppelliti nelle acque torbide del mare Antico. Che cancella all’unanimità la missione Sophia perché era diventata un fattore di attrazione per i migranti, che, nonostante il nome di una bambina annegata, non aveva nulla di umano: nata per distruggere e disarticolare in terra africana i mezzi di trasporto di un’umanità transumante, una flotta di navi che per il solo fatto di esserci avrebbe potuto tirar su un po’ di naufraghi, in vigenza del divieto di salvazione per le Ong. Il ministero degli esteri italiano saluta con successo la fine della missione Sophia e annuncia la nascita di una nuova missione: lo spostamento delle pattuglie europee un po’ più a est, dirimpetto alla Libia controllata da Haftar, per impedire al generale il rifornimento di armi: come a dire ai libici che dovranno scannarsi accontentandosi delle armi che gli costruiamo e arrivano via terra o via mare a ovest. Si è passati da un labile segnale di umanità a un segno tangibile di indifferenza: si anneghi fuori dagli occhi, si muoia lontano dal cuore. E sulla terra nostra si continui a morire di fatica, si continuino a distruggere i labili segni di umanità e si consolidino le prove del cinismo. Si distruggano ad esempio gli approcci umani di Riace, distruzione perpetratasi sotto tutti i colori governativi, e si mantengano le spoglie cimiteriali delle tendopoli di San Ferdinando. C’è un mondo aperto che lasciamo ai migranti, colorato e profumato da arance, clementine, pomodori, kiwi. Ci sono i campi di cotone in cui cantare e morire per portare sulle nostre tavole beni a prezzi abbordabili. Nelle piane del Sud non si sentono più le note degli idiomi meridionali: non ci sono più le tabacchine nel Salento, le olivetane nella Piana di Gioia. I serpenti del gelsomino sono spariti da sotto l’Etna e le gelsominaie della Locride non cantano più l’amoroso inganno al loro principe: ottomila fiori servivano per fare un chilo, le campionesse raccoglievano cinque chili per notte, quarantamila gemme bianche staccate delicatamente una a una in una fatica che andava dal tramonto a un’alba profumata di fiori e impuzzolentita dal sudore. La disumanità da noi non sparisce mai, si sposta da una schiera a un’altra per restare uguale e abbrancare la disperazione. Sophia cambia nome per restare la stessa, medesima aberrazione. In Europa ogni volta che nasce un labile segno di umanità si corre sempre al riparo per farlo diventare, correttamente, ciò che è: l’ennesimo, consueto, simbolo della disumanità di cui non vogliamo liberarci, se non per individualità che legalmente si porteranno alla sbarra. Gran Bretagna. Inizia il processo di estradizione agli Usa di Julian Assange di Antonello Guerrera La Repubblica, 24 febbraio 2020 Al via il primo ciclo di udienze che dureranno fino al 28 febbraio (poi si riprenderà a maggio per arrivare a una prima sentenza appellabile probabilmente a settembre). L’accusa principale è di cospirazione. Quale sarà il destino di Julian Assange? Oggi si apre ufficialmente il processo di estradizione agli Usa del fondatore di Wikileaks, oramai da quasi dieci anni in stato di reclusione o auto-reclusione dopo le accuse - poi cadute - di violenza sessuale in Svezia, il lunghissimo autoesilio nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, l’arresto della polizia londinese lo scorso 11 aprile dopo che Quito e il nuovo presidente Lenin Moreno lo avevano definitivamente scaricato e ora la richiesta ufficiale di estradizione da parte di Washington. Che non gli ha mai perdonato le rivelazioni di Wikileaks, il sito che nel 2010 pubblicò una valanga di esplosivi cablogrammi dell’esercito e delle istituzioni Usa, come riguardo la guerra in Iraq e in Afghanistan. Documenti rubati dall’ex soldato statunitense Chelsea Manning e passati ad Assange. Per questo ora gli Stati Uniti vogliono il 48enne Assange e sbatterlo in galera per moltissimo tempo: secondo i difensori di Assange, si tratterebbe di un ergastolo “che praticamente sarebbe una condanna a morte”. L’accusa principale è di cospirazione - con Chelsea Manning - per ottenere illegalmente e pubblicare informazioni classificate. In tutto, sono 18 capi di accusa per cui l’australiano potrebbe essere condannato, qualora estradato negli Usa, fino a 175 anni di carcere. Per i suoi detrattori, Assange è un hacker, magari pure con possibili e torbidi rapporti con la Russia dopo lo strano caso delle email del partito democratico americano pubblicate da Wikileaks (e arrivate non si sa come) durante la campagna del 2016, cosa che favorì Donald Trump nella sua corsa alla Casa Bianca. Per i suoi sostenitori, invece, tra cui diversi vip come gli artisti Brian Eno, Roger Waters e Vivienne Westwood ma anche politici laburisti come il vice di Corbyn John McDonnell o l’economista greco Yanis Varoufakis, Assange è un martire della libertà di espressione e di stampa, che sta pagando a carissimo prezzo la pubblicazione di file importantissimi “affinché il mondo fosse a conoscenza delle manovre e delle azioni belliche degli Stati Uniti”. In questi giorni, per il primo ciclo di udienze del processo di estradizione da oggi fino al 28 febbraio (poi si riprenderà a maggio per arrivare a una prima sentenza appellabile probabilmente a settembre), Assange sarà sempre presente in aula al tribunale Woolwich Crown Court, alla periferia est di Londra, poco lontano dal carcere di Belmarsh dove è rinchiuso dallo scorso aprile. La richiesta di estradizione degli Stati Uniti è già stata formalmente approvata dal governo britannico, ma deve essere validata dalla giustizia di Londra. Come ha raccontato a Repubblica qualche giorno fa suo padre, John Shipton, “Julian fisicamente mi sembra molto magro, peserà una cinquantina di chili. Ha qualche problema alle spalle e ai denti. Ma il vero problema è la sua condizione mentale. Assange in questo modo potrebbe davvero essere torturato fino alla sua morte, dopo nove anni di torture psicologiche e false accuse quotidiane. Julian vive da 9 anni spiato in ogni momento, anche in bagno. La sua colpa: soltanto di aver cercato di condividere col pubblico informazioni fondamentali per capire il mondo di oggi e che cosa fanno oggi i nostri governi, tra terribili omicidi di massa e crimini su crimini. Mi ha detto che quando sarà libero farà il cammino di Santiago de Compostela”. Qualche giorno fa, in una pre-udienza del tribunale londinese di Woolwich dove Julian Assange affronterà da oggi il processo di estradizione, i suoi avvocati hanno sostenuto che nell’agosto del 2017 il presidente americano Donald Trump avrebbe fatto al fondatore di Wikileaks una proposta indecente: “Qualora Julian avesse fornito pubblicamente prove del non coinvolgimento della Russia nella pubblicazione delle email segrete del partito democratico durante la campagna elettorale americana del 2016”, poi vinta da The Donald, il presidente “avrebbe promesso di graziarlo”. Secca la smentita della Casa Bianca. Un altro mistero dell’infinita saga di Julian Assange.