Nelle carceri minorili ci sono 350 giovani: è minimo storico di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2020 L’associazione Antigone ha presentato venerdì il suo Rapporto periodico sulla giustizia penale minorile dal titolo “Guarire i ciliegi”, alla presenza del Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, Gemma Tuccillo, e della componente del collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Daniela De Robert. Lo ha fatto simbolicamente all’interno della Comunità Borgo Amigó, fondata dall’ex cappellano dell’istituto per minorenni di Casal del Marmo a Roma, padre Gaetano Greco, che accoglie ragazzi sottoposti a misure penali. Oltre a un’elaborazione dei numeri e delle tendenze dell’intero sistema, l’associazione ha raccontato il proprio viaggio nelle carceri minorili d’Italia, compiuto nel corso del 2019 e immortalato nelle parole degli osservatori e nelle immagini e video-interviste girate all’interno e pubblicate nel Rapporto. Perché abbiamo scelto Borgo Amigó piuttosto che una consueta sala più o meno istituzionale come di solito accade per le conferenze stampa? Perché il sistema della giustizia minorile italiana è pieno di straordinarie professionalità empatiche e attente ai percorsi individuali - sia direttamente dipendenti dal Dipartimento che nel mondo più ampio che a vario titolo gli gira intorno - che svolgono con i ragazzi un lavoro meraviglioso che è giusto portare alla luce anche dei non addetti ai lavori. Sia nelle norme che nelle pratiche, la giustizia penale minorile in Italia ha molte cose da valorizzare davanti all’intera Europa. “Da bambino volevo guarire i ciliegi”, cantava Fabrizio De André in una delle canzoni nel suo bellissimo album del 1971 ispirato all’Antologia di Spoon River. Un sogno che appare senza senso ma che in verità si scopre profondissimo. Ciò che di più importante il nostro sistema della giustizia minorile è chiamato a fare è proteggere i sogni e le opportunità di vita dei ragazzi che incrocia. Essere giovani significa proprio questo: avere ancora tutte le porte aperte, avere operato soltanto un numero di scelte piccolo e incapace di precludere possibilità future. Non sono frasi romantiche e astratte le nostre: conosciamo bene le carceri e sappiamo che in quelle per minori, ancor più che in quelle per adulti, ci finiscono le persone meno garantite, le meno protette da reti sociali di sostegno, le più marginali, quelle che hanno alle spalle percorsi estremamente difficili. Sono ancora ragazzini, personalità in piena evoluzione, la cui perdita sarebbe un danno incommensurabile per la società. Proteggere i sogni, tenere aperte le porte, garantire opportunità significa qualcosa di molto concreto: potenziare l’istruzione, la formazione professionale, le relazioni famigliari e affettive, le attività culturali. Nell’ottobre 2018, dopo quarantatré anni di attesa, sono entrate in vigore nuove norme per un ordinamento penitenziario specifico per le carceri minorili. Per molti aspetti, tuttavia, la prassi era andata negli anni più veloce della legge. Tante delle disposizioni che troviamo nel decreto del 2018 le vedevamo, durante le nostre visite agli istituti, applicate con naturalezza già da molto tempo. Oggi però, grazie all’ampliamento dell’accesso alle misure alternative e alle nuove regole di vita interna, l’intero sistema può compiere un ulteriore passo in avanti. Prima di tutto, continuando in quel percorso di residualizzazione dello strumento detentivo che già è stato pienamente imboccato. Siamo ai minimi storici, con poco più di 350 giovani in carcere. Ma anche quelle poche centinaia sono troppe. Lo strumento educativo è il solo che abbia senso usare con un ragazzo. Solo in secondo luogo, proponendo per le carceri minorili un modello di detenzione che le norme sulla carta potrebbero permettere se si volesse dar loro un’interpretazione di ampio respiro: un carcere responsabilizzante, dove il ragazzo gestisce la propria vita come in una casa-famiglia, aperto al territorio circostante nell’accesso alle scuole esterne, ai corsi di formazione e a qualsiasi opportunità possa servire a recuperare una potenzialità di vita. Sarebbe rivoluzionario. E, come già in passato più di una volta è accaduto, la giustizia minorile potrebbe proporsi testa di ariete di un cambiamento che vada a investire a macchia d’olio l’intera giustizia penale. È vero, non sembra essere questa la giusta epoca storica per una simile rivoluzione di civiltà nell’uso di una giustizia che non abbia il volto truce della vendetta. Ma se qualcuno può provare a guarire i ciliegi, questo è sicuramente il sistema della giustizia minorile. *Coordinatrice associazione Antigone Baby gangster, tutti i numeri di un’emergenza che non esiste di Alessio Scandurra Il Riformista, 23 febbraio 2020 Nelle carceri minorili italiane il 15 gennaio erano detenuti in tutto 352 ragazzi e 23 ragazze. Questo piccolo numero racchiude in se molte sorprese. Anzitutto per quanto è piccolo. Nonostante i ragazzi detenuti nei nostri IPM siano da tempo in calo, di fatto questo è uno dei numeri più bassi mai registrati nella storia dell’Italia repubblicana. Altra sorpresa, da tenere però sempre a mente, è che la maggioranza di questi ragazzi, il 58%, pur avendo commesso il reato da minorenni, è oggi maggiorenne. Non stiamo dunque parlando solo di ragazzini. Ulteriore sorpresa, almeno per alcuni, è il fatto che questa diminuzione del ricorso al carcere non abbia comportato una crescita dalle criminalità minorile. Al contrario fra il 2014 e il 2018 le segnalazioni da parte delle forze di polizia all’autorità giudiziaria riguardanti i delitti commessi da minori sono diminuite dell’8,3%. Calano gli omicidi volontari (-46,6%) e colposi (-45,4%), i sequestri di persona (-17,2%), i furti (-14,03%) e le rapine (-3,9%). Chiunque gridi all’emergenza in materia di criminalità minorile lo fa ignorando, più o meno deliberatamente, i fatti. I tassi di delinquenza minorile italiani sono tra i più bassi d’Europa e, come abbiamo visto, il fenomeno è ulteriormente in calo. Questi numeri non sono però piovuti dal cielo. Al di là delle attività educative e di prevenzione, nella scuola e fuori, che restano lo strumento fondamentale con cui si costruire una comunità solidale e coesa, nel corso degli anni il sistema della Giustizia minorile ha sviluppato una gamma articolata ed efficace di risposte alla devianza che hanno relegato il carcere al ruolo di strumento marginale. A fronte dei 375 ragazzi detenuti al 15 gennaio 2020, nella stessa data i ragazzi provenienti da percorsi penali e che erano ospitati nelle comunità di accoglienza per minori erano 1.104. La scelta che ha fatto il nostro sistema è chiara. Non si pone più al centro il carcere ma una rete di strutture, le comunità appunto, che guardano anzitutto ai bisogni educativi e di crescita del minore e che lasciano l’istanza repressiva in secondo piano. Anche nei numeri, dato che si tratta di strutture che ospitano in prevalenza minori che non provengono dall’area penale ma che hanno solo bisogno di accoglienza e supporto. E non ci sono solo le comunità. Solo nel primo semestre del 2019 sono stati 2.382 i provvedimenti di messa alla prova, 3.653 in tutto il 2018. La messa alla prova rappresenta un istituto di grande interesse, esteso recentemente anche agli adulti. Non si tratta solo di una alternativa al carcere, ma allo stesso processo, che viene sospeso durante la misura. Se questa avrà successo, ed è così in oltre l’80% dei casi, alla sua conclusione il reato verrà dichiarato estinto. Ad un quarto circa dei ragazzi messi alla prova il giudice prescrive il soggiorno in comunità ma gli altri eseguono la misura nel proprio contesto di provenienza, con la propria famiglia, andando a scuola, al lavoro o svolgendo attività di volontariato. Il quadro non è ovviamente tutto rose e fiori. Chi finisce in IPM spesso trova strutture inadeguate rispetto ai compiti ambiziosi previsti dalla legge ed anche le comunità non sono tutte uguali, ma è certo che il sistema della giustizia minorile italiano è riuscito a ridurre al minimo il ricorso al carcere garantendo al tempo stesso sicurezza alla collettività e sostegno ed opportunità a chi ha commesso il reato. Non a caso anche all’estero il caso italiano è guardato con grande interesse. Sicurezza per la collettività e sostegno ed opportunità per gli autori di reato. Un binomio che solitamente ci viene proposto in forma di contrapposizione: per garantire la sicurezza della collettività bisogna chiudere la gente in galera e buttare via la chiave, altro che sostegno ed opportunità per gli autori di reato. L’esperienza della giustizia minorile italiana dimostra l’esatto contrario. Coronavirus. Il Ministero della giustizia detta le misure di prevenzione nelle carceri gnewsonline.it, 23 febbraio 2020 Esonero dal servizio, fino a nuove disposizioni, per “tutti gli operatori penitenziari residenti o comunque dimoranti nei Comuni di Codogno, Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano”. Analoga impossibilità di accedere agli istituti penitenziari anche per il personale esterno, gli insegnanti, i volontari e i familiari di detenuti che provengano dai suddetti Comuni. Sospese, inoltre, con effetto immediato e fino a nuova disposizione, “le traduzioni dei detenuti verso e dagli istituti penitenziari rientranti nella competenza dei Provveditorati di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze”. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si prepara a prevenire il contagio dovuto alla diffusione del coronavirus in alcune località lombarde e, conformandosi alle indicazioni del Ministero della Salute e d’intesa con il Presidente della Regione Lombardia, ha inviato un ordine di servizio ai Provveditorati e a tutti gli istituti penitenziari italiani. Viene inoltre istituita anche una unità di crisi presso la Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento “per assicurare il costante monitoraggio dell’andamento del fenomeno e delle informazioni relative ai casi sospetti o conclamati, nonché per l’adozione tempestiva delle conseguenti iniziative”. Nella nota, infine, il Capo del Dap Francesco Basentini, raccomanda ai direttori, attraverso il coinvolgimento del presidio medico competente per l’istituto, di “attuare uno stretto coordinamento con le autorità sanitarie locali e gli altri eventuali referenti territoriali”, nonché di “predisporre le azioni necessarie ad assicurare l’osservanza delle indicazioni, rispettivamente offerte dal Ministero della Salute e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità”. Sanità in carcere: progettare gli spazi a cura di Marella Santangelo medium.com, 23 febbraio 2020 Questo approfondimento è un estratto della tesi di Ines Nappa, Riqualificazione del presidio sanitario della Casa Circondariale “G. Salvia” di Poggioreale, Napoli. La tesi, ha visto riconosciuto il Premio Flores alla miglior Tesi di Laurea in materia penitenziaria e trattamento dei detenuti, Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, 2019. I relatori era la Prof. Marella Santangelo, il Correlatore Prof. Paola Ascione. Introduzione - Il recupero del patrimonio edilizio penitenziario è un’azione strategica, quanto il progetto ex-novo di parti, o di interi nuovi complessi; il confronto con una non-architettura, con una funzione totalizzante e, al contempo, con manufatti in stato di profondo degrado richiede di intendere la manutenzione del patrimonio esistente come un atteggiamento culturale e progettuale coerente e consapevole. La tesi indaga lo spazio del carcere attraverso il recupero e l’ampliamento del presidio sanitario “San Paolo” interno alla Casa circondariale di Poggioreale che diviene luogo cerniera della relazione tra interno e esterno, tra carcere e città. Si propone l’apertura al pubblico del presidio aprendo alla cittadinanza un ospedale di altissima specializzazione, attraverso la trasformazione fisica si crea una connessione concreta tra il carcere e il tessuto urbano, si rompe il muro del silenzio e dell’indifferenza, la città può varcare quella soglia, i reclusi tornano a essere parte della comunità. Il progetto di architettura riflette e sperimenta lo spazio intercluso, concretizzando il principio primario del diritto alla salute sia di chi è detenuto che di chi è libero; gli spazi sanitari devono avere le stesse caratteristiche ed essere declinati secondo gli stessi principi, siano interni o esterni al perimetro detentivo. La proposta progettuale di apertura al pubblico della struttura sanitaria rompe uno dei tabù più forti e antichi ossia l’isolamento fisico del carcere nel contesto urbano, attraverso un concreto servizio comune a entrambi i mondi quello dei liberi e quello dei detenuti. Il benessere ambientale in ambito penitenziario si sperimenta attraverso una proposta di trasformazione dell’esistente che rispetta la struttura storica, che rilegge e riconfigura la relazione con l’esterno, che considera il malato detenuto come malato ancor prima che detenuto. Questo lavoro pone l’accento su un tema fondamentale per l’architettura del carcere, la necessità -non più rinviabile- di riqualificazione di quasi l’intero patrimonio degli edifici penitenziari. Gli studi e le esperienze progettuali più recenti sul retrofit tecnologico hanno lavorato sull’edilizia residenziale, è auspicabile che questa esperienza possa trovare un nuovo campo di applicazione proprio nel patrimonio di edifici penitenziari. Aprire le porte e curarsi insieme: un progetto innovativo per la struttura sanitaria penitenziaria della c.c di Napoli-Poggioreale - Il carcere che si evolve e si emancipa può nascere soltanto da una visione alternativa e diversa dei suoi luoghi: è possibile innescare un cambiamento culturale invertendo la normale tendenza alla chiusura del carcere a favore di una tensione verso l’apertura alla realtà esterna? Lo spazio governa le relazioni psicologiche, vitali e reali dell’uomo a prescindere dalla sua condizione di libertà. Solitamente gli spazi che naturalmente hanno una fisiologica tendenza all’opacità tendono a rifiorire e migliorarsi istintivamente quando vengono vissuti in maniera positiva. La mia ricerca parte da un dato di fatto sotto gli occhi di tutti: lo spazio detentivo è ancora considerato come uno spazio da esiliare dalla città e dalla società, ridotto a contenere solo le pene. Nel tempo è divenuto poi scontato il collettivo disinteresse per qualsiasi argomento che tratti di qualità dello spazio e di servizio. Un ponte concreto fra la città e il carcere può essere rappresentato proprio da uno spazio di tutti, uguale dentro e fuori, quello che ospita i servizi sanitari del sistema nazionale, e che dovrebbe rappresentare un diritto comune a tutti: il diritto alla salute che dovrebbe essere garantito e erogato con le stesse modalità. Un progetto di architettura, attraverso una corretta analisi degli spazi e delle esigenze, può permettere un eccezionale rinnovamento delle strutture esistenti (con notevoli vantaggi ambientali) e il funzionamento dell’ospedale senza rischi di sicurezza anche ipotizzando l’apertura al pubblico. Il servizio sanitario dovrebbe essere somministrato in strutture esattamente identiche, a livello di dotazioni, sia per i detenuti che per i cittadini liberi. Di fatto ciò è non si verifica perché in un ospedale penitenziario il benessere del degente non è purtroppo l’obiettivo primario, ma ci sono delle esigenze di sicurezza e di contenimento che lo stesso edificio deve contemporaneamente soddisfare. Attraverso il progetto di architettura si possono soddisfare tutti i requisiti richiesti e si può restituire uno spazio rinnovato che eroga un servizio comune a tutti testimoniando la parità di trattamento. Sulla questione dei servizi sanitari-penitenziari si sono espressi in molti e si può affermare che la normativa italiana in materia sanitaria è ben chiara: il diritto alla salute è garantito senza distinzione sociale ed è riconosciuto dalla Costituzione come primario. Tutti i regolamenti dell’ambito sono concepiti paradossalmente in maniera coerente perché appena si decreta apertamente la parità di trattamento a tutta la popolazione non vengono elaborate norme contestualizzate al settore penitenziario, essendo unica la modalità di applicazione dei parametri sanitari. Per dare inizio alla ricerca sperimentale su questo tema si è scelta una delle più famose case circondariali italiane, quella di Napoli-Poggioreale. All’interno della stessa vi è una struttura sanitaria che ha le caratteristiche di un ospedale e che è censita come di massima specializzazione medica, il che permetterebbe assistenza e degenza specializzata per più di 60 utenti. La realtà attuale racconta altro in quanto gli spazi sanitari non hanno nessuna differenza rispetto agli standard penitenziari realmente applicati. La coesistenza di due Ministeri (della Giustizia e della Salute) rende necessario un dialogo fra le esigenze contrastanti e non la predominanza assoluta del parametro più restrittivo. Si registra un costante disequilibrio fra le pratiche prettamente di sicurezza e quelle specificamente sanitarie. Uno dei problemi principali, generati dalla necessità di sicurezza penitenziaria, è la prevalenza della divisione dei degenti per tipologia detentiva piuttosto che per tipologia diagnostica. Inoltre i percorsi sporco/pulito/materiale medico/cibo non hanno specifiche differenziazioni perché la molteplicità dei flussi sottintende un maggiore impegno sul fronte del controllo da parte del personale penitenziario. In una struttura sanitaria standard restrizioni così eccessive e specifiche, aliene al campo medico, che potrebbero minare l’integrità del servizio erogato, non possono verificarsi. Ma nella prassi quotidiana di un ospedale penitenziario questo è il punto critico proprio perché questi spazi non nascono per essere ospedali, ma come semplici luoghi del carcere per detenuti non in salute. La domanda che ci si è posti nella ricerca sperimentale è quindi: come si può garantire concretamente in maniera chiara la parità di trattamento sanitario anche ai detenuti? La risposta è nella proposta di un modo nuovo di usare lo spazio, creando i presupposti per cui anche la popolazione libera possa accedere e fruire di un servizio medico multi-professionale e di eccellenza. Così si dimostra che, se la popolazione libera può curarsi in una struttura penitenziaria allora è palese che il trattamento proposto è il medesimo di una qualsiasi altra struttura pubblica. La trasposizione nel progetto di architettura di tale sfida ha richiesto in primo luogo uno studio specifico dei percorsi di esercizio del presidio sanitario e una contestualizzazione di parametri normativi (registrando, inoltre, la necessità di elaborare una normativa di settore specifica). Successivamente nell’elaborazione progettuale si è analizzato il concetto del benessere “ottimale” di una struttura ospedaliera standard e quello del benessere “ammissibile” che è il massimo raggiungibile in una struttura sanitaria-penitenziaria. Le scelte progettuali collegate a quest’ultima questione sono centrate sul miglioramento del comfort e della vivibilità interna attraverso soluzioni orientate al risparmio energetico e alla sostenibilità ambientale. Il punto focale del progetto è nell’apertura all’utenza proveniente dall’esterno che ha richiesto un’adeguata integrazione di tutte le aree funzionali ospedaliere e di servizio. L’attenzione principale è stata rivolta a rendere flessibili gli spazi, che sono nati per non esserlo. La proposta mira principalmente a dimostrare che si può raggiungere un miglioramento della configurazione ospedaliera e una più razionale gestione spaziale anche destinando una parte dell’edificio all’apertura al pubblico. Si è proposta una struttura poli-blocco, che permette sia di caratterizzare meglio tutti gli elementi funzionali dell’ospedale, che di garantire una suddivisione degli stessi più corretta e adeguata inserendo spazi necessari per offrire ai detenuti degenti anche aree riabilitative vere e proprie. Si propone quindi una razionale gestione di tutti i flussi di esercizio che si dividono in: - flussi fissi, ossia quelli più frequenti provenienti dagli ambulatori e quelli dalle camere di degenza; - flussi speciali ossia quelli che si attivano per un uso programmato per i blocchi sanitari di servizio (blocco operatorio o laboratori) - flussi pubblici che vengono posizionati in un’area dell’ospedale prossima alle mura adeguatamente integrata all’ospedale grazie ad un corretto utilizzo dei presidi di controllo. I presidi di controllo del progetto sono suddivisi in fissi e in attivabili, in caso di utilizzo programmato di alcune aree funzionali e delle aree dove può accedervi il pubblico. I percorsi di esercizio sanitari, penitenziari e dei vari tipi di utenza (compreso quello del pubblico) costituiscono la base dove tutti gli elementi del servizio sanitario della struttura si innestano in maniera compatibile e senza creare interferenze con le aree di controllo. Lo scopo è configurare uno spazio flessibile nonostante i vincoli restrittivi, affidando la conduzione dei reparti in maniera complementare al personale penitenziario, garante del rispetto delle basilari norme di sicurezza e al personale sanitario, responsabile della corretta gestione dei reparti sanitari. Il concetto di benessere ambientale in ambito penitenziario subisce un ridimensionamento. Uno spazio che deve essere reso controllabile e deve garantire il contenimento fisico dell’uomo recluso può garantire al massimo un grado di benessere ammissibile ponendosi come giusto compromesso fra le necessità umane e le ovvie esigenze di sicurezza. L’eliminazione delle sbarre è una sfida che rappresenta appieno questo concetto. L’abbattimento di un simbolo, di una barriera e di un ostacolo che rende difficile il mantenimento di adeguati parametri ambientali e igienici, ha posto l’attenzione sulle possibili soluzioni tecniche alternative che minimizzino il rischio di evasione ma che favoriscano condizioni di vivibilità migliori. Nel progetto le soluzioni coerenti con quanto detto si basano su tre sistemi: 1) Vertically integrated greenhouse 2) Doppia pelle passiva chiusa 3) Infisso a doppia pelle I sistemi proposti, però, vengono attentamente modificati e contestualizzati ai parametri del carcere perché vengono resi compatibili con i requisiti di sicurezza (quindi sono elementi progettati come chiusi) ma migliorano notevolmente il comfort ambientale degli spazi. Nell’ottica della riabilitazione totale della persona ristretta ospite della struttura sanitaria si è deciso di introdurre anche la tematica del lavoro come fattore polivalente. Il carcere deve contribuire alla formazione dell’individuo in un contesto quanto più vicino alla realtà. In questo ambito trova posto l’urban farming per una serie di benefici che apporta allo spazio, alla percezione del tempo e alla riabilitazione. L’approccio con uno spazio che ha caratteristiche uniche conduce inevitabilmente ad una serie di conflitti in un sistema di esigenze di diversa tipologia e frequentemente contraddittorie. Progettare questo spazio e ridargli dignità significa interpretare un sistema di vita “altro”, mettere per questo al centro l’individuo ed i suoi diritti, compatibili con la mancanza di libertà, come vero componente di una società civile. Ermini (Csm): “Basta veti e ultimatum, la Giustizia non sia terreno di scontro politico” Il Dubbio, 23 febbraio 2020 L’intervento del vicepresidente del Csm. “Modificare la prescrizione? Un azzardo”. “Ho sempre considerato un azzardo e un errore, nonché una lesione del principio della ragionevole durata, modificare la disciplina della prescrizione al di fuori e prima ancora di interventi organici e sistematici di riforma, come se la minaccia di un giudizio senza fine possa taumaturgicamente deflazionare e accelerare i processi”. Ad affermarlo, dal palco dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione delle Camere Penali, è stato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini. La giustizia “non sia più terreno di scontro politico”, ha ammonito, ricordando che “i cittadini devono poter contare su procedimenti brevi e giusti e sul rispetto dei loro diritti”. Il vicepresidente dell’organo di autogoverno delle toghe ha poi ribadito l’invito ai ‘“partiti ad abbandonare rivalse, veti, ricatti e ultimatum”, perché “nella tutela della giurisdizione e dei valori costituzionali tutti devono stare dalla stessa parte. La politica - ha aggiunto - potrà riconquistare la primazia nella guida della società solo attraverso riforme armoniche e condivise - ha concluso - non inseguendo gli umori della piazza o legiferando con norme spot e di corto respiro”. “La giustizia penale impone una riforma più complessiva”, che “metta mano anche al codice sostanziale procedendo a un’ampia depenalizzazione. Abbiamo troppe norme penali e troppe norme spesso senza sanzioni realmente efficaci ed effettive”, ha aggiunto Ermini, che ha invitato a “incentivare i riti alternativi. Una forte depenalizzazione, e credo che su ciò vi sia un larghissimo accordo tra i tecnici e gli operatori del diritto, potrebbe davvero sgravare procure e tribunali di un’infinità di “microprocessi”- ha sottolineato - dando così modo di concentrarsi sui reati contro la persona e il patrimonio, sui reati economici e su altri reati gravi”. “E poi - ha osservato - bisognerebbe riportare il rito accusatorio alla sua vera natura, puntando con più decisione e incentivando senza timidezza i riti alternativi; bisognerebbe razionalizzare e rendere più celeri le fasi pur senza intaccarne la struttura; bisognerebbe intervenire sull’udienza preliminare in modo da renderla effettivamente udienza-filtro. Soprattutto, anche se al riguardo va riconosciuto un maggior impegno rispetto al passato, bisognerebbe investire di più nella macchina della giustizia. Insomma - conclude Ermini - più depenalizzazione, più patteggiamenti, più strumenti e risorse per decongestionare il processo riportandolo sui binari di una giustizia celere e giusta”. “La tutela dei diritti fondamentali è veramente il fine ultimo della giurisdizione, l’unica via della giustizia. Questa tutela implica una magistratura libera, autonoma e indipendente, poiché solo grazie all’indipendenza la funzione giurisdizionale può essere svolta in modo imparziale e da una posizione di terzietà ed equidistanza dai confliggenti interessi in giuoco. Ma implica allo stesso tempo una avvocatura altrettanto libera, indipendente e autonoma - ha aggiunto in un passaggio del suo intervento -. Ma se magistrati, avvocati e accademici sono i coprotagonisti e partecipano su un piano di parità alla funzione giurisdizionale, io ritengo che nella comune battaglia a difesa della giurisdizione quale fondamento del sistema democratico e di giustizia non vi possano essere divisioni tra le diverse categorie di operatori del diritto - ha ammonito Ermini - la cui reciproca legittimazione è presupposto indispensabile del contributo di ciascuna all’attuazione dei principi e delle garanzie stabilite dalla Costituzione”. Bonafede invita penalisti al tavolo di lavoro: “Ci saremo ma senza sconti” di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 23 febbraio 2020 L’Unione delle Camere Penali Italiane risponderà all’invito del Ministro della Giustizia, e siederà dunque al tavolo convocato per il prossimo 26 febbraio. Noi pensiamo che possano sempre esistere ottime ragioni per alzarsi da un tavolo di confronto e di discussione ed andare via, mentre è difficile individuarne una sufficientemente seria per rifiutare addirittura di sedervisi. Sentiamo innanzitutto cosa avrà da dirci il Ministro Bonafede. Noi, per di più, abbiamo molte cose da chiedergli, a cominciare da una semplicissima domanda: chi e perché ha inteso manomettere, del tutto stravolgendolo, il faticoso lavoro che, a quello stesso tavolo, aveva portato l’Anm, l’Ucpi, l’avvocatura istituzionale e l’Ufficio Legislativo del Ministero di Giustizia a costruire proposte condivise. Un bene prezioso, di questi tempi, che qualcuno ha voluto irresponsabilmente dissipare. Vogliamo sapere chi, vogliamo sapere perché. Quell’accordo era stato costruito intorno alla individuazione delle tre aree su cui si riteneva indispensabile intervenire per raggiungere l’obiettivo della riduzione dei tempi del processo penale: potenziamento dei riti alternativi, recupero della funzione di filtro della udienza preliminare, una forte depenalizzazione. Meno dibattimenti, insomma, aumentando drasticamente gli incentivi per la soluzione negoziale del processo, ma con l’intesa di non mettere mano né alle regole della prova, né a quelle delle impugnazioni. Meno dibattimenti, ma a garanzie difensive immutate. Ogni rappresentanza era giunta al tavolo con proprie proposte, molte delle quali di segno opposto e tra loro inconciliabili: l’Avvocatura propugnando interventi per la certezza del tempo delle indagini, il controllo di giurisdizione sull’iscrizione nel registro indagati; Anm, con un proprio documento del novembre 2018, mai rinnegato, con proposte quali abolizione del divieto di reformatio in peius, estensione della lettura dibattimentale di atti di indagine, per dirne un paio delle più eclatanti. Tutti però convergemmo sulla idea che solo valorizzando le proposte condivise avremmo fatto cosa utile per incidere sui tempi dei processi. Diverse bozze in questi mesi sono state fatte circolare, la prima addirittura approvata salvo intese dal Consiglio dei Ministri presieduto dal Conte I. Allora, la indisponibilità della Lega aveva impedito qualsiasi rilancio dei riti premiali. Alcune altre bozze si occupavano tra l’altro di sorteggi per l’elezione del CSM e di ordinamento giudiziario. Tutte cose mai discusse al tavolo, ma delle quali il Ministro, in più occasioni, ha avuto modo di ascoltare l’Associazione dei Magistrati. La versione del ddl approvata in Consiglio dei Ministri ha inteso demolire scientificamente i faticosi approdi di quel tavolo. Ampliamento indecente delle letture dibattimentali, appello monocratico esteso a tutto il catalogo dei reati di cui all’art. 550 cpp, notifiche tramite difensore anche per l’avvocato d’ufficio. Si aggiunge, per i giudizi a citazione diretta, una sorta di pre-udienza preliminare per celebrare la quale il Giudice dovrà conoscere il fascicolo delle indagini, perdendo del tutto la sua verginità cognitiva indispensabile per la prova in contraddittorio. Ulteriore rafforzamento normativo della sostanziale discrezionalità dell’esercizio dell’azione penale affidato, senza alcuna responsabilità, agli uffici di Procura. Demolizione del potenziamento dei riti alternativi, con abbassamento degli anni patteggiabili, innalzamento delle preclusioni soggettive ed oggettive, dissennata reintroduzione dell’esiziale principio di economicità che ha già ucciso il rito abbreviato condizionato nella culla, tentativo di depotenziare il processo di appello; e molto altro. A chi dobbiamo questo scientifico sabotaggio? Quali ragioni hanno condotto il Ministro ad abbandonare quel percorso virtuoso così faticosamente ricostruito? È farina del sacco della nuova maggioranza, dunque del Partito Democratico? È invece bastata la flebile prospettazione di improbabili sanzioni disciplinari per indurre Anm a sottrarsi ad ogni possibile confronto e responsabilità su temi di questa complessità e rilevanza sociale. Ad ognuno le sue priorità. Caiazza: “Non rinunciamo alle garanzie difensive. Se Bonafede non ci ascolta andremo via” Il Dubbio, 23 febbraio 2020 Il presidente dell’Ucpi avverte: “il ministro modifichi la riforma, i nostri non sono capricci ma principi scolpiti nella Costituzione”. “È finita l’epoca dei monologhi o per lo meno saranno sempre meno credibili. Ci comincia a comprendere la gente comune che si sente riscattata. Siamo più forti di prima e non molleremo di un millimetro. Saremo sempre pronti al dialogo con tutti, ma diremo la nostra a quel tavolo con Bonafede e poi lo saluteremo definitivamente se il testo non verrà modificato”. Hanno il sapore di un ultimatum le parole del presidente dell’Unione camere penali Gian Domenico Caiazza, che oggi ha chiuso i lavori dell’inaugurazione dell’anno giudiziario a Brescia. Una due giorni che ha fissato alcuni dei punti fermi dell’Ucpi, soprattutto ribadendo che i diritti non possono essere messi in discussione da una riforma schiacciata, invece, su esigenze di velocizzazione dei tempi processuali, mal conciliate con il diritto alla difesa. Ed è per questo, ha sottolineato Caiazza, che gli elementi di frizione tra avvocatura e ministero della Giustizia vanno ben al di là della sola questione prescrizione, punta di un iceberg molto più profondo. “Sin dal primo momento - ha sottolineato il presidente dell’Ucpi - abbiamo individuato in quel tema qualcosa che comprendeva in modo emblematico lo scontro di due idee del diritto e abbiamo visto in quel tema, nella scelta propagandistica, populista di quella riforma, in realtà, il cavallo di Troia per arrivare a ben altro. Perché quando si parla di tempi del processo poi si finisce inesorabilmente per rappresentare, da parte di quella cultura che noi avversiamo, le garanzie e i diritti come le cause del tempo perso nel processo. E quindi, quando l’obiettivo, che non può che essere condiviso, è la riduzione dei tempi del processo, noi ci troviamo di fronte allo scontro di quelle due culture, di chi pensa che si debba guadagnar tempo tagliando diritti e garanzie, fino a quelle dell’impugnazione e del secondo grado di giudizio, e chi pensa invece che è possibile ed è doveroso lavorare a guadagnare tempi ragionevoli del processo lasciando intatte le garanzie dell’imputato, del difensore, della prova”. Le garanzie difensive non rappresentano un capriccio, hanno voluto sottolineare i penalisti. Piuttosto, sono un patrimonio comune, la sintesi del patto sociale sancito nella Costituzione. Ed è per questo, ha chiarito Caiazza, che le idee da portare al tavolo con Bonafede “non sono un’opzione”, bensì “derivano dal rispetto di quel patto sociale, dal rispetto dei valori costituzionali”. L’intento, già annunciato, è di presentarsi al tavolo ministeriale per pretendere risposte, prima che per ricominciare a discutere sul da farsi. Risposte, appunta, sulla manomissione dell’accordo raggiunto quasi miracolosamente, trovando un punto di contatto tra avvocatura, magistratura e accademia. “L’esito di quel tavolo, al quale abbiamo lavorato per 4-5 mesi, del quale oggi non c’è più traccia in quel disegno di legge - ha sottolineato Caiazza - erano tutte cose che avevamo guadagnato nell’ottica sì di guadagnare tempo, ma senza toccare le garanzie. E tutte, non una esclusa, sono state manomesse. Di chi è la mano, chiediamo noi?”. Ma la battaglia condotta dall’Unione delle Camere penali, ha assicurato Caiazza, non è solitaria. “Sui grandi temi che poniamo c’è una magistratura che è al nostro fianco attorno ai valori e ai principi costituzionali. Che Paese è un Paese dove 150 professori e accademici si schierano e non c’è nessuno a cui interessa? - si è chiesto - Noi non demordiamo, rilanciamo. Chiederemo a questi accademici di costituire un gruppo di lavoro che vigili su questa pericolosa legge perché qui si gioca una partita che non possiamo perdere”. Un’ultima battuta il capo dei penalisti l’ha riservata, ancora una volta, alla scelta dell’Anm di disertare il tavolo. “Non viene perché animata da questioni di principio, una cosettina grottesca - ha concluso. Non è che Anm già è ampiamente soddisfatta rispetto a quel tavolo? Fanno gli offesi, ma noi i fessi no”. Prescrizione. Renzi si schiera coi penalisti: “Non temete, in Parlamento non ci sono i numeri” di Simona Musco Il Dubbio, 23 febbraio 2020 Il j’accuse del leader di Italia Viva: “Basta giustizia show: saremo con voi”. “Noi siamo la terra di Beccaria, non di Bonafede”. Dall’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti, il leader Matteo Renzi lancia la sfida al governo, lanciando strali contro il M5s e il Pd. Il primo, colpevole di un populismo giudiziario che ha trasformato la giustizia in show colpevolista a tutti i costi, il secondo di aver abiurato ai propri principi in nome delle poltrone. Così l’ex premier ha lanciato la sfida, scegliendo come alleati i penalisti italiani, per una “battaglia culturale” contro populisti e giustizialisti. “La giustizia in Italia - ha affermato Renzi - è quella che può permettere di sparare sentenze sui social o nei talk, che sono peggio dei socia. C’è una cultura per cui il colpevole va esposto, come nel caso Battisti: è impensabile che si possa arrestare qualcuno e fare il filmino modello cresima, un racconto con un’esposizione del corpo dell’arrestato che è indegna di un paese civile. Ma su questa battaglia penso ci sia lo spazio poter fare insieme nei prossimi anni una sfida di qualità”. Il raggio d’azione di Renzi, dunque, va ben oltre la prescrizione, “battaglia che è anche la nostra”, ha affermato il leader di Iv: “noi non molliamo e siamo certi che non essendoci i numeri anche certe timidezze e ipocrisie di chi si proclama riformista e segue il giustizialismo pentastellato sarà prima o poi messo alla prova dei fatti - ha sottolineato -. I numeri in Parlamento, in questa legislatura, non consentiranno di andare avanti con la proposta attuale. Quindi io non sono preoccupato. Vorrei però facessimo uno sforzo: che si restituisse dignità alla giustizia di essere percepita come tale. Quando si capirà che tra garantismo e giustizialismo c’è la stessa differenza che c’è tra democrazia e dittatura, tra la Costituzione e il populismo mediocre e banale, avremo vinto la battaglia culturale. Io penso questa sia la sfida di oggi”. La battaglia dei penalisti contro la prescrizione, ha aggiunto poi Renzi, “è contro il loro interesse”: un imputato a vita, ha sottolineato, “farebbe comodo, perché farebbe guadagnare di più. La loro è una battaglia nell’interesse del Paese, non dell’avvocatura. Spieghiamolo a chi non l’ha capito”. Renzi ha citato il populismo sanitario, quello che prima portava a considerare Roberto Burioni o Ilaria Capua come nemici numero uno e che oggi li consacra. Perché il populismo - “e il giustizialismo ne è una forma, il populismo dei mediocri” -, ha evidenziato, verrà zittito dalla storia, “così com’è stato per i no vax”. Durante il suo discorso, prima di lasciare il palco di Brescia per tornare alla convention di Italia Viva, Renzi ha citato il processo Cusani, nel 1994. “Ricordo perfettamente un momento di quel processo, che per me era diventato uno show: il momento della conclusione, con la relazione finale di Di Pietro, fatta con il computer, e l’avvocato della difesa che fece iniziare la sua arringa dall’immagine di Aiace. Quel difensore stava concorrendo al fare giustizia esattamente come la roboante, scenografica arringa dell’accusa. Ma non era considerato tale, perché tutti i media fecero credere che fosse soltanto l’accusa a fare giustizia”. Renzi ha puntato il dito anche contro “chi dice che gli innocenti non vanno in carcere e chi dice che la giustizia si può praticare attraverso i processi show - ha sottolineato. Prima o poi dovremmo interrogarci sul fatto che se può capitare l’errore giudiziario non può capitare il fatto che il responsabile di quell’errore faccia carriera anche grazie a quell’errore e diventi un punto di riferimento del Csm”. Nonostante ciò, Renzi ha espresso critiche contro il ddl sul processo penale, che prevede sanzioni per i magistrati che non rispettano i termini di deposito della sentenza. “Il tema dei tempi è un grande tema - ha evidenziato - ma l’idea che la responsabilità civile si possa esercitare lì e si permetta a chi invece è responsabile di errori giudiziari di diventare procuratore capo o membro del Csm è una cosa che per me non sta né in cielo né in terra”. Il leader di Italia Viva ha poi svelato un retroscena: il tentativo del ministro Bonafede di dare al lodo Conte sulla prescrizione il nome di Lucia Annibali. “Bonafede ha avanzato una proposta indecente - ha raccontato - ovvero di poter modificare il suo lodo in un “Annibali bis”. Lei è saltata dicendo: col mio nome certe schifezze non le fate”. Veneto. Penitenziari affollati, cento detenuti in più a Venezia La Nuova Venezia, 23 febbraio 2020 Le carceri venete scoppiano di detenuti: non è novità di questi mesi, ma una situazione di grave difficoltà che è stata sottolineata dalla presidente della Corte d’Appello Ines Maria Luisa Marini, anche nel corso della recente cerimonia di apertura dell’anno giudiziario. Nelle nove carceri venete, solo la Casa di reclusione femminile della Giudecca (con una presenza media di 92 detenute, su una capienza massima di 115 posti) e la casa circondariale di Rovigo non segnalano difficoltà in relazione al numero di detenuti. Tutt’altra la situazione a Santa Maria Maggiore, dove a fronte di una capienza regolamentare di 159 posti e di una capienza “tollerabile” pari a 239 (con il moltiplicarsi dei letti in cella), si registra una media di 263 detenuti. A dicembre un uomo si è tolto la vita. I dati forniti dal Tribunale di Sorveglianza - relativi al periodo tra il luglio del 2018 e giugno 2019 - segnalano però anche ben 11 casi di suicidio sventati dagli agenti penitenziari del carcere di Venezia e 84 atti di autolesionismo. Anche a Treviso, la situazione è pesante: a fronte di una capienza regolamentare di 141 posti, a giugno 2019 erano ben 213 i detenuti. Nel corso dell’ultimo anno, si sono contati un tentativo di suicidio e 44 atti di autolesionismo. La quotidianità più drammatica alla Casa Circondariale di Verona: 335 posti e una media di 527 detenuti, con ben tre casi di suicidio, 35 tentativi e 166 atti di autolesionismo, l’anno scorso. “La causa dell’incremento dei fenomeni critici più gravi (dai 2 suicidi dell’anno precedente a 4, da 57 tentati suicidi a 81, da 556 atti di autolesionismo a 674)”, si legge nella relazione, in merito alla situazione veneta, “è ravvisabile nel sovraffollamento, nell’insufficienza di risorse umane con specifiche competenze per la gestione dei detenuti con problematiche psicologiche o psichiatriche e con situazioni di disagio derivanti dalla limitata offerta di lavoro e di altre attività formative”. Così, ove possibile, il Tribunale di Sorveglianza concede l’esecuzione della pena a domicilio (226 provvedimenti) e permessi premio (1054): 2 soli i mancati rientri, uno dei quali, durato solo pochi giorni. Treviso. Detenuto morto in cella. “Fasan aveva degli ematomi sul corpo” di Nicola Munaro Il Gazzettino, 23 febbraio 2020 Nessuna lite nei giorni scorsi, solo un diverbio, diventato poi una zuffa una settimana fa. Ma del quale lui non si era mai lamentato. Questa la verità della famiglia di Marco Antonio Fasan, 37 anni, veneziano, trovato impiccato lunedì mattina in una cella del carcere di Treviso, la stessa nella quale era stato spostato dagli agenti di polizia penitenziaria a causa di un litigio con un altro detenuto, alcune ore prima. Una lite della quale la famiglia, rappresentata dall’avvocato Mauro Serpico, ha detto di non aver mai saputo nulla. Qualcosa di più sul giallo della morte di Marco Antonio Fasan si saprà lunedì quando inizierà l’autopsia su corpo del 37enne, come disposto dal pm Mara Giovanna De Donà che ha già incaricato il dottor Alberto Furlanetto, mentre l’avvocato Serpico ha nominato il medico legale Antonello Cirnelli come consulente di parte. Cileno di origini, adottato da una famiglia veneziana, era in carcere a Treviso per scontare una pena residua di un anno e quattro mesi ed era in attesa della decisione del Tribunale di sorveglianza, al quale il suo legale aveva presentato domanda di concessione dei domiciliari. Il padre, a cui il 37enne era molto legato, gli ha lasciato un discreto patrimonio, che dal carcere aveva chiesto aiuto e consigli proprio al suo legale. Si era anche riavvicinato alla compagna, con la quale ha avuto un figlio, ed è questo uno dei motivi che spingono la donna a non credere all’ipotesi del suicidio. Nel corso dell’ultimo colloquio in carcere, Fasan si era confidato lamentando di essere tormentato da qualcuno. Ora spetta alla Procura fare piena luce su quanto accaduto. Con un dettaglio da non trascurare: Fasan aveva una mano fasciata ed ematomi in varie parti del corpo. Treviso. Il direttore: “Trasferito due volte dopo liti con i compagni. Siamo molto dispiaciuti” La Tribuna di Treviso, 23 febbraio 2020 Il dirigente ricorda le ultime ore del detenuto che era stato trasferito solo un’ora prima del tragico rinvenimento. Era seguito dagli psicologici “Purtroppo quello di Marco Antonio Fasan è il primo suicidio che si verifica nel carcere di Treviso, da quando sono arrivato a dirigerlo, e mi auguro davvero che sia l’ultimo. Quando avvengono fatti del genere, tutti noi che lavoriamo dentro la struttura proviamo grande dolore”. Il direttore del carcere di Santa Bona, Alberto Quagliotto, esprime tutta la sua amarezza per la morte del detenuto: “Era stato trasferito lunedì in una cella singola” - spiega Quagliotto, “dopo che era già stato cambiato due volte per dei dissidi con alcuni compagni. È stato un fulmine a ciel sereno per tutti. Il fatto è avvenuto, nel primo pomeriggio, un’ora dopo che era stato trasferito da solo nella sua nuova cella”. Per il direttore del carcere Fasan non aveva dato segni evidenti che potessero far pensare ad una morte così improvvisa e inspiegabile. “Era stato seguito e sostenuto dal nostro staff di psicologi e medici nel periodo della malattia e della morte del padre, avvenuta nel dicembre scorso. Ma nulla faceva presagire ad una simile fine. Voglio precisare che siamo molto attenti ai protocolli: abbiamo uno staff che monitora i casi più a rischio”. Fasan era rinchiuso in carcere da qualche mese per una condanna per furto diventata definitiva. Avrebbe terminato di scontare la pena nell’agosto del 2021. Secondo quanto s’è appreso, il 38enne di Venezia aveva già cambiato due volte la cella per liti con i compagni. L’ultima volta proprio lunedì, dopo aver litigato con un compagno di cella che, a suo giudizio, non faceva la propria parte nelle pulizie. Pare che i due si siano messi le mani addosso e Fasan abbia riportato qualche lieve ferita. Intanto, la procura della Repubblica di Treviso ha disposto l’autopsia sul corpo del 37enne, che si sarebbe tolto la vita impiccatosi alle sbarre della cella con il suo stesso maglione. Ad eseguirla sarà l’anatomopatologo Alberto Furlanetto, nella tarda mattinata di lunedì. Fasan era figlio adottivo ed era molto legato ai genitori, entrambi morti. Il padre Giuliano è morto proprio a fine dicembre. Era anche padre di un bimbo di pochi anni. Ieri pomeriggio, la compagna di Fasan ha dato incarico all’avvocato Mauro Serpico di tutelare il figlio minore. “Da parte nostra - spiega l’avvocato Mauro Serpico - non c’è nessun pregiudizio o sospetto. In ogni caso, di fronte ad una simile morte, di cui non sappiamo darci una spiegazione, comprensibilmente chiediamo che venga fatta completa luce. L’autopsia sarà il primo passo, poi decideremo come proseguire”. L’avvocato Cristian Finotti, invece, tutela un fratello di Fasan, precisa: “Attendiamo l’esito dell’autopsia e soltanto successivamente faremo le nostre valutazioni. Vogliano soltanto la verità”. Piacenza. Coronavirus, allerta dell’Uspp per il carcere: “Servono controlli per detenuti e agenti” di Gianfranco Salvatori ilpiacenza.it, 23 febbraio 2020 Allerta per il carcere: “Servono controlli per detenuti e agenti”. Il sindacato Uspp scrive ai ministri Bonafede e Speranza: guanti, termometri, serve un piano di emergenza per Piacenza, Cremona e Lodi. Intanto, il sovraffollamento incalza e nelle celle si sta sistemando un letto in più. Mettere in sicurezza chi si trova e chi e lavora nel carcere, fornendo attrezzature (mascherine, guanti monouso, termometri, verifiche da parte del personale sanitario) predisponendo un piano di emergenza negli istituti vicini a Codogno: Piacenza, Cremona e Lodi. A Piacenza, poi, si pone anche il tema del sovraffollamento che è aumentato superando i 500 detenuti sui 395 previsti, mentre in alcune celle si stanno sistemando letti per ospitare una persona in più. Controllare, inoltre, chi entra perché “attualmente le procedure di ingresso in istituto non contemplano l’obbligo di alcuna analisi per nessuna persona sottoposta a misura detentiva, ragione per la quale in talune circostanze si verificano anche altre infezioni del personale operante nelle struttura penitenziarie primo fra tutte quella derivante da casi di tubercolosi e di epatite”. È l’allerta lanciato da Giuseppe Moretti, presidente dell’Unione sindacati di polizia penitenziaria (Uspp). Oltre a esprimere preoccupazione, Moretti chiede “al Ministro della Salute Roberto Speranza e al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede immediate e urgenti misure di profilassi per chiunque venga a contatto con le tre strutture penitenziarie geograficamente più vicine al comune lodigiano”. Moretti avverte che “la pericolosità dell’infezione e la facilità di trasmissione del virus può causare in queste tre carceri conseguenze drammatiche, per questo motivo oltre agli interventi di prevenzione i ministri Speranza e Bonafede intervengano a porre in essere ogni iniziativa finalizzata ad evitare il peggio e a predisporre dei piani di emergenza sanitaria”. A questa situazione critica, si sovrappone poi la gestione del carcere. A fronte di una capienza di 395 posti, oggi in via delle Novate ci sono oltre 500 detenuti - sono stati numerosi i nuovi ingressi nelle ultime settimane - che potrebbero aumentare nei prossimi mesi. Una situazione che ha fatto già predisporre alcune misure, come l’aggiunta di un letto in più nelle celle del nuovo padiglione. All’aumento dei detenuti si contrappone, invece, la carenza di agenti della Penitenziaria: su una pianta organica di 170 uomini, in servizio ce ne sono circa 150. Padova. Coronavirus. Il Sindacato Spp: “Misure di emergenza e mascherine in carcere” Il Gazzettino, 23 febbraio 2020 “La situazione richiede le stesse misure di emergenza eprevenzione anche per le carceri”. Lo dice il sindacato degli agenti penitenziari, Spp, per bocca del segretario nazionale Aldo Di Giacomo e il collega Leonardo Corrado. “Al Due Palazzi di Padova - racconta il segretario aggiunto Corrado - la psicosi è totale. Questo è un posto chiuso dove un’epidemia può diffondersi molto in fretta. Un nostro detenuto è stato curato a Montagnana vicino ad una persona che è stata anche in stanza a Schiavonia con l’uomo poi deceduto. I due agenti che lo controllavano hanno fatto il tampone e l’esito è stato negativo, ma c’è bisogno di mascherine per tutti anche qui”. Asti. Nuovo carcere, una telefonata salva le coronarie di Cesare Burdese Ristretti Orizzonti, 23 febbraio 2020 Apprendo, leggendo La Stampa del 20 febbraio scorso, che il Sindaco di Asti Maurizio Rasero “sarebbe furente” per “ la decisione calata dall’alto e senza alcuna condivisione o informazione” di costruire un secondo carcere ad Asti. Alla furia del Sindaco astigiano si aggiunge la trepidazione dell’assessore ai servizi sociali Mariangela Cotto, che è “in attesa della risposta del Ministro e la convocazione al Dipartimento della Polizia penitenziaria” (attenzione questo dipartimento è inesistente, esiste il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). Non è da meno lo sconforto del deputato della Lega, alla sua “ terza interrogazione” senza esito, in merito alla imminente paventata edificazione del secondo carcere ad Asti. Come riporta l’articolo, nell’ambiente dell’amministrazione locale, si paventa una popolazione detenuta che potrebbe raggiungere le 500 unità. La notizia è stata fornita al Sindaco Rasero un mese fa dal Garante Regionale Bruno Mellano che l’avrebbe riportata nel suo dossier annuale sullo stato delle carceri in Piemonte, essendone venuto a conoscenza “per caso”. Ricapitolando, da un articolo apparso sulla Stampa di oggi, apprendo che i principali soggetti istituzionali regionali e locali vengono a sapere in maniera quasi fortuita che ad Asti è prevista la prossima edificazione di un carcere (se non addirittura è già avviata) per alcune centinaia di posti, che di questo l’Amministrazione Penitenziaria non li ha mai avvisati e che il ministro della Giustizia Bonafede non risponde. Leggendo l’articolo, la prima cosa che ho pensato è che quell’articolo fosse stato scritto da una mano inesperta e un po superficiale, che le frasi seppur virgolettate, non fossero proprio quelle dette dagli intervistati, che le interrogazioni parlamentari fossero in lista di attesa. Non potevo rassegnarmi ad quadro di impotenza istituzionale così desolante. La seconda che ho pensato è che tutti fossero male informati, in quanto per la cognizione di causa che ho sulla questione penitenziaria, un nuovo carcere ad Asti mi sembra improbabile. D’istinto avrei voluto tranquillizzarli tutti, spiegando loro che in Italia comunque per costruire un carcere, e preciso non per aprire un carcere perché se no i tempi si allungano, ci vogliono almeno dieci anni. La terza cosa ragionevole che ho pensato e che ho fatto, è stata quella di prendere in mano il telefono (cellulare) e di chiamare, dall’Olanda dove mi trovavo, chi di dovere al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per sapere la verità. (non al Dipartimento della Polizia Penitenziaria perché il telefono non avrebbe squillato). Cosi ho fatto e questo è quello che con certezza ho appreso: Asti non avrà un secondo carcere, non è al momento in programma. Certamente quello esistente di alta sicurezza sarà prossimamente (avverbio di tempo incerto per le infrastrutture in Itali) ampliato con un nuovo padiglione da 120 posti (attualmente ne dispone di 200/250). Il padiglione sarà costruito dentro il recinto detentivo, non vi saranno per questo espropri. Potrebbe succedere che il nuovo padiglione sia costruito sulla base di un “ progetto tipo” e pertanto risulti all’uso più funzionale ed umano. La cosa mi sembra sufficiente per tranquillizzare gli animi degli amministratori locali. Mi auspico che in questo modo essi riacquistino la dovuta serenità per far sì che l’attuale carcere di Asti possa realmente diventare, anche grazie al loro interessamento istituzionalmente dovuto, il carcere della nostra Costituzione. Firmato Cesare Burdese Cuneo. Il carcere di Alba a pezzi: “Bisogna alzare la voce” La Stampa, 23 febbraio 2020 I Consiglieri e il Sindaco hanno constatato il degrado della struttura. Infiltrazioni e muffa sui muri. Perdite dagli impianti, mobili deteriorati, corridoi e stanze in abbandono. Saranno migliaia di metri quadri di edificio, tra le quattro sezioni che ospitano quelle che erano le 80 celle da due, con ambienti dedicati alle infermerie, barberie, sale per calcetto e calciobalilla, e ancora il blocco della didattica, la biblioteca che contiene ancora i libri. Nella zona cinema il programma delle proiezioni segna “gennaio 2016”. É a quella data che si è fermata la vita del carcere “Giuseppe Montalto”. Un moderno istituto penitenziario consegnato alla città di Alba nel 1987, “promosso” nel 2014 da casa circondariale a casa di reclusione e poi chiuso dopo 4 casi di legionella che hanno costretto le autorità a far evacuare in fretta e furia la struttura. Da allora, solo una minima parte dell’istituto - la vecchia sezione collaboratori di giustizia - ha ripreso l’attività ospitando una cinquantina di detenuti in un’area pensata per 35, per uno dei carceri che risulta così con il più alto tasso di sovraffollamento in Italia. Paradosso per un istituto di fatto chiuso. Dopo un ordine del giorno presentato dal gruppo consigliare Per Alba Cirio che chiede conto dei lavori promessi da quattro anni e mai avviati, ieri la IV Commissione presieduta da Gionni Marengo si è riunita al “Montalto”. Guidati dalla direttrice Giuseppina Piscioneri e il comandante Giuseppe Colombo, consiglieri di maggioranza e opposizione hanno visitato la struttura constatando quello che si sta dicendo da tempo: il carcere albese sta andando in malora. “É così - ha commentato il sindaco Carlo Bo. Se la nostra città e il territorio continuano a perdere pezzi che dipendono da enti sovracomunali è evidente che dobbiamo iniziare ad alzare di più la voce”. Ministero e amministrazione penitenziaria hanno sempre dato per prossimi i lavori e sulle carte continua a essere confermato lo stanziamento di 4 milioni e 500 mila euro. Cifra che, ora non basterà più viste le condizione dell’edificio. “Sono contento che il Consiglio abbia potuto prendere coscienza della situazione” dice il garante comunale dei detenuti, Alessandro Prandi. Napoli. Accoglienza degli ex detenuti, progetto con il cardinale Sepe Il Mattino, 23 febbraio 2020 Si presenta domani, alle ore 17, presso la sede della “Pastorale Carceraria” in via Buonomo 39 a Napoli, il progetto “accogliere per ricominciare” alla presenza del cardinale Crescenzio Sepe. Molto spesso ai margini di una società che non offre una concreta possibilità di reinserimento sociale, l’esigenza di un progetto in grado di sistematizzare un modello di intervento complesso e multidimensionale a favore dei detenuti ed ex detenuti, offrendo un’opportunità di integrazione con il tessuto sociale che si fonda sul reinserimento lavorativo delle persone con problemi di detenzione in area penale, sulla ricostruzione dei legami familiari e sul soddisfacimento dei bisogni contingenti, come quello abitativo e lavorativo. Con Sepe, saranno presenti il direttore della Pastorale Carceraria, Don Franco Esposito; dal il presidente di “Fondazione per il Sud”, Carlo Borgomeo; il referente dell’associazione “Liberi di Volare”, Valentina Ilardi; il presidente della cooperativa “Articolo 1”, Marina D’Auria; il Garante delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello. Modera Emanuela Scotti. Il progetto è sostenuto, tra gli altri, dalla curia Arcivescovile di Napoli. Catania. L’Odissea in carcere, il bello “funziona” e cambia tutti di Alfio Pennisi ilsussidiario.net, 23 febbraio 2020 Da numerosi anni un gruppetto di “ospiti” della Casa circondariale si coinvolge in un laboratorio teatrale che porta in scena testi classici. Telemaco è dentro per spaccio; anche Ulisse, d’altronde, e buona parte dei Proci. La maga Circe, laureata, colta, ha in carnet una lunga serie di reati finanziari. C’è chi ha sulle spalle un ergastolo per omicidio e chi, come Penelope, ha truffato le vecchiette. Antinoo, il capo dei Proci, è uno di rispetto; è bravo, ha imparato tra i primi la parte a memoria, e se la gode un sacco a impersonare un prepotente. Siamo in carcere - in Sicilia, a Catania - e siamo sul palcoscenico. Da numerosi anni, infatti, un gruppetto di “ospiti” della Casa Circondariale (cambiano ogni volta, o quasi) si coinvolge in un laboratorio teatrale che porta in scena testi di diverso impatto, alcuni ardui, altri più leggeri: I miserabili e Barabba, La giara e San Giovanni decollato, tanto per intendersi. Quest’anno il passo è stato coraggioso: l’Odissea, si sarà capito. Non è solo roba di regista e di attori, ma l’esito di un grande lavoro solidale, che mette insieme istituzione, detenuti e volontari. Le musiche, ad esempio, le ha scelte un volontario che ne capisce. Il laboratorio di falegnameria ha forgiato le armi, incluso il famoso arco di Ulisse; il laboratorio di taglio e cucito - reparto femminile - prepara gli abiti di scena, la Mof (Manutenzione ordinaria fabbricati, curata da detenuti lavoratori alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria) si è messa sotto per montare palco e sipario. Alle scenografie pensa uno degli attori che ha particolare vena creativa: con pennarelli, cartone, taglierino e sparachiodi ha realizzato alberi, cespugli e i giganteschi oggetti della caverna di Polifemo. Ma tutto questo gran lavoro non servirebbe a nulla, anzi, neanche ci sarebbe, se i primi a crederci non fossero Direzione e Polizia penitenziaria, che dispiegano ogni energia perché il laboratorio vada avanti e lo spettacolo ci sia. Il perché di questo grande impegno non è difficile da capire. Sul valore redentivo del teatro in carcere hanno scritto in tanti, e ci sono esperienze - in questo ambito - che si sono guadagnate stima diffusa e riconoscimenti prestigiosi: la Compagnia della Fortezza, a Volterra, le Compagnie del Teatro Libero di Rebibbia: l’Odissea catanese - bisogna ammetterlo - non è a questo livello, non ancora, per lo meno; ma ciò nulla toglie al valore umano ed educativo della vicenda. Che se è vero che l’educazione è il cammino verso la scoperta non solo delle cose ma del senso che esse hanno, è altrettanto vero che questo cammino può cominciare - per tutti, ma specialmente per queste vite per tanti versi “sbagliate” e indurite - solo per una passione che muove e commuove, e una passione si muove solo per u­na bellezza incontrata. L’ultima replica dello spettacolo, quella che i detenuti realizzano di fronte ai loro familiari, lo dice con evidenza. Per motivi di sicurezza, siamo nella sala colloqui: niente palcoscenico, niente sipario, scenografia ridotta all’osso. Ed anche la recitazione ogni tanto si inceppa: esibirsi di fronte agli occhi sgranati di madri, mariti, compagne, figli fa tremare la voce, anche a quel gradasso di Antinoo. Alla fine, più degli applausi, restano nella mente alcune parole. Le prime sono quelle di chi ha dato voce a Polifemo: “Professore, e ora? Che facciamo? Sa, noi le prove del venerdì le aspettiamo tutta la settimana”. Le seconde sono quelle di Telemaco, che spera di uscire a marzo: “Quando sono fuori, come faccio a continuare? Me lo presentate qualcuno che mi fa fare ancora teatro?”. Le ultime sono quelle della mamma di un attore, il più giovane del gruppo, all’indomani dello spettacolo. È una donna semplice ed una brava mamma, che si strugge per quel suo figlio che è dietro le sbarre e che “dentro è buono, ne sono sicura”. Quello che dice farebbe felice qualunque insegnante. “Sa, professore? Ieri sera, tornati a casa dopo lo spettacolo, con mio marito ci siamo messi al computer e siamo andati a cercare l’Odissea. Che cosa bella!”. Si ferma un po’, sovrappensiero, poi aggiunge: “Continuate, per favore. Le cose belle fanno nascere cose belle”. Il buon senso ucciso dal senso comune di Roberto Saviano L’Espresso, 23 febbraio 2020 Migranti, armi, droghe, aborto. Tutti temi che si possono affrontare in modo intelligente e pratico. E che invece vengono branditi a scopo di “trend topic”. Non esistono tanti modi per affrontare temi importanti, ma solo due: uno di buonsenso e uno stupido. Salvini affronta tempi importanti in modo stupido. Non è l’unico, ovviamente, ma oggi è il campione. Consapevole. felice e orgoglioso di esserlo. Parlare di armi e invitare le persone a farsi giustizia da sé è un modo stupido di affrontare la presunta emergenza sicurezza. Presunta perché i dati, che tutti possiamo leggere facendo una rudimentale ricerca in rete, dicono chiaramente che i reati predatori sono in diminuzione. Cosa significa questo? Che non ci sono più ladri, scippatori, rapinatori? No, certo che ci sono, ma significa che c’è una tendenza alla costante diminuzione perché evidentemente le forze dell’ordine lavorano meglio di quanto l’ex ministro voglia farci credere. E significa anche che un episodio singolo non può essere preso a regola generale. L’invito di un politico non dico serio, ma normale, dovrebbe essere quello a fidarsi delle forze dell’ordine, a sporgere denuncia e non a prendere il porto d’armi per eventualmente sparare a chi ti entra in casa. Anche perché, mi è capitato di scriverlo, se spari e uccidi, la tua vita cambia irrimediabilmente. Anche perché, mi è capitato di viverlo, se reagisci a una rapina non sai come va a finire e non vale davvero la pena rischiare la vita per la propaganda stupida, ma fatta per calcolo, di un politico incosciente. E poi ancora sulle droghe: nessuna tolleranza verso gli spacciatori di morte!, dice Salvini: li andremo a prendere casa per casa. Quante volte l’ho sentita questa cosa del “casa per casa”! Che enorme buffonata. Possibile ci sia ancora chi ci crede? Le droghe vanno legalizzate, subito e vanno legalizzate tutte perché è l’unico modo per raggiungere due obiettivi che considero rivoluzionari. Il primo è che a circolare siano sostanze controllate e non la merda che oggi “i nostri ragazzi”, come amano chiamarli i politici più inconsistenti, si iniettano nelle vene, sniffano o fumano. Perché anche qui, basta davvero fare una banalissima ricerchina in rete: se le droghe sono legali non aumentano i consumatori; che aumentino con la legalizzazione è leggenda metropolitana come quella dello spinello anticamera dell’eroina. Il secondo è prosciugare la prima voce di guadagno delle organizzazioni criminali, ovvero i proventi del narcotraffico. Chiudere quel rubinetto significa dare alle mafie un colpo da cui difficilmente si rialzeranno. Anche se le sostanze stupefacenti venissero legalizzare, ci sarebbe ancora un mercato parallelo e illegale, obbiettano alcuni. Può darsi, ma chi rischierebbe sanzioni e un processo se può procurarsi hashish. erba e magari anche cocaina ed eroina in maniera legale? Abbiamo davvero tutti gli strumenti per sbugiardare chi si presenta, come farebbe il condomino più rompipalle del quartiere, al citofono di una famiglia di immigrati per disturbare a ora di cena. Che dire poi sul come ha comunicato, più che gestito, l’immigrazione. Gli effetti dei decreti sicurezza sono disastrosi e oggi bisogna correre ai ripari provando a non far fare al Presidente del Consiglio e agli ex alleati di governo la figura degli scendiletto di un buffone. Sarà difficile. Ma veniamo all’ultima: Salvini ha parlato di aborto e ne ha parlato come se abortire fosse una cattiva abitudine, uno stile di vita sbagliato. Fai tardi la sera? Bevi uno spritz di troppo? Abortisci? Ecco, il piano è lo stesso. Ma cosa sto qui a dire che l’aborto, in verità, in Italia è un diritto negato... Cosa sto qui a dire che ci sono regioni in cui mancano medici abortisti negli ospedali pubblici... Parliamoci chiaro, il gioco orma è scoperto: dico una cazzata, occupo tutti gli spazi possibili, tutti replicano perché le sparo davvero grosse e così do l’impressione di esistere. Anzi, esisto. Il giochino dura qualche giorno: sono sempre primo in trend topic, me la gioco con Mussolini, un giorno lui, un giorno io: bene, altro “padre nobile”, un sempreverde. Guardate che il problema non è il fesso che occupa il segmento del fesso; il problema. riflettiamoci, non è Salvini, che ogni questione importante la affronta alla maniera del giullare cattivello, un po pignolo ma comunque perdigiorno, inconcludente, come quegli studenti impreparati che per far passare l’ora dell’interrogazione fanno ammuina. Il problema è che l’opzione di buonsenso non sia percorsa da nessuno: una strada deserta, vento, qualche rotolacampo. Mi perdoni Emma Bonino, che ha sempre un’opinione pragmatica, ma da sola, a bilanciare, non può farcela. Allora non chiediamoci perché ci sia stupidità nella politica, ma dove sia il suo contrario e perché in trend topic non ci arrivi mai. Droghe. Lamorgese dà il via a politiche irresponsabili e criminogene di Iuri Maria Prado Il Riformista, 23 febbraio 2020 La giustificazione è anche più grave del fatto in sé: ti becco un paio di volte con un paio di canne e ti sbatto in galera. E perché? Perché altrimenti le forze dell’ordine sono “demotivate”. Lo ha detto l’altro giorno il ministro dell’Interno, la già prefetta Lamorgese, annunciando la novella di queste politiche imbecilli, irresponsabili, criminogene, di presunto contrasto al consumo di stupefacenti. La ministrona ha detto proprio così: che i poliziotti le hanno spiegato che c’è tanta droga in giro, e loro sono stufi di arrestare gli spacciatori per poi ritrovarli in strada il giorno dopo. Questo andazzo (testuale) “incide anche sulla motivazione del personale di polizia che tanto si impegna su questo versante e vede la propria attività finire nel nulla”: e quindi alè con il carcere. Dimentichiamoci pure del fatto che l’apparato proibizionista e criminalizzante in materia di droga ha dimostrato tutta la propria incapacità di risolvere il problema. Ma che questo sistema si perfezioni in un ulteriore trionfo di manette perché ce lo chiedono le forze dell’ordine è un supplemento insopportabile nella degenerazione civile cui stiamo assistendo. Ma perdio! Assumiamo provvedimenti di legge in campo criminale secondo le istanze della polizia? E il prossimo qual è? Magari a qualche colonnello non piace poi tanto questa roba della democrazia rappresentativa, e sai quant’è demotivato davanti all’impiccio delle libere elezioni e a questa noia dei diritti individuali: che facciamo, se chiede un bel giro di vite militaresco non gli diamo ascolto? Probabilmente, e tragicamente, tutto questo è la semplice riprova che le acquisizioni civili e democratiche non sono mai acquisite per sempre e trovano banalissimi motivi di revoca: per esempio, nell’azione di una pericolosa schiatta di analfabeti issata al potere da un Paese indolente. Libia. Parla Emma Bonino: “Di Maio passa da un fallimento all’altro” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 23 febbraio 2020 Quella missione senza nome né comandante è l’ennesimo buco nell’acqua collezionato dall’Italia e dall’Europa in Libia. A spiegarne le ragioni, a Il Riformista, è Emma Bonino, già ministra degli Esteri e Commissaria Ue, oggi senatrice di +Europa. Si può affermare che la missione Ue di cui si sta da giorni dissertando sia un altro errore dell’Europa sulla Libia? Penso proprio di sì. Intanto è un oggetto misterioso, come le operazioni precedenti, il cui progetto non è mai stato presentato in Parlamento né discusso. Aspettiamo che qualcuno dica qualcosa di puntuale e non, per favore, di titoli. Ho cercato di seguire puntualmente per capire cosa abbiamo realmente deciso. Risultato? Sconsolante. Qui passiamo da un fallimento all’altro, anche se lo spacciano per un successo, vedi la Conferenza di Berlino, per riferirci solo all’ultima puntata. Probabilmente il Consiglio affari esteri che si è riunito lunedì scorso, era tenuto a fare qualcosa. Peccato che quel qualcosa è così approssimativo e confuso da dare pochissime speranze. Se capisco bene, si tratta di un’operazione che non ha né un nome né un comandante, però deve essere totalmente differente da “Sophia” e dedicata soprattutto al contrasto del traffico d’armi. Teatro dell’operazione sarebbe essenzialmente l’Est della Libia e i più ottimisti pensano da fine marzo. Ma i punti da chiarire sono talmente tanti da rendere alquanto dubbiosi su tempi ed effettiva realizzazione di questa missione. Qual è, a suo avviso, uno dei punti cruciali da chiarire? Bisognerà vedere le regole d’ingaggio. Se una nave di questa futuribile missione intercetta o sospetta che una nave, ad esempio turca, stia portando armi, violando l’embargo trionfalmente confermato a Berlino, che fa? Si limita a segnalarlo, interviene con un abbordaggio? O cos’altro? Per realizzare la innominata missione ci sarebbe bisogno del via libera dei due contendenti libici, il premier del Governo di accordo nazionale Fayez al-Sarraj e del suo agguerrito competitore, il generale Khalifa Haftar... Per lo meno. Ma la definizione delle regole d’ingaggio molto probabilmente avrebbe bisogno di un passaggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, di cui possiamo prevedere l’esito. Tanto più che solo qualche giorno fa Stepanie Williams, la vice dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Ghassan Salamè, che l’embargo sulle armi sembrava una barzelletta. Non basta. Il ministro Di Maio in più occasioni ha ipotizzato una presenza a terra, puntualizzando, bontà sua, se le autorità libiche lo autorizzeranno. Ma di quali autorità libiche parliamo? Perché ce ne sono a volontà! Non solo Sarraj e Haftar, ma anche il presidente del Parlamento, e miriadi di milizie di tutti i tipi. E quindi? C’è solo una cosa che non è “misteriosa” in questa misteriosissima missione. Quale sarebbe? Il contenimento dei migranti, che per l’Italia, o almeno per chi la governa, conta molto di più del blocco delle forniture di armi ai protagonisti di questa guerra in Libia. Senza contare che, se la geografia non è una opinione, i flussi di armi per Haftar arrivano via terra, perché le può ricevere attraverso il confine egiziano? Quindi? Qualcuno, prima o poi, dovrebbe venire in Parlamento e spiegarcelo. Anche alla luce di questa ipotetica missione, qual è la politica dell’Italia sulla Libia? Non lo so, perché io non la conosco. A parte l’ossessione per i migranti, per il resto è buio fitto. E sì che di questioni cruciali da cui dipende il futuro della Libia ce ne sono a iosa. Ad esempio? Il blocco dei pozzi petroliferi, deciso da Haftar a gennaio, è un grosso problema per la Libia, perché è chiaro che venendo meno gli introiti del petrolio, le ricadute sulle condizioni di vita della popolazione libica saranno pesantissime. Chi pagherà i salari? Anche da questo punto di vista, la Libia rischia seriamente il collasso e la paralisi. E una Libia ulteriormente destabilizzato è una mina vagante per l’intero Mediterraneo, e dunque anche per noi. Ora la missione innominata, prima Sophia. Tutto per far dimenticare l’unica missione che aveva dato dei risultati, Mare Nostrum? Quella fu bloccata dall’altra premier Matteo Renzi perché “costava troppo”. Quello è stato un duplice errore: primo, averla cancellata, e poi sostituita con Triton, - scattata nel novembre 2014 e che aveva come finalità la sorveglianza delle frontiere marittime dell’Unione europea nel Mediterraneo e il piano operativo fu concordato da Frontex con l’Italia come Paese ospitante - e successivamente con “Sophia”. Avviata nel luglio 2015. La questione migranti porta anche ai decreti sicurezza. Su questo terreno, c’è stata una modifica di linea da parte dell’attuale governo rispetto al Conte I? Per il momento niente di nuovo, al di là dei toni. Perché i decreti sicurezza ad oggi sono ancora lì con tutte le conseguenze nefaste per gli irregolari nel nostro Paese, con tutti i risultati penosi che vediamo. Da ex ministra degli Esteri, che idea si è fatta della politica estera del governo? Che la politica estera non è una priorità, e questa è una miopia di prospettiva di cui non abbiamo chiari neanche i costi, e ci interessa solo e quando ci siano eventuali impatti sulla politica interna, perdendo di vista quello che si muove nel mondo e in Europa. L’ossessione rimangono i migranti. Peraltro vale la pena segnalare che in attesa di questa futuribile missione, nel Mediterraneo oggi ci sono soltanto le tanto vituperate Ong. E va aggiunto che dopo tre anni di inchieste, di insulti, non c’è una condanna una e le navi delle Ong vengono dissequestrate: su 11 sequestrate, i dissequestri sono stati 9 e delle 11 indagini contro le Ong, nessuna condanna e 5 archiviazioni. La guerra dei vasi comunicanti tra Siria e Libia di Alberto Negri Il Manifesto, 23 febbraio 2020 Nella guerra dei vasi comunicanti tra Siria e Libia a perdere non saranno i rivali-alleati Putin ed Erdogan ma proprio gli europei, oltre che le popolazioni locali travolte da immani tragedie umanitarie e sacrificate agli interessi regionali e internazionali. Compresi quelli italiani che, per la verità, sembrano sempre meno garantiti. Se è vero, come scriveva ieri sul manifesto Michele Giorgio, che Erdogan fa appello a Macron e alla Merkel per una tregua a Idlib che impedisca a russi e siriani di prendere la città, per il leader turco - diventato anche il maggiore attore straniero a Tripoli - l’obiettivo strategico è mantenere gli accordi con la Russia: in gioco ci sono i rifornimenti energetici europei. Erdogan è stato abile a sfruttare le ambiguità europee sulla Libia ottenendo alla conferenza di Berlino un chiaro appoggio dalla cancelliera Merkel, sotto ricatto anche per i 3,5 milioni di profughi ospitati dalla Turchia. Ha rifornito Sarraj di armi e milizie jihadiste, violando ogni embargo, mentre otteneva dal vulnerabile leader libico l’appoggio allo sfruttamento delle risorse di gas nel Mediterraneo orientale. E tutto questo agendo “a casa” dell’Eni, che in Libia con l’80% del gas e buona parte del petrolio è il maggiore fornitore di energia per tutta la Libia, compresa la Cirenaica del generale Khalifa Haftar. Quattro quinti delle esportazioni sono per ora bloccate ai terminali ma in futuro Edogan vuole avere voce in capitolo anche in Libia. Se pensiamo che Sarraj e il rivale Haftar dipendono dall’export di petrolio per pagare milizie, armi e spesa pubblica e che gran parte delle entrate sono assicurate dalle attività dell’Eni, si capisce bene che l’Italia con il memorandum d’intesa libico-turco ha ricevuto dal duo Erdogan-Sarraj un bello schiaffo. Tra gli obiettivi di Eni c’è proprio quello di triplicare l’export di gas dalla Libia per alleggerire la dipendenza dal gas russo. Se è vero che l’Eni ha una quota fondamentale dei giacimenti egiziani a Zhor, a Cipro greca e interessi estesi in tutto il Mediterraneo, appare sempre meno probabile che queste risorse verranno convogliate con una pipeline East-West, destinata a restare sulla carta per i costi elevati e le oscillazioni nei rifornimenti ai mercati. Erdogan non ha molte chance di vincere la partita libica ma ha già ottenuto l’obiettivo di dare fastidio a tutti con un appoggio ai Fratelli Musulmani di Tripoli che va soprattutto nella direzione di rafforzare degli interessi turchi nel Mediterraneo e tenere sotto pressione Egitto, monarchie del Golfo ed europei. Anche a Idlib, dove la Turchia sostiene con le sue truppe i jihadisti di Al Qaeda, Erdogan ha davanti un sfida assai complicata. Ma anche qui il suo scopo non è vincere ma sfruttare la sua posizione per negoziare sia Est che a Ovest. Gli americani si sono subito infilati nello scontro tra Turchia e Russia a Idlib. Sarraj ha appena incontrato l’ambasciatore americano ad Ankara e nei giorni scorsi l’inviato Usa James Jeffrey ha definito dei “martiri” i soldati turchi uccisi a Idlib nei raid aerei russi. “A Idlib stiamo con il nostro alleato nella Nato”, ha detto Jeffrey. Frasi zuccherose che però non faranno cancellare ai turchi la fornitura di batterie russe anti-missile S-400. Per Ankara, tenendo salva la “fascia di sicurezza” già acquisita nel Rojava massacrando i curdi, è più importante fare la guerriglia sul gas offshore di Cipro alla joint venture Eni-Total che strappare a Mosca e Damasco lembi, sia pure importanti, di territorio siriano. Erdogan stesso lo conferma: “Nessun progetto nel Mediterraneo che ci escluda può essere realizzato”. Nel gioco dei vasi comunicanti tra i conflitti in Siria e Libia la strategia di Erdogan è saldata a quella di Putin. L’obiettivo primario è diventare l’hub del gas russo in Europa che per Mosca si affianca alla possibilità di raddoppiare il Nord Stram 2 con la Germania, in stallo a causa delle sanzioni americane. È la strategia definita dai russi “a ferro di cavallo”. La Russia è il più grande fornitore di gas per l’Unione europea, in contrasto con la politica energetica dell’Ue che punta, insieme agli Stati Uniti, a diversificare le fonti energetiche per evitare che Mosca rappresenti un elemento decisivo. Ma è proprio questo che si avvia a diventare la Russia con la collaborazione di Erdogan. Il Turkish Stream è la dimostrazione della spregiudicatezza di Erdogan a condurre azioni diplomatiche e belliche su più tavoli: la Turchia, in alleanza con la Russia, ha posto una forte ipoteca per diventare il crocevia del gas incrinando gli obiettivi europei e quelli italiani. Del resto è sempre più chiaro che se l’Unione non ha la forza politica per definire obiettivi comuni al suo interno, non può certo proiettarli all’esterno, come dimostrano i conflitti in Libia e in Siria. Vedremo se la nuova missione europea per far rispettare l’embargo Libia sarà davvero efficace o diventerà la solita barzelletta da raccontare agli amici al bar. Egitto. Il regime di al Sisi non sente pressioni: Zaki resta in cella di Pino Dragoni Il Manifesto, 23 febbraio 2020 Prossima udienza il 7 marzo. La mobilitazione internazionale senza precedenti non basta, detenzione rinnovata e attacchi omofobi per lo studente egiziano. Patrick George Zaki resterà dietro le sbarre per altri 15 giorni. Lo ha deciso ieri la Procura del Mansoura-2, nella città natale di Patrick, a circa 120 km dal Cairo. Il ricercatore è comparso al palazzo di giustizia con i capelli rasati, l’udienza è cominciata intorno alle 11 ora italiana ed è durata meno di un’ora. In aula erano presenti anche Peter Salling, funzionario della delegazione dell’Unione europea, e alcuni rappresentanti dell’ambasciata statunitense. Patrick manca dall’Italia ormai da due settimane, da quando il 7 febbraio scorso appena atterrato al Cairo è stato sequestrato e torturato. Su di lui pendono accuse pesanti, tra cui propaganda sovversiva e istigazione al terrorismo. Non sono bastate le pressioni internazionali, dalle dichiarazioni di vari esponenti politici e di governo italiani alle decine di piazze europee riempite in queste settimane fino alla curva del Bologna che a Patrick, tifoso e appassionato di calcio, ha dedicato uno striscione. Secondo una fonte vicina al team legale di Patrick in questi giorni la Sicurezza di stato avrebbe fatto diverse telefonate a persone impegnate per la liberazione dello studente copto, chiedendo di tenere un profilo più basso e di non esporsi con i media internazionali. Non è chiaro se si tratti di una mossa mirata a placare le polemiche per poi liberare Patrick alla prossima udienza senza troppo clamore, o se invece sia un tentativo per far smobilitare la campagna e far cadere anche questa storia nel dimenticatoio. Il rinnovo della detenzione è una formalità che per molti detenuti politici in Egitto si ripete anche decine di volte senza un rinvio a giudizio e senza che l’indagato venga messo davanti a prove o testimonianze. La frustrazione è tanta tra gli amici e i solidali della campagna, che ha visto una mobilitazione senza precedenti per un prigioniero egiziano. Ieri in molti si aspettavano che il regime avrebbe ceduto di fronte all’opinione pubblica internazionale e alle pressioni politiche. “Sono stanco, mi sento impotente e inutile”, ha twittato Amr Abdelwahab, amico di Patrick in esilio a Berlino, tra i promotori della campagna social. In queste settimane in risposta alla mobilitazione internazionale in Egitto si è intensificata anche la campagna di attacchi denigratori sui media pro-regime. “L’argomento degli studi di Patrick Zaki sono i “diritti dei gay” e lui è un attivista per i diritti dei gay e transgender. Questo mette a tacere tutti coloro che lo difendono e che vogliono farlo apparire come vittima” ha scritto il sito Akhbar el-Yom, sfruttando la diffusa omofobia per legittimare un arresto politico. Intanto l’Eipr (Egyptian Initiative Ffor Personal Rights, l’ong con cui Patrick aveva collaborato) ha presentato un ricorso per chiedere che venga aperta un’inchiesta sulle violenze subite dal giovane nelle prime ore del fermo. La prossima udienza per il rinnovo della detenzione è prevista ora per il 7 marzo, ma secondo l’Eipr il procuratore ha il potere di decidere in qualsiasi momento il rilascio di Patrick. “Lo Stato egiziano pensa che nessuno possa chiamarlo a rispondere delle sue azioni” scrive Abdelwahab. “Ora non c’è più tempo per discorsi e dichiarazioni vuote - dice riferendosi alle iniziative delle istituzioni italiane ed europee. Avviare immediatamente un’escalation di pressioni sull’Egitto: richiamare gli ambasciatori, interrompere i rapporti economici, fermare l’esportazione di armi”. La campagna ora deve prepararsi a una mobilitazione di lungo periodo. Ed è emblematico che, sempre nella giornata di ieri, mentre Patrick era in manette trattato da terrorista, i due figli dell’ex dittatore Mubarak, Alaa e Gamal (a piede libero), venivano assolti da una corte del Cairo per una spregiudicata speculazione in borsa risalente a oltre 10 anni fa.