Lavori di pubblica utilità, salute e gestione della sicurezza al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 febbraio 2020 Pubblicate le Linee guida 2020 del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Secondo il Dap le sentenze avrebbero modificato la ratio del carcere duro, ma sia la Cedu sia le Corti italiane hanno ribadito che le misure non devono essere inutilmente afflittive. Sono state recentemente pubblicate le nuove linee guida, relative all’anno 2020, a firma del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. Sono tre i punti affrontati: il lavoro, il discorso dell’assistenza sanitaria e la gestione dei detenuti in alta sicurezza e al 41bis. Per quanto riguarda il primo punto, si dà atto all’importanza del lavoro, sottolineando che si tratta del vero elemento di riabilitazione e reintegrazione sociale del detenuto. Il Dap spiega che il lavoro dovrebbe essere organizzato in maniera tale da far acquisire al detenuto professionalità e competenze spendibili all’esterno, ma “le contenute risorse economiche dedicate - si legge nelle linee guida - fanno sì che il lavoro penitenziario si riduca nella maggior parte dei casi alle due sole attività afferenti ai servizi d’istituto e alle lavorazioni”. La proposta del Dap? Ampliare i lavori di pubblica utilità sulla scia di “Mi riscatto per” dove i detenuti lavorano gratuitamente all’esterno per gli enti pubblici. L’altro tema riguarda il discorso, annoso, della salute in carcere. Il Dap evidenza che nel corso del tempo sono sorte problematiche relative alle modalità di erogazione dei servizi sanitari, che “possono spingersi a compromettere l’effettività della tutela della salute delle persone detenute”. Il Dap stesso non nasconde il problema che in certe realtà carcerarie “sono inesistenti figure, pure indispensabili nel contesto, come medici psichiatrici, ma anche psicologi, psicoterapeuti, tecnici della riabilitazione psichiatrica”. Il Dap evidenza anche un’altra problematica: ad oggi l’amministrazione non dispone di dati statistici relativi ai bisogni di salute dei detenuti e neanche una mappatura che consenta di analizzare e valutare il rapporto tra tali bisogni e le risorse del servizio sanitario. Per questo, Il Dap, chiede di promuovere una piena collaborazione interistituzionale tra il servizio sanitario nazionale e l’amministrazione penitenziaria. Il terzo tema principale affrontato nelle linee guide riguarda la gestione della sicurezza nelle sezioni di sorveglianza e il 41bis. In sostanza il Dap esprime una sua valutazione in merito all’interpretazione giurisprudenziale emanata dalla Corte europea dei diritti umani e dalle alte corti italiane. Da parte del Dap tali sentenze avrebbero “progressivamente ridimensionato i contenuti operativi e trattamentali dando al regime del 41bis una fisionomia molto differente da quella che era la ratio originaria”. Il Dap corrobora la sua preoccupazione citando l’attenzione data dalla Commissione parlamentare antimafia e della Procura nazionale. Il problema è che il 41bis è stato sottoposto a sentenze o a ordinanze della magistratura riguardanti diverse misure considerate inutilmente afflittive: parliamo della possibilità di vedere la televisione di notte, di poter cuocere il cibo, possibilità di usare Skype super controllato per effettuare colloqui con persone altrettanto recluse al 41bis. Piccole, ma inutili restrizioni che in realtà, di fatto, non hanno nulla a che fare con lo scopo originario del cosiddetto carcere duro. Così come il discorso del 4bis, l’articolo dell’ordinamento penitenziario che vieta qualsiasi beneficio penitenziario se il detenuto sceglie di non collaborare. Lo scopo originario, voluto da Giovanni Falcone, era quello non di precludere per sempre tale possibilità, ma di renderla più difficile in funzione di premiare chi invece sceglie di diventare un collaboratore di giustizia. Come ha ben rilevato l’ex senatore Luigi Manconi quando aveva presieduto la Commissione parlamentare sul regime speciale, la ratio originale del 41bis, in realtà “non dovrebbe costituire un regime crudelmente afflittivo, ma impedire la relazione con l’organizzazione criminale”. Il Dap fa cenno a dei cellulari ritrovati in possesso di un detenuto al 41bis. Ma le sentenze delle alte Corti c’entrano ben poco. “Il sistema penale minorile funziona”: il 5° Rapporto di Antigone sui ragazzi in carcere di Marta Rizzo La Repubblica, 22 febbraio 2020 C’è però la crescita delle segnalazioni di minori per associazione mafiosa. Necessaria una maggiore attenzione alle esigenze di dialogo e vita con il “fuori”, per i ragazzi che sono dentro. Il rapporto Guarire i ciliegi prende spunto da un verso della canzone di Fabrizio De André “Un medico” e costituisce l’ossatura del V Rapporto Antigone sugli Istituti Penitenziari Minorili (IPM). In estrema sintesi: diminuiscono sia i reati che i detenuti; irrilevante la prescrizione; i ragazzi in IPM sono soprattutto italiani; soddisfacente il sistema delle comunità. Antigone sottolinea tuttavia la crescita delle segnalazioni di minori per associazione mafiosa; l’interpretazione troppo restrittiva della riforma della normativa minorile del 2018; e chiede maggiore attenzione alle esigenze di dialogo e vita col fuori, per i ragazzi dentro. Pochissime le ragazze. I giovanissimi reclusi sono nella Comunità Amigò, che accoglie ragazzi sottoposti a misure alternative alla detenzione, minori stranieri non accompagnati e minori sottoposti a provvedimenti civili. Sono 375 i minori e giovani adulti in Italia, per la maggior parte italiani (il 70% del totale), pochissime le ragazze (il 6,1%). Insomma, “Nel complesso, quello minorile è il sistema carcerario che meglio funziona in Italia”: è il commento di Gemma Tuccillo, capo del Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità (Dgmc). Il “fascino” della cosca mafiosa. Ad oggi, dice l’Associazione Antigone, sono 375 minori e giovani adulti presenti negli Ipm. Il 6,1% è composto da ragazze. Al 15 gennaio, i minori e giovani adulti detenuti erano distribuiti in 17 istituti con caratteristiche e dimensioni diverse tra loro: quello con più presenze era quello di Nisida, con 45 detenuti, mentre alla stessa data a Caltanissetta ce n’erano solo 3. In tutta Italia, quel giorno erano detenute 23 ragazze, 12 delle quali a Pontremoli (unico IPM solo femminile d’Italia). Calano gli omicidi di quasi il 50% e anche furti e rapine di circa il 15%. Fra il 2014 e il 2018, le segnalazioni della polizia per delitti commessi da minori sono diminuite dell’8,3%: da oltre 33.300 nel 2014 a 30.600 nel 2018. Calano gli omicidi volontari (-46,6%) e colposi (-45,4%), i sequestri di persona (-17,2%), i furti (-14,03%), le rapine (-3,9%) e l’associazione per delinquere (- 82,5%). Preoccupa la crescita, dal 2014, dei minori segnalati per associazione di tipo mafiosa (+93,8%: erano 49% nel 2014 e 95% nel 2018). Il 70% dei giovani imputati sono italiani. Gli imputati minorenni sono per il 70% italiani e per il 30% stranieri. Oltre l’84% sono maschi e meno del 16% sono femmine (sia per gli italiani che per gli stranieri). Il 30,5% degli imputati maschi ha fra i 14 e i 15 anni, il 69,5% ne ha 16 o 17. Le ragazze imputate con un’età fra i 14 e i 15 anni (il 40% del totale) sono più dei ragazzi; le imputate con un’età fra i 16 e i 17 anni (il 60%) sono meno. La giustizia penale italiana per i giovani è la migliore d’ Europa. In Italia i ragazzi vengono molto ascoltati anche nelle norme che ne regolano l’incarcerazione e sono meno che in altri Paesi europei. Il Portogallo è lo Stato che ha l’età più alta per l’imputabilità. In Europa, l’età a partire dalla quale si è imputabili spazia tra i 12 anni di Olanda e Irlanda e i 16 del Portogallo. In Svezia, Repubblica Ceca, Finlandia e Danimarca si è penalmente responsabili a 15 anni. In tutti gli altri paesi, Italia inclusa, a 14 anni. Fanno eccezione Polonia e Francia, dove si diventa penalmente perseguibili a 13 anni. Rispetto ai suoi vicini, l’Italia ricorre alla detenzione in maniera residuale e calano i ragazzi detenuti. Incarcerati per lo più in custodia cautelare. Storie difficili precedono le violenze dei giovani reclusi e spesso non hanno un posto sicuro dove vivere liberamente: questo è uno tra i motivi per cui il 72% dei ragazzi entrati in IPM è in custodia cautelare. La durata media della permanenza è poco superiore ai tre mesi. La durata della pena dei ragazzi in IPM è generalmente breve: in media 102 giorni nel 2019. I bambini e i giovanissimi sono solo il 7,2% del totale. I giovanissimi sono molto pochi. Resta maggioritario il gruppo dei ragazzi che hanno 18, 19 o 20 anni, ma sono molti anche quelli che hanno 16 o 17 anni. In media, gli stranieri appaiono leggermente più giovani degli italiani. I ragazzini con età compresa tra i 14 e i 15 anni sono il 7,2%; quelli tra i 21 e i 25 anni (che hanno commesso il reato da minorenni, i così detti giovani adulti) sono il 15,5%; il 35,2% ha tra i 16 e i 17 anni e il restante 42,1% tra i 18 e i 20 anni. Il 17% dei ragazzi detenuti ha commesso reato contro la persona. Tipologie di reati. I reati contro la persona, i più gravi, riguardano solo il 17% di chi entra in IPM. Il 62% ha commesso illeciti contro il patrimonio. L’IPM, quindi, funziona soprattutto come strumento per incidere sul percorso trattamentale di ciascun ragazzo. Il ricorso a questo strumento è poi più frequente e prolungato per chi manca di un’adeguata struttura familiare e territoriale alle spalle. Il ruolo rilevante delle comunità. La maggior parte dei ragazzi arriva in IPM dalle comunità di accoglienza. E verso le comunità è diretta quasi la metà delle persone che escono. Solo il 10,3% dei ragazzi esce dagli IPM perché ha finito di scontarvi la propria pena. L’11’8% esce per essere trasferito verso strutture per adulti, perché superato il limite di età per restare in IPM, per volontà propria (oltrepassati i 25 anni), o per via una di una refrattarietà alla vita interna dell’istituto. D’altronde, se al 15 gennaio 2020 i ragazzi in IPM erano 375, nello stesso giorno i ragazzi in comunità erano 1.104. La comunità di accoglienza è asse portante. I 1.104 ragazzi sono inseriti nel sistema delle comunità di accoglienza, che ospita nel complesso circa 20.000 ragazzi, dei quali, dunque, quelli provenienti dall’area penale sono una minoranza. La loro presenza è quasi raddoppiata negli ultimi 10 anni. Questi numeri hanno fatto del sistema delle comunità un asse portate della giustizia minorile italiano. La maggioranza dei ragazzi entra in comunità in misura cautelare, un gruppo più ristretto proviene dagli IPM, circa il 20% è in comunità nell’ambito di un progetto di messa alla prova. “Molti i segnali di miglioramento”. Per prima cosa - dichiara Gemma Tuccillo, Capo del Dgmc - vorrei osservare che, a fronte di una capienza di 529 posti disponibili, il sistema penitenziario minorile non presenta problemi di sovraffollamento e che è possibile rispettare il principio di territorialità. L’entrata in vigore del Decreto legislativo del 2 ottobre 2018, poi, ha finalmente dotato il nostro Paese di un ordinamento sull’esecuzione penale minorile. Gli effetti positivi - ha aggiunto Tuccillo - hanno prodotto effetti positivi nel miglioramento dei progetti di recupero e della vita detentiva e nella risposta di tutti gli operatori della Giustizia minorile e di comunità. Punire con il carcere gli spacciatori “recidivi” servirà solo a sostituirli, non a eliminarli di Adriano Sofri Il Foglio, 22 febbraio 2020 Il proposito del ministro Lamorgese potrebbe far tracimare le galere di nuovi detenuti in custodia “cautelare”. La signora ministro dell’Interno, Lamorgese, che allontana da sé le tentazioni partitiche, ha dalla sua un’esperienza professionale e un riconosciuto buon senso. Doti che sembrano ambedue tradite dal proposito di modificare le norme in vigore (già effetto di una correzione costituzionale) così da attuare la reclusione in carcere per i responsabili recidivi di piccolo spaccio. Vecchia storia. L’attributo di “recidivo” è pressoché pleonastico per i piccoli spacciatori, italiani o stranieri, che sono pressoché sempre anche consumatori e tossicodipendenti. Lo spaccio è il loro modo di procurarsi la sostanza. E chi è povero e consuma sostanze di qualunque genere non lo fa una volta sola, e non è granché dissuaso dalla minaccia del carcere. La ministra vuole affrontare lo scandalo, sentito dai cittadini e soprattutto dalla polizia, di uno spacciatore denunciato e rivisto la mattina dopo all’opera. Con la misura che la ministra propone, cittadini e polizia avrebbero la consolazione di vedere una faccia nuova allo stesso posto la mattina dopo e ogni giorno dopo, e la galera tracimare di nuovi detenuti in carcere “cautelare”, aggiunti a quelli, giovani i più, che già affollano per un terzo le scandalose carceri italiane. Un processo celere: soluzione che garantisce vittime e imputati di Guglielmo Gulotta Il Dubbio, 22 febbraio 2020 Prescrivere la prescrizione? Analisi sulle opzioni in campo. C’è un confronto di due atteggiamenti nei rispetti della prescrizione che lasciano trasparire delle prospettive ben più profonde. Da un lato c’è chi pensa che stabilire dei tempi non brevi per far venir meno l’interesse dello Stato a punire il colpevole, sia un’ingiustizia sociale. Dall’altro c’è chi ritiene che condannare all’”ergastolo processuale” un individuo incappato nelle maglie della giustizia sia un’offesa allo stesso valore, cioè la giustizia sociale (il processo è di per sé una pena). Ma per fare il bene, lo dice Manzoni a proposito di donna Prassede, bisogna conoscerlo. Diamo questo piccolo contributo relativo ai principi generali: la pena deve tendere alla rieducazione del condannato (art. 13 c. 4 Cost.). È pensabile di educare un individuo punendolo per un fatto compiuto quindici o vent’anni prima? Il processo deve avere una durata ragionevole (artt. 111 Cost. e 6 Cedu): è accettabile che duri per quindici o vent’anni? Esiste la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva (art. 27 Cost.). Distinguere, come è stato anche proposto, tra condannati e assolti in primo grado non crea una disparità oltre tutto inconcepibile ai sensi dell’art. 3 della Cost. che ci vuole tutti uguali? (almeno quanto ai diritti). Fino alla riforma della prescrizione resa attualmente in vigore viene meno il vero baluardo esistente alle lungaggini dei processi per le quali abbiamo dovuto rendere conto in sede sovranazionale. Un processo che si possa presumere senza fine certa è d’altronde un danno anche per le vittime o i loro parenti, se decedute, i quali possono avere soddisfazione morale e pecuniaria solo con la sentenza definitiva. Fare d’altra parte riferimento al calcolo della prescrizione non ai reati ma al fatto che l’imputato sia stato assolto o condannato in primo grado è costituzionalmente inaccettabile. Dunque, un processo celere è l’unica soluzione che garantisce i diritti all’imputato e alle parti offese consentendo la determinazione dei tempi in cui lo Stato non ha più interesse a punire il reo. Ovviamente per accorciare i tempi, occorre un particolare equilibrio normativo che non conculchi i diritti di alcuno, per esempio abolendo il secondo grado di giudizio o prevedendo la reformatio in peius del condannato in primo grado che impugni la decisione. Il dibattito, per la verità ancora aperto, ha mostrato due aspetti che vedo positivamente: primo, si è rotto il fronte unitario che normalmente la magistratura, attraverso quelli che si espongono al dibattito pubblico, manifesta nei confronti delle decisioni politiche in materia forense. Mentre in generale essa si è detta favorevole nei confronti delle decisioni governative, alti magistrati hanno segnalato invece quali possono essere le ricadute sotto il profilo della gestione giudiziaria della res publica, ove ci si appoggi a una prescrizione praticamente bloccata. Quello che non si dice è che i magistrati in generale non amano che un processo si prescriva nel loro grado di giudizio - accadono così talvolta, delle forzature come dichiarare inammissibile un’impugnazione non così sballata in modo che non sia applicabile la prescrizione - e questo li spinge ad accelerare la fissazione del processo. Nella cartellina del dossier giudiziario c’è spesso scritto “si prescrive il…”, monito per fissare l’udienza tenendo conto della scadenza. Secondo aspetto positivo: la voce degli avvocati si è fatta sentire alta e forte con varie iniziative mediaticamente incisive. Quello che va sottolineato è che gli avvocati sono avvocati di tutti quindi non solo, come è visto tradizionalmente, dell’imputato, ma anche delle vittime e delle parti offese; la protesta che essi esprimono è rivolta anche in loro favore. Restiamo allora in attesa di una revisione generale del processo penale cui conseguirà una revisione dei tempi delle prescrizioni ma, ripeto, basate sui tipi e la qualità del reato e non sul tipo della qualità della persona (assolta o condannata) che si suppone lo abbia compiuto. Intercettazioni, governo verso il voto di fiducia. Ma il decreto è a rischio di Liana Milella La Repubblica, 22 febbraio 2020 La scadenza di fine mese potrebbe saltare per l’ostruzionismo. Ipotesi “ghigliottina”. Nubi nere sul decreto intercettazioni. È appena alle spalle la buriana del Senato, e già si apre quella di Montecitorio. Con la minaccia per il governo di non farcela a convertirlo per il 29 febbraio, giorno della sua scadenza. Quindi bisogna chiuderlo entro venerdì. Ma il centrodestra minaccia un ostruzionismo durissimo e trabocchetti col voto segreto che potrebbero raccogliere anche il dissenso di Italia viva. Da ieri il decreto è in commissione Giustizia e, fatto eccezionale, sarà votato domani. Per andare in aula lunedì, quando il governo porrà subito la fiducia. Ma sia sulla fiducia che, subito prima, sulle pregiudiziali di costituzionalità, potrebbe scattare la trappola del voto segreto, ordita dal responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa che ormai ha dichiarato guerra non solo alla prescrizione, ma pure alle intercettazioni. Tant’è che tra gli emendamenti in commissione è ricomparso quello per far slittare la prescrizione al 2021, che ha creato forte fibrillazione al Senato e alla Camera riproporrà la quasi parità di numeri tra maggioranza e opposizione. Ma il vero rischio per i tempi è in aula. È stato il presidente della Camera Roberto Fico a voler anticipare da martedì a lunedì la discussione. Consapevole dei rischi della conversione. La discussione generale non ha limiti di tempo, ma è possibile una tagliola. Il primo scoglio saranno, nel pomeriggio, le pregiudiziali di costituzionalità - finora tre di Fi, Lega, Fdl - su cui si può chiedere il voto segreto. Qui la maggioranza non dovrebbe rischiare. Subito dopo il governo porrà la fiducia da votare martedì. E anche questo voto dovrebbe andare liscio. Ma dopo si apre la battaglia degli ordini del giorno che invece potrebbero bloccare il decreto. Un testo di cui Costa dice: “Trasforma il telefono in un guardone senza regole e senza limiti, neppure in casa o in camera da letto. Bonafede si mette sotto i piedi l’intimità familiare degli italiani”. Questo diventerà lo slogan dei nemici del Trojan. Su cui ogni deputato potrà presentare un ordine del giorno, con la possibilità di parlare 5 minuti per illustrarlo e altrettanto per la dichiarazione di voto. I 257 deputati di Fi, Lega e Fdl potrebbero andare avanti all’infinito. Idem per le dichiarazioni di voto, qui ben 10 minuti per ciascuno. Restano due strade, le sedute fiume notturne, o la “ghigliottina”, una decisione unilaterale del presidente della Camera che taglia il dibattito e costringe al voto. Strumento usato il 29 gennaio 2014 dall’ex presidente Laura Boldrini sul decreto Imu-Bankitalia per garantirne la conversione. Allora si scatenò una durissima reazione dei SStelle, in aula intervenne l’attuale Guardasigilli Bonafede parlando di “attacco alla Costituzione”. Fico su Twitter ironizzò su “Laura tagliola Boldrini”. Ma per salvare il decreto stavolta potrebbe non esserci altra via. Intercettazioni, la libertà di spiare che piace tanto al giornalismo moderno di Angela Azzaro Il Riformista, 22 febbraio 2020 Le intercettazioni non colpiscono solo i diritti della persona e per una giustizia giusta. Hanno lasciato per terra un’altra vittima: esangue, umiliata, senza più un filo di voce autorevole. Questa vittima si chiama informazione: di carta, web e televisiva. Decenni di intercettazioni sbattute sulle pagine dei giornali, hanno cambiato anche il modo di fare informazione, hanno modificato il rapporto che i giornalisti hanno con le notizie. Invece di indagare, approfondire, verificare la fonte, tutto è di colpo più facile: basta prendere le intercettazioni fatte delle procure, non preoccuparsi della privacy o della dignità delle persone e pubblicare tutto, sperando di vendere di più. L’apice lo abbiamo raggiunto con Berlusconi: tutto, ma proprio tutto, è stato ripreso da media. Spesso il penale non c’entrava per nulla. E con la scusa della morale, molti giornali hanno proposto pagine e pagine che di morale avevano poco, trasudavano invece moralismo, perbenismo. E ferocia. In nome della libertà di espressione, ormai è passata l’idea che si possa e debba mettere in piazza la vita privata delle persone e se, dicono qualcosa di sbagliato, le si sottopone al pubblico ludibrio. Inutile ricordare come una parola fuori contesto assume un significato diverso da quello originale, ancora più inutile sottolineare come una dichiarazione fatta in privato non ha la stessa valenza di una dichiarazione pubblica. Ciò che conta è spiare, osservare gli altri dal buco della serratura come davanti alla scena primaria, quella che secondo Freud mette tutti davanti alla scoperta della sessualità dei propri genitori. E qui troviamo una seconda vittima di questa messa in scena che sa tanto di gogna, lettori, spettatori e quindi cittadini e cittadine che in questi anni si sono nutriti di questi racconti. Abbiamo letto le vite degli altri, abbiamo sorriso, a volte anche riso, delle altrui debolezze, abbiamo fatto processi sommari sulla base di un dialogo, di una frase, di un altrui risata. Siamo diventati spietati. Le intercettazioni non ci hanno reso più sensibili, più attenti, più solidali. Al contrario hanno spezzato la possibilità di identificarci nell’altro: nei suoi errori, nelle sue debolezze, nelle sue paure. Quando leggiamo questi racconti, trascritti quasi sempre malamente e ora scopriamo anche distorcendo il significato, dimentichiamo d’un colpo millenni di cultura, di storia, di letteratura. Se con Fëdor Dostoevskij abbiamo avuto la possibilità di entrare nella testa e nel cuore di un assassino, di perdonare il suo gesto, leggendo i resoconti dello spionaggio delle procure, siamo diventati solo più cattivi, insensibili, pronti a giudicare e condannare l’altro. Nel romanzo La Panne di Friedrich Dürrenmatt un pm, un giudice, un avvocato e un boia si divertono a rifare i grandi processi del passato oppure si accaniscono su persone prese a caso, convinte, come Davigo “che tutti abbiano una colpa da nascondere”. I quattro un giorno incontrano un commesso viaggiatore, a cui si è rotta la macchina e a cui danno ospitalità, che viene processato e condannato. A morte. Lo scherzo finisce in maniera tragica, perché l’imputato per gioco si toglie la vita per davvero. Il terribile gruppo oggi è composto anche da giornali e tv. E da tutti noi. Finché quelle intercettazioni non sconvolgono anche le nostre vite, la nostra privacy. Ma c’è chi continua a chiamare la loro pubblicazione libertà di espressione. Almeno cambiamogli nome e chiamiamola, più precisamente, libertà di spiare e di linciare, con la benedizione dell’Ordine dei giornalisti e della Federazione nazionale della stampa che o non dicono nulla o difendono questa barbarie. Il romanzo di Dürrenmatt, che è anche un film con Alberto Sordi, ha come sottotitolo: una storia ancora possibile. Intercettazioni, il “segreto” del difensore resta sacrificato senza un motivo credibile di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 22 febbraio 2020 Neppure il nuovo Decreto rende effettivo il divieto di captare i colloqui fra legale e assistito. Tutto in nome della remota ipotesi che quelle comunicazioni integrino dei reati. Seppure apparso cruciale solo negli ultimi giorni, dopo essere stato messo in ombra, per un paio di mesi, dalla riforma della prescrizione, il tema delle intercettazioni porta con sé altrettanto delicati risvolti in ordine alla corretta applicazione del diritto di difesa e ai principi costituzionali del giusto processo. Premessa necessaria e punto di partenza per una compiuta analisi a riguardo è rinvenibile nel fondamentale principio contenuto all’articolo 103, comma 5, del codice di procedura penale: “Non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori”. Questa norma è oggi purtroppo ancora elusa, anche alla luce dei provvedimenti legislativi ed è proprio per questo che il tema merita attenzione. Il percorso di modifica della materia delle intercettazioni trova il suo esordio nella riforma Orlando (D. Lgs. 216 del 2017), che ha - per l’appunto - apportato cambiamenti al codice di rito soprattutto in materia di riservatezza delle comunicazioni oggetto di intercettazione. Con tale provvedimento viene aggiunto un settimo comma all’articolo 103 c. p. p., ove prima vengono ribaditi i limiti ed i divieti di utilizzazione delle intercettazioni e successivamente viene precisato come, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente. Queste modifiche sembravano poter rappresentare un primo passo verso una disciplina stringente e chiara in materia, che comprendesse al suo interno anche la previsione puntuale dei limiti cui le operazioni di intercettazione devono essere sottoposte, soprattutto in relazione alle comunicazioni tra l’indagato e il suo difensore. Tuttavia, anche alla luce del nuovo provvedimento a firma del guardasigilli Bonafede la situazione continua a lasciare irrisolte alcune questioni, non compiendo quel passo avanti necessario per tutelare completamente le conversazioni tra il professionista e l’assistito, rendendo effettivo il summenzionato principio di cui all’art. 103. In altre parole, attualmente residuano possibilità per la pubblica accusa di poter comunque intercettare e utilizzare tali delicate conversazioni. Appare tuttavia chiaro come tale evenienza sia in contrasto con i principi costituzionali legati al diritto di difesa e al giusto processo: l’assistito deve poter essere libero di confrontarsi col proprio avvocato, definendo insieme la miglior linea difensiva e avendo certezza che la pubblica accusa non possa trarre vantaggi o comunque non possa subire influenze - dall’ascolto di queste conversazioni. Queste esigenze sono state esposte fin dal giugno del 2018 da Andrea Mascherin, presidente del Cnf, che in un comunicato di quel periodo da un lato apprezzava le modifiche della riforma Orlando ma dall’altro lato chiariva l’assoluta esigenza di rendere vietato - in maniera effettiva - l’ascolto di colloqui difensore-assistito, senza alcuna eccezione. Come anticipato, il secondo passaggio di questo percorso di riforma è rappresentato dal D.L. 161 del 30 dicembre 2019 ora in via di conversione al senato. Il provvedimento da un lato rafforza gli strumenti a disposizione delle Procure per eseguire le intercettazioni, e dall’altro lato cerca di implementare la tutela della riservatezza. Ma rispetto al preesistente divieto di utilizzare le intercettazioni tra avvocato e cliente non aggiunge nulla al parziale passo avanti del decreto Orlando. Restano permesse le intercettazioni tra legale e cliente in due casi: quando le stesse persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati e per tutelare l’esigenza di utilizzare le stesse intercettazioni qualora costituiscano il corpo del reato. Al conseguente richiamo ribadito dal Cnf, cui non si può che dar sostegno, si aggiunga come, proprio in uno Stato di diritto che si fonda su una carta costituzionale, sia necessariamente doveroso operare un bilanciamento tra i principi costituzionali: in questo caso il diritto di difesa, il diritto alla privacy e la necessità di avere un processo giusto e imparziale devono necessariamente prevalere sulla circostanza - rara e assolutamente marginale per la quale in occorrenza di un colloquio tra il cliente e l’assistito emerga un indizio di reato. Una diversa soluzione configurerebbe una palese violazione del diritto dell’imputato. Per tali ragioni, seppur annotando come la strada perseguita per riformare il tema delle intercettazioni sia corretta, risulta doveroso rilevare ancora una volta l’esigenza di rendere assoluto il divieto di intercettare le conversazioni o le comunicazioni dei difensori, senza alcuna eccezione di sorta. *Avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, econmici e giuridici Giudici e Bonafede, paralisi garantita di Francesco Damato Il Dubbio, 22 febbraio 2020 Non so, francamente, se a questo punto delle trattative, consultazioni e quant’altro sulla riforma del processo penale - necessaria per evitare che la prescrizione bloccata attualmente col primo grado di giudizio, si trasformi nell’ergastolo esistenziale dell’imputato, per quanto a piede libero nella maggior parte dei casi - siano più sfortunati i vertici dell’associazione nazionale, cioè del sindacato, dei magistrati o il guardasigilli Alfonso Bonafede, peraltro sotto minaccia di sfiducia individuale al Senato. Dove i numeri della maggioranza sono per lui estremamente pericolosi e i potenziali “responsabili” sensibili alla sorte del governo, e ancor più della legislatura, tra le fila berlusconiane ben difficilmente potrebbero salvare il capo della delegazione pentastellata nell’esecutivo, anche se volessero, dato il terreno assai sensibile - quello delle giustizia - su cui si gioca la partita aperta nello schieramento giallorosso da Matteo Renzi. Il nodo delle sanzioni disciplinari per i magistrati nelle mani dei quali si allungano troppo i tempi processuali previsti dalla riforma predisposta da Bonafede è arrivato al pettine, con il “tavolo” predisposto per il 26 febbraio, che il sindacato delle toghe ha deciso di disertare per protesta, nel momento più infelice per entrambe le parti. Anche se volessero, i vertici dell’associazione dei magistrati non potrebbero mollare sulla strada della resistenza o contrarietà perché la pagherebbero troppo cara nelle elezioni interne del 22 marzo, come ha spiegato bene Errico Novi descrivendo la geografia molto complicata del sindacato delle toghe, analoga per correnti e quant’altro a quella dei partiti più variegati e sofferenti. Pure il ministro Bonafede, d’altronde, anche se volesse andare maggiormente incontro alle attese, richieste e quant’altro dell’associazione dei magistrati, mobilitatitisi per respingere l’immagine che si potrebbe avere di loro come di “fannulloni”, che fanno marcire i fascicoli giudiziari come frutti sugli alberi, non potrebbe perché esporrebbe il fianco a Renzi e alle opposizioni di centrodestra ancora più di quanto non abbia già fatto rifiutando la sospensione della sua disciplina della prescrizione, in vigore dal 1° gennaio scorso. È una sospensione giustamente reclamata per modificarla e contestualizzarla con la riforma del processo penale, finalizzata a garantirne la ragionevole durata imposta dall’articolo 111 della Costituzione. La sfortuna dei vertici associativi delle toghe e del ministro della Giustizia è aggravata dalla coincidenza della crisi dei loro rapporti con la notizia fresca di stampa di una decisione presa da un giudice delle indagini preliminari a Roma sulle indagini che portano la sigla della Consip, la centrale degli acquisti della pubblica amministrazione, dopo più di un anno - sedici mesi, a quanto paredalle richieste avanzategli dalla Procura della Repubblica. Ancora più lungo fu il tempo trascorso in passato, nello stesso ufficio, per gli sviluppi di un’altra clamorosa vicenda processuale: quella sui guadagni di borsa effettuati con le azioni delle banche popolari fatte acquistare da un imprenditore informato della loro imminente riforma dal presidente del Consiglio in carica in quei tempi. Non faccio nomi, né del giudice né degli indagati, e della loro rilevanza politica, mediatica o d’altro tipo ancora, perché ritengo - magari ingenuamente, da ricovero in qualche struttura sanitaria, o da soccorso con qualche ambulanza lanciata a sirene spiegate per le strade di Roma- che il problema travalichi gli aspetti personali e riguardi, più generalmente, il funzionamento degli uffici e della macchina giudiziaria nel suo complesso. Chi giustamente reclama, specie sul sensibile e appropriato fronte forense, indagini e decisioni più accurate che affrettate, a garanzia degli imputati e della Giustizia, con la maiuscola, converrà che più di un anno per esaminare un fascicolo, per quanto voluminoso, è un tempo troppo lungo per fare spallucce e passare ad un altro argomento. E tanto meno per liquidare il garantismo, che inorridisce sia per la giustizia affrettata sia per quella a tempo sostanzialmente indeterminato, come un vizio che il lupo, buono o cattivo che sia, non perde neppure cambiando pelo. Non solo prescrizione, la questione è tosare il potere di Alberto Mingardi Gazzetta del Mezzogiorno, 22 febbraio 2020 La discussione politica non è una conferenza fra specialisti: e dunque, giustamente, semplifica, smozzica, traduce questioni complesse in materia digeribile dai più. Fa impressione però il tenore del dibattito sulla prescrizione. I sostenitori della riforma Bonafede sono riusciti a far passare l’idea che coloro che vorrebbero abolirla o rivederla in realtà vogliano soltanto creare conflitti all’interno della compagine governativa. Questo, nel caso di Renzi, che fa di tutto per confermare l’impressione. Nel caso dell’opposizione, va da sé che Forza Italia rappresenta i corrotti e Salvini e Meloni, pure più prudenti del solito sulla questione, vorrebbero rappresentarli, ereditando tutto il pacchetto di “deplorabili” elettori berlusconiani. È un mondo senza sfumature di grigio, guardie da una parte ladri dall’altra, e all’italiano medio, convinto - tutto sommato non a torto - che il grosso della classe dirigente del Paese giochi nella seconda delle due squadre, riesce facile capire per chi parteggiare. In realtà i giuristi spiegano che la prescrizione è parte dell’istituto del processo penale, non va considerata di per sé ma nell’economia del funzionamento complessivo del nostro diritto. Alla più parte di noi dovrebbe bastare sapere che la prescrizione esiste a garanzia del diritto di difesa, serve affinché nessuno di noi possa subire processi infiniti perché sospettato di un certo reato. Se adottiamo il punto di vista per cui ognuno di noi è colpevole fino a prova contraria, va da sé che si tratta di un regalo ai criminali. Ma se pensiamo che sia vero il contrario, che civiltà voglia che ciascuno di noi sia considerato innocente fmché non emergono prove chiare a dimostrarne la colpevolezza, la prescrizione fa parte di quell’insieme di norme, comportamenti, istituti che passano sotto il nome di “certezza del diritto”. Perché la certezza del diritto è tanto importante? In buona sostanza, perché è uno dei modi coi quali si limita il potere: il potere dello Stato e dei suoi tentacoli, magistratura inclusa. Perché è importante limitare quel potere? Basti pensare alla più nota delle defmizioni di Stato: il monopolio della violenza legittima. La parola “violenza” non è lì per caso. Le nostre chiacchiere di tutti i giorni sono intrise di “potere”. Riteniamo che sia potente tizio oppure caio, immaginiamo poteri forti che tramano nell’ombra, consideriamo una grande impresa un “potere economico”, c’è “potere” persino nei reality televisivi e nelle più scalcinate associazioni di periferia. Però nessuno di questi “poteri” può, se lo ritiene, requisirti la vita. Nessuno può bloccarti i conti correnti. Nessuno può decidere che per alcuni mesi o anni non potrai andare dove vorresti, o vedere le persone che desideri, quando lo desideri. Il potere pubblico cerca di limitare la violenza nella società, la monopolizza per ridurre lo spazio a disposizione dei banditi di strada, di stupratori e topi d’appartamento. Ma chi monopolizza le risorse di violenza si trova a godere di immense possibilità di condizionare le vite degli altri. “Se gli uomini fossero angeli, nessun governo sarebbe necessario. Se gli angeli governassero gli uomini, nessun controllo - esterno o interno - sul governo sarebbe necessario. Nel prefigurare un governo di uomini su altri uomini, questa è la difficoltà più grande: prima bisogna permettere al governo di controllare i governati, poi obbligare il governo a controllare se stesso”. In quattro righe, James Madison sintetizzò alla perfezione quello che è il problema di una società che voglia essere libera e ordinata. Le due cose non sono solo compatibili, lo sono necessariamente: senza un minimo di ordine, non si può godere appieno della libertà. Ma senza libertà non c’è ordine, c’è arbitrio, c’è un regime di terrore o la sua anticamera. Ecco, il diritto è uno degli strumenti che abbiamo ereditato per cercare di mantenere questo equilibrio delicato. La prescrizione sarà pure materia che si presta a contingenti valutazioni politiche. Ma pensare che si tratti soltanto di questo, accettare che così ci venga raccontata, vuol dire rivelare che non si pensa che il potere debba essere limitato. Effettivamente per contenere, limitare, circoscrivere il potere serve sempre una cultura che abbia proprio questa limitazione come obiettivo, una cultura che informi i comportamenti e le parole della classe politica ma anche di tutti noi. In Italia quella cultura è oggi patrimonio di pochissimi. Forse anche questo contribuisce a spiegare lo stato miserevole delle nostre istituzioni e del nostro Paese. I teatranti della mafia di Giuseppe Sottile Il Foglio, 22 febbraio 2020 Il palcoscenico offerto a boss e pentiti. Altro che 41bis. Da Riina a Graviano, ciascuno recita la propria epopea. Finora sul palcoscenico delle fiction e del cinematografo c’è salito il popolo dell’antimafia: con i suoi magistrati coraggiosi, con i suoi registi impegnati, con i suoi attori animati da forte impegno civile. E per averne un esempio basta guardare il film con il quale Marco Bellocchio e Pierfrancesco Favino rendono l’onore delle armi a Masino Buscetta, il pentito che consentì al giudice Giovanni Falcone di portare alla sbarra del maxi processo oltre quattrocento boss e picciotti di Cosa nostra. Persino i figli delle vittime - da Claudio Fava a Caterina Chinnici - si sono cimentati, con le loro memorie e il loro dolore, nella scrittura di copioni in grado di rivelare all’universo mondo delitti e nefandezze delle cosche che hanno imbrattato di sangue gli anni più belli della nostra vita. Chi non ricorda “Il capo dei capi”, il romanzone a puntate con il quale Canale 5 ha ricostruito le imprese sanguinarie di Totò Riina, dalla latitanza nelle campagne di Corleone fino alle stragi col tritolo, congegnate per ammazzare giudici e uomini di tenace onestà? Ora però, in un momento in cui l’antimafia mostra i segni di una inevitabile stanchezza, comincia ad affacciarsi sulla scena la compagnia dei sepolti vivi: di quei mafiosi che, per la loro ferocia, erano stati rinchiusi - murati, si stava per dire - tra le pareti opprimenti e invalicabili del carcere duro. Lì avrebbero dovuto espiare le condanne all’ergastolo e lì avrebbero dovuto patire le angherie dell’isolamento: colloqui limitati, sorvegliati e puntualmente intercettati; telecamere ventiquattr’ore su ventiquattro anche nel bagno; una sola ora d’aria sotto lo sguardo occhiuto degli agenti del Gom, il gruppo scelto delle guardie carcerarie il cui compito primario è proprio quello di garantire i sistemi di massima sicurezza. Quando il Parlamento approvò il 41bis - l’articolo che concede al ministro Guardasigilli il potere di sospendere per i mafiosi le garanzie previste dall’ordinamento penitenziario - era l’agosto del 1992. Tre mesi prima, nell’attentato di Capaci, gli uomini di Totò Riina avevano massacrato il giudice Giovanni Falcone, la moglie e tre uomini della scorta. E non era finita lì. Cinquanta giorni dopo, il 19 luglio, la stessa maledetta sorte era toccata, nel rogo di via D’Amelio, a Paolo Borsellino, l’amico e collega che aveva firmato con Falcone l’ordinanza con la quale di fatto veniva scardinata e rinviata a giudizio la cupola di Cosa nostra. Lo Stato non poteva incassare una sfida così temeraria. E per segnare il confine tra il diritto e il sopruso, varò il 41bis con il preciso scopo “di impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le loro organizzazioni sul territorio”. Un proposito sacrosanto, va da sé. Ma le inquietudini barocche della giustizia italiana hanno finito, anche senza volerlo, per ridare a boss del calibro di Totò Riina o di Giuseppe Graviano il più ampio diritto di parola. Dopo anni di morte civile dentro i pozzi neri del carcere duro, i sepolti vivi sono risuscitati e come lazzari di un nuovo testamento si sono trasformati in predicatori, in sceneggiatori, in romanzieri. Sono diventati - con gli applausi, manco a dirlo, dell’antimafia più lussureggiante - registi e attori delle nuove fiction, recitate nelle aule dei tribunali o nei palchetti attrezzati per loro da quei magistrati che, per zelo o per ambizione, passano i loro giorni a scavare nelle tenebre del passato per portare alla luce scelleratezze mafiose e complicità politiche, trame oscure e mandanti occulti. E loro, quelli che erano stati murati nel carcere duro, escono uno dopo l’altro dalla tomba e predicano urbi et orbi le loro verità. Tanto, chi potrà mai smentirli? Prendiamo la performance - un misto di memory e melodramma - scandita da Totò Riina nel carcere milanese di Opera. I magistrati di prima fila, quelli che a Palermo stavano per affrontare come pubblici ministeri il mastodontico processo sulla Trattativa tra i boss di Cosa nostra e alcuni uomini dello Stato, avevano pensato bene di architettare, tra agosto e novembre del 2013, il colpo del secolo. Hanno ordinato ai funzionari della Dia, direzione investigativa antimafia, di imbottire di microspie il cortile dove Riina era costretto a trascorrere la sua ora d’aria. Poi hanno ingaggiato un malvissuto di origine pugliese, Alberto Lorusso, e gli hanno assegnato il compito di recitare la parte del compagno di sventura tanto desideroso di condividere col boss rancori e risentimenti, sfoghi e giudizi al veleno. Ma la vecchia belva corleonese s’è mangiata la foglia e ha colto subito l’occasione per dettare ai posteri le sue memorie: ha smentito, punto per punto, le verità giudiziarie consacrate da tribunali, corti d’appello e Cassazione; ha lanciato a destra e a manca ogni sorta di minaccia e di avvertimento; ha diramato in codice, con la sublime arte del dire e del non dire, tutti i messaggi che voleva diramare ad amici, picciotti e affiliati; si è fatto beffa dei nemici e dei magistrati che lo avevano perseguito. Quando gli agenti della Dia hanno messo su carta tre mesi di intercettazioni è venuto fuori un librone di 1.300 pagine. Un’epopea della mafia. Un romanzo. Buono per i giornali ma non per la giustizia. Ricordate i titoloni del febbraio 2014 quando i risultati del lavoraccio fatto tra le mura di Opera venne dato alla stampa? Sembrò che le fondamenta della Repubblica stessero per crollare. Sembrò che da un momento all’altro chissà quale sventura si sarebbe abbattuta su Silvio Berlusconi e che l’apocalisse del suo impero fosse dietro l’angolo: “Le isole fuggirono e le montagne non si ritrovarono mai più”. Ma era tutta una montatura. Perché il serpigno boss, sulla trattativa, non aveva detto una parola. Il 18 agosto Lorusso, il provocatore, lo istiga persino a parlare del democristiano Nicola Mancino, l’ex ministro dell’Interno, rinviato a giudizio per falsa testimonianza ma lui stronca ogni aspettativa: “Ma che vogliono sperimentare che questo Mancino trattò con me? Loro vorrebbero così, ma se questo non è avvenuto mai!”. Chissà dove sono finite quelle 1.300 pagine. Chissà in quale fascicolo sono state inserite e abbandonate. Di certo non hanno squarciato alcuna omertà, non hanno svelato nessuna trama oscura, non hanno smascherato alcun mandante occulto delle stragi, non hanno rivelato nessuna complicità tra la mafia e i poteri dello Stato. Tanto è vero che, ad un certo punto, l’attenzione è stata spostata sull’unica notizia cupa e perciò stesso rilevante: le minacce esplicite a Nino Di Matteo, il pm che assieme ad altri tre colleghi rappresentava l’accusa nel processo sulla Trattativa appena iniziato davanti alla Corte di Assise: “Quello lì deve morire, fosse l’ultima cosa che faccio”, aveva sentenziato il boss. “E lo faremo in modo eclatante”. Apriti cielo. Di Matteo - e non poteva essere diversamente - è diventato il magistrato più scortato d’Italia e un simbolo dell’antimafia. Il processo è andato avanti per cinque anni; Riina è morto nel novembre del 2017, per un tumore al rene, nel carcere di Parma; la sentenza sulla Trattativa - con pesantissime condanne per i boss, per l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri e per tre alti ufficiali del Ros - è stata letta dal presidente Alfredo Montalto sei mesi dopo, nell’aprile del 2018. Ora si attende il verdetto dei giudici d’appello che, a differenza dei magistrati più intraprendenti delle procure, non sempre sono disposti a concedere il podio ai mafiosi che tentano di riscrivere, in termini eroici e straordinari, il romanzo nero della mafia. Glie ne capitano di tutti i colori. L’esempio più recente e, all’un tempo più clamoroso, è quello di Francesco Geraci il pentito che al tempo in cui i boss contavano era appena un gregario di quarta fila e oggi tenta di spacciare ai giudici un racconto d’alta mafia, manco fosse un Le Carré o un Chandler o un Graham Greene; e racconta di quando lui, l’inafferrabile Matteo Messina Denaro e altri due soldati delle cosche trapanesi si recarono a Roma per compiere una missione che corroborasse il ricatto allo Stato lanciato, con le stragi di Palermo, dai corleonesi di Totò Riina. La missione prevedeva una serie di omicidi eclatanti che facessero scrusciu, rumore. Dovevano morire Pippo Baudo, Michele Santoro, Maurizio Costanzo. Il pentito entra nei dettagli. Racconta con quale automobile hanno raggiunto la Capitale, in quale albergo hanno dormito, con quale carta di credito hanno pagato il conto, quale arsenale si sono portati dietro, quali sopralluoghi hanno compiuto prima di passare all’azione. Ma la Corte d’appello si è solo annoiata. E anche irritata: il collaboratore di giustizia non ha saputo spiegare i motivi per i quali, alla fine, gli omicidi non sono scattati. Non solo, ma il suo racconto non avrebbe potuto mai trovare un riscontro: Matteo Messina Denaro è latitante e gli altri due compagni di avventura sono nel frattempo deceduti. Ma la Corte d’appello che dibatte sulla Trattativa, presidente Angelo Pellino, sarà probabilmente chiamata nei prossimi giorni a prendere una decisione non su un pentiticchio d’avanspettacolo come Geraci ma su un’attore di primissimo piano che finora ha tenuto la scena con la padronanza di un Marlon Brando. Il suo nome è Giuseppe Graviano, condannato assieme al fratello Filippo all’ergastolo come mandante delle stragi di mafia, al pari di Riina. Incontrastato boss di Brancaccio - il quartiere dove fu assassinato, sempre per ordine suo, padre Pino Puglisi, sacerdote di grande carisma e di limpida coscienza antimafiosa - Graviano è stato arrestato nel 1994 mentre era in trasferta a Milano. Condannato in via definita con sentenza della Cassazione, è stato murato vivo, senza soluzione di continuità, tra le pareti blindate del 41bis e da lì ha assistito senza fiatare ai processi che hanno inchiodato i suoi compari e i suoi favoreggiatori; ha ascoltato impassibile tutte le testimonianze dei pentiti e dei collaboratori di giustizia; e, da spettatore, ha visto scorrere davanti ai suoi occhi processi e condanne, vendette e regolamenti di conto. Poi, probabilmente senza rendersene conto, si ritrova nel carcere di Ascoli Piceno con un detenuto per camorra, Alberto Adinolfi, che come l’agente provocatore di Riina, lo invita a piangere sulla sua spalla. E lui, il boss, si lascia andare a uno sfogo destinato a diventare il prologo del suo lungo romanzo. “Al signor Crasto gli faccio fare la mala vecchiaia”, dice con un livore covato chissà per quanto tempo. È il 4 aprile del 2016. Il signor Crasto, che in palermitano stretto significa cornuto, sarebbe Silvio Berlusconi, che gli avrebbe negato una mano dopo avergli chiesto egli anni Novanta di tenersi pronto perché prima o poi avrebbe avuto bisogno di lui. E basta questo per convincere i magistrati inquirenti - quelli sempre in cerca di conferme sul patto scellerato tra la mafia e la politica - a puntare le microspie nel cortile del carcere e a registrare per un anno intero, fino all’aprile del 2017, trentadue conversazioni. Graviano parla di tutto. Si vanta di avere avuto, anche se murato nel carcere duro, un rapporto intimo con la moglie, rapporto dal quale è nato un figlio; racconta i misteri e le stranezze che avrebbero avvolto il suo arresto, si proclama ovviamente innocente di tutte le infamie che la giustizia gli ha scaricato sulle spalle e si prepara a scrivere, dopo il prologo, i capitoli più sostanziosi del suo romanzo. Il palcoscenico glielo mette a disposizione il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, che lo chiama a testimoniare nel processo intentato contro la ‘ndrangheta stragista. Ed è lì che Giuseppe Graviano sfodera un repertorio dentro il quale nemmeno i giornalisti più smagati e più vicini alle procure riescono a tradurre i messaggi criptati né a decifrare la strategia. La più accreditata letteratura giudiziaria presenta il pentito Gaspare Spatuzza come il vangelo che cancella di colpo, al processo per la strage di Via D’Amelio, le fandonie raccontate dal balordo Scarantino e che hanno portato alla condanna di sette poveri innocenti? Bene. Graviano dice che Spatuzza è tutto una montatura e che è più falso di Scarantino. I magistrati di Palermo si battono perinde ac cadaver per dimostrare che la Trattativa c’è stata? Bene. Graviano sostiene che non gli risulta nessun patto scellerato. Ma poi, quando la platea si è già scaldata, il boss si sposta sul boccascena - che è il luogo geometrico in cui la voce dell’attore si fa baritonale - e intona il monologo delle grandi occasioni. Altro che Laurence Olivier. Dice che lui, da latitante, è andato a trovare due o tre volte Berlusconi, e una sera andò pure a cena con lui. I rapporti erano buoni: latte e miele. Ma poi il vento cambiò. Come mai? Al tempo in cui il tycoon di Arcore costruiva Milano Due e gettava le premesse per creare l’impero della televisione, “mio nonno partì da Palermo con venti miliardi di lire nella valigia” e li investì in quella impresa. Gli era stato promesso un utile del venti per cento. Ma quei guadagni non sono mai tornati alla base. “Se ne lamentava il nonno e anche mio cugino Salvo Quartararo, che seguì da vicino tutto l’affare”: il Crasto, li tenne tutti per sé e non rispettò i patti. L’avvocato contro di Claudio Cerasa Il Foglio, 22 febbraio 2020 A colloquio con Gian Domenico Caiazza, folgorato sulla via della giustizia liberale da Pannella e Tortora. La sua guerra al “magistrato monologante”. Pannella lo folgora una sera dalla tv, “un confronto con il segretario del Pci, Giancarlo Pajetta. Un confronto impossibile. La modernità di Pannella, che parlava del non perdere la dimensione libertaria a sinistra, una cosa che io avevo sempre sentito, che mi impediva di essere totalmente comunista” Così entra nell’orbita pannelliana, ancora studente frequenta la fondazione Piero Calamandrei, “e nonostante fossi certo di voler fare il penalista, incontro Stefano Rodotà, allora su posizioni molto avanzate. Altra folgorazione: i diritti della persona, il diritto all’identità personale, all’identità politica. Cose che oggi noi diamo per scontate ma che all’epoca erano avanguardia assoluta. Rodotà mi affidò una tesi sui rimedi risarcitori della lesione dei diritti della personalità. Tipo il danno biologico. Comincio a collaborare con la fondazione. Ma sempre mettendo davanti la carriera da avvocato”. E avvocato significa penalista, “una cosa diversa da tutte le altre”, si eccita Caiazzone. “Feci qualche tempo di pratica da un civilista, giusto per capire che non mi interessava proprio. Poi feci un po’ di tutto, ed ero solo procuratore legale quando un avvocato grosso, Marcello Petrelli, mi chiede di entrare a studio, grazie al nipote che studiava con me”. La storia che gli cambia la vita è il processo Tortora, il più incredibile scandalo giudiziario italiano. Arrestato nel 1983 in favore di telecamera, con tredici pentiti che accusano incredibilmente il più famoso anchorman del momento di essere uno spacciatore per conto della camorra. Una cosa difficile da capire, oggi. Quant’era famoso Tortora? Come Fiorello? “No, era il giornalista più famoso d’Italia”. “Un giornalista che faceva una trasmissione popolare. Faceva 20-21 milioni di spettatori, una cosa oggi impensabile. Aveva fatto la Domenica sportiva”. Quando viene assolto, già malato di cancro, Tortora nomina Caiazza “per una serie di querele contro i giornali che lo massacrarono”. Il rapporto tra stampa e magistratura era particolarmente virulento. “Era l’uomo più popolare d’Italia, che a un certo punto aveva tradito gli italiani. Era l’untore. I giornali erano feroci. Un clima micidiale: facemmo due cause contro Il giornale di Napoli, un quotidiano che oggi non esiste più, che era l’house organ della procura. Due querele, due assoluzioni del giornalista scandalose, che il giornalista sapeva prima, e mi preannunciò. Mentre i giudici erano ancora in Camera di consiglio mi venne a dire: ‘Sarà insufficienza di prove su dolo”, e così fu. Per dire il clima di quegli anni. Chi erano i giornalisti che non presero parte al coro? “Enzo Biagi, Giorgio Bocca, e Vittorio Feltri, inviato del Corriere al processo a Napoli”. Poi, insieme a Vincenzo Zeno Zencovich “fummo gli avvocati nella causa per responsabilità civile dei giudici”. Perché Tortora tentò di rivalersi per i processi avventati, le accuse assurde, le manette. Persa. “No, non arrivammo neanche a farla. Prima ci querelarono per calunnia”. Ma come per calunnia? “In quanto avvocati”. “Poi sollevarono la questione costituzionale. Poi la Corte costituzionale ci dette ragione. Ma dopo quattro anni e mezzo decidemmo di lasciar perdere. Citare per responsabilità civile dei magistrati che erano stati tutti promossi ‘con encomio’, ci arrendemmo”. Tortora morì durante la causa. Poco prima: “Quanto chiediamo di danni?”, gli chiesi. Io pensavo di lasciar fare al giudice. “Lui invece mi citò il Signor Bonaventura, il personaggio del Corriere dei piccoli, quello di “Qui comincia la sventura del signor Bonaventura”. Le storie di questo personaggio, un omino misterioso e elegante vestito di rosso, seguivano uno schema sempre identico: la sventura del protagonista si trasformava in un beneficio altrui e culminava inevitabilmente nella fortunata vincita di “un milione” (di lire: cifra pazzesca per l’epoca, diventato “un miliardo” negli anni Cinquanta). Quanto gli chiediamo, Enzo? “Cento miliardi”, risponde Tortora, dal suo letto di ospedale. Una cifra astronomica, assurda, il milione del signor Bonaventura, che però colpisce l’attenzione di tutti, e infatti quella richiesta, che pure rimase simbolica, finì su tutte le prime pagine”. Il rapporto tra magistratura e informazione si capisce che è il cuore del problema, siamo sempre nella scuola pannelliana. “Quando l’opinione pubblica capì con l’assoluzione che Tortora era una vittima, la stessa opinione pubblica che era massicciamente colpevolista, con l’84 per cento andò a votare il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Sono le stesse persone che tre anni prima lo linciavano. Ecco perché non si può legiferare in base alla pancia delle persone, soprattutto in una materia come il diritto penale”, si infiamma Caiazza. “Ecco perché il diritto penale è un tema che va governato da chi ha saldezza di principi. Non si possono seguire gli umori della gente”. E come si fa? Togliamo il suffragio universale? Io sono d’accordo. “No, si tratta di pretendere che la politica torni a fare il proprio mestiere. Ascoltare ma non seguire. Decidere”. Il problema, dice ancora Caiazza, è che quelli di una giustizia liberale “sono valori controintuitivi. Come il principio di non colpevolezza. Se uno è stato arrestato, di no, e rimasi però l’avvocato di Marco e dei radicali. Le cause più stravaganti. Tutti i processi per droga. Preparavamo le bustine di marijuana, con una dose limite, che fosse superiore al consentito, di pochissimo, poi andavamo a sventolarla sotto il naso dei poliziotti. Loro erano stufi, facevano finta di non vedere, andavamo a chiamarli, allora erano costretti ad arrestarli. Allora si faceva una perizia, sulla “dose drogante”, arrivavano i farmacologi, si faceva un gran casino e la cosa finiva sui giornali”. Insomma, nonostante lo studio lussuoso, pare che Caiazzone non abbia venduto l’anima al grande capitale, né ha sposato la figlia del boss. La moglie è invece Ada Pagliarulo, caporedattrice a Radio radicale, “ci conoscemmo da ragazzini, lei era figlia di un magistrato, i nostri genitori erano entrambi di Polla, in provincia di Salerno, dove entrambi andavamo in vacanza. Quando sono venuto a Roma l’ho chiamata, così, senza immaginare. Lei era molto più avanti: femminista, radicale da sempre, ha cominciato a fare la giornalista a TeleRoma56”, che pure era una fucina radicale. Se si fosse dedicato a processi un po’ più sostanziosi e tradizionali avrebbe fatto più soldi. “Eh”, sospira, “va bene così”, e questi quadri? Giosetta Fioroni? “Sono tutti regali di clienti”, e ce n’è uno però non riconoscibile, “è di Ottaviano Del Turco”, ultimo segretario del Psi e presidente della regione Abruzzo, arrestato dodici anni fa per una vicenda di malasanità. “Lui massacrato, la sua giunta sciolta, tutti arrestati, sulle sole parole di un imprenditore che disse di aver dato 6 milioni di euro di tangenti. Soldi che non sono mai stati trovati. Siamo stati assolti da quasi tutto. Intanto anni di carcere, ostracismo sociale, una cosa simile a quella di Tortora, una delle più grandi battaglie a cui io abbia mai partecipato”. Ma insomma fa anche dei casi normali? Qualche omicidio? “Sì, sì, certo, omicidi, criminalità comune. Faccio tutto”. Perché in fondo è un avvocato. Anche se non avvocato del popolo, come il premier. “Un’espressione che mi fa rabbrividire”. La vedova Schifani scarica il fratello indagato per mafia: ma non è tutto bianco o nero di Gioacchino Criaco Il Riformista, 22 febbraio 2020 “Chi sono i mafiosi? Sono criminali senza alcuna pietà che ritengono di essere i padroni della vita e della morte, ma sono esseri infelici che si nutrono di ingiustizie e del sangue di innocenti, spargendo lutti ed odio a piene mani”. E ancora: “Se non pagano per i loro delitti e se non si pentono dei loro peccati, li attende un baratro senza fine. Non ho spirito di vendetta e, nel loro interesse, per il mio Vito allo Stato ho chiesto giustizia e a Dio li affido perdonandoli. Infatti ritengo che, se nutriamo spirito di vendetta non faremmo altro che aggiungere barbarie a barbarie, in una catena di orrori senza fine”. Sono parole di Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta di Giovanni Falcone, morto insieme al magistrato nell’attentato di Capaci. Sono meno dure di quelle pronunciate durante il rito funebre per le esequie del marito e dei morti della strage, meno dure di quelle che, nella camera ardente, chiedevano al ministro Spadolini di vendicare i martiri. Sono parole contenute in una lettera del 2015, a 23 anni di distanza, indirizzati agli alunni di una scuola ligure durante l’ennesima commemorazione del massacro. Rosaria si è trasferita in Liguria, ha messo in un canto del cuore le rovine, si è costruita una nuova famiglia portandoci dentro il figlio che aveva avuto con Vito: Emanuele, che è diventato finanziere. E Rosaria ha un fratello che ora è stato arrestato per mafia, ed Emanuele ha uno zio che è accusato di appartenere a quell’organizzazione che lo ha privato del padre. C’è un vecchio cunto, dice: “Gli abitanti del versante orientale del Mongibello, dopo aver goduto del tepore del sole lo aspettavano sulla cima del monte e lo coprivano con una maschera, ogni giorno più mostruosa. Gli abitanti del versante occidentale non avevano mai potuto godere del suo calore. Anzi erano terrorizzati dalla sua orripilante faccia. Scappavano dal loro mondo, andando lontano o consegnandosi schiavi agli artefici dell’inganno. Tutto sin quando uno schiavo arguto, scoperto il trucco, non si nascose a levar la maschera apposta al sole dai levantini”. Il Mongibello è per i siciliani il vulcano. Per i continentali è l’Etna. Sempre fuoco sputa, ma può essere l’uno o l’altro, a seconda di come lo si voglia vedere. A certe latitudini nulla è come sembra, gli schemi generali non valgono, non possono applicarsi dappertutto, nello stesso modo. Non si possono apporre alle vicende umane e ai percorsi culturali tortuosi, figli di sovrapposizioni continue. Così nella stessa famiglia Impastato c’è il veleno e l’antidoto alla pozione mortale. Non perde di rilievo morale la figura di Rosaria, resta intangibile il sacrificio di Vito, anche se Giuseppe Costa, per ora solo indagato, davvero dovesse essere ritenuto affiliato alla famiglia mafiosa della Vergine Maria, davvero fosse agli ordini di Gaetano Scotto. Gaetano Scotto che attualmente è indagato per mafia, ma contemporaneamente è parte civile nel processo sul depistaggio della strage di via D’Amelio contro tre poliziotti, dopo essere stato prima condannato all’ergastolo e poi assolto per la morte del giudice Borsellino e degli uomini della sua scorta. La notizia dell’arresto di Giuseppe Costa, muratore incensurato di 53 anni, fa scalpore, certo, per le parentele, ma è un fatto tutt’altro che sorprendente alle latitudini basse: non perché tutto sia mafia o lo possa essere. Perché la mafia è il terrazzo di don Mariano, del Giorno della Civetta, lo Stato lo guarda dalla caserma del partigiano Bellodi e non lo capisce perché la gente sale e scende da quella veranda. Continua a guardare solo con gli occhi del carabiniere, utilizzando il bianco e il nero. Mentre don Mariano possiede un’infinita gamma di colori per dipingere gli uomini. Il Sud è un susseguirsi continuo di bivi e intersezioni, tutti senza cartelli indicatori. È facile smarrirsi. È complicato orientarsi. Si vaga cercando di capire chi siano i compagni di viaggio. E manca quasi del tutto la possibilità di riprendere il cammino dall’inizio. Raffaele Cutolo in ospedale, l’unica richiesta dell’ex boss: “Fatemi abbracciare mia figlia” di Vito Faenza Il Riformista, 22 febbraio 2020 Raffaele Cutolo, il fondatore della Nuova camorra organizzata, uno dei boss più temuti della storia del crimine, l’ispiratore di trame vere e immaginarie, nonché di film, canzoni e romanzi, è stato trasferito d’urgenza all’ospedale di Parma per un peggioramento delle sue condizioni di salute. In carcere dal 1979, è dal 1995 in regime di carcere duro al 41bis. “Non è grave, ma ha bisogno di cure migliori” ha detto il suo avvocato, Gaetano Aufiero che di recente ha presentato istanza al Tribunale di Sorveglianza affinché Il suo assistito, che ha 78 anni, possa abbracciare la figlia di 13 anni, concepita attraverso l’inseminazione artificiale con autorizzazione ottenuta dal ministero di Giustizia nel 2001. Tragedia e parodia, vero e falso, possibile e verosimile: tutto è vissuto in lui, e tutto ha contribuito a farne un mito, sebbene negativo. Un giorno, nel 1988, si sparse la voce che stava lì lì per pentirsi. Da Napoli accorse il pm Greco per interrogarlo. Macché. “Le mie donne mi hanno chiesto di non pentirmi”, si sentì dire. La sua “carriera” criminale Cutolo la comincia il 24 settembre del 1963, quando uccide Mario Viscido che aveva offeso la sorella. Rimane in fuga due giorni, poi si costituisce e resta in carcere fino al 1970, ma torna libero per decorrenza dei termini. Quando la Corte di Appello di Napoli riduce la pena dell’ergastolo a 24 anni, Cutolo deve tornare in carcere, ma diventa uccel di bosco. Nel 1971 viene però nuovamente arrestato per un errore grossolano: imbocca una strada a senso unico e si trova parata davanti un’auto dei carabinieri. Nonostante abbia frequentato solo la quinta elementare e non abbia dimostrato particolare attitudine allo studio (dai 14 anni fino all’omicidio ha svolto lavori di varia natura) in carcere diventa “o’ prufessore” (il professore), perché sa leggere e scrivere. Il prestigio tra i reclusi gli deriva da un episodio controverso: avrebbe sfidato, secondo i suoi fedelissimi, Antonio Spavone, un boss della camorra, che però ha smentito l’episodio. In realtà, Cutolo si era affiliato alla ‘ndrangheta e grazie a questa affiliazione riesce ad ottenere vari privilegi. Poi, seguendo proprio i riti di affiliazione della mafia calabrese, crea la Nco, cioè dà un vertice a una realtà criminale storicamente acefala, e fa aderire alla sua nuova creatura centinaia di detenuti (alla fine degli anni 70 le forze di polizia li stimeranno in 3.000). Il sistema è dei più elementari. L’organizzazione distribuisce i proventi delle estorsioni fra gli affiliati e pensa, economicamente, alle famiglie nel caso finiscano in carcere. La struttura è piramidale, al vertice c’è Raffaele Cutolo (il Vangelo) sotto i Santisti, poi i capizona e infine i semplici affiliati. Il capo resta a Poggioreale fino al 1977, quando gli viene riconosciuta l’infermità mentale. È ricoverato prima all’ospedale psichiatrico di Sant’Eframo nuovo, a Napoli, poi in quello di Aversa, dal quale evade il 5 febbraio del 1978, nelle prime ore del pomeriggio, grazie a un piano organizzato da Giuseppe Puca (uno dei santisti) che fa saltare il muro di cinta, mentre il boss era nel giardino. Durante la latitanza ad Albanella, un centro in provincia di Salerno, sostiene di aver offerto ai servizi segreti il suo interessamento per rintracciare Aldo Moro, e che il suo aiuto viene rifiutato. Lo ribadisce anche qualche anno dopo davanti alla commissione di inchiesta del Parlamento. Durante la latitanza va a spasso per l’Italia con i documenti di un ingegnere incensurato. “A Milano fummo bloccati dalla polizia, dopo il controllo delle generalità il capo pattuglia mi prese da parte e - ha raccontato più volte - mi disse: attenzione ingegnere, che il suo autista è un pregiudicato”. Un altro errore lo commette il 10 maggio del 1979, quando telefona a un giornale per intimare la liberazione di un ragazzo rapito a San Giuseppe Vesuviano. Treviso. Detenuto 37enne trovato morto in cella. La compagna: “Fare piena luce” di Gianluca Amadori Il Gazzettino I dubbi: “Non aveva motivi per togliersi la vita” Lunedì l’autopsia disposta dalla pm De Donà. Era stato spostato a causa di un litigio con un altro detenuto, ma poco più tardi gli agenti di polizia penitenziaria lo hanno trovato impiccato nella nuova cella. Il corpo senza vita del veneziano Marco Antonio Fasan, 37 anni, è stato rinvenuto lunedì mattina e, ieri, la sostituto procuratore di Treviso, Mara Giovanna De Donà, ha disposto l’autopsia, affidando l’incarico al dottor Marco Furlanetto, che inizierà gli accertamenti lunedì prossimo, alle 11. Con molte probabilità la compagna e il figlio della vittima, assistiti dall’avvocato Mauro Serpico, nomineranno un consulente di fiducia per contribuire a fare piena luce sull’accaduto. “La mia assistita non vuole accusare nessuno, ma non riesce a trovare giustificazione per un gesto di questo tipo e vuole capire se vi possano essere responsabilità”, ha dichiarato ieri l’avvocato Serpico.Fasan, cileno di origini, adottato da una famiglia veneziana, si trovava in carcere a Treviso per finire di scontare una pena residua di un anno e quattro mesi di reclusione ed era in attesa della decisione del Tribunale di sorveglianza, al quale il suo legale aveva presentato domanda di concessione dei domiciliari. Il padre, a cui era molto legato, è morto da poco e Marco Antonio, provato per il lutto, aveva ereditato un discreto patrimonio per gestire il quale dal carcere aveva chiesto aiuto e consigli proprio al suo legale. Recentemente si era anche riavvicinato alla compagna, con la quale ha avuto un figlio, ed è questo uno dei motivi per cui la giovane donna non crede all’ipotesi del suicidio. Nel corso dell’ultimo colloquio in carcere, il trentasettenne si era confidato con lei, lamentando di essere tormentato da qualcuno. Il carcere non era per lui una novità in quanto era rimasto coinvolto in più di una vicenda di rilevanza penale, connessa principalmente al mondo della droga, oltre ad alcune piccole rapine. Nel 2014 era stato arrestato assieme ad un amico in campo San Polo, in relazione ad un episodi di violenza ai danni di una coppia di cittadini del Bangladesh, dal cui banchetto aveva cercato di rubare una felpa. L’anno successivo finì nuovamente in carcere con l’accusa di tentata rapina ai danni di un uomo che stava rincasando dopo il lavoro, al quale aveva cercato di sottrarre la borsa e il cellulare. Ora spetta alla Procura di Treviso il compito di fare piena luce su quanto accaduto al Santa Bona di Treviso: Fasan aveva una mano fasciata ed ematomi in varie parti del corpo. Nel corso dell’ultimo anno in tutti i penitenziari veneti si sono verificati complessivamente 4 casi di suicidio (uno a Padova e tre a Verona), 81 tentati suicidi e 674 episodi di autolesionismo. Treviso. Detenuto impiccato in cella a Santa Bona, è giallo di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 22 febbraio 2020 Trovato con una felpa attorno al collo, ci sarebbero dei lividi sul corpo. Lunedì mattina un detenuto è stato trovato impiccato nella sua cella, è stata aperta un’indagine. Marco Antonio Fasan, 38 anni, è stato trovato impiccato con la propria felpa nel carcere di Santa Bona lunedì mattina. Fasan era da solo in cella in seguito a un litigio con altri detenuti in una sorta di isolamento temporaneo. L’uomo aveva da poco perso il padre a cui era affezionato, ma l’ex moglie chiede che venga fatta chiarezza sulla dinamica della morte. Il corpo di Fasan infatti presenterebbe dei lividi che richiedono accertamenti. Un mese fa aveva perso il padre, che per lui era una figura importantissima. Gli era stato sempre vicino nonostante le sue sbandate e quella vita tormentata che nell’ultimo decennio l’aveva portato più volte in carcere per spaccio e piccole rapine, per le quasi stava finendo di scontare l’ultimo anno dietro le sbarre. E questo sicuramente era stato un evento che l’ha destabilizzato dal punto di vista emotivo. Poi c’erano quei rapporti sempre più difficili con alcuni detenuti del carcere di Santa Bona a Treviso, che pare fossero culminati proprio lo scorso lunedì mattina in una lite e nella successiva “punizione” in una cella di “isolamento”, se così si può definire. Quella stessa dove un’ora dopo Marco Antonio Fasan è stato trovato impiccato con la propria felpa. È l’ennesima tragedia nelle carceri italiana, un suicidio su cui ora la compagna del 38enne di origine cilena, ma adottato da piccolo da una famiglia veneziana, chiede che venga fatta chiarezza, anche perché sul corpo ci sarebbero stati alcuni lividi. “Non accusiamo nessuno - dice per suo conto l’avvocato Mauro Serpico, che era il legale di Fasan Però chiediamo che venga accertato che cosa è successo”. Il pm Mara De Donà ha già deciso di disporre l’autopsia per verificare la causa della morte e lunedì incaricherà il medico legale Alberto Furlanetto. L’avvocato Serpico sta ancora valutando se nominare un proprio consulente da affiancare a quello della procura. Fasan, 38 anni, era nato in Cile, ma è cresciuto a Venezia, dove il padre aveva diverse proprietà immobiliari. Negli ultimi anni però si era trasferito con lui a Tarzo, nel Trevigiano. Negli ultimi giorni aveva chiamato il suo legale per parlare anche del futuro di questo patrimonio, che gli sarebbe arrivato in eredità. “Sembrava aver iniziato a metabolizzare lo choc per la morte del padre, mi aveva detto che avrei dovuto aiutarlo a trovare il modo per gestirlo racconta ancora Serpico - Non sembrava una persona che di lì a pochi giorni si sarebbe tolta la vita, anche perché stavamo lavorando per poter ottenere a breve una detenzione domiciliare”. La morte dell’uomo che lo aveva accudito l’aveva provato. Anche perché nei giorni precedenti il decesso, quando era gravemente malato, aveva chiesto un permesso per poterlo vedere, che gli era però stato negato. Era potuto uscire dal carcere solo per tre ore in occasione dei funerali. Resta il fatto che i famigliari vogliono capire che cosa sia successo, anche perché ci sono degli aspetti che non tornano. Il legale ha chiesto di poter vedere le foto del ritrovamento del cadavere, anche perché la stanza dove era stato messo da solo non dovrebbe avere molti elementi a cui appendersi per tentare di impiccarsi, tanto più con una felpa. Qualcuno ha parlato di un “gesto dimostrativo finito male”. Ma ora è tutto nelle mani della procura. Fasan era finito coinvolto già più di dieci anni fa in un traffico di ecstasy, da cui uscito con un patteggiamento a due anni. Era stato di nuovo arrestato nel 2014 per aver rapinato una coppia di bengalesi, che avevano reagito al furto di una felpa dal loro banchetto. L’anno dopo, con un’amica, aveva rapinato un uomo per strada a Venezia, cercando di portargli via la borsa: preso, aveva patteggiato un anno e 4 mesi. Bari. I Radicali Italiani in visita nel carcere: “Pochi agenti e celle sempre chiuse” Valentina Stella Il Dubbio, 22 febbraio 2020 La visita dell’associazione Marco Pannella. Annarita Di Giorgio: “Ci spiace constatare che la direzione di Taranto ci abbia negato gli ultimi permessi richiesti” L’associazione Marco Pannella il 15 febbraio, con il consigliere regionale Francesca Franzoso e il segretario di Radicali Italiani Massimiliano Iervolino, ha effettuato una visita presso il carcere di Bari. “Una struttura- racconta Annarita Digiorgio, membro del direttivo dell’Associazione - che conosciamo bene date le numerose visite effettuate, e che pure, nonostante le tante segnalazioni, ancora vige in uno stato drammatico tanto che la settimana scorsa persino il Procuratore Generale di Bari Anna Maria Tosto (che ne ha fatto visita sollecitata dal direttore) ha parlato di trattamento disumano”. Inoltre, aggiunge l’esponente radicale, “rispetto all’ultima visita che avevamo effettuato l’anno scorso, sono stati completati i lavori, chiesti dal direttore, per le docce in tutte le celle e una porta che separa le celle da bagno e cucina”. I detenuti presenti sabato mattina erano 436 su 399 posti disponibili. Per quanto concerne gli agenti di polizia penitenziaria, poche unità devono sopperire a traduzioni, copertura dei colleghi anziani, straordinari, 104, malattie, e “la loro esiguità va ad incidere su tutte le restanti attività trattamentali, rieducative e sanitarie, nonché di sicurezza stessa dei detenuti e del personale tutto. A volte un solo agente deve coprire tre piani. Motivo per cui, oltre alle esigenze legate alla pericolosità e incompatibilità tra detenuti, in questa struttura le porte delle celle restano chiuse tutto il giorno”. Nella casa circondariale di Bari quasi tutti detenuti sono in attesa di giustizia: ciò per la Digiorgio significa che “a differenza dei definitivi, non possono accedere ad attività trattamentale, rieducativa, permessi, né al lavoro. Tutti i detenuti lavoranti sono alle dipendenze del carcere (i cui fondi sono limitati), mancano completamente ditte esterne che li assumono usufruendo della legge Smuraglia, così come enti locali che sfruttino l’articolo 21 per lavori socialmente utili. A questo proposito è urgente segnalare la totale assenza degli enti locali, che pure dovrebbero occuparsene non solo perché il carcere è parte integrante della città e della società, ma anche perché diretti responsabili di impegni come il reinserimento”. Conclude Digiorgio: “Ci spiace constatare che la direzione del carcere di Taranto ci abbia negato gli ultimi permessi richiesti. Mentre sempre proficuo e fruttuoso è stato il rapporto instaurato negli anni con la direzione del carcere di Bari e in particolare con la dottoressa Pirè e il responsabile sanitario Nicola Bonvino. Tra l’altro le nostre visite si rendono ancora più necessarie dal momento che invece il Garante in carica da 7 anni e nominato dalla Regione Puglia, presidente di Confcoperative, è totalmente carente nel ruolo che gli spetta, ovvero garantire i diritti dei detenuti che nelle carceri pugliesi non sono garantiti affatto. E ogni volta che effettuiamo visite nelle carceri e parliamo con i detenuti ci dicono che mentre a noi ci vedono sempre, il garante regionale non lo hanno mai visto neppure una volta. Del resto pure la relazione annuale che dovrebbe consegnare è ferma al 2017”. Pavia. Troppi suicidi, visita a sorpresa al carcere di Torre del Gallo osservatoremeneghino.info, 22 febbraio 2020 Un onorevole e due Consiglieri regionali si sono recati nella Casa circondariale, parlando con i ristretti e verificando le condizioni degli ambienti. Ieri mattina, M5S, con il deputato Cristian Romaniello e il consigliere regionale Simone Verni, insieme a +Europa/Radicali, con il consigliere regionale Michele Usuelli, hanno effettuato una visita ispettiva a sorpresa presso la Casa Circondariale di Pavia Torre del Gallo. L’iniziativa nasce dalla preoccupazione delle due forze politiche per il ripetersi di fenomeni suicidari nel carcere e di incidenti ai danni delle guardie penitenziarie come quello che, nel gennaio scorso, ha coinvolto un agente colpito da infarto a seguito di un intervento di soccorso a un detenuto. I rappresentanti istituzionali nel corso della visita hanno verificato la condizione delle celle, degli spazi comuni, di quelli aperti, dell’infermeria e delle cucine e hanno potuto interloquire con i detenuti. Simone Verni, consigliere regionale del M5S Lombardia dichiara: “La visita congiunta ci ha dato la possibilità di toccare con mano tutta una serie di problematiche emerse nella cronaca. L’aspetto sanitario è tra quelli emergenziali: l’infermeria opera in condizioni di costante difficoltà a causa della carenza di medici. La telemedicina, che potrebbe alleviare il lavoro degli operatori, è implementata ma i macchinari, nuovi e funzionanti non sono collegati e mancano i protocolli operativi. La cartella sanitaria digitale non è mai entrata in funzione e i detenuti rischiano di perdere la storicità del proprio quadro clinico. In regione andrà aperto un discorso serio e puntuale sull’offerta di servizi sanitari. Ci tengo a ringraziare gli agenti della polizia penitenziaria per la grande volontà di collaborazione che hanno dimostrato: lavorano in condizioni estreme. A loro va il merito di supplire a carenze spesso politico-istituzionali nell’amministrazione dei penitenziari”. Cristian Romaniello, deputato del M5S, aggiunge: “La condizione dei detenuti è precaria, meritano di vivere in condizioni migliori. Gli agenti sono pochi e la vita del carcere porta con sé problemi e difficoltà anche fuori dall’ambito del lavoro. Serve un supporto psicologico più ampio e condizioni di lavoro più dignitose e di questo mi farò portavoce a Roma. Personalmente poi sto lavorando sul tema dei suicidi, sono stati due in questo carcere negli ultimi mesi, oggetto di una mia proposta di legge”. Michele Usuelli, consigliere regionale di +Europa/Radicali conclude: “Diminuiscono i reati, ma aumentano i detenuti. A Pavia ne abbiamo una prova concreta: in un carcere di 518 posti i detenuti sono 730. C’è la terza branda, ci sono detenuti anziani, ci sono tanti detenuti a fine pena che, in violazione della legge, non possono accedere a trattamenti alternativi e sono costretti a fare fino all’ultimo giorno. Manca la possibilità di estendere patteggiamenti e riti abbreviati. Le manette non sono la soluzione dei problemi della Giustizia italiana”. Caserta. Presentato il programma per l’impiego dei detenuti nell’area industriale di Antonio Pisani anteprima24.it, 22 febbraio 2020 Caserta - Entra nella fase di attuazione il progetto “Mi riscatto per il futuro”, che prevede l’impiego di detenuti nelle attività di manutenzione dell’area industriale di Caserta (Asi); un piano basato sul protocollo d’intesa siglato dall’Asi Caserta con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria-Ministero della Giustizia, il Provveditorato Regionale Campania dell’Amministrazione Penitenziaria ed il Tribunale di Sorveglianza di Napoli. Si è tenuta infatti la terza riunione operativa del tavolo tecnico di coordinamento e programmazione permanente istituito dal Protocollo, nel corso della quale è stato illustrato il cronoprogramma, che prevede l’avvio della fase preliminare, in cui verrà fornito al personale detenuto un percorso formativo con corsi specifici finalizzati all’acquisizione di competenze sia in tema di sicurezza sul lavoro, sia all’apprendimento delle specifiche tecniche di lavoro ed uso della strumentazione che verrà fornita in dotazione alle squadre di intervento. L’attuazione iniziale del piano di lavoro coinvolgerà le aree industriali di Aversa, Marcianise, Caserta-Ponteselice e Volturno Nord e vedrà, sempre in questa prima fase, il coinvolgimento di circa venti detenuti che saranno impiegati nelle attività di manutenzione del verde e del manto stradale, nella raccolta dei rifiuti e in interventi sulla rete idrica, fognaria e pubblica illuminazione. “I detenuti avranno l’opportunità di reinserirsi nella società attraverso un lavoro e allo stesso tempo potranno contribuire alla riqualificazione dell’area industriale” ha dichiarato la presidente dell’Asi di Caserta Raffaela Pignetti. “Sono molto orgogliosa della tempestività con cui stiamo attuando il progetto e della proficua e propositiva collaborazione con tutte le istituzioni coinvolte” conclude la Pignetti. Ravenna. Si presenta al processo col fascicolo con scritto “Negro”: bufera sull’avvocato di Enea Conti Corriere della Sera, 22 febbraio 2020 La denuncia del giudice che ha postato la foto della cartellina: “Troppi razzisti”. Sul fascicolo la scritta “Negro” per indicare la persona alla sbarra per lesioni contro due poliziotti in servizio alla stazione di Faenza avvenuta due anni fa. E non è un cognome - come qualcuno ha erroneamente ipotizzato - ma l’epiteto razzista che un avvocato di Forlì ha utilizzato per indicare l’imputato, un nigeriano, sulla cartella con cui si è presentato pochi giorni fa al Tribunale di Ravenna, sede del processo. La denuncia - A denunciare il caso il giudice della Cassazione Roberto Riverso, in passato alla sezione lavoro di Ravenna. Il magistrato ha infatti postato ieri su Facebook la foto della cartellina. “Me l’hanno segnalata, io lavoro a Roma e non sono di certo a Ravenna. Ma non ho avuto dubbi, l’ho pubblicata per fare in modo che tutti sapessero. I giuristi, rispetto agli altri hanno un dovere in più. Non si tratta di un illecito disciplinare o di un crimine. Ma è piuttosto la confessione dell’estraneità di questo soggetto alla civiltà del diritto e certi comportamenti vanno condannati”, spiega il giurista. “Troppi razzisti” - Stando a quanto si apprende, l’avvocato forlivese si è discolpato spiegando che il materiale incriminato non ha in calce il timbro del suo studio legale, anche se il caso è stato segnalato all’ordine degli avvocati. “Al di là delle responsabilità specifiche - spiega Riverso - io credo che un problema di razzismo in Italia ci sia. E ancora una volta dico: i giuristi - magistrati o avvocati - devono a maggior ragione vigilare affinché episodi di questo genere non si ripetano. Vedo molti commenti al mio post pubblicato su Facebook che negano che l’episodio segnalato sia riconducibile al razzismo. Ecco, magari iniziamo a far ragionare chi ragiona con la retorica dell’”io non sono razzista ma”“. Padova. Ieri si è svolto il convegno “Dal carcere ai primi passi di libertà” di Alberto Rodighiero Il Gazzettino, 22 febbraio 2020 Il carcere può essere uno strumento di riscatto e anche di sviluppo per molti Paesi. Di questo è convinto il provveditore delle carceri del Triveneto Enrico Sbriglia che, ieri mattina, a palazzo Moroni ha partecipato al convegno “Dal carcere ai primi passi di libertà” organizzato dal Comune, dall’Ulss 6, dalla Conferenza nazionale volontari giustizia e dal Centro Servizi volontariato. Un evento che rientra nell’ambito di Padova capitale del volontariato 2020 e che ha visto tra i suoi partecipanti, tra gli altri, il presidente del Csv Emanuele Alecci, il direttore della Sanità penitenziaria dell’Ulss 6 Felice Alfonso Nava e la presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia Ornella Favero. “L’universalità dei diritti non può che farci sentire tutti e tutte parte di una stessa comunità che cresce se cresce insieme ha spiegato nel suo intervento l’assessore ai Servizi anagrafici Francesca Benciolini - Un grazie speciale va alla rete di associazioni e di enti del terzo settore che concretizzano ogni giorno questo impegno con la loro presenza negli Istituti penitenziari presenti nel nostro territorio. Come amministrazione restiamo impegnati su questo fronte in particolare grazie al lavoro prezioso della assessora Marta Nalin”. “Grazie anche alla collaborazione di personale specializzato ha detto, invece, Sbriglia vogliamo promuovere dei corsi destinati a detenuti che provengo da Paesi in via di sviluppo”. “Se noi insegniamo a queste persone a costruire dei mattoni, a realizzare dei sistemi d’irrigazione, a riparare i trattori, a costruire capannoni o a lavorare in call center istituzionali, diamo loro la possibilità di avere una preparazione professionale che, poi, sarà spendibile nei Paesi di origine” ha aggiunto. “Per far questo ha concluso è fondamentale avvalersi di mediatori che abbiano dei contatti diretti con le istituzioni di questi Paesi. Solo in questo modo saremo in grado di dar vita ad un processo virtuoso che possa dare un futuro a questi detenuti”. Migranti. Consiglio d’Europa: “l’Italia sospenda gli accordi coi guardiacoste libici” di Nello Scavo Avvenire, 22 febbraio 2020 Lettera da Lussemburgo della commissaria per i diritti umani, Dunja Mijatovic, al ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Roma ha chiuso gli occhi troppo a lungo, ignorando anche l’Onu. “Chiedo al vostro governo di sospendere ogni attività di cooperazione con la guardia costiera libica che comporta, direttamente o indirettamente, il respingimento di persone intercettate in mare”, e riportate a terra nei campi di tortura di un Paese in guerra civile. La richiesta della commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa al governo italiano è perentoria. E comincia da un rimprovero: “L’Italia deve riconoscere la realtà della situazione in Libia”. L’accusa, neanche troppo implicita, è che la “ragion di stato” impedisca al nostro governo di prendere atto della tragedia umanitaria, perciò la commissaria Dunja Mijatovic, in una lettera inviata il 23 febbraio al ministro degli Esteri Luigi Di Maio, non è andata per il sottile. La Farnesina ha reagito quasi senza entrare nel merito, tuttavia facendo ammissioni. “Siamo pienamente consapevoli che esiste un margine di miglioramento nella cooperazione stabilita nel 2017 con la Libia, ma i dati in quanto tali - si legge nella lettera di risposta a Strasburgo - ci dicono che dobbiamo continuare a lavorare in questa direzione, piuttosto che disimpegnarci dal Paese”. Nei giorni scorsi aveva destato sconcerto la bozza di rinegoziazione del memorandum, anticipata integralmente da Avvenire, specie per alcuni passaggi. Le autorità libiche continuano a definire i campi di prigionia dei migranti come “centri di detenzione”. Una definizione giuridicamente conforme a quanto stabilito dal governo libico che considera i migranti come degli irregolari da tenere agli arresti. Nessuna menzione, da parte libica, sugli abusi, le torture, e quelli che l’Onu definisce “orrori indicibili” commessi indistintamente su uomini, donne e bambini. L’Italia, però, è riuscita a fare di più. Non solo nella bozza non parla mai di “centri di detenzione”, ma addirittura arriva a definire le strutture, nel loro attuale assetto, come “centri di accoglienza”. Un artificio lessicale che va ben oltre il bon ton della diplomazia. La diminuzione delle morti nel Mediterraneo, passate da 2.853 nel 2017 a 743 nel 2019, “dicono che dobbiamo continuare a lavorare in questa direzione piuttosto che disimpegnarci da questo Paese”, insiste il governo italiano. Ma da Strasburgo viene ricordato che la cattura in mare non è affatto una garanzia per la sorte dei migranti intercettati e ricondotti in un Paese “dilaniato dal conflitto” e da quale giunge “una grande quantità di prove che indicano gravi violazioni dei diritti umani subite da migranti e richiedenti asilo”. Come dire che quelli bloccati in mare non vengono “salvati”, ma riportati nell’inferno dei campi di prigionia finanziati dall’Italia e dall’Ue. Dal Consiglio d’Europa, da cui dipende la Corte dei Diritti dell’Uomo e che ha ricevuto svariate denunce con l’Italia e l’Ue, viene ricordato che il memorandum d’intesa rinnovato lo scorso 2 febbraio, “gioca un ruolo centrale nel facilitare l’intercettazione dei migranti e richiedenti asilo in mare”, che vengono riportati in Libia “dove sono soggetti a gravi violazioni dei diritti umani”, ha sottolineato la commissaria. “Per garantire efficacemente il rispetto dei diritti umani in qualsiasi cooperazione migratoria con Paesi terzi, qualsiasi attività prevista dovrebbe essere preceduta - è l’indicazione di Mijatovic - da accurate valutazioni del rischio per i diritti umani, sviluppare strategie per mitigare tali rischi, ideare meccanismi di monitoraggio indipendenti e stabilire un efficace sistema di ricorso”. Nella lettera indirizzata a Di Maio, il Commissario esorta il governo italiano a introdurre garanzie sui diritti umani nel corso della rinegoziazione. Pur rilevando che sono in corso discussioni per migliorare la conformità dei diritti “in futuro”, il Commissario “invita l’Italia a riconoscere la realtà attualmente prevalente sul terreno in Libia e a sospendere le attività di cooperazione con la Guardia costiera libica”. Già nei mesi scorsi il commissario Mijatovic aveva fatto appello all’Italia e all’Unione Europea affinché venissero intraprese misure urgenti per sottrarsi all’accusa di complicità con trafficanti e torturatori, ponendo al primo posto nelle relazioni con la Libia il rispetto dei diritti umani. “Politicizzando una questione di natura umanitaria”, gli Stati “hanno adottato leggi, politiche e pratiche che - ha denunciato il commissario nel giugno 2019 - sono state spesso contrarie ai loro obblighi giuridici di garantire efficaci operazioni di ricerca e soccorso, lo sbarco rapido e sicuro e un altrettanto tempestiva accoglienza delle persone soccorse, e la prevenzione di tortura e trattamenti inumani o degradanti”. Mesi dopo secondo il Consiglio d’Europa non vi sono stati significativi passi in avanti. Anzi, viene sottolineata “la necessità di valutare i rischi per i diritti umani dei migranti e dei richiedenti asilo”. Tuttavia da Strasburgo si dicono consapevoli degli sforzi compiuti dall’Italia, perciò verrà chiesta “maggiore solidarietà dagli Stati membri del Consiglio d’Europa con quei Paesi che, come l’Italia, sono in prima linea nei movimenti migratori verso l’Europa e per una migliore cooperazione, per garantire l’efficacia salvaguardia della vita e la protezione dei diritti umani delle persone in mare”. Migranti. In Libia 600 persone sparite e spunta un’altra prigione segreta di Nello Scavo Avvenire, 22 febbraio 2020 Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, era stato chiaro: “La Guardia costiera libica trasferisce migranti in centri di detenzione non ufficiali”. Migranti in un centro di detenzione libico. Ce ne sono anche di segreti, dove è ancora più facile per autorità e miliziani commettere abusi di ogni tipo e anche usare le persone come schiavi. Un’altra prigione segreta, dove nascondere i migranti catturati in mare e tenerli alla larga dalle verifiche delle organizzazioni internazionali. L’ennesimo luogo di tortura da cui si può uscire solo pagando le guardie. “Mi hanno chiesto 700 euro”, dice uno dei migranti che con pochi altri è riuscito a scappare dopo aver fatto arrivare attraverso amici in Europa e parenti in patria il riscatto di mille dinari libici. Grazie a queste testimonianze è stato possibile individuare un’area, alla periferia di Tripoli e lungo la strada per Zawiyah, nella quale i migranti sarebbero stati ammassati dalle autorità libiche. Le coordinate geografiche indicano una serie di edifici a est della capitale, non lontano da un’arteria costiera in mezzo a edifici governativi e quartieri densamente popolati. La struttura, però, non risulta in nessun elenco ufficiale noto dalle organizzazioni internazionali. A denunciare ufficialmente la scomparsa di centinaia di persone erano stati i funzionari delle Nazioni Unite. A settembre il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, era stato chiaro: “La Guardia costiera libica trasferisce migranti in centri di detenzione non ufficiali”, dove si ritiene che funzionari del governo “vendano i migranti ai trafficanti di uomini”. Solo nelle prime due settimane di gennaio “circa 1.000 migranti sono stati riportati in Libia e 600 di loro sono stati trasferiti in una struttura controllata dal ministero dell’Interno libico. Di questi migranti non si ha più notizia”. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) ha lanciato un appello alla comunità internazionale, a cominciare dall’Unione Europea, affinché si trovino “alternative e meccanismi di sbarco sicuri”. Altri rifugiati sono stati spostati nella famigerata prigione di Triq al Sikka, in passato al centro di gravi episodi di sevizie e scontri con i guardiani. “A dieci mesi dall’inizio del conflitto - dice l’Oim - in Libia la situazione umanitaria continua a peggiorare. Oltre 2.000 migranti sono ancora detenuti in condizioni drammatiche, e gli operatori umanitari hanno sempre più difficoltà pratiche nel fornir loro assistenza”. Al 21 febbraio 1.737 rifugiati e i migranti sono stati intercettati in mare dalla cosiddetta Guardia costiera e riportati in Libia in violazione delle norme internazionali sul respingimento. “La Libia in alcun modo può essere considerato un Paese sicuro di sbarco per migranti e richiedenti asilo”, ribadiscono le Nazioni Unite. “Il 18 febbraio c’è stato un netto aumento” delle attività “con tre operazioni registrate quel giorno, per un totale di 535 persone”, annota l’ultimo report di Unhcr-Acnur. “La maggior parte sono stati trasferiti in centri di detenzione delle autorità libiche”, si legge nell’aggiornamento dell’alto commissariato per i rifugiati. La maggioranza dei migranti intercettati proviene dal Sudan, dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia e dalla Palestina, tutte nazionalità che avrebbero diritto alla protezione umanitaria in Europa. Maggior cura, però, sembra vi sia per gli animali. Migliaia di cammelli in marcia nella notte, in fuga dal porto di Tripoli bombardato dalle forze del generale Khalifa Haftar sono stati fotografati testimoniando le conseguenze del conflitto. Secondo ricostruzioni diffuse dal portale “Alwasat Libya” e da testate internazionali, a decidere per il trasferimento dei quadrupedi sono stati i commercianti-proprietari, preoccupati per la perdita del bestiame. I cammelli, circa 3mila, richiesti in Libia anche per la loro carne, sarebbero stati importati dall’Australia. Secondo testimonianze concordanti, gli animali hanno percorso in una notte circa 45 chilometri, giungendo nei pressi della città di Zawiyah, a ovest della capitale. Durante il tragitto, a Janzour, un sobborgo di Tripoli controllato dalle milizie, 125 esemplari sarebbero stati confiscati da un gruppo armato. Un dazio pagato per poter proseguire la corsa verso il confine con la Tunisia. Nessuno scampo invece per i profughi rinchiusi in promiuscuità, senza assistenza né garanzie. Persone “sistematicamente sottoposte a detenzione arbitraria e tortura” da parte di “funzionari governativi”, denuncia l’ultimo report del segretario generale Guterres, consegnato al Consiglio di sicurezza a fine gennaio. “Vi sono serie preoccupazioni riguardo al trasferimento di migranti intercettati dalla Guardia costiera libica verso centri di detenzione ufficiali e non ufficiali”, dove si hanno notizie di “omicidi illegali” che, aveva detto, sono diventati “molto diffusi”. Germania. La “legge anti-odio” di Christine Lambrecht di Paolo Lepri Corriere della Sera, 22 febbraio 2020 La ministra della Giustizia tedesca è convinta che si debba “prosciugare il terreno di coltura dove fiorisce l’estremismo”. Facebook e Twitter dovranno comunicare alla polizia, non solo rimuovere, i contenuti criminali o minacciosi. “I social media - dice - abbassano la soglia dell’inibizione e facilitano il passaggio all’azione”. È la ministra della Giustizia da soli otto mesi, nel traballante governo Merkel, ma Christine Lambrecht può essere orgogliosa di quello che ha fatto. Non sarà solo merito suo certamente, perché l’idea circolava da tempo. L’importante, però, è avere terminato il percorso, mettendo la firma su una legge che rappresenta una svolta, sia pure in attesa del via libera del Parlamento. Finisce l’era dell’impunità. A social media come Facebook e Twitter non basterà rimuovere i messaggi criminali o minacciosi - che riguardano preparativi di attentati, formazione di gruppi terroristici, incitamento all’odio razziale, intenzioni di stupro o violenze. Dovranno comunicare i contenuti all’Ufficio federale della polizia criminale e, nei casi più gravi, trasmettere i dati criptati degli account. “Bisogna prosciugare - ha detto - il terreno di coltura dove fiorisce l’estremismo”. Nata a Mannheim, 54 anni, iscritta alla Spd da quando era ragazza, Lambrecht ha una solida formazione giuridica. Agli studi universitari è seguito un periodo di tirocinio nel tribunale statale di Darmstadt. Tra i socialdemocratici ha compiuto una carriera-tipo, iniziata a livello locale e proseguita nel 1998 con l’elezione al Bundestag. Il primo incarico ministeriale è arrivato due anni fa, quando è stata nominata sottosegretaria alle Finanze. Nel giugno 2019 il passaggio al ministero della Giustizia (dove ha sostituito Katarina Barley) e si è messa subito al lavoro. Sono tempi difficili per un partito incamminato verso un declino apparentemente irreversibile, ma la cultura di governo della Spd ha avuto il merito, se non altro, di ritardare il declino più generale della politica tedesca. La legge “contro l’odio” è stata varata proprio lo stesso giorno in cui l’estremista di destra Tobias Rathjen ha ucciso nove persone perché convinto della necessità di “sterminare gli stranieri che non si possono più espellere”. Una coincidenza significativa. È chiaro che il fenomeno del fanatismo neonazista e xenofobo, spesso sottovalutato o protetto in Germania, ha radici e diramazioni profonde. Ma è necessario utilizzare tutti i mezzi possibili per combatterlo. Ricordando, come ha fatto Christine Lambrecht, che i social media “abbassano la soglia dell’inibizione” e “facilitano il passaggio all’azione”. Messico. Il sistema penitenziario tra progetti e difficoltà di Beatrice Barra ilforo.eu, 22 febbraio 2020 Programma di lavori di pubblica utilità nelle carceri messicane costruito sul modello italiano. Si è tenuto qualche giorno fa nella scuola superiore dell’esecuzione penale “Piersanti Mattarella” di Roma il seminario internazionale Crimine organizzato e sistema penitenziario. L’argomento del dibattito è stato il Programma di lavori di pubblica utilità nelle carceri di città del Messico,promosso dall’Unodc (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine), che punta a contribuire al processo di reinserimento sociale dei detenuti della capitale messicana, alla prevenzione della criminalità e alla riduzione della recidiva. Obiettivi importanti, a maggior ragione in un paese in cui le dinamiche sociali - rilevanti e non - sono alle dipendenze di una criminalità insidiosa piena di sfaccettature e aree di interesse. L’iniziativa è nata sulle orme del modello italiano “Mi riscatto per…” che ha riscosso un grande successo, apportando benefici alla collettività. I detenuti hanno hanno ripagato il proprio debito con la società, sentendosi al contempo una risorsa per la stessa. Hanno frequentato corsi di formazione all’interno delle carceri che, una volta liberi, hanno permesso loro di assumere un ruolo attivo nelle dinamiche comunitarie. Importanti esponenti della magistratura di Italia e Messico hanno partecipato all’incontro organizzato dall’Unodc, in collaborazione con il Dipartimento dell’Aministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Il sistema penitenziario messicano - Prima di affrontare le prospettive di cambiamento, però, bisogna capire quale sia il punto di partenza. La situazione del sistema penitenziario messicano è tanto palese, quanto insidiosa. Da un lato per la criminalità incontrollata e incontrollabile, dall’altro perché infettato dalla corruzione. Talvolta, sono proprio le autorità a fraternizzare con i delinquenti. Nonostante la gravità della situazione, però, se ne sente parlare poco. Parole come “desaparecidos” e “narcotrafficanti” vivono in un paradosso percettivo: sembrano incredibilmente distanti, ma - al contempo - sono fortemente radicate nell’immaginario collettivo e associate al Messico come una sorta di marchio di fabbrica del quale non si può fare a meno. Lo sa bene Claudio Cordova, giornalista d’inchiesta che ha deciso di osservare da vicino i meccanismi della contorta realtà messicana, dove l’azzurro del cielo e del mare convive con il nero della violenza diffusa e dell’impunità. Un problema che “ha origini culturali” - come si evince dal suo documentario “La Terra degli alberi caduti” -, che coinvolge i civili e, talvolta, trova in loro silenziosa e passiva accettazione. Forse per paura, forse per rassegnazione, forse per abitudine. Nel 2019 è arrivato a 40mila il numero di desaparecidos, ovvero i civili sottratti alle famiglie e alla propria vita a partire dalla guerra della droga iniziata nel 2006. Nonostante traspaia molto poco al di fuori dei confini messicani, i cittadini hanno piena contezza del dramma del loro paese in cui è negato il diritto alla giustizia, alla memoria e alla libera informazione. Sono pochi coloro che trovano il coraggio di opporsi, poiché “il grado di corruzione all’interno delle forze di polizia messicane ammonta a circa l’80%”. Chi si ribella, dunque, diventa facilmente un bersaglio e, spesso, viene eliminato. Il memorandum firmato ad Agosto per i lavori di pubblica utilità nelle carceri sembra, però, essere un “passo avanti” sia dal punto di vista pratico della rieducazione della civiltà, sia per il messaggio che veicola: è la voce di quella parte del Messico che non vuole smettere di credere in un possibile cambiamento. Il progetto - La fase esecutiva del progetto è iniziata con la sottoscrizione del Memorandum d’Intesa del 1° agosto da parte dell’Unodc, della Segreteria di Governo di Città del Messico e del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Con il documento le parti si impegnano sostanzialmente su tre fronti: realizzare, congiuntamente con il potere giudiziario di Città del Messico, le linee guida operative del Programma; creare un gruppo di lavoro, integrato con i responsabili per l’ambiente, il lavoro, i servizi e la sicurezza della pubblica amministrazione locale, che si occupi di curare l’organizzazione dei lavori di pubblica utilità; pubblicare il Manuale delle buone pratiche del modello di reinserimento lavorativo a Città del Messico. A fine estate il progetto è stato controllato e approvato dai partner italiani e, successivamente, è stata firmata una convenzione per l’impiego di risorse economiche che vede coinvolti rappresentanti di imprese made in Italy che potrebbero diventare possibili partner privati dell’iniziativa. Un aspetto molto tenuto in considerazione - sopratutto alla luce dei 16 morti nel carcere Cerereso (Stato messicano di Zacatecas) lo scorso primo gennaio a seguito di uno scontro tra bande rivali - è l’apparato di sicurezza. È stato messo a punto il programma per la logistica e il piano di sorveglianza dei detenuti, per la formazione del personale e la corretta distribuzione delle ruoli. Il primo piccolo-grande obiettivo è stato raggiunto agli albori del 2020. Venti i detenuti che sono stati selezionati e che, dopo il percorso di formazione come curatori di giardini e aree verdi, sono usciti per la prima volta dal Centro penitenziario Ceresova. Il gruppo viene chiamato “la primera brigada”, espressione che rimanda ad una cinematografia di ambientazione bellica che vuole sottolineare la responsabilità socio-culturale di questi ragazzi. La consapevolezza è una: cambiare meccanismi radicati non è facile, ma provarci è indispensabile. Algeria. Louisa Hanoune è libera, ma gli arresti arbitrari impazzano di Stefano Mauro Il Manifesto, 22 febbraio 2020 Rilasciata la segretaria generale del Partito dei Lavoratori, dopo nove mesi di carcere per una sentenza che il movimento di protesta definisce “politica”. La denuncia di Amnesty: ancora repressione contro i manifestanti e la stampa. Lo scorso lunedì la segretaria generale del Partito dei Lavoratori (Pt), Louisa Hanoune, è stata rilasciata, dopo la decisione della Corte d’Appello militare di Blida di far decadere le due principali accuse a suo carico: “complotto contro lo Stato” e “attacco all’autorità dell’esercito”. Una prima condanna nel settembre 2019 - insieme agli ex capi dei servizi segreti Mohamed “Toufik” Mediène e Athmane “Bachir” Tartag e al fratello del deposto presidente Said Bouteflika - le aveva inflitto una pena a 15 anni di carcere. Il Comitato nazionale per la Liberazione dei Detenuti (Cnld) aveva definito la sentenza come “politica”, influenzata dal clima di repressione voluto dal generale Ahmed Gaid Salah, vero reggente del paese fino alla morte per infarto e all’elezione a dicembre del neo-presidente della repubblica Abdelmajid Tebboune. Con il volto smagrito e il fisico provato da nove mesi di detenzione, la 66enne pasionaria Louisa Hanoune ha dichiarato, nel primo incontro ufficiale con i membri del Cnld, con voce chiara e decisa di essere “sempre stata convinta della propria innocenza, di aver agito solo per gli interessi del paese e di voler continuare a lottare per la giustizia e per la liberazione di tutti i prigionieri politici e d’opinione”. Nonostante la scarcerazione, infatti, la Corte militare ha confermato l’accusa di “cospirazione” convalidandole una “condanna a tre anni di pena, con nove mesi di carcere”, già scontati dallo scorso maggio 2019. Gli avvocati di Hanoune hanno fatto richiesta in Cassazione indicando che “in quanto leader di un partito politico, in un momento di crisi istituzionale, Hanoune aveva richiesto un incontro al consigliere del presidente (Said Bouteflika) per chiedere chiarimenti” e hanno affermato che questa condanna è stata “l’ennesima dimostrazione di un processo politico con un verdetto concordato a priori”. Nel suo recente incontro con i rappresentanti delle diverse regioni del paese, il presidente Tebboune ha ribadito “il suo impegno nel portare avanti un cambiamento radicale per soddisfare la volontà popolare e le esigenze dell’Hirak per un vero cambiamento del sistema”. Nonostante le dichiarazioni di facciata e alcune aperture sulla liberazione dei prigionieri politici, a distanza di un anno la situazione di stallo non cambia e la protesta dell’Hirak non diminuisce. Nel suo rapporto annuale sulla situazione dei diritti umani, pubblicato il 18 febbraio, Amnesty International denuncia ancora “l’utilizzo delle forze di sicurezza per reprimere il movimento di protesta con arresti arbitrari nei confronti di centinaia di manifestanti”. “Diverse persone sono state consegnate alla giustizia con pene discutibili come “attacco all’integrità nazionale” - continua l’ong - mentre le autorità hanno vietato le attività di diverse associazioni o hanno represso e ostacolato la stampa nel cercare di portare una corretta informazione riguardo al movimento di protesta pacifico dell’Hirak, soprattutto nel periodo delle elezioni presidenziali”. “Né l’incriminazione e la prigionia dei simboli dell’era Bouteflika, né le dichiarazioni di apertura da parte di Tebboune e neanche le intimidazioni e gli arresti nei confronti del popolo che protesta hanno avuto nessun effetto sull’Hirak, che richiede un cambio definitivo del sistema per una nuova Algeria, questa è la nostra speranza oggi come un anno fa”, ha dichiarato uno dei leader della protesta, Noureddine Benissad, presidente della Lega algerina per i Diritti umani.