La galera non è un regalo alla polizia di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 21 febbraio 2020 I detenuti tossicodipendenti rappresentano un quarto della popolazione detenuta. Quelli ristretti per avere violato la legge sugli stupefacenti sono a loro volta circa un terzo dei 61 mila reclusi nelle carceri italiane. La custodia cautelare pesa anch’essa più o meno un terzo rispetto ai numeri globali della detenzione nel nostro Paese. Esiste un sotto-insieme di detenuti che è costituito da persone che hanno violato la legge sulle droghe e che hanno allo stesso tempo problemi di dipendenza. Lo spacciatore è, quindi, non di rado anche consumatore di sostanze. Non raramente si tratta di giovani che provengono da contesti marginali e che presentano anche disagi di tipo psichico. L’Italia è il Paese del Consiglio d’Europa che ha tra i numeri più alti di condannati in via definitiva per reati di droga: circa dodici punti percentuali in più rispetto alla Spagna e alla Francia, oltre venti punti in più rispetto alla Germania. Questi numeri evidenziano un impatto repressivo della nostra legislazione (che va ricordato ancora porta i nomi di Gianfranco Fini e Carlo Giovanardi) che è già fin troppo sostanzioso e non richiede ulteriori smottamenti securitari. Non sembrano dunque giustificate le preoccupazioni e le proposte del ministro degli Interni Luciana Lamorgese, la quale ha anticipato che avrebbe predisposto una norma per superare l’attuale disposizione dell’art. 73 comma cinque della legge sulle droghe in modo da assicurare l’arresto immediato in tutti i casi di spaccio di droghe, anche se le quantità sono modiche. Non sappiamo ancora quale sarà la soluzione tecnica che verrà adottata per mandare in galera i micro-spacciatori. Di certo non potrà essere l’introduzione di automatismi nell’imposizione di una misura cautelare detentiva, in quanto essi sono già stati più di una volta ritenuti illegittimi da parte della Corte Costituzionale. Non sappiamo neanche se saranno previste distinzioni di trattamento penale per chi spaccia cannabis o droghe pesanti. Chiunque da decenni si occupa di questi temi ben sa che la minaccia della galera e la risposta di Polizia costituiscono una politica oramai abusata di repressione criminale che nel tempo e nello spazio non ha prodotto risultati significativi, né in termini di lotta allo spaccio, né in termini di riduzione dei consumi giovanili (preoccupazione evidenziata dal Ministro nel suo intervento), né di lotta alla recidiva. Basterebbe sentire il parere di chi il carcere lo conosce, per rendersi conto che esso è un luogo patogeno, a sua volta foriero di nuove recidive. Il carcere, nella migliore delle ipotesi, serve solo a rassicurare, simbolicamente, l’opinione pubblica o al limite qualche sindacalista autonomo di Polizia. Proprio in un contesto sindacale di Polizia pare che il ministro abbia rilevato “il fatto che arrestare, senza custodia in carcere, e il giorno dopo vedere nello stesso angolo di strada lo spacciatore preso il giorno prima, incide anche sulla demotivazione del personale di polizia che tanto si impegna su questo versante e vede la propria attività essere posta nel nulla quando il giorno dopo li ritroviamo nello stesso posto”. Non mi pare questa una motivazione sufficiente per imprimere un’accelerazione nella macchina della repressione. La motivazione professionale delle forze dell’ordine va rispettata ma altrimenti assicurata. In Paesi come il Canada e gli Stati Uniti scelte di legalizzazione della cannabis sono state realizzate grazie al contributo fondamentale di investigatori ed esperti che hanno definito vecchia e inutile la war on drugs. Liberandoci dall’ossessione punitiva e dall’ideologia proibizionista, potrebbe essere possibile spostare risorse umane (giudiziarie e di polizia) ed economiche verso il contrasto di altri, ben più allarmanti, pericoli criminali (si pensi ai delitti delle mafie, ai crimini dell’odio, ai traffici di armi). Un poliziotto non deve riscontrare soddisfazione personale nel vedere la persona da lui fermata andare in prigione. Deve viceversa sentirsi gratificato dall’essere universalmente considerato un funzionario pubblico non di parte che promuove e protegge i diritti di tutti. Ed è la politica che deve dargli questa nobile funzione. In cella per uno spinello di Franco Corleone Il Riformista, 21 febbraio 2020 La svolta repressiva sul piccolo spaccio. Le galere scoppiano, il 35% dei detenuti è dentro per reati di droga e la ministra Lamorgese lancia una “war on drugs” all’amatriciana. Mentre il mondo va in tutt’altra direzione, in Italia trionfano propaganda e demagogia. Non era difficile comprendere che la scelta di un ex prefetto come successore di Matteo Salvini al ministero dellinterno era frutto di una impronta tecnicista e segno di sostanziale rifiuto di una discontinuità proprio laddove era più necessaria. Così come sarebbe stata decisiva una svolta in via Arenula, al ministero della Giustizia. La responsabilità è certo del Partito Democratico che si è dimostrato privo di egemonia sul terreno qualificante dello stato di diritto e della democrazia, ma grave è stato l’errore del Presidente Mattawlla ad accettare l’indicazione di un prefetto a capo del Viminale, dove Luciana Lamorgese ha compiuto la sua carriera. Si sarebbe dovuto ricordare l’esempio di Giorgio Napolitano che rifiutò la nomina di Gratteri a ministro della Giustizia Finora la presenza di Lamorgese era stata caratterizzata da un inquietante vuoto pneumatico, ma alla fine l’imprinting reazionario è emerso con l’annuncio di una stretta repressiva in tema di lotta alla droga. È davvero clamoroso che si debba leggere che sarebbe stata predisposta, di concerto con il ministero della Giustizia “una norma per superare l’attuale disposizione dell’art. 73 comma cinque che non prevede l’arresto immediato per i casi di spaccio di droga” e per prevedere la “possibilità di arrestare immediatamente con la custodia in carcere coloro che si macchiano di questo reato”. Un ministro dell’Interno che si rispetti dovrebbe conoscere i dati e dovrebbe sapere che per violazione dell’articolo 73 della legge antidroga, il Dpr 309/90, nelle galere italiane le presenze per questa imputazione assommano a oltre il 35%, cioè più di 21.000 persone. Ma politicamente è assai grave che la ministra Lamorgese faccia propria la proposta di Salvini, che ha depositato alla Camera una proposta di legge per abolire sostanzialmente la fattispecie della lieve entità. Molti anni fa con il magistrato Alessandro Margara riuscimmo a far approvare una modifica per cui il quinto comma dell’art. 73, oggi criminalizzato, fosse trasformato da attenuante a fattispecie autonoma Una ricerca svolta recentemente nelle carceri toscane ha dimostrato che quella modifica non basta e che la lieve entità deve diventare un articolo autonomo per evitare il gioco delle tre carte, per cui si arresta genericamente per violazione dell’art. 73 (detenzione o piccolo spaccio) e solo al processo viene riconosciuta la responsabilità minore. Questa proposta è stata presentata dall’on. Riccardo Magi e di questo bisogna parlare e non di war ori drugs all’amatriciana che avrebbe l’effetto di far aumentare il numero dei detenuti da 61.000 a settanta o ottantamila, con la conseguenza di far scoppiare le carceri e costringendo la Corte europea dei diritti umani a condannare di nuovo l’Italia per trattamenti crudeli e degradanti. Sfido la ministra a fornire i dati su quanti casi di lieve entità che non dovrebbero entrare in carcere, subiscono questo destino. La ricerca dell’Ufficio del Garante dei detenuti della Toscana ha fatto emergere un dato impressionante della Corte d’Appello di Firenze le condanne relative al coma 5 dell’art. 73 sono esplose dal 25% nel 2013 al 49% nel 2017; in cifre assolute da 145 a 463. Clamoroso è il dato del peso straordinario dei reati di droga sul carcere rispetto ai delitti contro il patrimonio, la persona o la pubblica amministrazione. Ogni due processi per droga vi è una condanna, mentre per i reati contro la persona e contro il patrimonio vi è una condanna ogni dieci processi. Questa piramide rovesciata meriterebbe una seria riflessione. La verità è che la repressione si concentra su una questione sociale e in particolare sui pesci piccoli. Nel mondo sulla politica delle droghe si sta cambiando passo, tanto che non solo in Uruguay e in Canada, ma anche in molti stati (dal Colorado alla California) degli Stati Uniti è stata legalizzata la canapa, riducendo il potere delle mafie e del mercato illegale. In Italia trionfa ancora la propaganda e la demagogia. Il 28 e 29 febbraio a Milano, presso la Camera del Lavoro, si svolgerà una Conferenza nazionale sulle droghe in assenza di quella del Governo che non viene convocata da venti anni (non considerando le finte conferenze, vere farse, indette da Giovanardi a Palermo e Trieste, l’ultima si tenne a Genova con Don Gallo) in violazione della legge che prevede un appuntamento ogni tre anni per valutare gli esiti delle politiche adottate e prevedere i necessari cambiamenti. La svolta punitiva sulle droghe in Italia risale al 1990 con l’approvazione della legge Iervolino-Vassalli, e quindi a trent’anni fa. Nel 2006 fu approvata una variante più repressiva, la cosiddetta legge fini-Giovanardi che equiparò, sul piano simbolico e materiale delle sanzioni, droghe pesanti e leggere, con la previsione di pene da otto a venti anni di carcere. Si dovette aspettare la decisione della Corte Costituzionale nel 2014 per cancellare un obbrobrio del diritto. Di fronte a questa provocazione, a Milano reclameremo le dimissioni di una ministra di polizia. La droga della carcerazione preventiva di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 febbraio 2020 Per combattere lo spaccio non serve giustizia sommaria ma processi più rapidi. La titolare dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha emanato una norma che impone l’arresto immediato, cioè la detenzione preventiva, anche per chi spaccia una “modica quantità” di sostanze stupefacenti. La decisione, concordata con il ministero della Giustizia, risponde alla denuncia di un aggravamento del fenomeno dello spaccio, di una diffusione delle droghe in età sempre più giovani, e soprattutto all’irritazione delle forze dell’ordine, perché, dice la responsabile del Viminale, “arrestare senza la custodia cautelare in carcere e il giorno dopo vedere, sullo stesso angolo di strada, lo spacciatore preso il giorno prima, incide sulla motivazione del personale di polizia che tanto si impegna su questo versante e vede la propria attività finire nel nulla”. Sembra che il ragionamento non faccia una grinza. Ma un problema in realtà c’è, come capita ogni volta che un governo sceglie di prendere un provvedimento sulla base di una pur comprensibile spinta emotiva. La carcerazione preventiva è una delle cause principali del sovraffollamento delle carceri e quando si parla di giustizia rafforzare le misure straordinarie è raramente una buona idea anche se quell’idea può far breccia nel circo mediatico - vedi gli omicidi stradali, la pedopornografia e una serie ormai lunghissima di reati diventati di particolare interesse per l’opinione pubblica per effetto di episodi particolarmente inquietanti. È giusto chiedere la certezza della pena, ma in un paese democratico la pena viene irrogata in seguito a un giudizio non prima o in vece di esso. Si può derogare da questo principio in casi eccezionali, invece oggi la deroga è diventata la regola. I poliziotti hanno ragione a lamentare che i delinquenti arrestati non vengano condannati in tempi rapidi quando non esiste un ragionevole dubbio sulla loro colpevolezza. Però la risposta giusta a questa lamentela sono processi rapidi, non il carcere preventivo, che sembra una soluzione ma invece aggrava la situazione di inefficienza del sistema giudiziario. Cattiva salute, fisica e mentale. Ecco cosa succede agli adolescenti in carcere di Cristina Da Rold Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2020 Gli adolescenti detenuti all’interno del sistema giudiziario penale sono colpiti da complessi problemi di salute, comportamenti a rischio per la salute e alti tassi di morte prematura. La rivista medica The Lancet ha reso nota la prima sintesi mai condotta di tutti gli studi pubblicati a livello globale sulla salute degli adolescenti con meno di vent’anni detenuti tra il 1980 e il 2018. Un campione di studi molto eterogeneo, sia geograficamente che temporalmente, ma che sottolinea una tendenza importante: gli adolescenti detenuti sperimentano comunemente cattive condizioni di salute, sia fisica che mentale, non solo in detenzione, ma prima, nel corso della loro vita. Presentano tassi maggiori di trauma cranico infantile, di disturbo da sindrome feto-alcolica, difficoltà nello sviluppo del linguaggio, maggiori tassi di deficit dell’attenzione. Tutti aspetti che i sistemi sanitari sociali e scolastici possono intercettare. Un risultato è che complessivamente, la prevalenza del comportamento suicidario è risultata marcatamente più alta tra gli adolescenti detenuti che tra gli adolescenti nella popolazione generale. Inoltre il rischio di suicidio in seguito al rilascio dalla detenzione è stimato da due a nove volte superiore a quello del loro coetanei corrispondenti all’età e al sesso. Va sottolineato che la maggior parte degli studi esaminati riguardava paesi ad alto reddito, in particolare gli Stati Uniti. La salute mentale - Quasi tutti i lavori rilevano livelli di salute mentale peggiore fra i giovani detenuti. Una revisione americana ha riferito che il 66,8% dei maschi e l’81% delle femmine adolescenti soddisfacevano i criteri diagnostici per almeno un disturbo mentale, come depressione, disturbi comportamentali e abuso di sostanze. La prevalenza di qualsiasi disturbo d’ansia negli adolescenti detenuti variava dal 3 al 4% al 31,5% per i maschi e dal 20,9% al 59% nelle femmine. La prevalenza di disturbo post traumatico da stress variava dallo 0% al 53% per i maschi e dal 13% al 65,1% per le femmine. Disabilità nello sviluppo neurologico e traumi cerebrali - 58 pubblicazioni, fra cui 45 riferite a paesi ad alto reddito sottolineano che la prevalenza di varie disabilità dello sviluppo neurologico tra gli adolescenti detenuti è superiore a quella tra i loro coetanei non detenuti. Le percentuali di difficoltà di apprendimento riportate tra gli adolescenti detenuti variavano infatti dal 10% al 32%. Diverse evidenze suggeriscono inoltre che la maggior parte degli adolescenti detenuti ha avuto qualche forma di difficoltà con il linguaggio che ha influenzato significativamente il loro funzionamento quotidiano. Anche esperienze di trauma cranico sono comuni tra gli adolescenti finiti in galera. Una recente revisione ha suggerito che il 32-50% degli adolescenti detenuti aveva avuto una lesione cerebrale traumatica che ha provocato perdita di coscienza durante l’infanzia, rispetto al 5-24% degli adolescenti nella popolazione generale. Nota bene: si riporta il range di % perché non sarebbe corretto fare una media fra valori ottenuti da studi diversi, condotti su campioni diversi con metodi diversi. Deficit di attenzione - I tassi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Adhd) nella popolazione generale di bambini e adolescenti sono stimati rispettivamente tra il 3% e il 9%, con una prevalenza nei maschi di circa quattro volte superiore a quella tra le femmine. Fra i giovani e le giovani detenuti invece la prevalenza di Adhd balza a una media del 20,2% per i maschi al 26,7% per le femmine. Un elemento importante è che molti adolescenti sottoutilizzano l’assistenza primaria e preventiva presente nella propria comunità già prima della detenzione. La prigione spesso diventa per questi ragazzi vulnerabili l’unica opportunità di accesso al servizio, sia come diagnosi, che come promozione della salute, educazione alla gestione delle malattie. Il problema è - appunto - che questi servizi non adempiono adeguatamente al loro compito. “Sono necessari urgenti sforzi mirati e basati sull’evidenza per affrontare i determinanti sanitari e sociali della detenzione degli adolescenti e fornire assistenza sanitaria tempestiva a questa popolazione altamente emarginata” concludono gli autori. Lavoro, sanità e “41bis” nelle linee guida del Dap per il 2020 ansa.it, 21 febbraio 2020 Più lavoro, specie di “pubblica utilità”, ai detenuti; più assistenza sanitaria nelle carceri; gestione efficace dei reclusi al “carcere duro”; potenziamento del personale, di strumenti e dotazioni tecnologiche anche in chiave sicurezza: sono i punti essenziali delle Linee programmatiche per il 2020 elaborate dal capo del Dap, Francesco Basentini. Nel documento, tra l’altro, si evidenzia la necessità di prestare massima attenzione, attraverso una gestione efficace, al tema del cosiddetto “carcere duro” (il 41bis), anche alla luce di recenti orientamenti della giurisprudenza nazionale e comunitaria che sembrano allontanarsi dalla ratio iniziale della misura e mettere a rischio l’impegno istituzionale contro le mafie. Il rinvenimento durante recenti operazioni di polizia di cellulari e oggetti per offendere “nella disponibilità di detenuti al 41bis merita opportune riflessioni, soprattutto per ciò che concerne l’operatività del personale che è impiegato nella gestione di quei reparti”. Libertà dietro le sbarre: la meditazione in carcere di Roberto Cagliero anteocoop.it, 21 febbraio 2020 Perché praticare meditazione in carcere? Quella che sembrerebbe una novità è invece una realtà consolidata in vari penitenziari di tutto il mondo, soprattutto di quello occidentale ma anche in India e in altri Paesi. Quando ho seguito il corso del PYP (“Prison Yoga Project”), un’associazione che forma insegnanti di yoga in carcere in America e in Europa, ero in effetti interessato all’aspetto prevalentemente meditativo dello yoga, che ho sempre privilegiato nella mia pratica ormai ventennale. Al PYP ho imparato soprattutto che cosa non si deve fare nella relazione con i detenuti, le cose da non dire e gli esercizi da non fare (ad esempio quelli con le mani dietro la schiena, o sollevate di fianco alle braccia, poiché possono ricordare i momenti traumatici dell’arresto). Ho imparato perché a certi allievi risulta difficile togliersi le scarpe e che certi esercizi di respirazione possono essere controindicati, e così certe posizioni. I motivi sono tanti poiché, dagli stati di ansia o di rabbia all’uso esagerato di tranquillanti, vi è tutto un menù di elementi che interagiscono negativamente con certe posture o stati di rilassamento. Le conseguenze possono essere difficili da controllare. Ho imparato anche che i detenuti non vanno trattati come teiere fragili, e che bisogna sempre rispondere con il cuore. Regole base della meditazione in carcere - Chi vive in carcere ha molto tempo da trascorrere ma poco da perdere. Nei tre anni di esperienza alla casa circondariale di Verona, insieme a un gruppo di insegnanti che tengono un corso anche nella sezione femminile, ho tentato di creare una raccolta di meditazioni e di esercizi facili ed efficaci. Il nostro corso è particolare, poiché fa parte del progetto “Cavalli in carcere” di Horse Valley di Verona. Pratichiamo all’aperto, nel cortile interno, attorniati da cavalli, pecore e galline. Un contesto stranamente bucolico e infinitamente più favorevole di uno stanzone asettico. La prima regola, almeno in base alla mia esperienza, consiste nel scegliere pratiche abbordabili (cioè semplici e non faticose), non troppo lunghe (la soglia di attenzione è quasi sempre bassa, almeno inizialmente) e in grado di produrre effetti velocemente verificabili (la pazienza va costruita poco per volta, non la si può dare per scontata). In questi tre anni, tuttavia, non ho cambiato idea sulla priorità dell’aspetto meditativo degli incontri. Non so se la mia scelta sia la più efficace in un contesto carcerario ma so che funziona. A patto che gli allievi vogliano impegnarsi a riconoscere una parte di sé che in molti casi non hanno mai saputo di avere. Resistenze alla meditazione in carcere - Sono tante le ragioni per cui un detenuto può ritenere totalmente estranea la pratica della meditazione. Oltre a certe resistenze che sono le stesse di chi vive fuori dal carcere, ad esempio l’idea che lo yoga sia destinato alle donne o a persone deboli e insicure, o che si tratti di una pratica religiosa travestita, o che la meditazione rubi spazio al movimento fisico, un detenuto si ritrova ad affrontare resistenze interne che lo portano a rifiutare la pratica a causa dei vari acciacchi fisici, o a vergognarsi di un esercizio di meditazione o di semplice respirazione (“se pratico in cella mi prendono in giro e perdo il rispetto altrui, che mi sono faticosamente costruito”), percependolo come parte di quel processo di infantilizzazione a cui è continuamente sottoposto dall’ambiente in cui vive, che non gli lascia spazio di scelta su nulla. La meditazione può aiutarlo a ritrovare quello spazio. Il trauma è al centro dell’esperienza carceraria - Per condurre incontri di meditazione in carcere bisogna tenere anzitutto presenti questi elementi, ma ce n’è uno più rilevante: il trauma. Da studi accreditati risulta che oltre l’80% delle persone incarcerate ha subito dei traumi. O durante l’infanzia (ad esempio violenza domestica o abbandono) o in età adulta (scene di violenza, azioni di guerra, crimini sessuali). Secondo lo psichiatra Bessel van der Kolk, il trauma è al centro dell’esperienza carceraria (l’arresto è la ciliegina sulla torta di una esistenza vissuta al passato), e anche in questo contesto può essere riacceso da associazioni involontarie che riportano la persona all’evento traumatico, e quindi a un passato dal quale non si è mai in realtà staccata. Insegnare meditazione in carcere significa quindi, oltre che motivare i partecipanti smontando le false credenze su questa pratica, fare in modo che l’esperienza possa accadere in un contesto sicuro. Soltanto così i partecipanti agli incontri potranno sentirsi sufficientemente al sicuro per potere riprendere contatto con il corpo, con il respiro e in generale con la consapevolezza di sé. Svuotare la mente - Il Kundalini Yoga offre una quantità sterminata di pratiche che lavorano su rabbia e altre emozioni distruttive, o che sono rivolte a rafforzare l’equilibrio emotivo: il comune denominatore è il controllo del sistema nervoso. Avere carattere e mente calma. Non a caso si lavora spesso per svuotare la mente, che in carcere è una delle tante radio sempre accese. Per il resto la popolazione carceraria presenta le stesse difficoltà di quella esterna. Ormai apparteniamo tutti a una qualche popolazione a rischio. Nel nostro corso vogliamo che l’esperienza della meditazione mostri come, invece di restare in quella popolazione, sia possibile uscirne per aiutare gli altri ad uscirne. Sembra un po’ evangelico ma funziona. Lo strappo dell’Anm: “No al tavolo di Bonafede, ddl penale inaccettabile” di Errico Novi Il Dubbio, 21 febbraio 2020 Le toghe contestano le sanzioni ai giudici per i processi lunghi. Lo scontro è duro, durissimo. E a ben vedere non riguarda solo il tavolo convocato mercoledì da Bonafede ma si estende assai oltre, all’intera riforma penale, a tutto l’orizzonte disegnato dal gurdasigilli per il nuovo processo. Con un comunicato di inedita asprezza l’Anm annuncia che non parteciperà “al tavolo tecnico convocato per il 26 febbraio dal ministro della Giustizia” per discutere, insieme con l’avvocatura, proprio del ddl penale. “Siamo stati costretti nostro malgrado a comunicarlo al ministro”, riferisce la giunta presieduta da Luca Poniz. Un conflitto mai visto e politicamente clamoroso anche perché dissolve una volta per tutte la leggenda di un Movimento 5 Stelle amico dei magistrati. Non c’è affatto, quella organicità. Adesso a precipitare in una precarietà ancora più evidente è la stessa riforma del processo, già messa in discussione da un parte piccola ma decisiva della maggioranza qual è Italia Viva, con il netto dissenso dell’avvocatura sulla prescrizione e non solo, e ora con il no irreversibile delle toghe su un punto cardine ddl: “Ciò che rende inaccettabile il testo nel suo complesso e che impedisce, allo stato, ogni possibilità di confronto”, scandisce la giunta dell’Anm, “è che le previsioni sulla durata delle indagini e dei processi siano accompagnate dall’introduzione di ulteriori sanzioni disciplinari a carico dei magistrati”. Lo sviluppo del concetto è un attacco pesantissimo alla strategia del goverbo: la previsione secondo cui il giudice che non depositasse la sentenza nei tempi predeterminati, se sospettabile di negligenza, sia esposto a procedimento disciplinare è, per le toghe, una “norma manifesto”, uno “slogan che si traduce in un ingeneroso e immeritato messaggio di sfiducia nei confronti dei magistrati italiani, che cede alla facile tentazione di scaricare sui singoli le inefficienze del sistema che, come tali, sono invece esclusiva responsabilità della politica”. Additare i giudici come potenziali fannulloni “rischia di suscitare, soprattutto nei magistrati più giovani, la tentazione di una giustizia di carattere “difensivo” e burocratico, ancora una volta con l’evidente conseguenza di non rendere un buon servizio ai cittadini”. Un no assoluto, e argomentato. Nessuna “interlocuzione fino a quando nel testo del ddl saranno contenute previsioni di questo tipo”. È impossibile, per l’Anm, anche solo iniziare il confronto con il ministro, anche perché “determinarne per legge la durata, trattando allo stesso modo vicende di complessità molto diversa” vuol dire anche dimenticare che “uno dei fattori della durata dei processi è lo scrupolo nell’accertamento dei fatti e, in ultima analisi, la necessità di una piena tutela dei diritti dei cittadini”. Adesso, il punto è che sulla necessità di considerare la “qualità della decisione” prioritaria rispetto alla “velocità” si è sempre schierato con nettezza proprio quel presidente del Cnf Andrea Mascherin da cui è partita la sollecitazione affinché Bonafede riconvocasse il tavolo tecnico. L’ultima volta, il vertice dell’istituzione forense aveva rinnovato la richiesta venerdì scorso. Bonafede l’aveva recepita lunedì con un post su facebook e l’altro ieri ha materialmente recapitato l’invito ad avvocati e magistrati per il 26 febbraio. Il comune interesse dell’avvocatura per la qualità che non può essere schiacciata dai tempi avrebbe forse potuto suggerire all’Anm di ribadirla proprio insieme con le rappresentanze forensi al tavolo ministeriale. L’aventino scelto dall’Anm è invece più esposto alla controffensiva politica, dunque meno efficace. Ma qui interviene la seconda lettura, certo subordinata al motivato dissenso sul merito ma utile a spiegare perché il confronto sia precipitato in modo così fragoroso. Il nodo è nel voto per il rinnovo del “parlamentino” Anm in programma il 22 maerzo. Una tornata fin- du- monde. I riverberi del caso Palamara ridisegnano e avvelenano il campo. Con Magistratura indipendente, isolata dagli altri tre gruppi, unica a non far parte della giunta Poniz, che ha accusato gli altri di aver trascinato l’Associazione verso il rischio di “un compromesso al ribasso” con Bonafede. Addirittura di aver nascosto la sostanziale indisponibilità a rivedere le sanzioni ai giudici espressa dal ministro in un incontro di fine gennaio con la giunta Poniz. Pare improbabile che l’esecutivo del “sindacato” possa essersi assunto una simile responsabilità. Fatto sta che dopo tali accuse di asserita debolezza politica, dopo l’appello di “Mi” a “rovesciare gli equilibri”, disertare il tavolo era, per il vertice dell’Anm, quasi inevitabile. La rottura sulla riforma è, dunque, dovita anche alle tensioni interne alla magistratura. Anche se nel merito le ragioni ci sono, la forma cosi pesante scelta per esprimere il dissenso non si spiega senza lo sfondo elettorale. Ma una simile chiave di lettura, che pure non può essere ignorata, non cancella certo gli scenari fitti di incognite che si aprono ancor di più per la riforma Bonafede. Anche l’Anm lascia solo Bonafede: niente incontro il 26 di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 febbraio 2020 Lo aspetta un’annunciatissima mozione di sfiducia, la sua stessa maggioranza lo critica di continuo, lo contestano gli avvocati penalisti e buona parte della dottrina giuridica, non di rado si mette in difficoltà da solo con le sue gaffe, ma il ministro Alfonso Bonafede aveva potuto contare fin qui sul sostegno della magistratura associata. La sua riforma della prescrizione non era sfuggita alle osservazioni non benevole di alcuni magistrati, ma il vertice dell’Anm aveva ufficialmente preso posizione in favore del ministro e della sua legge bandiera, la “spazza-corrotti”. Tanto che il 29 gennaio, lasciando via Arenula dopo un vertice sulla riforma del processo penale, presidente e segretario dell’Associazione nazionale magistrati avevano parlato di “incontro proficuo”. Da ieri non è più così, e proprio per la legge delega con la quale la maggioranza vuole riformare il codice penale di rito: l’Anm ha annunciato che diserterà il confronto del prossimo 26 febbraio. Bonafede è ancora più solo. I magistrati contestano due cose dell’ultimo e lungamente atteso progetto di riforma. La fissazione di una durata massima dei processi (cinque anni per i reati più gravi) e la diminuzione del tempo previsto per le indagini preliminari, accompagnata dalla previsione che in caso di sforamento eccessivo gli atti di indagine devono essere portati a conoscenza degli indagati. Ma più di tutto le toghe associate contestano che queste novità siano accompagnate da sanzioni disciplinari quasi automatiche per i magistrati che non rispetteranno i tempi, “ingeneroso e immeritato messaggio di sfiducia nei confronti dei magistrati italiani che scarica sui singoli le inefficienze del sistema che sono invece esclusiva responsabilità della politica”. A spingere il vertice dell’Anm verso la linea dura, per la prima volta contro il ministro 5 Stelle, malgrado dal disegno di legge delega di riforma del processo penale siano rimasti fuori i due aspetti più controversi per le toghe, il nuovo Csm e il nodo magistrati in politica, è l’apertura della campagna elettorale interna. Tra il 22 e il 24 marzo, novemila magistrati andranno alle urne per scegliere il nuovo parlamentino dell’associazione, oggi guidata da una giunta non più unitaria. Dopo il terremoto dell’inchiesta Palamara è infatti uscita dalla maggioranza la corrente di destra di Magistratura indipendente, coinvolta nello scandalo assieme ai centristi di Unicost che invece sono rimasti in giunta con la corrente di sinistra, Area, e la rampante Autonomia e indipendenza di Piercamillo Davigo. Ieri intanto a maggioranza relativa e con la fiducia il senato ha approvato il decreto intercettazioni, senza il voto di Matteo Renzi ma con quello di quasi tutti gli altri rappresentanti di Italia viva. La camera dovrà fare gli straordinari, a partire da domenica, visto che il decreto scade il 29 febbraio. “Votare questa fiducia al governo significa votare la fiducia al ministro della giustizia”, ha detto il senatore Pietro Grasso di Leu rivolto a Renzi. “Niente affatto, aspetti e vedrà com’è fatta una mozione di sfiducia”, ha risposto l’ex presidente del Consiglio, che però ha spostato molto avanti - a Pasqua - il suo ultimatum sulla prescrizione. Prescrizione che continua a dividerlo da 5 Stelle, Pd e Leu tanto che ieri Italia viva ha votato in materia alcuni ordini del giorno con il centrodestra. È avvenuto alla camera (sul decreto milleproroghe) dove l’opposizione continua a protestare per il modo in cui in commissione a stretta maggioranza è stata salvata la riforma Bonafede. Con una lettera al presidente Roberto Fico ieri ha chiesto di ripetere il voto. Intercettazioni, ok con la fiducia ma pesa il “non voto” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2020 Un non voto che, in termini di comunicazione politica, pesa quasi più del voto. E che rischia di oscurare misure non banali su uno degli strumenti chiave delle indagini penali, le intercettazioni. Il non voto è quello di Matteo Renzi che non ha così partecipato alla fiducia grazie alla quale è stato approvato al Senato il decreto legge che modifica la disciplina Orlando delle intercettazioni. Era in congedo secondo ufficialità; sta di fatto che l’altro neosenatore di Italia viva a non avere partecipato alla votazione è Tommaso Cerno, appena uscito dal Pd non proprio in maniera tranquilla. In ogni caso il provvedimento ora passa alla Camera per un voto finale che dovrà essere assai rapido, visto che la conversione è possibile solo entro la fine del mese. Nel merito, il maxiemendamento del Governo nel quale è stato recepito il lavoro fatto dalla maggioranza in Commissione, introduce modifiche significative alla versione approvata a fine anno dal Consiglio dei ministri. Innanzitutto si prevede uno slittamento dell’entrata in vigore della riforma, come chiesto la scorsa settimana dal Consiglio superiore della magistratura. A disposizione per l’adeguamento organizzativo degli uffici, soprattutto delle procure, ci saranno due mesi in più, solo fino a fine aprile. Con debutto delle novità a partire dal primo maggio. Nel merito poi, il cambiamento più significativo riguarda la riscrittura del Codice di procedura penale, nella parte che disciplina l’estensione dell’utilizzo dei risultati delle intercettazioni a reati diversi da quelli per le quali vennero autorizzate. Ora sarà possibile, anche per effetto di una recente sentenza delle sezioni unite penali della Cassazione, un impiego allargato a condizione che le intercettazioni siano rilevanti e indispensabili, non più solo indispensabili, ma potranno servire per scoprire non più unicamente reati per i quali è possibile l’arresto in flagranza ma tutti quelli che possono essere oggetto di intercettazione e cioè quelli sanzionati con più di 5 anni di carcere. In generale il decreto, nel tentativo di conciliare esigenze investigative e tutela della privacy, interviene sui meccanismi di trascrizione delle intercettazioni, non affidando più però, come invece prevedeva la riforma Orlando, il meccanismo di selezione del materiale irrilevante alla polizia giudiziaria, ma rafforzando il dovere di vigilanza del pubblico ministero. A lui toccherà intervenire perché in sede di verbalizzazione non vengano trascritte espressioni pericolose per la riservatezza altrui. Tutto il materiale comunque finirà nell’archivio digitale, ripristinando il procedimento di stralcio, ma assicurando comunque accesso tracciato alla difesa. Esteso poi l’utilizzo dei trojan anche ai reati contro la pubblica amministrazione e disciplinato l’uso in altri procedimenti, possibile ma solo per scoprire reati che permettono l’arresto in flagranza. Se il voto del Senato fa segnare un punto anche al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, una nota dolente invece arriva dall’Anm, che fa sapere di volere disertare i prossimi tavoli di confronto sulle riforme, in aperta polemica con la previsione di sanzioni disciplinari per i giudici che sfornano i tempi predeterminati di durata del processo penale. Intercettazioni, grazie alle nuove regole vivremo tutti in un Grande Fratello di Deborah Bergamini Il Riformista, 21 febbraio 2020 Ray Donovan è una serie cult di Netflix il cui protagonista è un elegante faccendiere di origine irlandese che sistema i casini di star, atleti, produttori e vip vari nella Los Angeles patinata e corrotta degna della migliore tradizione, con profluvio di omicidi, ricatti e intimidazioni. Nel sistemare i casini altrui a volte deve usare la violenza, anche estrema. Impiega con dimestichezza armi, pugni, automobili di lusso e telefoni. Ecco, i telefoni. Le conversazioni telefoniche che Donovan intrattiene con sodali e clienti sono di questo tenore: “Quell’idiota di Matt si è fatto prendere la mano e gli ha sparato”. Oppure: “Sei un bastardo, va bene, passa dal mio ufficio e fatti dare i soldi dalla mia segretaria”, o ancora: “Mickey, vai alla stanza 341 dell’Hilton. Quel cretino di Steve è pieno di droga con una prostituta morta nel letto. Bisogna ripulire tutto”. Fiction, certo. Tanta. Ma per un italiano che la guarda, quelle conversazioni non possono che risultare esotiche. Mai e poi mai qualcuno parlerebbe così al telefono a Milano o Roma, neanche in una fiction. Il telefono da anni in Italia ormai è come la Kriptonite per Superman: la somma debolezza. Si dicono poche cose al telefono in Italia, e se proprio si deve pronunciare qualcosa di rilevante si usano tali e tante circonvoluzioni da risultare sospetti oppure comici. Perché tutto questo? Perché noi italiani sappiamo che intercettare le nostre conversazioni è facile, facilissimo. Tutti ci sentiamo potenzialmente ascoltati e la cosa grave è che per ciascuno di noi è diventato uno stato normale. Ed è anche diventato normale che se abbiamo ruoli rilevanti o cognomi illustri le nostre conversazioni le possiamo ritrovarle pubblicate su questo o quel giornale, spesso selezionate con accorti taglia e cuci per fare notizia e per dimostrare tesi, col risultato di distorcerne il significato e rovinare per sempre non solo la nostra privacy ma anche la nostra reputazione. Non perché abbiamo commesso un reato, quello è secondario. Ma perché per tutta la vita resteremo immortalati in quel modo, pronunciatori di frasi manipolate che squarciano la nostra riservatezza e ci consegnano ad un’immagine che non corrisponde alla realtà. Criminalizzati a prescindere. In Italia l’uso e la pubblicazione indiscriminati delle intercettazioni sono diventati una vomitevole barbarie, a cui ci siamo sottomessi. E da ora in avanti andrà anche peggio. Il decreto in esame in questi giorni al Senato che ne rivede la prassi ne consentirà un uso ancora più sfrenato e manipolatorio. La mediazione al ribasso che le forze politiche di maggioranza hanno messo in campo ridurrà ulteriormente la riservatezza di ciascuno di noi e lederà in modo ancora più grave un diritto costituzionalmente protetto (dall’articolo 15), quello della segretezza delle nostre comunicazioni. Con questo decreto saremo consegnati davvero ad un regime da Grande Fratello dove tutti potranno intercettare tutti. Se prima si poteva spiare, ma occorreva una legittimazione pesante per farlo, adesso si potrà semplicemente spiare. E ai pm verrà dato ulteriore margine di manovra per spiare meglio. Ma non basta: l’utilizzo del famigerato Trojan trasformerà i 104 milioni di sim presenti in Italia in altrettanti potenziali microfoni che registreranno le nostre conversazioni, la nostra vita. Una situazione intollerabile, che fa strame di ogni diritto al proprio privato. Intercettare un presunto colpevole, un sospettato al di là di ogni ragionevole dubbio, è certo doveroso, se utile alle indagini. Trasformare 60 milioni di italiani in microfoni a caccia di presunti colpevoli è vergognoso. È un altro disonorevole capitolo della politica giustizialista di questo governo, privo di ogni ritegno nel procedere spedito verso uno Stato che non governa cittadini, ma potenziali criminali. Un altro capitolo, dopo quello che abolisce la prescrizione, che conferisce ai pm poteri abnormi sulla nostra vita e sulle nostre libertà. In altri stati civili, anche nell’America di Ray Donovan, non si gioca con le garanzie costituzionali. Da noi invece sì. Perché quando si sceglie di perseguire una persona, anziché un reato, il fine giustifica i mezzi. Tutti i mezzi. È un tempo cupo per i diritti, finirà quando l’Italia pagherà i danni per i processi infiniti di Bartolomeo Romano* Il Dubbio, 21 febbraio 2020 Dalla prescrizione alle idee di alcuni pm, cresce la spinta autoritaria. Viviamo tempi bui, nei quali princìpi di civiltà giuridica, faticosamente costruiti e difesi nei decenni e persino nei secoli passati, sembrano vacillare per effetto di attacchi, sempre più duri e decisi, che rischiano di colpire il cuore delle nostre libertà e della nostra democrazia. La cartina di tornasole del dibattito tra garantisti e giustizialisti sembra essere rappresentata dalla riforma della prescrizione, tenacemente voluta dal ministro Bonafede, che di fatto elimina la prescrizione dopo una decisione di primo grado. Una previsione che trasformerà l’imputato in eterno giudicabile, con la conseguenza che si darà vita all’ergastolo processuale. E che pregiudicherà le stesse persone offese, le quali hanno il diritto di ottenere giustizia in tempi certi. Il tutto in spregio agli articoli 27 (principio di non colpevolezza) e 111 (principio della ragionevole durata dei processi) della Costituzione e all’articolo 6 della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo (che stabilisce la ragionevole durata dei processi e definisce la persona accusata “presunta innocente”). Spero, dunque, che si fermi questa barbarie, che rischia di pregiudicare le stesse libertà civili e politiche dei cittadini, eliminando la riforma Bonafede (proposta Costa) o, almeno, spostandone l’efficacia di un anno (come nel lodo Annibali, però respinto in commissione). Le altre ipotesi attualmente sul campo, come il lodo Conte- bis, non più nel “milleproroghe” ma nel ddl delega sul processo penale, approvato in Consiglio dei ministri, il 14 febbraio, sembrano del tutto inappropriate, come del resto l’intero disegno di legge. Appunto: la mia preoccupazione è più profonda e ampia di quella, già serissima, legata alla prescrizione. Anzi, temo che il dibattito sulla prescrizione sia utilizzato come un pericoloso e subdolo cavallo di Troia per scardinare il sistema di garanzie e lo stesso Stato di diritto. Nella corsa al populismo mediatico- giudiziario, ho avvertito - e credo di non essere il solo - un continuo alzare i toni, con proposte sempre più estreme, che hanno richiamato alla mente la storia della Rivoluzione francese, nella quale i puri sono stati superati dai più puri, con conseguenze tragiche. Così, con stupore e imbarazzo prima, e (confesso) con timore e preoccupazione poi, ho ascoltato le affermazioni di Piercamillo Davigo e Nicola Gratteri, non solo in materia di prescrizione, ma - in senso più ampio - di giustizia penale. Le opinioni dei due alti magistrati sono note e esigenze di sintesi impongono di non discuterle nel merito. Basti richiamarle a grandi linee. Per Davigo: occorre eliminare il divieto di reformatio in peius; rendere responsabile in solido l’avvocato (che dovrebbe depositare fino a 6mila euro!) in caso di inammissibilità del ricorso; consentire cambi di giudice senza rinnovare gli atti; rivedere il gratuito patrocinio. Per Gratteri: occorrerebbe generalizzare il processo a distanza per tutte le vicende penali; bisognerebbe creare campi di lavoro gratuiti per i detenuti come terapia e rieducazione; il carcere di Bollate, la casa di reclusione aperta nel 2000 nell’hinterland milanese, sarebbe un mero spot. Ma, ad altri, le proposte sopra richiamate devono essere sembrate moderate: così, Giancarlo Caselli ha suggerito, addirittura, di eliminare del tutto l’appello. Pericolo concreto, se il prossimo 21 e 22 febbraio, a Brescia, l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei Penalisti Italiani sarà proprio su “l’appello irrinunciabile. In difesa del doppio grado di giudizio”. Inoltre, certa stampa accoglie e rilancia tutte tali tesi: sul presupposto che, se una persona è sottoposta a processo, è, quasi certamente, colpevole; e, del resto, lo stesso ministro della Giustizia in carica ha affermato che in carcere gli innocenti non vanno... A ciò si aggiunga che, per alcuni editorialisti, chi la pensa diversamente è fannullone, ladro, corrotto e, comunque, in cattiva fede o agisce per biechi interessi personali. Non si criticano (eventualmente) le idee, ma si attaccano direttamente le persone che hanno opinioni diverse. Viviamo tempi bui, non solo per il contenuto di molte delle idee che circolano, tipiche dell’inquisizione o di Stati autoritari, ma anche per il modo di affermarle. E questo dovrebbe preoccupare tutti, comunque la si pensi. Credo però che, se continuiamo così, una seria riforma della giustizia non la farà un guardasigilli ma un ministro dell’Economia, perché dovremo - tutti noi - risarcire (anzi, indennizzare) chi ha subito processi troppo lunghi (che la eliminazione della prescrizione diluirà ancora) e ingiuste detenzioni. E, forse, allora, la nostra civiltà giuridica sarà più salda, evoluta e moderna. *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo Vecchio, malato e ancora al carcere duro: a chi fa paura Cutolo? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 febbraio 2020 Raffaele Cutolo è stato ricoverato urgentemente, mercoledì sera, nel reparto detentivo per i reclusi al 41bis dell’ospedale di Parma. Il garante del comune di Parma dei diritti dei detenuti Roberto Cavalieri - raggiunto da Il Dubbio - ha spiegato che, su sollecitazione dei familiari, è andato a far visita all’ex boss. L’ha fatto sia per verificare le sue condizioni e sia per chiedere all’amministrazione penitenziaria di anticipare i colloqui con i familiari che erano già fissati per sabato, come prevede il regolamento per chi è recluso nel carcere duro. Come anticipato da Il Dubbio nella versione on line, il fondatore della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo è stato ricoverato urgentemente, mercoledì sera, nel reparto detentivo per i reclusi al 41bis dell’ospedale di Parma. Il garante del comune di Parma dei diritti dei detenuti Roberto Cavalieri - raggiunto da Il Dubbio -, ha spiegato che, su sollecitazione dei familiari, è andato a far visita all’ex boss. L’ha fatto sia per verificare le sue condizioni e sia per chiedere all’amministrazione penitenziaria di anticipare i colloqui con i familiari che erano già fissati per sabato, come prevede il regolamento per chi è recluso nel carcere duro. Quella di Raffaele Cutolo è stata l’ennesima crisi respiratoria, già verificatasi nel recente passato, ma nel frattempo le sue condizioni fisiche si sono aggravate a causa della lunga detenzione. Ha quasi 80 anni, detenuto da 57 anni, e fin dagli anni 90 è sepolto vivo ininterrottamente al 41bis. Assume 14 pillole al giorno, ha problemi di diabete, quasi cieco e, come se non bastasse, è affetto da una seria prostatite e l’artrite non gli dà quasi più la possibilità di muove le mani. Lo scorso settembre, anche in seguito alla sentenza della Corte costituzionale in merito ai reati ostativi che vietano - in assenza di collaborazione della giustizia - i benefici penitenziari, il legale ha impugnato il regime di 41bis ed è in attesa che il Tribunale di Sorveglianza di Roma fissi una udienza. Ha senso tenere recluso in regime duro una persona anziana che, di fatto, non ha più nessun legame con l’organizzazione criminale da lui fondata e disciolta da tempo immemore? Raffaele Cutolo nasce nel 1941 a pochi passi dal Castello mediceo di Ottaviano, da genitori contadini. A soli 22 anni commette il suo primo omicidio per una questione d’onore. Dopo tre anni entra in carcere. Qui, con brevi periodi di latitanza, passerà l’intera sua vita, e da qui inizierà a lavorare al suo progetto criminale. Cutolo, all’interno del carcere napoletano di Poggioreale, formò un’associazione criminale sul modello di quella calabrese e siciliana, con una precisa data di fondazione: il 24 ottobre del 1970. I simboli, i rituali, le cerimonie erano fondamentali per ricostruire la “vera camorra”, ovvero una organizzazione che, secondo Cutolo, si sarebbe dovuta presentare come non individualistica, ma come una grande famiglia, rispettata e temuta, capace di aiutare e mantenere tutti i suoi affiliati, che, da fatto individuale, si trasformasse in una temuta macchina criminale. “La camorra- organizzazione venne formalmente ricostruita, ad oltre 70 anni dalla sua decretata fine. Era anche la camorra- massa: disoccupati, giovani sottoproletari, detenuti, in carcere per piccole rapine o furti isolati, pronti a fare il salto di qualità nel crimine organizzato. La Nuova camorra organizzata (Nco) di Cutolo rappresentò il loro senso di identità sociale”, scrive Gigi Di Fiore nel suo libro “La camorra e le sue storie. La criminalità organizzata a Napoli dalle origini alle ultime guerre”. Le vecchie famiglie reagirono e si riunirono sotto il nome di Nuova Famiglia (Nf). Lo scontro tra le due organizzazioni criminali fu spietata, i morti erano centinaia, e si concluse nei primi anni ottanta con la sconfitta della Nco. Anche la Nuova fmiglia smise di esistere. Nel 1992 ci prova il boss Carmine Alfieri a dare alla malavita organizzata campana una struttura verticistica creando la Nuova mafia campana (Nmc) anch’essa scomparsa dopo poco tempo. Attualmente la camorra si presenta come un’organizzazione di tipo orizzontale, (con varie bande territoriali più o meno in lotta tra loro) non verticistico. Il suo potere le consente il controllo delle più rilevanti attività economiche locali, in particolare modo nella provincia di Napoli. Raffaele Cutolo avrebbe anche avuto un ruolo importante per la liberazione di Ciro Cirillo, assessore regionale democristiano rapito nel 1981 da un comando di cinque appartenenti alle Brigate rosse nel garage della sua abitazione in Via Cimaglia, a Torre del Greco, in provincia di Napoli. Una storia ancora non chiarita del tutto. Durante il sequestro, il commando delle Br apre il fuoco, uccidendo il maresciallo della Polizia Luigi Carbone e l’autista Mario Cancello, che fanno parte della scorta di Cirillo, mentre il suo assistente, Ciro Fiorillo, viene invece gambizzato. La politica e i servizi segreti - a differenza di quando avvennecon il rapimento di Aldo Moro - avrebbero intavolato subito una trattativa, a cui avrebbe dunque partecipato anche la Nuova camorra organizzata di Cutolo, per liberare l’assessore della Democrazia cristiana. Dopo il pagamento di un riscatto di un miliardo e 450 milioni di lire, dopo 89 giorni di prigionia, il 24 luglio del 1981 Cirillo viene liberato in un palazzo in abbandono in via Stadera, a Napoli. C’è un verbale di un interrogatorio di Cutolo reso nel 2016. “Aiutai - ha spiegato l’ex boss - l’assessore Cirillo, potevo fare lo stesso con lo statista. Ma i politici mi dissero di non intromettermi”. Nel ‘ 78 Cutolo era latitante e si sarebbe fatto avanti per cercare, ha sostenuto lui, di salvare Moro. “Per Ciro Cirillo si mossero tutti, per Aldo Moro nessuno, per lui i politici mi dissero di fermarmi, che a loro Moro non interessava”, ha detto durante l’interrogatorio. Cutolo fu recluso anche al carcere speciale dell’Asinara nel 1982. Fu mandato lì su sollecitazione del presidente della Repubblica Sandro Pertini per porre fine a quello che allora veniva definito “il soggiorno” del boss nel penitenziario di Ascoli Piceno, dove si dice potesse contare su una camera elegantemente arredata, un segretario e un tuttofare. Un anno più tardi, si sposò all’Asinara - riaperto soprattutto per contenere i brigatisti rossi - che ha segnato duramente la sua esistenza: arrivò infatti da boss temuto e rispettato, se ne andò dall’Asinara poeta, dopo aver scritto il suo primo libro di poesie. Parliamo del maggio 1893 quando Cutolo, detenuto nel Bunker della diramazione centrale del carcere dell’isolotto sardo (quello dove poi fu recluso Totò Riina), convola a nozze con una giovane donna di Ottaviano conosciuta quando era già detenuto. Lei è Immacolata Iacone e rimarrà per sempre affianco a lui. Grazie all’inseminazione artificiale, autorizzata dalla magistratura di sorveglianza, dodici anni fa hanno avuto una figlia, Denyse. Per il 41bis, a 12 anni, ora è maggiorenne e non può più abbracciare il padre, ma salutarlo tramite un vetro divisorio. Ma davvero una ragazzina di 12 anni è adulta? Davvero può rinunciare senza traumi all’idea di toccare un genitore in carcere e tenergli la mano, anche se quel genitore si chiama ‘ O Prufessorè e a suo tempo muoveva eserciti di guappi armati e dava ordini a gente che mangiava il cuore dei nemici? Ma questa è un’altra vicenda che riguardano tutte quelle misure afflittive contemplate dal 41bis e che sono tuttora argomento di discussione. Resta il dato oggettivo che “Don Raffaè”, reso famoso da Fabrizio De Andrè in una canzone a lui dedicata, e da Giuseppe Tornatore nel film “Il camorrista”, interpretato da Ben Gazzara e ispirato al libro di Joe Marrazzo, ora è vecchio, malato e attualmente ricoverato in ospedale. Ha senso il 41bis visto che lo scopo originario era finalizzato esclusivamente ad evitare che un boss mandi messaggi al proprio gruppo di appartenenza criminale? Il nodo della notifica all’imputato: parola alle Sezioni Unite di Andrea Migliavacca secoloditalia.it, 21 febbraio 2020 La Suprema Corte di Cassazione deve esprimersi, nella sua più autorevole composizione (le Sezioni Unite), sul tema delle “notifiche all’imputato detenuto”. L’udienza è fissata per il prossimo 27 febbraio. Come e dove va notificato l’atto che introduce il processo penale - La questione giuridica è alquanto delicata e presuppone una particolare sensibilità da parte degli operatori del diritto. Potrebbe risultare scarsamente interessante ai più, ma, ove fosse accolta la tesi di quel difensore che ha sollecitato la composizione del contrasto giurisprudenziale, impatterebbe negativamente su un numero imprecisato di processi pendenti. Il tema, dunque, riguarda la modalità attraverso la quale (ovvero il luogo dove) vada notificato l’atto che introduce il processo penale. Quando l’imputato risulti detenuto (art. 156 cpp), anche per altra causa. Ed abbia dichiarato od eletto domicilio presso il proprio difensore. Il contrasto si rinviene proprio nelle decisioni della stessa Cassazione, la quale in un caso ha ritenuto la nullità della notifica in luogo diverso da quello di detenzione. Nell’altro, più recente, ha ritenuto, invece, la validità della notifica al difensore presso il domicilio dichiarato od eletto. La nullità della notifica travolgerebbe l’intero processo - Se dovesse prevalere la prima tesi, la nullità della notifica travolgerebbe l’intero processo. Vanificando tutte le attività sino ad allora svolte. Non si contano le questioni sollevate proprio sul tema della notifica degli atti (in questo caso penali) e ancora oggi la loro validità condiziona l’esito dei processi. Gli avvocati penalisti attendono trepidanti, assieme ai loro assistiti, questa delicata pronuncia. La quale potrebbe avere un impatto negativo, oltre sulla collettività (per i costi inutilmente affrontati) anche sulle bistrattate parti offese. Parti processuali spesso ignorate dal legislatore, spinto a reagire con decisione, per sanzionare la condotta antigiuridica del reo. Ma distratto rispetto agli obblighi riparatori a favore delle vittime. Se lo spirito di riforma del processo penale è lo stesso che ha animato la promulgazione della legge “spazzacorrotti”, con l’istituto dell’interruzione della prescrizione, sarebbe meglio lasciare le cose come stanno. In attesa di un legislatore più illuminato. Patente di guida, la libertà vigilata non obbliga il prefetto alla revoca di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2020 Corte costituzionale - Sentenza n. 24/2020. No alla revoca automatica della patente di guida, da parte del prefetto, nei confronti di chi è sottoposto ad una misura di sicurezza. Tanto più che l’ordinamento prevede invece che il magistrato di sorveglianza possa comunque autorizzare il soggetto alla guida. La Corte costituzionale, sentenza n. 24 di ieri, ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 120, comma 2, del “Nuovo codice della strada” (Dlgs 285/1992) “nella parte in cui dispone che il prefetto “provvede” - invece che “può provvedere” - alla revoca della patente di guida nei confronti di coloro che sono sottoposti a misura di sicurezza personale”. La questione è stata sollevata dal Tar Marche e dal Tribunale di Lecco. La Consulta ricorda che il comma 2 era già stato dichiarato illegittimo (sentenza n. 22 del 2018) nella parte in cui disponeva la revoca obbligatoria, e non facoltativa, sempre da parte del Prefetto, a seguito della condanna per reati in materia di stupefacenti. Già in quel caso infatti i giudici avevano rilevato che la norma ricollegava il medesimo effetto “ad una varietà di fattispecie, non sussumibili in termini di omogeneità”, e contrastava con i differenti poteri del giudice. Tornando al caso specifico, il Collegio osserva che anche con riguardo alla revoca prefettizia nel caso di misure di sicurezza, si mettono insieme fattispecie eterogenee “in quanto connotate dalla pericolosità, più o meno grave, del soggetto e dalla varietà e diversa durata delle misure di sicurezza personali: misure che, ove non detentive (come la libertà vigilata), sono pur tutte compatibili con la possibilità di utilizzare il titolo di abilitazione alla guida”. L’irrogazione delle misure di sicurezza, prosegue la decisione, è infatti “essenzialmente “individualizzata” - quanto al tipo di misura da applicare, alla durata da computare e alle prescrizioni da osservare - in funzione della specificità delle situazioni soggettive”. Ed è proprio a tal fine che l’autorità giudiziaria “esercita un potere connotato da elementi di discrezionalità”. In particolare, con riferimento alla libertà vigilata, il codice penale prevede che “la sorveglianza deve essere esercitata in modo da agevolare, mediante il lavoro, il riadattamento della persona alla vita sociale”; mentre il codice di procedura penale che “la vigilanza è esercitata in modo da non rendere difficoltosa alla persona che vi è sottoposta la ricerca di un lavoro e da consentirle di attendervi con la necessaria tranquillità”. Una tale finalità dunque “innegabilmente rischia di rimanere frustrata dall’applicazione “automatica” della revoca della patente di guida da parte del prefetto”, per il solo fatto della irrogazione di una misura di sicurezza personale, “senza una valutazione “caso per caso” delle condizioni che rendano coerente, o meno, la revoca del titolo abilitativo alla funzione rieducativa della misura irrogata”. La Corte infine sottolinea la contraddizione, che l’ordinamento “irragionevolmente” consente, tra le misure adottabili dal magistrato di sorveglianza - il quale, come detto, nel disporre la misura di sicurezza, “può” consentire di continuare a fare uso della patente di guida - e dal prefetto, il quale, viceversa, sulla base della norma ora censurata, doveva, comunque, revocarla. Da qui, la violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza, che comportano il contrasto dell’articolo 120, comma 2, del codice della strada con l’articolo 3 della Costituzione e la conseguente sua declaratoria di illegittimità costituzionale. Toscana. Elezione del Garante dei detenuti: un ritardo incomprensibile e intollerabile Ristretti Orizzonti, 21 febbraio 2020 Franco Corleone, ex Garante dei detenuti della Regione Toscana lancia l’allarme di un vuoto pericoloso. Il 26 ottobre il suo mandato di sei anni è scaduto, l’attività è proseguita per tre mesi in un periodo previsto dalla legge di proroga. Questo periodo è stato utilizzato per continuare un’attività intensa presentando ricerche e proposte su temi scottanti come le droghe, le misure di sicurezza e l’imputabilità e con visite agli istituti, monitorando situazioni di crisi che si sono presentate. Una nota positiva è stata l’approvazione in Consiglio regionale della proposta di legge per il Parlamento elaborata dall’ufficio del Garante sul diritto all’affettività e alla sessualità in carcere. Purtroppo il Consiglio regionale non ha utilizzato questo tempo né per esaminare le proposte di modifica della normativa al fine di rafforzare autonomia e indipendenza della figura, né per accogliere l’invito delle associazioni di volontariato e dei movimenti che si occupano di giustizia in carcere per audizioni dei candidati e delle stesse associazioni allo scopo di rendere trasparente la scelta del Garante. Vi sono stati già due rinvii della Commissione affari istituzionali, ora il tempo delle decisioni è scaduto. Su questi temi Franco Corleone terrà una conferenza stampa martedì 25 febbraio alle ore 11:00 presso la sede de La Società della Ragione, Palazzina 35, San Salvi. Nell’occasione sarà illustrata l’agenda delle urgenze per superare una grave impasse, per rendere efficace la richiesta di adempiere a un dovere istituzionale preciso e saranno definite iniziative di mobilitazione e azioni di disobbedienza civile. Pavia. I medici sono pochi e le celle sovraffollate, è emergenza carceri di Oliviero Maggi La Provincia Pavese, 21 febbraio 2020 “Personale sanitario insufficiente nelle carceri pavesi”. A lanciare l’allarme è la Fp-Cgil di Pavia, che chiede all’Asst di avviare un piano di assunzioni finalizzato a garantire il diritto alla salute dei detenuti. Ad aggravare la situazione, secondo il sindacato, è anche il sovraffollamento delle carceri, che, nei tre istituti pavesi, Pavia, Vigevano e Voghera, si attesta attorno al 137%. Una delegazione dell’Uspp (Unione sindacati polizia penitenziaria) ha fatto visita al carcere di Pavia, per verificare le condizioni di lavoro del personale di polizia penitenziaria. “Abbiamo trovato un istituto gravemente invecchiato in cui, alcuni degli ambienti visitati potrebbero essere dichiarati inagibili”, ha spiegato il segretario regionale Gian Luigi Madonia. Pur essendo molto diverse come tipologia di detenuti, le carceri di Pavia, Vigevano e Voghera, hanno le stesse problematiche di gestione sanitaria. Critica è la situazione al carcere di “Torre del Gallo” di Pavia: a fronte di una capienza di 518 detenuti ne accoglie 711, per la metà stranieri; inoltre ospita l’unica sezione lombarda dell’Articolazione per la tutela della salute mentale, che avrebbe bisogno di più personale specializzato. La casa circondariale di Vigevano, invece, ospita 373 detenuti (86 donne e 287 uomini) a fronte di una capienza di 242; a Voghera, infine, ci sono 421 detenuti invece dei 242 previsti. “Immaginiamo, in questo contesto, il carico di lavoro degli operatori sanitari, che sarebbero già insufficienti rispettando la capienza regolamentare degli istituti - sostiene Patrizia Sturini, segretaria della Fp Cgil Pavia -. Ad aggravare il tutto adesso è anche la carenza di medici, anche psichiatri”. Secondo il sindacato mediamente un medico presente in uno degli istituti pavesi effettua circa 70 visite giornaliere, oltre a controlli, dimissioni e urgenze; uno psicologo effettua in media 10 colloqui. Rovigo. Il Sindaco chiede un incontro ministro Bonafede per lo stop al carcere minorile di Roberta Merlin Il Gazzettino, 21 febbraio 2020 “Abbiamo chiesto un incontro con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Andrò a Roma per chiedergli personalmente lo stop al carcere minorile in via Verdi e l’ampliamento del Tribunale”. Il sindaco Edoardo Gaffeo non ha ancora perso le speranze sul fronte dell’ipotesi di fermare l’arrivo dei detenuti minorenni negli spazi dell’ex penitenziario, in procinto di essere riqualificato dallo stesso ministero che in via Verdi ha deciso di investire circa 10 milioni. Il progetto esecutivo per la realizzazione della maxi struttura destinata ad accogliere i detenuti in arrivo da Treviso, come ha spiegato l’altro giorno il presidente del Tribunale Angelo Risi, è già in fase avanzata e tra pochi mesi dovrebbe partire il cantiere. Ora, però, il sindaco ha in mano la mozione del consiglio comunale, votata all’unanimità martedì, che esprime la chiara volontà amministrativa e politica di mantenere il Tribunale in via Verdi facendo spazio all’ampliamento degli uffici nell’area dell’ex carcere. Se il tentativo di salvare il Tribunale nel cuore del centro storico non andrà a buon fine, l’amministrazione sta lavorando contemporaneamente a un nuovo piano B, questa volta individuato nell’ex caserma Silvestri. L’ipotesi dell’ex Maddalena, dopo le proteste dei commercianti del centro, è stata accantonata. “Ho scritto al Demanio per chiedere lo stato di avanzamento dei lavori relativamente agli Archivi di Stato e Notarile negli spazi dell’ex caserma Silvestri ha sottolineato Gaffeo - anche se ho recuperato della documentazione risalente al 2014 in cui il Demanio respinge una richiesta di acquisizione dell’area avanzata dal Comune di Rovigo. Per il Tribunale, però, servono circa 15mila metri quadri e la parte retrostante all’edificio di via Gattinara è coperto da un vincolo archeologico in quanto Giardini napoleonici. Le probabilità, dunque, che ci possa stare il Palazzo di Giustizia solo limitate da tutti questi vincoli. Senza contare i problemi relativi alla viabilità dell’area che la rende non facilmente accessibile”. La priorità in questo momento, ribadisce il primo cittadino, “è fermare il Minorile in via Verdi, una struttura non adatta alla città e oltretutto difficilmente raggiungibile dalle famiglie dei giovani detenuti, in quanto Rovigo non si trova proprio al centro del Veneto”. Il sindaco, nel caso ci fosse la disponibilità del ministro Bonafede a fermare l’appalto del Minorile, tenterà, se necessario, anche di offrire una struttura alternativa per la realizzazione del nuovo carcere. “Potrebbe trovare posto nell’ex ospedale psichiatrico di Granzette. Non vedo altre strutture in città adatte a un carcere minorile di tale portata come quello che il ministero ha intenzione di realizzare in via Verdi, destinato a ospitare una trentina di ragazzi provenienti da tutta la regione. Nel caso di una risposta negativa del Ministero per entrambe le soluzioni, mi preme sottolineare che la colpa non sarà attribuibile a questa amministrazione, ma all’inerzia di quella che ci ha preceduti”.I Comuni detengono il diritto di prelazione sui beni demaniali, ma nel caso non ci sia un manifestazione di interesse delle relative amministrazioni, il Demanio, scaduti i termini, procede con la vendita o destinazione dell’immobile in questione. Proprio come accaduto, nel 2016, con l’ex carcere di via Verdi. L’ultima speranza, dunque, di assicurare la presenza del Tribunale in centro storico, è in un dietrofront del ministro pentastellato Bonafede sul Minorile, magari facilitato anche dal ministro delle Autonomie Francesco Boccia (Pd) che a Rovigo, qualche giorno fa, ha raccolto sul tema le istanze degli amministratori. Il progetto di ampliamento in via Verdi proposto dall’Ordine degli avvocati, però, non va bene, ha precisato Gaffeo: “Il progettista non ha preso in considerazione aspetti fondamentali come la viabilità e le relative problematiche relative all’intensificarsi del traffico che dovranno rispondere anche alle esigenze di sicurezza del Tribunale. È tutto da rifare. Faremo un’assegnazione tramite un bando anche per quanto riguarda la progettazione”. Asti. Il Sindaco: “Non vogliamo un secondo carcere a Quarto” La Stampa, 21 febbraio 2020 È passato un mese da quando Maurizio Rasero, sindaco di Asti, leggendo il dossier sulle problematiche delle carceri piemontesi, presentato da Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti, è venuto a sapere per caso che a Quarto sarebbe stato costruito un secondo carcere. Nessuno lo ha mai comunicato all’Amministrazione comunale. Da qui il coinvolgimento dei parlamentari piemontesi per cercare di capire e l’interrogazione dell’onorevole Andrea Giaccone al ministro della Giustizia. “Mentre aspettiamo la risposta del ministro e la convocazione al Dipartimento della Polizia penitenziaria di Roma, chiesta da noi per avere chiarezza, mi sono confrontata con i garanti dei detenuti. Abbiamo così saputo che a Quarto sono iniziati i sopralluoghi dei tecnici”, dice l’assessore ai Servizi sociali Mariangela Cotto. Il sindaco è furente: “Una decisione calata dall’alto e senza alcuna condivisione o informazione. C’è una assenza totale di correttezza. Sono assolutamente contrario a un secondo carcere, voglio che sia ben chiaro. Questo per le ricadute negative sulla frazione e sulla città intera. Dietro a un detenuto c’è una famiglia e ci sono dei problemi che ricadranno sui servizi sociali e su tutti. Non è vero che il secondo carcere si fa perché il primo ad alta sicurezza è troppo affollato. Il secondo è destinato a detenuti con fine pena (comuni). Farò di tutto per ostacolare questo progetto”. Preoccupazioni condivise dall’assessore Mariangela Cotto: “Ci auguriamo un ripensamento, non è ipotizzabile che a Quarto possano arrivare ad esserci circa 500 detenuti. Ci sono paesi nell’Astigiano con molti meno abitanti. Non è una questione di chiusura, ma di sicurezza e equilibrio, tenuto conto della cascata di problemi che si riverserebbero sul territorio”. Interviiene anche Andrea Giaccone, deputato della Lega: “Un simile progetto dovrebbe coinvolgere il Comune e l’Asl, in considerazione delle inevitabili ricadute sui servizi sociali locali e una collocazione diversa dal carcere di Asti che è già una casa di reclusione ad alta sicurezza con una popolazione carceraria formata prevalentemente da detenuti con “fine pena mai” o condanne lunghissime. Inoltre gli organici della polizia Penitenziaria continuano ad essere sguarniti. Come si fa a pensare ad una seconda struttura? Ho fatto presente queste considerazioni al Ministro e aspetto una risposta scritta. Sul carcere di Asti è la terza interrogazione che presento”. Belluno. Esecuzione penale esterna, il Garante dei detenuti in Commissione Il Gazzettino, 21 febbraio 2020 È tornata in Terza Commissione consiliare di Palazzo Rosso la questione dell’apertura dell’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe). Una questione che aveva introdotto, lo scorso autunno, il Consigliere Raffaele Addamiano (Obiettivo Belluno) con un ordine del giorno. L’ufficio in questione si occupa - tra altre cose - di monitorare le attività degli uffici di esecuzione penale esterna e di tenere rapporti con gli enti locali e le organizzazioni di volontariato per l’attività trattamentale e per la stipula di convenzioni per lo svolgimento del lavoro di pubblica utilità ai fini della messa alla prova. Bene. Due giorni fa in Commissione è stato invitato il Garante dei detenuti, Emilio Guerra, che ha esposto la sua relazione annuale, ricordando come nella casa circondariale di Baldenich ci siano attualmente 88 detenuti, su 87 posti disponibili. Di questi 61 sono stranieri, con prevalenza albanesi e marocchini. Ma al di là dei dati, il dottor Guerra ha lanciato un appello ai consiglieri: “Muovetevi, ci ha detto, occorre forte sensibilizzazione per costituire un ufficio Uepe ha raccontato il consigliere Addamiano -. Il Garante ci ha fornito un altro dato: sono 787 casi in provincia smaltiti da quest’Ufficio lo scorso anno”. A fine novembre Addamiano aveva presentato un ordine del giorno in Comune che chiedeva di cercare di far istituire un Uepe a BL e non a Treviso sulla scorta della giustizia di prossimità, cioè vicina al cittadino. “Abbiamo lavorato di comune accordo ha ricordato il consigliere di Obiettivo Belluno - con l’onorevole Luca De Carlo che ha presentato al ministero Bonafede un’interrogazione, chiedendo si attivasse per ufficio Uepe in comune Belluno. In Commissione abbiamo interpellato l’assessore Lucia Pellegrini, chiedendo cosa ha fatto il Comune in questi mesi sottolinea Addamiano. Ci ha parlato della sede, ma il dato politico è che da novembre ad oggi il Comune nulla ha fatto per rapportarsi con il Ministro della Giustizia, è stato passivo”. E pensare che l’odg era stato approvato all’unanimità da 25 consiglieri. Torino. “Way out”, l’opuscolo della Caritas per chi esce dal carcere di Marina Lomunno vocetempo.it, 21 febbraio 2020 La Caritas Diocesana ha realizzato una guida ai servizi di base della città rivolta specificamente ai reclusi che, finita la pena, si lasciano alle spalle i cancelli della Casa circondariale torinese. Proviamo per un attimo a metterci nei panni di un detenuto o di una detenuta che, pagato il debito con la giustizia, torna in libertà, esce dai cancelli del carcere torinese “Lorusso e Cutugno” con il suo fagotto e, senza un euro in tasca non sa letteralmente dove sbattere la testa. Chi è torinese e ha parenti e amici in città in qualche modo trova una sistemazione. Ma chi è originario di un’altra città o regione o peggio è straniero e non ha mai messo piede a Torino a chi può chiedere aiuto? A questa domanda intende rispondere “Way out”, una guida ai servizi della città rivolta specificamente ai reclusi che, finita la pena, si lasciano alle spalle i cancelli della Casa circondariale torinese, riacquistano l’agognata libertà ma non hanno idea di dove andare a dormire, mangiare, ottenere i documenti necessari per ritornare ad essere un cittadino libero. “Way out”, in inglese “Uscita”, è un agile opuscolo di 40 pagine con tutte le informazioni di base, pensato dalla Caritas diocesana per accompagnare appunto l’uscita dei ristretti dalla galera. “Way out verrà distribuito nei prossimi giorni dai nostri volontari a chi esce dal carcere torinese” spiega Pierluigi Dovis, direttore della Caritas diocesana. “È una delle iniziative pensate in coprogettazione con il Comune di Torino per favorire l’inclusione sociale delle persone in povertà estrema: chi è più povero di un detenuto o di una detenuta che, dopo mesi, anni, nel peggiore dei casi decenni, deve tornare ad una vita normale ma ha perso le coordinate spazio-temporali? Chi esce dalla prigione e conosce Torino, dopo tanto tempo di assenza dalla vita sociale può aver smarrito l’orientamento in una città che è cambiata anche nei servizi, mentre per chi di Torino conosce solo il carcere il disorientamento è ancora più accentuato. Così i nostri volontari che frequentano il penitenziario hanno raccolto ‘dal basso’ la necessità dei detenuti a fine pena di capire come ritornare a vivere in libertà, come rientrare in città o anche solo passare qualche tempo prima di raggiungere il proprio Comune di origine”. La guida è un’altra tappa del percorso Caritas di accompagnamento al reinserimento dei detenuti nato da lontano e che si è intensificato a partire dal 2001 con la gestione di un alloggio (“Casa Silvana” in via delle Primule nel quartiere Vallette nelle vicinanze del carcere) a disposizione di parenti dei carcerati che vengono in città per incontrare i congiunti e non possono permettersi di soggiornare in albergo. “La Caritas da tempo è parte attiva nell’accompagnamento progettuale in uscita dei detenuti, recentemente è stato firmato un protocollo d’intesa con la direzione del carcere. La guida, che è pensata soprattutto per le persone senza dimora e che hanno bisogno di un salvagente per tornare a galla, risponde proprio all’esigenza di far sentire agli ex ristretti che la città non è ‘ostilè ma è pronta ad accogliere chi chiede di essere reintegrato come cittadino”. Sfogliamo “Way out” insieme a Wally Falchi, responsabile del Centro di Ascolto della Caritas diocesana “Le due tuniche” (a Torino in corso Mortara 46/c) dove molti ex detenuti si rivolgono appena fuori dal “Lorusso e Cutugno”. “La guida è suddivisa in 12 capitoli dove vengono forniti indirizzi orari e indicazioni di mezzi pubblici su tutti i dormitori, mense, servizi sanitari e dentistici, igiene della persona, lavoro, assistenza legale, vestiario, centri diurni, ostelli, centri di ascolto con i relativi riferimenti dei luoghi sulla mappa della città in modo che siano raggiungibili anche da chi non è pratico di Torino. Alcune indicazioni sono anche in inglese” precisa Wally Falchi. “Abbiamo introdotto la pubblicazione con un sintetico vademecum sugli uffici informativi del Comune che si occupano di persone senza dimora, del Garante dei diritti dei detenuti, dell’anagrafe. Ci sono poi informazioni sui servizi riservati ai cittadini stranieri (permesso di soggiorno, Informa stranieri, Ufficio pastorale migranti) e sulle modalità per scegliere il medico di base, per richiedere il reddito di cittadinanza e per gestire un eventuale conto corrente”. Insomma l’opuscolo contiene tutto ciò che serve per ritornare a vivere anche senza punti di riferimento e per “bussare alle porte giuste”. I detenuti che sono in uscita e a cui i volontari Caritas distribuiranno la guida sono segnalati alla Caritas dall’Ufficio della Garante dei detenuti del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo, che ha contribuito alla pubblicazione del libretto. “Con Way out” aggiunge Wally Falchi “distribuiamo ai reclusi in uscita anche un ‘kit’ di materiale di prima necessità: spesso chi esce dal carcere ha con sé solo una busta di nylon con pochi effetti personali: noi forniamo un borsone dignitoso, prodotti igienici come spazzolino e carta igienica, un telefono cellulare per mettersi in contatto con i famigliari o con i servizi indicati nella guida, i biglietti del bus a significare che tornare ad essere cittadini liberi corrisponde anche a pagare i mezzi pubblici… E poi, a chi ne fa richiesta, forniamo il biglietto per il treno per raggiungere la propria casa, abbigliamento e altro materiale utile”. “Le persone ex detenute che incontro dopo un periodo in carcere” conclude Roberto, volontario Caritas a “Casa Silvana”, “non sanno dove rivolgersi: per qualcuno la galera è l’unico punto di riferimento che hanno avuto per anni, la maggior parte, soprattutto gli stranieri, non hanno mezzi economici e, se non accompagnati, rischiano di tornare nelle reti dell’illegalità. In Italia la recidiva è molto alta anche perché chi esce dal carcere spesso non ha alternative: se dietro le sbarre non ha trovato opportunità formative o lavorative torna a delinquere. Il volontariato ha un ruolo molto importante nel sostegno al reinserimento, supplisce alle carenze dello Stato, è l’unica àncora di salvezza. La guida è un prezioso tassello di questo mosaico di gratuità che fa riemergere chi si perde per strada”. Verona. Cassonetti intelligenti, i detenuti diventano assistenti dei cittadini Corriere di Verona, 21 febbraio 2020 Da lunedì mattina 18 detenuti del carcere di Montorio assisteranno i cittadini nell’utilizzo dei nuovissimi cassonetti intelligenti, i nuovi contenitori per la raccolta del secco e dell’umido. “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo dice l’articolo 27 della Costituzione, peraltro non sempre applicato. Verona dà però il buon esempio, offrendo ad alcuni detenuti nel carcere di Montorio una possibilità di lavoro, ma anche di crescita personale e professionale. Da lunedì mattina, infatti, diciotto detenuti del carcere di Montorio assisteranno i cittadini nell’utilizzo dei nuovissimi cassonetti intelligenti, i nuovi contenitori per la raccolta del secco e dell’umido che entreranno in funzione il 24 febbraio nelle zone di Fondo Frugose e di San Michele Extra. I nuovi collaboratori dell’azienda, al servizio dei cittadini, sono carcerati a fine pena che hanno già partecipato ad un percorso di formazione ed affiancheranno gli operatori dell’Amia. L’iniziativa sperimentale durerà tre mesi e ha come scopo il reinserimento dei soggetti selezionati per il progetto.Nelle zone di Fondo Frugose e San Michele extra, che sono vicine al carcere, i detenuti potranno aiutare i cittadini a conferire i rifiuti nei nuovi cassonetti, ma anche dare informazioni a chi ancora deve fare la tessera necessaria per aprire i bidoni o scaricare l’app. La loro presenza giornaliera sarà anche un deterrente importante all’abbandono abusivo dei rifiuti fuori dagli appositi contenitori.Il protocollo d’intesa tra Amia, la Casa Circondariale di Montorio e l’Ufficio di sorveglianza del Tribunale è stato firmato a Palazzo Barbieri dal presidente di Amia Bruno Tacchella, dal direttore della Casa Circondariale Mariagrazia Bregoli e dal magistrato Isabella Cesari. Il sindaco, Federico Sboarina, ha sottolineato che “grazie a questo nuovo accordo alcuni detenuti avranno la possibilità di reinserirsi nella vita cittadina, supportando tutti coloro che da lunedì utilizzeranno i nuovi cassonetti rendendo più facile l’avvio di questa importante sperimentazione attivata sul territorio della sesta e settima circoscrizione. In Comune - ha ricordato il sindaco Sboarina - già da anni vi sono detenuti che collaborano nei servizi di portineria, e non solo non è mai stato riscontrato alcun problema, ma anzi, la loro presenza è un’occasione per superare tanti pregiudizi”. Il presidente Tacchella ha ricordato da parte sua che “l’arrivo dei cassonetti ad accesso controllato rappresenta una sfida all’insegna della tecnologia e dell’efficienza, e queste nuove risorse, formate ed istruite dai nostri addetti, saranno di estrema utilità per le migliaia di cittadini interessati da questa novità”. Modena. Sognalib(e)ro, “Le assaggiatrici” scelto dai lettori in carcere comune.modena.it, 21 febbraio 2020 Alla serata finale, giovedì 20 febbraio al Teatro dei Segni di Modena, il premio per la narrativa italiana va a Rosella Postorino e, per gli inediti, a tre detenuti da Pozzuoli, Pescara, Opera. Per la sezione narrativa del premio Sognalib(e)ro per le carceri italiane, che chiedeva ai gruppi di lettura degli istituti penitenziari di scegliere tra tre libri indicati dalla giuria, ha vinto Rosella Postorino con “Le assaggiatrici” (Feltrinelli 2018), prescelta rispetto a Claudia Durastanti con “La straniera” (La nave di Teseo, 2019) e a Marco Missiroli con “Fedeltà” (Einaudi, 2019). Il verdetto è stato annunciato nella serata finale del premio - promosso da Comune di Modena con Direzione generale del Ministero della Giustizia Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giunti editore, e con il sostegno di Bper Banca - che si è svolta giovedì 20 febbraio al Teatro dei Segni di Modena fra premiazioni, ospiti, letture e teatro, condotta da Bruno Ventavoli, direttore e ideatore del premio che ha l’obiettivo di promuovere lettura e scrittura negli istituti penitenziari dimostrando che possono essere strumento di riabilitazione, principio sancito dalla Costituzione. In apertura gli organizzatori hanno annunciato di stare già lavorando a una nuova edizione di “Sognalib(e)ro”. Tra gli inediti scritti dai detenuti (62 testi di 60 autori) in concorso alla seconda edizione del premio, la giuria degli scrittori, diretta da Bruno Ventavoli di TuttoLibri - La Stampa, ha individuato tre vincitori. Senza distinguere tra romanzo, racconto e poesia, i giurati scrittori Paolo Di Paolo, Barbara Baraldi, in sala, e Marco Makkox Dambrosio hanno scelto gli scritti, sul tema “Ho fatto un sogno…”, inviati da WP detenuto a Milano Opera, FDL in carcere al femminile di Pozzuoli e CB dall’istituto penitenziario di Pescara. Il premio consiste nella donazione di libri alla biblioteca del carcere dove sono reclusi i vincitori. Il Comune di Modena pubblicherà una antologia dei testi, con la casa editrice civica digitale “il Dondolo” diretta da Beppe Cottafavi. La vincitrice Rosella Postorino, a cui va anche il Premio di Bper Banca, rappresentata all’evento dal vicedirettore generale Eugenio Garavini, non ha potuto all’ultimo partecipare alla serata ma ha comunque affidato un suo testo alla lettura pubblica in sala. Come previsto dal meccanismo del premio ha indicato nel suo messaggio quattro libri che hanno avuto per lei una importanza particolare. Quattro titoli di cui Comune di Modena e Bper Banca forniranno numerose copie alle biblioteche delle carceri partecipanti. Si tratta di “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald; “Il posto” di Annie Ernaux; “Cecità” di José Saramago; e “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood. I detenuti attori di Sant’Anna e Castelfranco, che hanno animato la serata leggendo riflessioni, giudizi e motivazioni del voto dei detenuti delle altre carceri, hanno poi partecipato, con il regista Stefano Tè alla presentazione di “Freeway per una Odissea in carcere”, progetto di spettacolo a cura del Teatro dei Venti, realizzato in collaborazione con tre realtà europee che lavorano in carcere nei rispettivi Paesi, aufBruch (Germania), Fundacja Jubilo (Polonia) e Upsda (Bulgaria) con il sostengo di Creative Europe - Sottoprogramma Cultura. Una prima prova dello spettacolo andrà in scena a Modena a inizio maggio per il festival Trasparenze. Sono stati oltre cento i detenuti dei gruppi di lettura in carcere che hanno partecipato alle due sezioni della seconda edizione di “Sognalib(e)ro” da 15 istituti carcerari dove sono attivi laboratori di lettura o scrittura: la Casa Circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, quella di Modena, la Casa di Reclusione di Milano Opera, quelle di Pisa, Brindisi, Verona, Saluzzo, Pescara, Firenze Sollicciano, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna; quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. Alessandria. Foto e parole per spiegare che in carcere c’è vita di Massimo Brusasco ilpiccolo.net, 21 febbraio 2020 Doppia iniziativa di una fotografa alessandrina impegnata con i detenuti. Si chiama obiettivo probabilmente perché deve avere uno scopo. Quello della macchina fotografica di Mara Mayer è un bello strumento che consente a lei, artista alessandrina, di mandare messaggi a chi ha voglia di capirli. Vicina alle istanze di chi spesso è difeso solo da un avvocato, Mara Mayer ha condotto due lavori per le carceri cittadine, finalizzati entrambi a riavvicinare i detenuti alla realtà che sono stati costretti ad abbandonare. Alla casa di reclusione di San Michele, attraverso immagini e parole, è stato impostato un percorso sull’identità: destinatari i collaboratori di giustizia. Più incentrata sulle immagini l’iniziativa che, sostenuta dall’Istituto per la cooperazione e lo sviluppo, si è svolta, invece, nella casa circondariale Cantiello Gaeta, di piazza Don Soria. “Sono partita da un un dato di fatto - racconta la Mayer - Nel 2015, nelle carceri italiane, si sono registrati ben 43 suicidi. È stato, per me, un campanello d’allarme. Significa che qualcosa non va in un sistema che dovrebbe essere riabilitativo. Ho riflettuto su questo aspetto, cercando di far capire che al carcere si può resistere. Cosa ho fatto? Ho mostrato immagini di persone che, appunto, al carcere hanno resistito”. 43 i suicidi, 43 le foto scattate da Mara ad altrettanti detenuti che “ce l’hanno fatta” o che, comunque, “ce la stavano facendo”. Roma. “La luce dentro”, alla Camera il dramma dei figli con i genitori in cella Avvenire, 21 febbraio 2020 Il documentario girato nel carcere di Lucera, prodotto da Apulia Film Commission e Fondazione con il Sud. Madri che si vergognano di incontrare i figli dietro le sbarre; bambini che, spesso, non sono messi a conoscenza della ragione perché i genitori non tornano a casa da anni. Un problema sociale, quello del rapporto dei detenuti con i loro figli, portato all’attenzione delle istituzioni - nell’aula dei gruppi della Camera - con la proiezione de “La luce dentro”, struggente film documentario di Luciano Toriello, prodotto da Apulia Film Commission in collaborazione Fondazione Con il Sud e girato nel carcere di Lucera, in provincia di Foggia e vincitore del Social Film Fund Con il Sud. L’iniziativa è stata patrocinata dal gruppo misto con Antonio Tasso. “Il film ci spinge a guardare chi vive e subisce il carcere, anche se ne è fuori, come i familiari del detenuto”, ha detto il vicepresidente di Montecitorio Ettore Rosato. Presente anche il questore Francesco D’Uva (M5S), come “segno della vicinanza delle istituzioni alla realtà carceraria”. “La luce dentro” è stato realizzato in collaborazione con l’associazione Lavori in corso e con Paidòs onlus, realtà del Terzo settore attive sul territorio di Lucera al fianco dei detenuti e delle loro famiglie. Soddisfatto Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione Con il Sud: “Abbiamo voluto sperimentare un meccanismo nuovo che ci facesse perseguire la nostra missione che è quella di sviluppare cultura della solidarietà e capitale sociale attraverso un linguaggio nuovo per noi, moderno ed efficace come il cinema. L’esperimento è clamorosamente riuscito”. “I decreti sicurezza? Trasformano i migranti in disperati clandestini” di Sergio Valzania Il Dubbio, 21 febbraio 2020 Eraldo Affinati: “Gli italiani non capiscono quanto bisogno c’è dell’immigrazione in un Paese che si sta spopolando, invecchiando e impoverendo”. Eraldo Affinati mi riceve nella grande sala dove si svolge una delle tre lezioni settimanali della Penny Wirton, la scuola di italiano per immigrati creata nove anni fa dallo scrittore insieme a suo moglie, Anna Luce Lenzi, che si aggira sollecita fra i banchi sostenendo le decine di docenti che sono al lavoro. Oltre alla assoluta gratuità fondata sul volontariato, caratteristica della Penny Wirton è infatti il rapporto uno a uno fra insegnanti e allievi. Ogni lezione dura due ore, di intensità al calor bianco, rapporto attento e conoscenza profonda, testimonianza reale di accoglienza e di interessamento personalizzato riservato a ogni singolo studente. La storia della scuola e del suo metodo di insegnamento costituiscono il soggetto dell’ultimo libro di Affinati, Via dalla Pazza Classe, edito da Mondadori lo scorso anno. “Prima di quello, ho pubblicato due libri su Don Milani e la sua esperienza didattica a Barbiana”, racconta Affinati. “La sua intuizione sull’importanza della lingua, in particolare quella scritta, mi pare assolutamente convincente. I ragazzi di Barbiana di oggi sono questi, arrivati da poco in Italia e privi di tutto, in particolare dei mezzi per comunicare e per interpretare la realtà. Se non sei padrone di una dimensione verbale hai difficoltà a elaborare le esperienze che hai vissuto. La razionalizzazione avviene attraverso la scrittura, se non scrivi le tue emozioni, le tue esperienze restano allo stato grezzo”. E gli immigrati effettuano questa elaborazione in italiano? Molti di loro erano analfabeti nella loro lingua di origine. Da noi imparano a esprimersi in italiano e anche a scrivere nella nostra lingua. Da dove arrivano i vostri studenti? Nel corso dei mesi i luoghi dai quali provengono cambiano. È come il fiume di Eraclito, nel quale non ci si può bagnare due volte perché l’acqua non è mai la stessa. Prima sono arrivati albanesi, egiziani, nordafricani, irakeni, siriani. Adesso stanno arrivando subsahariani, che per venire da noi hanno attraversato il deserto; molte donne nigeriane, spesso con bambini. Ognuna di queste persone ha un trauma, una lacerazione, visibile o invisibile. Anche quelli che non portano sul corpo i segni di ciò che hanno subito, lo hanno dentro di sé. Da sempre sono molti anche i minori non accompagnati, le famiglie li aiutano a partire, fin dal Bangladesh, nella speranza che trovino un modo di sistemarsi, spesso con l’aiuto di qualche parente che hanno qui. Quelli che conoscete alla Penny Wirton ci mettono molto a imparare l’italiano? I più piccoli si integrano rapidamente. Diventano italiani. Gli slavi, i moldavi e gli ucraini, imparano la lingua in pochi mesi, agli africani occorre un anno, un anno e mezzo. Abbiamo la responsabilità di dare loro lo strumento che gli consenta di comprendere quello che gli è accaduto. L’Italia è un tetto sotto il quale si riparano popolazioni sbandate. I volontari italiani sono stati una grande scoperta. Ne sono orgoglioso. Chi sono? Appartengono a due categorie: pensionati, che spesso non hanno mai insegnato, e giovani, che formiamo come docenti. Liceali del Giulio Cesare, del Tasso, dell’Albertelli. Sempre nello stile uno a uno, niente classe, voto, giudizio, programma. È un rapporto di amicizia. Un’esperienza che si sta allargando... Sì. Da Messina a Trieste ci sono 47 Penny Wirton. Si tratta di associazioni con le quali firmiamo un patto di intesa. Una volta l’anno, a giugno, ci incontriamo tutti per confrontare le esperienze. Stanno nascendo sedi anche nel Ticinese. La terza a Locarno. Ne sono molto contento, il nonno di mia moglie era emigrato lì, suo papà, maestro, si è diplomato a Locarno. Da questo osservatorio come giudichi la situazione dell’immigrazione? Abbiamo codici insanguinati. Rispettiamo una legislazione che non tiene conto delle esperienze dei migranti, chi arriva qui mi racconta cose terribili: violenze, di ogni tipo, stupri, omicidi. Non dico che si debbono aprire le frontiere, so che bisogna organizzare, legiferare, strutturare, ma vedo che non si fa quello che si dovrebbe fare a livello di integrazione vera, culturale. Non bastano un letto e un piatto di pasta, e adesso anche quelli sono in forse. I decreti sicurezza hanno peggiorato le cose, molti di quelli che avevano una sistemazione sono andati allo sbando, sono diventati clandestini. Con i rischi per l’ordine pubblico che questo comporta. Qui c’era il Baobab, una zona di accoglienza che hanno chiuso, da allora, come tutta la zona periferica romana, questa zona è occupata da gente che non sa dove andare, la situazione dell’assistenza è peggiorata. Gli sbarchi sono diminuiti, ma sono diminuiti anche i fondi per insegnare l’italiano. Alla Penny Wirton vengono sempre più persone perché lo facciamo gratis; mentre da altre parti sono costretti a chiudere. Qual è il problema più grave? È culturale. La maggioranza degli italiani non comprende che abbiamo bisogno dei migranti. Non solo sul piano anagrafico, per fare i lavori che gli italiani non vogliono fare, per assistere gli anziani, per ripopolare un paese che si sta desertificando da un punto di vista demografico. Su un piano più alto. Don Milani diceva “è maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo”. Di questo abbiamo bisogno, di confrontarci con nuovi sguardi, nuove sensibilità, nuovi caratteri, nuovi colori, altrimenti siamo un paese senile. Noi italiani, ed europei, siamo un paese vecchio. Che fare? Nella scuola ci giochiamo tutto. Non è facile, i nuovi arrivati a volte sono corpi estranei, ma tante scuole si sono organizzate, con la buona volontà degli insegnanti. Fanno sostegno linguistico, corsi di integrazione. Sono ottimista. L’obbiettivo è anche far capire agli adolescenti che non solo i deboli hanno bisogno dei forti: anche i forti hanno bisogno dei deboli. Migranti. La Cassazione: un dovere portare al sicuro i naufraghi di Daniela Fassini Avvenire, 21 febbraio 2020 Le motivazioni della Cassazione per l’assoluzione di Carola Rackete. Carola Rackete si comportò “correttamente” in base alle disposizioni sul “salvataggio in mare”. Lo conferma la Cassazione, nelle sue motivazioni diffuse ieri. La comandante della Sea Watch (che aveva già incassato il “no” all’arresto rispetto all’accusa di aver forzato il blocco navale della motovedetta della Gdf, ndr) è entrata nel porto di Lampedusa perché “l’obbligo di prestare soccorso non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro”. Sulla nave militare speronata, i giudici aggiungono che le navi della Guardia di finanza “sono certamente navi militari, ma non possono essere automaticamente ritenute anche navi da guerra”. Secondo la Cassazione è stata esclusa legittimamente la natura di nave da guerra della motovedetta perché al comando non c’era un ufficiale della Marina militare, come prescrivono le norme, ma un maresciallo delle Fiamme Gialle. “Oggi (ieri, ndr) la Corte di Cassazione ha reso note le motivazioni della decisione. Il mio arresto a giugno è stato illegittimo perché “secondo il diritto marittimo, il dovere di soccorso termina in un porto sicuro”“ scrive su Twitter la capitana Carola Rackete. Immediata la protesta della Lega. “Se è vero quello che leggo, che si può speronare una nave della Guardia di Finanza con a bordo cinque militari, è un principio pericolosissimo per l’Italia e per gli italiani - ha commentato Matteo Salvini. Perché, un conto è soccorrere dei naufraghi in mare, che è un diritto o dovere per chiunque, un conto è giustificare un atto di guerra”. Intanto ci sono oltre 90 persone sparite nel nulla. L’ultima volta in cui si è avuta loro notizia risale al 9 febbraio: da un gommone in mezzo al mare avevano lanciato l’Sos. Poi il silenzio. Si pensava che fossero stati intercettati e riportati a terra dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Ma le richieste inviate a Tripoli, a Roma e a Malta sono successivamente cadute nel vuoto. Adesso però c’è il timore che quei poveri scappati dalla guerra e dalla violenza siano finiti in fondo al mare, nel silenzio assordante dell’Europa. Ci sono i parenti, i genitori, le madri e i padri di quelle persone, di cui non si sa più nulla, che chiedono di loro, vogliono parlare con i loro cari, vogliono sapere dove sono. “Un naufragio invisibile?”. Alarm Phone a lanciare l’allarme. “Siamo stati contattati da parenti e amici delle persone partite dalla Libia il 9 febbraio. Hanno bisogno di sapere cosa é successo ai loro cari! Le autorità devono investigare sull’accaduto” spiegano, temendo un nuovo naufragio. “Abbiamo chiesto informazioni alle autorità competenti in Libia, Malta, Itala e all’Agenzia di frontiera europea Frontex, senza ricevere alcuna risposta” scrivono su Twitter, raccontando quanto era accaduto. “Il 9 febbraio abbiamo ricevuto una chiamata da un gommone in difficoltà che era partito da Garabulli. Abbiamo avvisato immediatamente tutte le autorità, tra cui la cosiddetta guardia costiera libica. Nell’ultima telefonata, le persone a bordo erano in preda al panico. Dissero che il motore aveva smesso di funzionare, il gommone stava imbarcando acqua e alcuni di loro erano già caduti in mare”. Tutte le informazioni fanno temere il peggio. Negli ultimi giorni un aereo di Frontex ha intercettato un gommone vuoto e sgonfio in mezzo al mare, vicino alla posizione indicata dai naufraghi nell’ultima richiesta d’aiuto. “Riteniamo che questo gommone sgonfio sia la barca di cui avevamo informato le autorità. Che cosa è successo ai suoi passeggeri? Le autorità a cui ci siamo rivolti non stanno rispondendo. Che cosa sanno? Le famiglie e gli amici dei dispersi devono conoscere il destino dei loro cari”. Droghe. Magistratura Democratica avverte Lamorgese “così non va, si cambi metodo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 febbraio 2020 Allo studio l’obbligo della carcerazione preventiva per i piccoli spacciatori recidivi. A Roma gli esperti della narcotici di 57 Paesi: “Le narcomafie sono un rischio per la democrazia”. La distanza tra Roma e Bruxelles non è mai stata così grande. Paradossalmente più il Pd tenta di rimanere ancorato a Palazzo Chigi, più dimentica le sue voci migliori, come quella dell’ex Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, attualmente nella capitale belga come eurodeputato dem, che appena qualche anno fa avvertì il parlamento italiano sulla necessità di adottare “una rigorosa e chiara politica di legalizzazione della vendita della cannabis, accompagnata da una parallela azione a livello internazionale”. Un punto di vista distante anni luce da quello che sembra aver ispirato l’annunciata riforma della legge sulle droghe, prospettata mercoledì dalla ministra Lamorgese quasi come un contentino da dare alle forze di polizia, frustrate dall’inutilità di arrestare piccoli spacciatori che - guarda un po’ - non possono essere trattenuti in carcere prima del processo. Mentre, va ricordato, la delega alle politiche antidroga non è stata ancora assegnata all’interno del governo e l’ultima conferenza nazionale che per legge dovrebbe tenersi ogni tre anni risale al 2009 (ma è stata autoconvocata dagli operatori e dalle associazioni che si occupano di tossicodipendenze per il 28 e 29 febbraio a Milano). In ogni caso, un testo vero e proprio sembra ancora mancante a Palazzo Chigi, ma la norma con la quale il Viminale, in accordo con il Guardasigilli Bonafede, vorrebbe “superare l’attuale disposizione dell’articolo 73 comma 5” - che per lo spaccio di “lieve entità” (di droghe sia leggere che pesanti) prevede la reclusione da 6 mesi a 4 anni, dunque pene al di sotto di quelle per le quali è applicabile la custodia cautelare - potrebbe rendere obbligatoria appunto la carcerazione preventiva per i recidivi. Come se ce ne fosse bisogno, nei nostri sovraffollati penitenziari: secondo Antigone, infatti, i detenuti in carcere in attesa di sentenza definitiva alla fine del 2018 erano il 32,8% del totale, contro la media europea del 22,4%. Le parole della ministra Lamorgese hanno soddisfatto, come era prevedibile, alcuni sindacati di polizia. Ma anche la Lega, firmataria con il deputato Riccardo Molinari del ddl “droga zero” che martedì ha iniziato il suo iter in commissione Giustizia, abbinato alla proposta del radicale Riccardo Magi. Il deputato di +Europa, che è anche tra i promotori dell’Intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis, intervenendo in Aula ha invece ricordato che “i processi per violazione delle leggi sugli stupefacenti sono il principale motivo di intasamento delle aule giudiziarie” e che per velocizzare la giustizia italiana bisognerebbe “depenalizzare, invece che inseguire il panpenalismo, o fermarsi a discutere di prescrizione”. La pdl presentata da Magi prevede, al contrario di quella della Lega, “il trattamento sanzionatorio in un alveo di proporzionalità, in linea con i principi costituzionali, accentua il carattere di autonomia della fattispecie penale relativa ai fatti di lieve entità, e differenzia il regime sanzionatorio in funzione della diversa natura della sostanza”, anche per tentare di separare i mercati illegali delle sostanze e renderli meno pericolosi. La proposta di +Europa dà inoltre corpo legislativo alla sentenza delle sezioni unite della Cassazione del dicembre 2019 rendendo non punibile chi coltiva in casa un numero limitato di piante di marijuana ad uso strettamente personale. Anche Magistratura Democratica ha criticato il progetto governativo annunciato dalla ministra dell’Interno e ha chiesto invece “un cambio di paradigma”: “Siamo il Paese del Consiglio d’Europa - scrivono i magistrati - con il più alto numero di ristretti per violazione della legge sulla droga (circa il 30% della popolazione detenuta) e con un tasso elevatissimo di detenuti tossicodipendenti (il 25% dei detenuti complessivi). Eppure non abbiamo fatto passi in avanti nella lotta alla droga sulla salute e lo spaccio continua a proliferare nelle strade”. Proprio ieri a Roma è iniziato il congresso internazionale degli esperti delle Agenzie antidroga tra cui Dea e Interpol e dei corpi di polizia, in rappresetnanza di 57 Paesi. L’allarme lanciato tra gli altri dal direttore dell’Osservatorio europeo delle droghe, Alexis Goosdeel, e rilanciato anche dal generale dei carabinieri Giovanni Nistri e dal capo della polizia Franco Gabrielli riguarda una superprolificazione di droghe di tutti i tipi, “naturali e sintetiche, pure e potenti, a costi sempre più bassi”. E a questo mercato illegale, che non è mai stato così unificato, si servono “sempre più consumatori e sempre più giovani”. Il narcotraffico, quello vero e potente che permette alle organizzazioni criminali di fatturare “decine di miliardi di euro”, “è un cancro per l’intera società” e, ha ammonito il comandante della Guardia di Finanza, Giuseppe Zafarana, può “arrivare ad incidere anche sulla vita democratica del Paese”. Ecco perché andrebbe ricordato sempre, come fanno le esponenti del Partito Radicale Carla Rossi, dell’Unodc, e Maria Antonietta Farina Coscioni, che le forze dell’ordine andrebbero impiegate meglio, al fine di contrastare il grande spaccio: “Secondo i dati pubblicati dalla Dia - spiegano - dal 2009 a oggi l’indice di efficacia delle operazioni antidroga nei confronti dei piccoli spacciatori, oscilla dal 5,7% (2013), al 6,9% (2016); i soggetti denunciati, quando finiscono in carcere sono immediatamente rimpiazzati, e comunque la quantità di sostanza sequestrata è compresa tra il 5 e il 10%”. Per questo, scrivono le due radicali, quello annunciato “è l’ennesimo provvedimento-manifesto di nessuna utilità e sicuro danno”. Droghe. Visioni opposte di Lega e +Europa sulla detenzione di piccole quantità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 febbraio 2020 I due testi hanno un’impostazione completamente diversa: uno affronta la questione in modo sanzionatorio e repressivo l’altro si ispira alla proporzionalità. Mentre spunta fuori la proposta della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese che propone l’arresto immediato con custodia cautelare in carcere anche per chi spaccia piccole quantità di sostanze stupefacenti, alla Commissione Giustizia sono in esame - con tanto di audizioni - le proposte di legge in materia di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope nei casi di lieve entità. Martedì scorso ci sono state le prime audizioni ascoltando i rappresentanti della Comunità San Patrignano e dell’Unione Camere penali italiane. Sono due le proposte di legge in discussione. Una della Lega a firma di Riccardo Molinari, l’altra a firma del deputato Riccardo Magi di + Europa. Le proposte hanno solo in comune il nome di battesimo dei primi firmatari, Riccardo, ma sono agli antipodi. La proposta della Lega interviene infatti sulle fattispecie di lieve entità rendendo possibile l’arresto in flagranza (così come di fatto proposto dalla ministra dell’Interno), aumentando i minimi e i massimi edittali (e quindi rendendo possibile l’applicazione delle misure cautelari) e cancellando la possibilità di riservare un trattamento di favore in caso di reati commessi da persone tossicodipendenti. La proposta di legge a firma di Riccardo Magi, invece, riporta il trattamento sanzionatorio in un alveo di proporzionalità, in linea con i principi costituzionali, accentua il carattere di autonomia della fattispecie penale relativa ai fatti di lieve entità, e infine differenzia il regime sanzionatorio in funzione della diversa natura della sostanza, al fine di graduare il trattamento punitivo in relazione alla gravità delle condotte. Si prevede inoltre che non è punibile chi coltiva un numero limitato di piante di cannabis finalizzate alla produzione di sostanze stupefacenti a un uso esclusivamente personale. La dichiarazione di incostituzionalità della “legge Fini-Giovanardi” da parte della Corte costituzionale nel 2014, infatti, non ha risolto ma al contrario ha reso ancora più urgente la revisione del testo unico sulle droghe dell’art. 73 del Dpr 309/ 90. Nonostante tutti i dati siano di dominio pubblico, il carcere viene tuttora utilizzato come strumento di lotta alle droghe. Come si legge nell’ultima edizione (anno 2019) del Libro Bianco promosso da Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca e Associazione Luca Coscioni con l’adesione di molti altri soggetti, nel 2018 il 30% degli ingressi in carcere è stato legato a un unico articolo di legge, il 73 del Testo Unico sulle droghe, che sostanzialmente riguarda la detenzione di sostanze illecite a fini di spaccio. Su 59.655 persone presenti nelle carceri italiane al 31 dicembre 2018, 14.579 erano detenute con la sola imputazione di questo articolo. Il sovraffollamento carcerario, in sostanza, è frutto di scelte politiche precise. In questo caso, la scelta è quella di criminalizzare i consumatori di sostanze per i quali il piccolo spaccio è conseguente alla condizione di tossicodipendenza. Abbiamo un testo unico sulle droghe risalente a 30 anni fa. Dopo tutto questo tempo l’impianto repressivo e sanzionatorio che lo ispira non ha impedito l’aumento della circolazione di sostanze stupefacenti e continua, di fatto, ad essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia e nelle carceri. La missione dell’Unione europea, un altro errore sulla Libia di Franco Venturini Corriere della Sera, 21 febbraio 2020 Oltre alla consueta retorica diplomatica, c’è stato il coinvolgimento di forze militari con una approssimazione che non fa ben sperare. Il cirenaico Haftar spara a volontà, il tripolino Serraj sospende la sua partecipazione al negoziato militare di Ginevra, e così le residue speranze di stabilizzare la Libia affogano in un mare di parole che vede l’Italia tra i più loquaci protagonisti. Aveva cominciato, nella corsa ai proclami a uso interno, la tanto attesa conferenza di Berlino che pur di non fallire subito ha prodotto a cuor leggero un lungo elenco di traguardi irraggiungibili. Riuscendo in tal modo a fallire dal giorno dopo, quando si è visto che la tregua d’armi non reggeva, che le forniture di armi provenienti dai padrini dei due schieramenti continuavano imperterrite, che Turchia con Serraj e Russia con Haftar accentuavano la loro presenza sul terreno invece di ridurla, che gli Usa guardavano dall’altra parte e che l’Europa rimaneva divisa e inefficace malgrado i suoi indiscutibili interessi in Libia. Poi, fatto più unico che raro, è stata l’Onu ad alzare la voce osservando che l’embargo sulle armi “somigliava ormai a una barzelletta”. Il giorno dopo, lunedì scorso, si riuniva il Consiglio dei ministri degli Esteri europei. Non poteva più far finta di niente, e incassare l’accusa di far ridere. Doveva decidere “qualcosa”, e così è stato. Ma questa volta accanto alla consueta retorica diplomatica c’è stato il coinvolgimento di forze militari, con una approssimazione che non fa ben sperare. Anche perché subito dopo Haftar ha lanciato i suoi missili sul porto di Tripoli, e Serraj ha abbandonato i negoziati militari che dovevano consolidare la tregua. Per capire meglio occorre fare un passo indietro, al nostro governo gialloverde nel quale Matteo Salvini era l’uomo forte. Fu quel governo italiano, e fu Salvini con la sua politica dei “porti chiusi”, ad azzoppare la missione navale Sophia che doveva pattugliare il Mediterraneo nell’ambito della lotta ai trafficanti di carne umana. Sophia, si disse, moltiplicava il numero di migranti aumentando le loro probabilità di salvezza, dunque andava stroncata. Così fu. Ma l’idea circolava ancora in Europa, con Germania, Francia e Spagna favorevoli, Austria e Ungheria contrari per paura di nuovi rifugiati (che peraltro in Ungheria non entrano), e il nostro ministro degli esteri Di Maio, senza darlo troppo a vedere, d’accordo con Vienna e con Budapest. Non per copiare la dottrina Salvini, bensì stavolta per evitare che Salvini potesse impallinare il governo giallorosso con accuse di cedimento sul tema sempre sensibile dei flussi migratori. Ecco allora che con il varo di una nuova operazione aeronavale “interamente diversa da Sophia” l’Europa ha formalmente sovrapposto il tema migranti e il tema Libia, al punto che se venisse constatato un “effetto richiamo” per i trafficanti anche nella nuova zona di operazioni, le navi verrebbero subito spostate o rinviate nei loro porti. Il che stabilisce, fino a prova contraria, una chiara priorità: per i Paesi europei e per l’Italia in particolare, visto che a differenza di Austria e di Ungheria noi il mare lo abbiamo intorno, il contenimento dei migranti conta molto più di quello delle forniture d’armi ai protagonisti della guerra civile libica. E non basta, perché Di Maio, oltre all’operazione aeronavale, ha vagamente ipotizzato anche una componente terrestre “se le autorità libiche la autorizzeranno”. Ma quali autorità libiche visto che sono almeno due, per vegliare su quali confini, con quale viatico Onu, con quali regole di ingaggio? Forse il ministro alludeva a un indiretto rafforzamento delle operazioni franco-americane nel Sahel, oppure siamo ancora alle parole incaute? Nell’attesa si deve rilevare che l’alto rappresentante per la politica estera Ue, lo spagnolo Borrell, si è precipitato a frenare. Anche il solo aspetto aeronavale del nuovo progetto, peraltro, è ricco di interrogativi ai quali stanno già lavorando gli esperti nella speranza di far partire l’operazione a fine marzo. Se le navi della missione coglieranno sul fatto navi militari turche dirette a Tripoli, cosa faranno concretamente considerando che ci si troverà tra soci della Nato? Haftar, molto più facilmente di Serraj e della Tripolitania, può ricevere le sue forniture belliche via terra attraverso il confine egiziano: non si rischia di bloccare la Turchia e il Qatar e di dare invece poco fastidio agli Emirati, alla Giordania, all’Arabia Saudita, alla Russia che servono la Cirenaica? L’operazione, spostata a Oriente, sarà comunque ricattabile dai trafficanti di esseri umani, basterà aumentare il numero dei barconi in quell’area e le navi toglieranno il disturbo. Anche a volerci fermare qui la nuova missione, che non ha ancora un nome e nemmeno un comandante mentre quello di Sophia era italiano, sembra disegnata per radicalizzare ulteriormente la partita per il predominio nel mondo sunnita (pro e contro i Fratelli musulmani) che i Paesi islamici con l’aggiunta della Russia combattono in Libia, sulla pelle dei libici e anche dei migranti. Con ampi margini di ambiguità: quelli che abbiamo brevemente citato, ma anche il doppio gioco di Mosca che con Lavrov in visita a Roma invoca l’Onu e nulla dice dei suoi mercenari alle porte di Tripoli, che litiga con la Turchia in Siria ma ci va d’accordo in Libia. E anche l’America di Trump che nulla dice del blocco petrolifero imposto da Haftar dopo averlo indicato come linea rossa insuperabile (forse lo spettacolo di un’Europa nei guai non dispiace al presidente in campagna elettorale?). E anche tutti quanti vanno ripetendo che in Libia “non esiste una soluzione militare”. Sarà anche vero, ma alla fine pure gli europei hanno dovuto tirar fuori l’effetto dissuasivo di navi bene armate. Con il rischio che gli altri siano disposti a sparare e noi no. Turchia. Ti assolvo e ti ri-arresto, l’uso fai da te della giustizia di Erdogan di Mariano Giustino Il Riformista, 21 febbraio 2020 Nulla di tutto ciò che sta accadendo in queste ore in Turchia ha a che fare con lo Stato di diritto. Osman Kavala, 62 anni, presidente dell’istituto Anadolu Kültür da lui fondato, punto di riferimento prezioso per comprendere la societa civile turca, le minoranze e la loro condizione, è stato prima assolto e poi di nuovo arrestato. La potremmo definire “assoluzione apparente”. È la tecnica usata da Erdogan contro gli avversari politici. Martedì 18 febbraio, la trentesima Corte Penale di Istanbul assolve Osman Kavala dall’accusa di sovversione dell’ordine costituzionale per aver sostenuto le proteste antigovernative del movimento di Gezi nel 2013, ritenuto dal governo turco una organizzazione sovversiva, e poche ore dopo la Procura della Repubblica di Istanbul spicca un nuovo mandato di arresto per Kavala con l’accusa di avere avuto un ruolo di primo piano nel tentativo di golpe del 15 luglio 2016. Il Consiglio Superiore della Magistratura della Turchia ha aperto una inchiesta contro i giudici che martedì hanno emesso la sentenza di assoluzione. Il processo Kavala è stato fin dall’inizio in palese contrasto con l’ordinamento giuridico vigente in Turchia. L’accusa è surreale. La Corte non ha mai preso in considerazione la documentazione prodotta dalla difesa. Il 10 dicembre 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo ne avevo chiesto l’immediata scarcerazione, ma i giudici turchi, come è successo in altri casi, come in quello del leader del Partito democratico dei popoli, Selahattin Demirta?, non hanno tenuto conto della sentenza perentoria della Cedu. Erdogan ha giustificato tale ingerenza politica davanti al suo gruppo parlamentare dell’Akp, sferrando un duro attacco a quella corrente della magistratura rispettosa del dettato costituzionale accusandola di aver messo in atto una “manovra a sostegno dei sovversivi di Gezi”. Parlando delle proteste antigovernative del 2013, Erdogan ha affermato che “Soros era dietro le quinte come regista occulto di una trama eversiva come in un golpe” e che “in quelle rivolte nessuno era innocente”. Ha puntato il dito anche contro il leader del maggior partito di opposizione Chp per aver sostenuto quelle proteste definite ancora una volta come “un attacco contro i poteri dello Stato, alla stregua di veri golpe”. Appare evidente che nel mondo della magistratura turca vi è una corrente influente più attenta al codice e al dettame della Carta costituzionale che spesso entra in conflitto col potere politico incarnato dal presidente della Repubblica e se la magistratura più vicina all’area “liberal” del Paese emette sentenze non gradite a Erdo?an, quest’ultimo le “corregge” esercitando la sua influenza. Ma qual è la strategia adottata da Erdo?an in questa lotta intestina tra il potere giudiziario non ancora completamente nelle sue mani e il potere politico all’interno del quale il presidente è l’uomo solo al comando? L’ex parlamentare del Partito repubblicano del popolo (Chp), Eren Erdem, aveva vissuto la stessa situazione in precedenza. Erdem, difensore dei diritti umani del maggior partito d’opposizione, anch’egli accusato di sovversione dell’ordine costituzionale, aveva condiviso la stessa prigione con Kavala e aveva subito lo stesso dramma. Prima assolto dal Tribunale di Istanbul e dopo poco di nuovo arrestato per un nuovo mandato di cattura dal Procuratore della Repubblica e poi di nuovo liberato. I due casi giudiziari sono molto simili, la tecnica è sempre la stessa: aprire nei riguardi di oppositori molto apprezzati nella società civile almeno due procedimenti penali diversi, in modo che se in uno di essi venisse assolto, scatterebbe subito l’arresto per l’altro. Ed è anche quello che è accaduto anche agli intellettuali Ahmet e Mehmet Altan e a Jahin Alpay.