La voglia di riforma del sistema carcerario fa scoppiare la pace tra Pd, Leu e Italia Viva di Giulia Merlo Il Dubbio, 20 febbraio 2020 Il centrosinistra punta a recuperare la riforma Orlando, messa su un binario morto proprio dal ministro Bonafede e dai 5 Stelle. La giustizia continua a dividere il governo, ma sul carcere gli schieramenti cambiano. Al vertice di maggioranza che si è svolto ieri si è fatto il punto sulla riforma del processo penale, che ha scavato un solco profondo tra Movimento 5 Stelle, Pd e Leu da una parte e Italia Viva dall’altra; processo civile; riforma della giustizia tributaria e del Csm. A riunire il centrosinistra e i renziani, però, sono state le misure sul carcere. L’argomento è complicato e all’incontro si è solo cominciato a ragionare, ma è subito risultato evidente come, in questo campo, ad essere isolati siano i 5 Stelle e il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. La pena espiata con percorsi di reinserimento e riabilitazione, la possibilità di rivisitare le procedure di controllo e di assegnare benefici non come automatismi ma legati a motivazioni adeguate, modifica all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e, in sintesi, carcere come extrema ratio sono solo alcuni dei punti su cui si sono ritrovati Pd, Italia viva e Leu. In pratica, tutte misure che sono state alla base della riforma del carcere scritta dall’allora Guardasigilli Andrea Orlando, costata tre anni di lavoro e dialogo con il mondo della giustizia e messa su un binario morto proprio da Bonafede, non appena approdato in via Arenula con il governo gialloverde. La riforma Orlando, i cui echi risuonano proprio nella posizione tenuta a Palazzo Chigi da Leu, Pd e Italia Viva, puntava a rafforzare le misure alternative al carcere, ponendo al centro il percorso riabilitativo del detenuto, con l’obiettivo di abbattere il tasso di recidiva. Suicidi, sovraffollamenti e aggressioni: la dura vita in carcere delle guardie di Roberto Chifari Il Giornale, 20 febbraio 2020 L’inferno delle carceri in Italia ha raggiunto numeri preoccupanti. Sono in aumento aggressioni, atti di autolesionismo, suicidi e problemi psichiatrici. Le vittime sono i detenuti ma anche le stesse guardie carcerarie. Le condizioni di detenzione, così come quelle di lavoro per gli agenti, nelle carceri italiane è arrivata al collasso. Gli esempi sono molteplici ed è la dimostrazione di un bollettino di guerra che non trova pace. Lavorare all’interno di un istituto penitenziario oggi è al limite della sopportazione fisica e psichica. Lo dimostrano i casi di suicidio, le aggressioni e il sovraffollamento che mette in ginocchio gli istituti penitenziari della Penisola. Gli esempi, dicevamo, sono tantissimi e l’andazzo è più o meno ovunque così. Negli ultimi 20 anni la Polizia Penitenziaria hanno sventato più di 21mila tentati suicidi ed impedito 170mila atti di autolesionismo. Numeri allarmanti che devono far riflettere ma che imprimono la fotografia della situazione attuale in Italia. Suicidi - Secondo il rapporto del 2019 “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere” del Comitato nazionale per la bioetica, ci sono alcuni disturbi che più di altri portano ad atti di autolesionismo. Quali? La dipendenza da sostanze psicoattive (23,6%), disturbi nevrotici e reazioni di adattamento (17,3%), disturbi alcol correlati (5,6%)”. “A seguire - spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe - piccole percentuali per i disturbi affettivi psicotici (2,7%), disturbi della personalità e del comportamento (1,6%), disturbi depressivi non psicotici (0,9%), disturbi mentali organici senili e presenili (0,7%), disturbi da spettro schizofrenico (0,6%). Analizzando le diagnosi per genere, prevale tra gli uomini la diagnosi di dipendenza da sostanze psicoattive (50,8% degli uomini e 32,5% delle donne), e tra le donne la diagnosi di “disturbi nevrotici e reazioni di adattamento” (36,6% delle diagnosi femminili e 27,1% delle diagnosi maschili). Arrivano dopo, fra gli uomini, i “disturbi alcol correlati (9,1 % degli uomini e 6,9% delle donne), e fra le donne i disturbi affettivi psicotici (10,1% delle donne e 4,1% degli uomini), i disturbi della personalità e del comportamento (2,4% degli uomini e 3,4% delle donne), disturbi depressivi non psicotici (1,3% degli uomini e 2,8% delle donne)” Sovraffollamento - Il fenomeno colpisce alcune regioni più delle altre: quelle con maggior presenza di detenuti risultano essere Lombardia (8.560 a fronte di una capienza di 6.199), Campania (7.440 a fronte di 6.164 posti), Lazio (6.675, mentre la capienza regolamentare è pari a 5.247) e Sicilia (con 6.443 detenuti e 6.497 posti). A Bari a fronte di una capienza di 299 persone ci sono 435 detenuti, che equivale a un 145 per cento in più. E se i detenuti sono molti più di quanti la struttura può ospitarne, al contrario la polizia penitenziaria conta un numero di agenti gravemente inferiore a quello che sarebbe previsto: 235 invece di 300-310. Lo ha denunciato Massimiliano Iervolino, segretario di Radicali Italiani. “A seguito della visita del procuratore di Bari - spiega -, che ha denunciato la disumanità dello scenario rilevato, sembra che finalmente qualcosa inizi a smuoversi, almeno per ciò che concerne le criticità legate ai servizi sanitari. Mi auguro che dalle parole si passi ai fatti quanto prima, le strutture penitenziarie come questa troppo a lungo sono state dimenticate dalle istituzioni”. Aggressioni - A Sassari ancora non è stata sanata la mancanza di un Comandante in pianta stabile e di un Direttore effettivo che possa gestire la struttura carceraria. Un detenuto al 41 bis ha conficcato la penna in faccia ad un agente penitenziario. A Torino un evaso ha accoltellato una guardia. Ad Agrigento invece è scoppiata la paura per il contagio della tubercolosi tra detenuti. Sempre ad Agrigento un altro detenuto ha aggredito un medico e un ispettore di polizia penitenziaria. A Napoli nel carcere di Poggioreale un detenuto ha cercato di strangolare un agente della Penitenziaria. Sono solo alcuni degli ultimi episodi che sono finiti alla ribalta delle cronache. Nel 2020, in appena un mese, si sono registrate 41 aggressioni in carcere ai danni di agenti penitenziari, più altri 5 contro personale amministrativo. Molti anche i suicidi: nel 2019 sono stati 53 tra i detenuti. Prescrizione, stop alla legge Costa, ma Italia Viva vota con le opposizioni tra urla e liti di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 20 febbraio 2020 Bocciato in Commissione il progetto di legge di Forza Italia per fermare la riforma Bonafede. E al Senato la Lega occupa l’aula dei commissari: lavori sospesi per un’ora. Caos nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato: a Montecitorio Italia viva vota di nuovo con la destra ma non basta a fermare l’emendamento M5S che sopprime la proposta di legge del forzista Enrico Costa che mirava a bloccare a sua volta la riforma Bonafede sulla prescrizione, e a Palazzo Madama la Lega ha occupato la Commissione. Alla Camera con un voto di differenza - 24 a 23 - è passato l’emendamento Cinque Stelle che affossa la proposta Costa, e determinante è stato il voto della presidente della Commissione - la grillina Francesca Businarolo - che ha votato con la maggioranza. In Commissione urla e liti. “Se fossero stati 24 voti contro 24 l’emendamento non sarebbe stato soppresso e il governo sarebbe andato sotto. Non è stato consentito al deputato Colucci (gruppo Misto, ndr) di votare” ha detto Costa rivolgendosi in Aula al presidente della Camera Roberto Fico: “Io le chiedo di analizzare gli atti e chiederemo di essere ricevuti da lei, perché riteniamo che questa sia una violazione gravissima. Da parte nostra noi la consideriamo una crepa, una lesione pesantissima”. E Fico ha risposto: “Mi riservo di verificare”. Businarolo, sotto attacco per avere votato e impedito di farlo al deputato Colucci, ha a sua volta puntato il dito contro le opposizioni: “La commissione Giustizia ha respinto la proposta Costa sulla prescrizione. Il voto è stato accompagnato da intollerabili polemiche sulla procedura. Infatti, la questione delle sostituzioni dei deputati non può essere usata strumentalmente: prima del voto di oggi ho svolto una verifica delle presenze e ho dovuto prendere atto del fatto che il deputato Colucci non era stato designato sostituto. Le opposizioni farebbero bene a misurare con più pacatezza le proprie parole”. E sulla sua partecipazione al voto, ha aggiunto: “Quando è necessario per garantire la tenuta della maggioranza, i presidenti delle commissioni votano i provvedimenti. I precedenti non mancano certo, compreso quello del presidente Sisto, dunque non si dica che questa scelta è fuori dalle regole”. Urla e liti anche alla commissione Giustizia del Senato dove si votavano invece gli emendamenti al decreto intercettazioni, con la maggioranza che stava per respingere un emendamento della Lega, quando i senatori del Carroccio hanno iniziato a protestare, coadiuvati da un folto gruppo di loro colleghi che hanno fatto irruzione in commissione al grido di “votate il nostro emendamento”. È stato il senatore leghista Simone Pillon a spiegare l’azione del suo partito: “Quello che è accaduto in commissione Giustizia è di una gravità inaudita. La maggioranza vuole respingere un emendamento che consente di usare il Trojan per intercettare i reati di pedopornografia, è lo fa solo perché è un emendamento della Lega”. Dall’esterno sono stati segnalati cori da stadio, al grido di “onestà, onestà” urlati dai senatori leghisti a cui hanno fatto seguito le proteste della maggioranza, e si è sfiorata la rissa. Sono dovuti intervenire i commessi. Dopo un’ora di sospensione i lavori sono ripresi: la presidente del Senato Elisabetta Casellati ha mediato tra le diverse posizioni ed è stato raggiunto un compromesso in base al quale i leghisti hanno posto fine all’occupazione e l’emendamento al centro della querelle è stato accantonato in attesa di verificarne un’eventuale riformulazione. Giustizia: maggioranza in pezzi, Iv in trincea con la destra di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 20 febbraio 2020 I renziani votano di nuovo con le opposizioni sulla prescrizione e il governo va a un soffio dall’incidente parlamentare. La Lega tiene in ostaggio il decreto intercettazioni sul quale oggi arriva una fiducia con l’affanno. Mentre si dibatte sul fatto se Renzi sia ancora o non sia già più in maggioranza, per la terza volta Italia viva vota con le opposizioni sulla prescrizione portando il governo a un passo dall’incidente parlamentare. Ieri è accaduto in commissione giustizia alla camera, dove per la seconda volta in pochi giorni per salvare la maggioranza ha dovuto partecipare al voto la presidente della commissione, la 5 Stelle Businarolo, violando estetica e prassi. Ieri in più è risultata decisiva l’esclusione dal voto di un deputato del gruppo misto che avrebbe altrimenti votato in favore della proposta avanzata da Forza Italia e appoggiata dai renziani per abolire tutta la riforma Bonafede della prescrizione. Quella che è in vigore dal 1 gennaio e che cancella la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Il Pd e Leu hanno fatto digerire al ministro della giustizia una parziale modifica, che distingue le sorti di condannati e assolti, ma per Renzi non è abbastanza. Da qui il suo nuovo ultimatum. La minaccia di una mozione di sfiducia individuale contro il ministro guardasigilli, il leader di Italia viva l’aveva già fatta. Ieri in tv ha aggiunto una scadenza: entro pasqua. Vuole cioè che la riforma della prescrizione sia completamente superata per quella data, altrimenti la mozione di sfiducia presentata al senato potrebbe trovare i numeri per essere approvata. A ben guardare il nuovo ultimatum è anche una retromarcia, visto che in precedenza Renzi aveva già annunciato la sfiducia se gli altri partiti della maggioranza avessero trovato un’intesa per modificare la riforma senza il consenso di Iv. Cosa che è puntualmente accaduta nel Consiglio dei ministri al quale non hanno partecipato le ministre renziane. Quell’accordo, il “lodo Conte bis” al quale il Pd e Leu sono adesso aggrappati, non si è però ancora materializzato in parlamento. Può accadere la prossima settimana, ma certo non andrà nella direzione indicata da Renzi. Per le stesse ragioni ieri c’è stato il quasi incidente in commissione giustizia a Montecitorio, e la novità è che questa volta il rappresentante di Renzi (l’ex leader della corrente di destra della toghe, Ferri) si è unito alle destre nel protestare vivacemente per la conduzione dei lavori. Proteste arrivate anche in aula con la richiesta al presidente della camera Fico di intervenire. Nel frattempo un’altra semi rissa scoppiava nella commissione giustizia del senato. Anche lì nei giorni scorsi renziani e destre avevano provato a far passare l’abolizione della Bonafede sulla prescrizione, ma ieri lo scontro si è acceso attorno al cuore del provvedimento in esame. Si tratta del decreto intercettazioni, che oltre al rinvio di un rinvio della nuova disciplina sulla trascrizione degli ascolti contiene norme più permissive sull’uso del captatore informatico “trojan” e in genere sulla possibilità di utilizzare le intercettazioni nelle indagini. La Lega, che a tratti strilla contro “il grande fratello” cercando di stare nella parte dei garantisti, a tratti propone di video-sorvegliare chiunque, ieri con il celebre senatore Pillon ha tentato con un emendamento di consentire l’uso dei trojan anche per il reato di detenzione di materiale pedopornografico. Per il reato di diffusione è già possibile farlo, visto che è punito con pena superiore ai 5 anni. La maggioranza ha dato parere negativo e ha proposto in cambio di studiare un innalzamento generale delle pene, ma alla Lega non è bastato. Così ha deciso di occupare l’aula della commissione impedendone i lavori, all’esterno si sono ascoltati strilli e insulti. Inutile una lunghissima mediazione che ha fatto slittare l’approdo in aula del provvedimento. Ma il decreto è prossimo alla scadenza, mancano dieci giorni e deva ancora andare alla camera, così la maggioranza si è rassegnata a portarlo in aula senza concludere i lavori di commissione e senza relatore. Il governo dovrà recuperare con un maxiemendamento sul quale votare (oggi) la fiducia gli emendamenti approvati in commissione. Tra i quali quello che allarga l’utilizzabilità delle intercettazioni occasionali, proposto originariamente dal senatore Grasso di Leu e tenuto fermo per un giorno dai renziani. “Un episodio da teatro dell’assurdo”, ha detto ieri sera Grasso in aula, raccontando che Iv aveva prima accettato l’emendamento e poi preteso una variazione, che però non ne cambia il senso. Il Decreto Spazzacorrotti che calpesta diritti e Costituzione di Federica De Simone Il Riformista, 20 febbraio 2020 Il Decreto Spazzacorrotti di gennaio 2019, contenente disposizioni per il contrasto degli illeciti nella pubblica amministrazione, ha raccolto molte critiche, a cominciare dallo stesso nome che rimanda a un uso giustizialista e mediatico del diritto penale senza che a questo facciano seguito delle risposte efficaci al fenomeno della corruzione sistemica che attanaglia da sempre il nostro Paese. Eppure un pregio questo provvedimento normativo lo ha avuto, dal momento che ha riportato al centro del dibattito giuridico due questioni particolarmente gravose: l’istituto dell’ergastolo ostativo e il problema della retroattività delle norme relative alla fase dell’esecuzione penale. La prima questione fa riferimento ai non pochi detenuti per i quali il fine pena è previsto per il 31 dicembre 9999. Si tratta di 1174 uomini ombra (ultimo dato ministeriale risalente al 2015), secondo la ormai celebre autodefinizione di Carmelo Musumeci, l’unico degli ergastolani ostativi ad essere riuscito a convincere la magistratura di sorveglianza della sua avvenuta rieducazione e ottenere la liberazione condizionale. Questa forma speciale di ergastolo fu introdotta nel 1991 in seguito al crescere dell’allarme sociale per la criminalità mafiosa e impedisce l’accesso a qualsiasi beneficio premiale in mancanza di collaborazione del reo con l’autorità giudiziaria. Ma come sempre succede in Italia, quello che dovrebbe essere un’eccezione diventa la regola e così l’elenco delle ipotesi di reato a cui applicare il regime ostativo si è allungato a dismisura, sino a ricomprendere oggi - grazie proprio al decreto Spazzacorrotti - anche alcuni delitti contro la pubblica amministrazione. Dopo la condanna della Corte europea di giugno 2019 e la parziale dichiarazione di incostituzionalità della Consulta intervenuta esattamente sei mesi dopo, è stato squarciato il velo di ipocrisia che ricopriva l’istituto. Nessun giudice potrà più sostenere - o almeno si spera - che la condizione di ergastolano ostativo sia frutto della libera scelta di non collaborare del detenuto, essendo ormai chiaro che questa è un’ipotesi di ricatto di Stato: o collabori, magari mettendo anche a rischio la tua famiglia, o non vedrai altro che le sbarre di una cella per tutta la vita, con buona pace dell’articolo 27 della Costituzione e del principio di rieducazione del reo. La seconda questione scaturisce dall’assenza di indicazione di norme transitorie sempre nello stesso decreto di gennaio 2019, che ha portato all’applicazione retroattiva della preclusione dei benefici premiali anche ai condannati per fatti di corruzione. Conseguenza è stata che a reclusi anche celebri e con condanne definitive, come Formigoni, sono state negati il lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative come la detenzione domiciliare, oltre alla possibilità di chiedere la sospensione della pena. A indebolire ulteriormente l’impianto dell’ergastolo ostativo dichiarando l’illegittimità di una simile applicazione retroattiva, è stata ancora una volta la Corte costituzionale, che nel comunicato del 12 febbraio scorso ha riconosciuto il contrasto con il principio di legalità delle pene previste dall’articolo 25 della Costituzione. La retroattività del regime ostativo rispetto alle misure alternative, alla liberazione condizionale e alla sospensione della pena detentiva, infatti, comporta una trasformazione della natura della pena che incide sulla libertà personale. Questo risultato, ampiamente condiviso nel mondo giuridico, lo si deve in parte anche alla sezione del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli che è stato tra i primi in Italia a ritenere la norma illegittima e a impugnarla davanti al giudice delle leggi. Il 2 aprile 2019, infatti, il giudice napoletano, richiamando un’importante sentenza della Corte europea e discostandosi dall’orientamento consolidato, ha riconosciuto che il reo confida in una prevedibilità della sanzione penale che merita tutela quando, cambiando le carte in tavola, si applica un trattamento peggiorativo rispetto a quanto stabilito in una decisione definitiva. Vale a dire che, in un Paese civile, i diritti e le garanzie devono trovare applicazione anche nella fase dell’esecuzione della pena, perché, come dice Carmelo Musumeci, “non si può educare una persona tenendola all’inferno per decenni senza dirle quando finirà la sua pena. Lasciandola in questa situazione di sospensione e d’inerzia la si distrugge e dopo un simile trattamento anche il peggior assassino si sentirà innocente”. Le conseguenze di una legge mal posta sono spesso anche di natura economica e ricadono, come sempre, sulla collettività, visto che, con ogni probabilità, lo Stato italiano sarà chiamato a risarcire i condannati che hanno subìto l’ingiusta detenzione. Ma le questioni connesse alla irresponsabilità dell’atto politico sono un’altra storia. Gli assolti hanno diritto al risarcimento da parte dello Stato di Tiziana Maiolo Il Riformista, 20 febbraio 2020 Se vinci una causa civile sarà la parte soccombente a pagare tutte le spese legali affrontate nel processo. Lo stesso accade anche nel giudizio amministrativo, persino nel caso in cui sia la parte pubblica a uscire sconfitta. Non è così nel processo penale, nel quale le uniche forme di equilibrio tra le parti sono il gratuito patrocinio (cui può accedere solo colui il cui reddito non superi gli 11.500 euro) e la riparazione per ingiusta detenzione. Che ha comunque vincoli molto rigidi e tempi eterni. Che ci sia un vuoto legislativo nel nostro ordinamento è evidenziato anche dal fatto che ben 28 Stati nostri “vicini di casa”, dall’Austria alla Francia, al Lussemburgo fino alla Turchia hanno leggi ispirate al principio che, se lo Stato, dopo averti inflitto la pena di un processo che non ti sei cercato, ti ha poi assolto, magari con la formula più ampia, ti deve pagare l’avvocato. Sarebbe il minimo sindacale, verrebbe da dire, ma non è così, in Italia. Ne sa qualcosa l’avvocato Giuseppe Melzi, il quale, non solo ha subito una lunga persecuzione e nove mesi di ingiusta custodia cautelare (per la quale attende da due anni e mezzo il risarcimento), ma ha dovuto chiudere un prestigioso studio a due passi dal Duomo, 500 metri quadri e venti dipendenti, per affrontare le spese di giudizio e potersi riprendere la vita, a settant’anni. È nato a Milano in questi mesi il “Comitato contro l’ingiustizia personale e familiare”, promosso e presieduto da Gabriele Albertini, che non solo è stato forse il sindaco più amato della sua città, ma che da parlamentare, rispolverando quella che lui con civetteria definisce sempre una “modesta” laurea in giurisprudenza, ha affrontato il problema delle ingiustizie anche dal punto di vista economico. Il suo disegno di legge, presentato nella diciassettesima legislatura con l’adesione di oltre il 60% dei senatori, modificava l’articolo 530 del codice di procedura penale impegnando il giudice, nella pronuncia di assoluzione dell’imputato, a condannare lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio. Vasto programma, ambizioso e molto coraggioso. Che lo stesso Albertini, cui non è mai mancata la caparbietà, ha riproposto lunedi scorso nella bellissima cornice di Palazzo Visconti a Milano, con il concreto sostegno di due colleghi parlamentari, Enrico Costa, avvocato e Giacomo Caliendo, ex magistrato, già membro del Csm e presidente dell’Anm, il sindacato delle toghe. Tutti e due hanno presentato disegni di legge sull’argomento, anche se il bandolo della matassa ha diversi punti di partenza. Una cosa è chiara: vietato parlare di “ingiusta imputazione”, se no i magistrati si arrabbiano. Ma il protagonista è pur sempre l’imputato che sia stato assolto con sentenza passata in giudicato perché il fatto non sussiste o per non aver commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Ma alla fine, guardando la ratio dei tre disegni di legge, emerge in filigrana il ruolo che i tre, prima di arrivare in Parlamento, hanno svolto nella vita professionale: un imprenditore, un avvocato, un magistrato. È quest’ultimo, ovviamente, il più cauto. Tanto che, laddove Costa nella relazione introduttiva afferma con coraggio che l’esigenza di salvaguardare le finanze pubbliche non potrebbe mai soverchiare il diritto alla difesa e che comunque non potrebbe mai essere un problema di chi ha già sofferto la pena del processo, ecco che Caliendo tende una mano al bilancio dello Stato. E propone un risarcimento senza toccarne le tasche in modo diretto, ma con detrazioni fiscali sul reddito della persona fisica fino alla spesa concorrente di euro 10.500. Ma perché porsi il problema della spesa a carico dello Stato dei casi di “ingiusta imputazione”? Nello Stato di diritto e in un Paese in cui la giustizia funzionasse, dovrebbe essere un problema piccolo, il rimborso delle spese legali. Pure, in una sala in cui sono presenti molti tecnici del diritto, magistrati e avvocati, fanno impressione i dati sciorinati (e non contraddetti da nessuno) dall’avvocato Augusto Colucci. Ogni anno in Italia si aprono circa un milione e duecentomila procedimenti penali. Di questi, tre su quattro finiscono con dichiarazione di non colpevolezza dell’imputato o di prescrizione del reato. In Germania sono ogni anno 500.000 i nuovi processi, che vengono risolti in tre anni e di cui solo il 14% si conclude con un’assoluzione. Il che significa che i pubblici ministeri (e i gip fotocopia) raramente fanno la mossa di lanciarsi in cause avventate che finiranno con l’assoluzione degli imputati o la prescrizione del reato. Forse in Germania o nei Paesi anglosassoni del common law e della discrezionalità dell’azione penale ha minor peso il circo mediatico, come ricorda il giornalista Maurizio Tortorella, uno dei pochi che abbia saputo sottrarsi alla tentazione di acquattarsi sotto la toga del Pm. C’è un problema irrisolto, ricorda, anche nella normativa sulla riparazione per ingiusta detenzione. Perché c’è un momento, quello dell’arresto, in cui la testa ti va da un’altra parte, e magari ti avvali della facoltà di non rispondere o addirittura cadi nell’autocalunnia perché sei stato torturato, come è capitato a Giuseppe Gulotta, che ha scontato da innocente 22 anni di carcere e non avrà diritto a nessun risarcimento. Ma il problema non ha solo risvolti di tipo economico. C’è un dato culturale, nel nostro Paese, difficile da sradicare. Lo abbiamo toccato con mano negli anni successivi al referendum, quando non si è riusciti a fare una decente legge sulla responsabilità civile. E lo stiamo rivivendo mentre si discute della prescrizione dei reati. C’è un soggetto da sempre irresponsabile o non responsabile: si chiama magistrato ed è l’unica vera Casta. L’unico che può trasformare qualunque cittadino in “ingiusto imputato” o “ingiusto detenuto”. E nessuna riparazione economica potrà mai sanare del tutto una ferita così profonda e così estesa. Cosa prevede il Decreto intercettazioni? Trojan e articolo 15 della Costituzione calpestato di Giorgio Spangher Il Riformista, 20 febbraio 2020 La maggioranza ha trovato l’accordo, dopo una giornata di forti tensioni, sulle modiche introdotte al dl n°131 del 2019 in tema di intercettazioni telefoniche con cui erano state modificate le previsioni in materia introdotte dal Dlgs n° 216 del 2017 in attuazione della legge delega di cui alla legge n°103 dello stesso anno. Già questi riferimenti chiariscono il travaglio che ha interessato e continua a interessare la disciplina delle captazioni. Nella formulazione approvata in commissione il termine fissato dalla decretazione di urgenza inizialmente fissato nel 2 marzo è stato ulteriormente prorogato di due mesi in linea con le richieste del Csm. Che peraltro aveva chiesto un termine più lungo. Si tratta dell’ennesima proroga che tuttavia in questo caso si inserisce in una autentica controriforma del dlgs 216 del ministro Orlando. Il primo dato che emerge dalla riscrittura della disciplina riguarda la riassegnazione ai pubblici ministeri del controllo sulle intercettazioni, sulla loro rilevanza ai fini investigativi, sull’archivio, sui tempi del diritto della difesa di venire a conoscenza del loro contenuto e del diritto di copia sottraendolo alla polizia giudiziaria che si limiterà alle esecuzione delle attività di captazione e di ascolto L’ulteriore elemento significativo è il completamento della parificazione dei reati dei pubblici ufficiali e ora anche degli incaricati di pubblico servizio contro la pubblica amministrazione con i reati di criminalità organizzata sia con riferimento ai presupposti sia in relazione alla captazione tra presenti sia in relazione ai provvedimenti d’urgenza sia in relazione con i luoghi dove è consentito l’uso del captatore informatico. Il solo riferimento all’attivita di captazione oblitera tutte le altre funzioni del trojan che continuano a mancare di una specifica disciplina pur nella loro riconosciuta invasività e nel grave pregiudizio arrecato ai diritti costituzionalmente garantiti della persona. Una disciplina particolare è prevista per le intercettazioni poste a fondamento di una misura cautelare. Nonostante l’abrogazione della previsione che consentiva al difensore di fare la trasposizione su nastro delle registrazioni deve ritenersi operante la declaratoria di incostituzionalità che consente alla difesa di chiedere all’accusa copia delle registrazioni poste a fondamento dell’ordinanza mentre resta incerta la conoscenza delle intercettazioni che il Gip ha ritenuto irrilevanti ancorché trasmesse con la richiesta cautelare. Deve invece escludersi l’accesso all’archivio per l’ascolto di quanto depositato. L’aspetto fortemente critico e inaccettabile - stando a quanto era emerso ieri dall’emendamento Grasso poi solo in parte modificato con un subemendamento - è costituito non solo dalla possibile utilizzazione delle intercettazioni per un fatto che non avrebbe consentito l’intercettazione perché non ricompreso fra i reati per i quali l’intercettazione è consentita. E ancora, in mancanza dei presupposti per l’autorizzazione (gravi indizi e assoluta necessità della prosecuzione delle indagini) anche dall’ampliamento della cosiddetta pesca a strascico. A conferma che non c’è niente da fare e che le logiche punitive non si fermano neppure a fronte delle sentenze delle sezioni unite appena pubblicate (2 gennaio) si è cercato di modificare la disciplina dell’utilizzabilità delle captazioni in un diverso procedimento superando il vincolo della commissione. La mediazione raggiunta è insoddisfacente perché i due vincoli indicati (reati intercettabili e arresto in flagranza) consentono una piena utilizzazione probatoria che consente di avviare l’attivita investigativa per un reato e acquisire elementi di altri reati del tutto estranei all’attività di indagine. Ancora più grave quanto previsto con l’uso del captatore attivato per reati di criminalità organizzata e per i reati contro la pubblica amministrazione che consente di usare come prova i risultati dell’intercettazione per qualsiasi altro reato di criminalità organizzata e di criminalità economica. Si consideri cosa tutto ciò può significare con riferimento a intercettazioni ambientali in qualsiasi posto effettuate, compresi i luoghi di privata dimora. È difficile non vedere in queste norme un pesante pregiudizio per i diritti costituzionalmente garantiti che mettono a rischio la riservatezza del domicilio anche perché non c’è garanzia di diffusione di quanto captato anche se estraneo alle indagini e riguardante dati soggettivamente sensibili. Articolo 15 Costituzione – “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. Orlando: “Per una giustizia rapida, processi telematici e investimenti sulla formazione” di Stefano Vespa partitodemocratico.it, 20 febbraio 2020 L’intervista al vicesegretario del Pd e ex ministro della Giustizia. La lunghezza media dei processi non è eccessiva, ma ci sono casi patologici: “Conta l’organizzazione degli uffici e le correnti della magistratura qualche volta non hanno scelto i capi migliori”. Andrea Orlando, 51 anni, vicesegretario del Pd ed ex ministro della Giustizia, non si nasconde sul tema del giustizialismo, “cavallo di battaglia” del Movimento Cinque stelle, “ma vizio trasversale alla politica, compreso il Pd”, e lancia una proposta sulla legge elettorale: se si arrivasse a un proporzionale sul modello tedesco, “perché non inserire anche sfiducia costruttiva e cancellierato?”. Ma il vero problema è la lunghezza dei processi o la certezza della pena? Negli ultimi 20 anni c’è stato un aumento dei detenuti, si confonde la natura della pena con la certezza. Sono previsti dei benefici, ma ridurli significherebbe entrare ancora più in conflitto con l’articolo 27 della Costituzione - pena tesa alla rieducazione - e il sistema sarebbe ingestibile. Abbiamo tra i 15 e i 20 mila detenuti in più di quelli che possiamo ospitare dignitosamente. Per realizzare un carcere servono sei o sette anni e bisogna chiedersi se è necessario o se non si possa intervenire con pene alternative come nel resto d’Europa. Una pena scontata con lavori di utilità non è incerta. I processi però sono lunghi... Con tre gradi di giudizio, ai quali non rinuncerei, la media non è lunghissima tenendo conto della complessità di molti di essi come quelli per mafia, anche se potrebbe migliorare parecchio (sette anni compresa la Cassazione), ma ci sono numerosi casi patologici. Molto dipende dall’organizzazione: il “correntismo” della magistratura non sempre ha scelto i capi più bravi dal punto di vista organizzativo. Servirebbero sanzioni nel caso di inerzia della pubblica accusa: bisogna responsabilizzare e imporre una perentorietà dei termini. Inoltre, incide il perimetro della materia penale. Bisogna “disboscare” le norme? C’è stata un’ipertrofia: si è trasformato in illecito penale figure che potevano essere sanzionate amministrativamente. Con l’obbligatorietà dell’azione penale tutto si ingolfa eppure si scatenò una guerra quando, da ministro, eliminai alcuni illeciti penali che prevedevano una sanzione pecuniaria trasformandoli in illeciti amministrativi. Il vicepresidente del Csm, David Ermini, al Messaggero ha detto no alle riforme spot auspicando un percorso condiviso. È realistico? Corrisponde al suo ruolo istituzionale, ma irrealistico: il diritto penale è una delle poche potestà di competenza esclusiva degli Stati nazionali e la politica di fatto mantiene il potere esclusivo solo in quell’ambito perché i grandi temi, dall’economia alle comunicazioni, sono diventati sovranazionali o addirittura sfuggono ai poteri pubblici. Si crea quindi un’attenzione morbosa verso il penale, in particolare da parte del populismo. La politica debole finge così di essere forte. Qual è la visione di giustizia del Partito democratico? L’attuazione della Costituzione: un sistema che garantisce l’assenza di impunità grazie all’autonomia della magistratura e che offre garanzie robuste, ma oneroso sia in termini finanziari che per i tempi del processo che implicano una manutenzione costante. Se vogliamo una giustizia rapida, anche come risposta all’emotività della società digitale, serve un processo telematico, con investimenti sulla formazione del personale e una magistratura più consapevole della delicatezza del suo ruolo. Viste le tensioni con il Movimento Cinque stelle, c’è un problema giustizialismo, un mettere in secondo piano la presunzione di innocenza? I Cinque stelle ne hanno fatto un cavallo di battaglia, ma è un vizio trasversale. La tentazione di usare una vicenda giudiziaria per fare lo sgambetto all’avversario non è mai stata evitata del tutto da nessuno. Quindi il garantismo è solo teorico? Assolutamente. Potrei elencare casi nei quali anche il Pd ha usato toni giustizialisti, perfino Forza Italia ha avuto momenti nei quali è “slittata la frizione”, come nella vicenda Bibbiano. Invece dovremmo avere rispetto delle vicende processuali anche perché il processo mediatico è un’ulteriore tentazione per la politica. Mi onoro di non aver mai esultato per una sentenza e tantomeno per un avviso di garanzia o un rinvio a giudizio. Quando la giustizia funziona parla da sola. L’8 febbraio, giorno del suo compleanno, lei si è regalato un post su Facebook nel quale l’innominato era Matteo Renzi che non pose la prescrizione come pregiudiziale alla nascita del Conte II, mentre ora s’impunta. Puntiglio o una visione diversa? Non ci sono differenze di principio, ma c’è ricerca di visibilità, altrimenti non passerebbe sotto silenzio la discussione sul decreto intercettazioni: se il tema fossero veramente le garanzie, è incredibile che si discuta solo della prescrizione e non delle intercettazioni che hanno rovinato delle esistenze a persone estranee ai processi. La Procura di Trieste due o tre anni fa ha scoperto che una società aveva duplicato le conversazioni poi conservate su un server privato. Non interessa alle falangi garantiste? Ci sono polemiche sul software trojan regolato dal decreto intercettazioni. È stato un errore aver accettato quella norma? Il trojan è una tecnologia finora usata senza alcuna disciplina, quindi il decreto, comunque lo regoli, ne restringe l’utilizzo. Le procure sono attrezzate digitalmente? Hanno fatto passi avanti, poi hanno rallentato perché il ministro aveva fatto capire che non se ne sarebbe fatto nulla ed è stato un errore. Se si fa una digitalizzazione seria, diventa tracciabile anche il percorso di fuga delle notizie e non so se è conveniente per tutti perché è un mercato che ha creato molte rendite. Si rischia un cortocircuito tra politica e giustizia come negli anni Novanta tra polemiche, processi a Matteo Salvini e altro? Avevamo una politica molto delegittimata e una magistratura molto legittimata. Oggi, purtroppo, la politica non si è particolarmente rilegittimata, ma in compenso la magistratura ha perso molto prestigio. L’idea che si possa delegarle un ruolo politico credo sia tramontata. Allargando il discorso, anziché di “agenda 2023” non sarebbe più realistico parlare di “1° agosto 2021”, quando comincerà il semestre bianco? Dobbiamo avere un’ambizione alta: l’argomento che non si può utilizzare è che si possa fare una coalizione solo per battere la destra. Il tema della “missione” diventa fondamentale. Anche se si dovesse arrivare solo ad agosto 2021, lo sguardo va tenuto al 2023: se non c’è un respiro lungo non si riesce neanche ad affrontare il medio periodo. L’idea di Giancarlo Giorgetti su un tavolo costituente merita sostegno, anche se il suo leader Salvini non sembra d’accordo? L’ostacolo principale mi pare proprio Salvini. Sulla legge elettorale vogliamo discutere e sarebbero maturi i tempi per “sistemare” il quadro istituzionale. Per esempio: se si andasse verso una legge di tipo tedesco con uno sbarramento al 5 per cento, perché non cogliere le cose positive che ci sono in Germania come la sfiducia costruttiva o l’introduzione del cancellierato? Il sistema non sarebbe stravolto, ma acquisterebbe la stabilità che in parte perderebbe rinunciando al maggioritario. Potrebbe essere un tema condiviso. Gli avvocati di Napoli sfidano Davigo: “La Costituzione ci dà pari dignità” di Errico Novi Il Dubbio, 20 febbraio 2020 Il togato del Csm ha accolto l’invito dell’ordine partenopeo. Il dibattito ha svelato nell’articolo 111 la vera radice del conflitto. Milano è Milano. Ma Napoli è Napoli. Sempre. Lo capisci se entri nella Biblioteca di Castelcapuano. Sembra d’oro massiccio. Invece sono libri, dorsi di “cinquecentine” preziosissime. Un tempio, una cattedrale del sapere nella città che può considerarsi tra le capitali della scienza giuridica. Milano è Milano perché lì tutto è iniziato, compresa Mani pulite, ed era forse fatale che il conflitto fra Piercamillo Davigo e l’avvocatura giungesse al suo esito più estremo con l’uscita dei penalisti milanesi dall’aula dell’anno giudiziario quando ha preso la parola l’ex pm del “Pool”. Ma Napoli è Napoli perché se si legge la delibera approvata lo scorso 3 febbraio dal Consiglio dell’Ordine forense partenopeo ci si accorge che, dopo la durezza dei toni sfoderati contro le scomuniche davighiane all’avvocatura (dalla “tassa” sui ricorsi in Cassazione al forfait per retribuire il patrocinio a spese dello Stato ed evitare che il difensore proponga “atti inutili per incassare di più”…), si arriva al seguente finale: “È per tali motivi che il Consiglio dell’Ordine di Napoli invita il Dottor Piercamillo Davigo a un confronto diretto da tenersi nel pieno contraddittorio, finora violato”. Non si chiede l’impeachment. Si dice: vieni che parliamo. Così si è arrivati all’incredibile giornata dell’altro ieri pomeriggio nella biblioteca delle meraviglie di cui sopra, a Castelcapuano. Nella sala delle cinquecentine dorate martedì c’erano qualcosa come 500 persone, forse più, avvocati ma non solo. Il presidente del Coa Antonio Tafuri è riuscito a convincere Davigo a prendere sul serio l’invito di quel verbale: “Gli ho inviato la delibera per mail e lui ha accettato volentieri”, spiega il presidente degli avvocati partenopei. Certo, se a Milano erano usciti dall’aula magna, a Napoli Tafuri e gli altri consiglieri si erano presentati nell’altrettanto solenne Sala dei Baroni con le manette ai polsi. Il derby Milano-Napoli è sempre ad alti livelli. Ma di alto livello, non foss’altro per aver saputo restituire la distanza reale, ontologica fra avvocatura e Davigo, è stato anche il dibattito napoletano di due giorni fa su “Riforma e ragionevole durata del processo penale”. Tafuri lo ha introdotto così, con parole chiare: “È sempre meglio parlarsi mentre ci si guarda negli occhi”. E c’è un’altra sua notazione, che con lungimiranza coglie il senso ultimo del contrasto fra il presidente della seconda sezione penale della Cassazione e il mondo forense: “Il sistema penale assegna all’avvocatura una condizione paritaria rispetto all’accusa. E la parità nel contraddittorio a nostro giudizio deve valere anche per i convegni”. Ecco perché per gli avvocati napoletani era importante invitare proprio chi, come Piercamillo Davigo, è così scettico sul modello processuale accusatorio che ha stabilito proprio quella parità. Certo la sfida è impari sul piano ambientale. Ovvio che in platea non manchino i magistrati, ma la controparte processuale, cioè gli avvocati, sono altrettanto inevitabilmente in netta maggioranza. E nei momenti più aspri della temeraria, e a suo modo coraggiosa, requisitoria di Davigo, rumoreggiano, non senza motivo. Una cosa appare evidente: il togato del Csm non ama l’eccezionalità della giustizia e della Costituzione italiana. “Una prescrizione quale la nostra esiste solo in Grecia. Vorrà dire qualcosa se in Germania non c’è, non c’è negli Stati Uniti e neppure in Francia, che è la culla dei diritti umani? O dobbiamo pensare che gli altri sono tutti barbari”. A Davigo non suona, evidentemente, che processi lunghi come i nostri richiedano un argine, ma neppure che il robusto impianto delle nostre garanzie custodisca una sapienza e una civiltà superiori. Rimpiange il modello inquisitorio, Davigo, anche se non lo dice mai. “Hanno cancellato l’introduzione del pm che consentiva al giudice di farsi un’idea, e di poter capire ad esempio chi, nelle fluviali liste di testimoni, servisse davvero al processo”. Come a dire che gli avvocati hanno sempre il modo di far perdere tempo persino quando il tempo è in mano al giudice. E del fatto che la prova debba rivelarsi nel contraddittorio fra le parti, e non da una traccia segnata preventivamente dall’accusa, non interessa. Il professor Vincenzo Maiello, colonna della Federico II ma anche delle battaglie dell’Unione Camere penali, decostruirà poco dopo gran parte delle accuse di Davigo al codice Vassalli. Il punto è che, pressato dal brusio avverso e da un clima oggettivamente da trasferta, il togato infila qua e là qualche passaggio davvero urticante per gli avvocati. Che, dice, “quando si comportano correttamente ci aiutano a non sbagliare”. Apriti cielo: come se di prassi fossero dei treccartari. Siamo sempre lì. Il clima si arroventa del tutto quando il consigliere Csm sostiene che “le sanzioni europee per il trattamento inumano nel nostro sistema penitenziario sono nate anche dai discutibili parametri seguiti dall’Italia nel calcolare lo spazio medio per detenuto, assimilato a quello delle private abitazioni. È vero che alcune nostre carceri sono sovraffollate e cadenti, ma sul piano generale il significato dei dati è stato alterato”. Rivolta in platea. Ma Davigo, con una fermezza di approccio che, vale la pena ripeterlo, è comunque da apprezzare, si chiede “come mai vogliano restare da noi anche i detenuti stranieri provenienti da quei Paesi con i quali pure esisterebbe l’accordo per il rimpatrio: succede con l’Albania, per esempio”. Il brusio rischia di trasformarsi in invettiva: certo non ci si può consolare se le galere del terzo mondo sono persino peggiori delle nostre. Ma a parte passaggi del genere che suonano davvero come provocazioni, Davigo finirà per spostarsi più sul discorso general comparativo che sul terreno delle riforme contingenti, preferito invece non solo da Maiello ma anche dagli altri interlocutori. Il consigliere Csm cita un esempio dell’ordinamento francese censurato dalla Cedu per ricordare che “una vittima non può avere solo il diritto al risarcimento civile, secondo Strasburgo vanta anche quello di veder punito il suo carnefice”. Ma è nel pretendere una comparazione con “il processo civile, in cui la prescrizione non interviene” che affiora la sottovalutazione di una potestà punitiva pubblica senza limiti e perciò autoriaria. Davigo insiste sulla prima sentenza Taricco, e sottovaluta troppo la seconda, per dire che “dobbiamo guardare anche lontano da noi, quando insistiamo nel considerare la prescrizione immodificabile”. E qui a scorgere la chiave più illuminante è il giornalista chiamato a governare l’eccellente dibattito, non un moderatore qualsiasi: il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano. Che, dopo aver citato Toqueville e Bobbio, ricorda quanto sia “a volte fuorviante l’ispirazione a modelli stranieri: il Giappone è il Paese col senso civico forse più sviluppato al mondo ma, storia di pochi giorni fa, è ancora capace di eseguire condanne a morte dopo aver tenuto 40 anni una persona dietro le sbarre”. Ci vorrebbe più amore per la giustizia italiana, per quanto impegnativa ed estenuante possa essere. Chissà che gli avvocati, magari proprio gli avvocati di Napoli, non abbiano aperto una breccia nel cuore dell’irriducibile Davigo. Nozione di “persona incaricata di pubblico servizio”. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2020 Reati contro la pubblica amministrazione - Università e fondazioni - Università telematica - Natura pubblica dell’ente fondazione - Persona incaricata di pubblico servizio -Articolo 357, cod. pen. - Configurabilità - Fattispecie. Il riconoscimento di incaricato di pubblico servizio non si fonda su un canone di tipo soggettivo, implicante la verifica della natura pubblica dell’ente e del rapporto che lega il soggetto all’ente, bensì su un criterio oggettivo connesso alla natura delle funzioni in concreto svolte a prescindere dal fatto che possano assumere forma privatistica. Ai sensi dell’articolo 357, secondo comma cod. pen. il pubblico servizio si distingue per essere disciplinato da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi pur non essendo connotato da poteri autoritativi o certificativi. (Nell fattispecie è stato possibile contestare il delitto di peculato un membro del consiglio di amministrazione di un’università telematica emanazione di una Fondazione di un’università costituita a sua volta per le finalità dell’università pubblica e disciplinata dal DPR n. 254 del 2001 in relazione all’art. 59 della L. n. 388 del 2000 alla stregua del quale la fondazione poteva istituire autonome iniziative didattiche telematiche). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 5 febbraio 2020, n. 4952. Reati contro la pubblica amministrazione - Nozione di persona incaricata di un pubblico servizio - Soggetti inseriti nella struttura organizzativa di società per azioni - Qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio - Fattispecie. I soggetti inseriti nella struttura organizzativa e lavorativa di una società per azioni possono essere considerati pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, quando l’attività della società medesima sia disciplinata da una normativa pubblicistica e persegua finalità pubbliche, pur se con gli strumenti privatistici. (Fattispecie in cui la Corte ha riconosciuto la qualifica di pubblici ufficiali ai funzionari della Consip s.p.a., in considerazione della dimensione pubblicistica delle attribuzioni funzionali e delle correlative attività svolte, finalizzate alla gestione e controllo da parte della P.A. di una pluralità di commesse nell’interesse e a vantaggio di diverse e molteplici amministrazioni aggiudicatrici). • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 25 luglio 2017 n. 36874. Reati contro la pubblica amministrazione - Nozione di pubblico ufficiale - Qualifica soggettiva di incaricato di pubblico servizio - Funzionari di società private operanti nei c.d. settori speciali - Sussistenza. I funzionari dipendenti di società operanti nei c.d.settori speciali (nella fattispecie quello dell’energia), sono incaricati di pubblico servizio ai sensi dell’articolo 358 cod.pen., atteso il rilievo pubblicistico dell’attività svolta da dette società, obbligate ad adottare la procedura di evidenza pubblica nella gestione degli appalti. (In motivazione la Corte ha chiarito che l’obbligatorietà della procedura di evidenza pubblica è indice sintomatico del rilievo pubblicistico dell’attività svolta dalla società, in quanto la sua previsione presuppone la necessità ed il riconoscimento che una determinata attività, relativa a settori strategici per gli interessi pubblici di uno stato, sia sottoposta ad un regime amministrativo che assicuri la tutela della concorrenza assieme all’imparzialità della scelta del soggetto aggiudicatario). • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 7 luglio 2016 n. 28299. Reati contro la pubblica amministrazione - Persona incaricata di pubblico servizio - Soggetti inseriti nella struttura organizzativa di società per azioni - Qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio - Fattispecie. Ai fini della configurazione del reato di peculato, i soggetti inseriti nella struttura organizzativa e lavorativa di una società per azioni possono essere considerati pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, allorquando la ragione d’essere della società medesima risieda nel generale perseguimento di finalità connesse a servizi di interesse pubblico, a nulla rilevando che dette finalità siano realizzate con meri strumenti privatistici. (Fattispecie nella quale la Corte ha riconosciuto la qualifica di incaricato di pubblico servizio al presidente di una società per azioni, operante secondo le regole privatistiche ma partecipata interamente da un comune, avente ad oggetto la gestione di servizi di manutenzione del verde pubblico e dell’arredo urbano). • Corte di Cassazione, sezione VI, sentenza 14 gennaio 2016 n. 1327. Pavia. Detenuto 54enne si uccide nel carcere di Torre del Gallo La Provincia Pavese, 20 febbraio 2020 Stava scontando una condanna a 20 anni per un duplice delitto commesso due anni fa a Cremona: il 24 gennaio 2018 Wu Yongqin, cinese di 54 anni, aveva ucciso sua moglie Chen Aizhu, di 46 anni, e un bambino di soli 3 anni, figlio di amici, che la donna accudiva come baby-sitter. L’uomo si è tolto la vita nel carcere di Torre del Gallo, a Pavia, nel quale era detenuto. Si è tolto la vita impiccandosi domenica 16 febbraio. Il suo corpo senza vita è stato ritrovato dagli agenti della Polizia penitenziaria. La direzione della Casa circondariale ha comunicato la notizia all’avvocato dell’uomo. Il duplice omicidio era avvenuto nella casa del 54enne cinese, in via Fatebenefratelli a Cremona. Wu Yongqin era stato processato il 14 marzo dello scorso anno con rito abbreviato. Parma. Raffaele Cutolo ricoverato d’urgenza in ospedale per una crisi respiratoria di Valerio Papadia fanpage.it, 20 febbraio 2020 Si aggravano le condizioni di salute di Raffaele Cutolo: il boss della Nuova camorra organizzata, che ha insanguinato le strade di Napoli e della provincia soprattutto negli anni Ottanta, è stato trasferito d’urgenza all’ospedale di Parma, proprio per il peggioramento della sua salute; non è chiaro, però, lo stato attuale delle condizioni del boss di Ottaviano e dell’area vesuviana. Cutolo è detenuto proprio nel carcere di Parma: condannato a 4 ergastoli, si trova dal 1995 in regime di carcere duro. Il legale di Cutolo, l’avvocato Gaetano Aufiero, ha preparato istanza per chiedere che la moglie e la figlia del boss possano fargli visita in ospedale: “Ieri ho riscontrato da parte de carcere e da parte dell’ospedale grandissima civiltà e disponibilità a fornirmi le notizie ho poi comunicato ai familiari” ha detto l’avvocato. Lo scorso settembre, inoltre, a quanto apprende Fanpage.it, il legale ha impugnato il regime di 41 bis ed è in attesa che il Tribunale del Riesame di Roma fissi una udienza. La scorsa estate, intervistato dal quotidiano Il Mattino, era stato proprio Raffaele Cutolo a parlare della sua detenzione e del regime carcerario del 41 bis al quale è sottoposto, come detto, dal 1995: “Ho sbagliato, lo riconosco, ma che senso ha ridurmi in questo stato?” aveva dichiarato il boss della Nuova camorra organizzata. In segno di protesta, nel corso della intervista Cutolo aveva riferito anche di aver rinunciato all’ora d’aria. Catanzaro. “Viaggio in Italia”, la rieducazione spiegata ai giovani di Nunzio Raimondi* Corriere della Calabria, 20 febbraio 2020 Nella dinamica storica della nostra Repubblica democratica non c’è un organo costituzionale che ha dato miglior prova di efficacia dell’azione e perfetto funzionamento, come la Corte Costituzionale. Divenuto operativo, dopo l’entrata in vigore della Carta, con un considerevole ritardo, quest’organo costituzionale sembra tuttora essere quello nel migliore stato di salute fra quelli che compongono il corpo giuridico e sociale del Paese. Ancora di recente la Corte ha, infatti,dato prova di saper intervenire con efficacia in materia di diritti e segnatamente, sul tema della progressività trattamentale in carcere,un tema che ha fatto da sfondo anche a questa iniziativa dell’Anm, su scala nazionale, che ha affrontato da vicino, in unità fra teoria e pratica (secondo l’insegnamento di Savigny), il pilastro della visione costituzionale del carcere, che è poi la funzione rieducativa della pena. Ecco, in questa marea montante della concezione neoretributiva, espressione di istanze populiste che dominano da tempo la vita del nostro Paese, non è certo cosa da poco che la Corte incontri il carcere per sottolineare che dietro le sbarre pulsa un’umanità dolente che anela a recuperare quote di libertà in ragione dei progressi compiuti attraverso l’osservazione durante il trattamento e,sopratutto, guardando alla partecipazione del detenuto all’opera di rieducazione. E trovo l’iniziativa, voluta dal Presidente (oggi emerito) Giorgio Lattanzi, assai suggestiva della rigidità dell’indice che la Carta pone a base della valutazione del condannato: non quello presuntivo della cessata pericolosità, sopratutto agganciato a parametri probatori esterni, ma proprio quello della progressione trattamentale non svincolata dalla (anzi incentrata sulla) rieducazione del condannato. Nell’ambito dell’esecuzione penale non si può,infatti,operare ancorando il giudizio a dati che prescindono dall’osservazione del condannato,dalla sua voglia di riscatto attraverso il trattamento. Così lo Stato vince in misura che non patteggia, non ricatta, non chiede collaborazione in cambio di benefici… ma lavora sul recupero del detenuto ad un rapporto attivo con la comunità dalla quale, col reato, si è potentemente allontanato. A me pare che il film proiettato ieri all’Auditorium Casalinuovo di Catanzaro - e così autorevolmente commentato - dica in fondo questo: lo Stato democratico non cerca scorciatoie e si concentra, con grande fatica, sul recupero sociale del condannato; esso non conosce la vendetta. *Avvocato Genova. Frontiere, sbarre e immigrazione. La lezione nel carcere di Marassi di Erica Manna La Repubblica, 20 febbraio 2020 Nel penitenziario sono attive le classi di grafica dell’istituto Ruffini e il corso per odontotecnici del Gaslini. Nell’ambito del progetto “Libriamoci” un incontro su “La finestra sul mondo: perché leggere i giornali”. Raccontare la frontiera al di là del muro più impenetrabile: quello del carcere. Discutere di immigrazione, e di come i media trattano questi temi: a studenti che certe semplificazioni, e contraddizioni, le hanno vissute sulla propria pelle. “Anni fa il diverso ero io, che vengo dall’Albania. Adesso è il nero, l’invasore: quasi mi sento discriminato!” “Io sono nigeriano. Quando esci dai percorsi di accoglienza sei solo, non hai soldi, non hai dove dormire. Eppure non hai fatto quel viaggio per niente, ti aspetti di guadagnare”. Marassi: voci degli studenti, seconda sezione. L’incontro di Repubblica con gli allievi dell’Istituto Emanuele Ruffini, detenuti nella casa circondariale che frequentano dalla prima alla quinta superiore, avviene nell’ambito di “Libriamoci a scuola”, progetto del Centro per il libro e la lettura promosso in tutta Italia. Il filone scelto dall’insegnante di Italiano e Storia, Tania Del Sordo, è “La finestra sul mondo: perché leggere i giornali”. Il lavoro prende spunto dal libro “La frontiera” di Alessandro Leogrande. In classe, gli studenti hanno letto anche alcuni articoli di Repubblica: racconti da Ventimiglia, servizi dai centri di accoglienza a Genova e in Liguria. Ci sono state discussioni, anche accese. “In classe si tende a riprodurre una divisione e una diffidenza reciproca basata su gruppi etnici - racconta la professoressa Del Sordo - e portare messaggi alternativi non è facile: spesso per loro è destabilizzante”. La frontiera è mobile: è il termometro del mondo, come scriveva Leogrande. Anche la Liguria ha il suo imbuto, la sua Lampedusa del nord: Ventimiglia, i respingimenti da parte francese, le tensioni al campo Roja. In aula si ripetono i numeri, per contestualizzare il tema: in Liguria sono circa 9 su cento i cittadini stranieri residenti, nonostante l’eco mediatica del tema, come registra il rapporto dell’Associazione Carta di Roma. E ancora: le conseguenze del decreto sicurezza, con lo smantellamento del sistema Sprar, ora Siproimi, i casi recenti di Sori e di Recco. Gli studenti ascoltano, discutono, fanno domande. In aula ci sono italiani, tunisini, albanesi, nigeriani. Si riflette sui tempi lunghi dell’esame delle richieste di asilo. Ci si interroga sul fatto che tanti fuggono dalla fame, non dalla guerra, e per questo rischiano di vedere la propria domanda respinta. Qualcuno confessa il sogno di trovare una realtà diversa in Italia, dopo il lungo viaggio dall’Africa: racconta della necessità di guadagnare velocemente, del facile rischio di scivolare nella criminalità. In aula c’è anche Mirella Cannata, anima di Teatro necessario onlus, che nella seconda sezione tiene il corso di arte: in questi giorni sono in corso al Teatro dell’Arca - esempio pionieristico di palcoscenico costruito da zero all’interno di una casa circondariale - le prove per il nuovo spettacolo, “Profughi da tre soldi”, da Brecht. Di nuovo, il tema caldo dell’immigrazione. A Marassi, dove il sovraffollamento è al 139 per cento, come si legge nell’ultimo rapporto di Antigone, la scuola prova a offrire un futuro in un contesto difficile. Qui si trovano le classi di grafica dell’Istituto Ruffini, anche accorpate, perché le iscrizioni avvengono in base alla domanda dei potenziali studenti. Poi ci sono quelle del Corso professionale odontotecnico e ottico Gaslini Meucci, e ancora la prima alfabetizzazione. Qualcuno è anche iscritto all’Università. “È un carcere di transito, c’è chi arriva e chi esce, e questo rende più difficile la didattica - spiega la professoressa Del Sordo - non è facile, poi, trovarsi con persone che hanno preparazioni così diverse alle spalle. Si naviga a vista, giorno per giorno”. Per provare a incrinare questa frontiera. Attraverso l’arma più potente: la cultura. Alessandria. In dono ai detenuti 400 paia di occhiali usati rigenerati La Stampa, 20 febbraio 2020 Iniziativa del Lions club in collaborazione con l’Asl per i reclusori di piazza Don Soria e di San Michele. Quattrocento paia di occhiali rigenerati sono stati donati dal Lions club per essere destinati ai detenuti delle due carceri alessandrine: il reclusorio di piazza Don Soria e quello di San Michele. L’iniziativa è in collaborazione con l’Asl. Gli occhiali provengono dal “Centro italiano Lions occhiali usati” di Chivasso, che è uno dei tre centri europei (sono 18 in tutto il mondo) che, spiegano i promotori, “gestisce a livello nazionale la raccolta, la rigenerazione, la classificazione (individuandone la gradazione), la confezione singola e la redistribuzione, anche a livello internazionale, di occhiali usati”. Il centro di Chivasso, di cui sono responsabili Franco Guerra e Luisa Minella, ogni anno rigenera o ricicla (nel caso gli occhiali non siano più riutilizzabili) oltre 350.000 occhiali frutto della raccolta effettuata attraverso la rete dei nei negozi di ottica. Alla cerimonia di consegna sono intervenuti il governatore del Distretto Lions Alfredo Canobbio, il presidente del Lions Tortona Host, Beniamino Palenzona, quello del Lions Alessandria Marengo Host, Walter Giacchero, la direttrice del casa di reclusione di San Michele, Elena Lombardi Vallauri, e il direttore del Distretto Asl di Alessandria Valenza, Roberto Stura. Genova. “Questa nave trasporta carri armati ed esplosivi dalla Turchia alla Libia” di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 20 febbraio 2020 Arrestato il comandante libanese del cargo Bana. La procura ligure lo accusa di traffico internazionale d’armi. Testimone, un ufficiale libanese: “Li abbiamo caricati a Mersin, in Turchia, con razzi e mitragliatori, e scaricati a Tripoli”. I verbali. Secondo i documenti di bordo la nave doveva trasportare automobili radiate. Ma da quanto ha raccontato e documentato un ufficiale dell’equipaggio, le cose stavano diversamente. Le vetture, destinate ai mercati del Nord Africa e del Libano, sarebbero state una copertura perché nella stiva c’erano carri armati, mitragliatrici, lanciarazzi ed esplosivi. “Li abbiamo caricati a Mersin, in Turchia - ha messo a verbale l’ufficiale, una volta sceso a terra al porto di Genova - In Turchia siamo stati due giorni. Poi siamo salpati per la Libia e abbiamo scaricato tutto nel corso di una nottata a Tripoli”. Il comandante del cargo libanese Bana, Joussef Tartoussi, 54 anni, di Beirut, è stato così arrestato a Genova per traffico internazionale d’armi. Mentre il testimone è ora sotto protezione in una località segreta. Sulle ragioni della sua spontanea collaborazione, al momento nulla è dato sapere anche se lo scenario sembra quello di una spy story. Il resto dell’equipaggio, una ventina di marittimi, sono invece rimasti in porto a Genova, a disposizione degli inquirenti. “Ecco cosa c’era nella stiva” - Polizia di frontiera e Digos, coordinati dai Pm della Dda Marco Zozzo e Maria Chiara Paolucci, hanno sentito più volte il supertestimone. “Ho visto carri armati con cannoni e altri più piccoli senza cannoni. Ho visto camion Mercedes militari, alcuni dei quali dotati di radar. Nei mezzi c’erano anche delle grandi borse. Un soldato turco mi ha detto che contenevano uniformi militari. Ho visto anche molti sacchi a pelo. Tutte queste cose erano sulla rampa. Nel garage c’erano jeep Mercedes con cannoni anticarro, container con un triangolo giallo e la scritta esplosivo, oltre a mitra, cannoni e razzi...”. A suo dire, le tappe in Turchia e poi in Libia non erano previste. Il porto d’arrivo era Genova, dove il cargo avrebbe caricato automobili da portare in Nord Africa e in Libano. “Gli agenti controllavano a vista” - Il tutto, sempre secondo l’ufficiale libanese, era controllato a vista da una decina di agenti turchi, alcuni militari, altri dei servizi segreti. “Hanno viaggiato con noi fino alla Libia e stavano nel garage vicino ai carri armati... Non erano armati e quando stavano all’interno dei garage non indossavano l’uniforme ma se vedevano qualcuno che usava il telefonino glielo prendevano”. La navigazione e l’approdo in Libia. “Dopo essere arrivati a Tripoli nel pomeriggio, abbiamo attraccato... Hanno aperto la rampa e hanno detto a tutti di andare a dormire nelle nostre cabine”. “Mentite sulla Libia” - L’ufficiale turco ha anche rivelato che il comandante avrebbe suggerito all’equipaggio di mentire sulla sosta in Libia. “Dite che lo scalo a Tripoli si è reso necessario a causa di un’avaria”. Il sospetto degli inquirenti è che la nave, oggi attraccata al porto di Genova e con la stiva vuota, abbia effettuato più di qualche viaggio fra Turchia e Libia, sempre per trasportare armamenti. “Il comandante, in concorso con altre persone da identificare, tra le quali militari turchi, hanno portato illegalmente in acque internazionali e poi in Libia, dunque in luogo pubblico, con la Bana, un numero imprecisato di armamenti, ceduti a Tripoli a persone non identificate”. Traffico non autorizzato, naturalmente, “e comunque non previsto e non concedibile in virtù del divieto assoluto previsto dalla legge in caso di embargo totale dell’Onu”, scrivono gli inquirenti ricordando che la fornitura è stata fatta in aperta violazione del “cessate il fuoco” esistente in Libia. Le accuse e Haftar - In passato la nave è stata nel mirino del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Un paio d’anni fa avrebbe trasportato pick up blindati a Tobruch, comprati dalle milizie. La Marina francese di recente ha poi confermato che una fregata turca aveva scortato il 29 gennaio una nave con a bordo blindati per il trasporto truppe a Tripoli, confermando così certe accuse dei media vicini al generale Haftar. Privacy e Comunicazioni, autorità scadute e prorogate, senza garanzie di indipendenza di Tommaso Frosini Il Dubbio, 20 febbraio 2020 Autorità senza autorevolezza. È questa una sintesi semplificata della situazione in cui rischiano di trovarsi, da quasi un anno, due autorità amministrative indipendenti: l’autorità garante della privacy e quella delle comunicazioni. Infatti, da meno di un anno entrambi i presidenti e gli otto componenti (quattro per autorità) sono scaduti dal mandato e il Parlamento non sembra intenzionato a sostituirli. Addirittura e opportunamente, nel caso della privacy, venne aperta una manifestazione di interesse online, sui siti web di Camera e Senato. Arrivarono 300 e oltre curricula. Salvo che dopo il termine di chiusura venne inopinatamente riaperta la call, probabilmente per consentire a qualche “ritardatario” di presentare anch’egli il suo curriculum. Circolano tanti nomi di possibili presidenti e commissari ma la regola, in questi casi, è proprio di evitare di fare circolare il nome giusto per “non bruciarlo”, come si dice. Questa la parte colorita della vicenda. Poi c’è la parte in chiaroscuro, che riguarda la natura e la funzione delle autorità. Che rappresentano e manifestano la vera crisi della rappresentanza politica. La quale ha abdicato al compito di normare su settori strategici della convivenza sociale ed economica delegando a delle autorità, di cui però si cerca di mantenere il controllo attraverso la scelta dei componenti. Si pensi al settore delle comunicazioni, dove ormai tutto viene deciso dall’autorità (Agcom) attraverso una normativa tecnica fatta di delibere, circolari, raccomandazioni che hanno una forza imperativa maggiore della legge. E poi ancora, le sanzioni economiche, che possono essere emesse nei confronti degli operatori del settore, anche di assai rilevante entità. Per questa sua attività di tipo para- legislativo e para- giurisdizionale, oltre a quella amministrativa riconosciutagli già nella qualificazione dell’organo, hanno acquisito una legittimazione di fatto, magari derivata dal diritto europeo, ma priva di una sua identità costituzionale. Insomma, le autorità svolgono funzioni e azioni pari ai tre poteri dello stato (legislativo, esecutivo e giurisdizionale) senza però che abbiano un riconoscimento espresso nella Carta costituzionale, sono quindi dei fantasmi costituzionali. Eppure, continuano a fiorire sia pure in maniera differenziata. Concorrenza, comunicazioni, privacy, sciopero, trasporti, energie, mercato della borsa: tutte queste competenze oggi sono delegate a delle autorità, con buona pace della centralità del parlamento. Ci vorrebbe, piuttosto, un’unica legge che le disciplinasse e soprattutto le razionalizzasse. E che rendesse trasparente la scelta dei suoi componenti, che hanno un compito assai delicato, che comporta una competenza riconosciuta. E invece la scelta è riservata e decisa nelle stanze di ciò che rimane dei partiti, magari in favore di qualcuno che ha perso una sua posizione proprio nel partito e che quindi chiede una sorta di “ricompensa”. In violazione proprio della natura stessa delle autorità che devono essere indipendenti, dai partiti e dalla politica innanzitutto. Mentre invece non sono previsti requisiti per i componenti, se non talvolta una anodina formula di “esperti” della materia. L’idea di pubblicizzare i curricula degli aspiranti commissari - si è fatto per la privacy ma non per la comunicazione - è buona, a condizione che si apra davvero un dibattito pubblico sulle persone da nominare, magari attraverso una rosa di tecnici da fare audire dalle commissioni parlamentari competenti per materia. La competenza e l’autorevolezza sono gli elementi che devono caratterizzare chi va a svolgere un mandato presso le autorità amministrative indipendenti. Altrimenti queste rischiano di perdere autorità, indipendenza senza fare una buona amministrazione. Migranti. Lo ius culturae richiede una vera integrazione di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 20 febbraio 2020 Dare la cittadinanza a un minore solleva una questione delicata: e cioè il rapporto che il minore ha con la sua famiglia e il suo contesto. La proposta di legge che va sotto il nome di ius culturae si propone di dare la cittadinanza italiana a tutti i giovani immigrati minorenni i quali, anche se non nati nella Penisola, abbiano tuttavia frequentato con profitto qui da noi almeno un ciclo scolastico di cinque anni o un corso di formazione professionale triennale. Come ho già detto in un articolo precedente, sono personalmente convinto che sia un precipuo interesse dell’Italia avere cittadini di origine diverse da quelle tradizionali del nostro Paese, immigrati o figli di immigrati. Il sospetto alimentato dalla destra che chi sostiene questo lo faccia solo perché conta sui voti di nuovi elettori mi sembra, devo dire la verità, una pura ridicolaggine. Ciò detto penso però che qualunque allargamento del diritto di cittadinanza debba obbedire a due precise condizioni: rispondere a rigorosi criteri di sicurezza e godere del massimo consenso degli italiani. Una legge volta a creare nuovi cittadini non può nascere dividendo quelli che già lo sono. L’idea di fondo dello ius culturae è chiara: chi ha frequentato un ciclo scolastico o un corso di formazione è già di fatto pienamente integrato nella nostra società. Ma che cosa intendiamo esattamente quando parliamo di integrazione? Intendiamo, immagino, l’inserimento nel contesto sociale, economico e culturale italiano di chi, pur provenendo da un contesto diverso, tuttavia accetta il nostro sistema di vita e i suoi valori caratterizzanti. È una definizione che non sembra porre problemi. Invece ne pone uno importante, questo: si può accettare il sistema di vita e i valori caratterizzanti di una società, senza praticarli sia pure in parte? In teoria forse sì, ma non credo che sia possibile nella pratica. Nella realtà delle cose, infatti, non condividere certi valori difficilmente va d’accordo con la loro effettiva accettazione. Mi spiego: se tizio nel proprio ambito familiare non osserva ad esempio i valori di eguaglianza tra uomo e donna e ne pratica invece altri e diversi fondati mettiamo sulla diseguaglianza, sulla totale supremazia del marito sulla moglie, del padre sulle figlie, magari impedendo all’una e alle altre di uscire di casa o di avere certe relazioni sociali, si può ciò nonostante considerare questo tizio integrato con il contesto italiano per il semplice fatto che in pubblico egli non si pronuncia contro le regole di tale contesto e dichiari perfino di accettarle? Mi sembra difficile rispondere affermativamente. Ma proprio una tale risposta rende inevitabile concludere che accettare un sistema di vita e i valori di una società significa anche praticarli, farli propri. Si è realmente integrati solo se c’è una condivisione di tal genere. Se però le cose stanno così, in che senso si può supporre, ad esempio, che un adolescente di 12-13 anni, per il semplice fatto di avere frequentato un ciclo scolastico quinquennale (ad esempio il primo ciclo della scuola dell’obbligo, la vecchia scuola elementare), e a maggior ragione uno dei tanti corsi triennali di formazione professionale (organizzati, lo ricordo, dalle Regioni e dalle Provincie: si ha un’idea della loro reale natura, della loro povertà culturale?), in che senso si può supporre, dicevo, che un tale adolescente sia virtualmente “integrato” nella società italiana, cioè ne condivida e pratichi i valori? Quale sistema di vita, quali valori può aver mai praticato o praticare a quell’età, che non siano tifare per la Juve, amare gli spaghetti e flirtare con qualche compagna/o? La scuola italiana non ha assolutamente un’impronta identitaria e d’altro canto la lettura della Costituzione unita a qualche discorso edificante sulla medesima non servono certo a molto; nei corsi di formazione poi manca perfino quello. In realtà, dunque, dare la cittadinanza a un minore solleva inevitabilmente una questione delicata ma non perciò meno cruciale: e cioè il rapporto che il minore stesso ha con il suo contesto, con la famiglia, il peso dell’ambiente familiare. Questione che è tanto più importante sulla base di un innegabile dato di fatto: e cioè che in alcune culture di provenienza di molti immigrati, in particolare in quella islamica, l’influenza ambientale-familiare e quella del circuito dei connazionali/correligionari è tradizionalmente assai forte, spesso totalmente condizionante. Posto tuttavia che sarebbe impossibile (oltre che probabilmente illegale) qualunque indagine in tali ambiti, non rimane che una conclusione: l’attribuzione della cittadinanza agli immigrati non può avvenire su una base automatica e generalizzata, bensì è consigliabile che avvenga sempre su base individuale e previo accertamento delle qualità specifiche del richiedente (automatico e generalizzato deve essere ovviamente il criterio di accesso a tale accertamento), nonché con un suo impegno adeguatamente formale e solenne. Anche per questo mi sembra che l’attribuzione non possa avvenire che al compimento della maggiore età: così come del resto accade in molti Paesi con antica tradizione di immigrazione e di accoglienza. Ma proprio quanto fin qui detto sottolinea la necessità che l’Italia adotti al più presto una politica d’integrazione specificatamente rivolta ai giovani e giovanissimi provenienti da altri Paesi: politica che può essere svolta nell’ambito della scuola ma non dalla scuola solamente, che ha già fin troppe cose di cui occuparsi. Quei giovani e giovanissimi, sono una delle fonti preziose del nostro avvenire, con loro abbiamo l’obbligo (e la convenienza) di essere generosi di mezzi e larghi di iniziative. In che modo? Ad esempio - e naturalmente avendo sempre cura di mettere insieme ragazzi e ragazze e con l’ovvia presenza anche di una quota di giovani italiani - programmando viaggi gratuiti d’istruzione nei luoghi storico-artistici del nostro Paese, organizzando campeggi estivi nei suoi territori più tipici, organizzando brevi soggiorni estivi nelle nostre scuole militari (la Nunziatella, il Morosini), promuovendo concorsi culturali a loro riservati (il migliore racconto, il più bel tema su una figura o un momento di storia italiana), destinando loro ma soprattutto alle ragazze vasti programmi di borse di studio, mandando in onda programmi radiofonici e televisivi a loro dedicati e da loro gestiti. I modi sono mille, basta pensarci. Manca l’istituzione ad hoc? Si crei. Tra tanti enti inutili e costosi perché non si può pensare ad esempio a un Sottosegretariato alla gioventù dedicato specialmente a questo scopo? Perché la classe politica italiana deve sempre segnalarsi per la sua pochezza, le sue diatribe inconcludenti e la sua vista corta e una volta tanto non prova, invece, a pensare un po’ in grande e a guardare un po’ più lontano? Migranti. Quattro salvataggi in 48 ore, 200 persone riportate a Tripoli sotto le bombe di Alessandra Ziniti La Repubblica, 20 febbraio 2020 Appello dell’Oim: “Si trovino alternative di sbarco sicure”. Ocean Viking e Sea Watch 3 con 365 persone a bordo. Federico Soda, capomissione Oim in Libia: “Di 600 detenuti non si sa più nulla”. Quattro soccorsi in 48 ore, 385 migranti presi a bordo da due navi umanitarie mentre a Lampedusa continuano gli sbarchi autonomi e la guardia costiera libica riporta indietro altre centinaia di persone. E l’Oim lancia un accorato appello alla comunità internazionale: “Si trovino alternative e meccanismi di sbarco sicuri per i migranti soccorsi in mare e che sono in fuga dalla Libia”. Almeno 200 migranti sono stati riportati a Tripoli poche ore dopo che il porto della capitale libica venisse bombardato. “La Libia non può aspettare”, afferma Federico Soda, Capo Missione per l’OIM in Libia. “È il momento di mettere in atto azioni concrete per assicurarsi che le persone soccorse in mare siano fatte sbarcare in porti sicuri e che il sistema di detenzione arbitrario venga terminato. A dieci mesi dall’inizio del conflitto, in Libia la situazione umanitaria continua a peggiorare. Oltre 2.000 migranti sono ancora detenuti in condizioni drammatiche, e gli operatori umanitari hanno sempre più difficoltà pratiche nel fornir loro assistenza. Nelle prime due settimane di gennaio circa 1.000 migranti sono stati riportati in Libia e 600 di loro sono stati trasferiti in una struttura controllata dal ministero dell’Interno libico. Di questi migranti non si ha più notizia. Le Nazioni Unite continuano a documentare abusi, torture, sparizioni e condizioni spaventose nei centri di detenzioni libici. È inaccettabile che l’attuale sistema di detenzione sia ancora vigente, nonostante i ripetuti appelli al suo smantellamento e a favore dell’apertura di soluzioni alternative che possano garantire almeno un minimo livello di sicurezza”. Dopo i due soccorsi operati ieri, la Ocean Viking di Msf e Sos Mediterranée ha preso a bordo nel primo pomeriggio altre 92 persone, tra cui diverse donne e bambini (due gemelli di sette mesi e un bimbo di un anno) che erano su un gommone ormai sgonfio vicino ad una piattaforma petrolifera nel golfo di Sabratha. Adesso sono 166 i migranti sulla nave umanitaria che non ha ancora chiesto l’assegnazione di un porto sicuro. E in 121 sono stati invece recuperati dalla Sea Watch 3. Erano a bordo di un gommone in difficoltà che imbarcava acqua, a circa 24 miglia dalla Libia. Il centralino Alarm phone aveva raccolto il loro Sos e avvisato le autorità competenti. Se dovessero chiedere e ottenere un porto dall’Italia, allo sbarco - così come già avvenuto la scorsa settimana a Messina - i migranti verranno tutti sottoposti ai protocolli per il coronavirus, a differenza di quelli che riescono ad arrivare alla spicciolata a Lampedusa o sulle coste siciliane con i barchini fantasma. Droghe. Stretta del governo sullo spaccio: “Carcere immediato per chi è recidivo” di Valentina Errante Il Messaggero, 20 febbraio 2020 L’obiettivo é alzare la pena minima per evitare che possano tornare subito in liberta, soddisfazione delle forze dell’ordine. Arresto immediato, con custodia cautelare in carcere, per gli spacciatori recidivi in libertà, anche se il reato è “di lieve entità”. Il Governo pensa a una stretta “per arrestare immediatamente coloro che si macchino di questo reato”. A dare l’annuncio è stata la ministra Luciana Lamorgese, che ha confermato di essere al lavoro su una norma insieme con il collega della Giustizia, Alfonso Bonafede. Il fenomeno è ben noto ed è da tempo fonte di frustrazione per le forze dell’ordine: pusher seriali trovati a vendere droga dagli agenti vengono portati in caserma, ma il giorno dopo sono di nuovo “al lavoro”. La scappatoia è fornita dai commi 5 e 5 bis dell’articolo 73 del testo unico sulle droghe del 1990 che prevede per i reati di spaccio “di lieve entità” la possibilità di accedere alla sospensione condizionale della pena (reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329) e al lavoro di pubblica utilità invece di scontare la pena detentiva. Insieme a Bonafede, ha spiegato Lamorgese, “lavoriamo a una norma per superare l’attuale disposizione dell’art. 73 comma cinque che non prevede l’arresto immediato per questi casi e abbiamo trovato una soluzione che ci convince”. L’opzione che si sta mettendo a fuoco è quella di alzare la pena minima per i recidivi in modo che non possano sfuggire all’arresto. “E stato rilevato il fatto - ha sottolineato la ministra - che arrestare, senza custodia in carcere, e il giorno dopo vedere nello stesso angolo di strada lo spacciatore preso il giorno prima, incide anche sulla demotivazione del personale di polizia che tanto si impegna su questo versante”. Soddisfazione per la novità in cantiere è stata espressa dall’Associazione nazionale funzionari polizia. “Le attività di spaccio al minuto - dichiara il portavoce Girolamo Lacquaniti - sono ormai caratterizzate da venditori di morte che, approfittando dell’attuale normativa, sono in possesso di quantitativi ridotti proprio per evitare il carcere. Da sempre - prosegue - insistiamo sulla necessità di avere un sistema che garantisca l’effettività della sanzione. L’impegno e il lavoro delle forze di polizia è mortificato dalla impossibilità, di fatto, di applicare misure limitative della libertà personale nei confronti di soggetti sorpresi in flagranza di reato di cessione di stupefacenti, regolarmente rilasciati dopo meno di 48 ore. Ci auguriamo - conclude Lacquaniti - che quanto dichiarato dalla ministra possa trovare attuazione in tempi brevi”. L’introduzione di una nuova norma ha già aperto un fronte alle polemiche politiche. In commissione Giustizia della Camera sono al vaglio due proposte di modifica del Testo unico di stupefacenti: una di + Europa, l’altra della Lega. Per Riccardo Magi, primo firmatario della proposta di + Europa, tra i promotori dell’Intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis, la norma ipotizzata da Interno e Giustizia creerà ancora più disagi nelle carceri. Droghe. Custodia cautelare in carcere anche gli spacciatori recidivi di modica quantità di Alessandra Ziniti La Repubblica, 20 febbraio 2020 La ministra dell’Interno Lamorgese annuncia una nuova norma studiata con il ministero della Giustizia per evitare che i pusher fermati almeno due volte dalle forze dell’ordine tornino immediatamente liberi. Arresto immediato, con custodia cautelare in carcere, anche per chi spaccia piccole quantità di sostanze stupefacenti. Obiettivo: punire chi viene fermato, rilasciato e riprende a spacciare poche ore dopo. Ad Ancona, dove ha incontrato i familiari delle vittime della strage della Lanterna azzurra di Corinaldo, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese annuncia una stretta nella lotta alla droga. Una modifica al codice penale che - se dovesse essere approvata - farebbe rischiare la cella ai pusher, molti giovanissimi, che vengono utilizzati come pusher nelle piazze dello spaccio. L’arresto scatterebbe dopo il secondo fermo, quindi alla contestazione della recidiva. “Il provvedimento predisposto una norma per superare l’attuale disposizione dell’articolo 73 comma cinque che non prevede l’arresto immediato per i casi di spaccio di droga - ha detto Lamorgese - Abbiamo fatto un tavolo di lavoro con il ministero della Giustizia e abbiamo trovato una soluzione che convince sia noi sia la Giustizia, dando la possibilità di arrestare immediatamente con la custodia in carcere coloro che si macchiano di questo reato”. “È stato rilevato il fatto che arrestare, senza custodia in carcere, e il giorno dopo vedere nello stesso angolo di strada lo spacciatore preso il giorno prima, incide anche sulla demotivazione del personale di polizia che tanto si impegna su questo versante e vede la propria attività essere posta nel nulla quando il giorno dopo li ritroviamo nello stesso posto”, ha aggiunto la ministra dell’Interno raccogliendo le segnalazioni di diversi Comitati per l’ordine e la sicurezza pubblica e gli allarmi sull’abbassamento dell’età dei consumatori. “Accogliamo con particolare favore l’ipotesi normativa predisposta dal ministero dell’Interno che consentirà l’applicazione di misure cautelari in carcere per chi spaccia sostanze stupefacenti indipendentemente dalla quantità ceduta. I dati in nostro possesso sono allarmanti non solo e non tanto per quanto riguarda l’uso di stupefacenti ma anche e soprattutto per il dilagare del suo consumo tra i più giovani - il commento dell’Associazione nazionale funzionari di Polizia. L’impegno ed il lavoro svolto quotidianamente dagli appartenenti alle forze di polizia nelle piazze dello spaccio di tutti i centri urbani è infatti oggi mortificato dalla impossibilità, di fatto, di applicare misure limitative della libertà personale nei confronti di soggetti sorpresi in flagranza di reato di cessione di stupefacenti e regolarmente rilasciati dopo meno di 48 ore”. Plauso anche dal sindacato di polizia Siap. “L’applicazione di misure cautelari in carcere per chi spaccia sostanze stupefacenti indipendentemente dalla quantità ceduta è una misura che accoglieremo con soddisfazione”, dice Pietro Di Lorenzo, segretario provinciale del Siap di Torino. In commissione Giustizia della Camera è intanto arrivata la proposta di modifica del Testo unico di stupefacenti, primo firmatario Riccardo Magi di + Europa tra i promotori dell’Intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis, sottoscritta da parlamentari di tutti i gruppi di maggioranza. “Dai dati contenuti nel decimo Libro bianco sulle droghe del giugno 2019 emerge che il 30 per cento degli ingressi in carcere nel 2018 è stato causato da imputazioni o da condanne per spaccio - dice - Sebbene a quasi trent’anni dall’approvazione del testo unico degli stupefacenti l’impianto repressivo e sanzionatorio che lo ispira non abbia impedito l’aumento della circolazione di sostanze stupefacenti e continui a essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia e nelle carceri, le risposte che vengono da destra continuano ad andare nella stessa, fallimentare direzione. Al contrario la nostra proposta riporta il trattamento sanzionatorio in un alveo di proporzionalità, in linea con i principi costituzionali e infine differenzia il regime sanzionatorio in funzione della diversa natura della sostanza, al fine di graduare il trattamento punitivo in relazione alla gravità delle condotte. Si prevede inoltre che non è punibile chi coltiva un numero limitato di piante di cannabis finalizzate alla produzione di sostanze stupefacenti a un uso esclusivamente personale”. Droghe. Abolire i prefetti! di Franco Corleone L’Espresso, 20 febbraio 2020 È ora di riprendere la battaglia di Garibaldi e di Luigi Einaudi per abolire i prefetti. Una volta anche la Lega di Bossi aveva innalzato questa bandiera della democrazia, poi il governismo ha prevalso. Ora addirittura abbiamo un governo in cui il ministro dell’Interno è un prefetto! Uso il maschile non per caso, ma per rispettare la differenza di genere quando è opportuna. Il Presidente Mattarella ha compiuto un grave errore a nominare un prefetto ministro, ma l’errore è stato doppio con la nomina a capo del Viminale, dove Luciana Lamorgese ha fatto la sua carriera. Avrebbe dovuto ricordare l’esempio di Giorgio Napolitano che bloccò la nomina di Gratteri a ministro della Giustizia. Finora il vuoto pneumatico aveva prevalso, ma ora il fondo reazionario è emerso. La “droga” è la cartina di tornasole utile a chiarire che l’origine culturale è incancellabile. Altro che discontinuità! Lamorgese ha dichiarato che anche per i fatti di lieve entità, riguardanti l’articolo 73 della legge antidroga, il Dpr 309/90, deve essere prevista la galera. Già per questo reato le galere sono piene, se fosse approvata una modifica richiesta da Salvini i detenuti passerebbero da sessantamila a ottantamila, facendo scoppiare le carceri e costringendo la Corte europea dei diritti umani a condannare di nuovo l’Italia per trattamenti crudeli e degradanti. È incredibile che in Italia si ripropongano le ricette della war in drugs che hanno prodotto crimini contro l’umanità mentre negli Stati Uniti, in Uruguay, in Canada si legalizza la canapa e in molti paesi europei si scelgono interventi di riduzione del danno abbandonando repressione e stigmatizzazione. Sarebbe opportuno che il ministro LaMorgese leggesse il decimo Libro Bianco sugli effetti della legge antidroga sulla giustizia e sulle carceri. Il 28 e 29 febbraio a Milano si svolgerà una Conferenza nazionale sulle droghe in assenza di quella del Governo che non viene convocata da venti anni (non considero le farse di conferenze di Giovanardi di Palermo e Trieste), in violazione della legge che prevede un appuntamento ogni tre anni per valutare gli esiti delle politiche e i necessari cambiamenti. Sarà la sede per chiedere un cambio di passo e le dimissioni di un ministro di polizia. Droghe. Conferenza nazionale: “La legge va riformata, ma per evitare inutili penalizzazioni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 febbraio 2020 A Milano il 28 e 29 febbraio si svolgerà la Conferenza nazionale. Il proibizionismo per legge è fallito, l’unico risultato vero ottenuto è stato quello della patologizzazione e criminalizzazione dell’uso e dell’aumento della popolazione carceraria, e di un marcato stigma nei confronti delle persone che usano sostanze. Ma non solo. L’approccio repressivo dell’attuale legislazione sulle droghe, la guerra alla droga, fondata sull’obiettivo irrealistico di un mondo libero dalle sostanze, ha dimostrato il proprio fallimento, tanto più di fronte alle profonde trasformazioni del fenomeno: nuove sostanze, nuovi consumatori, nuovi stili di vita e di consumo. È la conclusione alla quale sono giunte le organizzazioni promotori della Conferenza nazionale sulle droghe che si terrà a Milano il 28 e 29 febbraio. Tante sono le organizzazioni a sostegno dell’evento, tra cui la Cgil che nella Conferenza si è sempre impegnata. Tra gli altri troviamo A Buon Diritto, Arci, Associazione Antigone, Associazione Freeweed, Associazione Luca Coscioni, Conferenza dei Garanti delle persone private della libertà e molti altri. L’iniziativa è stata presentata lunedì scorso a Roma, in una conferenza stampa alla Camera. A illustrare il senso della Conferenza di Milano è stata Denise Amerini, responsabile per le Dipendenze nell’area welfare della Cgil nazionale. “La legge compie trent’anni, oggi sono evidenti gli effetti che ha avuto - ha esordito: la patologizzazione e lo stigma lanciato addosso alle persone, che è poi ricaduto su tutti coloro che lavorano nel settore. Si tratta di un approccio repressivo che ha portato a una grave regressione culturale. Basti guardare in questi giorni al caso di Verona: c’è una scuola che ha imposto i cani antidroga e perfino l’esame dell’urina per gli studenti”. Nel nostro Paese la percezione delle sostanze stupefacenti sconta una serie di stereotipi, indotti dalla politica e dai media, tanto che la cosiddetta ‘ guerra alla droga’ è tra le espressioni preferite dei giornali. “Siamo davanti a un progressivo indebolimento dei servizi - ha continuato Amerini -, che è dovuto proprio a come si ragiona rispetto alle sostanze: non si investe e non si valorizzano mai gli operatori. Alla mancanza di risorse si aggiunge poi il blocco delle assunzioni, negli ultimi anni i nuovi ingressi sono pochi e tutti precari”. Alla base c’è un problema culturale: “Molte opinioni diffuse sono profondamente sbagliate: spesso si attribuisce a una sostanza un effetto che non ha, invece bisogna studiare prima di intervenire”. La Conferenza nazionale sulle droghe per legge è prevista ogni tre anni, eppure non si svolge dal 2009. “Per questo l’autoconvocazione è particolarmente importante - ha sottolineato sempre la responsabile welfare della Cgil Amerini - chiediamo alla politica di assumere il ruolo che le spetta: affrontare il tema non in modo emergenziale, ma con strumenti seri. Vogliamo subito la riforma della legge 309. Bisogna poi legalizzare la cannabis, per favorire l’accesso alle cure per le persone, ma anche per migliorare l’economia e colpire la criminalità. Occorre capire che esiste un utilizzo controllato e molti usi della cannabis si sono normalizzati nella società attuale. Tutto questo - infine - aiuterebbe a combattere il sovraffollamento nelle carceri”. Tra i promotori, c’è pure Franco Corleone, già garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Toscana e da sempre impegnato in prima linea sul tema delle droghe e delle dipendenze. “A Milano dobbiamo lanciare una mobilitazione di tutti i soggetti interessati perché abbiamo dei rischi tremendi - ha spiegato Corleone. Nella commissione Giustizia della Camera è incardinata la proposta Salvini per abolire la previsione dei fatti di lieve entità per quanto riguarda il cosiddetto piccolo spaccio. Significa che da 60 mila detenuti in carcere rischiamo di arrivare a 70 mila presenze di persone che non hanno alcuna ragione di essere incarcerate. Questo sarà uno dei temi della conferenza”. Libia. Migliaia di migranti detenuti in condizioni drammatiche tvsvizzera.it, 20 febbraio 2020 In Liba migliaia di migranti sono detenuti in condizioni drammatiche, e gli operatori umanitari hanno sempre più difficoltà nel fornire assistenza. “A dieci mesi dall’inizio del conflitto, in Libia la situazione umanitaria continua a peggiorare. Oltre 2000 migranti sono ancora detenuti in condizioni drammatiche, e gli operatori umanitari hanno sempre più difficoltà pratiche nel fornir loro assistenza. Nelle prime due settimane di gennaio 2020 circa 1000 migranti sono stati riportati in Libia e 600 di loro sono stati trasferiti in una struttura controllata dal Ministero dell’Interno libico. Di questi migranti non si ha più notizia”. Lo afferma l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che lancia un appello alla comunità internazionale, compresa l’Unione Europea, “affinché si trovino alternative e meccanismi di sbarco sicuri per i migranti soccorsi in mare e che sono in fuga dalla Libia” e sottolinea come “circa 200 migranti siano stati riportati a Tripoli poche ore dopo che il porto della capitale libica venisse bombardato”. “La Libia non può aspettare”, afferma Federico Soda, capo missione per l’Oim in Libia. “È il momento - aggiunge - di mettere in atto azioni concrete per assicurarsi che le persone soccorse in mare siano fatte sbarcare in porti sicuri e che il sistema di detenzione arbitrario venga terminato”. È necessario, secondo l’Organizzazione, “rinforzare un sistema di ricerca e soccorso in mare, che possa essere di ampio raggio e guidato direttamente dagli Stati. Allo stesso tempo occorre realizzare con urgenza un meccanismo di sbarco veloce e strutturato, che preveda che gli stati del Mediterraneo si prendano uguali responsabilità nel assicurare un porto sicuro per coloro che sono stati soccorsi. L’impegno delle navi Ong che operano nel Mediterraneo dovrebbe essere riconosciuto e dovrebbe essere messo un termine a ogni limitazione o ritardo nelle operazioni di sbarco”. Le Nazioni Unite, prosegue l’Oim, “continuano a documentare abusi, torture, sparizioni e condizioni spaventose nei centri di detenzioni libici. È inaccettabile che l’attuale sistema di detenzione sia ancora vigente, nonostante i ripetuti appelli al suo smantellamento e a favore dell’apertura di soluzioni alternative che possano garantire almeno un minimo livello di sicurezza”. Egitto. Amnesty: “Almeno per Zaki l’Italia richiami l’ambasciatore” di Eleonora Martini Il Manifesto, 20 febbraio 2020 Parla il portavoce italiano, Riccardo Noury: “Massima pressione fino al 22 febbraio. Se sabato Patrick non sarà liberato, il governo italiano dia un segnale di insoddisfazione”. Ancora una volta, mentre il governo giallorosso perde un’altra occasione per ottenere rispetto dall’”alleato” Abdel Fattah al-Sisi, è la società civile italiana a chiedere all’Egitto il rispetto dei diritti umani e il rilascio immediato di Patrick George Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna arrestato il 7 febbraio scorso all’aeroporto del Cairo con accuse che vanno dall’istigazione alle proteste e alla diffusione di notizie false. “Prigioniero di coscienza”, lo definisce Amnesty International, come tutti coloro - e sono migliaia, nel Paese africano - che sono detenuti “solo per aver espresso le proprie opinioni o per la loro attività in favore dei diritti umani, senza che abbiamo commesso in alcun modo atti di violenza né abbiamo mai incitato alla violenza”. Sabato prossimo si mobiliteranno le curve e la società del Bologna calcio, la squadra di cui Patrick è tifoso. Mentre ieri a Bruxelles, a Trieste e a Roma, al grido di “Patrick libero subito”, si sono tenuti sit-in organizzati da Amnesty insieme alla Federazione nazionale della stampa, ai sindacati, l’Arci, Articolo 21 e molte altre associazioni. Davanti all’ambasciata d’Egitto a Roma, il flash mob si è tenuto in forma ridotta perché la questura ha imposto delle limitazioni di presenze per “ragioni di ordine pubblico”. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, lei è stato ascoltato ieri anche dalla commissione Esteri della Camera. Cosa chiedete al governo italiano? Fino al 22 febbraio, giorno in cui si terrà al Cairo l’udienza chiave per Zaki, chiediamo la massima pressione e anche, come è accaduto sabato scorso, la massima presenza diplomatica per monitorare l’evento. Se poi invece quel giorno il giudice dovesse prorogare la carcerazione per altri 15 giorni, allora ci saranno tutti i motivi perché l’Italia manifesti in qualche forma la propria insoddisfazione nei confronti dell’Egitto. Sul piano dei rapporti commerciali, delle forniture militari, dei rimpatri o, su quello diplomatico, anche attraverso il richiamo temporaneo dell’ambasciatore per consultazioni, perché riferisca su come sono andate le cose e riceva istruzioni per continuare la pressione. Tenuto conto che finora la presenza di un’ambasciata al completo, dal settembre 2017 ad oggi, non ha portato nessuno dei risultati per cui si era deciso di rimandare l’ambasciatore. La street artist Laika ha rimesso mano alla sua opera, che era stata parzialmente rimossa dal muro di Villa Ada, dove si trova l’ambasciata d’Egitto. È l’abbraccio di Giulio Regeni a Patrick Zaki. Secondo lei, è un bene accomunare le due vicende? Dal punto di vista emotivo, certe analogie sono inevitabili: la giovane età, la passione per la ricerca, un luogo eletto di vita come l’università… Ma non c’è altro. Sono due storie diverse - uno era ricercatore, l’altro è un attivista per i diritti - avvenute in tempi diversi, con modalità diverse. Credo che questa associazione così completa non faccia bene al destino di Patrick. Quella di Zaki è già una situazione difficilissima così. Amnesty è in contatto con gli avvocati del giovane universitario? Non direttamente, ma il nostro riferimento è l’associazione con cui Patrick collaborava che è l’”Iniziativa egiziana per i diritti delle persone”. Avete conferme riguardo alle torture subite? I suoi avvocati hanno presentato denuncia formale per tortura. Le autorità egiziane dicono che non presentava segni evidenti di torture. Ma questa non è affatto una rassicurazione. D’altronde sappiamo bene che in Egitto la tortura è la prassi e non l’eccezione. L’Italia non è riuscita a salvare Giulio Regeni e nemmeno ad ottenere giustizia. Ora, ha l’occasione di riscattarsi e salvare Patrick. Sono comunque entrambi vittime di un regime totalitario… Come altre migliaia di persone, in Egitto. Patrick Zaki, anche per come è stato scritto il mandato di cattura, per ciò di cui è accusato, è il simbolo di quella società civile messa all’indice, considerata un nemico, una minaccia. Come Patrick, nelle stesse condizioni, ci sono avvocati scrittori, attivisti. Non possiamo continuare a far finta di niente. Turchia. Gezi Park: l’ira di Erdogan per la sentenza. Giudici sotto inchiesta per le assoluzioni di Marco Ansaldo La Repubblica, 20 febbraio 2020 Il Consiglio dei giudici e procuratori turchi (Hsk), organo incaricato di condurre le procedure disciplinari nei confronti dei magistrati, ha aperto un’inchiesta sui giudici che ieri hanno assolto per “insufficienza di prove” tutti gli imputati presenti al principale processo per le proteste di Gezi Park del 2013. C’è la mano del Sultano turco dietro il riarresto, nel giro di poche ore, del filantropo accusato ora proprio dal presidente Recep Tayyip Erdogan di avere organizzato la rivolta di Gezi Park. Venti giorni di dimostrazioni che nel 2013 vennero infine spente nel sangue. Per il capo dello Stato “le proteste di allora sono state un attacco esattamente come i golpe militari, non erano innocenti. Ci sono persone tipo Soros dietro le tende (a quel tempo piazzate al parco, ndr) che cercavano di creare problemi provocando rivolte in alcuni Paesi. L’esponente della branca turca era in prigione, ma hanno osato assolverlo”. Il leader di Ankara si riferiva al filantropo Osman Kavala, un imprenditore considerato soprattutto all’estero persona di grande valore e propugnatore della cultura, ma martedì subito ricondotto in carcere dopo essere stato assolto “da tutte le accuse”, come gli altri 15 imputati, secondo la sentenza di una corte di Istanbul. Un altro tribunale ne ha infatti deciso immediatamente il nuovo arresto. Kavala, che è in carcere da 28 mesi, ha collaborato per anni con la fondazione Open Society di George Soros, prima che l’organizzazione venisse bandita dalla Turchia. Il verdetto su un altro caso spinoso, quello di 11 attivisti per i diritti umani fra cui dirigenti e responsabili della sezione locale di Amnesty International, è stato ieri rinviato al 3 aprile. Avrebbe dovuto decidere il rilascio degli esponenti, tutti accusati di “terrorismo”, anch’essi in cella da più di due anni e mezzo. Il giudizio riguarda pure l’ex presidente Taner Kilic e l’ex direttrice Idil Eser. La direttrice di Amnesty in Europa, Marie Struthers, ha commentato: “La dolorosa vicenda di questi attivisti spiega bene come la Turchia sia diventata un Paese dove difendere la libertà di tutti possa comportare un alto prezzo da pagare per se stessi”. Ruanda. Morto in carcere il cantante della riconciliazione: “Si è ucciso” mondoemissione.it, 20 febbraio 2020 La morte di Kizito Mihigo - l’ex organista tutsi sopravvissuto al massacro e divenuto un popolarissimo cantante di musica cristiana - mostra quanto restino aperte le ferite del genocidio del 1994. Nel 2014 Mihigo aveva pubblicato una canzone che invitava a ricordare anche i morti degli hutu ed era finito in carcere con l’accusa di incitare all’odio contro il governo di Kagame. Un popolare cantante trovato morto in cella - ufficialmente suicida - riporta in primo piano le ferite mai sanate del genocidio del Ruanda. In tanti nel Paese africano e nella diaspora piangono infatti in queste ore la morte di Kizito Mihigo, 39 anni, un personaggio simbolo della storia recente di questo martoriato Paese. Mihigo era stato arrestato nuovamente pochi giorni fa mentre cercava di lasciare clandestinamente il Ruanda, violando un obbligo di dimora nel Paese che gli era stato imposto nel 2018. Era nato a Kibeho in una famiglia tutsi, Kizito Mihigo. Era un seminarista tredicenne che già dimostrava un grande talento nel suonare l’organo quando nel 1994 sul Ruanda calò la tragedia del genocidio. In quel bagno di sangue perse i suoi genitori e fuggì in Burundi dove avrebbe voluto lui stesso arruolarsi nel Rwandan Patriotic Army. Ma il desiderio di vendetta lasciò presto il posto all’emergere delle sue doti musicali: nel 2001 partecipò alla stesura dell’inno nazionale e fu lo stesso presidente Kagame a impegnarsi per garantire al giovane tutsi una borsa di studio per perfezionare all’estero il suo talento. A Parigi Kizito Mihigo studiò così organo e composizione al Conservatorio per poi cominciare in Belgio a farsi conoscere nel panorama internazionale della christian music. Anche perché in quegli anni in Europa era entrato in contatto con il Mir - il Movimento internazionale per la riconciliazione, un movimento pacifista cattolico impegnato sul tema della non violenza - e ne aveva sposato il messaggio nelle sue canzoni. Quando nel 2011 tornò a vivere in Ruanda Kizito Mihigo fu accolto dal governo di Kagame come una star: a lui veniva chiesto regolarmente di cantare l’inno nazionale durante le commemorazioni del genocidio e tanti altri appuntamenti ufficiali. Nel 2012 gli fu affidato anche un popolare programma televisivo. Ma tutto questo si interruppe bruscamente quando nel marzo 2014, pochi giorni prima del ventesimo anniversario del genocidio, Mihigo caricò su YouTube una nuova canzone intitolata Igisobanuro Cy’urupfu (“Il significato della morte”) in cui si alludeva anche alle vittime piante dagli hutu dopo quella tragedia. “Nonostante il genocidio mi abbia reso orfano - cantava - non mi ha fatto perdere l’empatia per gli altri. Pure le loro vite sono state spazzate via brutalmente anche se non lo chiamiamo genocidio. Anche quei fratelli e sorelle sono esseri umani. Prego per loro. Li conforto. Li ricordo… La morte non è mai buona, sia essa portata da un genocidio, da una guerra, o dai massacri di chi si vendica”. Nel giro di qualche giorno Mihigo sparì per ricomparire poi in carcere a inizio aprile con l’accusa di terrorismo e complotto con i ribelli hutu. A fine aprile gli era già stata fatta firmare una confessione contestatissima dalle associazioni per la difesa dei diritti umani in cui ammetteva di aver cospirato contro Kagame. Nel febbraio 2015 fu quindi condannato a dieci anni di reclusione. Poi - nel settembre 2018, dopo aver rinunciato alla sua istanza di appello - venne rilasciato nell’ambito di un’amnistia, ma con la condizione di non lasciare il Paese. Venerdì scorso l’arresto nei pressi del confine con il Burundi e l’accusa di aver cercato di unirsi ai gruppi ribelli che combattono il governo di Kagame. Lunedì, infine, il ritrovamento del cadavere in cella. Secondo la polizia ruandese si sarebbe suicidato impiccandosi. Ma sono molte le voci che puntano il dito contro il governo di Kagame per questa nuova morte tragica che reimmerge il Paese nei suoi giorni più bui.