Chiudere il carcere col metodo Basaglia di Giampiero Ballotti Il Ponte, 1 febbraio 2020 Del carcere non importa nulla a nessuno. O meglio, a pochissimi. Ogni tanto se ne parla un po’ grazie all’opera umanitaria di qualche partito o associazione o di qualche esponente politico per farsi pubblicità: i Radicali, l’associazione fiorentina “L’altro diritto”, un centro di documentazione i cui avvocati seguono le violazioni commesse in carcere. Nel 2013, la Carta europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia con una “sentenza pilota” per i trattamenti inumani e degradanti riservati ai detenuti. Ma tutto va come prima: Sollicciano continua a essere invivibile come già lo trovammo qualche anno fa. Numerosi risarcimenti per ingiuste detenzioni, anche solo in custodia cautelare, cui è seguita l’assoluzione. Per le domande di risarcimento, nel 2014 ne sono state accolte 995 per 35 milioni di euro e dal 1991 al 2012 lo Stato ha speso 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente finiti in prigione. Luigi Manconi, sociologo e senatore del Pd, autore di Abolire il carcere, dice che il carcere è un prodotto umano e come tale va sottoposto a un test di validità. Il criterio fondamentale è quello relativo alla quantità di bene e alla quantità di male che ne derivano. Ovvero: il carcere produce bene se risponde allo scopo per il quale è stato creato. Produce male se non raggiunge il fine al quale è destinato e se determina danni che superino i benefici ottenuti. E allora vediamo: nel 1998, un anno come tutti gli altri, 5.772 persone già condannate in via definitiva furono scarcerate al termine della pena. Sette anni dopo, nel 2005, 3.951 di loro finirono di nuovo in carcere, accusate e condannate per aver commesso nuovi reati. Il 68,4% di chi aveva scontato la sua pena nel 1998 è dunque rientrato in prigione: una percentuale enorme che mette in dubbio l’efficacia rieducativa della pena. L’utopia possibile, da Beccaria a Basaglia Non è realistico illudersi di abolire il carcere in quanto lo Stato è titolare di un diritto soggettivo di difendersi contro la criminalità. Irrinunciabile. E quel piccolo libretto che nel 1764 Cesare Beccaria dava alle stampe, e che tanto rumore era destinato a fare in Europa, oggi non verrebbe neanche preso in considerazione in una procedura di abilitazione universitaria (troppo smilzo, privo di un apparato di note, di incerto confine disciplinare, e affidato alla critica partigiana degli amici del “Caffè” milanese). Il titolo: Dei delitti e delle pene. Ora, per quanto in particolare riguarda la pena di morte, se la proposta abolizionista di Beccaria fosse stata messa ai voti popolari, sarebbe morta sul nascere. Ma quella proposta era forte, aveva un’altra idea della pena e della vita umana cosicché riuscì a imboccare la strada che ha portato la maggioranza degli Stati moderni a rinunciare alla pena capitale, di conseguenza l’utopia abolizionista ha vinto sul cattivo realismo di chi, al tempo, derise il giovane marchese per la sua ingenuità buonista. È storia nostra quella dell’abolizione dei manicomi. E, in fondo, carcere e manicomio nascono insieme e si parlano di continuo passandosi il testimone nella custodia della devianza, soprattutto di quella parte di essa che non riesce a essere spiegata con la comune razionalità. Ora questa cultura è dura a morire, ma i manicomi sono stati chiusi, realizzando così la semplice idea di Franco Basaglia, testimoniando ancora una volta quanto sia possibile raggiungere obiettivi apparentemente impensabili fidando sulle buone ragioni dei propri argomenti. Così noi dovremo operare per realizzare una ragionevole abolizione del carcere, di “questo” carcere, posto che anche il campo delle scienze penali e criminologiche è da tempo attraversato da correnti abolizioniste di diversa natura e diversa provenienza. Correnti che sono di tre specie: abolizionistiche, sostituzionistiche, riformatrici, e cioè quelle che prospettano la riduzione della sfera dell’intervento penale o l’abolizione in favore di sanzioni penali meno afflittive di quella specifica pena moderna che è la reclusione carceraria. La nostra proposta va in questa direzione: per esempio sarebbe necessario in prospettiva abolire le pene detentive perché eccessivamente e inutilmente afflittive e per molti aspetti dannose. L’ultima inventiva abolizionista è compresa in queste pubblicazioni: Abolire le pene? del norvegese Niels Christie e Pene perdute dell’olandese Lonk Hulsman nonché il congresso parmense Liberarsi dalla necessità del carcere del memorabile assessore Mario Tomassini, sulla via dell’approvazione della Legge Basaglia e da ultimo il “Piano per l’abolizione del carcere” del norvegese Thomas Mathiesen. Inoltre sono in corso attualmente i contributi abolizionisti di Angela Davis e Gherardo Colombo per i quali “la sfida più ardua e urgente è quella di esplorare territori nuovi della giustizia, nei quali le prigioni non fungano più da nostro principale punto fermo”. Dunque, verso nuove forme di composizione dei conflitti: se non si può educare al bene attraverso il male, il perdono responsabile è la via per le alternative alla punizione e al carcere. È la via della mediazione tra la vittima e il reo, la quale parte dalla necessità di superare l’istituzione penitenziaria. Questo è lo stato della dottrina in materia: la distruzione di “questo” carcere è un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio. La relazione che Basaglia scrisse nel 1964 recava il titolo La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. I manicomi vennero poi effettivamente chiusi, le carceri devono ancora esserlo. La storia: a partire dalla fine del secolo dei Lumi, si volle conferire a carceri e manicomi una funzione positiva, non meramente custodialistica o repressiva: curare, rieducare, correggere e riabilitare folli e criminali, senza rinunciare al compito di renderli inoffensivi. Ora il carcere tradizionale ha ormai dimostrato di essere totalmente inefficace per quanto concerne le finalità costitutive di rieducazione e risocializzazione dei rei. Un fallimento attestato dal tasso di recidiva, attualmente in Italia ben al di sopra del 70%. Si tratta quindi di riconoscere il fallimento radicale dell’istituzione carceraria e procedere coerentemente alla sua totale distruzione senza farsi scoraggiare dalla forza dell’esistente e senza farsi imbrogliare dalla sua logica assurda, considerando che abbiamo a che fare con un’istituzione che, a dispetto di innumerevoli e ormai plurisecolari tentativi di riforma, talvolta piuttosto profondi, ha mostrato e continua a mostrare una sorta di spiccata ritrosia a essere migliorata in modo significativo e stabile. Si pensi per esempio alla piaga del sovraffollamento, denunciato ininterrottamente a tutti i livelli. Il metodo Basaglia sembra - a questo punto - essere il miglior candidato per affrontare la questione carcere. Adottandolo, si potrà dispiegare la distruzione del carcere attraverso il susseguirsi di riforme graduali ma ininterrotte. Si pensi per esempio al modello delle colonie scandinave e al ricorso deciso a varie forme di pene alternative, oltre a lavorare - a monte - sulla depenalizzazione di tutta una serie di reati. Il tutto si farà per tappe intermedie, quali fasi evolutive di un processo che, attraverso continue crisi, dovrà approdare al pieno superamento della forma carceraria tradizionale e alla costruzione contestuale di una forma alternativa che è bene resti preliminarmente indeterminata. La negazione del carcere - come accadde per i manicomi - non può infatti non condurre a un ripensamento di molti dispositivi giuridici, forme e pratiche culturali, sociali e politiche che stanno alla base delle istituzioni carcerarie. Intanto però si tratta di avviare con la massima urgenza il processo di distruzione delle istituzioni carcerarie. No prison La situazione oggettiva sopra descritta non è bastata a far comprendere che è necessario modificare tutto il sistema e sembra che nulla incida a far cambiare le scelte in termini di carcerazione in quanto gran parte del mondo della politica usa da sempre strumentalmente la gestione dell’esecuzione perché sbandierare la soglia di sicurezza crea consenso e porta voti. Così si continua ad alimentare lo spettro della paura attraverso gli organi di informazione e si arriva all’equazione “più carcerati uguale maggiore sicurezza”, soprattutto se extracomunitari; un calcolo perfido che crea i presupposti per giustificare l’esistenza di luoghi disumani e contrari alle stesse leggi che li affermano. In quasi quarant’anni di frequentazione delle patrie galere abbiamo incontrato diversi detenuti. Tra questi, tante vite giovani, alcune volate via troppo presto, altre mai uscite dal circuito della devianza, tutte però portatrici di dolore, inserite in quel girone infernale che sono le carceri italiane. Si comincia con le impronte digitali, fotografie, consegna di quanto in possesso, spoliazione, lettura delle regole minime, consegna del materasso e delle lenzuola, approdo in una cella dopo un lungo percorso a piedi, circondato da occhi e commenti. Il pensiero del suicidio che accompagna le prime ore e le prime giornate di un “nuovo giunto” è qualcosa a cui nessuno sfugge, sia che l’idea lo tenti o che solo lo sfiori. E poi la violenza: una menomazione della quale, una volta provata, non te ne potrai più liberare. Sono trascorsi quarant’anni dalla legge 354 ed è davanti agli occhi di tutti il fallimento del carcere in tutti i suoi presupposti: dall’aspetto punitivo a quello rieducativo. Viene tenuto in piedi un carrozzone che costa circa tre miliardi di euro l’anno e che, nella sostanza, diventa mistificazione. Di questa somma solo il 10% viene destinato alla “rieducazione” (eppure l’art. 27 della Costituzione afferma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”); e al “trattamento della personalità e assistenza psicologica” vengono destinati 8 centesimi al giorno, mentre 11 centesimi sono devoluti alle “attività scolastiche, culturali, ricreative e sportive”. Quanto sopra significa prendere letteralmente in giro tutte le persone detenute. È quindi necessario ripensare completamente le modalità di esecuzione delle condanne, eliminando dal nostro lessico il termine “pena” che tanto ricorda la “gogna” dell’afflizione, restituendo dignità anche alle parole che vengono usate per indicare gli obblighi e i doveri. No prison è una meteora-metafora che vuole rompere i muri delle discussioni politico-giudiziarie per approdare a scelte politiche precise allo scopo di cogliere e rappresentare l’idea di una giustizia riparativa come presupposto di un modello penale diverso da quello attuale, percorrendo strade di partecipazione da contrapporre alle insufficienze degli attuali modelli retributivi e riabilitativi. E infatti come sarà possibile riportare le persone alla legalità e al rispetto delle regole se le regole di questo sistema non sono rispettose della persona? Se i luoghi preposti per il tempo di espiazione sono stati pensati per l’afflizione e la punizione, non per costruire il ravvedimento? Come possono centrare l’obiettivo se sono offensivi e violenti? Perché è violenza tenere le persone per anni nella completa inattività, incluse 20 ore su 24 dentro una cella. È violenza mettere nella stessa cella soggetti con situazioni e patologie che diventano conflittuali e distruttive. Dopo tanti anni di frequentazioni di questi luoghi di vendetta sociale, abbiamo sentito la necessità, l’obbligo morale, di promuovere questa “idea”, anche se diventerà fondamentale collocare il tutto all’interno di una riformulazione del contratto sociale, della stessa convivenza nella società, per non continuare a chiedere cose giuste in un mondo ingiusto. Mammone a Salvi, due magistrati contro il partito dei Pm di Piero Sansonetti Il Riformista, 1 febbraio 2020 Il primo presidente della Cassazione, Giovanni Mammone, diciamo pure il capo della magistratura, nel suo discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario ha spiegato che la riforma della prescrizione - per usare un linguaggio caro a Paolo Villaggio - è una boiata pazzesca. Danneggerà il funzionamento della giustizia al solo scopo di ledere i diritti degli imputati e di incattivire i rapporti tra magistratura e avvocatura. Capolavoro. Chi l’ha pensato questo capolavoro? Chi intende ancora difenderlo? Il Procuratore generale della Cassazione, invece, cioè Giovanni Salvi, ha demolito la giustizia spettacolo, la subalternità degli inquirenti alle pressioni mediatiche, i decreti sicurezza del governo, la politica xenofoba sull’immigrazione, il panpenalismo, i magistrati che fanno retorica “eroista” e narcisista, la paura come strumento di governo, l’idea che la punizione sia la salvezza di una società… e anche altre cose. Diciamo che mettendo insieme i due discorsi si può giungere a questa conclusione (stavolta sostituendo Paolo Villaggio con Gino Bartali): l’è tutto da rifare. Forse è sbagliato scherzare. Senza forse. L’apertura dell’anno giudiziario, dopo le polemiche molto aspre dei giorni scorsi, soprattutto tra avvocati e partito dei Pm, ha portato delle novità importanti e spinge ad alcune riflessioni. La novità fondamentale è questa: esiste una parte della magistratura capace di discutere di giustizia e di giurisdizione senza immaginare che la giustizia e la giurisdizione possano essere identificate con la magistratura stessa, con le sue aspirazioni etiche, con i suoi interessi materiali. È importante che esista questa anima democratica della magistratura, che ieri si è espressa a una notevole altezza culturale. In netto ed evidentissimo contrasto con la modestia culturale che nei giorni scorsi aveva caratterizzato le polemiche del partito dei Pm e del suo giornale. Ed è anche molto importante che questa parte della magistratura abbia rappresentanti ai vertici. Il Presidente della Cassazione e il Procuratore generale sono persone di grande prestigio e hanno un ruolo di enorme peso sulla vita della giustizia. Poi però c’è l’altra faccia della medaglia. La riflessione numero due: come è possibile che queste preoccupazioni così forti da parte dei vertici della magistratura non abbiano nei giorni scorsi trovato nessuna espressione, a nessun livello, nel corpo grande e vasto della stessa magistratura? Come si può immaginare che la magistratura italiana abbia dei vertici molto illuminati, ma poi si raccolga tutta compatta, senza dissensi, senza fiati di critica, attorno al partito dei Pm, che è controllato in modo quasi militare dalle correnti, dai loro equilibri, e dal carisma di magistrati come Gratteri, o Davigo, o dai vertici dell’Anm, o anche da personaggi esterni, ma molto potenti, come per esempio il ministro Bonafede o il capo dei 5Stelle e cioè Marco Travaglio? Non è una domanda “politologica”. È politica. Riguarda i rapporti di forza tra i sostenitori dello Stato di diritto e il partito dei populisti e dei Pm. È paradossale che il governo - guidato dai 5 Stelle - imponga al Parlamento la fine della prescrizione e la proclamazione del processo eterno (e del diritto dei magistrati di dominare gli imputati senza limiti di tempo) per fare piacere ai magistrati, e che poi, alla prima cerimonia ufficiale, i vertici della magistratura spieghino che quella riforma è una vera e propria stupidaggine che creerà danni seri alla giustizia e limiterà i diritti costituzionali degli imputati. C’è qualcosa che non funziona, no? Scusate se lo dico in modo così brutale: secondo me quello che non funziona è la negazione di un fatto innegabilmente avvenuto in questi anni: un settore eversivo e autoritario della magistratura, di ispirazione fortissimamente reazionaria e giustizialista, è riuscito a creare una struttura politica - parallela ma al tempo stessa interna al Parlamento e alla stessa magistratura - capace di esprimere un potere formidabile, di condizionare i partiti, le leggi, le norme, le politiche, e anche le reti di potere nell’Ordine giudiziario. È una struttura vera e propria, che naturalmente passa dentro l’Anm e i partiti politici, si esprime attraverso i gruppi parlamentari dei 5 Stelle, trova una forza immensa nelle ampie capacità di controllo sulla stampa e sulla Tv, controllo che avviene attraverso lo strumento intimidatorio del Fatto Quotidiano ma che va molto oltre Il Fatto Quotidiano, e che comunque non trova nessun ostacolo serio, tranne alcuni piccoli quotidiani (noi, il Foglio, Il Dubbio e quasi nient’altro) e qualche piccola stazione radio (Radio Radicale e basta). Sapete quando si parla, a vanvera, di P2, di P3, di P4 eccetera eccetera? Stupidaggini. Qui invece siamo effettivamente di fronte a una vera e propria struttura parallela e potentissima, in grado di condizionare e sottomettere il potere legittimo della democrazia. Il primo presidente della Cassazione Mammone: “rischio collasso con la nuova prescrizione” di Errico Novi Il Dubbio, 1 febbraio 2020 Ci si può anche dividere. Ma si resta sempre accomunati dal “comune interesse al corretto funzionamento della giustizia”. Il primo presidente della Suprema corte Giovanni Mammone offre un esempio. Anche rispetto alle prospettive di riforma del processo. Inizia nel ringraziare tutti coloro, non solo i magistrati ma anche “avvocati e personale della giustizia”, che garantiscono una funzione cruciale per la democrazia. Conclude la sua relazione alla cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario 2020 con quella convinzione che tutti gli attori del sistema siano sollecitati dal comune obiettivo a “un impegno di sereno confronto e di reciproca collaborazione”. Ma ecco, se è possibile, nel giorno in cui l’aula magna della Cassazione riunisce i protagonisti della giurisdizione, affermare con serena fiducia il valore della dialettica, allora anche i rilievi del primo presidente sulla “riforma della prescrizione” che secondo molti “prolungherà la durata dei processi” e che produrrebbe una “prevedibile crisi” per il “giudizio di legittimità”, anche tale critica acquisisce un significato particolare. Forse con il vertice della Suprema corte si introduce per la prima volta, nel dibattito sulla prescrizione che lacera i partiti da mesi, un elemento di ragionevolezza da cui persino la politica non potrà prescindere. Mammone è anche componente di diritto del Csm e non manca di soffermarsi sulla vicenda che lo ha scosso. Dell’organo di governo autonomo, avverte, “va salvaguardata l’immagine e l’integrità morale”. Va riaffermato con forza “il ruolo fondamentale” che il Consiglio superiore “ricopre nell’assetto costituzionale”. Anche “l’immagine di un tentativo strumentale di indirizzare l’attività consiliare a fini di parte ha non poco colpito l’opinione pubblica, e ha minato la fiducia che i magistrati stessi pongono nel corretto esercizio delle funzioni del loro organo di governo autonomo”. Un ringraziamento, quindi, va al presidente della Repubblica Sergio Mattarella “per la saldezza e la determinazione con cui è intervenuto per ricondurre l’azione del Consiglio superiore alla normalità istituzionale”. Rispetto ai rischi che possono derivare dalle nuove norme sulla prescrizione, “è auspicabile che intervengano concrete misure legislative in grado di accelerare il processo, in quanto ferma è la convinzione che sia la conformazione stessa del giudizio penale a dilatare oltremodo i tempi”, ricorda il primo presidente. Che però non pare affatto guardare a modifiche in grado di comprimere le garanzie, visto che auspica anche “misure acceleratorie non solo nella parte del processo successiva al primo grado, ora non più coperta dalla prescrizione, ma anche nelle fasi dell’indagine e dell’udienza preliminare, in cui si verificano le maggiori criticità che determinano la dispersione dei tempi” e, appunto, l’estinzione del reato per l’avvenuto decorso dei termini. In ogni caso si dovrà fare i conti con il rischio che la riforma prolunghi la durata dei procedimenti e procuri “ulteriore carico per la struttura giudiziaria, di modo che coloro che siano sottoposti a processo, dopo la sentenza di primo grado, potrebbero rimanere ancora per lungo tempo in questa condizione”. E aggiunge che le stesse vittime del reato “vedrebbero prolungarsi i tempi della risposta di giustizia e del risarcimento del danno”. Una parte consistente della relazione di Mammone riguarda l’insieme dei rilievi statistici, sia generali che relativi alla Suprema corte. Se per quest’ultima c’è ora anche il rischio di “un incremento di 20- 25mila processi l’anno”, pari al numero dei giudizi che si estinguono “per prescrizione in secondo grado”, c’è un altro fattore che già adesso condiziona in maniera visibile il dato sulle pendenze, in particolare nel civile: si tratta del “travaso”, davanti al giudice di legittimità, delle “impugnazioni in materia di protezione internazionale”. Come ricorda il vertice della Suprema corte, “a seguito del decreto 13 del 2017, che ha reso il provvedimento” sulle richieste di asilo, “ricorribile solo per Cassazione”, le impugnazioni in materia “prima diluite tra le Corti di appello, sono affluite tutte nella Suprema corte, e la hanno oltremodo gravata”. Le sezioni civili, nel 2019, hanno visto “un aumento del 3,7% dei ricorsi iscritti, un contenuto aumento dell’ 1,86% dei procedimenti definiti e l’aumento del 5,4% della pendenza generale”. Ma rispetto al 2014, nell’anno trascorso “i procedimenti pendenti sono aumentati del 16,1%”, addirittura. Tutto dipende appunto da quei ricorsi per la protezione internazionale passati da “374 unità nel 2016” a ben “10.341 nel 2019”. In campo penale invece - almeno per ora - la tendenza è assai più incoraggiante. “La Corte di Cassazione”, spiega il suo presidente, “con orgoglio può affermare che nell’anno 2019 i ricorsi penali sono stati decisi in un tempo medio di soli 167 giorni, 13 meno che nel 2018, e che pochissimi sono i casi di prescrizione maturati nel corso del giudizio di legittimità”. Non solo c’è stato un calo delle “sopravvenienze” del 2,2% ma si è anche registrato “un positivo indice di ricambio che, anche nel 2019, si attesta sopra il 100%. Vuol dire che “per ogni 100 ricorsi iscritti in cancelleria penale, ne sono stati esauriti quasi 102”. Non si può prescindere dai numeri. Ma nella parte conclusiva dell’intervento in cui sintetizza la sua ampia relazione, il primo presidente ricorda che sì, “razionalizzazione e adeguamento dei metodi di lavoro stanno dunque inserendosi nella cultura stessa del decidere”. Poi però ricorda: “L’incremento del numero delle decisioni non può costituire un obiettivo assoluto”, perché “per la sua funzione primaria la Corte deve emanare pronunzie convincenti, che per motivazione e autorevolezza si impongano dinanzi ai giudici di merito e agli utenti della giustizia”. Prescrizione, la Cassazione: “La riforma non funziona”. La maggioranza è spaccata di Michela Allegri Il Messaggero, 1 febbraio 2020 La necessità è quella di intervenire al più presto. Perché, senza modifiche, la riforma della prescrizione in vigore dell’1 gennaio 2020 rischia di mettere in crisi il sistema e portare un carico insostenibile di lavoro alla Corte di Cassazione. Servono “correttivi”, perché, in caso contrario, arriveranno 20-25mila cause che solitamente si prescrivono in appello. Cause che, ora, inevitabilmente, verranno portate avanti. A lanciare l’allarme è il Primo presidente della Suprema Corte, Giovanni Mammone, nell’intervento alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario che si è svolto ieri nell’Aula magna del Palazzaccio di piazza Cavour. C’erano il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e le alte cariche dello Stato, compresi il premier Giuseppe Conte, la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati, la presidente della Consulta Marta Cartabia. Mammone bacchetta le Procure, sottolinea che servono “correttivi” anche per accelerare la fase delle indagini e dell’udienza preliminare. A difendere la riforma, da lui fortemente voluta, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Considero una conquista di civiltà il nuovo regime della prescrizione”, ha detto il Guardasigilli in un passaggio del suo intervento. Mentre per il Procuratore generale Giovanni Salvi, sono necessari “bilanciamenti”. Il Pg ha parlato anche dei pericoli legati alle politiche securitarie, destinate a sfociare in un “governo della paura”, e ha parlato dell’effetto criminogeno delle norme sui migranti: “La cessazione dell’accoglienza e delle politiche di inserimento creerà un’ulteriore massa di persone poste ai margini della società”. Salvi, da pochi mesi a capo della magistratura inquirente dopo lo scandalo del mercato delle toghe che ha portato alle dimissioni di Riccardo Fuzio, si scaglia contro i decreti sicurezza varati dal precedente governo: “È bene che sia valutato l’effetto criminogeno e di insicurezza che discende dalla mancanza di politiche razionali per l’ingresso legale e per l’inserimento”. Sulla prescrizione i lavori sono in corso, nel governo si cerca un’intesa difficile da raggiungere. “Esistono divergenze - ha detto Bonafede - è in atto un confronto serrato all’interno della maggioranza per superare le divergenze e consegnare ai cittadini un processo idoneo, garantendo tempi certi ed eliminando ogni spazio di impunità”. Il Pd non ci sta e Italia viva è sul piede di guerra. Sulla prescrizione “noi votiamo la nostra legge, la riforma è un’assurdità, perché toglie diritto ai cittadini. Io faccio una proposta: c’è il lodo Annibali, lo votino”, dice Matteo Renzi. Secondo Giulia Bongiorno della Lega, invece, “l’allarme del Primo presidente è la conferma che quello voluto da Bonafede è un provvedimento devastante”. Anche l’Anm prende posizione. Il segretario Luca Poniz confida nel fatto che la riforma “possa disincentivare i ricorsi strumentali”, ma annuncia battaglia per quanto riguarda le sanzioni ai magistrati che sforano i tempi delle fasi processuali: sul punto l’Anm terrà una “posizione ferma, senza possibilità di mediazione”. Nell’Aula magna si parla anche di dati e di lentezza della giustizia. Mammone esprime preoccupazione per il boom dei ricorsi presentati dai migranti che chiedono protezione internazionale, dopo il decreto Minniti del febbraio 2017: i ricorsi, che stanno affossando gli uffici, sono passati da 374 nel 2016 a 10.341 nel 2019. Mentre Salvi sottolinea che sono il 21% dei processi che si concludono con assoluzioni, “un dato diverso da quello da cui ha preso le mosse il dibattito politico”, che indicava al cifra infondata del 50%. Il Pg, titolare insieme al Guardasigilli dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, informa che “nel 2019 sono state esercitate in totale 156 azioni disciplinari”. Con un aumento del 34,5% rispetto all’anno precedente. Alfonso: “Riforma della prescrizione incostituzionale, ritarderà i tempi della giustizia” di Luca De Vito La Repubblica, 1 febbraio 2020 L’attacco del procuratore generale di Milano. Inaugurazione dell’anno giudiziario, presente anche il ministro Bonafede. E anche i penalisti espongono cartelli e protestano contro la presenza del consigliere del Csm Piercamillo Davigo. La sospensione del corso della prescrizione “non servirà sicuramente ad accelerare i tempi del processo, semmai li ritarderà senza limiti e presenta rischi di incostituzionalità”. È uno dei passaggi della relazione del procuratore generale di Milano Roberto Alfonso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “La norma introdotta consente al processo di giungere all’accertamento del fatto e all’eventuale condanna dell’imputato, è ciò anche a tutela della persona offesa, ma non si può sottacere che essa viola l’articolo 111 della Costituzione, con il quale confligge, quanto agli effetti, incidendo sulla garanzia costituzionale della ragionevole durata del processo”. In tal senso la norma, “a nostro modesto avviso, presenta rischi di incostituzionalità - aggiunge il procuratore generale nella sua relazione alla presenza del ministro della giustizia Alfonso Bonafede - essa invero appare irragionevole quanto agli scopi, incoerente rispetto al sistema, confliggente con valori costituzionali”. A Milano la prescrizione nella fase delle indagini preliminari “incide per il 3,79%”. E a Milano, lamenta Alfonso, ci sono “spaventosi vuoti di organico e la mancanza di risorse che contribuiscono a determinare tempi lunghi del processo”. All’inagurazione - a cui sono presenti oltre al ministro anche Piercamillo Davigo, magistrato e membro togato del Csm, il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, il Sindaco di Milano Beppe Sala e la presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia - si annuncia come un’occasione di protesta contro la riforma della prescrizione anche per gli avvocati: una quarantina di iscritti alla Camera penale di Milano hanno sfilato mostrando cartelli poco prima dell’inizio delle celebrazioni per l’anno giudiziario. “Abbiamo indicato tre articoli della Costituzione: il 24 che è per il diritto di difesa, il 27 che è la presunzione di non colpevolezza è il 111 che è il giusto processo. Accoglieremo Davigo con questi cartelli”, ha detto l’avvocato Giovanni Briola del direttivo della Camera penale. Nei giorni scorsi, infatti, i penalisti milanesi avevano chiesto di revocare la designazione del consigliere Piercamillo Davigo a rappresentare il Csm all’inaugurazione dell’anno giudiziario: richiesta giudicata “irricevibile” dal comitato di presidenza del Csm. “Accanto alle aggressioni fisiche, quelle verbali possono essere ugualmente dannose. Con la narrazione degli avvocati unici responsabili delle lungaggini processuali, i cui testimonial, re incontrastati del talk show serali, rivestono importanti ruoli, purtroppo anche nella magistratura, impegnandone l’autorevolezza, in un quasi generalizzato silenzio”. Così nel suo intervento per l’anno giudiziario il presidente dell’ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo, torna sulla polemica con Davigo. E ancora, nel discorso del procuratore generale si legge che per l’imputato “già solo affrontare il processo penale costituisce una ‘pena’“, anche per il “disdoro che purtroppo nella nostra società massmediatica esso provoca”. E, dunque “l’inefficienza dell’amministrazione” non può “ricadere sul cittadino, benché imputato”. Da “oltre un decennio”, prosegue Alfonso, “denunciamo gli spaventosi vuoti di organico e la mancanza di risorse che contribuiscono a determinare i tempi del lungo processo, ma certamente la soluzione ai ritardi, alla mancanza di risorse, al difetto di organizzazione, alla inefficienza dei servizi, dunque al mancato rispetto dell’articolo 111 Costituzione da parte dei Governanti, non può individuarsi nella sospensione del corso della prescrizione, a danno dell’imputato”. Per questo “il legislatore con urgenza e con sapienza” deve adottare “una soluzione che contemperi le due esigenze: la tutela della persona offesa e la garanzia per l’imputato di un processo di ragionevole durata”. Il Ministro della Giustizia Bonafede difende la sua riforma, ma poi apre al dialogo di Simona Musco Il Dubbio, 1 febbraio 2020 Un confronto serrato in maggioranza per superare le divergenze sulla riforma della prescrizione e su un progetto più ampio di riforma della magistratura. Ma anche l’affermazione del loro ruolo costituzionale degli avvocati e la tutela della dignità delle professioni, attraverso l’equo compenso. Sono questi i passaggi fondamentali del saluto del Guardasigilli Alfonso Bonafede, sospeso tra bilanci e prospettive per il futuro per il rilancio della giustizia italiana. Un futuro che dipenderà dalla capacità di trovare un equilibrio sui temi che dividono i partiti di governo, auspicato dallo stesso Bonafede, ma minacciato dalla distanza delle posizioni. Ed è proprio per questo che il ministro apre al dialogo con le parti, chiedendo che le divergenze in tema di prescrizione non si trasformino in una guerra. Una riforma, ha detto convinto Bonafede, “che considero personalmente una conquista di civiltà” e sulla quale “è in atto un confronto serrato, leale all’interno della maggioranza, per superare le divergenze e consegnare ai cittadini un processo idoneo a rispondere alle loro istanze di giustizia, garantendo tempi certi ed eliminando ogni spazio di impunità”. E se le divergenze rappresentano uno stimolo irrinunciabile per il miglioramento delle proposte di legge, “bisogna sempre evitare che si trasformino in una zavorra rispetto ai cambiamenti che la società impone. Di fronte a un mondo che sta cambiando sempre più velocemente - ha aggiunto - la giustizia non può rimanere immobile, altrimenti perderà la sua necessaria capacità di operare un’equa definizione dei singoli contenziosi che si sviluppano ogni giorno nella società moderna”. Il futuro della giustizia, dunque, per il ministro dipenderà anche dalla capacità di cambiare, andando a sanare le ferite lasciate in eredità dal 2019. E il riferimento non può che essere allo scandalo Csm, per il quale Bonafede ha confermato il confronto interno alle forze di maggioranza per un progetto di riforma ordinamentale della magistratura “che mira a rafforzarne l’autonomia e l’indipendenza, incidendo da un lato sulla interruzione di ogni possibile commistione con la politica, dall’altro lato sulla necessaria eliminazione del rischio delle cosiddette degenerazioni del correntismo”. E per rafforzare la magistratura è necessario passare anche attraverso un rafforzamento dell’avvocatura. La crisi del 2019, ha sottolineato Bonafede, “si è scontrata con un assetto istituzionale forte e compatto, che sotto la sua guida fondamentale del presidente Mattarella ha saputo reagire. Adesso è il momento di intervenire in maniera tale da evitare che episodi così gravi, che minano alla base la credibilità del sistema giustizia, possano ripetersi in futuro”. Come per le toghe, anche la protezione degli avvocati vittime di persecuzione “deve essere sempre riconosciuta - ha evidenziato il ministro - così come merita di essere affermato il loro ruolo a livello costituzionale per la funzione fondamentale che svolgono. Anche per questo, tra l’altro, è forte la mia attenzione materia di equo compenso non solo come aspetto meramente economico, ma come forma di tutela della dignità della professione”. La base del rilancio della Giustizia necessita, però, soprattutto investimenti, invocati da più parti. Investimenti che Bonafede rintraccia nelle assunzioni, con un impegno che “non ha precedenti”, caratterizzato dall’ampliamento delle piante organiche nel quadro di una complessiva distribuzione di 600 nuovi magistrati e dall’introduzione di piante organiche distrettuali flessibili, che garantiscono l’impiego dei magistrati sui singoli territori in maniera sempre più rispondente ad esigenze specifiche. Ovvero una organizzazione della Giustizia in grado di rispondere, socialmente e geograficamente, “alle esigenze che emergono nelle differenti zone del Paese”, per adempiere a quello che è il compito dello Stato: la cura dei diritti del cittadino, garantendo l’eguaglianza sostanziale sancita dall’articolo tre della Costituzione. Le cifre previste per il 2020, in materia di Giustizia, sono di poco superiori a quelle dello scorso anno: circa nove miliardi, previsti dall’ultima legge di bilancio. E parallelamente è stato avviato un piano assunzionale per il triennio 2019- 2021 per 8756 unità di personale non dirigenziale, procedendo anche allo scorrimento della graduatoria di assistente giudiziario. Non mancheranno, inoltre, anche investimenti infrastrutturali su tribunali e carceri, per la digitalizzazione del processo - con un investimento di 650 milioni -, con l’auspicio di “leggi che individueranno nelle nuove tecnologie non soltanto un optional, ma la principale o addirittura l’esclusiva via percorribile soprattutto per quanto concerne gli adempimenti di cancelleria”. Fiore all’occhiello dell’Italia nel 2019, secondo il ministro, la legge anticorruzione, ma anche il cosiddetto “Codice Rosso”, a tutela delle donne vittime di violenza. E poi ancora la legge in fase di conversione sulle intercettazioni, la riforma della normativa sulla crisi d’impresa e l’introduzione dell’azione di classe con la modifica dell’articolo 416 ter del Codice penale in materia di voto di scambio politico- mafioso. Ma ancora più importante, ha aggiunto, è “guardare alla giustizia attraverso gli occhi dei cittadini. Ho aperto le porte del ministero a tanti familiari delle vittime di reati che chiedono non vendetta, ma una risposta di giustizia” e “non mancherò mai di far sentire a quelle persone la vicinanza delle istituzioni”. Riforma della giustizia, Bonafede tira dritto di Franco Pigna La Notizia, 1 febbraio 2020 Con quasi 6 milioni di processi aperti e una riforma che stenta a decollare per via dei veti incrociati della politica, l’inaugurazione dell’anno giudiziario non è passata inosservata. Anzi è stata l’occasione perfetta per fare il punto della situazione da parte del guardasigilli, Alfonso Bonafede, intervenuto dopo il discorso del presidente Giovanni Mammone, come anche per le opposizioni che, in questo clima di perenne campagna elettorale, non hanno perso tempo per lanciarsi nell’ennesimo attacco a testa bassa contro chi, dopo anni di malgoverno, cerca di far ripartire la macchina della Giustizia. “Considero, personalmente, una conquista di civiltà il nuovo regime della prescrizione entrato in vigore dal 1 gennaio 2020” ha spiegato il guardasigilli togliendosi qualche sassolino dalla scarpa. Un intervento a tutto tondo in cui Bonafede non si è risparmiato spiegando come il governo stia continuando gli investimenti nell’edilizia penitenziaria e i lavori per far fronte al sovraffollamento carcerario oltre al tentativo di migliorare le condizioni di lavoro del personale civile e di polizia. “Abbiamo continuato ad investire sul lavoro dei detenuti come forma principale di rieducazione, sviluppando circa 70 protocolli con vari enti per i lavori di pubblica utilità, nonché istituendo un ufficio centrale che coordina e promuove tutti i progetti in questo ambito. Nell’ultima legge di bilancio, tra l’altro, è stato dato un forte e nuovo impulso al settore dell’esecuzione penale esterna e dei minori”, ha aggiunto Bonafede che poi, senza tirarsi indietro, ha affrontato anche il tema dello scandalo del pm Luca Palamara precisando che “la crisi che ha investito il Csm nella primavera del 2019 si è scontrata con un assetto istituzionale forte e compatto che, sotto la guida fondamentale del presidente Mattarella, ha saputo reagire. Adesso è il momento di intervenire in maniera tale da evitare che episodi così gravi che minano alla base la credibilità del sistema giustizia possano ripetersi in futuro”. Parole a dir poco condivisibili ma contro cui si sono scagliate le opposizioni. Prime fra tutte sono piovute le critiche di Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia, che, noncurante il richiamo del presidente Mammone ad approvare rapidamente la riforma della Giustizia, ha sparato a zero: “Il governo ha il dovere di ascoltare l’allarme sulla prescrizione lanciato stamani dal primo presidente della Cassazione, Mammone, secondo il quale gli effetti della riforma Bonafede porteranno di fatto alla paralisi della Corte suprema a causa di un insostenibile aumento del carico penale”. Sulla stessa lunghezza d’onda la senatrice della Lega Giulia Bongiorno, responsabile Giustizia del partito e che seppur contraria alla sospensione della prescrizione si turò il naso e lo votò durante l’esperienza di governo gialloverde. Secondo lei, infatti: “L’allarme lanciato dalla Cassazione è la conferma che quello voluto da Bonafede è un provvedimento devastante per il nostro sistema penale”. Ma critiche non sono state lesinate neanche da Matteo Renzi. Da sempre critico verso il testo di Bonafede, anche ieri è tornato all’attacco: “Noi votiamo la nostra legge” nella speranza che “Fi ci segua e che magari anche il Pd si riscopra riformista”. Parole che devono aver fatto brillare gli occhi di Matteo Salvini, speranzoso che possano condurre ad una caduta del governo, ma che Renzi ha mitigato poco dopo precisando che in ogni caso “questo (voto, ndr) non comporterà alcuna crisi di governo”. L’ombra di Palamara e il caso prescrizione sul futuro della giustizia di Liana Milella La Repubblica, 1 febbraio 2020 Alle spalle c’è l’anno nero della magistratura, lo squasso del caso Palamara. Le trattative notturne tra toghe del Csm e politica per le nomine. Di fronte ci sono quelle stesse nomine, a cominciare dai vertici delle procure di Roma e di Perugia (che indaga sulla capitale) ancora da fare, anche se il vice presidente del Csm David Ermini le promette “al più presto” e dice “nonostante la bufera il Csm si è rialzato”. E c’è lo scontro, che non ha eguali, sulla prescrizione: magistrati contro il governo giallorosso (“nessuna mediazione” sulla punizione disciplinare per i ritardi, promette il presidente dell’Anm Luca Poniz); avvocati scatenati contro il Guardasigilli Alfonso Bonafede e contro i giudici. In questo eccezionale, e mai visto, “tutti contro tutti” cadono le tradizionali cerimonie d’apertura dell’anno giudiziario. Ieri a Roma in Cassazione, oggi nei 26 distretti di corte d’appello (occhi puntati su Milano per l’altolà degli avvocati contro Piercamillo Davigo inviato del Csm). Pomo della discordia è sempre la prescrizione “corta” (stop dopo il primo grado) del ministro della Giustizia Bonafede, che la definisce “una conquista di civiltà”. Anche dopo l’allarme del primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone che calcola in 20-25mila i processi in più che precipiterebbero su piazza Cavour. In positivo c’è solo la consapevolezza condivisa che “non dovranno più verificarsi casi come quello di Palamara”, come dice il procuratore generale Giovanni Salvi che sulle toghe sotto inchiesta aggiunge: “Dal mercimonio dei magistrati deriva un danno incalcolabile”. Anche se la scure disciplinare è pronta (156 casi l’anno scorso, il 34,5% in più del 2018). Il presidente Sergio Mattarella è in platea. Applaude raramente. C’è il premier Conte che arriva trafelato da palazzo Chigi. Le prime due donne al vertice della Consulta Marta Cartabia e dell’Avvocatura dello Stato Gabriella Palmieri. Aula magna vietata, mai accaduto nella storia delle inaugurazioni, ai giornalisti. Si parte con Mammone, ed è subito scontro sulla prescrizione. Perché il blocco “prolungherà la durata dei processi e procurerà ulteriore carico per la struttura giudiziaria”. Servono “misure acceleratorie” per tutte le fasi del processo. Ai suoi dubbi si aggiungono quelli del Pg Salvi che definisce la prescrizione “un istituto di garanzia correlato all’inerzia dei pubblici poteri e alle loro inefficienze, a presidio del diritto all’oblio”. Bonafede insiste sulla “norma di civiltà”, ma non si sottrae al confronto. Sul quale piove anche l’altolà serale di Giuliano Pisapia: “Eliminare la prescrizione è un gravissimo attacco al sistema della giustizia del nostro Paese”. Assoluzione in primo grado per il 20% dei processi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2020 Sono questi quelli su cui inciderebbe il lodo del premier Conte. Stanno alla fine delle quasi 200 pagine della relazione del nuovo Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, eppure si tratta di dati inediti e ambiziosi. Si propongono infatti di sfatare alcuni luoghi comuni che inquinano il dibattito, anche di queste settimane, sulla giustizia penale. Il primo è sul numero delle assoluzioni in primo grado. Tra l’altro quelle sulle quali inciderebbe il lodo Conte in materia di prescrizione. Non è vero allora che la metà dei processi avviati si conclude con un verdetto di assoluzione. In realtà, le assoluzioni vere e proprie sono circa il 20%; nel 2018, dei poco più di 300.00o procedimenti definiti in primo grado, infatti, le condanne sono state 52,5% e le assoluzioni il 20,7 per cento. Nelle elaborazioni, infatti, nell’unica voce “assoluzioni” erano inseriti esiti del giudizio del tutto diversi tra loro. Oltre all’ovvia, ma significativa, voce dell’estinzione del reato per prescrizione, si sommavano gli esiti derivanti dalla remissione di querela, dalla morte del reo, dall’oblazione, dalla messa alla prova positivamente adempiuta, dalla minima rilevanza del fatto. Dati che fanno dire a Salvi che “non solo non può trarsene la conclusione che il pubblico ministero eserciti male i suoi poteri (o il giudice i suoi, conclusione pure possibile, senza una adeguata conoscenza del dato), ma può invece affermarsi che funzioni il filtro del giudice. Sotto quale livello statistico si passerebbe dalla critica alle Procure a quella dell’appiattimento del giudice sul pubblico ministero?”. Quanto alla riforma in appello di condanne in primo grado, anche qui i dati testimoniano che di circa 78.00o sentenze di secondo grado, 64.000 sono di condanna, con riforme rispetto al primo grado relative non a un ribaltamento del verdetto quanto alla determinazione della pena, soprattutto. Salvi che sulla prescrizione considera un “punto critico” della Bonafede la parificazione tra sentenza di condanna e assoluzione per il decorso della prescrizione, assist quindi più o meno volontario al lodo Conte che questa distinzione invece introduce, ha invece bollato “l’effetto criminogeno e di insicurezza che discende dalla mancanza di politiche razionali per l’ingresso legale nel Paese e per l’inserimento sociale pieno di coloro che vi si trovano”. La verità è che non diminuiranno i processi né la loro durata, anzi non ci sarà mai fine di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 1 febbraio 2020 Il paradosso: chi venisse assolto in primo grado potrebbe essere riprocessato in secondo grado anche dopo molti anni. La notizia è nota e se ne parla ormai da qualche mese: dal primo gennaio il corso della prescrizione nel processo penale è sospeso - sine die - a seguito del primo grado di giudizio, sia esso terminato con una condanna o con un’assoluzione. Ciò che però non è stato, a parere di chi scrive, veramente analizzato - dal punto di vista tecnico giuridico - sono le ripercussioni che questa modifica avrà nel processo penale e nel sistema giudiziario italiano in generale. Il - necessario - punto di partenza per un’analisi in tal senso risiede nella circostanza per la quale i processi in questa maniera non diminuiranno assolutamente, né diminuirà la loro durata, ma, al contrario, potrebbero non finire mai, lasciando il presunto innocente in una insopportabile fase di stallo, in un limbo eterno. Questo dato è utile perché coloro che elogiano questa riforma fanno leva, per l’appunto, su un’asserita diminuzione dei processi e della loro durata. Evenienza, come detto, falsa. Ed infatti, paradossalmente la ratio della prescrizione è proprio rinvenibile nell’esigenza di rispettare il fondamentale principio della ragionevole durata del processo: la prescrizione è, invero, la sola sicurezza circa il fatto che il processo avrà una fine. Senza questo timer, senza questa clessidra, che granello dopo granello, detta i tempi ai giudici, sollecitandoli ad agire, gli stessi potranno protrarre un giudizio penale per anni. Fine pena (peraltro non definitiva) mai, dunque. Il paradosso, come detto, risiede nella circostanza per la quale un imputato assolto in primo grado potrà rimanere sotto processo per l’intera durata della sua vita, in quanto nessuna regola imporrebbe ai magistrati di agire. Poniamo il caso, ad esempio, che il secondo grado di giudizio venga celebrato a distanza di molti anni dal deposito della sentenza di primo grado: in questa ipotesi l’applicazione di una sanzione penale diverrebbe addirittura inutile ed inopportuna in quanto la società non avrebbe più alcun interesse a punire l’imputato. Peraltro, in questo contesto perderebbe di tutto il proprio valore la funzione rieducativa della pena, sancita dall’art. 27, c. 3 della Costituzione: l’imputato - assolto o condannato in primo grado - inizierebbe a scontare la pena a distanza di molto tempo dalla commissione del fatto e non trarrebbe dall’esecuzione penale alcuna rieducazione. Tuttavia, come detto in altre sedi, le strade percorribili per diminuire veramente la durata ed il numero dei processi penali ci sono e sono numerose: il problema del sistema giudiziario nostrano risiede nella mancanza di strumenti di prevenzione alla commissione di un reato. Il passo da operare dovrebbe essere quello di passare definitivamente da un concetto di repressione ad uno di prevenzione. Un ulteriore mezzo sarebbe quello di aumentare il personale operante nelle cancellerie dei magistrati, dove i pochi funzionari, privi di risorse e mezzi, non possono ottemperare a tutte le varie incombenze, accumulando, così, ritardi ed errori su tutti i fascicoli processuali.* avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici *Avvocato, direttore Ispeg Istituto per gli studi politici, economici e giuridici Pubblico ministero, un super poliziotto che non risponde di quel che fa di Giuseppe Di Federico Il Riformista, 1 febbraio 2020 In una recente intervista, Sabino Cassese ha detto di aver saputo da fonte attendibile che circa i due terzi delle persone sottoposte a giudizio risultano poi innocenti nel corso dei tre gradi di giudizio. I dati esatti non li conosciamo e proprio ieri i Radicali hanno chiesto, con una lettera aperta al Ministro Bonafede pubblicata da Il Dubbio, di fornirli. Nell’attesa sappiamo comunque che le percentuali sono molto elevate e certamente tali da imporre una riflessione sul perché di un fenomeno tanto diffuso e tanto pernicioso per il cittadino. Chiedono di riflettere, in particolare, sulle modalità con cui operano i guardiani dei cancelli dell’iniziativa penale, cioè i nostri pubblici ministeri (Pm). Si può certamente dire che l’assetto del nostro Pm è fortemente deviante rispetto a quello degli altri Paesi a consolidata democrazia. Lo è sotto diversi profili. Poiché ho solo poco spazio a mia disposizione concentrerò la mia attenzione sugli aspetti di maggiore devianza, cioè quelli che più di altri contraddicono momenti rilevanti della funzionalità di uno stato democratico sia per quanto riguarda il controllo delle politiche criminali che la protezione dei diritti civili nell’ambito del processo penale. Lo farò tenendo ovviamente conto che i nostri pubblici ministeri operano in un contesto in cui vige il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale sconosciuto in altri Paesi, principio che è al contempo irrealizzabile e ciononostante gravido di implicazioni sul piano operativo. Farò inizialmente riferimento al peculiare ruolo del nostro Pm nella fase investigativa. Una fase che è cruciale per la protezione dei diritti civili non solo perché di fatto vi è in questo settore dell’attività del Pm molta discrezionalità, ma anche perché quella discrezionalità è priva di reali, efficaci controlli. Il nostro Pm non solo è pienamente indipendente rispetto agli altri poteri dello Stato, ma lo è in larga misura anche all’interno del suo ufficio. Ha anche il pieno ed esclusivo controllo gerarchico della polizia per la conduzione delle indagini (ce lo ha ricordato di recente anche la nostra Corte costituzionale). La polizia deve cioè operare seguendo esclusivamente le istruzioni del Pm. Quindi il Pm nella fase delle indagini è sostanzialmente un vero e proprio poliziotto pienamente indipendente, che certamente non è meno poliziotto per il solo fatto di chiamarsi Pm. Non esiste nessun paese a consolidata democrazia in cui il Pm sia pienamente indipendente ed abbia poteri di polizia tanto ampi ed incontrollati. Sul piano operativo significa, tra l’altro, che di sua iniziativa il nostro Pm può svolgere, se lo vuole, indagini su ciascuno di noi con tutti i gravi ed irreparabili danni che questo comporta per il cittadino che poi risulti innocente. Si tratta di danni irreparabili sul piano sociale, economico, politico, familiare e della stessa salute come viene ricorrentemente documentato dalle cronache giudiziarie. Danni la cui angosciosa, drammatica, gravità ci è stata ricordata giorni fa anche dal presidente dell’Unione camere penali, Gian Domenico Caiazza, in un suo articolo dal significativo titolo: “L’assordante silenzio degli innocenti”. Se molti anni dopo il giudice di appello o cassazione riconosce che i motivi dell’azione penale o erano inconsistenti o non rilevanti sotto il profilo penale, nessuna responsabilità può comunque essere imputata, né è mai stata imputata ad un Pm, né sul piano disciplinare e neppure sul piano della valutazione della professionalità. Nei casi in cui si sono invocati quei tipi di responsabilità, esse sono state escluse con riferimento all’indipendenza del Pm e/o al fatto che in presenza della convinzione che vi fossero seri indizi di reato, il Pm era obbligato ad agire per non violare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, un principio costituzionale che quindi trasforma qualsiasi comportamento discrezionale e ingiustificato del Pm in un atto dovuto per legge. Robert Jackson, quando era ancora Attorney General degli Usa (procuratore generale degli Stati Uniti, capo del Dipartimento della Giustizia n.d.r.), in un suo discorso del 1940 ai procuratori federali che da lui dipendevano, li avvertiva che nel ruolo del Pm è insito un pericolo, e cioè che potendo scegliere i casi, i Pm possono anche scegliere la persona ed indirizzare la polizia alla ricerca di possibili reati da lui commessi. È un fenomeno che riguarda tutti i Paesi ove i reati sono molto più numerosi di quelli che possono essere perseguiti, e quindi di fatto anche nel nostro, a dispetto dell’obbligatorietà dell’azione penale. La cosa che rende quel fenomeno più pericoloso nel nostro Paese è che i Pm degli altri paesi democratici sanno che i comportamenti scorretti vengono in vario modo sanzionati, mentre i nostri Pm sanno che i loro comportamenti non sono comunque soggetti a censure di nessun tipo. Vengo ora al ruolo del Pm nella promozione dell’azione penale. È ormai un fatto pienamente riconosciuto anche in Italia che non tutti i reati possano essere perseguiti così come erroneamente creduto dal nostro Costituente e come previso all’art. 112 della nostra Costituzione. Il compito di scegliere quali reati perseguire viene di fatto lasciato alla libera ed indipendente valutazione dei nostri Pm, che in tal modo definiscono di fatto a livello operativo, senza trasparenza e senza responsabilità alcuna, gran parte delle politiche pubbliche del nostro Paese nel settore criminale. Anche questo non avviene in nessun paese a consolidata tradizione democratica (Inghilterra, Germania, Francia, Olanda, Austria, Stati Uniti, e così via) perché sarebbe ritenuto incompatibile con il principio che le politiche pubbliche debbono essere decise nell’ambito del processo democratico. Vale a riguardo ricordare quanto lapidariamente affermato dalla Commissione presidenziale francese a cui, nel 1997, il presidente Chirac aveva, tra l’altro, affidato il compito di esplorare la possibilità di sottrarre il pubblico ministero al controllo gerarchico del ministro della giustizia. La Commissione liquidò la questione in poche parole ricordando che nessun paese era mai riuscito, né sarebbe mai potuto riuscire a perseguire tutti i reati. Che quindi sottraendo il Pm al controllo del Ministro si sarebbe anche demandato al Pm il compito di effettuare le scelte di priorità. Cioè scelte di politica criminale. Concludeva ricordando che in un paese democratico le politiche pubbliche in tutti i settori, e quindi anche nel settore criminale, devono essere definite da organi che ne rispondano politicamente. Un orientamento riaffermato anche di recente (2017) dal Conseil constitutionnel francese, in un giudizio promosso dal Syndicat de la Magistrature che da molto tempo vorrebbe che il Pm francese avesse gli stessi poteri del Pm italiano. Ho citato questo caso perché illustra la principale ragione per cui in tutti i paesi a consolidata democrazia l’organizzazione del Pm è gerarchica, unitaria e vede al suo vertice un soggetto politicamente responsabile del settore (di regola il ministro della giustizia, ma anche un altro soggetto come avviene in Spagna e Portogallo ove il capo dello Stato nomina un procuratore generale pro tempore su indicazione del governo). Non posso qui trattenermi sulle misure che vari Paesi democratici adottano per evitare che un assetto più controllato dell’attività del Pm possa portare ad un uso distorto dei suoi poteri soprattutto per iniziativa del potere politico. È tema di grande importanza risolto in maniera differente da Paese a Paese e che non può certo essere trattato nell’economia di questo breve articolo. Da ultimo, solo due riflessioni sui progetti di riforma costituzionale attualmente pendenti in Parlamento e volti a regolare le attività del Pm: uno predisposto dall’Unione delle camere penali e l’altro presentato dal senatore Vitali. La prima riflessione è che questi progetti di riforma prevedono la fissazione di priorità nell’esercizio dell’azione penale da parte del Parlamento senza indicare chi dovrebbe controllare il pieno rispetto di quelle priorità e come dovrebbero essere sanzionati i trasgressori. Ed è a dir poco difficile immaginare come questo possa avvenire in un regime di piena indipendenza esterna ed interna del Pm quale esso è attualmente e che non viene modificato in nessuno dei due progetti di riforma. La seconda riflessione. Nelle relazioni delle due proposte di legge si riconosce che esiste un’incontrollata discrezionalità del nostro Pm nella fase delle indagini, ed era difficile non farlo visto che entrambe le relazioni hanno ampiamente copiato, pur senza dirlo, i miei scritti. Tuttavia nell’articolato non prevedono nessuna norma volta a rimuovere o attenuare i pericoli che al cittadino derivano dalla esistenza nel nostro Paese di un Pm che nella fase delle indagini è di fatto un poliziotto che può agire in piena indipendenza senza portarne responsabilità alcuna. Le ricorrenti tensioni che questo ha prodotto nel governo del nostro Paese e i danni che ha causato a moltissimi cittadini innocenti sono certamente ancor più gravi di quelli che possono derivare dalla assenza di priorità nell’azione penare che le norme di quei due progetti di legge costituzionale cercano di regolare. Cuneo. Per i detenuti servono lavoro, formazione professionale e strutture adeguate ideawebtv.it, 1 febbraio 2020 Conferenza stampa in Provincia con i Garanti dei detenuti. Borgna: “La qualità di vita di un carcere dice del livello di una società civile”. Soprattutto lavoro, dentro e fuori dal carcere. Ma anche formazione professionale e strutture adeguate. È quello che chiedono centinaia di detenuti nelle carceri piemontesi e nelle quattro carceri della Granda costretti a trascorrere le giornate in cella nell’ozio o senza possibilità di reinserimento futuro. L’appello è stato lanciato giovedì 30 gennaio in Provincia durante la conferenza stampa dei garanti dei detenuti promossa dal garante regionale Bruno Mellano con i garanti comunali Alessandro Prandi (Alba), Mario Tretola (Cuneo), Rosanna Degioanni (Fossano) in scadenza, Bruna Chiotti (Saluzzo) e Paolo Allemano che l’ha sostituita da un mese nell’incarico. Lo scopo era quello di presentare il quarto dossier delle criticità strutturali e logistiche relative alle carceri piemontesi del 2019. “La qualità di vita di un carcere dice del livello di una società civile - ha ricordato il presidente della Provincia Federico Borgna - e la figura del garante dei detenuti è essenziale perché, potendo conoscere in problemi dal di dentro, può fare molto in tal senso, più di quello che conosciamo dal di fuori”. Dalla relazione annuale sulle attività del garante svolta da Mellano emergono anche i dati relativi alle carceri piemontesi e della Granda. Ha anche sottolineato l’importante ruolo svolto dal volontariato penitenziario che spesso si trova a tamponare le emergenze compiendo una funzione sociale unica. I detenuti presenti al momento in Piemonte sono infatti circa 4.700 a fronte di 3.700 posti disponibili, con uno sbilanciamento di circa 1.000 detenuti in più. Ci sono carenze strutturali come, ad esempio, per il carcere di Alba chiuso nel 2016 dopo un’epidemia di legionella che aveva colpito detenuti e poliziotti penitenziari. Il garante Prandi ha ricordato come Alba possa considerarsi “un caso italiano perché i fondi per i lavori urgenti all’istituto ci sono, ma il progetto non è ancora terminato”. L’unico padiglione aperto ospita oggi 44 reclusi in condizioni di sovraffollamento, ma continua la cura del vigneto interno al carcere, da cui nasce il vino “Valelapena”, una delle eccellenze dell’agricoltura sociale in Italia. Al carcere Cerialdo di Cuneo sono ospitati 302 detenuti, di cui il 70% sono stranieri con molti problemi correlati. Accanto al padiglione nuovo suddiviso su quattro piani che ne ospita circa 250, ci sono 46 detenuti in regime 41bis (reati di mafia) in una struttura che necessità di lavori idraulici urgenti, mentre resta chiuso da dieci anni l’ex padiglione giudiziario (circa 100 posti) che andrebbe ristrutturato. Tretola: “Due le urgenze: lavoro e giustizia riparativa, cioè percorsi di recupero e reinserimento che nascano dall’incontro tra il reo e la vittima”. La recidiva di chi è detenuto in carcere è del 70%, mentre per chi è sottoposto a pene alternative si ferma al 19%. Fossano è invece dal 2014 l’unica casa di reclusione del Piemonte a “custodia attenuata” con 123 detenuti presenti che sono a fine pena o prossima alla scarcerazione. L’edificio è stato ristrutturato nel 2007, ma manca un percorso reale di lavoro e di formazione finalizzato al reinserimento, come ha ribadito la garante Chiotti il cui mandato scade oggi e per il quale il Comune ha varato un bando di selezione: “È il miglior carcere del Piemonte, ma anche il più chiuso perché mancano spazi per il lavoro interno, spazi per detenuti in articolo 21 o semiliberi e progetti per lavoro esterno, nonostante gli sforzi della direzione e degli operatori”. A Saluzzo la struttura ospita 311 detenuti in regime di alta sicurezza (maggior pericolosità). Bruna Chiotti ha concluso il suo mandato ricordando come i detenuti facciano richiesta incessante e continua di lavoro vero e sia dignitoso, non solo gli incarichi per la manutenzione interna (pulizia, cucina, ecc.). Il neo garante Paolo Allemano ha annunciato l’avvio di un piccolo polo universitario con otto detenuti che inizieranno a seguire un corso di laurea in Scienze politiche e Legge, ma non dispongono di aule e rete Internet. Il Garante regionale Mellano ha ricordato al termine altre novità a livello regionale, cioè la costruzione ad Asti di un nuovo padiglione detentivo, il progetto di trasformazione di un’ex caserma di Casale Monferrato in carcere e la realizzazione ad Alba di una “casa lavoro” per 20 internati che hanno scontato la pena e possono già lavorare, ma sono sottoposti a misure di sicurezza perché ritenuti ancora socialmente pericolosi. Un cenno, infine, al problema dei detenuti tossicodipendenti e di coloro che soffrono gravi disturbi psichici o psichiatrici per i quali il carcere non rappresenta una soluzione. Trento. “Sicurezza e salute in carcere, un impegno multidisciplinare” provincia.tn.it, 1 febbraio 2020 Così l’assessore alla salute Stefania Segnana intervenendo al convegno “Infermità mentale, imputabilità e disagio psichico in carcere” a Giurisprudenza. L’infermità mentale e il disagio psichico in carcere è uno dei temi più sensibili, delicati e difficili da affrontare da parte delle istituzioni politiche, giudiziarie, sociali e sanitarie, chiamate a dare risposte all’esigenza, rimasta irrisolta dopo la chiusura dei manicomi criminali, di trovare un equilibrio tra la cura e la pena, tra la salvaguardia del diritto alla salute dei detenuti e l’esigenza punitiva nei confronti degli autori di reato a garanzia della sicurezza sociale. Un tema sul quale, a livello locale, hanno posto l’attenzione anche l’Assessorato provinciale alla salute, il Dipartimento delle Politiche sanitarie e sociali oltre che le diverse realtà istituzionali che sono impegnate su questo fronte, e del quale si discute oggi e domani alla facoltà di Giurisprudenza a Trento in un importante convegno - “Infermità mentale, imputabilità e disagio psichico in carcere: definizioni, accertamento e risposte del sistema penale” il titolo - organizzato dalla professoressa Antonia Menghini, Garante dei detenuti, e da Elena Mattevi e patrocinato dalla Camera penale di Trento, dall’Ufficio Garante dei diritti dei detenuti della Provincia, dall’Ordine degli avvocati di Trento e dall’Ordine degli assistenti sociali della Regione Trentino Alto Adige. Al convegno ha portato, anche a nome della Giunta provinciale, il proprio saluto istituzionale l’assessore alla salute Stefania Segnana. “La permanenza in carcere 24h su 24 di operatori sanitari e professionisti - ha affermato tra l’altro l’assessore - garantisce una sicurezza non solo per i detenuti ma anche per chi lavora all’interno del carcere, la presenza numerosa della polizia penitenziaria oggi al convegno è una dimostrazione di quanto sia doveroso creare un ambiente più sicuro anche per loro”. L’attualità dell’argomento è testimoniata, oltre che dalla qualità dei relatori invitati a parlarne, dalla numerosità del pubblico - composto da psichiatri, avvocati penalisti, criminologi, docenti, medici, assistenti sociali e studenti - che ha riempito la Sala 1 di Giurisprudenza. “Parlare di disagio carcerario non è facile - ha affermato intervenendo all’apertura dei lavori l’assessore Segnana - ed è un tema che va affrontato in maniera sicuramente multidisciplinare, considerando il fenomeno con approcci diversi a seconda delle aree su cui puntare il focus. La riorganizzazione dal punto di vista prettamente sanitario introdotta recentemente dalla Giunta provinciale con una specifica delibera, sta dando risposte puntuali in tal senso. L’inserimento di nuovi operatori sanitari, di medici di continuità assistenziale, di psicologi e psichiatri assegnati al carcere di Trento, rappresentano sicuramente una prima, concreta risposta all’esigenza espressa dai detenuti di poter contare sulla presenza di operatori qualificati in ogni momento della giornata e della notte. La presenza 24 ore su 24 di operatori sanitari e professionisti garantisce una sicurezza non solo per i detenuti ma anche per chi lavora all’interno del carcere, in primo luogo gli operatori della polizia penitenziaria”. “Non solo: i dati emersi dall’osservatorio per la salute carceraria - ha concluso Segnana - dimostrano come la collaborazione tra enti diversi che accedono al carcere e che insieme si prendono in carico le singole situazioni, offrono l’opportunità di sviluppare modelli virtuosi di convivenza e di gestione delle condizioni di disagio manifestate dai detenuti. Pensiamo che questa sia la strada giusta e siamo impegnati nel continuare a garantire sicurezza e benessere dentro il carcere, una condizione che garantisce di riflesso sicurezza e benessere anche al suo esterno”. Salerno. Un cancro, figlio disabile, moglie morta un anno da scontare: niente domiciliari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2020 È affetto da una grave patologia neoplastica con multiple metastasi, inoltre a causa della coesistenza di grave patologia cardiovascolare non può essere sottoposto, al momento, a trattamento chemioterapico che risulterebbe tossico e non tollerato. Per questo - come hanno scritto nero su bianco i medici - necessita di un attento monitoraggio clinico e di una condizione di ridotto stress psico-fisico per preservare lo status di immunodepressione e ridurre il rischio di complicanze. Ma nonostante questo e le istanze presentate (prontamente rigettate dalla magistratura) l’uomo è tuttora detenuto. Parliamo di Gennaro Sicignano, attualmente recluso per droga presso la casa circondariale di Salerno (precisamente nel reparto detentivo dell’ospedale) con un fine pena al 31 maggio del 2021. Ha un figlio disabile e si è aggiunta la tragedia della moglie, deceduta nei primi giorni del mese di gennaio. A Gennaro Sicignano, che aveva fatto istanza di recarsi al suo capezzale, è stato rifiutato il permesso, in quanto - secondo il magistrato di Sorveglianza e l’Asl competente - la signora non era in “imminente pericolo di vita”. Purtroppo è morta cinque giorni dopo il rigetto della richiesta di permesso. Tutta questa situazione ha fatto indignare anche la direzione del carcere di Salerno che con una nota del 3 gennaio ha scritto ai vari uffici competenti ed al Tribunale di Sorveglianza di Salerno sostenendo anche la possibile violazione dei principi di umanità e dignità delle persone. Una terribile vicenda che ha appreso Rita Bernardini del Partito Radicale tramite l’avvocato Emiliano Torre, il legale di Gennaro. Il caso è emblematico perché la magistratura di sorveglianza ha rigettato la richiesta di detenzione domiciliare nonostante il parere favorevole del procuratore generale, le due consulenze di parte e anche il parere di Rita Romano, la direttrice della Casa circondariale di Salerno. Un parere, quest’ultimo, corroborato dalla relazione redatta dal sanitario dell’istituto penitenziario che dichiara l’incompatibilità di Sicignano al regime detentivo. Il quadro clinico descritto è disarmante. Si legge che fin da quando è giunto nell’istituto, ovvero a novembre del 2019, era già affetto da patologie quali l’adenocarcinoma del colon destro, insufficienza cardiaca cronica decompensata in cardiopatia ischemica post- infartuale, anemia a genesi multifattoriale, depressione del tono dell’umore, sarcopenia, instabilità statico- dinamica, piccolo esito ischemico cerebrale in sede lenticolare destra, diabete mellito di tipo 2, dislipidemia mista, steatosi epatica, litiasi della colecisti, ernia iatale, gastropatia antrale e duodenopatia erosiva- emorragica. Una lunga lista di patologie che oltre a dover essere trattate in maniera accurata, rendono complicata anche la cura del tumore. Un mix di malattie che lo rendono incompatibile con il regime detentivo, compreso il reparto giudiziario ospedaliero. “Considerate le condizioni di salute del detenuto Sicignano - scrive la direttrice del carcere di Salernoa più riprese ne è stato chiesto il trasferimento presso una struttura dotata di Sai (Servizio assistenza intensificato ndr.). Nello specifico il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (ha individuato come sede di destinazione il Centro clinico di Secondigliano. Tuttavia - prosegue sempre la direttrice - le innumerevoli richieste di disponibilità del posto letto hanno sempre ricevuto risposta negativa da parte della direzione sanitaria di Secondigliano”. La direttrice Rita Romano conclude che “sarebbe auspicabile una rapida soluzione della questione attesa l’irragionevole protrarsi della stessa”. Lo stesso ospedale di Salerno ha ritenuto il Sicignano non idoneo a restare presso la struttura, e ha invitato ad un trasferimento presso struttura idonea, struttura che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non riesce a trovare in quanto tutte piene o perché - appunto - non idonee alle patologie che il detenuto manifesta. Una situazione clinica davvero grave e nessuno è in grado di correre ai ripari. L’avvocato Emiliano Torre e la collega Maria Cammarano avevano chiesto la detenzione domiciliare perché se fosse a casa e accudito potrebbe in teoria sottoporsi a cure in centri maggiormente specializzati anche fuori provincia. Ma la sorveglianza ha respinto la richiesta a causa di una violazione della misura che Sicignano ha commesso quando era stato precedentemente ai domiciliari. Ma il diritto sulla salute, previsto dall’articolo 32 della Costituzione, teoricamente non dovrebbe venire prima di ogni altra esigenza punitiva? Pordenone. Il cantiere del nuovo carcere può ripartire: bocciato il ricorso di Kostruttiva Il Gazzettino, 1 febbraio 2020 Carcere a San Vito: inammissibile il ricorso di Kostruttiva. Il cantiere può ripartire. I giudici del Consiglio di Stato hanno bocciato il ricorso per ottemperanza dell’azienda. Kostruttiva aveva vinto la gara d’appalto indetta dal Provveditorato interregionale per le opere pubbliche di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia. La sentenza del Consiglio di Stato ha rovesciato quella del Tar dando ragioni alla Pizzarotti, impresa che aveva partecipato alla gara. Chiusa la fase delle vertenze legali, sarà compito della stazione appaltante e cioè del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti Provveditorato interregionale, definire i dettagli del subentro. L’obiettivo di Kostruttiva era ottenere chiarezza, tra gli altri temi, sul pagamento dei lavori eseguiti prima del subentro (progetto, insediamento del cantiere, prime opere di bonifica nell’ex caserma Dall’Armi). Il Comune di San Vito (come Ministero e Provveditorato) si era costituito in giudizio nel ricorso per ottemperanza promosso da Kostruttiva contro Pizzarotti “Perché - ha chiarito il sindaco Antonio Di Bisceglie - l’unico nostro interesse è che il carcere venga completato il prima possibile, al di là di chi lo costruirà, visto che abbiamo messo a disposizione il sito dell’ex caserma”. Alla fine i giudici hanno ritenuto il ricorso di Kostruttiva inammissibile perché proposto dalla parte privata soccombente nella sentenza della cui esecuzione si tratta. Sentenza che rimanda alla parte pubblica titolata a chiedere chiarimenti al giudice che presentano elementi di dubbio o di non immediata chiarezza. La sentenza chiarisce che la stazione appaltante ha ampia facoltà di intervenire sulla vicenda. Cosa succederà adesso e quale sarà il destino del carcere da 300 posti di San Vito? Con questa sentenza si chiude il capitolo dei ricorsi pendenti e il boccino passa al Ministero - Provveditorato per le opere pubbliche di Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia che dovrà definire i dettagli (tra cui quelli economici) per il passaggio del cantiere da Kostruttiva a Pizzarotti. Serviranno provvedimenti per decretare tali passaggi, ma una volta firmato il subentro, il cantiere potrà ripartire. Da parte sua il Comune di San Vito ha già fatto la propria parte per promuovere l’opera. Ha messo a disposizione l’ex caserma da riconvertire in penitenziario, sollecitando la conclusione dei lavori. Di sicuro il sindaco Antonio Di Bisceglie tallonerà ora la stazione appaltante affinché si definisca il passaggio e il riavvio del cantiere entro tempi certi. Saluzzo (Cn). In carcere un corso universitario per otto detenuti di Lorenzo Boratto La Stampa, 1 febbraio 2020 Lavoro e formazione sono le questioni più urgenti nelle quattro carceri della Granda. L’hanno ricordato i garanti comunali e regionale dei detenuti ieri in un incontro a Cuneo. Mario Tretola del Cerialdo: “Chi è in carcere ha il 70% di recidiva. Chi è sottoposto a pene alternative si ferma al 19%”. Rosanna Degioanni della casa di reclusione di Fossano, unica del Piemonte a “custodia attenuata” (il Comune, con un bando che scade oggi, sta selezionando un nuovo garante): “Tanti detenuti chiedono di venire a Fossano nell’illusione di avere un lavoro, un percorso di formazione e crescita, ma i progetti restano solo sulla carta”. L’ex garante di Saluzzo, Bruna Chiotti: “I detenuti fanno richiesta incessante e continua di lavoro. Che sia dignitoso”. Il neo Garante di Saluzzo, Paolo Allemano, ha ricordato poi il corso del liceo Soleri attivo nel carcere e che “otto detenuti inizieranno a seguire un corso di laurea in Scienze politiche e Legge, però servono aule e collegamento Skype”. Per il carcere di Alba c’era il garante Alessandro Prandi; ha ricordato che da 4 anni resta chiuso il padiglione che era stato sgomberato per un’epidemia di legionella che aveva colpito detenuti e poliziotti penitenziari. I reclusi ora sono 44 e si è riusciti comunque a continuare la cura del vigneto interno al carcere, da cui nasce il vino Vale la pena, “una delle eccellenze dell’agricoltura sociale in Italia”. Il Garante regionale Bruno Mellano, promotore dell’incontro, ha spiegato che a Saluzzo da due mesi sono stati “sgomberati” i detenuti in media sicurezza per l’alta sicurezza (maggiore pericolosità), mentre ad Alba sorgerà una Casa lavoro da 20 internati, cioè chi ha già scontato la pena, ma è sottoposto comunque a misure di sicurezza perché ritenuto socialmente pericoloso. Smentita invece la costruzione di un nuovo padiglione a Fossano, come riportato nella relazione annuale: la notizia si riferisce al carcere di Asti. Brescia. Progetto Verziano, danza e scrittura creativa in carcere di Lilina Golia Corriere della Sera, 1 febbraio 2020 Promuovere la cultura dell’inclusione, riducendo i pregiudizi che alimentano atteggiamenti discriminatori, con la prospettiva di costruire una comunità attenta e sensibile alla valorizzazione dei rapporti sociali e al reinserimento delle persone al termine della pena. Accoglienza e integrazione tra realtà carceraria e società civile. Questa in sintesi la finalità del Progetto Verziano, che ritorna per la sua nona edizione sempre con la direzione artistica di Giulia Gussago della Compagnia Lyria. L’attività, realizzata in collaborazione con il Ministero di Giustizia Casa di Reclusione Verziano, gode del patrocinio di Regione Lombardia, Provincia di Brescia, Consigliera di Parità Provincia di Brescia, Associazione Italiana Insegnanti Metodo Feldenkrais (una pedagogia basata sulla conoscenza approfondita della organizzazione fisica del corpo), Centro Sportivo Educativo Nazionale, Rotary Club Corte Franca Rovato e si avvale del contributo di molti partner, in primis del Comune di Brescia. Quest’anno il format degli incontri pone maggiormente l’attenzione al processo di lavoro e di consapevolezza attraverso la pratica della danza e della scrittura creativa. L’accesso a questa esperienza è rivolta, come sempre, ai detenuti della sezione maschile e femminile della Casa di Verziano, ad allieve e allievi di Compagnia Lyria che già conducono percorsi artistici ed hanno partecipato alle precedenti edizioni del progetto, a liberi cittadini maggiorenni che saranno “ospiti” di due laboratori domenicali all’interno del carcere, a studenti maggiorenni delle Scuole superiori, presso gli istituti scolastici e presso il carcere per l’incontro con i detenuti, infine alla popolazione che parteciperà agli eventi promossi all’esterno del carcere per la diffusione del progetto. Quest’anno, ed è una novità, è prevista una nuova iniziativa: i cittadini, che faranno richiesta, potranno accedere per una giornata a Verziano per vivere una esperienza diretta insieme al gruppo di lavoro. Poiché i posti sono limitati, per iscriversi alla visite è opportuno consultare il sito compagnialyria.it. Da ricordare che lo scorso anno è stato realizzato un video (dal titolo “Vieni, vieni più vicino”), una sintesi del lavoro svolto, che ha fatto conoscere sul territorio nazionale questo progetto made in Brescia. Per quanto riguarda l’happening finale in data 7 giugno, le modalità di partecipazione verranno rese note in seguito. Modena. Cani in carcere: “con loro nuove speranze ai detenuti” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 1 febbraio 2020 Antonello Nakhleh, istruttore cinofilo, porta in carcere gli amici a quattro zampe: “Organizzo corsi per diventare operatori di canile”. Un’intera adolescenza dedicata allo sballo; tra notti di follia e chili di cocaina da vendere ai più giovani. Poi, all’improvviso, il baratro e la risalita verso la seconda vita, quella vera, e un sogno che finalmente diventa realtà. Grazie ad Antonello Nakhleh, 33 anni di Novi, a partire da marzo gli amici a quattro zampe del canile intercomunale entreranno in carcere, prima al Sant’Anna e poi alla casa lavoro di Castelfranco. Un progetto, quello ideato dal giovane, che rappresenta una possibilità concreta sia per l’animale che per il detenuto. Infatti ai carcerati sarà data l’opportunità di seguire un corso di formazione per operatore di canile della durata di un anno. Una volta ottenuto il riconoscimento e scontata la pena il detenuto potrà inserirsi nel mondo del lavoro. “Gli obiettivi del progetto sono diversi - spiega Antonello, istruttore cinofilo - intanto ai ragazzi racconterò in qualità di docente la mia storia, facendo capire che prima c’ero io da quella parte e che c’è sempre una seconda strada da percorrere. Avranno l’occasione, dopo il corso, di reinserissi nel mondo del lavoro e, nello stesso tempo, il detenuto stilerà una sorta di scheda del cane affinché possa essere adottato con più facilità. Per ora saranno coinvolti quindici detenuti selezionati tra sex offender, alta sicurezza e collaboratori di giustizia. In futuro vorremmo riuscire a far sì che il penitenziario adottasse uno dei cani del canile perché attraverso la pet therapy il carcerato possa aprirsi emotivamente. L’animale funge anche da ‘pontè nel rapporto tra il detenuto e i familiari: potrebbe aiutare in alcuni casi a ricostruire la relazione padre-figlio”. Alessandro, attraverso la sua storia e l’innovativo progetto offre infatti un messaggio di speranza e una possibilità. Il giovane, ex tossicodipendente e spacciatore, dopo un percorso a San Patrignano a 20 anni, ha deciso di voltare pagina: è diventato allevatore e formatore cinofilo e nel 2007 ha fondato Hello Dog Cinofilia, a Soliera che propone corsi di formazione ma che è attiva su più fronti, tra cui quello del volontariato. La scuola è un riferimento nazionale e all’interno ha un centro d’esame qualificato per istruttori. “Il cane suscita emozioni positive ed io ho capito quanto potesse dare all’uomo proprio a San Patrignano, dove mi occupavo del canile. Ho iniziato a fare uso di stupefacenti a undici anni; a tredici avevo già provato di tutto ma avevo bisogno di soldi per farmi. Così ho iniziato a spacciare: eravamo in otto, tutti giovanissimi. Marionette nelle mani di pezzi grossi e arrivavamo a spacciare fino a trenta chili di droga al mese, oltre a migliaia di pastiglie di extasy. Spesso il nostro compito era quello di rifornire studenti. Tutte le entrate, poi, le bruciavamo in vizi e droga fino a che qualcuno non ha fatto il mio nome. Sono stato arrestato e condannato a quattro anni. Mi hanno dato l’opportunità di scontare la pena a San Patrignano e mi hanno affidato il settore canile: è stata la mia salvezza. Da quel momento la mia vita è cambiata. Vorrei così riuscire ad aiutare chi ha scelto la strada sbagliata come ho fatto io; affinché capisca che l’alternativa esiste e che si può fare tanto, soprattutto per gli altri”. Bologna. Carcere, la raccolta differenziata entra alla Dozza di Ambra Notari Redattore Sociale, 1 febbraio 2020 Il progetto, avanzato da Comune con Hera, ha trovato d’accordo l’amministrazione penitenziaria. Oggi nel carcere bolognese la differenziata è al 10%. L’assessore Aitini: “Contenitori in ogni camera e raccolta in giorni prestabiliti. Coinvolgeremo le persone detenute”. Una specie di raccolta porta a porta, ma all’interno della casa circondariale di Bologna. È il progetto che l’amministrazione penitenziaria e il Comune di Bologna, in collaborazione con la multiutility Hera, stanno portando avanti per promuovere la raccolta differenziata anche all’interno del carcere. La conferma arriva da Alberto Aitini, assessore comunale con deleghe a sicurezza, commercio, Polizia Locale, Protezione Civile e manutenzione del patrimonio e del verde pubblico. L’idea è quella di mettere raccoglitori per la differenziata in ogni camera detentiva, da esporre all’esterno in giorni e orari prestabiliti per essere raccolti da alcuni detenuti formati ad hoc. Al momento, i detenuti potrebbero già fare la differenziata smaltendo separatamente carta, plastica e organico, in realtà viene gettato tutto nello stesso cestino. Anche per questo motivo, la raccolta differenziata in carcere è ferma al 10 per cento. “Naturalmente contiamo di coinvolgere tutti coloro che vivono o lavorano in carcere: persone detenute, agenti penitenziari, funzionari, volontari”, specifica Aitini. Il progetto prevede che Comune ed Hera predispongano un piano per la raccolta differenziata - da sottoporre alla direzione dell’istituto - e si occupino anche della formazione delle persone che saranno coinvolte, detenuti (individuati direttamente dall’amministrazione penitenziaria) e non. Per la realizzazione, l’assessore ha chiesto anche la partecipazione del Garante cittadino dei detenuti, Antonio Ianniello: “Mi piacerebbe anche coinvolgere le associazioni di volontariato che lavorano all’interno del carcere”. Il costo del servizio sarà interamente coperto dal Comune ed eventualmente della multiutility bolognese. “È un progetto a cui teniamo molto, potenzialmente potremmo coinvolgere oltre mille persone: un piccolo paese - sottolinea Aitini -. Riteniamo poi possa essere una bella occasione formativa ed educativa per tutti, aspetto non secondario. Per questo ringrazio Hera, che ci ha subito offerto massima disponibilità, e la direttrice Claudia Clementi, che ha dimostrato sensibilità e interesse sul tema e ha immediatamente condiviso la nostra proposta”. Ascoli. Teatro in carcere per i detenuti del Marino del Tronto primapaginaonline.it, 1 febbraio 2020 Dal mese di febbraio al mese di giugno 2020, presso la Casa Circondariale Marino del Tronto di Ascoli Piceno (Ap), si svolgerà il progetto del Teatro in carcere. L’iniziativa è stata promossa dalla Associazione Betania in collaborazione con la Caritas Diocesana di Ascoli Piceno, la Casa Circondariale Marino del Tronto e realizzata insieme alla Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno. Ascoli, perché il Teatro in Carcere? Il progetto nasce con la finalità la generazione di un impatto sulla persona dei detenuti al fine di stimolarne l’acquisizione di soft skills che possano aiutarli a superare la quotidianità della vita da reclusi e conoscere più approfonditamente sé stessi. I principi cardine di questo processo sono il recupero e reinserimento sociale delle persone detenute attraverso esperienze teatrali volte a favorire la tutela del diritto alla salute intesa come benessere fisico, psichico e sociale. Inoltre, fondamentale è anche il riconoscimento della dignità artistica, culturale e trattamentale dell’attività teatrale in carcere e della sua importante funzione di collegamento con la società. La valorizzazione del teatro in carcere viene utilizzata come veicolo di conoscenza e crescita personale per i detenuti attori, dove, a detta del Ministero della Giustizia: “l’esperienza del gruppo teatrale consente di sperimentare ruoli e dinamiche diversi da quelli propri della detenzione, sostituendo i meccanismi relazionali basati sulla forza, sul controllo e sulla sfida con quelli legati alla collaborazione, allo scambio e alla condivisione”. Il teatro in carcere vuole gettare un ponte fra il dentro e il fuori degli istituti di pena, praticando l’idea di un teatro d’arte al servizio delle comunità, un servizio pubblico da svolgere con autonomia e libertà creativa. Per poter svolgere in maniera professionale l’attività prevista nel progetto, è stata incaricata l’Associazione Teatro Delle Foglie di Ascoli Piceno che presenta un’esperienza pluridecennale di teatro sociale. Gli esperti si recheranno nella Casa Circondariale Marino del Tronto una volta alla settimana a partire da mese di febbraio e fino al mese di giugno 2020, per realizzare, con i detenuti, questa esperienza teatrale ad evidente valenza artistica, comunicativa e rieducativa. Brescia. Storia del rock, con Dr. Feelgood la musica entra in carcere di Luca Imperatore gnewsonline.it, 1 febbraio 2020 Ieri 31 gennaio alle ore 20.30 all’interno della Casa di Reclusione Verziano di Brescia, Dr. Feelgood and the Black Billies si sono esibiti per i detenuti della struttura. Si è trattato di un concerto con lunghe introduzioni attraverso cui il conduttore di Virgin Radio, considerato tra i maggiori esperti di American Roots Music, racconta la storia delle canzoni eseguite e i generi musicali a cui fanno riferimento. Giovedì scorso Maurizio Faulisi, in arte Dr. Feelgood, ha tenuto una lezione sulla storia della musica popolare americana che ha suscitato interesse ed entusiasmo tra i detenuti. Lo spettacolo di domani farà rivivere le radici della musica americana, dalle canzoni di artisti della prima generazione rock & roll come Buddy Holly, Fats Domino ed Elvis Presley, a star del country come Johnny Cash, Hank Williams e Webb Pierce. All’interno della Casa di Reclusione Verziano di Brescia ogni settimana vengono proposti spettacoli musicali e teatrali aperti a tutta la popolazione detenuta. Nella mente del criminologo. “Il diavolo mi accarezza i capelli”, di Adolfo Ceretti di Gad Lerner La Repubblica, 1 febbraio 2020 Adolfo Ceretti raccoglie in un libro il “male” che ha studiato tutta la vita. Dai delitti italiani da prima pagina agli esperimenti di giustizia riparativa. “Ceretti, avevi ragione, non era una cazzata quella che mi avevi proposto. Ne valeva la pena”. Se dopo quarantasette anni trascorsi dietro le sbarre il celebre bandito Renato Vallanzasca si rivolge così al criminologo che l’ha convinto a incontrarsi con una delle sue vittime, vuol dire che davvero la giustizia riparativa, che aspira alla ricomposizione dei punti di vista senza pretesa né di perdono né di penitenza, può aprire uno squarcio di consapevolezza. Tant’è che Vallanzasca - non chiamatelo “il bel René” se no davvero s’incazza - accomiatandosi da Adolfo Ceretti dismette la sua corazza di seduttore e confida: “Ho deciso di stare al mondo perché voglio uscire di qui prima di morire”. Potrei continuare a raccontarvi quali siano le regole impulsive a cui s’è ispirata tutta la vita del bandito della Comasina, cominciando dalla pessima idea di quei tre giovani milanesi che con la loro utilitaria gli soffiarono il posto in cui stava parcheggiando l’auto sportiva (rubata) per andare al cinema con la ragazza. Ma questo è solo un capitolo fra i tanti delle memorie di un criminologo che non cerca effetti speciali, non si esibisce nei talk, ma aspira a “trovare un posto al disordine”. Confrontandosi con il male che è dentro di lui, per entrare in sintonia col male che ha spinto altri a diventare violenti. Vastissimo è l’orizzonte delle esperienze sentimentali e scientifiche che rendono questo libro un unicum affascinante. Ci sono i casi più noti della cronaca nera italiana - da Erika e Omar ai satanisti di Lecco fino al killer della Uno Bianca, Alberto Savi - ma anche i protagonisti della mediazione fra vittime e carnefici del dopo apartheid in Sudafrica; ci sono i mafiosi, e i brigatisti rossi che accettano il confronto con i congiunti degli innocenti presi a bersaglio, per poi addentrarci nelle favelas brasiliane e nella bolgia infernale delle carceri boliviane. Senza falsa modestia, Ceretti si descrive tra i criminologi che “non solo in Italia, più si occupano di cose concrete, del cuore, dell’anima delle persone, pur senza aver mai perso il mio interesse verso la costruzione di ipotesi teoriche”. Chi lo conosce sa quanto sia timido e schivo, ma la sua autorevolezza di ricercatore nei territori inesplorati della giustizia riparativa spazia ormai su almeno tre continenti. Cosa sarà mai questa giustizia riparativa? Per spiegarlo non trovo di meglio che descrivere la mattinata che pochi anni or sono ho avuto modo di vivere, grazie a un suo invito, nella palestra del carcere Due Palazzi di Padova, dove si erano radunati centinaia di detenuti condannati definitivi per reati gravi, spesso in regime di massima sicurezza, con i loro parenti. Difficile trattenere le lacrime mentre, uno dopo l’altro, gli ergastolani salivano a rilasciare la loro testimonianza accanto ai figli che per anni il vetro antiproiettile gli aveva proibito anche solo di tenere per mano. E riconoscevano come fossero stati proprio quei ragazzi a farli desistere dal codice ottuso e violento della criminalità, per tentare di recuperare l’umanità e l’affettività perdute. Dietro c’è un lavoro improbo, soggetto a fallimenti ma prezioso, per arrivare a dirsi - “in uno spazio di parola protetto dai mediatori” - “il lampo e il temporale causati dall’offesa altrui” che li aveva inferociti. Possibile “punto di svolta per ritrovare un’immagine di sé meno opaca e negativa”. Il titolo del libro, “Il diavolo mi accarezza i capelli”, scaturisce proprio da un drammatico confronto fra due detenuti in lite, giunti a promettersi la morte: “Professo’, ogni sera, prima che io mi addormenti, il diavolo viene e mi accarezza i capelli”. Per esplorare i meandri interiori del male che genera violenza, Ceretti compie la scelta più audace: guarda dentro di sé. Perché anche a lui, anche a noi, nella vita succede che il diavolo accarezzi i capelli. Ecco dunque la ferita di un padre che cade in depressione e smette di parlare quando Adolfo è ancora adolescente. La madre con cui fatica a comunicare e che legge di nascosto il biglietto infilato da Adolfo nella tasca di papà prima che ne venga chiusa la bara. E ancora l’identificazione nella fragilità di una nipote, il buco nero dei malesseri che lo assalgono sotto forma di una sindrome chiamata post viral fatigue. L’umiltà con cui affronta questa fatica introspettiva gli consente un approccio alla dimensione criminale davvero inedito. Ne trae alimento anche la ricerca teorica che lo fa entrare in relazione con i colleghi impegnati a livello internazionale in questa nuova branca del diritto. Dove la letteratura, il cinema, la poesia e le arti figurative - che arricchiscono il racconto immaginifico di questo libro - lo aiutano a oltrepassare i limiti angusti della criminologia clinica ereditata da Cesare Lombroso. Lo avevano intuito i Maestri cui Ceretti rende omaggio con la maiuscola e con ritratti affettuosi. Il primo è Giandomenico Pisapia, estensore del nostro Codice di procedura penale, che, scegliendolo come assistente, lo definiva “l’ultimo puledrino della mia scuderia”. Il secondo è stato il magistrato Guido Galli, ucciso con tre colpi di pistola davanti a un’aula dell’Università Statale di Milano nel 1980 da un commando di Prima Linea. Farà molta fatica, Adolfo Ceretti, a accettare una relazione personale con l’autore di quell’omicidio: Sergio Segio. Solo dopo diversi incontri col “nemico” troverà il modo di dirgli, durante una cena, quale ferita ha inferto pure a lui. Ma riunendo con pazienza, per anni, un gruppo di lavoro basato nel Centro San Fedele di Milano, si realizzerà lo straordinario “Libro dell’incontro”, opera collettiva, insieme, di vittime e responsabili della lotta armata. Quanto sia stato difficile, può intuirlo chi si è appassionato nella lettura del romanzo Patria di Fernando Aramburu. Ma questo non è un romanzo. E le incomprensioni non sono mancate, ad esempio nel febbraio 2016, quando la Scuola superiore della magistratura ha rifiutato di ospitare un loro intervento. La giustizia riparativa, che cerca di soddisfare il bisogno di comprensione senza offrire in cambio premi o sanzioni, è solo ai suoi primi passi. Deve fare i conti con la propagazione della paura che diventa passione collettiva e orienta le mentalità. Al centro dell’esperienza di vita di Adolfo Ceretti resta sempre la fisicità e la vulnerabilità dei corpi, che lo spinge all’interpretazione e nei modi più diversi lo turba. Era ancora giovanissimo quando giunto a Londra, ospite di un amico prezioso come Claudio Abbado, s’imbucò in una festa della rockstar Boy George; per darsi alla fuga quando i partecipanti, in uno sballo collettivo, cominciarono a denudarsi. Quale estrema diversità dai corpi tatuati degli adolescenti “in conflitto con la legge” ammucchiati l’uno sull’altro a migliaia dentro la prigione di Palmasola a Santa Cruz di Bolivia. Eppure è in quella dimensione feroce e selvaggia che il criminologo in cerca di riparazione deve saper immergersi. “Atonement”, di Salvatore Torre. La letteratura come àncora di salvezza recensione di Stella GrilloVen sulromanzo.it, 1 febbraio 2020 La letteratura come àncora di salvezza “Atonement. Storia di un prigioniero e degli altri” è un libro di Salvatore Torre, edito da Libreria Editrice Vaticana. Salvatore Torre è un detenuto dall’età di vent’anni che, nel tempo trascorso in carcere, ha scoperto l’amore per la cultura. Oggi cinquantenne, nel 2018 ha vinto il Premio Vatican News, mentre nel 2019 diventa uno scrittore con la pubblicazione del suddetto romanzo autobiografico, curato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera e con un’introduzione del Mons. Dario Edoardo Viganò, vice-cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e delle Scienze sociali della Santa Sede. La riscoperta passione per la letteratura ha aiutato Salvatore a evadere dalla sua condizione di prigionia forzata. Con questo libro, infatti, consegna ai lettori la sua storia e quella di altri detenuti come lui, descrivendo con minuzia l’esperienza del carcere, i sentimenti e le sensazioni. Un excursus di vicende drammatiche dovute all’abbandono, alla malavita, alla devianza, agli ambienti sociali poco funzionali. Storie di vita nate in realtà malavitose, criminali, a volte spietate che sembrano già definire il destino di un individuo “colpevole” di esser nato in situazioni simili, quasi come se il fato prevalesse sul libero arbitrio del soggetto. La pubblicazione ha un triplice valore, un’operazione letteraria che investe non solo lo stesso Torre, percorrendo un viaggio all’interno di se stesso e della propria esistenza, ma narrando anche di quelle vite silenziose e oscure che spesso aleggiano all’interno delle carceri e di cui non si sa niente, donando a chi è fuori una piccola finestra per capire quel mondo, spesso, sconosciuto all’esterno. La scrittura ha un forte impatto emozionale, le parole possono sembrare incastonate da una certa ruvidità espressiva, e, a volte, trascendendo nel volgare proprio per mettere in risalto quel tipo di ambiente e di vita che si è costretti a vivere. Fra le pagine si ritrovano espressioni forti che sembrano proprio rievocare quello scenario malavitoso in cui, spesso e volentieri, è difficile intravedere un barlume di speranza. Il microcosmo, il piccolo mondo che si vive, è quello di un carcere. Un contesto fatto di uomini e donne finiti nella spirale della criminalità e della devianza, a volte anche appena adolescenti. Una patina che non si scolla via facilmente, quando si attacca addosso. Quando si parla di carcere la prima cosa che balza alla mente è la libertà negata, quasi una sorta di sgretolarsi della propria identità, costretta a sopravvivere, forzatamente, in un luogo. La seconda cosa è la gestione del tempo, il da farsi dei detenuti che subiscono questa costrizione. L’apposizione del termine Atonement all’inizio del titolo dell’opera non è casuale: il vocabolo deriva dall’inglese e in italiano possiede un duplice significato. Se, semanticamente può designare la riparazione di una colpa commessa, quindi, “l’espiazione”, si può trovare un duplice significato che indica la salvezza, la “redenzione”. I protagonisti della storia sono quindi consapevoli del male commesso, forse sollevati di porre rimedio ai misfatti, ai crimini, alle atrocità commesse, ma silenziosamente chiedono anche comprensione e pietà al lettore, che per la prima volta si avvicina a un mondo che sembra un limbo, una dimensione parallela. Il carcere come un limbo di persone invisibili è quello che traspare dalle pagine di Salvatore Torre, che fluttuano tra le mura palesando il loro malessere e sperando di salvarsi e redimersi dai loro stessi errori. Lo scrittore probabilmente scrive con l’auspicio che il lettore non giustifichi le malefatte, ma ne comprenda le condizioni. Torre è un ergastolano che ormai nel corso del tempo ha smembrato le sue colpe e i suoi reati, analizzandoli: il messaggio dell’autore è quindi volto a spiegare che vivere in una circostanze deviante non giustifica i comportamenti criminali, ma sicuramente rafforza le devianze commesse da chi, come lui, è stato costretto a vivere in atmosfere stantie e in condizioni di difficoltà. Riuscire a salvarsi, con queste premesse, è impossibile, soprattutto perché qualsiasi ragazzo è alla perenne ricerca dell’amore e dell’approvazione di chi gli sta vicino: un padre, le occasioni sociali, gli amici. Anche se dovesse significare avviare comportamenti criminali e distruttivi per raggiungere la tanto agognata approvazione. Questo è il messaggio dello scrittore, che se da un certo punto di vista sembra chiedere la misericordia del lettore, dall’altro meno emotivo traspare invece la voglia di far conoscere a chi legge la sua storia e le tantissime storie che aleggiano in quelle mura, chiedendo solo a chi è fuori di liberarsi dai preconcetti. Salvatore Torre con la sua opera “Atonement. Storia di un prigioniero e degli” altri invita dunque a far capire al lettore che la vita è una lotta continua, e ognuno la affronta con gli strumenti a propria disposizione: un’esortazione che mira alla rinuncia del pregiudizio, verso realtà sociali che sono poco conosciute. Quel pensiero unico della giurisprudenza che ha creato il “diritto penale populista” di Stefano Mannoni Il Giornale, 1 febbraio 2020 “Ghiribizzi penalistici per colpevoli”, di Fausto Giunta. Di liberali in giro ne sono rimasti pochi. E quelli sopravvissuti non albergano, salvo eccezioni, nelle facoltà di giurisprudenza italiane. Per quale ragione? Perché in esse la fa da padrone un pensiero unico inappellabile che può riassumersi così: la separazione dei poteri è un punto di vista derogabile; il primato della giurisdizione è indiscutibile; la dialettica istituzionale è solo tra giudici di livello più basso e più alto fino a quelli internazionali; e infine le garanzie individuali non sono un valore assoluto ma condizionato alla salvaguardia dell’etica pubblica. Ecco perché quando un professore di diritto penale dell’Università di Firenze, Fausto Giunta, si avventura a esprimere una argomentata opinione dissenziente è doveroso prestargli ascolto. Nel suo libro, “Ghiribizzi penalistici per colpevoli”, Ets, 2019, non si può proprio dire che la mandi a dire, seppure con eleganza e ironia. Il punto di partenza è lo stato attuale del diritto penale: la norma non viene più creata dal legislatore e applicata dal giudice, bensì abbozzata dal Parlamento e definita nel corso del processo. Eppure le cose non dovrebbero stare così. Il principio di riserva di legge da tre secoli a questa parte serve proprio a difendere il cittadino dall’arbitrio del giudice. Il cittadino dovrebbe sapere quali comportamenti creano un disvalore sociale tale da attirargli la sanzione penale. Strano a dirsi, ma sono in molti a non pensarla in questo modo. Il vero nemico sarebbe il legislatore e il magistrato invece apparirebbe come l’alfiere di giustizia, complice il tenace discredito che da trenta anni colpisce il Parlamento. Non è così del resto che funziona negli Usa? Non comandano i giudici? Non proprio, ci ricorda Giunta. In Italia si è sviluppata la tendenza a prendere a prestito dagli Usa le componenti che fanno comodo per rigettare le altre. Sì allora all’abolizione del grado di appello nel merito, ma no all’adozione della giuria; sì a una certa indeterminatezza della norma penale, ma no alla fedeltà al precedente, per tacere poi dei contrappesi rappresentati dalla discrezionalità dell’azione penale e dalla scelta dei giudici nel novero degli avvocati, addirittura aborriti. A impensierire in tutto questo è lo sviluppo di una concezione vendicativa del penale e della convinzione che la norma si plasmi nel processo, il che spiega la tenace e perversa campagna in corso a favore dell’allungamento della prescrizione. Le parole di Giunta sono sferzanti nel descrivere la condizione in cui versa la giustizia penale: “bulimia punitiva”, “diritto penale populista”, “libertinaggio ermeneutico”. In filosofia vi è del resto chi avalla questa degenerazione dicendo: non vi sono fatti, ma solo interpretazioni. Verrebbe da commentare: ce ne siamo accorti! Non è detto del resto che questa concezione sacerdotale che affida ai giudici tanto il facere quanto il dicere del diritto migliori di molto salendo i gradi del giudizio. Persino i giudici europei del Lussemburgo e la Corte costituzionale non vanno esenti da critiche per cedimenti molto significativi rispetto alla bibbia del liberalismo penale. Alla quale, nella sostanza, ci dice Giunta bisogna tornare resistendo alle sirene di un diritto libero amministrato da mandarini del diritto legittimati solo dal carisma popolare e da una supposta sapienza tecnica. E allora ecco la ricetta. Innanzitutto restituire centralità alla riserva di legge che, per quanto appannata nel suo ruolo di garanzia, è sempre superiore alla interpretazione soggettiva di un ceto di giudici irresponsabili. In secondo luogo ripudiare il fondamentalismo punitivo che confonde la linea di demarcazione tra illecito penale e giudizio morale. In terzo luogo rifuggire da ogni forma di surrettizia responsabilità penale oggettiva che annacqui il requisito del dolo o della colpa individuali. Infine mettere mano all’ordinamento giudiziario che non può rimanere racchiuso nel recinto di una corporazione autoreferenziale. Giusto. Sapevamo che essere liberali è impegno quotidiano e controcorrente. Fausto Giunta ci ha dato un incoraggiamento per perseverare. Spettatori in carcere e reclusi fuori: “VR Free” il doppio binario virtuale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2020 Il documentario del regista iraniano Tangshir. Un documentario che si basa su due livelli di realtà virtuale. Gli spettatori indossano dei visori a 3D ed entrano al carcere di Torino la Vallette, possono muoversi liberamente come se fossero dentro l’istituto penitenziario. Possono incontrare i detenuti, che a loro volta indossano dei visori che però li proiettano nella loro “realtà virtuale”: quella fuori dal carcere. “VR Free” è il titolo di questo documentario che vuole sensibilizzare sull’isolamento della popolazione carceraria. Era il 22 marzo 2019 quando nell’aula B3 del Campus Luigi Einaudi di Torino, Milad Tangshir presentava per la prima volta il trailer del documentario VR Free. Dopo cinque mesi quell’opera è sbarcata a Venezia in occasione della 76a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, con il merito di essere l’unico film italiano selezionato nell’ambito della Venice Virtual Reality, la categoria dedicata all’uso della realtà virtuale. Oggi, invece il documentario è in concorso al Sundance Film Festival. Milad Tangshir, regista iraniano nato a Tehran nel 1983 e laureato al Dams dell’università di Torino, ci porta nella Casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino attraverso la virtual reality. Questo tipo di tecnologia permette un’esperienza unica all’occhio di chi guarda, consentendo l’immersione in un mondo definito dallo stesso autore, “per sua natura pieno di spazi crudi e violenti”. Il carcere visto dall’interno, la reclusione vissuta in prima persona. “Credo che la realtà virtuale - ha dichiarato il regista - sia uno strumento molto potente per raccontare il concetto di spazio. Abbiamo provato a sfruttare questo potenziale in modo espressivo e drammatico. “Vr Free” vuole mostrare al pubblico la realtà nascosta della prigione, stimolando un dibattito sempre più necessario sui nostri spazi di detenzione”. Il cortometraggio di Tangshir, come detto, non si limita a portare il pubblico all’interno di una struttura detentiva. Allo stesso modo, utilizzando cioè un visore a 360°, anche i detenuti hanno potuto vivere la medesima esperienza immersiva, ma in senso opposto. A loro, costretti all’interno della casa circondariale, è stata data la possibilità di “evadere”: andare allo stadio, passeggiare all’aria aperta o visitare luoghi che sembrano lontani. Il cortometraggio, della durata di 10 minuti, è uno dei progetti selezionati e sostenuti dal Bando “Under35 Digital Video Contest - Giovani Protagonisti”, promosso dalla Film Commission Torino Piemonte. Prodotto da Valentina Noya per l’Associazione Museo Nazionale del Cinema di Torino, VR Free è stato realizzato con il sostegno e la collaborazione dell’Assessorato alle Politiche giovanili della Regione Piemonte, Antigone Piemonte, Emergency Infopoint Torino, Eta Beta scs, Sapereplurale e Diritti Globali LiberAzioni Axto Nord. Migranti. Il governo prende tempo ma l’accordo con la Libia resta di Carlo Lania Il Manifesto, 1 febbraio 2020 Le modifiche al memorandum sui migranti si faranno “nell’arco dei prossimi tre anni”. C’è tempo. La risposta del governo giallorosso a chi chiede di non rinnovare il memorandum con la Libia visto che non è stato possibile migliorarlo è che il 2 febbraio, giorno in cui l’accordo per fermare i barconi dei migranti si rinnoverà automaticamente, non rappresenta una scadenza per eventuali modifiche. Che potranno essere apportate in futuro attraverso “uno scambio di note durante il periodo della sua validità”. Cioè entro i prossimi tre anni, che però è come dire che probabilmente non accadrà nulla vista la situazione del Paese nordafricano e le possibili variabili dalle quali potrebbero dipendere le relazioni tra Roma e Tripoli. A palazzo Chigi ieri si è tenuto un vertice veloce sulla Libia e sul memorandum prima del consiglio dei ministri convocato per discutere dell’emergenza coronavirus. Presenti, oltre al premier Giuseppe Conte, i ministri degli Esteri, dell’Interno e delle Infrastrutture. A quanto pare le proteste di numerose associazioni, ma anche dell’Oim, dell’Unhcr e da ieri anche del Consiglio d’Europa perché l’Italia non rinnovi l’accordo con Tripoli non sono servite a niente. Così come, almeno finora, non ci sarebbe traccia dei miglioramenti promessi a ottobre dal governo. C’è, invece, la conferma del supporto (da capire se economico o in fornitura di nuovi mezzi con cui bloccare in mare i migranti) alla contestata Guardia costiera libica, dei finanziamenti alle aree della Libia interessate al passaggio delle carovane dei migranti e della fornitura di strutture sanitarie. Insieme alla richiesta di chiudere i centri governativi dove ancora oggi vengono tenuti prigionieri i migranti per sostituirli con strutture gestite dall’Oim e dell’Unhcr. Senza alcun impegno da parte libica, pare di capire, visto che non si può imporre la presenza di organismi internazionali. La prossima settimana dovrebbe riunirsi la commissione italo-libica delegata a discutere le modifiche all’accordo e lunedì a Roma potrebbe arrivare Fathi Beshaga, ministro dell’Interno libico e uomo forte del governo di Tripoli. Al momento però si naviga nell’incertezza totale, visto che non è detto che dall’incontro possano uscire risultati concreti. Dopo le aperture fatte da Roma al generale Khalifa Haftar, il premier libico Serraj non vede più l’Italia come un alleato del quale potersi fidare come in passato. Senza contare che, ora che Tripoli è sempre più sotto il controllo della Turchia, la tensione crescente tra Roma e Ankara sui giacimenti di gas al largo di Cipro potrebbe indurre il presidente Erdogan a mettersi in mezzo a un accordo che ridare all’Italia un ruolo nel Paese nordafricano. Continua intanto la mobilitazione contro il memorandum. Un mailbombing è stato lanciato dalla campagna “Io accolgo” della quale fanno parte numerose associazioni tra le quali Arci, Gruppo Abele, Asgi, Medici senza frontiere, per chiedere ai ministri Di Maio e Lamorgese di non rinnovare l’accordo con la Libia. “Anche grazie al supporto dell’Italia persone innocenti e vulnerabili sono intrappolate in un Paese in guerra, costrette a vivere situazioni di pericolo e minaccia e sottoposte a un sistema di detenzione arbitrario e spietato” ha denunciato Marco Bertotto, responsabile per gli affari umanitari di Msf. Stessa richiesta avanzata da Amnesty International e dal Consiglio d’Europa. “L’Italia deve sospendere con urgenza le attività di cooperazione con la Guardia costiera libica almeno fino a quando quest’ultima non possa assicurare il rispetto dei diritti umani” ha chiesto Duja Mijatovic, commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa. E per domani 2 febbraio, giorno in cui si rinnova il memorandum, i Radicali italiani hanno convocato per le 15,30 un presidio sotto Montecitorio al quale hanno invitato a partecipare anche il movimento delle Sardine. Migranti. Centri per il rimpatrio, strutture inutili e fallimentari di Liana Vita Il Manifesto, 1 febbraio 2020 Tensione, forze dell’ordine in tenuta antisommossa, gabbie su gabbie e torrette d’avvistamento, psicofarmaci e tracce sui corpi di autolesionismo. Queste le immagini del centro per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo riportate dal deputato Riccardo Magi e dall’avvocato Asgi Gianfranco Schiavone dopo le visite dei giorni scorsi a seguito della morte di un uomo all’interno della struttura, su cui sta indagando la magistratura. Ma a leggere articoli e commenti sulla vicenda sembra che pochi si ricordino che il centro di Gradisca d’Isonzo è già stato nel 2013 al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e della classe politica a causa dei frequenti episodi di protesta all’interno, tra cui uno segnato dalla tragica morte di un uomo caduto dal tetto per sfuggire ai lacrimogeni usati per sedare la rivolta. Proteste e momenti di tensione che certo non mancavano - e non mancano - negli altri centri di identificazione ed espulsione, come si chiamavano allora, in tutt’Italia, da Torino a Bari e alla Sicilia. La situazione a Gradisca diventò talmente grave che si arrivò alla chiusura del centro così come, nel giro di alcuni mesi, molte strutture chiuse perché danneggiate, non furono più messe in funzione. Grazie anche al lavoro di denuncia di molte associazioni e di Luigi Manconi, che alle criticità di quelle strutture ha dedicato la sua attività alla Commissione diritti umani del Senato. Ma il risultato più rilevante di quella stagione politica è stata la messa in discussione dei Cie come strumento di gestione dell’immigrazione irregolare alla luce dei (pochi) risultati ottenuti dalla loro creazione (nel 1998, con la legge Turco Napolitano). Uno strumento su cui avevano puntato i governi di centro-destra nell’ambito della loro strategia di criminalizzazione verso l’immigrazione “clandestina”, introducendo con la Bossi-Fini nel 2002, col “Pacchetto sicurezza” nel 2008 e ancora nel 2011 una serie di restrizioni tra cui il prolungamento del termine massimo di permanenza nei Cie addirittura fino a 18 mesi, una misura pensata come strumento di deterrenza rispetto all’immigrazione irregolare ma che si è poi rivelata portatrice di grandi sofferenze e decisamente inutile. L’aumento dei tempi di detenzione, infatti, non ha migliorato il tasso dei rimpatri effettuati se, allora come oggi, esso si mantiene costante e circa la metà dei trattenuti vengono alla fine rimpatriati, data la nota e difficoltà di stringere accordi di riammissione coi paesi di origine e l’impossibilità di espellere molte delle persone trattenute perché in Italia da tanto tempo con legami familiari consolidati, o perché apolidi o senza alcun legame col paese di origine. Tuttavia, questi preziosi ragionamenti sulla dubbia efficacia dei centri per il rimpatrio non sono evidentemente bastati a scindere il binomio immigrazione/sicurezza e sono tornati di moda nel 2017 quando il ministro dell’interno Minniti ha voluto rispolverarla prevedendo la creazione di un Cpr in ogni regione rispetto ai cinque allora attivi e annunciando, ancora una volta invano, l’intenzione di intensificare i rimpatri. La ricetta è stata poi ereditata e rilanciata dal suo successore che col decreto sicurezza del 2018 ha subito allungato a 6 mesi il tempo di trattenimento, ha aperto al trattenimento di richiedenti asilo, ha semplificato le procedure per la creazione di nuovi Cpr e ha fortemente tagliato, come per i centri di accoglienza, i fondi disponibili azzerando servizi e garanzie. E siamo a oggi, con 8 centri aperti - da ultimo l’ex carcere di Macomer - i cui enti gestori hanno vinto bandi al ribasso e non riescono ad assicurare un numero adeguato di operatori e di servizi a circa 500 persone costrette per un tempo molto lungo a vivere reclusi e sospesi. Con il rischio evidente di dar vita a situazioni di tensione altissima difficilmente controllabili senza l’intervento delle forze dell’ordine. Il punto vero di qualsiasi discorso sui centri per il rimpatrio dovrebbe partire da alcune domande: chi sono le persone che finiscono in queste strutture? Chi tra di loro rappresenta davvero un pericolo per la società e deve essere trattenuto? Ha senso ricorrere a politiche che hanno dimostrato di aver fallito? La privazione della libertà ha contrastato il fenomeno dell’irregolarità o sono altri gli interventi necessari come, per esempio, un provvedimento di emersione per chi ha un lavoro e, finalmente, la riforma dell’impianto della Bossi-Fini? Migranti. L’Onu: asilo per gli sfollati del clima di Francesco Gesualdi Avvenire, 1 febbraio 2020 Il procedimento è stato lungo, ma alla fine Ioane Teitiota una vittoria l’ha ottenuta: le Nazioni Unite hanno riconosciuto il diritto di poter presentare domanda di asilo in nome dei rischi climatici. Tutto inizia nel 2007, quando Ioane lascia la sua casa, insieme alla famiglia, per trasferirsi in Nuova Zelanda. La sua patria di origine è la Repubblica di Kiribati, un arcipelago del Pacifico formato da una trentina di isolotti, lembi piatti che a malapena emergono dal mare. L’isola principale è Tarawa, una delle poche con energia elettrica e l’unica ad avere l’ospedale. Motivo per cui nel corso del tempo molte famiglie dell’arcipelago hanno lasciato l’isola natia e si sono trasferite a Tarawa dove si trova circa la metà dell’intera popolazione dell’atollo. Fra esse la famiglia di Ioane che a Tarawa poté studiare e in seguito trovare lavoro presso un’impresa commerciale che però chiuse sul finire del vecchio millennio. Da allora Ioane non ha più trovato un impiego stabile. Ciò non di meno nel 2002 si sposò. Insieme alla moglie si era costruito una casetta che pur essendo sprovvista di servizi igienici aveva il vantaggio di essere allacciata alla linea elettrica ed era provvista di un pozzo per l’acqua. Ma poco dopo la zona risultò inabitabile: i cambiamenti climatici stavano facendo innalzare il livello del mare. Durante l’alta marea le case venivano allagate, i raccolti distrutti e i pozzi resi inservibili per la contaminazione dell’acqua salata. Molta gente si ritirò verso il centro dell’isola, ma non c’era spazio per tutti e la crisi ambientale si trasformò in crisi di convivenza. Non c’era abbastanza terra per tutti gli alloggi richiesti, il cibo scarseggiava ed era conteso, i pochi pozzi agibili erano presi d’assalto ed erano teatro di furibondi litigi per garantirsi un secchio d’acqua. E poi c’erano le malattie: la mancanza d’acqua, l’alta concentrazione abitativa, la mancanza di servizi igienici, favorivano diarree ed infezioni intestinali che in alcuni casi risultavano letali. In breve da isola felice, Tarawa si stava trasformando in isola della paura e sentendosi minacciato nella sopravvivenza, Ioane decise di emigrare con la moglie. Destinazione Nuova Zelanda, la terra più vicina che non fosse piatta come Tarawa. Inizialmente la Nuova Zelanda fu una terra accogliente e accordò un permesso di soggiorno di tre anni a Ioane e sua moglie, un periodo di ritrovata sicurezza durante il quale ebbero tre figli. Ma nel 2010 l’Ufficio immigrazione decise di non rinnovare il permesso e l’intero nucleo familiare rimase in Nuova Zelanda in forma irregolare. Finché nel maggio 2012, con l’assistenza di uno studio legale, Ioane non presentò domanda per ottenere il riconoscimento di rifugiati e persone protette. Lo status di rifugiato è previsto dalla Convenzione adottata a Ginevra nel 1951 ed è riconosciuto a tutti coloro che sono fuggiti dalla propria nazione per paura di essere perseguitati a causa della propria razza, religione, opinione politica, condizione sociale. Lo status di persona protetta scaturisce dal Patto Internazionale relativo ai diritti politici e civili siglato nel 1966 che impegna ogni Stato firmatario a “rispettare e a garantire a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio i diritti riconosciuti nel Patto senza distinzione alcuna, compresa la nazione di provenienza”. Fra i diritti riconosciuti nel Patto vi è anche il diritto alla vita ed è su tale principio che Ioane chiede protezione. Ma la Nuova Zelanda ritiene che l’obbligo di protezione valga solo nei confronti di coloro che rientrando nella propria nazione siano a rischio di trattamento crudele o di privazione arbitraria della propria vita. Condizione che l’Ufficio immigrazione non ritiene applicabile a Ioane, che si vede respingere la domanda. Ioane ricorre a tutti i possibili gradi appello. Ma invano. Nel 2015 arriva l’ultimo no da parte della Corte Suprema: Ioane viene imprigionato e poco dopo caricato su una nave che lo riporta a Tarawa assieme alla famiglia. Ma Ioane non si dà per vinto e ricorre al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite denunciando la Nuova Zelanda per violazione del Patto per i diritti civili e politici. E nel gennaio 2020 arriva il pronunciamento. Il Comitato ritiene che nel caso specifico il Patto non sia stato violato ma afferma che il diritto alla vita non va interpretato in maniera restrittiva e che va protetto attraverso l’adozione di misure positive da parte degli stati. Soprattutto riconosce che “il degrado ambientale, i cambiamenti climatici e lo sviluppo insostenibile rappresentano alcune delle minacce più serie che attentano il diritto alla vita delle generazioni presenti e future”. Una dichiarazione di principio destinata a lasciare un segno nella giurisprudenza internazionale, che potrà aiutare molti sfollati climatici a ritrovare una nuova casa. Rapporto europeo sulle carceri: sovraffollamento, celle strette, un’ora d’aria al giorno e poca igiene di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2020 Agenzia europea per i diritti fondamentali sulle condizioni di detenzione. Il comitato per la prevenzione della tortura suggerisce che devono essere garantite almeno otto ore al giorno fuori dalle stanze di detenzione. Dimensioni dignitose delle celle, standard necessari per far rispettare le regole dell’igiene e l’accesso alle cure mediche. Parliamo del rapporto dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali sulle condizioni di detenzione in Europa. Si sottolinea l’imperante sovraffollamento che coinvolge le carceri europee, tanto da evidenziare che il tempo trascorso fuori dalle celle è stato identificato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo come uno dei fattori ‘ compensativi’ per il sovraffollamento. Gli organismi di controllo come i garanti nazionali delle persone private delle libertà sottolineano l’importanza di attività esterne e interne. Dal rapporto emerge che nella maggior parte degli Stati le regole relative alla quantità di tempo trascorso di solito è un minimo di un’ora al giorno. A parte paesi come la Danimarca dove quasi tutto il tempo i detenuti sono fuori dalle celle, c’è l’Italia che dà la possibilità di fare 4 ore d’aria. Il resto dei paesi invece solo un’ora. Per questo i Garanti nazionali denunciano che 23 ore al giorno dentro la cella un giorno è intollerabile. Il rapporto ricorda che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura suggerisce che a tutti i detenuti devono essere garantite almeno otto ore d’aria al giorno. Altro punto evidenziato dall’Agenzia europea è il discorso igienico. Si denuncia che l’accesso dei detenuti alle docce rimane insufficiente. Viene sottolineato che dalle relazioni dei Garanti emerge che sette Stati membri dell’Ue (Italia compresa) non si riescono spesso a garantire ai detenuti sia l’acqua calda che l’accesso alle docce almeno due volte a settimana. Ma non solo. In almeno 14 stati membri (anche in questo caso, compreso il nostro Paese), non viene tutelata la privacy per quanto riguarda i detenuti che vanno al bagno: ci sono in pratica seri problemi riguardi la corretta separazione delle aree sanitarie. Le condizioni igieniche e sanitarie rimangono al centro degli interessi degli organismi di controllo. Carceri pulite con strutture sanitarie ben mantenute sono parte integrante dei diritti fondamentali dei detenuti, come stipulato dalle convenzioni internazionali. La Corte Europea ha più volte censurato casi di scarsa igiene in violazione dell’articolo 3 (trattamento disumano e degradante) e l’articolo 8 (diritto alla privacy). Un lungo capitolo è dedicato alle dimensioni delle celle che ospitano i detenuti. L’agenzia europea ha voluto sottolineare che anche se la corte europea ha stabilito i tre metro quadri per ogni detenuto come spazio minimo, questo non dovrebbe impedire uno standard più generoso. Fa proprio l’esempio dell’Italia che considera i 3 metri quadri la regola standard, mentre dovrebbe essere considerato solo standard minimo, la cui violazione indica una grave violazione della dignità umana. Si evidenzia che il Cpt invece dice di applicare standard più rigidi, ovvero un minimo di 6 mq di spazio vitale per i detenuti ristretti in una cella singola e di 4 mq per i detenuti che vivono in una cella condivisa. L’agenzia europea consiglia di uniformare le regole e prevedere che siano i 4 mq il livello minimo da rispettare. Tale documento non mira a effettuare una comparazione tra gli Stati quanto piuttosto a fornire un ausilio a giudici, avvocati e a operatori del settore: sono indicati gli standard minimi previsti dal diritto internazionale ed europeo ed è verificata l’attuazione sul piano interno. Uno spazio è dedicato al funzionamento del Meccanismo preventivo nazionale che punta a dare piena attuazione al Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura. Un dato è comune a molti Stati, ossia il numero limitato di denunce da parte dei detenuti che subiscono violenza nelle carceri. Crisi Libia, perché non viene discussa in Parlamento? di Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini, Igor Boni Il Riformista, 1 febbraio 2020 Il 2 febbraio, il memorandum Italia-Libia verrà rinnovato per altri tre anni, senza che alcuna modifica sia stata apportata. Domenica dalle 15.30 i Radicali saranno in piazza, a Montecitorio, di fronte a un Parlamento vuoto e silenzioso, esattamente come è stato il dibattito politico su questo scellerato accordo che mira a contenere il flusso di migranti e rifugiati che giungono via mare dalla Libia, anche se ciò significa esporre persone già vulnerabili al rischio di subire ulteriori abusi e violenze. L’art. 80 della Costituzione impone un voto parlamentare che non c’è stato e non è in programma, una violazione inaccettabile dello stato di diritto da parte delle Istituzioni. A fine ottobre il ministro degli esteri Di Maio si dichiarava disposto a modificare il memorandum, seguito a pochi giorni di distanza dalle analoghe affermazioni della ministra dell’interno Lamorgese. Sono passati tre mesi, mesi in cui molte delle persone - mille solo nei primi giorni dell’anno - che hanno tentato di attraversare il Mediterraneo centrale sono state intercettate dalla Guardia costiera libica e riportate in un paese in aperto conflitto nel quale, come denunciano le Nazioni unite, la detenzione arbitraria, il sequestro di persona, l’estorsione sono pratiche sistematiche, insieme ai diffusi casi di tortura, molestie e stupro, omicidio. Un paese dove i civili sono un bersaglio e il numero di sfollati interni è in aumento. Ai pericoli della violenza generalizzata, per rifugiati e migranti, si somma il rischio di essere condotti nei centri di detenzione, lager degli orrori in mano a gruppi armati, o di essere usati come scudi in carne e ossa, in prima linea nei combattimenti. Alla determinazione di questo destino, potenzialmente puntellato da violazioni dei diritti umani, noi contribuiamo con milioni di euro, unità e mezzi terrestri e navali. Dal 2017, quando l’accordo è stato firmato, secondo le stime di Oxfam l’Italia ha stanziato oltre 570 milioni di euro per sostenere la Guardia costiera libica, le operazioni navali nel Mediterraneo, l’adeguamento dei centri di detenzione, il contenimento dei flussi e i rimpatri “volontari’”. Siamo complici a tutti gli effetti. La risposta della politica di fronte al racconto delle atrocità che le organizzazioni internazionali documentano è il silenzio. Perché non si porta in Parlamento la discussione sul memorandum? Cosa aspetta il governo a intervenire? Attende forse che la situazione in Libia si stabilizzi? È un paradosso. Se l’instabilità è tale da non consentire neppure una modifica del memorandum, allo stesso modo determina uno scenario in cui è impensabile tenere in piedi un accordo il cui prezzo, per molti, è la vita. Deve essere sospeso immediatamente: l’Italia deve tornare a promuovere la tutela dei diritti umani e non permetterne la violazione. I risultati delle regionali spazzano via ogni giustificazione data a questo infinito temporeggiamento e mettono nelle mani delle forze politiche l’opportunità di fare la differenza, di essere davvero discontinui dal primo governo Conte, in modo incisivo. Ci rivolgiamo ai presidenti delle Camere e al Parlamento, dove il memorandum Italia-Libia non è mai giunto: portate l’accordo in aula per sospenderne con effetto immediato l’efficacia. Bisogna esserci, non possiamo permettere che l’Italia contribuisca in modo sistematico a questa mostruosità senza opporci, dobbiamo far sapere alle istituzioni che non vogliamo accettare questo imperdonabile coinvolgimento.