Quattrocento computer per i colloqui dei detenuti via Skype di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 febbraio 2020 Una circolare del Dap con le indicazioni per le chiamate tra detenuti e familiari. Previsti due pc per ogni Istituto penitenziario: le videochiamate dovranno svolgersi sotto il controllo visivo del personale di Polizia penitenziaria. Una circolare molto importante quella a firma del Capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini. Facendo seguito alla vecchia circolare del 2015, avente ad oggetto “Possibilità di accesso ad Internet da parte dei detenuti”, e dopo una prima fase di valutazione delle esperienze sperimentali realizzate presso alcuni Istituti penitenziari, ai fini della implementazione del sistema di comunicazione a mezzo Skype per facilitare le relazioni familiari nelle strutture penitenziarie. Il Dap ora fornisce le indicazioni per agevolare le attività e predisporre gli interventi necessari a rendere fruibile - su vasta scala - l’utilizzo della piattaforma Skype for business (ex Microsoft Lync) per l’effettuazione di videochiamate da parte dei detenuti e internati appartenenti - in questa prima fase di avvio al circuito media sicurezza con i familiari e/o conviventi. Il Dap sottolinea che la videochiamata è da equipararsi ai colloqui. I detenuti e gli internati potranno così usufruire di un massimo di sei video colloqui al mese, per la durata massima di un’ora. Mentre per i detenuti in attesa di giudizio, dovrà ovviamente essere acquisita autorizzazione da parte della competente. Autorità giudiziaria. Per quanto concerne le modalità operative, “le videochiamate con i familiari - si legge nella circolare - dovranno essere effettuate in locali appositamente destinati e, possibilmente, dotati anche di una linea telefonica, per consentire all’operatore che effettua il collegamento di comunicare celermente con i familiari nel caso di problematiche che impediscano il collegamento stesso”. Allo scopo verranno impiegati i personal computer abilitati all’utilizzo della piattaforma Skype for business, mediante apposito account dell’Istituto, che sarà fornito ed attivato - per ogni singolo Istituto penitenziario - dalla Direzione Generale del Personale e delle Risorse - Servizio Informatico Penitenziario. Tale piattaforma, avvalendosi della rete intranet del ministero della Giustizia, fornisce, infatti, le necessarie garanzie in termini di sicurezza, in quanto validata dal Servizio Informatico Penitenziario della Direzione Generale del Personale e delle Risorse di del Dap e dalla Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati (Dgsia). “A questo riguardo - si legge sempre nella circolare - la Dgsia invierà n. 400 pc portatili ai Provveditorati Regionali che - a loro volta - ne cureranno la distribuzione presso gli Istituti penitenziari dell’ambito territoriale di competenza, nel numero di due PC ad Istituto”. Per quel che concerne gli aspetti organizzativi, si indicano le procedure da seguire per la presentazione della richiesta da parte del detenuto e/ o internato e per l’individuazione della persona e del luogo ove sarà effettuata la videochiamata. “In ogni caso - si sottolinea - i colloqui tramite videochiamata dovranno svolgersi sotto il controllo visivo del Personale di Polizia Penitenziaria”. Durante la fruizione, il personale incaricato supervisionerà il video collegamento da una postazione remota, tale da consentire la chiara visualizzazione delle immagini che appaiono sul monitor del computer ma non il controllo auditivo. Il personale incaricato, inoltre, effettuerà, prima dell’attivazione del collegamento audio-visivo, un’ulteriore verifica sul familiare o convivente autorizzato, finalizzata ad appurare la corrispondenza tra la copia del documento di riconoscimento, che la Direzione detiene ai fini autorizzativi, e il documento di riconoscimento che il familiare reca con sé ed esibisce all’atto del collegamento. Nel caso in cui il personale predetto riscontri anomalie durante il video collegamento, come la presenza o l’intervento di persone estranee, o comunque non autorizzate, ovvero la tenuta di comportamenti non corretti del detenuto, del familiare o di entrambi, dovrà interrompere immediatamente il video collegamento, informandone tempestivamente i superiori gerarchici. Davigo: “Via i detenuti stranieri dalle carceri” di Giuseppe Crimaldi Corriere del Mezzogiorno, 19 febbraio 2020 È stato un confronto schietto, senza peli sulla lingua, a tratti anche teso quello avvenuto ieri a Castel Capuano tra Piercamillo Davigo, ex pm di “Mani pulite” e oggi consigliere del Csm, e gli avvocati, che spesso lo hanno criticato per le sue prese di posizione. Al centro del dibattito, moderato dal direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, temi di grande attualità quali la prescrizione, la durata dei processi, la riforma della giustizia. A partecipare, oltre a Davigo, sono stati gli avvocati Antonio Tafuri, presidente del Consiglio dell’Ordine, Alfredo Sorge, consigliere dell’Ordine, Ermanno Carnevale, presidente della Camera penale, Vincenzo Maiello, ordinario di Diritto penale all’Università Federico II, particolarmente critico nei confronti dell’ex pm, e il magistrato Marcello Amura, presidente della giunta napoletana dell’Anm. Davigo ha innanzitutto protestato contro chi ha riportato in maniera distorta alcune sue dichiarazioni che hanno fatto infuriare l’avvocatura: “Mi si fanno dire cose diverse da quello che ho detto e questo mi sconcerta”. Quindi ha affrontato il problema del sovraffollamento delle carceri: “Si sta male nelle nostre carceri, ma allora come mai gli stranieri non vogliono tornare nei loro Paesi? (e qui è stato interrotto dai fischi). Il 40 per cento delle persone detenute nei nostri istituti sono straniere. Se noi riduciamo il numero dei detenuti stranieri risolviamo il problema del sovraffollamento: perché non avendo una casa e un lavoro è difficile che possano avere misure alternative al carcere. L’Albania, per esempio, rifiuta di prendere i suoi”. Altri fischi sono arrivati quando Davigo ha raccontato l’episodio di un avvocato che, a Milano, è stato sorpreso a sottrarre atti processuali da un fascicolo: “Non è dignità”, ha detto. Ha replicato con fermezza Vincenzo Maiello, riferendosi allo scandalo che la scorsa estate ha travolto il Csm: “Non ci permettiamo di dire che esiste problema di moralità interno alla magistratura pur di fronte a una statistica che non ci lascia indifferenti”. E, dopo avere affrontato diversi argomenti al centro del dibattito sulla giustizia, ha concluso: “Partiamo dalla Costituzione. Questa è la patria in cui ci sono stati martiri della libertà. Senza la difesa di diritti inviolabili della persona non c’è giustizia, ma spazi per scorribande di potere”. Il suo intervento è stato particolarmente applaudito. Ad assistere al dibattito c’erano i vertici di diversi uffici giudiziari tra cui la presidente del Tribunale, Elisabetta Garzo, il procuratore generale, Luigi Riello, e l’avvocato generale, Antonio Gialanella. Al termine del confronto, Sangiuliano ha invitato Davigo e Maiello a continuare il dibattito, interessante ancorché acceso, al Tg2. No caro Davigo, su carceri e giustizia i numeri ti danno torto di Daniele Livreri* Il Dubbio, 19 febbraio 2020 Carceri vuote? Una fake news. Più stranieri che italiani dietro le sbarre? Non è vero nemmeno questo. E i colletti bianchi? Finiscono in cella più dei mafiosi. Nel corso del recente confronto televisivo con il Presidente dell’Unione delle Camere Penali, il dottor Davigo ha più volte richiamato dei dati che dimostrerebbero la particolare aderenza alla realtà delle sue tesi. Tuttavia molti dei dati offerti al pubblico paiono non trovare il conforto delle statistiche pubblicate dal ministero della Giustizia e dall’Annuario della Cassazione. Per ciò che concerne la composizione della popolazione detentiva, il membro del Csm ha precisato che le carceri “non sono stracolme” e che comunque il 40% dei detenuti è composto da stranieri. A ciò aggiungendo che in carcere non ci si trovano i colletti bianchi, ma oltre a mafiosi e spacciatori, degli “sciaguratelli” che si fanno arrestare in flagranza. Tuttavia i dati pubblicati dal ministero della Giustizia dimostrano che la capienza regolamentare degli istituti di penitenziari è pari a 50.692, lì dove i detenuti al 31 gennaio di quest’anno sono 60.971. Dunque le carceri sono stracolme. Per ciò che concerne la presenza degli stranieri in carcere la percentuale più vicina a quella indicata dal magistrato venne raggiunta al 31.12.2007, allorquando gli stranieri rappresentavano il 37,48% dei detenuti, lì dove invece oggi i non italiani costituiscono il 32,54% del totale. E quindi una percentuale distante da quella indicata nel corso della trasmissione televisiva. Peraltro il calo percentuale è dovuto non ad una diminuzione della presenza straniera in termini assoluti (18.252 nel 2007, oggi 19.841), ma ad un sensibile aumento degli italiani ristretti. Soprattutto, a seguito del confronto televisivo, pare opportuno riflettere sulla tipologia di reati per i quali si patisce la restrizione della libertà. Secondo i dati ministeriali i detenuti per delitti contro la pubblica amministrazione, tra cui vi sono la corruzione, la concussione, il peculato, l’abuso di ufficio, quindi delitti da criminalità media alta, sono ben 9.224, meno degli spacciatori, ma più dei mafiosi. Peraltro con un trend crescente. Neppure i dati diffusi dal membro del Csm ed inerenti i ricorsi in Cassazione (penale) trovano conferma nelle statistiche dell’annuario della cassazione. Infatti secondo il dottor Davigo vi sarebbero 90.000 ricorsi in materia penale e di questi l’ 80% sarebbero dichiarati inammissibili. Lì dove il 15% delle impugnazioni atterrebbe a sentenze di cosiddetto patteggiamento. Tuttavia i ricorsi proposti nel 2019 alle sezioni penali della Corte di Cassazione sono 50.801 e non 90.000 ed il picco massimo degli ultimi 12 anni è stato raggiunto nel 2017 con 56.632 impugnazioni di legittimità. Le impugnazioni avverso sentenze di patteggiamento rappresentano il 6.4% e non il 15%. Tale percentuale non si raggiunge neppure a voler concedere che il dottor Davigo abbia voluto sommare ai ricorsi contro le sentenze di patteggiamento anche il cosiddetto concordato in appello che incide per il 3,5% delle impugnazioni. Le declaratorie di inammissibilità costituiscono sì il ragguardevole numero del 67,8%, ma non rappresentano l’80% degli esiti di ricorso, né pare che tale percentuale sia stata raggiunta negli anni precedenti. Inoltre non può trascurarsi che le percentuali di inammissibilità si riducono significativamente in tema di misure cautelari personali (56,1%) e reali (55,4%). Il tutto fermo restando che secondo un ex magistrato della Corte di Cassazione, questa “oscilla tra infondatezza e manifesta infondatezza in modo all’evidenza casuale, per non dire arbitrario, ed è forte la sensazione che troppo spesso inclini per la seconda delle due ipotesi al solo fine di non dichiarare la prescrizione del reato” (“Tra Scilla e Cariddi il superstite lupo di mare”, di Gioacchino Romeo, in Diritto penale contemporaneo). In sintesi, la pre-agonia della giustizia italiana è già evidente, senza bisogno di scostarsi dai numeri ufficiali. *Avvocato Riforma della giustizia, l’Anm contro Bonafede che rischia di essere stritolato di Giovanni Altoprati Il Dubbio, 19 febbraio 2020 Se Alfonso Bonafede pensava, cestinando la riforma del Csm che aveva previsto il sorteggio dei componenti togati, di aver portato dalla sua parte i magistrati, ha fatto male i conti. Il Guardasigilli rischia di essere stritolato dalla morsa delle correnti dell’Anm. Una prospettiva che dovrebbe togliergli il sonno: il destino di tutti coloro che prima di lui hanno osato contrapporsi allo strapotere dei pm, vedasi Silvio Berlusconi, è noto. L’assalto è partito questo fine settimana, all’indomani dell’approvazione in Consiglio del ddl di riforma del processo penale. Aver semplice “ventilato” la possibilità di prevedere delle sanzioni disciplinari per le toghe che non rispettano i tempi del nuovo processo penale, ha immediatamente scatenato la rappresaglia dei giudici. Sanzioni, comunque, solo ipotizzate in quanto non vi è cenno alcuno nella proposta di riforma uscita da via Arenula l’altro giorno. “È la morte del processo penale, avrà effetti devastanti”, dicono le toghe di destra di Magistratura indipendente, accusando il ministro di “non conoscere i reali problemi che affliggono il mondo della giustizia”. Durissimo, invece, l’intervento dei magistrati di sinistra di Area: “Il sistema penale e processuale vigente, la mancanza di risorse umane e materiali, il degrado degli ambienti nei quali esercitiamo giustizia, chiamano alle loro responsabilità generazioni di ministri e di governi che tuttavia non avevano mai avuto l’impudenza di indicare nella magistratura la responsabile di questo sfascio, come invece è stato fatto oggi con questa proposta riforma”. Un attacco certamente inaspettato, almeno da parte delle toghe progressiste, fino a questo momento non critiche a priori nei confronti dei grillini. Quando si trattò, infatti, di votare il vice presidente del Csm, i togati di sinistra puntarono sul professore Alberto Maria Benedetti, scelto sulla piattaforma Rousseau, e non sul responsabile giustizia del Pd, poi eletto, David Ermini. Cosa succederà nei prossimi giorni è difficile prevederlo. La campagna elettorale per il rinnovo dell’Anm, le elezioni sono previste fra un mese, amplificherà la scontro fra le correnti alla ricerca di visibilità. Tornano in mente le parole che Francesco Cossiga disse a Clemente Mastella alla vigilia del suo giuramento come Guardasigilli: “Ti consiglio di evitare quell’incarico, ma se proprio non potrai farne a meno guardati bene dal proporre una riforma della Giustizia anche vagamente attinente ai principi dello Stato di diritto. Viviamo in una Repubblica giudiziaria, se ti azzardi a minacciarne gli equilibri quelli ti arrestano e buttano via la chiave”. Riparte il confronto sulla giustizia. Bonafede: “Sì al tavolo sul penale con avvocati e Anm” di Errico Novi Il Dubbio, 19 febbraio 2020 Il guardasigilli accoglie la proposta avanzata da Mascherin. Bonafede: “Riparte il confronto sul ddl penale con avvocati e Anm”. Il presidente Cnf: “bene, ora soluzioni condivise. A pochi giorni dal varo del ddl penale in Consiglio dei ministri, col suo seguito di scintille fra Renzi e gli alleati, il guardasigilli Alfonso Bonafede annuncia la riapertura del tavolo tecnico di confronto con avvocati e magistrati. È così recepita la sollecitazione espressa più volte, negli ultimi giorni, dal presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin. Ora si tratta di capire se le tensioni sapranno lasciare spazio al diritto. Perché se l’ordalia quotidiana sulla prescrizione cedesse un po’ la scena al confronto fra avvocati e magistrati potrebbe forse venirne, per la giustizia, qualche beneficio in più che da una crisi di governo. Fatto sta che con un atto di fiducia nel dialogo il guardasigilli Alfonso Bonafede annuncia, con un post pubblicato su Facebook nel pomeriggio di ieri, che “la prossima settimana” convocherà “nuovamente il tavolo con Anm, Cnf, Ocf, Aiga, Unione Camere penali che nel 2019 si era riunito numerose volte”. Si tratta della consultazione sollecitata, nei giorni scorsi, dal presidente del Cnf Andrea Mascherin. Da ultimo venerdì, quando il vertice dell’istituzione forense aveva ribadito l’urgenza di un chiarimento fra tecnici del diritto dopo l’equivoco nato da una dichiarazione del deputato Federico Conte, autore del “lodo” sulla prescrizione. Bonafede sceglie dunque di navigare nel mare aperto del dialogo con i protagonisti della giurisdizione. Una sfida non semplice, considerata la netta censura espressa su diversi punti, a volte sovrapponibili, da rappresentanze dell’avvocatura e magistrati. Nel primo caso, è lo stesso Mascherin, che definisce “positiva” la decisione del ministro, a osservare che “a volte, le esigenze della politica non si sposano perfettamente con quelle dei giuristi addetti ai lavori”. E in un durissimo comunicato diffuso sempre ieri l’Unione Camere penali estende il giudizio negativo dalla prescrizione ad altre misure del testo varato a Palazzo Chigi, che produrrebbero “l’erosione delle garanzie del giusto processo”. Nelle stesse ore, dalla magistratura, e in particolare da alcune correnti, arrivano contestazioni altrettanto pesanti sulla velocizzazione dei processi affidata alle sanzioni per giudici e pm “tardivi”. Il campo da gioco si annuncia insidiosissimo. Eppure il ministro della Giustizia spiega che, da una parte, “dopo aver approvato in Consiglio dei ministri la riforma del processo penale, adesso è il momento di avviare il confronto con le forze parlamentari” e che, dall’altra, ne approfitterà “per intensificare il confronto anche con gli addetti ai lavori”. La prossima settimana, appunto convocherà “nuovamente il tavolo” con rappresentanze forensi e Associazione magistrati. Il guardasigilli si dice “perfettamente consapevole delle divergenze su alcuni aspetti del progetto riformatore”, ma anche “convinto che ci siano importanti margini di condivisione su tanti aspetti fondamentali della riforma”. E sembra riferirsi indirettamente alle critiche arrivate, sulla prescrizione, persino dalle toghe di Magistratura indipendente, quando rivendica i “nuovi investimenti”. In particolare “in appello, dove la prescrizione oggi riguarda un processo su quattro definiti, si prevedono, ad esempio, 500 giudici ausiliari già dal primo gennaio 2021”. Mascherin definisce dunque “positiva” l’iniziativa del guardasigilli e spiega che “bisogna continuare a lavorare con impegno e tecnicità per giungere a soluzioni il più possibile condivise tra gli addetti ai lavori e tra loro e la politica”. Ma visto che giuristi e forze politiche seguono logiche diverse, il Cnf, prosegue il vertice dell’istituzione forense, “continuerà nell’impegno di giungere a un risultato ottimale, con il linguaggio del diritto e nel rispetto di ogni sforzo di mediazione sin qui compiuto”. Si tratterà adesso di verificare se le valutazioni del tavolo che Bonafede convocherà a breve potranno incidere sull’esame parlamentare della riforma. Quanto sarà difficile già ottenere delle proposte di sintesi dal confronto fra tecnici emerge dalla nota con cui l’Ucpi accompagna un più ampio documento di analisi del testo Bonafede. Secondo la giunta presieduta da Gian Domenico Caiazza, il progetto è “privo di coerenza interna, animato da criteri di astratto efficientismo, teso ad abbreviare i tempi per giungere a una pronuncia di primo grado attraverso l’erosione delle garanzie del giusto processo”. In particolare, scrivono i penalisti, il ddl ripudia “gli approdi cui erano giunte le rappresentanze di avvocatura e magistratura nell’ambito degli incontri al primo tavolo ministeriale in materia di riti alternativi e prevede, per la prima volta, punti di delega sostanzialmente finalizzati alla sterilizzazione del processo di appello”. Oltre alla “odiosa quanto farraginosa” soluzione trovata sulla prescrizione con il lodo Conte bis, l’Unione Camere penale contesta una complessiva marginalizzione “dell’accertamento probatorio dibattimentale”, tanto da conculcare “le garanzie della difesa e le regole del contraddittorio”. La riforma “scommette definitivamente sull’imputato colpevole, identificato con la preda che non può sfuggire al castigo piuttosto che con la persona sottoposta ad un accertamento”. Giudizi severissimi, che a maggior ragione richiederanno ora un confronto vero al tavolo riaperto da Bonafede. Colombo: “Processi lenti? Le garanzie e i diritti sono più importanti dell’efficienza” Il Dubbio, 19 febbraio 2020 Per l’ex pm di mani pulite c’è un’unica strada per velocizzare la macchina delle giustizia: la depenalizzazione. “Il tema della ragionevole durata dei processi non si risolve con l’abolizione della prescrizione, ma con la depenalizzazione, la razionalizzazione del processo penale, la fornitura di persone e mezzi al sistema penale”. Gherardo Colombo, ex collega di Piercamillo Davigo nel pool milanese di mani pulite, ha preso da anni una nuova direzione ed è convinto che se “vogliamo, giustamente e secondo Costituzione, un processo rapido ed efficiente, si deve pensare a strumenti che lo rendano effettivamente rapido ed efficiente. Depenalizziamo”. “La domanda che dobbiamo farci è come riuscire a ridurre i tempi - ha spiegato Colombo -. Io credo che la prescrizione non c’entri con questo. Bisognerebbe procedere ad una depenalizzazione molto estesa. In Italia quasi ogni trasgressione costituisce reato. Sembra che ormai il processo sia diventato un procedimento in cui conta forse soltanto l’efficienza piuttosto che gli aspetti di garanzia”. Per l’ex magistrato “bisognerebbe prima di tutto cominciare ad investire sull’educazione, i cittadini italiani trasgrediscono un po’ troppo. Se si riducesse il numero dei reati, la giustizia funzionerebbe meglio. Cercare di risolvere la situazione attraverso uno strumento inappropriato significa semplificare e la semplificazione non produce grandi risultati. L’ideale sarebbe riuscire a realizzare la Costituzione, la democrazia non può essere basata sulla paura”. Infine una stoccata alla domanda sugli italiani popolo di giustizialisti. “Gli italiani generalmente inneggiano alla legalità altrui”, chiuse infatti Colombo. La riforma penale è già sgonfia. Preferibile la depenalizzazione, ma la gente non la vuole di Alessandra Ricciardi Italia Oggi, 19 febbraio 2020 Se l’obiettivo della riforma del processo penale è quello di annullare gli effetti perversi della sospensione della prescrizione, accelerando i processi, allora proprio non va”. Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, tra i protagonisti di Tangentopoli, legge attentamente il ddl delega messo in campo dal ministro della giustizia Bonafede per accelerare il processo penale così da ridurre gli effetti negativi della nuova prescrizione. Un tema, quello della giustizia, su cui il braccio di ferro tra Italia Viva di Matteo Renzi e M5s, e più in generale il premier Giuseppe Conte, non si allenta. “Alcune scelte sono effettivamente utili, come l’introduzione delle notifiche telematiche”, ragiona Nordio, “altre pericolose, come la devoluzione alle Procure dei criteri di selezione preferenziale dei fascicoli. Ogni Procura così rischia di diventare una Repubblica giudiziaria a sé stante”. Domanda. La riforma penale è stata approvata dal consiglio dei ministri, ed è attesa alla Camera. Servirà a deflazionare il processo? Risposta. No. Una deflazione seria si può fare solo con una forte depenalizzazione e con l’introduzione della discrezionalità dell’azione penale. È vero che qui vengono incentivati i riti alternativi, ma senza quelle conseguenze premiali che si hanno, ad esempio, negli Stati Uniti. Insomma, né il patteggiamento né l’abbreviato risulteranno particolarmente convenienti, e la gran parte degli indagati, se il pubblico ministero non chiederà l’archiviazione, preferirà il dibattimento. D. Le indagini più rapide saranno effettivamente possibili? R. Una buona novità è proprio il criterio di richiesta di archiviazione. In pratica oggi l’indagato viene mandato a giudizio quando non vi è la prova della sua innocenza, e questa è un’anomalia grave. Con questa riforma dovrebbe essere “prosciolto” quando gli elementi raccolti dall’accusa non consentono una ragionevole previsione di condanna. Avrebbe un modesto (ma apprezzabile) effetto deflattivo e soprattutto sarebbe più aderente al principio della presunzione di innocenza. Ma questo non servirà ad accelerare le indagini, anzi potrebbe allungarle, perché qualche Pm potrebbe impiegare più tempo nella ricerca delle prove a carico dell’indagato così da evitare che non si arrivi a processo. D. I riti alternativi saranno incentivati. Mi fa un esempio? R. L’incentivazione riguarda soprattutto il patteggiamento, esteso a reati più gravi di quelli per i quali è ammesso oggi, ma con preclusioni che ne stemperano la novità. Quanto all’abbreviato, confesso che la legge delega è fumosa, e non si capisce dove voglia arrivare. Il giudizio abbreviato aveva un senso nella sua versione originale del codice Vassalli, cioè un giudizio allo stato degli atti. Poi è stato imbastardito, e ora è anche più confuso. D. L’azione penale resta obbligatoria. Ma sarà ogni Procura a selezionare le priorità. Non c’è il rischio che ci siano tante linee di indirizzo a seconda delle Procure, che scontano magari anche sensibilità politiche diverse? R. Certo che c’è questo rischio, ed è inaccettabile. Ogni Procura rischia di diventare una Repubblica giudiziaria a sé stante, perché non è previsto un indirizzo unitario e un conseguente controllo sulle decisioni dei singoli Capi degli uffici. E poiché i Capi non rispondono a nessuno di queste scelte, avremo l’ennesimo esempio di potere senza responsabilità. Tutto questo perché non si ha il coraggio di introdurre la discrezionalità dell’azione penale, che oggi è diventata arbitraria. D. Non sarebbe stato più logico che fosse la politica a scegliere su cosa intervenire e concentrare l’azione penale? R. Si, ed è quello che accade in tutti gli ordinamenti con un processo penale accusatorio. Una simile proposta era stata avanzata vent’anni fa nella Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, con la famosa bozza Boato. In pratica si diceva che doveva essere il Parlamento, sotto la sua responsabilità politica (e quindi con un controllo elettorale) a indicare le priorità di trattazione dei procedimenti, secondo criteri di trasparenza e soprattutto di omogeneità. Ora invece non ci saranno né l’una né l’altra, ma soprattutto non si sarà un controllo sulle scelte operate dai Capi degli uffici. Vorrei ricordare che in America, dove c’è una severità che piace tanto ad alcuni miei colleghi, il pubblico ministero è elettivo, e se non lavora bene va a casa. Qui spesso è promosso al Consiglio superiore della magistratura D. Una strada che in questo ddl non è stata presa in considerazione è quella della depenalizzazione di alcuni reati. R. È politicamente poco pagante. Purtroppo l’opinione comune, a destra e a sinistra, è che tante leggi severe aumentino la sicurezza, è ogni depenalizzazione è vista come una sorta di resa di uno Stato debole. Non sono molto ottimista sulla possibilità di convincere la gente del contrario. D. Si annuncia anche un rinfoltimento degli organici: 500 giudici onorari e mille amministrativi. Bastano? R. No. Per neutralizzare gli effetti funesti della sospensione della prescrizione ce ne vorrebbero almeno dieci volte tanti. Questi non bastano nemmeno a coprire i vuoti di organico. D. Ci sarà qualcosa di positivo nella riforma Bonafede. R. Alcune scelte sono effettivamente utili, come l’introduzione delle notifiche telematiche e la loro semplificazione, ma se il suo obiettivo è quello di annullare gli effetti perversi della sospensione della prescrizione, accelerando i processi, allora proprio non va. Ripeto, questa legge non è tutta da buttare, ma non giustifica la riforma sulla prescrizione. Per di più bisognerà attendere i decreti attuativi. Ammesso che nel prossimo futuro ci sia un governo in grado di promulgarli. Intercettazioni, c’è l’intesa di Simona Musco Il Dubbio, 19 febbraio 2020 L’emendamento Grasso fa infuriare Iv: “Teniamo il testo di Bonafede”. Voto rinviato a oggi ma la maggioranza si presenta compatta. L’esame del decreto intercettazioni rischia di mandare ancora una volta in fibrillazione la maggioranza giallorossa. L’accordo tra renziani e 5Stelle arriva solo nella tarda serata. Poco prima Forza Italia e Lega avevano chiesto l’intervento della presidente Elisabetta Casellati e dai banchi delle opposizioni, prima delle parole della seconda carica dello Stato, si erano levati cori al grido di “onestà onestà”, il refrain preferito dei grillini. A far slittare il tutto è stata la presentazione del nuovo emendamento al decreto Intercettazioni da parte del relatore, Michele Giarrusso, frutto della mediazione interna alla maggioranza, ma sul quale manca il via libera di Italia viva. “Noi votiamo la fiducia su DL intercettazioni come chiesto dal Governo. Per cambiarlo serve il consenso di tutti. Chi forza a colpi di emendamento spacca la maggioranza”, aveva twittato Davide Faraone. Prima gli scontri sull’emendamento a firma Pietro Grasso. Poi i tentativi di conciliazione, il rinvio e infine l’accordo al fotofinish. Sono state ore di passione quelle di ieri in Commissione giustizia al Senato, dove la maggioranza si è spaccata per l’ennesima volta, questa volta sul decreto intercettazioni. E per arrivare alla pace è toccato attendere oltre le 19, quando i partiti di maggioranza hanno trovato l’intesa su un subemendamento alla proposta di Michele Giarrusso, arrivato in soccorso per evitare la fuga in avanti di Italia Viva. Il testo del relatore, arrivato in sostituzione a quello dell’ex presidente del Senato Pietro Grasso, stabilisce che le intercettazioni disposte per un processo non possano essere utilizzate in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza “o per reati molto gravi come lo spaccio di sostanze stupefacenti, contrabbando, pedopornografia, usura”. L’accordo si è trovato con l’introduzione di una ulteriore restrizione procedurale, in virtù della quale tali intercettazioni devono non solo essere “indispensabili” all’accertamento del reato, ma anche “rilevanti”. Pericolo scampato, dunque, dopo una giornata di fibrillazioni interne alle forze di governo e le proteste delle opposizioni, che hanno chiesto l’intervento della presidente del Senato al grido di “onestà, onestà”. Ancora una volta a fare da pungolo al governo è stato il partito di Matteo Renzi, contrario alla proposta Grasso, che prevedeva la possibilità di utilizzare le intercettazioni anche per i reati per cui non si sta indagando, a patto che siano reati per i quali è previsto l’utilizzo degli ascolti. Una modifica al primo accordo mal digerita da Italia Viva, disposta a tutto pur di non “morire populista”. A schierarsi in prima linea contro la proposta del senatore LeU è stato il renziano Davide Faraone. “A scanso di equivoci - ha poi precisato in un Tweet - noi votiamo la fiducia su dl intercettazioni come chiesto dal Governo. Per cambiarlo serve il consenso di tutti. Chi forza a colpi di emendamento spacca la maggioranza. Sì fiducia, no provocazioni”. Dopo le proteste, dunque, la Commissione ha interrotto i lavori, slittati prima alle 16.45, poi alle 18.30, in attesa di trovare un’intesa ed evitare così un voto congiunto tra Italia Viva e opposizioni, in vista del voto di fiducia in aula. E così, al termine del confronto è stata messa sul piatto la proposta di Giarrusso, riaprendo dunque i termini per la presentazione di nuovi sub-emendamenti, con il rinvio delle discussioni a oggi. “Il punto è trovare una formulazione” che rispetti anche l’ultima sentenza della Cassazione sulle intercettazioni”, aveva affermato Renzi, dribblando le allusioni su una possibile nuova rottura nella maggioranza. “Ci va bene il testo di Bonafede uscito dal Cdm o un testo che rispetti la sentenza della Cassazione, non capiamo perché ci si intestardisca su altro”, avevano ribadito i senatori di Italia Viva, decisi a mantenere il punto. Sul rinvio si è così scatenata l’ira di Forza Italia e Lega, mentre la presidente del Senato Elisabetta Casellati ha invocato di nuovo un patto etico sui lavori in aula: “questo andamento dei lavori non va bene perché non è rispettoso dei diritti di tutti”. “La ruota gira - ha commentato il capogruppo della Lega, Massimiliano Romeo. Quando sarete all’opposizione e noi in maggioranza, la prossima volta, non venite poi a dire che non rispettiamo le regole”, visto che “voi lo state facendo, prima dicendo che c’era fretta sul decreto e ora non siete in grado di mettervi d’accordo”. Mentre per il senatore del Carroccio Andrea Ostellari, “noi restiamo al nostro posto e attendiamo, ma gli italiani stanno perdendo la pazienza: una maggioranza divisa non può governare”. Ma proprio mentre le opposizioni pregustavano la crisi finale, è arrivato l’annuncio: accordo raggiunto, con tanto di firma del capogruppo di Italia Viva, Giuseppe Cucca. “Oggi abbiamo lavorato molto e bene per raggiungere un accordo tra tutte le forze di maggioranza su un tema cruciale come quello dell’utilizzo delle intercettazioni - ha esultato il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. Sono soddisfatto del confronto avuto al tavolo sul dl intercettazioni dal quale è emersa una sintesi tra vari punti di vista e sensibilità che ci ha permesso di trovare una soluzione condivisa”. Intercettazioni, l’intesa non ferma lo scontro tra il premier e Renzi di Diodato Pirone Il Messaggero, 19 febbraio 2020 Il Pd schierato con Palazzo Chigi: decida il presidente del consiglio come uscire dallo stallo. Sul tema delle intercettazioni la maggioranza trova un accordo in extremis ma la tensione non cala. Oggi si voterà la fiducia e poi il provvedimento passerà alla camera che ha pochissimi giorni per esaminarlo. Intanto in Senato non si parla d’altro che del possibile ultimatum che Renzi potrebbe lanciare oggi da Porta a Porta. Il leader di Iv promette un “discorso duro e franco”. Fonti renziane spiegano che al momento è più probabile che si arrivi ad un ultimatum a Giuseppe Conte, considerato all’origine dell’immobilismo. Dal Pd osservano irritati: “Noi siamo leali a Conte: decida il premier a questo punto cosa fare”. E dal Senato giungono segnali di un gruppo di responsabili pronti a sostenere il governo se servirà e se avranno “dignità politica”: “Non faremo gli Scilipoti”. Nelle ore in cui a Palazzo Madama la maggioranza fibrilla per tutto il giorno sulla giustizia, per poi trovare un accordo solo in serata, Conte riunisce a Palazzo Chigi gli ultimi due tavoli sul programma di governo. Il messaggio che il premier, d’intesa con i “governisti” Pd, vuole lanciare è che “l’orizzonte è quello di legislatura”. “Tutte le forze hanno condiviso l’obiettivo di imprimere la massima accelerazione all’agenda di governo”, dice il premier aprendo il tavolo proprio sul tema della giustizia, con di fronte Maria Elena Boschi. “Personalmente ho sempre preferito impiegare tempo e risorse per lavorare e non per alimentare polemiche. E così continuerò a fare”, aggiunge Conte, accusando implicitamente Renzi di voler conquistare solo titoli di giornale. Sul programma elaborato “anche con le osservazioni e il contributo di Iv” il premier sarebbe pronto anche a presentarsi alle Camere, se necessario, per testare i numeri. Di sicuro, spiega chi gli ha parlato, non si può andare avanti a strappi. Un esempio? Al tavolo sull’Autonomia il ministro Francesco Boccia ottiene di portare la riforma in Cdm, probabilmente martedì. Ma i renziani subito dopo fanno sapere che un accordo sul testo ancora non c’è. Era successo già in mattinata al Senato, sulle intercettazioni. Su un emendamento di Pietro Grasso che estende la possibilità di usare gli ascolti per le indagini su reati diversi da quelli per cui esse erano state effettuate. In un primo momento, su spinta dei 5S, erano stati inclusi i trojan. Ma ai renziani non va bene neanche la riformulazione. “Votiamo la fiducia, ma al testo originario di Bonafede, se ci sono emendamenti non concordati spaccano la maggioranza”, dice Davide Faraone. Renzi si accomoda tra i suoi senatori in Aula e si gode la scena. Si litiga tutto il giorno tra riunioni di maggioranza e commissione: Iv respinge anche una riformulazione dell’emendamento che restringe la platea dei reati. Solo a sera arriva l’intesa, su un subemendamento ancora più restrittivo, con l’accordo dei renziani. Ma intanto il testo slitta, le tensioni crescono. Il senatore fiorentino riunisce a cena i suoi e festeggia l’ingresso in Iv di Michela Rostan alla Camera e Tommaso Cerno al Senato. È una sfida di numeri e di nervi. Grande attivismo si segnala anche nel campo dei “responsabili”: alla Camera si muove Renata Polverini, al Senato Paolo Romani. Si susseguono pranzi, cene, incontri. C’è chi dice che a blindare la maggioranza sarebbero pronti tra i dieci e quindici senatori. Dal centrodestra già si scagliano su quelli che Fdi definisce “irresponsabili”. Ma l’operazione è complessa: “Non vogliamo essere i nuovi Scilipoti dice una fonte - Ci muoviamo se possiamo essere determinanti e se ci danno ogni dignità, un passo alla volta”. Le cose potrebbero accelerare, se dal salotto di Porta a porta davvero Renzi annuncerà lo strappo. Comunque, concordano Conte e Zingaretti, così non si può andare avanti, bisogna fare chiarezza. Nuove norme sulle intercettazioni. Procure in ritardo e fatturati record di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 19 febbraio 2020 La riforma è stata approvata tre anni fa ma i magistrati chiedono altro tempo. E il giro d’affari è di 300 milioni di euro. A distanza di tre anni, la riforma delle intercettazioni telefoniche voluta dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando è stata approvata nel 2017 ed il suo avvio più volte prorogato, le Procure non hanno ancora ultimato i lavori per la nuova disciplina degli ascolti. I procuratori di Milano Francesco Greco, di Napoli Giovanni Melillo, di Firenze Giuseppe Creazzo, di Palermo Francesco Lo Voi e del facente funzioni di Roma Michele Prestipino, hanno chiesto nelle scorse settimane ad Alfonso Bonafede chiarimenti. Oltre agli aspetti relativi al regime transitorio per regolare l’attività già in corso di pm e polizia giudiziaria, il punto nevralgico è relativo alla formazione del personale e all’adeguamento delle misure organizzative da attivare nelle Procure per gli apparati elettronici e digitali. Si segnalano, dopo anni, ritardi sulle forniture delle dotazioni informatiche da parte del Ministero della Giustizia. Le imprese del settore, circa 150, fatturano quasi 300 milioni di fatturato per 198 mila “interventi operativi effettuati” annualmente. Nei rapporti con le società di intercettazione non esistono linee guida nazionali, ogni Procura si regola come meglio crede, quasi sempre affidandosi alle scelte della polizia giudiziaria. L’assenza di un albo o un’Authority di controllo fa si che i prezzi siamo molto differenti fra loro. Da anni i procuratori chiedono al Ministero della Giustizia di fornire un elenco di società selezionate e certificate in modo da non avere responsabilità in caso di gestione non corretta del servizio. Sul prezzario nazionale esiste un apposito tavolo di lavoro. Molto dovrebbe cambiare in vista del processo penale telematico. Al momento, comunque, il Ministero sta procedendo presso le sedi delle Procure con l’installazione di server ministeriali per innalzare ulteriormente i livelli di sicurezza dei sistemi informativi. La televendita dello stato di diritto di Salvatore Merlo Il Foglio, 19 febbraio 2020 Mattinata choc passata a un convegno dei 5 Stelle. Alle 23.48 del 29 giugno 2009 un treno carico di Gpl deraglia alla stazione di Viareggio, la cisterna diventa una bomba, un intero quartiere brucia assieme a trentadue persone. Trentadue morti. Quando Marco Piagentini, che porta addosso i segni delle gravissime ustioni, racconta la notte in cui morirono sua moglie Stefania, quarant’anni, e i suoi figli di due e quattro anni, Lorenzo e Luca, ecco che il silenzio e la commozione colpiscono come un pugno nello stomaco, seguito da una scarica inaccettabile: “Dopo undici anni di processo, tre capi d’imputazione sono finiti in prescrizione. Un altro capo d’imputazione, l’omicidio colposo, rischia di andare in prescrizione anche quello. Ditemi voi se potrò mai spiegare al mio unico figlio sopravvissuto che sua madre e i suoi fratellini sono morti per niente”. Come ben si vede, la faccenda è terribilmente seria. Riguarda la barbarie del meccanismo processuale che si trascina troppo a lungo, oltre ogni umana sopportazione. Un processo che dopo undici anni non è ancora finito non è degno di un paese che si definisca civile. Faccenda assai seria, si diceva. Per questo ieri mattina, in Senato, nella biblioteca della sala Koch, lo spettacolo che è andato in scena per iniziativa del Movimento cinque stelle, con Alfonso Bonafede, Virginia Raggi e Paola Taverna, impegnati ciascuno a vendere qualcosa a un pubblico di giovani studenti, militanti grillini, telecamere e dirette Facebook, lasciava a tratti persino sgomenti. Per il tono svagato, per lo scopo spudoratamente propagandistico di un’iniziativa intitolata “Uniti contro la corruzione. Conferenza/evento a un anno dall’entrata della legge Spazza-corrotti”. Il ministro Bonafede prende la parola sul finale, subito dopo l’intervento potentissimo di Marco Piagentini, quando l’aria è pesante e la commozione insopprimibile. E ovviamente cosa fa Bonafede? Non offre le buone ragioni di chi ha lavorato a rendere i processi più rapidi, perché in due anni il ministro non ha fatto nulla di tutto questo. Ma difende la sua contestatissima legge che sospende la prescrizione, che è la ragione per la quale la scaletta del “convegno” era stata progettata: creare il clima emotivamente più adatto alle cose che il ministro intendeva dire per difendersi in un momento di difficoltà pubblica “C’è il diritto dei cittadini a rivendicare una risposta dello stato”, dice allora Bonafede. “Perché altrimenti la storia che ha raccontato Marco Piagentini si ripeterà”, aggiunge. E insomma questo ministro dall’aria inconsapevole, eppure furbetta, scaglia Viareggio nel frullatore della polemica politica. Viareggio diventa il suo scudo, contro Matteo Renzi, contro il Pd che vuole modificare la sua legge bislacca sulla prescrizione, contro l’intero mondo del diritto, quei penalisti e quei magistrati, quei professori di procedura penale che gli tirano le orecchie da asino. “Ringrazio i familiari delle vittime che ho incontrato in questi anni”, insiste lui, “Ho promesso loro che le cose sarebbero cambiate. E loro mi hanno dato la forza di tenere il punto”, aggiunge, Quindi mescola ogni cosa, in un minestrone indecente. Tutti sanno che la sospensione della prescrizione non accelera i processi, ma ha l’effetto opposto. Bloccare la prescrizione equivale a dire: la giustizia non funziona, invece di tentare di aggiustarla la sfasciamo del tutto. E parlando, Bonafede mette insieme la prescrizione con l’altra sua legge contestata, la “Spazza-corrotti”, la cui retroattività sanzionata dalla Consulta non era solo un’interpretazione dei magistrati - come racconta lui - ma un punto qualificante di cui il M5S si vantava, addirittura spiegando con un famoso e violentissimo post sul Blog delle stelle che grazie alla Spazza-corrotti il già condannato Roberto Formigoni sarebbe finito in prigione e non ai domiciliari. Ma non c’è contraddittorio in questo “convegno”. Non c’è un dibattito. Si recita a soggetto. È l’esemplificazione di cosa significhi piegare la tecnica e la politica, la cronaca e la giustizia, alle urgenze della comunicazione. Così, concludendo lo spot, Bonafede si rivolge alla classe di studenti del Liceo Pascal di Roma che lo ascolta - a proposito: perché ci sono degli studenti? “Il preside è un amico del senatore grillino Sergio Puglia” - e paternalista, rivolto a questi ragazzi che hanno sorbito con chissà quanta consapevolezza due ore di propaganda purissima e sbrigliata: “Vi auguro di portare avanti i vostri sogni in un paese che davvero combatte contro la corruzione, si tratta di difendere la vostra libertà di giovani”. Anche gli studenti, come elementi di una sceneggiatura. Trasformano ogni cosa in una televendita, i 5 stelle. Dunque come zampettavano sulla tragedia dell’emarginazione - “abbiamo abolito la povertà” - così banchettano sul dramma e la sofferenza di chi chiede giustizia e teme di non riceverla dallo stato. E gli si permette pure di propinare questa sbobba a degli studenti di quarta liceo. Di usarli, attirandoli forse con la presenza di Gian Carlo Caselli e Antonio Di Pietro, specchietti per le allodole. Al Senato della Repubblica. Uno spettacolo da piazzisti, un reality dove questa classe dirigente di ex emarginati fattisi ministri, sindaci, e vicepresidenti del Senato in realtà ha tentato solo di spacciare e promuovere le proprie ambizioni. E infatti, come Bonafede doveva rilanciare se stesso e regolare i conti nella maggioranza, così Virginia Raggi era lì per vendere il suo lirico impegno anticorruzione (“sono lieta di annunciarvi che abbatteremo presto un altro villino del clan Casamonica”) e Paola Taverna era lì per offrirsi nei panni improbabili di donna di stato e possibile leader del M5S. Addirittura qualcuno le aveva infarcito il discorso di frasi in latino. Alla Taverna. Persino Bonafede era più credibile. Migranti respinti, la Corte dei diritti dell’uomo dice che si può di Angela Nocioni Il Dubbio, 19 febbraio 2020 Gran regalo dei giudici della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo ai Paesi europei che sbattono fuori dalla frontiera gli immigrati appena riescono a metter piede in territorio europeo, senza lasciargli vedere un avvocato. D’ora in poi lo potranno serenamente fare senza identificarli, senza dargli il tempo di chiedere assistenza legale e presentare domanda d’asilo. Non c’è più rischio di incappare in ricorsi individuali a Strasburgo per violazione dei diritti umani. Perché Strasburgo ormai ha detto che si può. Con una sentenza inappellabile, il 13 febbraio i 17 giudici che formano la Sala grande della Corte hanno ribaltato, accettando un ricorso di Madrid - al quale si erano uniti anche i governi di Italia, Francia e Belgio - una sentenza del 2017 della stessa Corte e hanno stabilito che il respingimento sommario di due (aspiranti) immigrati africani riusciti a varcare le grate della enclave spagnola di Melilla nel 2014, acciuffati dalla polizia spagnola e risbattuti in Marocco senza consentirgli di presentare domanda di asilo, non viola il divieto di realizzare espulsione sommarie collettive previsto dalla Convenzione europea dei diritti umani. Né viola il sacrosanto diritto a presentare un ricorso effettivo contro una decisione ingiusta. Molto interessanti le motivazioni scovate dai giudici. Un saggio di spietata ipocrisia. La sentenza - letta in cinque minuti a una platea semideserta dal presidente della Corte, il giudice greco Linos-Alexandre Sicilianos - stabilisce che i due africani hanno deliberatamente “deciso di non usare i procedimenti legali che esistono per entrare in territorio spagnolo in maniera legale” e quindi, quello che è successo dopo, il loro arresto da parte della Guardia civile e il loro respingimento immediato senza che gli fosse concesso di vedere un medico o un avvocato, “è conseguenza della loro condotta”. “I querelanti avevano anche accesso alle ambasciate e ai consolati spagnoli, nei quali secondo la legge chiunque può presentare una petizione per protezione internazionale”. Non imbarazza i 17 giudici il fatto evidente che non esistono procedimenti legali, reali, efficaci perché un trentacinquenne del Mali o della Costa d’Avorio possa educatamente chiedere ingresso in Europa, attendere anche a lungo e avere la remota possibilità di ottenerlo. “L’assenza di un procedimento individuale” per l’espulsione, cioè la violazione della legge europea da parte di Madrid, è stata perciò colpa dei due africani, secondo il bizzarro uso della logica adottato dalla Corte. Che spiega: “Non possono rendere responsabile lo Stato spagnolo dell’assenza di un ricorso legale a Melilla che gli permettesse di impugnare l’espulsione”. Ovviamente la sentenza avrà un impatto nella legislazione europea in materia d’immigrazione. E anche in quelle nazionali dei singoli Paesi. La storia è la seguente. N.D., 34 anni, cittadino del Mali e N.T., 35 anni cittadino della Costa D’Avorio, il 13 agosto del 2004 riuscirono insieme a settanta altre persone a saltare le due grate che separano Melilla dal confine africano. Ceuta e Melilla sono due enclave spagnole in Marocco protette da due alte grate coperte di filo spinato tirate su a due metri di distanza l’una dall’altra. Se riesci ad arrampicarti sulla barriera e a lasciarti cader giù senza rimanere attaccato al filo spinato, ad arrampicarti sulla seconda barriera e a saltare giù senza rimanere impigliato e senza farti sparare addosso dalla Guardia civile, sei in territorio europeo. Furono presi dalla polizia e risbattuti in Marocco immediatamente insieme a tutti gli altri arrestati quella mattina. Fecero ricorso appellandosi al fatto che le leggi europee vietano i respingimenti sommari collettivi. Ricorso accolto. La Corte di Strasburgo, con comodo, nel 2017, ha condannato Madrid per la pratica che viola il diritto ad essere identificato, a chiedere un legale e a presentare domanda d’asilo: ha detto che non si doveva fare, anche se poi si è limitata a stabilire un risarcimento di 5 mila euro a ciascun ricorrente. A quel punto il governo di Mariano Rajoy, partito popolare, destra, ha fatto ricorso contro la sentenza. Rajoy era preoccupato di veder sconfessata una pratica inaugurata dal governo socialista di Zapatero nel 2008, e poi copiata tale e quale dai popolari. Quel sistema spiccio, poliziesco, completamente al di fuori della legge, faceva molto comodo per evitare ingressi di massa di africani in Spagna. Rajoy era riuscito a legalizzarlo, con una forzatura, mettendolo nero su bianco in una legge del 2015, legge di sicurezza cittadina o legge museruola. Non gli piaceva vedersi sconfessata la sua legge dalla Corte di Strasburgo. L’attuale premier spagnolo Pedro Sanchez, allora all’opposizione, gli si scagliò contro perché quel modo si rispedire indietro gli esseri umani, diceva, “è indecente oltre che incostituzionale”. Diceva. Perché quando, nel 2018, s’è trovato, da capo del governo al posto di Rajoy, a poter ritirare il ricorso, l’ha invece portato avanti. Ora che ha vinto, lui ha taciuto. Ma il suo ministro degli Interni, non sconfessato da nessuno nel governo delle sinistre spagnolo, ha subito detto due cose. Che i “respingimenti di questo genere” (cioè sommari e di massa, ma lui ha sorvolato su quale sia il genere) continuano. E che le grate di Ceuta e Melilla saranno alzate “un po’”. Quanto? “Un po’ di più”. Abbastanza da riuscire a far morire sul colpo chi cade giù, magari, così si risolve il problema del ricorso. Autoriciclaggio per chi riceve i contanti frutto di fatture false di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 18 febbraio 2020 n. 6397. Commette il delitto di autoriciclaggio l’imprenditore che riceve per contanti le somme precedentemente bonificate a seguito della contabilizzazione di false fatture. A fornire questa indicazione è la Corte di Cassazione con la sentenza 6397 depositata ieri. Ad un imprenditore, indagato per il delitto di autoriciclaggio, veniva sequestrata una somma di denaro. In dettaglio la società a lui riconducibile aveva ricevuto fatture per operazioni inesistenti da una impresa olandese. Tali fatture erano state pagate con bonifici bancari e successivamente le somme venivano restituite per contanti all’imprenditore italiano. Il sequestro era confermato dal tribunale del riesame. L’interessato proponeva così ricorso per Cassazione, lamentando, che l’autoriciclaggio (articolo 648 ter1 del Codice penale) prevede l’impiego di beni derivanti da illeciti in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative. Nella specie i soldi dall’azienda olandese - precedentemente ricevuti con bonifico dall’Italia- venivano restituiti per contanti all’imprenditore e quindi erano chiaramente destinati ad uso personale. Mancava, in sostanza, un elemento costitutivo della condotta illecita rappresentato dal (necessario) impiego in attività economiche, finanziarie, ecc. Nella specie si era verificata soltanto una destinazione delle somme ad uso personale. Infatti, in base al comma 4 dell’articolo 648 ter1, non sono punibili nell’ambito dell’autoriciclaggio, le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale. La Cassazione ha rigettato il ricorso. Secondo i giudici di legittimità, non vi é dubbio che l’autoriciclaggio si caratterizza per il successivo impiego in attività differenti dall’uso personale in modo da ostacolare l’accertamento della provenienza delittuosa dei beni. Tuttavia la non punibilità ricorre soltanto quando l’utilizzo o il godimento dei beni ricevuti sia avvenuto direttamente e senza compiere nessuna operazione volta a ostacolare concretamente l’identificazione della predetta provenienza delittuosa dei beni. Nella specie, per la Cassazione, ricorrono tutti i presupposti del delitto di autoriciclaggio poiché il provento della frode fiscale è stato trasferito con bonifici ad un’impresa olandese simulando operazioni commerciali con causali fittizie. Il soggetto olandese, a sua volta, ha restituito agli italiani le somme in contanti. È stata così portata a compimento un’operazione mediante il trasferimento dei proventi illeciti in attività economiche diretta a “ripulire” il denaro in questione. Del tutto irrilevante poi, secondo i giudici, che le operazioni fossero simulate e non effettive. Il delitto di autoriciclaggio è finalizzato proprio a impedire qualsiasi forma di reimmissione delle disponibilità di provenienza delittuosa all’interno del circuito economico legale onde ottenere un concreto effetto dissimulatorio. Detto effetto costituisce il “quid pluris” che differenzia la semplice condotta di godimento personale (non punibile) da quella di occultamento del profitto illecito e pertanto punibile. Illegittimo il sequestro delle somme di proprietà della madre estranea ai fatti di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2020 È illegittimo il sequestro sul conto della madre dell’indagato se è dimostrato che le somme presenti derivano da proprie disponibilità estranee ai fatti commessi dal figlio. A precisarlo è la Corte di Cassazione con la sentenza 5523 del 12 febbraio scorso. La vicenda trae origine dal sequestro preventivo finalizzato alla confisca disposto dal Gip del tribunale, per le somme presenti sul conto corrente della madre dell’indagato. L’interessata ricorreva dinanzi al Tribunale del Riesame che confermava la misura. Proponeva così ricorso per Cassazione lamentando la violazione della norma disciplinante la confisca per i reati tributari (articolo 12 bis del Dlgs 74/2000). In particolare, sottolineava la propria estraneità al reato contestato al figlio. Inoltre, sul conto c’era una mera delega a operare a nome del figlio, peraltro revocata dopo aver appreso dell’indagine. La madre, quindi, non poteva subire conseguenze solo per aver consentito a un terzo (ossia il figlio) di utilizzare il proprio denaro. La Suprema Corte ha rilevato che in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca eseguito su un conto corrente cointestato all’indagato e a soggetto estraneo al reato, la misura cautelare si estende all’intero importo in giacenza, senza che a tal fine rilevino presunzioni o vincoli posti dal codice civile (articolo 1289 e 1834 del Codice civile). Tuttavia, è fatta salva la facoltà per il terzo di dimostrare l’esclusiva titolarità delle somme e la legittima provenienza. La Cassazione ha evidenziato che la delega ad operare, di per sé, non dimostra che l’intera disponibilità appartenga al delegato. Il giudice è tenuto a valutare gli elementi addotti dalla difesa, al fine di accertare la titolarità e provenienza delle somme. Inoltre, deve verificare l’operatività in concreto della delega, per circoscrivere eventualmente il sequestro alla disponibilità del reo. Nella specie, era dimostrato che i valori sul conto derivavano da risorse proprie della madre scollegate dagli illeciti del figlio. In tale contesto, va segnalato che con il Dl 124/2019, è stata introdotta la confisca allargata, ossia la possibilità di confiscare denaro, beni o altre utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito dichiarato. Sinora il sequestro preventivo finalizzato alla confisca riguardava il profitto del reato (ammontare dell’evasione); ora in aggiunta c’è la possibilità di sequestrare e poi, in caso di condanna, confiscare, anche ciò che appare sproporzionato rispetto a quanto dichiarato ed all’attività economica svolta. In concreto si trasferisce su chi ha la titolarità o la disponibilità dei beni, l’onere di dare un’esauriente spiegazione in termini economici (e non solo giuridico-formali) della liceità della provenienza, con l’allegazione di elementi che, pur senza avere la valenza probatoria civilistica in tema di diritti reali, possessori e obbligazionari, siano idonei a vincere tale presunzione (Per tutte Sezioni unite del 17 dicembre 2003 e 36499/2018). Palermo. Pene alternative per i detenuti di Germano Scargiali palermoparla.news, 19 febbraio 2020 L’Associazione Italiana volontari Onlus ha sottoscritto una Convenzione con il Tribunale di Palermo per poter dare a tutti i cittadini interessati una alternativa al carcere per reati minori dando loro la possibilità di essere responsabilizzati e risocializzati. In tale ottica, il lavoro di pubblica utilità, consistente nella prestazione di un’attività lavorativa svolta a beneficio della comunità, rappresenta lo strumento adeguato, da un lato, a ridurre il ricorso alla pena carceraria e, dall’altro, a offrire ai trasgressori la concreta possibilità di essere utili per la collettività. Il legislatore nel volere questa legge si è ispirato al modello anglosassone del community service order, con l’obiettivo di individuare uno strumento sanzionatorio alternativo o sostitutivo della pena detentiva che esalti l’idea prettamente rieducativa della condanna. L’Avo Palermo, convinta assertrice che la condanna deve essere sempre rieducativa e mai punitiva, ha accettato ben volentieri di essere uno strumento del Tribunale di Palermo dando una possibilità di rieducazione al trasgressore della legge, in questo modo l’individuo viene reintegrato nella nostra società con la consapevolezza che la sua comunità mira non alla punizione ma alla integrazione e socializzazione dei cittadini all’interno della comunità. Svolgere una attività di pubblica utilità permetterà a queste persone di poter ragionare sull’errore commesso e sull’idea di svolgere del bene per la società che lo accoglie e lo mette alla prova per superare l’errore commesso. Bologna. Carcere della Dozza al collasso: quasi il doppio dei detenuti bolognatoday.it, 19 febbraio 2020 Ancora segnalazioni sulla condizione di “grave sovraffollamento venutasi a creare ancora una volta” al carcere della Dozza. L’ennesima denuncia parte di Salvatore Bianco di Cgil Fp in una lettera inviata al direttore dell’istituto e agli organi competenti: “Ci risulta che, nelle ultime settimane, il numero dei detenuti abbia raggiunto una cifra molto vicina alle 900 presenze, a fronte di una capienza regolamentare di 492”. La situazione riguarderebbe anche le sezioni femminili, dove sono presenti 82 detenute” di cui diverse hanno problemi di natura psichiatrica”, fa sapere il sindacato. “Tale situazione risulta particolarmente grave, ed influisce molto negativamente nella gestione quotidiana, soprattutto di alcune sezioni detentive, in particolare sembra che il Reparto Infermeria sia al limite del collasso, specie per la presenza da diverso tempo di detenuti particolarmente problematici che quotidianamente mettono in seria difficoltà il personale che vi presta servizio - continua Fp Cgil - oltretutto vi sono detenuti che, terminato il periodo di prima accoglienza, dovrebbero essere allocati nei rispettivi reparti, ma che per carenza di posti disponibili permangono nel Reparto infermeria per diverse settimane. È proprio la congestione delle sezioni giudiziarie che finiscono spesso per diventare teatro di eventi critici dovuti alla convivenza forzata di soggetti di difficile gestione”, una condizione che “mette a rischio sia la sicurezza degli Agenti di Polizia penitenziaria che della stessa popolazione detenuta” quindi si chiede “un immediato intervento da parte del Provveditore, al fine di assicurare migliori condizioni lavorative per il personale di Polizia Penitenziaria e di vivibilità per la popolazione detenuta”. Cagliari. Sos dal carcere di Uta: “Una neonata di 4 mesi detenuta dietro le sbarre” di Jacopo Norfo castedduonline.it, 19 febbraio 2020 “Una bimba di 4 mesi è detenuta nella sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. La piccolina si trova in una cella-nido della struttura carceraria insieme alla giovane madre che deve scontare una pena definitiva. Ancora una volta una creatura di pochi mesi è costretta a subire da innocente la detenzione in assenza di spazi alternativi attrezzati. L’auspicio è che possa lasciare al più presto la cella”. “Una bimba di 4 mesi è detenuta nella sezione femminile della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. La piccolina si trova in una cella-nido della struttura carceraria insieme alla giovane madre che deve scontare una pena definitiva. Ancora una volta una creatura di pochi mesi è costretta a subire da innocente la detenzione in assenza di spazi alternativi attrezzati. L’auspicio è che possa lasciare al più presto la cella”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso della presenza della neonata nel carcere cagliaritano. “Non è la prima volta - sostiene - che una creatura con pochi mesi di vita varchi il cancello del carcere. La circostanza è ovviamente legata al fatto che una neonata non può essere separata dalla madre. Certo è che una presenza così fragile richiede una grande attenzione sia da parte della Polizia Penitenziaria sia da parte dell’Area Sanitaria, anche se le condizioni fisiche e umane della struttura detentiva sia rassicuranti”. “La bambina, come tutti i neonati, ha necessità di continue verifiche sanitarie. L’Istituto infatti deve farsi carico non solo delle vaccinazioni ma anche dell’alimentazione e delle visite pediatriche. Una condizione che tiene impegnata, con particolare cura, l’Area Sanitaria. La speranza è che la sua permanenza in carcere, aldilà della sensibilità di tutti gli operatori penitenziari, possa concludersi nel più breve tempo possibile”. “È noto infatti che, nonostante le poche settimane di vita, i bimbi subiscono un trauma le cui conseguenze non sono verificabili se non negli anni della crescita. In Italia, purtroppo, sono oltre 50 i bambini in stato di detenzione, alcuni negli Icam (Istituti a Custodia Attenuata per Madri detenute). Resta il problema di gestire la vita di queste creature che - conclude Caligaris - com’è evidente hanno diritto di stare con la mamma ma allo stesso tempo anche della vita in libertà”. Milano. Da “ragazzo cattivo” a educatore: la storia di Daniel Avvenire, 19 febbraio 2020 Vuole fare l’educatore, da bullo che era, per spiegare ai ragazzi come si diventa grandi nonostante gli sbagli. C’era una volta un ragazzo cattivo, che si chiamava Daniel. Pensava di non dover studiare, o lavorare, per poter vivere, e che contasse solo esser ricchi. Così - aveva sì e no 15 anni - cominciò a minacciare e a picchiare i suoi coetanei, a rubare le borsette per strada e la merce nei negozi, finché divenne uno dei bulli più temuti del suo quartiere, alla periferia di Milano. Violento e spietato. Nemmeno quando fu arrestato, Daniel capì che doveva cambiare: anzi, continuava a comportarsi male e a prendere punizioni. Finché per la prima volta nella sua vita incontrò qualcuno - don Claudio, il cappellano del carcere minorile Beccaria - che non lo guardò come un ragazzo cattivo: “Sei migliore di così” disse don Claudio, e si prese Daniel nella sua comunità di recupero. Era il 2015. Già dopo un anno il ragazzo cattivo non esisteva più: Daniel capì che aveva sbagliato e che la vita doveva avere tutto un altro senso. Cominciò a studiare, dall’Inferno di Dante Alighieri, un librone che gli aveva messo in mano un’anziana professoressa in carcere, che come don Claudio aveva visto qualcosa in lui. E con quelle storie di cattiveria e di dolore, con la poesia, con le regole di condivisione della vita in comunità e il sostegno della sua famiglia, Daniel ricominciò a camminare. Giovedì scorso - qualcuno fra i suoi vecchi amici ha fatto persino fatica a riconoscerlo, tanto luminosi erano i suoi occhi - s’è laureato brillantemente all’Università Cattolica di Milano in Scienze della formazione. Vuole fare l’educatore, da bullo che era, per spiegare ai ragazzi come si diventa grandi nonostante gli sbagli, o forse anche grazie a quelli. Ad assistere alla sua tesi di laurea, oltre a don Claudio e alla professoressa dell’Inferno di Dante, c’era anche il giudice del Tribunale per i minorenni di Milano che l’ha fatto condannare tante volte, fino a costringerlo al carcere: “È una grande vittoria di tutti noi, questa” ha detto stringendolo fra le braccia come una seconda mamma. La pm, insieme a Daniel, gira le scuole e incontra gli studenti raccontando che si può “non cedere alla tentazione del lato oscuro della forza. Lui è riuscito a trovare dentro di sé la forza del cavaliere Jedi e in questo è un esempio per i ragazzi”. Il primo a essergli stato affidato si chiama Bragan, ha 17 anni. Era un ragazzo cattivo, finché Daniel non l’ha guardato come don Claudio ha fatto con lui. Catanzaro. Liz e le altre storie. Il Viaggio nelle carceri della Corte costituzionale di Lello Nisticò catanzaroinforma.it, 19 febbraio 2020 La proiezione del docu-film di Fabio Cavalli, alla presenza della presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, poi intervistata dagli studenti. L’assistente Sandro Pepe è massiccio. Di più, una montagna d’uomo. È scuro di pelle, è nato ad Asmara, nel Corno d’Africa, quella che si dice sia la più bella città africana. È entrato in polizia penitenziaria 27 anni dal 2019, quest’anno saranno ventotto. L’anno scorso ha accompagnato in sette carceri italiane i giudici della Corte costituzionale. Si può dire che nel docu-film del 2019 di Fabio Cavalli, “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri” sia il ragno che cuce le sette carceri in cui si svolgono le storie: Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano, il carcere minorile di Nisida, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, Terni, Lecce sezione femminile. Perché Giorgio Lattanzi, all’epoca presidente della Corte, e i suoi colleghi hanno visitato le carceri? Perché dell’esperienza hanno sentito il bisogno di ricavarne un film che parla con la spontaneità della parola e il nitore delle immagini? Che c’entra la Consulta con i luoghi di detenzione? Alla domanda aveva già risposto Pietro Calamandrei, padre costituente, quando consigliava di cercare nelle carceri le radici della Costituzione. Non soltanto perché un terzo dei padri costituenti sono stati incarcerati, ma soprattutto perché la Costituzione certo serve a tutti, ma prima di tutto serve a garantire i più deboli. Chi ha potere, di solito riesce a difendersi da sé. Chi è ultimo, ha bisogno di una protezione tanto più utile quanto più è uguale per tutti. Non tutti i detenuti sanno cosa rappresenta un giudice costituzionale. Loro li hanno già conosciuti, i giudici, arbitri in terra del bene e del male. Questi che si trovano davanti non sembrano essere venuti per giudicarli, non è il loro compito. Ne hanno un altro. Sono giudici delle leggi. Stabiliscono se una legge è conforme a quanto sta scritto in uno dei 139 articoli che compongono la Carta. Non si occupano del loro caso specifico, ma ne custodiscono uno o due che li riguardano uno per uno, e riguarda tutti gli altri, quelli che sono fuori. Il primo, l’articolo 27 stabilisce che: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il secondo, il 111, dice che: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. Caso ha voluto che l’Associazione nazionale magistrati, con il suo presidente nazionale Luca Poniz, abbia programmato all’Auditorium Casalinuovo la proiezione del film per gli studenti superiori e universitari invitando addirittura il presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia proprio due giorni dopo che Repubblica ne ha pubblicato una lunga intervista che ha avuto vasta eco per le parole che dice e per il tono con cui vengono dette e si presume vengano lette, in un momento in cui si fa un gran parlare di leggi, processi, durata, prescrizione. A un passo dell’intervista si parla anche dell’incontro di Catanzaro, quando alla domanda su cosa voglia trasmettere la Corte con quel film, Cartabia risponde: “Ci sono state ben 26 proiezioni in Italia e all’estero e già ne sono fissate altre 21, nei cinema, nei tribunali, negli auditori, nelle carceri, nei luoghi di cultura, nelle scuole, quindi si può dire che partendo dal luogo più remoto della società - qual è il carcere - la Corte sta parlando a tutti, ovunque, e sta portando la Costituzione a tutti, ovunque. Del resto, la Costituzione e i suoi valori vivono e muoiono nella società: il dovere, e la responsabilità della nostra Corte, è custodire e al tempo stesso promuovere quei valori, farli ritrovare a chi li ha smarriti, tenerne viva la coscienza, diffonderne la conoscenza tra le più giovani generazioni”. Cartabia, quando il film è stato girato era “semplice” giudice costituzionale, essendo presidente pro tempore Giorgio Lattanzi, e nel film si riporta la sua visita al carcere milanese di San Vittore dove nel III raggio i detenuti fanno bella musica e intonano l’Inno di Mameli, così come a Sollicciano, Firenze, qualcuno impara a riparare biciclette, a Nisida i ragazzi fanno una pizza “più buona di quella di Posillipo”, Lattanzi nella sezione femminile di Rebibbia incontra un mamma con due bambini in carcere mentre ne ha altri otto fuori. Ci sono molte storie in questo film vero, girato da un regista vero, per raccontare storie vere. Una di queste, che induce anche a rispondere con cauto ottimismo alla domanda che pone la presidente del tribunale di sorveglianza di Catanzaro su come le cose positive viste nel film possono trasferirsi nella realtà quotidiana e farsi sistema, è quella di Liz, una ragazza domenicana che si è lasciata invischiare in traffici di droga. Mentre è in detenzione a Nisida, Liz chiede a Giuliano Amato, giudice costituzionale, che senso abbia seguire con profitto il percorso di riabilitazione quando all’uscita del carcere la sarebbe toccata l’espulsione. La presidente Cartabia non ha ricette da trasferire al giudice di sorveglianza. Però, Cartabia trae un utile insegnamento dalla vicenda di Liz, che ha suscitato nel giudice Amato un moto di interesse trasferito per osmosi all’amico professore a Roma Tre Marco Ruotolo presente sul palco, il quale a sua volta contagia virtuosamente un suo allievo che lavora per Antigone, l’associazione che difende i diritti dei detenuti, un avvocato che trova il comma giusto esistente e misconosciuto che consente a Liz di permanere in Italia proprio in virtù del giusto percorso di riabilitazione intrapreso. Ecco, l’insegnamento che se ne può trarre è questo: non trascurare le storie individuali, non tralasciare i racconti di ciascuno, perché ogni storia, ogni racconto può essere l’anello di una catena di umanità che consente alla piccola palla di neve di trasformarsi in valanga. Il discorso si è intrecciato, attraverso le domande degli studenti del liceo Galluppi, con i temi crudi del 41 bis, il carcere duro, e dell’ergastolo ostativo, che portano con loro le controfigure del volto umano della giustizia e del fine rieducativo della pena. Cartabia non può rispondere nel merito, perché rispettosa delle sue competenze. Anzi, in un certo senso, è lei stessa a riformulare le domande: “Sul volto umano della pena. Cosa avete visto nel film, c’è qualcosa, qualche persona, qualche agente penitenziario, qualche direttore di carcere che vi dicano che lì dentro c’è spazio per l’umanità? Ritornate per un attimo alle immagini. C’è qualcosa che vi parla dell’umanità della pena? Non lasciatelo scappare via. Date un nome a questi piccoli frammenti di umanità, perché da lì possiamo tutti contribuire, ciascuno nel suo ambito, a una pena che rispetti quanto sta scritto nella Costituzione, e che tutti siamo chiamati ad attuare”. Cagliari. “Il futuro oltre le sbarre”, dibattito sulle carceri e sul recupero dei detenuti di Alessandro Congia sardegnalive.net, 19 febbraio 2020 Tavola rotonda tra esperti all’incontro promosso dall’associazione “Sardegna Sociale”. “Il futuro oltre le sbarre” era il tema dell’incontro-dibattito organizzato e voluto dall’Associazione Sardegna Sociale di Cagliari, svoltosi ieri presso la Sala Conferenze dell’Hotel Flora. Sala gremita e pubblico persino in piedi ad ascoltare gli interessanti interventi di qualificati ed esperti relatori su di un tema quanto mai attuale ma scottante e quindi non troppo discusso. Il dottor Maurizio Veneziano ha portato al pubblico la sua grande esperienza dapprima con impegni diretti nei vari carceri del continente e dell’isola ed ora Dirigente al Provveditorato dell’ Amministrazione Penitenziaria della Sardegna; ha sfatato il luogo comune del sovraffollamento delle carceri che, se valido in Continente, non tocca la nostra isola al contrario del forte depotenziamento delle guardie ed altro personale. La dott.ssa Elisabetta Mulargia, Magistrata di Sorveglianza ha chiarito l’importanza del suo Ufficio nel preparare il reinserimento dei detenuti privilegiando le misure alternative alla detenzione che ha spiegato hanno un impatto positivo sulla futura reiterazione dei reati. L’on Stefano Schirru, consigliere in Regione, ha garantito il proprio impegno nell’ascoltare e portare avanti in Consiglio le richieste sia degli operatori diretti che delle Associazioni auspicando una miglior collaborazione con i Comuni Sardi, anche piccoli, per far cessare la diffidenza verso gli ex detenuti che desiderino restare sul territorio e reinserirsi socialmente. Soddisfazione del pubblico che si è alternato in domande e richieste favorendo il dibattito. L’avvocato Gianfranco Piscitelli Presidente di Penelope Sardegna e vice Presidente di Luna e Sole ai nostri microfoni: “Ringrazio il fraterno amico Salvatore Serra presidente di Sardegna Sociale - dice - per aver avuto il coraggio di organizzare un incontro con un tema vero ma di fronte al quale spesso si evita il confronto. Nel mio intervento ho chiesto all’on.le Schirru di aiutarci nel promuovere e favorire le iniziative miranti alla formazione lavorativa interna dei detenuti ed ho invitato l’amico Presidente Salvatore Serra a riproporre tali incontri per formare anche chi deve accogliere gli ex detenuti a favorire la loro reintegrazione”. Modena. Concorso letterario per detenuti, si conclude Sognalib(e)ro Gazzetta di Modena, 19 febbraio 2020 Premiazioni nelle sezioni di narrativa, chi vince va nella finale nazionale. Gruppo di lettura al Sant’Anna. Volge al termine, con la serata delle premiazioni, domani alle 20.30 al Teatro dei Segni di Modena (via San Giovanni Bosco 150) la seconda edizione del premio letterario “Sognalib(e)ro” per le carceri italiane, diretto, in collaborazione con il Comune, da Bruno Ventavoli, responsabile di TuttoLibri - La Stampa.. La serata finale di Sognalib(e)ro con l’annuncio dei vincitori, e la partecipazione dell’autore o dell’autrice scelto per la sezione Narrativa italiana e il Premio Bper Banca, è a ingresso libero per tutti fino a esaurimento dei posti disponibili in sala. L’appuntamento, a cura del Teatro dei Venti e di Ventavoli che lo conduce, è aperto da Andrea Bortolamasi, assessore alla Cultura, che sarà presente insieme con il vicesindaco di Modena Gianpietro Cavazza. Si passerà poi alla premiazione della sezione Inediti, per la quale il premio va a un’opera creata da detenuti o detenute sul tema “Ho fatto un sogno…”, con lettura di riflessioni e commenti dei detenuti. Nella giuria, diretta da Ventavoli, Marco Dambrosio “Makkox”, Barbara Baraldi, Paolo Di Paolo. Si proseguirà, quindi, con la premiazione della sezione Narrativa e del Premio Bper Banca all’autore o all’autrice del libro più votato dai gruppi di lettura negli istituti. In gara c’era una rosa di tre romanzi: “La straniera” di Claudia Durastanti (La nave di Teseo, 2019); “Fedeltà” di Marco Missiroli (Einaudi, 2019); “Le assaggiatrici” di Rosella Postorino (Feltrinelli, 2018). L’autore o l’autrice scelto dalla giuria popolare delle carceri parlerà dei suoi “libri della vita”, che saranno poi donati in più copie da Bper e dal Comune di Modena a ciascun istituto penitenziario partecipante. Nel corso della serata sarà presentato anche “Freeway per una Odissea in carcere”, progetto di spettacolo a cura del Teatro dei Venti con gli attori del carcere di Modena e di Castelfranco Emilia, realizzato in collaborazione con tre realtà europee che nei rispettivi Paesi lavorano in istituiti penitenziari: aufBruch (Germania), Fundacja Jubilo (Polonia) e Upsda (Bulgaria) con il sostengo di Creative Europe - Sottoprogramma Cultura. Genova. Presentazione del libro “Doppia Pena - Il carcere delle donne” Ristretti Orizzonti, 19 febbraio 2020 Venerdì 28 Febbraio alle ore 17,30, organizzato dall’Associazione Sc’Art di Genova, presso la sede Store di Vico Angeli 21r, verrà presentato il libro “Doppia Pena - Il carcere delle donne” edito da Mimesis e curato da Nicoletta Gandus e Cristina Tonelli. I testi che compongono questo libro sono opera di autrici che in forma e titolo diverso hanno sperimentato, nei fatti il carcere e le sue problematiche. All’incontro presenzieranno due delle autrici: Nicoletta Gandus (giudice penale a Milano fino al 2012, legale rappresentante della Casa delle Donne di Milano dal 2012 al 2016 ed Eva Banchelli (ex docente di Letteratura Tedesca presso l’Università Statale di Milano e Bergamo, germanista che ha svolto e svolge attività di critico, traduttrice e pubblicista, ora impegnata in attività di volontariato con l’Associazione Naga di Milano nel carcere di San Vittore. L’Associazione di Promozione sociale “Sc’Art!” da alcuni anni gestisce un’attività formativa e lavorativa con la conduzione di laboratori interni ed esterni alla Casa Circondariale di Genova Pontedecimo, rivolti a donne detenute, anche in misura e sanzione alternativa e a donne ex detenute. Questa esperienza è stata occasione ed nel contempo per riflettere sulle questioni più generali legate al carcere, la funzione della pena, il tema dei diritti, il senso/non senso di una segregazione vuota di idee e di progettazione, ma anche e soprattutto sul tema della soggettività delle donne detenute e della loro differenza. L’evento che proponiamo alla città è frutto proprio di questa riflessione e vuole mettere in luce la condizione delle donne in carcere, una condizione più dura, una “doppia pena”. Napoli. Presentazione del libro “Lettere a Laura, dal mondo dei nessuno” acli.it, 19 febbraio 2020 Venerdì 21 alle 17, presso la sede provinciale delle Acli di Napoli sarà presentato il libro “Lettere a Laura, dal mondo dei nessuno” di Laura Ephrikian e Nino Mandalà. L’iniziativa è inserita nell’ambito della rassegna Acli Book - Leggere per conoscere e conoscere leggendo. In questo epistolario i due autori trattano un tema delicato come quello dei diritti dei detenuti e della possibilità di redenzione, facendo emergere nelle parole delle lettere la vita e l’anima dei protagonisti, il potere salvifico di arte e poesia. “Questo epistolario - spiega la Ephrikian - è nato da un incontro banale tra due persone che mai avrebbero pensato di incrociare le loro strade e percorrere assieme un lungo tragitto fatto di emozioni e confessioni che mettono a nudo le anime di due ottantenni. Un incontro casuale, si direbbe. Mi piace pensare che quest’incontro sia stato voluto dalle stelle, perché sono convinta che siano le stelle a guidarci verso la conquista di mete altrimenti impensabili. Rileggendo le lettere mi è venuto in mente che avremmo potuto chiamarlo: libretto di istruzioni per l’uso, l’uso della misericordia e dell’onestà nell’approccio con i drammi della vita affinché non accada che a drammi si aggiungano altri drammi”. L’evento, a cui parteciperanno gli autori, sarà introdotto da Maurizio D’Ago, presidente delle Acli di Napoli. Seguiranno gli interventi di: Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania; Saverio Senese, avvocato penalista; Sabrina Carpi, psicologa-psicoterapeuta Asl Napoli 2 Nord, Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli. Modererà il dibattito Benedetta Sciannimanica, Presidente Napoli Vi.Ve. Venerdì 21 febbraio 2020, ore 17:00. Sede Acli provinciali di Napoli. Via del Fiumicello 7. Il documentario “La luce dentro”. Essere un padre dietro le sbarre di Maria Antonia Fama rassegna.it, 19 febbraio 2020 Intervista a Luciano Toriello, che nel suo film che affronta il tema della paternità vissuta in carcere e il rapporto complicato con i figli, spesso all’oscuro della condizione vissuta dal genitore e poco consapevoli riguardo ai concetti di reato e pena. “La luce dentro”, nuovo documentario di Luciano Toriello, affronta il delicato tema della paternità vissuta in carcere: il rapporto complicato con i figli, spesso all’oscuro della condizione vissuta dal genitore e poco consapevoli riguardo ai concetti di reato e pena. Il film è stato prodotto dall’Apulia Film Commision ed è vincitore del Social Film Fund Con il Sud. Verrà proiettato in anteprima giovedì 20 febbraio alle ore 15, presso l’Aula dei Gruppi parlamentari della Camera dei deputati. Luciano Toriello, quando e come ti è venuta voglia di raccontare queste storie? Da sempre mi sono occupato di temi sociali nella mia filmografia e ho lavorato spesso in collaborazione con il mondo dell’associazionismo. Nel caso specifico di questo progetto, Apulia Film Commission e Fondazione Con il Sud mi hanno dato un importante supporto nello sviluppo di un’idea legata a un mondo che osservavo da diverso tempo: le attività dell’Associazione Lavori in Corso, che opera intorno alla casa circondariale di Lucera, e di Paidòs Onlus, che da più di cinquant’anni assiste bambini che crescono in condizioni di disagio. Si parla più spesso della situazione delle donne che vivono la maternità in carcere e dell’importanza di permettere loro di crescere i propri figli, anche in un contesto anomalo, come quello della detenzione. Tu hai scelto, invece, di concentrarti sulla genitorialità paterna. Come mai? Credo che il rapporto che i padri detenuti instaurano con i propri figli sia un tema sottovalutato. Quando ho incontrato Simone e Gianni, i due bambini poi diventati i protagonisti del film, che studiano nel centro diurno di Paidòs, ho capito che avevano difficoltà di comunicazione con il padre. Quando non si vede per tanto tempo una persona, sia pure un familiare stretto, poi si hanno problemi a relazionarvisi. I due bambini mi hanno raccontato che non era loro permesso portare giocattoli all’interno del carcere, né disegni o colori. Questo mi ha fatto riflettere su quanto fosse difficile per loro e per il padre riuscire a comunicare con così pochi strumenti e per un tempo così breve. Ho chiesto allora come mai nella casa circondariale di Lucera e in altre realtà analoghe non ci fosse uno stimolo maggiore per favorire questi colloqui. Ho scoperto così l’Associazione Bambini senza Frontiere, che nelle carceri di alcune città settentrionali è riuscita a creare delle strutture adibite a questi incontri, dove i bambini possono giocare e disegnare mentre stanno con i genitori detenuti. Ho deciso allora di approfondire questo argomento, scegliendo come punto di vista quello dei bambini. I bambini sono i veri protagonisti del documentario. Che tipo di percezione hanno del genitore che vive in carcere? Capiscono cosa vuol dire? Viene spiegato loro il senso del reato, della pena, della colpa? Ho seguito più bambini, ma il mio lavoro è partito dall’incontro con un adulto che, durante l’infanzia, aveva vissuto l’esperienza traumatica di un genitore detenuto. Quando sua madre si è suicidata, a causa degli abusi subiti da parte del padre, lui si è trovato di colpo completamente perso, senza una famiglia. Tuttavia, scelse di sfuggire a tutte le forme di aiuto che gli erano state offerte e che si concretizzavano nel supporto da parte degli assistenti sociali o dall’accoglienza nelle associazioni. Da adulto, poi, si è ritrovato nei panni del padre, a vivere la stessa situazione da genitore. Molti dei figli dei detenuti che ho incontrato non conoscono la verità. Sono convinti che i genitori in carcere lavorino. Solo due di loro, Simone e Gianni, sono pienamente coscienti della situazione. Credo che proprio questa consapevolezza li aiuterà a superare più facilmente alcuni traumi man mano che cresceranno, perché non dovranno subire il contraccolpo della scoperta. Tra i protagonisti c’è una bambina, accompagnata dalla mamma, che di notte va sotto la finestra del carcere e chiama suo padre... Morena non sa che suo padre è un detenuto, pensa che lavori in carcere e lei viene di tanto in tanto a trovarlo da Bari a Lucera, viste anche le possibilità economiche limitate. Nell’esperienza di Morena emergono tutte le problematiche derivanti dalla pratica di tenere nascosta la situazione penale di questi detenuti ai loro figli. La bambina chiede continuamente del padre e continuamente le vengono dette bugie. Questi bambini quindi non hanno un sostegno psicologico? Non c’è un approccio pedagogico, protetto, alle relazioni che i padri detenuti intrattengono in carcere con i rispettivi figli? Assolutamente no, almeno per quanto riguarda molti dei casi che io racconto nel mio film. Simone e Gianni, invece, sono stati accompagnati e questo ha permesso loro di individuare nel tempo dei punti di riferimento, dei modelli positivi, grazie al lavoro di supporto svolto dalle associazioni che li seguono. Altri bambini, invece, sono abbandonati a loro stessi. Le madri non sanno dell’esistenza di questo tipo di supporti, vivono nell’abbandono e ciò genera non poche difficoltà. L’Europa si deve preparare a diventare multietnica di Antonio Armellini Corriere della Sera, 19 febbraio 2020 La popolazione africana è in forte crescita e cercare di alzare muri non ci servirà. Ma investimenti e creazione massiccia di posti di lavoro richiedono tempo. L’immagine dell’Africa come una bomba a orologeria ha una forte presa; dinanzi allo spettro dello scontro epocale con una massa di migranti capace di stravolgere i caratteri essenziali della civiltà europea, la risposta è spesso quella di alzare muri. Al di là del vantaggio politico di corto respiro di simili argomenti, c’è da chiedersi se la soluzione possa davvero essere solo quella dell’esclusione e di guerre di interdizione dall’utilità inversamente proporzionale al costo. Non che il problema non sia serio. La popolazione africana raddoppierà da qui al 2050, oltre quattrocento milioni entreranno in età lavorativa nei prossimi dieci anni e ci saranno posti per meno di un terzo (ha calcolato Domenico Siniscalco); per gli altri la via continuerà ad essere quella della fuga. Per contrastare il calo demografico che mette in pericolo il mantenimento dei livelli di crescita e il benessere dei Paesi europei, sarà indispensabile ricorrere all’apporto di immigrati in numeri che, solo per l’Italia, dovranno essere di centinaia di migliaia all’anno. Ad alto livello di specializzazione, che tutti dichiarano di volere, ma anche non qualificati, da cui già dipende la sopravvivenza di molti settori produttivi a partire all’agricoltura. Facendo emergere questi ultimi sarà fra l’altro possibile mettere fine allo scandalo di vederli abbandonati nelle mani delle mafie e trattati come schiavi perché “invisibili”, quando sono davanti agli occhi di tutti. Le cifre di riferimento potranno variare, ma il problema è quello di una gestione intelligente di entrambi i flussi che, per quanto paradossale possa sembrare, sarà l’unico modo per proteggere la nostra way of life. L’Europa multietnica non è una realtà limitata agli ex colonizzatori, ma riguarda tutti i paesi europei ed è la conseguenza del ribaltamento di rapporti storici di dipendenza economica e culturale, resa più difficile dalla crisi dei modelli di integrazione tentati sin qui. Quello centralizzatore della Francia, che cerca di fare di Vercingetorige parte della storia senegalese, ha prodotto l’inferno delle banlieues. Quello della convivenza separata del Regno Unito, in cui altrettante “tribù” autonome convivono accanto alla “tribù” britannica nel rispetto della Corona, non regge al di fuori del vecchio recinto del Commonwealth. Quello scandinavo mostra crepe profonde nel solidarismo egualitario cui si ispira. Quando i numeri erano scarsi, gli immigrati ricordavano a molti italiani i loro fratelli che avevano a loro volta dovuto emigrare e l’approccio era quello della carità cristiana; poi l’Italia è cresciuta, da Paese di emigranti è diventata a sua volta Paese di immigrazione; ci siamo scoperti più impreparati degli ex colonizzatori ad affrontare un problema di cui ignoravamo tutto e il passaggio dalla solidarietà all’intolleranza è stato rapido. Tutto questo dimostra che l’integrazione ha dei limiti inevitabili e che è indispensabile combinarla con investimenti per la creazione massiccia di nuovi posti di lavoro. La conclusione dell’accordo dell’Unione Africana per una zona di libero scambio panafricana (Acfta) apre prospettive sin qui inimmaginabili (come ha spiegato Danilo Taino sul Corriere); è solo un primo passo e resta da vedere se funzionerà davvero, ma per la prima volta si potrà parlare di un mercato integrato, ponendo fine alle storture per cui, ad esempio, per volare da un Paese all’altro è spesso necessario passare dalla vecchia capitale coloniale europea. Favorire questo processo è interesse comune: l’Europa ha cominciato a muoversi e anche l’Italia è presente; è necessario fare molto di più, anche per dare un argine alla presenza cinese che è sempre più arrembante e si va caricando di toni neocoloniali. “Aiutiamoli a casa loro” dunque? È bene capirsi. Parlare di “Piano Marshall per l’Africa” non ha senso: allora si trattava di rimettere in piedi economie avanzate distrutte alla guerra, qui si tratta di creare una capacità economica dove non c’era. È una trasformazione che richiederà ai Paesi Ue una revisione in profondità e una presa di coscienza non indolore: bisognerà spiegare, ad esempio, agli agricoltori francesi che la protezione della politica agricola comune non sarà più compatibile negli stessi termini, e rendere chiaro alle imprese europee che con lo sviluppo della loro capacità manifatturiera, quelle africane passeranno da subfornitrici a competitor, sia pure in un mercato più ampio Non si tratterà di aggiustamenti al margine e la retorica fa spesso velo alla realtà. Promuovere in Africa una crescita capace di invertire il ciclo di una emigrazione strutturale richiederà anni, se non decenni. Nel frattempo, gli immigrati continueranno ad arrivare e - a parte gli specchietti per le allodole di respingimenti di massa o simili - la gestione del problema non potrà essere affrontata solo a livello nazionale. Si tratta di un’eredità storica dell’Europa ed è alla Ue che tocca farvi fronte: coinvolgerà in tempi e modi diversi tutti i suoi membri e sarebbe saggio pensarci insieme per tempo. Miranti. Decreti sicurezza, una riforma a metà è pericolosa di Stefano Zirulia* Il Manifesto, 19 febbraio 2020 Le modifiche alle leggi salviniane, se confermate, non ne mettono radicalmente in discussione l’impianto. A partire dalla riduzione (e non l’abolizione) delle sanzioni attualmente previste per le Ong. Nel pacchetto di riforme allo studio della maggioranza per superare i decreti sicurezza varati dal precedente governo sembrerebbe esserci anche la riduzione (e non l’abolizione) delle sanzioni attualmente previste per le Ong che violano i divieti ministeriali di ingresso nelle acque italiane. Se la notizia fosse confermata si tratterebbe di una modifica molto insidiosa, poiché dietro alla facciata di un passo avanti sulle politiche migratorie finirebbe per confermare, nelle sue linee di fondo, la stessa logica che aveva animato la stagione salviniana dei “porti chiusi”. Anziché mettere radicalmente in discussione l’impianto del decreto sicurezza-bis, la riforma in cantiere sembrerebbe infatti limitarsi ad “addolcirne” le conseguenze sanzionatorie, riducendo l’importo della sanzione pecuniaria (che dall’attuale massimo di un milione di euro scenderebbe a 50.000 euro) e prevedendo che l’imbarcazione possa essere confiscata soltanto in caso di reiterazione della condotta. Un intervento riformatore di questo tipo, tuttavia, perderebbe clamorosamente di vista l’obiettivo di correggere le attuali macroscopiche storture della legislazione italiana. Il diritto internazionale del mare prevede infatti che il comandante della nave svolga un ruolo attivo nell’individuazione del porto sicuro verso il quale fare rotta dopo avere tratto in salvo le persone in pericolo (Linee Guida dell’International Maritime Organisation sul trattamento delle persone soccorse in mare). Il che è perfettamente ragionevole se si pensa che il comandante è l’unico soggetto in grado di valutare da vicino tutte le circostanze concrete, incluse le condizioni delle persone a bordo e quelle metereologiche. Nel momento in cui, avvenuto il soccorso, gli Stati costieri non indichino alcun porto sicuro (o perché tacciono, o perché indicano la Libia, che tutto può dirsi tranne che sicura), è ragionevole oltre che giuridicamente ineccepibile che la scelta finale su dove attraccare sia compiuta dal comandante. Rispetto a tale situazione, la possibilità che un ministro dell’Interno possa emanare un divieto di ingresso appare preoccupante per due principali ragioni. Anzitutto perché sovverte la logica del soggetto più indicato a individuare il porto sicuro: non chi osserva la scena dalle stanze del Viminale, coi piedi all’asciutto, bensì il comandante della nave che ha di fronte la situazione concreta. In secondo luogo, perché rischia di produrre un effetto deterrente nei confronti dei comandanti delle navi commerciali, i quali, intravedendo il rischio di rimanere bloccati in una specie di limbo giuridico con decine di migranti a bordo, potrebbero essere per così dire scoraggiati dall’intraprendere iniziative di salvataggio (già oggi non mancano, purtroppo, le drammatiche cronache dei barconi abbandonati alla deriva senza che nessuno intervenga). Bisogna dare atto al governo in carica di avere finora lasciato inapplicata la normativa sui “porti chiusi” voluta da Salvini, evitando cioè di emanare i relativi divieti di ingresso e intavolando proficue trattative, nel quadro degli accordi di Malta, per la ricollocazione dei naufraghi tra i Paesi disponibili ad accoglierli. Se però l’intento riformatore fosse davvero quello di superare la logica dei porti chiusi, perché mai lasciare in vita delle norme che ne rendono in qualunque momento possibile il ritorno? La mera riduzione delle sanzioni, anziché la loro cancellazione, suona anzi come un monito: attenzione, ora che la legge è stata riportata nei limiti della proporzionalità, non si esiterà ad applicarla laddove risultasse necessario. Tale situazione potrebbe presentarsi, ad esempio, se durante il protrarsi dei negoziati di ricollocamento un comandante si rendesse conto dell’insostenibilità della situazione sanitaria a bordo, e decidesse in autonomia di attraccare in un porto italiano. Forse, però, l’aspetto davvero inquietante dell’intera vicenda è a monte delle questioni giuridiche di carattere più tecnico, ed è rappresentato dal fatto stesso che il tema delle sanzioni per le Ong sia ancora all’ordine del giorno. Come se fosse una cosa normale il fatto di discutere quanto sanzionare coloro che trasportano dei naufraghi sulla terraferma. La peggiore eredità del governo giallo-verde potrebbero allora non essere le leggi che ha introdotto, bensì l’avere spostato sensibilmente avanti la soglia psicologica e morale di ciò che siamo disposti ad accettare in nome della protezione delle frontiere. Il passaggio è cruciale, perché quando si inizia a considerare possibile, o anche solo degno di discussione, ciò che fino a ieri sarebbe stato considerato anormale, in quanto disumano, allora si sta preparando un terreno sul quale potrebbe germogliare quel “male” sulla cui “banalità” Hannah Arendt ha lucidamente messo in guardia la società contemporanea e tutti i suoi attori. *Docente di diritto penale dell’Unione europea, Università Statale di Milano Migranti. Rimpatri forzati: il Garante nazionale ha presentato le sue Linee guida Ristretti Orizzonti, 19 febbraio 2020 “Voglio sottolineare gli aspetti positivi dell’interlocuzione sviluppata tra il Garante nazionale e il Ministero dell’Interno sul fronte della protezione dei diritti fondamentali nel corso delle operazioni di rimpatrio forzato. C’è collaborazione e sinergia, come è naturale ci sia fra due parti dello stesso sistema. Si deve partire constatazione che nel nostro Paese negli ultimi anni si sono fatti grandi passi avanti su questo tema e che l’Italia in linea generale effettua i rimpatri forzati sostanzialmente in modo corretto. Certo, ci sono degli aspetti da migliorare nell’ambito di questa interlocuzione: il Ministero, per esempio, comunica spesso troppo tardi al Garante le informazioni sui rimpatri imminenti. Più in generale, il Garante nazionale esprime preoccupazione per i rimpatri forzati verso l’Egitto, che nel 2019 sono stati ben 363. A questo proposito nota che l’accordo bilaterale per i rimpatri con l’Egitto dovrebbe essere rivisto, perché in tema di situazione dei diritti umani l’Egitto del 2020 non è più quello del 2007, quando l’accordo fu firmato. Sul piano internazionale ed europeo insorgono altre preoccupazioni: per esempio per quanto riguarda la recente sentenza della Grande camera della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo sui respingimenti a Melilla nel caso N.D e N.T contro Spagna. Il Garante prende atto con forte disappunto, pur ovviamente rispettandola, che la sentenza non ha rilevato una violazione da parte della Spagna dell’articolo 4 del Protocollo addizionale n. 4 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’articolo 13 della stessa Convenzione. Inoltre, proprio nel momento storico in cui a Frontex vengono assegnati sempre maggiori poteri e risorse, sarebbe importante che i Paesi membri dell’Ue, che rimangono gli unici responsabili di fronte alla Corte di Strasburgo (dato che l’Unione non è membro del Consiglio d’Europa), si sforzino per espandere la protezione dei diritti fondamentali nelle operazioni di rimpatrio forzato, ad esempio promuovendo la collaborazione con i paesi di destinazione per il monitoraggio post rimpatrio”. Lo afferma Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, nel corso del convegno internazionale dal titolo “Il monitoraggio dei rimpatri forzati in Italia e in Europa”, svoltosi martedì 18 febbraio nello Spazio Europa, gestito dall’Ufficio in Italia del Parlamento europeo e dalla Rappresentanza in Italia della Commissione europea. Nel corso dell’iniziativa sono state presentate le “Linee guida sui rimpatri forzati”, un volume nel quale sono condensati una serie di standard da rispettare nel corso delle operazioni di rimpatrio forzato, basati su standard internazionali e sui concreti monitoraggi condotti dal Garante, anche a bordo degli aerei fino al Paese di destinazione. Hanno partecipato in veste di relatori oltre a Mauro Palma, il Presidente del Comitato europeo per la prevenzione dei trattamenti inumani e degradanti, Mykola Gnatowskyy, il Presidente della Commissione Affari costituzionali della Camera dei Deputati, on. Giuseppe Brescia, il Direttore centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle frontiere, prefetto Massimo Bontempi e altri interlocutori nazionali e internazionali. L’Europa torna in mare per far rispettare l’embargo delle armi alla Libia di Ivo Caizzi Corriere della Sera, 19 febbraio 2020 Accordo tra i ministri Ue sul lancio di una nuova operazione che rimpiazzi “Sophia”, sarà concentrata a Est, non su tutta la costa libica. Il Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Ue ha raggiunto un accordo politico sul lancio di una nuova operazione per far rispettare l’embargo delle Nazioni Unite sulla fornitura di armi alla Libia, che chiude definitivamente la precedente missione Sophia. Lo ha annunciato al termine della riunione a Bruxelles il responsabile Esteri dell’Ue, lo spagnolo Joseph Borrell, che all’inizio dei lavori aveva ritenuto molto difficile superare le riserve espresse da vari Paesi. In particolare Austria, Italia e Ungheria volevano garanzie che la nuova operazione non finisse di fatto per favorire i flussi di migranti nel Mediterraneo centrale, generando il cosiddetto “pull factor”. Borrell ha comunque ricordato che per “la legge del mare, se le navi incontrano persone a rischio di annegare, naturalmente le devono salvare” perché altrimenti “sarebbe contro tutte le leggi internazionali”. Resta anche l’obiettivo di contrastare “il traffico di esseri umani”. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha considerato positivamente l’accordo raggiunto con i colleghi all’unanimità perché “significa che finalmente si ascolta l’Italia”. Non è stato deciso come ripartire tra i Paesi membri i migranti eventualmente salvati, rinviando a una prossima riunione. “L’embargo delle armi in Libia viene violato sistematicamente, il che rende difficile la tregua e il cessate il fuoco - ha detto Borrell. Questa operazione avrà l’obiettivo di far rispettare l’embargo e si utilizzeranno mezzi marittimi, satellitari e aerei. Le navi saranno la base del controllo radar”. Il raggio d’azione, a differenza di Sophia (che copriva tutta la costa libica), si concentrerà sulla parte Est. E “se ci sarà un pull factor (fattore di attrazione, ndr), si ritireranno le navi dalle zone interessate”. Turchia. Tutti assolti gli imputati per le rivolte di Gezi Park, ma Kavala resta in cella di Marco Ansaldo La Repubblica, 19 febbraio 2020 Assolti tutti gli imputati della rivolta di Gezi Park. Una corte di Istanbul ha deciso l’assoluzione da tutte le accuse dei 16 imputati al processo per le proteste del 2013. Assolto anche Osman Kavala, filantropo e attivista per i diritti umani, dopo 3 anni passati in cella. Ma nel giorno stesso della sentenza è stato emesso un nuovo mandato di cattura nei suoi confronti, questa volta per il tentativo di colpo di Stato del 2016. Il tribunale aveva ordinato nei mesi scorsi la prosecuzione della sua detenzione, nonostante lo scorso 10 dicembre la Corte europea dei diritti umani avesse dichiarato il provvedimento come illegittimo. Kavala era accusato di eversione dell’ordine democratico e rischiava l’ergastolo. Per il pubblico ministero avrebbe coordinato le proteste, esplose a Istanbul nel giugno 2013, allargatesi poi a tutto il Paese prima di essere represse dall’esercito nel sangue (10 morti e centinaia di feriti). Stessa sentenza per altri imputati. Tra questi l’ex direttore del quotidiano Cumhuriyet, Can Dundar, da anni residente in Germania. “Per noi è una vera fonte di gioia. Ringrazio tutti quelli che si sono schierati per difendere la storia, la cultura e la natura della nostra città”, ha affermato il nuovo sindaco di Istanbul, il laico e repubblicano Ekrem Imamoglu, oppositore del presidente Erdogan. Ungheria. Governo propone sospensione risarcimenti a detenuti che fanno causa allo Stato agenzianova.com, 19 febbraio 2020 Il governo ungherese sottoporrà all’Assemblea nazionale un disegno di legge che prevede la sospensione dei risarcimenti ai detenuti che fanno causa allo Stato per le cattive condizioni della loro detenzione. Lo ha reso noto il ministro della Giustizia, Judit Varga, ripresa dall’agenzia di stampa “Mti”. Varga spiega che la proposta serve a porre fine a “una prassi iniqua”. I risarcimenti saranno sospesi nell’attesa che la normativa venga emendata e il tema richiede un largo consenso dell’opinione pubblica, dice il ministro. Per questo motivo verrà fatta una grande consultazione nazionale. Finora si sono accumulate oltre 12 mila sentenze di condanna dello Stato ungherese, costretto a pagare circa 9 miliardi di fiorini (27 milioni di euro), di cui solo il 10 per cento è stato ad oggi effettivamente corrisposto. Le nuove norme serviranno a dare la priorità ai diritti delle vittime dei reati e a quelli delle loro famiglie, ha affermato Varga. Il ministro ha aggiunto anche che i risarcimenti dovranno essere pagati direttamente alla parte in giudizio, anziché al suo avvocato. Assicura inoltre che l’esecutivo è impegnato a migliorare le condizioni dei detenuti nelle carceri e ad arginare il loro sovraffollamento.