“Quando provammo ad abolire l’ergastolo e a modificare il 41bis” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 febbraio 2020 Intervista a Franco Corleone, che ha concluso il mandato da Garante della Toscana. “In Commissione giustizia il 28 luglio 1999 accettai un ordine del giorno proposto da Tiziana Parenti sulle modalità di applicazione del carcere duro”. Una militanza politica di lungo corso, quella di Franco Corleone che ha appena concluso il suo mandato da Garante regionale dei detenuti della regione Toscana. È stato senatore fin dall’87, poi dal 1996 è stato sottosegretario alla Giustizia per tutta la durata dei governi Prodi 1 e D’Alema. Una legislatura dove sono state partorite molte leggi a favore del sistema penitenziario e giudiziario. L’attenzione di Corleone, in particolare, è stata incentrata sui diritti dei detenuti e ha lottato per rendere le carceri più vicine possibili al dettato costituzionale. Non a caso, fin dagli anni 70, ha sostenuto con forza quelle formazioni politiche che lottavano per lo Stato di Diritto e non è un caso che si iscrisse al Partito Radicale. In Parlamento, a fine anni 80, si distinse per le sue denunce sulle torture che avvenivano nel carcere dell’Asinara e Pianosa, prima aperte per ospitare gli ex brigatisti, poi dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio per rinchiudere coloro che si sono macchiati dei delitti mafiosi. Nel 1996, quando da sottosegretario alla Giustizia promosse importanti leggi penitenziarie, era da poco finita l’emergenza mafia. Com’è stato possibile affrontare serenamente la delicata questione carceraria? “Premetto che i governi passati avevano una classe politica differente rispetto a quella odierna. Le faccio un esempio. Quattro giorni dopo l’uccisione di Aldo Moro, quindi in piena emergenza terrorismo, il Parlamento ebbe la forza di approvare la legge Basaglia. Oppure negli anni 80, sempre in piena emergenza terrorismo e anche rivolte carcerarie, passò la legge Gozzini che comportò importanti e innovative modifiche all’ordinamento penitenziario. Fu oggetto di un’ampia discussione nella società e nel carcere e alcuni emendamenti poi approvati nacquero proprio dal dialogo con i detenuti: come quello sull’aumento dei giorni di liberazione anticipata e sulla retroattività di tale misura. Uno dei pochi casi, se non l’unico, nella storia delle nostre prigioni in cui i reclusi hanno collaborato proficuamente con il legislatore, per il tramite dei pochi parlamentari che avevano costruito un rapporto costante di presenza e di fiducia con il mondo penitenziario. Non si riuscì però a portare a termine una riforma vera e propria, quella ideata soprattutto dal magistrato Alessandro Margara, tra i padri della riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975. Purtroppo lo sforzo non ebbe l’attenzione che meritava e si è dovuto aspettare il 2015, quando il ministro Andrea Orlando convocò gli Stati generali dell’esecuzione penale, per tornare allo spirito della riforma. I lavori dei Tavoli sono stati tradotti parzialmente in una legge delega. Poi completamente disattesa dal governo M5S-Lega”. Lei in quel periodo era componente della Commissione Giustizia... “Sì, dal 1987 al 1992. E fu in quel frangente che, oltre alla Gozzini, lavorammo per esaminare anche la legge sulla dissociazione dal terrorismo. In quel caso, però, un emendamento nato nelle cosiddette aree omogenee composte da appartenenti alle organizzazioni della lotta armata non ebbe successo. Si trattava della qualificazione del fenomeno come desistenza, una formulazione che avrebbe indotto maggiori adesioni e minori polemiche”. Quando invece era sottosegretario, quali leggi furono partorite? “Penso ad esempio alla legge “Simeone-Saraceni”, che ha reso più facile la concessione al condannato delle misure alternative alla detenzione in carcere, nella convinzione che la permanenza in carcere sia utile per certi tipi di condannati, inutile e forse dannosa per altri. Oppure alla legge Finocchiaro, quella relativa alle detenute madri in carcere che hanno figli piccoli. Ma anche per quanto riguarda il sistema giudiziario introducemmo delle novità. Penso alla riforma della difesa d’ufficio e al gratuito patrocinio, all’introduzione del “giusto processo” in Costituzione o alla possibilità che professori e avvocati, per meriti insigni, possano diventare consiglieri di Cassazione su designazione del Csm. C’è il rammarico di non essere riusciti ad abolire l’ergastolo, nonostante il voto positivo al Senato”. Siete riusciti a chiudere, con il ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick, anche il carcere di Pianosa... “Sì, questo grazie anche al ministro dell’ambiente Edoardo Ronchi per il recupero del patrimonio naturale dell’isola e ovviamente anche dopo le continue denunce da parte degli organismi internazionali come la Cedu”. Avete anche provato a modificare il 41bis, riportandolo nei ranghi costituzionali? “Ci provammo. In una seduta della Commissione Giustizia del 28 luglio 1999 accettai un ordine del giorno proposto dall’onorevole Tiziana Parenti che sollecitava una verifica delle modalità di applicazione del 41bis, tenendo anche conto di una circolare che ha rivisitato alcuni punti dell’applicazione in relazione alle sentenze della Corte costituzionale che sono state più volte richiamate. Non va trascurato il fatto che l’autore della circolare fosse per l’appunto Alessandro Margara, pochi mesi prima di essere dimissionato da capo dell’Amministrazione penitenziaria. In quella sede intervenne anche l’onorevole Luigi Saraceni, esponente storico di Magistratura Democratica, dimostrando la volontà di modificarlo. Ma non ci fu nulla da fare. Anzi, il governo successivo, quello di Berlusconi, nel 2002 fece diventare legge il 41bis e come se non bastasse, nel 2008, ci fu un emendamento bipartisan firmato da Anna Finocchiaro e Maurizio Gasparri per inasprire il regime duro. L’aggravio è stato impressionante”. Torniamo ad oggi. Nell’ultimo periodo, come garante regionale e anche da ex coordinatore dei garanti, ha evidenziato problemi urgenti sul carcere... “Nonostante il periodo cupo nel quale sembra che la classe attuale politica indietreggi rispetto alle conquiste ottenute, credo che bisognerebbe rilanciare un dialogo. Sono almeno tre le questioni. Una riguarda la rivisitazione del testo unico sulle droghe. Non è concepibile che le carceri siano strapiene di persone a causa dello spaccio o uso personale di piccole quantità di sostanze stupefacenti. Bisognerebbe avere il coraggio di modificare il testo unico, cominciando a tener fuori dalla penalizzazione la coltivazione (e ogni altra condotta) finalizzata al consumo personale, la cessione totalmente gratuita e la cessione finalizzata all’uso di gruppo”. Altro problema riguarda l’affettività in carcere... “Una questione affrontata durante i tavoli degli Stati generali e completamente disattesa. Sono contento che, grazie alla mia indicazione come Garante, la regione Toscana ha da poco approvato la proposta di legge al Parlamento sul diritto alla affettività e sessualità. Il terzo punto è il superamento del codice Rocco relativamente al doppio binario. Vede, l’ex ministro Orlando mi nominò commissario straordinario per il superamento dell’Opg. Con fatica ci siamo riusciti e la riforma sta funzionando. Ora bisogna abolire le misure di sicurezza per i soggetti imputabili, mentre per le misure psichiatriche suggerisco l’abolizione nell’ambito di una riforma complessiva del Codice penale, che elimini la non imputabilità e responsabilizzi anche i soggetti con patologia psichiatrica, dando nello stesso tempo gli strumenti e gli spazi per la cura”. E i soggetti psichiatrici reclusi in carcere? “Il carcere non dobbiamo dipingerlo come un manicomio e bisogna contemplare all’interno di esso una vera e propria area sanitaria dove i detenuti con patologie psichiatriche posso essere assistiti da personale specializzato. Delle piccole Rems all’intero di esso, per intenderci”. Però sembra che il governo pensi ad altro... “Sembra che tutto sia relativo a un problema di edilizia carceraria. Mentre in realtà dovremmo puntare alla chiusura delle carceri: c’è ne sono fin troppe. Come ha detto recentemente il Garante nazionale Mauro Palma, ci sono più di 20mila persone che scontano meno di tre anni. Poi più che di edilizia, bisognerebbe parlare di architettura. Non è ammissibile che esista lo stesso ambiente carcerario indistintamente per tutti. Penso ad esempio alle donne, recluse in una struttura pensata al maschile”. Sulla nuova fisionomia dell’ergastolo ostativo di Fabrizio Ventimiglia Il Sole 24 Ore, 18 febbraio 2020 Prime considerazioni ed alcuni spunti di riflessione a margine del convegno svoltosi presso il Centro Studi Borgogna di Milano. Mercoledì 5 febbraio ha avuto luogo, presso la sede dell’associazione Centro Studi Borgogna, l’incontro formativo intitolato “La nuova fisionomia dell’ergastolo ostativo: un dialogo tra Corti. Fine pena mai?”. Il convegno è stato aperto dall’Avvocato Fabrizio Ventimiglia, Presidente del Centro Studi, che ne ha moderato i lavori, ponendo sin da subito grande attenzione su quelle che saranno le prospettive applicative delle Sentenze nazionali e sovranazionali che hanno recentemente ridisegnato la disciplina dell’ergastolo ostativo. È stata quindi lasciata la parola alla Dott.ssa Adriana Blasco, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, che è partita proprio dall’analisi delle più recenti pronunce giurisprudenziali. Com’è noto, in data 13 giugno u.s. la Corte europea dei diritti dell’uomo si è infatti pronunciata in ordine al regime italiano dell’ergastolo ostativo nel caso Viola c. Italia n. 2, affermando che tale modalità di esecuzione della pena risulta contraria all’art 3 della Convenzione Europea per i Diritti Umani, che vieta i trattamenti e le punizioni inumane e degradanti. Nella richiamata Sentenza, i Giudici di Strasburgo hanno evidenziato come all’interno del nostro sistema “la mancanza di collaborazione è [sia] equiparata a una presunzione irrefutabile di pericolosità per la società” e come questo principio faccia sì che i tribunali nazionali non prendano in considerazione o rigettino le richieste di benefici dei condannati all’ergastolo ostativo. Ciò detto, la Corte ha osservato come privare un condannato di qualsiasi possibilità di riabilitazione e quindi della speranza di poter un giorno uscire dal carcere vìola il principio cardine della Cedu: il rispetto della dignità umana. Sulla stessa linea, in data 22 ottobre 2019, si è pronunciata la Corte Costituzionale nell’ambito della quaestio promossa dalla Sezione I penale della Corte di Cassazione unitamente ad una questione proposta dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia. In gioco vi era sempre la dubbia legittimità del c.d. ergastolo ostativo: pena detentiva perpetua ex art. 22 c.p., riducibile solo attraverso un’utile ed esigibile collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter ord. penit. in assenza della quale, precluso qualsiasi beneficio penitenziario e sterilizzati gli effetti possibili dell’unico beneficio accessibile, il condannato all’ergastolo per uno dei reati indicati dall’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. è destinato ad un “fine pena mai”. Commentando le sentenze in oggetto, la Dott.ssa Blasco ha espresso alcune perplessità, fondate su quella che è e deve essere la funzione, o meglio le funzioni della pena. Il Sostituto Procuratore, infatti, pur riconoscendo la risocializzazione del criminale quale obiettivo precipuo della pena, ha al contempo evidenziato come la stessa abbia anche un’importante funzione retributiva, dovendo offrire un sentimento di giustizia alla collettività e soprattutto alla vittima. Non può inoltre essere tralasciata la funzione di prevenzione generale, finalizzata a dissuadere altri potenziali criminali. Alla luce di tali osservazioni, chiosa la Dott.ssa Blasco, in alcuni passaggi delle sentenze citate non si pone la dovuta attenzione alla criticità della situazione italiana, dove le infiltrazioni mafiose sono così capillarmente estese su tutto il territorio da necessitare una forte e costante risposta dello Stato. Così facendo invece si va verso una polverizzazione dell’istituto della collaborazione; istituto che ha ricoperto e deve continuare a ricoprire un ruolo fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata. Prende poi la parola il Dott. Maisto, già Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna e Garante dei detenuti del comune di Milano, che apre il suo intervento con un interessante excursus storico sull’evoluzione dell’istituto dell’ergastolo nell’ordinamento penale italiano, focalizzandosi sull’introduzione della sua modalità “ostativa” negli anni dello stragismo mafioso. In merito alla sentenza n. 253 della Corte costituzionale, il Dott. Maisto valorizza le importanti aperture verso l’abolizione della presunzione assoluta di pericolosità del detenuto in caso di mancata collaborazione, pur sottolineando come la via designata dalla Corte sia “molto stretta”. Le regole probatorie previste dalla stessa Corte per l’accesso ai benefici sono infatti “rafforzate”: il regime probatorio deve estendersi all’acquisizione di elementi che escludano non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali. Incombe sullo stesso detenuto non solo l’onere di allegazione degli elementi a lui favorevoli, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno del proprio allontanamento dalla criminalità organizzata, ove l’informativa pervenuta dal Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica deponga in senso negativo alla concessione dei benefici carcerari. È necessario, conclude il Dott. Maisto, data l’ampiezza delle attività cognitive da svolgere, che vengano pertanto introdotte procedure rispettose del contraddittorio, consentendo innanzitutto l’accesso agli avvocati a tutti gli atti ostensibili, così da permettere loro un’efficace attività difensiva. A seguire, l’Avvocato Corrado Limentani, già Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Milano, si è soffermato sui possibili riflessi, dovuti al venir meno del divieto di concessione di permessi premio, sulla disciplina degli altri benefici, alla luce del principio di progressione trattamentale. La Corte Costituzionale sta infatti intervenendo sempre più spesso, su sollecitazione della Corte di Cassazione, sui numerosi automatismi previsti dall’Ordinamento, tesi ad impedire l’accesso ai benefici carcerari sulla base di presunzioni assolute. Ci si auspica, tuttavia, che vi siano presto degli interventi legislativi in questa direzione, senza lasciare sempre il peso di tali decisioni sulle spalle della Corte costituzionale. L’obiettivo deve essere infatti quello di rendere omogenea e costituzionalmente orientata l’esecuzione delle pene: anche le altre misure premiali dovranno essere dunque rese accessibili all’ergastolano condannato per uno dei reati ex art. 4-bis ord. penit. In caso contrario, si rischierebbe che la concessione di permessi premio senza possibilità di progressione si trasformi in un’occasione per tornare a delinquere più che di risocializzazione per il detenuto. L’incontro ha offerto quindi interessanti spunti di riflessione, dai differenti angoli visuali dei diversi operatori del diritto che hanno partecipato, inserendosi in un dibattito che verosimilmente sarà oggetto di grande fermento nel prossimo futuro. Si ritiene ad ogni modo necessario partire da un assunto fondamentale, che è poi il punto di incontro delle varie posizioni espresse, ossia rendere più efficace la lotta alla mafia, che ha compiuto oggi 27 anni e merita forse di essere rivista, anche alla luce dei nuovi “obiettivi” della criminalità organizzata. Affettività e carcere conciliabili di Samuele Ciambriello* La Città di Salerno, 18 febbraio 2020 Le parole “carcere” e “affettività” mostrano ad una prima analisi una apparente inconciliabilità. L’istituzione carceraria, difatti, priva i suoi ospiti delle relazioni confidenziali, della libera espressione dei sentimenti. A tale problema bisogna considerare l’attuale situazione delle carceri nel nostro Paese, caratterizzata da antiche criticità come sovraffollamento, carenze dell’edilizia carceraria, assenza di personale penitenziario. Tuttavia, la scienza criminologica contemporanea ha dimostrato come frequenti e intimi incontri con le persone con le quali vi è stabilito un legame affettivo abbiano un ruolo insostituibile nel complesso percorso di recupero del reo. A tal proposito, diversi paesi europei hanno già da tempo introdotto, nei propri ordinamenti, apposite disposizioni normative atte a garantire l’esercizio - in ambito carcerario - del diritto personalissimo a coltivare relazioni familiari, affettive, sessuali e amicali con persone libere, destinando allo scopo spazi appositi e locali idonei. In Italia mancano simili spazi e le proposte avanzate sono recepite con non poca resistenza, così, quando si è iniziato timidamente a parlare di “stanze dell’affettività” in carcere, le hanno subito battezzate “stanze del sesso”, “celle a luci rosse”. Da un punto di vista utilitaristico, però, il riconoscimento di un “diritto all’affettività” avrebbe senza dubbio un ritorno in termini di vivibilità e di gestione penitenziaria. Invero, sono due concetti distinti che non necessariamente si intersecano: vi può essere affettività senza componente sessuale (si pensi ad una relazione genitoriale o tra parenti il linea diretta o, ancora, ad una relazione amicale) e sessualità senza affettività, quale estrinsecazione della personalità e/o di un’autofilia (si pensi alla fruizione di materiale pornografico). Affettività e sessualità possono essere idealmente prefigurati come due insiemi, che si intersecano (con una zona relazionale comune), ma con parti parimenti distinte. Nel carcere, in questo luogo “senza tempo”, vanno declinate l’affettività e la sessualità. Comprendere, qualificare e gestire, queste due dimensioni è pregnante quanto delicato: la nostra Carta costituente, a chiare lettere, disegna un carcere la cui cifra tenda alla rieducazione e le cui pene non consistano in trattamenti disumani; la verità ordinamentale ha quale focus irrinunciabile il rapporto con la famiglia come elemento del trattamento e dimensione da valorizzare (ex plurimis artt. 15 e 28 O.p.), pur conciliandolo con le esigenze di ordine e di sicurezza peculiari di un ambito detentivo. Se la dimensione affettiva è normativamente tutelata dalla normativa penitenziaria, benché, talvolta, solo formalmente (vedasi esempio di molti detenuti stranieri e taluni italiani che non riescono concretamente a poter fruire dei colloqui con i parenti e affini), pressoché inesistente, da un punto di prospettiva normativo, è la dimensione sessuale; rebus sic stantibus, unico “strumento”, non pensato con tale vocazione ma, talora, funzionalizzato in tal senso è la concessione dei permessi premio ex art. 30 ter O.p., che, comunque, è astrattamente fruibile da un numero residuale di ristretti. In tale humus detentivo, come ha sostenuto il medico penitenziario Francesco Ceraudo, per molti anni Presidente nazionale dell’Amapi (Associazione medici dell’amministrazione penitenziaria italiana), la sessualità in carcere è, pressoché sospesa, congelata. Nei primi tempi della detenzione, la sessualità, appunto, è compressa da problematiche più contingenti; riemerge, in maniera prepotente, nei periodi successivi. Il sesso negato può diventare sesso esasperato o sesso “deviato”, come nei casi di “omosessualità indotta” in soggetti che, prima della detenzione, erano eterosessuali. Invece, significherebbe restituire ai detenuti un’opportunità, non solo sessuale, ma anche e soprattutto affettiva e di dignità: ciò servirebbe a garantire quei legami, quella solidarietà, a difendere quel bisogno che i detenuti hanno di abbracciare una moglie, una madre, un figlio. Ma poiché si tende sempre ad evitare o a marchiare in modo negativo le cose che danno fastidio o che comunque scandalizzano, così, quando si è iniziato timidamente a parlare di “stanze dell’affettività” in carcere, le hanno subito battezzate “stanze del sesso”, “celle a luci rosse”. Ciò che però ai detenuti manca è molto meno dal lato pratico: serve la possibilità di non recidere i legami, di non distruggere il proprio mondo relazionale ed affettivo, serve la speranza di non rimanere soli. Occorrerebbe farsi carico di un nuovo modello trattamentale fondato sul mantenimento delle relazioni affettive, la cui mancata coltivazione, è risaputo, rappresenta la principale causa del disagio individuale e grave motivo di rischio suicidario. Sono, dunque, enormi le difficoltà in cui ci si imbatte nel tentativo di portare la sessualità in carcere; probabilmente sarebbe più semplice e proficuo aumentare le possibilità di incontro tra i detenuti ed i loro familiari “al di fuori”, se veramente si vuole pensare al loro reinserimento ed alla loro riabilitazione. È fondamentale il ruolo della Magistratura di Sorveglianza, che è un giudice terso e non un altro pm. Apparirebbe quindi, auspicabile che al soggetto venisse concessa la possibilità di uscire più spesso dall’Istituto per consentirgli di perseguire, rafforzare, tutelare e sviluppare interessi personali, familiari, culturali e sociali. In merito alle considerazioni siffatte, appaiono assai proficue ai fini del rafforzamento delle reti di legami parentali e amicali, le attività educative promosse dall’Ufficio Garante per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale e gestite dalla cooperativa “La città della gioia” e realizzate nelle sezioni femminili di Fuorni, Bellizzi irpino e il carcere femminile di Pozzuoli. Aiutare le donne a ritrovarsi come mamme, fidanzate, mogli. In fondo l’anagramma di carcere è “cercare”. *Garante campano dei detenuti Liz, la vita dopo il carcere: “Ho evitato l’espulsione e oggi sono una persona nuova” di Liana Milella La Repubblica, 18 febbraio 2020 “Grazie a un giudice che mi ha ascoltata”. Parla la giovane dominicana citata da Marta Cartabia nell’intervista a Repubblica del 18 febbraio. A cambiare il destino della ragazza è stato il viaggio, nelle prigioni italiane, della Corte costituzionale. E il dialogo con uno dei suoi membri, Giuliano Amato. “Gli ho detto che non era giusto essere rimpatriata se avevo fatto il mio percorso e scontato la mia pena. Mi hanno dato una possibilità e sono rinata”. Una “storia meravigliosa”. Così la presidente della Consulta Marta Cartabia, nell’intervista a Repubblica di domenica 18 febbraio, ha definito il caso di Liz, raccontandolo con queste parole: “Una ragazza dominicana che si è lasciata invischiare nel traffico di stupefacenti. Dopo un percorso travagliatissimo, ormai maggiorenne, il suo tenace cammino di rinascita rischiava di essere interrotto dall’espulsione una volta uscita dal carcere. Ma anche grazie al viaggio della Corte nelle carceri e al film che ne è seguito, con l’intervento di molti, questa storia ha avuto un lieto fine, dando a Liz una concreta speranza di vita in Italia”. Siamo andati a cercare Liz, e questo nome è ovviamente di fantasia, che ci ha raccontato la sua storia. Eccola in questa intervista con Repubblica. Ciao Liz, quanti anni hai? “Ventiquattro”. Cosa fai ora? “Vivo in una comunità della Dedalus. Sto studiando. Seguo un tirocinio come cameriera. Vado alla scuola serale alberghiera, e sono al terzo anno, me ne manca ancora uno per prendere la maturità. Sono a un buon punto del mio percorso, sta andando tutto bene”. Tu sei completamente libera? “In ogni casa di accoglienza ci sono regole da rispettare, tra cui anche gli orari di rientro, ma questi valgono per tutti. Le regole ci sono perché non vivo a casa mia. Ma sono una libera cittadina, posso uscire quando voglio”. Il carcere di Nisida ormai lo senti alle spalle? “Sì, io ho scontato la mia pena ormai da un anno. Ho avuto la possibilità di arrivare qui grazie a Dedalus. Appena scarcerata sono entrata qui, sono stata accolta, e non mi stancherò mai di ringraziare chi mi ha aiutato. Ci sono tanti giovani che non hanno avuto e non hanno questa possibilità. Io non mi sono ritrovata per strada, senza casa e senza cibo. Dieci minuti dopo la mia scarcerazione, io ero già in questa comunità e mi sono anche venuti a prendere”. Perché eri finita a Nisida? Di cosa eri accusata? “Ho avuto un passato di m..., perché sono cresciuta molto in fretta e ho visto delle cose che non auguro a nessuno di vedere. Io sono nata in un ambiente criminale e ho dovuto imparare a spacciare la droga. Dovevo seguire la tradizione della mia famiglia. Ero a Nisida perché avevo addosso una condannata definitiva. Ero stata arrestata nel 2013 quando ero ancora minorenne. Poi mi avevano concesso di essere messa alla prova, ma sono scappata, e nel 2016 dovevo scontare ancora tre anni per spaccio di stupefacenti”. Quando sei arrivata in Italia? “Nel 2012, e avevo 16 anni”. La tua famiglia era già qui? “Sì, era già qui. Ma io di loro non voglio parlare. Questo è il mio passato”. Quando e perché ti hanno arrestata? “Nel 2013, per la droga, e mi hanno portato a Pontremoli”. Come ti sei sentita lì? “Non parlavo bene l’italiano (che invece adesso parla benissimo, ndr.), non lo capivo, mi sono trovata in grosse difficoltà. La prima volta in carcere è dura per tutti, ma per una ragazzina di 17 anni è durissima. Sono rimasta a Pontremoli quasi sei mesi. Gli assistenti sociali mi hanno aiutato e ho ottenuto la messa alla prova”. n cosa consisteva? “Sono andata in una comunità. Dovevo frequentare dei corsi. Però li ho interrotti perché ho cercato un contatto con la mia famiglia. Sono rimasta fuori due anni, ma poi ho ricevuto il mandato di cattura definitivo per altri tre anni. E si sono aperte le porte di Nisida”. Che cosa è successo lì? “È stato un periodo molto doloroso perché la prima volta che mi hanno arrestata non mi sono resa conto che cosa voleva dire perdere la libertà. Invece a Nisida mi sono sentita con le spalle al muro. È stata molto tosta. Ti senti improvvisamente nudo. Sai che devi pagare per quello che hai fatto, ma è stata molto tosta”. Eri in cella con altre ragazze? “Sì. E all’inizio è stato pesante, perché tu cerchi un attimo di solitudine, vuoi sentirti libera di sfogarti, di piangere, e invece non puoi farlo. Però piano piano ho legato molto con le altre compagne di cella. È stato un viaggio. Una scoperta. Ci facevamo forza l’una con l’altra. Io lì dentro mi sono ritrovata, ho scoperto il bello di me, ho capito di cosa potevo essere capace. Le chiamavo le mie compagne di avventura. Di sfortuna lo siamo certo, ma lì dentro è scattata tra di noi una forte solidarietà”. Com’era il rapporto con gli agenti? “Ho avuto i miei alti e i miei bassi, però sono una persona riflessiva, quando sento che sto per sbagliare riesco a controllare la mia arroganza e il mio carattere, infatti non ho mai avuto un rapporto negativo. Sono entrata che avevo vent’anni. Vedevo il carcere in un altro modo, poi mi sono presa la mia responsabilità. Appena è arrivato il mandato di cattura io mi sono presentata. Mi ero persa, ma volevo rialzarmi. Sapevo che in carcere avrei avuto una possibilità”. A Nisida hai cominciato a lavorare? “Sì, lavoravo, avevo anche un contratto di lavoro. Facevo scuola, teatro, canto, un corso di scrittura, facevo un sacco di cose. Perché Nisida aiuta a trovare una strada di reinserimento”. Quanto sei rimasta lì? “Quasi tre anni”. Poi, quel 4 ottobre del 2018, è arrivato il giudice della Consulta Giuliano Amato per il viaggio nelle carceri. E cosa è successo? “Lui è stato la mia salvezza. Lo ringrazio tantissimo. Lo faccio con sincerità, col cuore. È stata una persona che ha ascoltato. Non ha detto solo ‘ho capito’. Invece ha ascoltato. Grazie a lui ho avuto dei contatti che mi hanno permesso di conoscere la Dedalus, Roberto, Tania, e gli avvocati Enrica e Salvatore”. Quel giorno tu che cosa hai detto ad Amato? “Gli dissi la verità, gli spiegai la mia situazione, che non mi sembrava giusto essere rimpatriata se avevo scontato la mia pena, se avevo fatto un percorso, gli dissi che avevo paura di tornare nel mio paese”. Nel film sul viaggio in Italia ti si sente dire ad Amato, “Non mi sembra giusto che uno straniero, che ha fatto un percorso in carcere e vuole integrarsi nella società, venga espulso. Lei che ne pensa?”. Ma tu perché dovevi essere rimpatriata? “Stava scritto nel mio fine pena, io non avevo documenti”. E poi invece che cosa è successo? “Lui mi ha ascoltata, e poco tempo dopo sono arrivati gli avvocati della Dedalus. Ho avuto la possibilità di usufruire di una norma, l’articolo 18 comma 6 del testo unico sull’immigrazione (la Bossi Fini per intenderci, ndr.), che prevede la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno per un minorenne che abbia commesso un reato, ma abbia dimostrato di essere in grado di reinserirsi nella società attraverso un programma da svolgere in un ente accreditato. Questo mi ha consentito di restare in Italia, non senza difficoltà”. Ti senti una persona fortunata? “Certo che lo sono, ma sono anche una persona migliore rispetto a com’ero. È terribile scendere fino in fondo, ma poi è bellissimo risalire la china e diventare un’altra. Ho persone che mi hanno aiutato. Ne ho accanto altre che tuttora possono aiutarmi. È bellissimo ascoltare persone che sanno e capiscono più di te. È come se io fossi nata di nuovo”. Tutto questo è stato possibile grazie a una coincidenza, la visita di Amato a Nisida, quella domanda di Liz allo stesso Amato, l’aiuto dell’associazione Antigone e di Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, di Cild, la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili, di Dedalus che opera a Napoli e in Campania. Ma quanti ragazzi che pure hanno fatto il “percorso” di Liz vengono rimpatriati? È questa la domanda che dobbiamo porci dopo aver letto questa intervista. “Sognalib(e)ro”, il premio letterario che coinvolge 15 carceri italiane comune.modena.it, 18 febbraio 2020 Come funziona il premio in due sezioni per i laboratori di lettura e scrittura dei detenuti. La finalità esplicita di “Sognalib(e)ro è promuovere lettura e scrittura nelle carceri come strumento di riabilitazione, dando espressione compiuta all’articolo 27 della Costituzione della Repubblica Italiana: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Di particolare rilievo umano, culturale e sociale, il progetto consiste in un concorso letterario che prevede l’assegnazione di due premi, uno a un’opera letteraria valutata e votata dai detenuti, l’altro a un elaborato prodotto dai detenuti stessi, che potrà, essere pubblicato da Giunti editore. Per la seconda edizione di Sognalib(e)ro sono stati individuati dal ministero della Giustizia 15 istituti, dove sono attivi laboratori di lettura o di scrittura creativi: la Casa Circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, quella di Modena, la Casa di Reclusione di Milano Opera, quelle di Pisa, Brindisi, Verona, Saluzzo, Pescara, Firenze Sollicciano, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna; quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. Il Premio Sognalib(e)ro si articola in due sezioni. Nella Sezione Narrativa italiana (che comprende anche il Premio Bper Banca), una giuria popolare composta dagli aderenti ai gruppi di lettura degli Istituti attribuisce il premio valutando il migliore di una rosa di tre romanzi. La Giuria è composta da gruppi di detenuti in ogni istituto. Ogni componente doveva esprimere la preferenza attribuendo 3 punti al libro migliore, 2 al secondo e 1 al terzo. Ogni gruppo è seguito da un operatore, che raccolti i voti della giuria (sono stati complessivamente oltre 100 i lettori votanti) li trasmette. Tutti i voti trasmessi riferiti alla medesima opera, sommati, determinano il vincitore. Il premio consiste nell’invio di titoli scelti dall’autore a tutti gli Istituti partecipanti, accrescendo il loro patrimonio librario. Lo scrittore vincitore, inoltre, potrà presentare il proprio libro nelle carceri partecipanti. Nella sezione Inediti, invece, una giuria di esperti presieduta da Bruno Ventavoli attribuisce il premio a un’opera inedita (romanzo, racconto, poesia) prodotta da detenuti o detenute sul tema “Ho fatto un sogno”. La giuria sceglie a maggioranza il miglior testo (tra i 62 presentati da 60 autori detenuti) esprimendo la valutazione con un giudizio sintetico. Il premio consiste nella donazione di libri alla biblioteca del carcere dove è recluso il vincitore, da parte della editrice Giunti. Qualora i testi vincitori possiedano le caratteristiche necessarie, saranno pubblicati dalla medesima casa editrice in un’antologia tematica. Il Comune di Modena si riserva ulteriori iniziative di divulgazione dei testi in concorso, come ad esempio pubblicarli con la casa editrice civica digitale il “Dondolo”, diretta da Beppe Cottafavi. La partecipazione al Premio è stata aperta ai cittadini italiani e stranieri, comunitari ed extracomunitari, senza limiti di età, attualmente detenuti negli istituti penitenziari individuati dal Ministero della Giustizia. A ogni detenuto è stato consentito partecipare a una o a entrambe le sezioni. Cartabia prende a schiaffi i giustizialisti, ma verrà zittita da Travaglio e Co. di Piero Sansonetti Il Dubbio, 18 febbraio 2020 L’intervista rilasciata a Repubblica, domenica, da Marta Cartabia, che è la presidente della Corte costituzionale - e cioè la principale custode della nostra democrazia - rappresenta uno dei momenti più alti del dibattito pubblico, in Italia, sul tema della giustizia. Ha un gigantesco valore politico e un valore morale e culturale ancora più grande. Per la prima volta, da molti anni, dai vertici del nostro Stato si spezza una lancia contro il giustizialismo e il legalitarismo esasperato e a favore dei deboli, degli ultimi, e - soprattutto - dei grandi principi liberali e umanitari sui quali si tiene in piedi, o si dovrebbe tenere in piedi, lo stato di diritto. A me, qui, interessa sottolineare alcuni passaggi, anche permettendomi di forzare un tantino le parole necessariamente diplomatiche, ma molto forti, della professoressa Cartabia. La presidente della Corte ha rilasciato questa intervista a un giornale che certamente non ha mai brillato per il suo garantismo. Da quando è nato - dai tempi della lotta armata e poi di Tangentopoli - ha sempre marciato nelle prime file del giornalismo militante amico delle Procure. In modo forte, impegnato e coerente. Assai più - probabilmente - di giornali più recenti e più arruffoni, come Il Fatto Quotidiano o La Verità. E anche la giornalista che l’ha interrogata, Liana Milella, è una professionista, certamente molto preparata e di gran valore e altrettanto certamente mai sfiorata dal sospetto di essere una garantista. Credo che la presidente della Consulta abbia scelto bene, perché la sua intervista e le parole che ha pronunciato acquistano un valore ancora più grande e più netto. E mi pare che vada anche reso atto a Repubblica di avere compiuto una operazione giornalistica di valore, rafforzata, ieri, da una intervista al vicepresidente del Csm, Davide Ermini, che - seppure con molta prudenza - si è sistemato su posizioni vicine a quelle espresse da Marta Cartabia. Sono quattro le cose che più mi hanno colpito nell’intervista della Presidente. La prima è la nettezza con la quale prende di petto le contestazioni alla sentenza della Corte che nega la retroattività della cosiddetta spazza-corrotti. Spiegando a polemisti vari, e agli esponenti più scamiciati del partito dei Pm, che quello della non retroattività è un principio antichissimo e inviolabile del diritto. Lo fa con assoluta tranquillità, e senza intenti polemici. Ma il suo ragionamento è una frustata in faccia a quelli che hanno scritto e blaterato, probabilmente perché privi delle conoscenze più elementari del diritto. La seconda è il coraggio con il quale la professoressa Cartabia si rivolta contro il senso comune e spiega che la certezza della pena non solo non è un valore, ma è un segno di inciviltà. Una società è tanto più moderna e civile, sul piano del diritto, quanto più la pena è flessibile e adeguata alle esigenze essenziali della giustizia, e non alla richiesta di vendetta o ritorsione. La terza è la semplicità con la quale - di nuovo in urto aperto con il senso comune dominante - ci presenta i detenuti non come gaglioffi ma come deboli, poveri, ultimi, da proteggere, da difendere, da rassicurare sui propri diritti. La quarta cosa, grandiosa, del discorso della Cartabia è la contestazione in radice del carcere. Lo so che sto forzando, ma dalle sue parole si trova un incoraggiamento a chi pensa che l’idea stessa del carcere, nel 2020, vada messa in discussione. Cartabia spiega che l’articolo 27 della Costituzione non parla di carcere ma di pena. E che la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Sarà una bestemmia, dirlo, ma io lo dico: siamo sicuri che privare una persona della libertà, tenerla per cinque anni, o dieci, o venti, dentro una cella di tre metri, impedirgli di vedere i figli, o la mamma, o di avere una vita sessuale, di lavorare, di esprimersi liberamente, siamo sicuri che tutto questo non sia un trattamento inumano? Non so se la Cartabia condivida questo mio dubbio. Non mi pare discutibile, però, che con quelle sue affermazioni abbia pesantemente messo in discussione il regime del 41bis. Sul fatto che il 41bis sia un trattamento inumano, e che non tenda alla rieducazione e che perciò sia in contrasto clamoroso con l’articolo 27 della Costituzione non mi sembra che ci sia discussione. E la professoressa Cartabia, con il suo modo diplomatico e gentile di parlare, ce lo ha fatto notare. Dette queste cose - e tralasciati gli apprezzamenti per altre parti, altrettanto importanti dell’intervista - pongo un’altra questione. Se la presidente della Corte costituzionale - ripeto: la massima custode dei principi e del funzionamento della nostra democrazia - mette in discussione in modo così “frontale” tutta la politica giudiziaria - giustizialista - di questo governo e del governo precedente, possibile che né il governo stesso, né i partiti, e neppure i giornali se ne accorgano? O se ne sono accorti e fingono di non avere ascoltato? E il nostro giornalismo, che lascia l’anima se vede la possibilità di avere una dichiarazione di un sottosegretario, persino se cinquestellato, non ha nessun interesse per i discorsi della presidente della Corte costituzionale? Il nostro giornalismo conosce l’esistenza della Corte costituzionale? E il suo ruolo? E il suo peso? Temo di no. Il mio editore - ve lo confesso - mi rimprovera sempre perché dice che sono pessimista. Mi dice: vedi che esiste una cultura alta e garantista che vive ai vertici di alcune nostre istituzioni? E sorride. (Mi ha detto così anche in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario). Io non gli do retta: temo che anche questa scudisciata della Cartabia andrà a vuoto. La Cartabia verrà messa al silenzio, e continueranno a vociare quelli tipo Travaglio. Toghe progressiste e toghe conservatrici unite contro la riforma Bonafede di Giulia Merlo Il Dubbio, 18 febbraio 2020 Area e Magistratura Indipendente si scontrano sull’Anm ma si ritrovano alleate nella critica alla nuova giustizia penale. Magistrati contro la riforma del processo penale, ma anche gli uni contro gli altri. Ad aprire il fuoco contro il testo licenziato dal Consiglio dei Ministri, è per prima Magistratura Indipendente. Senza mezzi termini, esprime “profondo dissenso” su una riforma che, “pur recependo alcune delle proposte da sempre avanzate da Magistratura Indipendente, come la modifica delle norme in tema di notifiche, la digitalizzazione del processo, l’ampliamento delle possibilità di ricorso ai riti alternativi, interviene soprattutto sulla durata dei processi, sui tempi delle indagini e sulle sanzioni disciplinari dei magistrati”. Queste ultime misure, secondo Mi, “che potranno avere un impatto devastante sulla magistratura” perché “Imporre termini rigidi per la durata delle indagini preliminari e per la durata del processo, prevedendo sanzioni disciplinari a carico dei magistrati in caso di loro mancato rispetto, così come riversare sul dirigente dell’ufficio scelte organizzative che competono alla politica, al fine di assicurare una celere durata dei processi, sono misure che non realizzano alcun nuovo assetto della situazione attuale e dimostrano, ancora una volta, la mancanza di conoscenza dei reali problemi che affliggono il mondo della giustizia e l’incapacità della politica di farsene carico”. Insomma, accusa Mi, la riforma del processo penale “ha solo l’etichetta dell’efficienza, proclamata in modo propagandistico dall’attuale governo”. Critiche precise ed evidentemente indirizzate al Guardasigilli Alfonso Bonafede e a tutto il governo, quelle di Magistratura indipendente. La corrente delle toghe, tuttavia, attacca frontalmente anche la giunta dell’Associazione nazionale magistrati, attualmente composta da rappresentanti di Area, Unicost e Autonomia e indipendenza. “Sorprende quanto tiepida e del tutto inconsistente sia stata, in questo iter, l’azione di contrasto dell’attuale giunta dell’Anm”, scrivono i togati, chiedendosi, in questi mesi, dove fosse la giunta e come abbia interloquito con la politica: “È evidente che le interlocuzioni che ci sono state si sono rivelate del tutto insufficienti”, hanno concluso, stigmatizzando la tardività del “comunicato formalmente indignato dell’Anm”, che - oltre tutto - contrasta “adeguatamente il complessivo impianto della riforma”. A ben vedere, lo scontro più forte è proprio tra magistrati eletti, con Mi che denuncia “l’inesistenza di una efficace azione di contrasto dell’Anm” e “una incapacità politica della giunta nella difesa delle prerogative della magistratura tutta e, con essa, del servizio giustizia”. Le bordate di Mi accendono un duro scontro con i magistrati progressisti di Area, nella maggioranza della giunta (il presidente Luca Poniz è iscritto ad Area) che hanno replicato senza mezzi termini: “Le operazioni comunicative di Mi, il cui contributo in Anm è da mesi assente, hanno una esclusiva vocazione elettoralistica, che tenta di obliare le pesanti responsabilità del gruppo nei recenti episodi, che hanno appannato la credibilità dell’intera magistratura e dato pretesto alle riforme che ora tutti rischiamo di subire”. In particolare, nel suo comunicato Area sottolinea come “In questi mesi l’Anm ha avvertito contro l’inutilità, da un lato, e la strumentalità, dall’altro, delle misure varate dal Cdm giovedì scorso ed ha fatto sentire la ferma critica contro questa operazione di trasferimento indebito di responsabilità che gravano solo sulla politica”, rigettando dunque al mittente le critiche di Mi. I due estremi, tuttavia, si toccano: nel merito della riforma del processo penale, infatti, Area che Mi sono su posizioni convergenti. Area, infatti, sottolinea come “Questa riforma, lungi dal garantire tempi certi del processo, assicura solo che i magistrati siano investiti da una valanga di procedimenti disciplinari per non aver realizzato l’impossibile”, inoltre “Il sistema penale e processuale, la mancanza di risorse umane e materiali, il degrado degli ambienti nei quali esercitiamo giustizia chiamano alle loro responsabilità generazioni di ministri e di governi, che non hanno però avuto l’impudenza di indicare nella magistratura la responsabile di questo sfascio come oggi, con questa riforma, viene fatto”. Differenti sono solo le conclusioni: quella di Mi appunto contro la Giunta, quella di Area, invece, di “pieno sostegno all’Anm, che ha già in cantiere apposito Cdc convocato il 7 marzo, in questo momento di grande difficoltà”. Riforma del processo penale, il Governo del non fare di Vincenzo Vitale L’Opinione, 18 febbraio 2020 Il Consiglio dei Ministri, pochi giorni fa, ha approvato la riforma del processo penale, quella che, nelle intenzioni, dovrebbe fare da contraltare all’azzeramento della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, velocizzandolo in modo rilevante. Vediamone gli aspetti principali, che sono quattro, distinguendo di volta in volta cosa disastrosamente vuol fare il Governo e cosa invece dovrebbe fare per risolvere la situazione, ma non farà. 1) Il Governo vuole imporre una durata non superiore a quattro anni - o cinque per i reati più gravi - dei processi, modulando in modo più articolato la durata delle indagini e sanzionando i giudici se essi dovessero superare quel termine. Il Governo sposa qui la stessa logica - folle ed antigiuridica - del celebre “letto di Procuste”, brigante di cui narra la mitologia greca - forse ignoto a Di Maio - che usava torturare i malcapitati di passaggio con un metodo sicuro e molto spiccio: li deponeva su di un letto molto lungo se di bassa statura e su di uno molto corto se di alta statura, stirando atrocemente le membra dei primi e segando gli arti dei secondi, allo scopo di farli aderire esattamente alla lunghezza del letto prescelto. Il sapere mitologico stigmatizzava in questo modo l’apparire di uno stolido pensiero unico che, incapace di risolvere dall’interno i problemi reali, preferisce violentarli dall’esterno, a costo di fare più danni di quanti ne riesca a rimediare. Così Procuste. Così il Governo col processo penale. Immaginatevi poi il giudice al quale il difensore chieda di ascoltare un teste determinante per la difesa, ma ormai sulla soglia dei cinque anni: ovviamente si guarderà bene dall’ammetterlo, per salvarsi da una sanzione disciplinare, con tanti saluti alla giustizia delle sentenze, della quale, è ormai evidente, al Governo non importa assolutamente nulla. Qui, cosa dovrebbe fare il Governo, ma non farà? Dovrebbe solo depenalizzare massicciamente una mole impressionante di reati che ingolfano inutilmente i Tribunali (si pensi ai reati d’opinione come la diffamazione), sgravandoli di oltre il 30 per cento del lavoro e consentendo loro di occuparsi delle cose davvero serie. Non si farà. 2) Il Governo ha sposato il doppio binario per la prescrizione, la quale se dopo il primo grado di giudizio l’imputato è assolto continuerà a decorrere, se invece è condannato si bloccherà. Si tratta di una previsione chiaramente incostituzionale, perché dimentica che ogni imputato, secondo la Costituzione, è innocente fino alla sentenza definitiva e che perciò non si può impunemente introdurre una disciplina di favore a vantaggio di uno e a svantaggio di altro, così creando una indebita ed illegittima sperequazione. Ma questa cosa così semplice per i pentastellati è come parlare turco e comunque urta contro il loro endemico furore giacobino, incurabile finché non si tocchi uno di loro in prima persona: allora cambierà tutto. Aspettiamo. Qui, cosa dovrebbe fare il Governo, ma non farà? Dovrebbe tornare a disciplinare la prescrizione senza isterismi e furori ideologici, comprendendo di cosa si tratti e prevedendo una prescrizione diversificata a seconda della gravità del reato contestato. Non si farà. 3) Il Governo intende incentivare il ricorso al patteggiamento, estendendone la possibilità anche per i reati puniti fino ad otto anni di reclusione e dichiarandosi sorpreso per lo scarso ricorso ai riti alternativi finora sperimentato. Il Governo ignora che se i riti alternativi son poco frequentati è perché il patteggiamento è e rimane comunque fortemente punitivo, non rappresentando per nulla quella “via di fuga” che si sperava potesse diventare rispetto al processo penale: basti pensare che chi abbia patteggiato deve comunque pagare le spese processuali (ma perché, se non si tratta di condanna, ma di un accordo?) e va incontro ad impedimenti di notevole portata: per esempio, non potrà svolgere le funzioni di amministratore di società per cinque anni. E allora perché - di grazia - un amministratore di società dovrebbe patteggiare, sapendo che questo accordo gli impedirà per lungo tempo di lavorare? Preferisce il processo normale, sperando di essere assolto. Mi pare ovvio. Ma non per il Governo. Qui, cosa dovrebbe fare il Governo, ma non farà? Dovrebbe rendere il patteggiamento davvero appetibile, escludendo il pagamento delle spese processuali e soprattutto ogni effetto penalizzante su chi voglia patteggiare. Non si farà. 4) Il Governo intende abolire la obbligatorietà dell’azione penale, dando facoltà al Procuratore della Repubblica di concordare con il Procuratore Generale e con il Presidente del Tribunale quali reati perseguire a preferenza di altri, tenendo conto delle risorse umane, tecnologiche e finanziarie dell’ufficio e della realtà territoriale e criminale su cui esso opera. Peccato che la obbligatorietà dell’azione penale sia prevista dall’articolo 112 della Costituzione che recita: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. La previsione del Governo è perciò chiaramente incostituzionale e stupisce che Giuseppe Conte - docente ed avvocato - non lo percepisca subito. Qui, cosa dovrebbe fare il Governo, ma non farà? Dovrebbe riformare la Costituzione attraverso l’apposito procedimento, dicendo a tutti che intende abolire la obbligatorietà dell’azione penale, invece di farlo di nascosto, quasi sperando che nessuno se ne accorga. E poi studiare un congegno di collegamento fra Procure e Governo sulla selezione dei reati da perseguire, che sia pubblico e trasparente e sottratto perciò al chiuso delle stanze degli uffici di Procure e Tribunali alle quali si vorrebbe invece totalmente delegare la scelta. Non si farà. Intercettazioni, decreto al Senato con la trappola di Forza Italia sulla prescrizione di Errico Novi Il Dubbio, 18 febbraio 2020 Oggi il testo in aula, riecco l’emendamento anti-Bonafede. Sulla modifica che sopprimerebbe la norma cara ai Cinque Stelle Renzi e i suoi pronti al sì, salvo votare l’inevitabile fiducia e il maxiemendamento. C’era un vascello concepito per navigare in acque tranquille, nel mare delle riforme sulla giustizia: era il decreto intercettazioni. Che pare però destinato a ben altro destino. Lo si scoprirà a partire dalle 16 di oggi, quando il provvedimento che vanta il record di rinvii (della sua entrata in vigore) approderà nell’aula del Senato. Il testo sarebbe persino (e inopinatamente, viste le botte su trojan e avvocati spiati) immune da contestazioni all’interno della maggioranza. Se non fosse che Forza Italia, sempre in agguato, ripropone tutti gli emendamenti presentati già in commissione Giustizia. Compresa la madre di tutte le mine anti- governo: la modifica che sopprimerebbe la prescrizione di Bonafede, non passata al primo round solo per il rotto della cuffia. Il copione sembra scritto: ieri nella sua “Enews” Matteo Renzi ha detto che la riforma della giustizia “si deve cambiare in Parlamento”, ma anche che “nessuno di noi ha detto che vogliamo sfiduciare Conte”. Tradotto: i senatori di Italia Viva, lui compreso, voterebbero sì all’emendamento- trappola dei berlusconiani. Salvo votare sì anche sulla fiducia con cui il governo al 99 per cento blinderà l’intero testo sotto forma di maxiemendamento. La fucilata renziana insomma non abbatterà il quadro politico. Ma dire solo per questo che l’alleanza giallorossa vivrà ore placide, sarebbe ipocrita. In ogni caso il passaggio a Palazzo Madama non dovrebbe alterare il quadro delle nuove intercettazioni, destinate a entrare in vigore dal 1° marzo. La Camera dovrà fare una corsa sfrenata per convertire il provvedimento entro la settimana prossima. Negli stessi giorni in cui, oltretutto, precipiterà di nuovo in Aula il meteorite chiamato legge Costa, ossia il provvedimento che ha invece la soppressione della norma Bonafede quale propria unica ragione (e contenuto). Il punto è che il decreto intercettazioni non è una carezza, per il sistema delle garanzie. In particolare perché estende ancora l’utilizzabilità dei trojan, già sdoganata, dalla legge “ spazza corrotti”, in materia di reati contro la pubblica amministrazione. L’ulteriore passo avanti (verso la pervasività) riguarda l’uso del virus spia anche quando l’indagato è un “incaricato di pubblico servizio”, mentre finora lo si poteva installare solo sul telefonino del “pubblico ufficiale”. Un colpo non da poco, considerato che inoltre, per tutte le categorie- bersaglio del terribile trojan, non sarà necessario indicare “il luogo e il tempo in relazione ai quali è consentita l’attivazione del microfono”. Una modifica che, durante le audizioni in commissione Giustizia, l’avvocatura ha indicato come pericolosa e, in particolare attraverso la consigliera Cnf Giovanna Ollà, ha chiesto di vincolare tassativamente alla “presenza di un consistente numero di gravi indizi”, oltre che a un divieto, in radice, di approfittarne “per la ricerca a strascico di reati diversi rispetto a quelli per cui si procede”. Niente da fare, almeno per ora. Sorprende dunque che su un simile aspetto neppure Italia Viva abbia assunto una posizione netta. Anche se va riconosciuto che è proprio grazie a un senatore renziano, Giuseppe Cucca, se nel vertice sulle intercettazioni di fine dicembre sono state scongiurate, in materia, previsioni ancora più sbarazzine. Resta invece del tutto fuori dal contenzioso politico il dilemna che riguarda le intercettazioni del difensore: il divieto di trascrizione introdotto dal decreto Orlando non è stato integrato, dal nuovo provvedimento, con un vero e proprio divieto di intercettazione. Cosicché, come ha fatto notare il Cnf ai senatori, persisterà il rischio che qualche pm non proprio correttissimo approfitti della pur casuale captazione di comunicazioni fra avvocato e assistito per scoprire indebitamente la strategia difensiva. “Andrebbe previsto anche un immediato obbligo di distruzione di tali conversazioni, quando fossero comunque acquisite”, ha ricordato la consigliera Ollà alla commissione Giustizia. Rispetto ai contenuti del decreto, la parte più delicata - e ridefinita dal decreto di fine dicembre - è inevitabilmente quella sulle misure introdotte a tutela della privacy. Il decreto Orlando era stato concepito proprio per innalzare un argine alla “sputtanopoli” delle intercettazioni irrilevanti finite chissà come ai giornali. Il controllo su tale incivile abuso torna nelle mani del pm, mentre il testo di fine 2017 lo aveva consegnato in gran parte alla polizia giudiziaria. “Il pm dà indicazioni e vigila”, si legge, all’articolo 268 del codice di rito, nel nuovo comma 2- bis, “affinché nei verbali non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone”. Di tutte le persone, dunque, indagate o meno che siano. I verbali potranno però contenere elementi che compromettono l’immagine degli intercettati qualora le captazioni siano “rilevanti ai fini delle indagini”. La previsione si accompagna al reintegro delle procedure, modificate dal decreto Orlando, che consentono al difensore di acquisire i verbali e i file, ora accessibili anche per via telematica o quanto meno con un ascolto diretto dall’archivio riservato della Procura. In ogni caso il filtro rispetto a “sputtanopoli” dovrebbe essere salvaguardato dalla norma che impone a pm e gip di citare nei loro atti solo i “brani essenziali” delle intercettazioni (è il comma 1ter, introdotto dal decreto del 2017, dell’articolo 291 del codice di rito). Una sobrietà rafforzata dalla norma, ora inserita, che cancella la previsione di allegare agli atti i verbali delle captazioni. Far arrivare le “bobine” ai giornali sarà un po’ meno facile e, grazie alla tracciabilità degli accessi all’archivio, dovrebbe anche esporre al rischio, per la talpa, di essere scoperti. Mafia, il Viminale: rinforzi al Veneto di Martina Zambon Corriere Veneto, 18 febbraio 2020 Inchieste, processi e organici all’osso. Il ministro Lamorgese: più risorse e forze dell’ordine. La nascita del Centro di documentazione e d’inchiesta sulla criminalità organizzata a Dolo, in Riviera del Brenta, culla della “quarta mafia d’Italia” è l’occasione per il procuratore Cherchi e il prefetto di Venezia Zappalorto per lanciare l’ennesimo allarme sugli organici di forze dell’ordine e magistratura impegnate con i processi monstre alla mafia veneta. E il ministro Lamorgese: “115 nuovi uomini alle forze dell’ordine e altri per i tribunali”. “A Roma non si sono accorti che il Veneto non è più quello degli anni Sessanta dove si andava a dormire con la porta di casa aperta” e, ancora, “Il Veneto è stato abbandonato dalle istituzioni”. Parole sferzanti, amare dal procuratore capo di Venezia, Bruno Cherchi a proposito di mafia a Nordest e di un esercito, quello dei tribunali, che difende la linea Maginot della legalità senza uomini. Lo sfondo è quello di un Comune in mano ai Casalesi, Eraclea, a un passo dallo scioglimento per associazione mafiosa ma anche della fungaia di infiltrazioni della ‘ndrangheta da Verona a Padova senza risparmiare nessuna provincia veneta. L’assist a Cherchi, durante la presentazione del nuovo Centro di documentazione e d’inchiesta sulla criminalità organizzata a Dolo, in Riviera del Brenta, era stato, poco prima, un intervento altrettanto denso e per certi versi irrituale del prefetto di Venezia, Vittorio Zappalorto. “Se qualcuno mi avesse detto anni fa che nel cuore del Nordest ci saremmo trovati a parlare di criminalità organizzata l’avrei preso per pazzo - esordisce Zappalorto - e invece eccoci qui. I veneti li conosciamo, imprenditori, gente onesta che pensa solo a lavorare e magari va in giro con la macchina scassata per non dare troppo nell’occhio. Cos’è successo? Forse abbiamo continuato a pensare al Veneto come a un’isola felice coltivando per anni l’illusione della estraneità di questi territori ai fenomeni che già si manifestavano in Lombardia, Liguria, Emilia Romagna. Ma noi non siamo stati in grado di vedere o non abbiamo voluto vedere? Un’analisi sociologica degli ultimi 20 anni su cos’è successo alla nostra società, alla nostra economia, alle famiglie venete, servirà a spiegare l’infiltrazione della camorra e della ‘ndrangheta nel nostro territorio”. Zappalorto seduto accanto al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese che si dichiara “prefetto nell’anima” coglie l’occasione e scandisce: “Negli ultimi due anni abbiamo chiuso indagini complesse che hanno dato avvio a procedimenti penali imponenti per qualità e quantità di imputati. Il tutto a “invarianza di spesa”. Per portare a termine queste indagini, per raccogliere e catalogare prove e confezionare una mole ingente di atti prima dei processi non c’è stata alla procura di Venezia alcuna immissione di cancellieri, collaboratori tecnologici, magistrati o forze dell’ordine in più eppure i processi sono in corso. Ma con un organico della magistratura che è metà del necessario. Mi chiedo cosa potremmo fare contro la criminalità organizzata ma anche comune con risorse adeguate”. Se Zappalorto non le manda a dire, Cherchi, che rileva come i temi sul tavolo siano molteplici, dai legami con i territori d’origine dei mafiosi veneti alla scarsa partecipazione popolare a fronte ad esempio del caso Eraclea, affonda il colpo: “Il Veneto è rimasto abbandonato dalle istituzioni statali per la gestione dei magistrati. Abbiamo numeri simili a Milano e Bologna ma con organici inferiori che non sono stati adeguati. A Roma non si sono accorti che il Veneto non è più quello degli anni Sessanta dove si viveva con le porte aperte di notte. Prima ancora che di magistrati abbiamo bisogno di personale amministrativo con il risultato che ci sono inchieste bloccate. Il tribunale ha dovuto ricorrere all’applicazione di colleghi per poter fare i processi per mafia. E serve l’attivazione non solo del governo nazionale ma anche di quello regionale. Intanto, nell’ultimo anno, sono stati 150 i provvedimenti restrittivi messi in essere”. Il ministro dell’ Interno non si sottrae all’appello pubblico di prefetto e procuratore: “Ci vengono chiesti più uomini e più mezzi. Il provvedimento sulla giustizia penale approvato giovedì scorso ha visto il ministro Alfonso Bonafede parlare di aumenti di organici e certamente se la situazione in Veneto è così grave se ne terrà conto nell’assegnazione di nuovo personale”. E Lamorgese annuncia anche l’arrivo dei rinforzi sul fronte delle forze dell’ordine: 115 fra carabinieri, poliziotti e finanzieri in regione il prossimo anno. L’altro grande tema è, poi, la relazione di Zappalorto in cui si chiede lo scioglimento per mafia del Comune di Eraclea. “Lì abbiamo un termine che è il 18 marzo, - spiega il ministro - mi prenderò il tempo necessario, ho già letto la relazione, adesso è all’esame degli uffici. Certo, sarebbe il primo qui sciolto per mafia. Ma c’è sempre una prima volta ed è un modo per sanificare un territorio, non va mai visto in negativo bensì come una ripresa del territorio secondo il principio di legalità”. Una legalità difficile da inseguire, secondo Massimo Cacciari: “Ci confrontiamo con una criminalità globale e per questo servono strumenti normativi adeguati. Va sorvegliato l’intero globo, aria, acqua e terra, altrimenti si incrociano i pirati. Serve una nuova forma di sovranità sovranazionale contro la criminalità organizzata che è una potenza mondiale”. Un “momento delicato” per il deputato veneziano del Pd e componente della Commissione Antimafia Nicola Pellicani: “In Veneto troppo a lungo è stata negata l’esistenza delle mafie, in particolare in provincia di Venezia, dove la camorra ha un radicamento che risale ad alcuni decenni fa”. Fra i presenti, anche il sottosegretario agli Interni Achille Variati che ha definito la mafia veneta “un iceberg” e ha ricordato come vada combattuta la solitudine degli imprenditori. E arriva anche un messaggio del ministro Federico d’Incà: “Il governo lotterà ogni giorno per la legalità e non abbasserà mai la guardia sui fenomeni criminali e sulle infiltrazioni malavitose nel territorio”. Manlio Milani, la laurea premio alla verità di Brunella Giovara La Repubblica, 18 febbraio 2020 Che senso grande, nella laurea honoris causa a Manlio Milani. Dottore in Giurisprudenza, il riconoscimento giusto per un uomo che ha passato almeno 43 armi in vari tribunali, più di molti avvocati e magistrati in circolazione. Dall’inizio di tutto - 28 maggio 1974, strage di piazza della Loggia - all’ultima sentenza, Cassazione del 20 giugno 2017, conferma della condanna all’ergastolo nei confronti di Carlo Maria Maggi, medico, ex ispettore veneto dell’organizzazione neofascista Ordine nuovo, e di Maurizio Tramonte, ex fonte “Tritone” dei servizi segreti. Non c’è solo la presenza costante nelle aule. L’università di Brescia non ha solo voluto riconoscere la sapienza acquisita - che pure c’è - ma il fatto che questo uomo di 81 anni è “il vero uomo di legge, che possiede una tale padronanza dei principi giuridici da essere sempre in grado di applicarli con facilità alla matassa - perennemente arruffate - delle faccende umane”, ha detto il professor Carlo Alberto Romani nella sua laudatio. Così, il presidente dell’Associazione familiari dei caduti di piazza della Loggia, nonché uno dei fondatori della Casa della Memoria di Brescia, è stato ieri onorato nel teatro Grande, in una cerimonia che si è aperta con un minuto di silenzio per le vittime. Otto morti, oltre cento feriti, “vittime innocenti, ma non vittime qualsiasi”. Perché “la strage di Brescia reca in sé un inequivocabile marchio identificativo: la natura neofascista della trama, ordita da esponenti della destra radicale in stretto rapporto con apparati delle istituzioni”, ha riassunto Romano. Ma la strage era politica: “Un attacco volutamente micidiale, in una manifestazione dichiaratamente antifascista e non, come sostenuto talvolta, un attentato volto a colpire vittime innocenti”. Quel giorno in piazza c’era Milani, con la moglie Livia Bottardi, insegnante di 32 anni, e “la vidi sparire nel fumo”, disse lui poi. Un fotografo scattò l’immagine famosa: Milani in ginocchio sopra il cadavere di Livia, un braccio teso a chiedere aiuto. L’esplosione della bomba - gelignite e dinamite - fu l’inizio di un cammino lunghissimo, peraltro non ancora finito. “Senza mai abbandonarsi a una condizione di autistica sofferenza - ha detto il professor Antonio Saccoccio nella motivazione della laurea - si è adoperato per tenere vivo per tutto questo tempo il desiderio di verità e giustizia, con un costante lavoro di indagine, ricerca, memoria, contrasto alle mistificazioni e ai depistaggi, a volte lottando anche contro la lontananza manifestata da alcuni nuclei di apparati dello Stato”. Ma, ha detto il rettore Maurizio Tira, “il lavoro di Milani ha inciso per il bene di tutta la nostra comunità: la verità, la memoria e la riconciliazione”. L’ultimo punto, il più attuale, per alcuni addirittura scandaloso, ribadito nelle motivazioni: “Per i percorsi di incontro e di dialogo tra vittime ed ex terroristi di cui si è reso promotore, e da cui è scaturito un modello riconosciuto e apprezzato in tutto il mondo giuridico, orientato verso logiche di giustizia riparativa e non solo retributiva, per l’attenzione alla dignità dei detenuti, affinché la pena non sia mai disgiunta dal significato rieducativo e umano che la Costituzione le ha affidato”. Una “straordinaria lezione di educazione alla cittadinanza e alla legalità”. Subito dopo la strage, Milani tornò in piazza della Loggia, “quasi per ritrovarmi in quel luogo che sentivo appartenermi” ha detto nella Lectio magistralis. E la piazza ancora devastata “era piena di persone che mi dissero: “Ricordati che quella bomba ci ha colpito tutti”. Sentii quel “ci ha colpiti tutti” come un dovere morale e civile di non abbandonare quella piazza”. E ai funerali, il vescovo esortò a “non dimenticare Caino”, il che fece arrabbiare molti, e “quella frase continuò a risuonarmi dentro”. E alla prima udienza del processo, guardando gli imputati, quasi tutti giovanissimi, “mi domandai: da dove venivano? à stato l’inizio di un percorso”, capire chi erano, quali idee avevano “perché nessuno nasce con la pistola in mano”. Un binario doppio, quello su cui ha camminato Milani per tutti questi anni. Parte civile nei processi, supporto “al lavoro dei magistrati perché non si sentano soli”, coordinamento del “lavoro di scavo fatto dagli avvocati affiancando ai primi altri giovani avvocati, che porteranno uno sguardo nuovo su quelle carte processuali”. Così si è retto “il tempo delle delusioni”, anche così si è potuta “curare la ferita della città”, e superare fratture e incomprensioni. Questo processo - questi processi, alla fine sono stati undici - è durato una vita, “ci sono voluti 43 anni ma grazie a questo impegno collettivo la verità giudiziaria è stata alla fine raggiunta. Una verità incompleta ma che fissa nella storia le responsabilità politiche, ne definisce il marchio di fabbrica, la destra eversiva”. “Tutti abbiamo capito le motivazioni di questa laurea - ha detto il sindaco Emilio Del Ecco - è stato un cammino individuale e collettivo”. Poi, c’è l’altro binario: “La tutela dell’innocente non può non stare profondamente a cuore proprio a chi è persona offesa da un reato. La tutela dell’innocente è prolungamento logico della ricerca della verità”. E cita la presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, che nell’intervista a Repubblica di due giorni fa diceva: “La giustizia giusta è riconciliazione, non vendetta”. Agrigento. Nel carcere è allerta tubercolosi: ci sono dei contagiati di Sofia Dinolfo Il Giornale, 18 febbraio 2020 La notizia è stata diffusa solamente tre giorni fa dopo che un agente di polizia penitenziaria ne è rimasto colpito. Il poliziotto è stato contagiato da un detenuto affetto dalla malattia dal mese di novembre. La notizia fino ad oggi è stata tenuta all’oscuro di tutti ed è venuta alla luce solamente quando uno degli agenti di polizia penitenziaria ne è rimasto affetto. Il fatto di venire a conoscenza del potenziale pericolo soltanto adesso ha suscitato rabbia e indignazione fra il personale che lavora all’interno della struttura penitenziaria “Pasquale Di Lorenzo”. Per capire cos’è successo, bisogna andare indietro nel tempo e fermarsi al mese di novembre scorso. Tutto sarebbe partito da un detenuto arrivato in quel periodo dentro il carcere. L’uomo, affetto dalla tubercolosi, avrebbe condotto una vita “normale” come quella degli altri detenuti. Avrebbe condiviso con loro tutti i momenti fuori dalle sbarre, senza essere mai isolato o sottoposto ad un regime di adeguata tutela per se e per gli altri. Da novembre ad oggi, il malato sarebbe entrato in contatto con centinaia di persone, non solo detenuti, ma anche tutto il personale che lavora all’interno della struttura. La notizia mai resa pubblica fino ad ora è stata appresa dagli agenti di polizia penitenziaria solamente tre giorni fa perché un loro collega è stato colpito dalla malattia. L’agente è stato contagiato dal detenuto. Come noto, la tubercolosi si trasmette per via aerea. Basta uno starnuto, un colpo di tosse emessi da chi ne è affetto e la persona che si trova vicino, inspirando i batteri può infettarsi. Nella maggior parte dei casi la malattia colpisce i polmoni e se non curata in tempo può portare alla morte. Per quanto riguarda la possibilità del rischio contagio, il problema non è solamente circoscritto ai detenuti e agli impiegati ma anche a tutte le loro famiglie. Intanto i membri del corpo di polizia penitenziaria verranno sottoposti al test di Mantoux che permetterà di verificare il loro stato di salute. Lo stesso esame non è però previsto per i componenti la loro famiglia, motivo questo che suscita collera e preoccupazione per i poliziotti che i sentono abbandonati. Da tempo i sindacati di categoria denunciano una situazione di disinteresse da parte dello Stato sulle condizioni di lavoro cui gli agenti si trovano a dover far fronte. In primis la carenza di personale. Più di quaranta le persone che mancano al completamento dell’organico con conseguenti turni massacranti per i pochi poliziotti. All’interno della struttura mancano anche gli strumenti necessari per poter dare risposta alle esigenze dei detenuti con problemi psichici, di tossicodipendenza e con altri problemi. Più volte, negli ultimi mesi, il carcere è stato teatro di aggressioni gratuite ai poliziotti che non riescono più a lavorare in questo modo. Bari. Sopralluogo in carcere, Franzoso: “sovraffollamento e assistenza sanitaria al collasso” statoquotidiano.it, 18 febbraio 2020 “Sovraffollamento, carenza di agenti, assistenza sanitaria inadeguata”. È il bilancio del sopralluogo nel carcere di Bari che Francesca Franzoso, Consigliera regionale, ha effettuato ieri mattina insieme a Massimiliano Iervolino, segretario dei Radicali Italiani e Annarita Di Giorgio, di Associazione Pannella. Il penitenziario, “Rucci” ha una capienza massima di 299 persone ma, ad oggi, ospita 435 detenuti. Di questi 150 hanno disagi psichiatrici. La struttura, del 1920, dispone anche di un carcere sanitario da 24 posti letto, con strumentazione e personale insufficiente. “Ed è proprio la sanità, di competenza regionale, sostiene Franzoso - una delle principali note dolenti. Nessuna delle strumentazioni medico-sanitarie previste con lo stanziamento di 300 mila euro, messi in bilancio 2019 con un mio emendamento, è mai entrata nella struttura. Non solo. La Asl Bari non ha attivato un sistema unico di prenotazione, così un detenuto, per effettuare più esami diagnostici, deve essere trasferito in giorni diversi presso la struttura ospedaliera con notevole disagio per il personale penitenziario già ridotto al minimo”. “Il piano di riordino della rete ospedaliera di Emiliano prevede per questi detenuti l’attivazione presso l’Ospedale San Paolo di un reparto di medicina protetta da 16 posti letto, che ad oggi è solo sulla carta. Una situazione esplosiva, tenuta sotto controllo solo grazie alla professionalità e agli sforzi della direttrice del Carcere, Valeria Purè” - ha continuato Franzoso. “Le istituzioni, invece, Regione Puglia in primis, sono assenti. Invito Emiliano e Asl Bari ad attivarsi quanto prima per sanare una situazione di insopportabile emarginazione dei detenuti e restituire dignità alla vita carceraria. I diritti fondamentali non si cancellano neppure dietro le sbarre, e questo il Governatore della Puglia, che dice di aver giurato tre volte sulla Costituzione, dovrebbe saperlo”, ha concluso la consigliera Francesca Franzoso. Arezzo. Allarme della Cisl: “carcere a rischio chiusura, detenuti e agenti trasferiti a Siena” di Claudia Martini arezzoweb.it, 18 febbraio 2020 “Il numero dei detenuti ad Arezzo è ritenuto esiguo dal Ministero, per questo il carcere di San Benedetto rischia di chiudere i battenti. E circa trenta guardie rischiano, a loro volta, di essere trasferite a Siena, come i detenuti. Con le difficoltà dei lavoratori pendolari e ripercussioni sulle loro famiglie”. L’allarme lo lancia la Cisl di Arezzo, che domani alle 16, terrà una conferenza stampa nella sede di viale Michelangelo. Nel corso dell’incontro verranno espresse, riporta una nota del sindacato: “le preoccupazioni del personale penitenziario per una possibile chiusura della casa circondariale di Arezzo. Il rischio, è più che concreto, di perdere un altro presidio dello Stato nel territorio aretino a favore di quello di Siena”. Si tratta comunque di dipendenti statali, che non resteranno senza posto di lavoro, ma saranno ricollocati tra Siena e Firenze. Lo stesso per i detenuti. Ma la Cisl punta il dito, più che altro, contro “la perdita di un presidio di sicurezza e dello Stato sul territorio, dopo quanto già avvenuto con la Soprintendenza e la Camera di Commercio. Una perdita, quindi, inaccettabile. Il carcere non deve chiudere e neppure i dipendenti essere trasferiti”. Trani (Bat). Garante dei detenuti, giovedì la presentazione dell’avviso pubblico traniviva.it, 18 febbraio 2020 Il Comune di Trani eleggerà il Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale. L’individuazione del profilo idoneo a ricoprire questo ruolo avverrà mediante indizione di avviso pubblico, nel rispetto della tipologia di persone che possono ricoprire tale funzione (persone competenti ed esperte nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, dell’amministrazione penitenziaria e con conoscenza, documentata, della realtà carceraria). La presentazione dell’avviso pubblico con la partecipazione del garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della liberta personale, Pietro Rossi, è in programma giovedì 20 febbraio alle ore 10 presso la Casa di reclusione femminile di Trani (piazza Plebiscito). La scelta di questo luogo dalla forte valenza simbolica, è stata determinata dalla volontà di questa amministrazione di sensibilizzare la comunità locale sul tema della umanizzazione e della finalità rieducativa della pena. Parteciperanno, con il garante regionale Rossi, il sindaco, Amedeo Bottaro, il presidente del Consiglio comunale, Fabrizio Ferrante, l’assessore alle culture, Felice di Lernia, l’assessore al patrimonio, Cherubina Palmieri, l’assessore ai servizi sociali Patrizia Cormio ed il direttore degli Istituti penali di Trani, Giuseppe Altomare. Milano. Consulenze a migranti e detenuti, in campo i futuri avvocati di Federica Cavadini Corriere della Sera, 18 febbraio 2020 Dalle aule di giurisprudenza della Statale al reparto di Etnopsichiatria del Niguarda, ad assistere migranti che hanno bisogno anche di consulenza legale, perché hanno commesso reati o anche soltanto per ottenere il permesso di soggiorno. Dalle lezioni sui manuali alla pratica sui casi reali: è il programma proposto agli studenti del corso di “Clinica legale di giustizia penale” che riparte nei prossimi giorni e un gruppo di universitari sarà ancora all’ospedale Niguarda. “Gli studenti possono scegliere dove fare un’esperienza pratica, tanti entrano negli studi legali ma riproponiamo anche la “street law”- spiega Angela Della Bella, docente di Diritto penale e coordinatrice del corso. La clinica legale si è rivelata uno strumento prezioso anche per sensibilizzare gli studenti e renderli più consapevoli sul ruolo del giurista che deve sentirsi chiamato a intervenire per garantire l’accesso alla giustizia a chi è in situazione di vulnerabilità come tanti migranti”. L’università Statale quest’anno ha allargato la collaborazione anche all’Ufficio del Garante dei detenuti del Comune. Un anno fa gli studenti di giurisprudenza erano stati “prestati” all’ospedale Niguarda, alla Casa della Carità della Caritas e al Cas di Casa Chiaravalle. Un giorno alla settimana di “street law” per un semestre, con la supervisione di un tutor e di un avvocato esperto di diritto dell’immigrazione. “Esperienza che ti apre la mente. E forma cittadini prima che studenti”, dice Mattia Gervasoni, oggi laureato e in tirocinio al Tribunale, un anno fa era nel primo gruppo di universitari inviati al Niguarda. “In ospedale si collabora con una équipe di etnopsichiatria che comprende psichiatri, psicoterapeuti e anche assistenti sociali - spiega. Abbiamo aperto fascicoli, letto sentenze, incontrato i pazienti, contattato i difensori d’ufficio. Ricordo il nostro primo caso, un ragazzo finito in carcere per reati legati alla droga, era tornato in cella per aver violato misure di sicurezza che non aveva nemmeno capito di avere”. Dalla Statale a Niguarda anche Sara Ferrari, laureanda, oggi impegnata nella sua tesi sui reati politici: “Con la clinica legale ho visto una parte del diritto che non avevo considerato. Abbiamo seguito ragazzi anche più giovani di noi, hanno problemi psichiatrici che accomunano tante vittime della tratta e hanno anche bisogno di assistenza, per il permesso di soggiorno, per recuperare documenti, per accedere al servizio sanitario”. Il corso del dipartimento di Scienze giuridiche della Statale inizia giovedì per altri trenta studenti. “Con la prima edizione abbiamo intercettato le problematiche giuridiche più frequenti e stiamo anche preparando un vademecum per gli operatori che lavorano con i migranti sulle questioni più controverse o oggetto di recenti modifiche normative - conclude Della Bella. E adesso il programma riparte”. Varese. Sportello psicologico dell’ospedale per gli agenti penitenziari varesenews.it, 18 febbraio 2020 Accordo tra l’Asst Sette Laghi e la Casa circondariale di Varese per dare assistenza gratuita. Lo sportello è al padiglione 13 del Circolo. Il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze dell’ Asst Sette Laghi, diretto dal dott. Isidoro Cioffi, in accordo con la dott.ssa Carla Santandrea, direttore della Casa Circondariale di Varese, ha ideato un progetto di counseling psicologico rivolto agli agenti di polizia penitenziaria di Varese. Il progetto, sostenuto dalla Direzione Sociosanitaria dell’Asst, guidata dal dott. Ivan Mazzoleni, si propone di offrire un servizio di prevenzione primaria e secondaria del disagio psicologico di una particolare popolazione, quella degli agenti di polizia penitenziaria, esposta a molti fattori stressanti, tanto che si registra, a livello nazionale nella specifica popolazione, un alto tasso di disagio psicologico. Lo sportello, completamente gratuito, avrà sede all’Ospedale di Circolo di Varese, negli stessi locali dell’Ambulatorio Ansia e la Depressione, al 1° piano del Padiglione 13. “L’iniziativa - dichiara Marco Bellani, responsabile degli psicologi dell’Asst Sette Laghi - nasce a seguito di alcune considerazioni sull’ambiente carcerario, una realtà molto complessa in cui sussistono dinamiche particolari sul piano lavorativo-organizzativo, relazionale e personale, talvolta di difficile gestione”. “Il lavoro di chi garantisce la sicurezza all’interno del carcere - aggiunge la prof.ssa Camilla Callegari, della Psichiatria Varese - porta con sé un carico psicologico che deve essere supportato. Per questo abbiamo pensato di dare un contributo affinché psicologi esperti aiutino gli agenti”. “Gli agenti - tiene a sottolineare il dott. Isidoro Cioffi, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze - sono un corpo silente, ma che svolge un ruolo importante per l’intera società. Iniziamo un percorso che speriamo possa essere un esempio per altre città lombarde. Per la categoria degli agenti di polizia penitenziaria gli stressors contestuali, psicologici ed affettivi raggiungono un livello molto elevato per quantità ed intensità, un livello tale da poter compromettere il benessere psicofisico degli operatori, configurando uno specifico profilo di rischio professionale anche di tipo psico-sociale, quale la sindrome da burnout”. “Le possibili, improvvise esplosioni di tensione e aggressività tra detenuti nelle varie sezioni - spiega Giuliano Tinelli, psicologo dell’Ambulatorio per l’Ansia e la Depressione - gli eventi critici relativi a detenuti particolarmente problematici, le aspettative ambivalenti degli stessi detenuti, le richieste forti delle altre aree operative o dello stesso sistema penitenziario, vissute spesso come delega o scarico di responsabilità, creano tensione, reazioni conflittuali e, alla fine, isolamento, con possibile comparsa di sentimenti di rancore, inadeguatezza, impotenza. Fino all’ansia strutturata, alla depressione, ad un sentimento di scacco esistenziale. In virtù di queste considerazioni, tutelare una categoria così centrale nell’organizzazione penitenziaria deve rappresentare un obiettivo costante”. Monza. Volontari cercansi per leggere libri in carcere di Massimiliano Rossin ilcittadinomb.it, 18 febbraio 2020 L’associazione “La biblioteca è una bella storia” cerca nuovi volontari per leggere racconti e romanzi ai detenuti. Ecco come regalare un po’ del proprio tempo a un progetto in crescita. Si tratta di offrire qualche ora di pura evasione a chi non può permetterselo: i detenuti della Casa circondariale di Monza. E farlo nel modo migliore possibile: leggendo. Per questo l’associazione “La biblioteca è una bella storia” cerca nuovi volontari, perché molto è stato fatto, molto si può fare. La realtà monzese presieduta da Sergio Conti traccia il bilancio del primo anno di attività in via Sanquirico e prova a crescere: “La biblioteca del carcere per vari motivi ha difficoltà di accesso, pur avendo a disposizione 600 volumi e giornali” spiegano il presidente e la volontaria Sandra Onofri. “Allora abbiamo pensato con la direzione del carcere di andare direttamente nelle sezioni” e cioè in uno spazio dove i detenuti possono liberamente circolare e scegliere se andare o meno agli incontri di lettura, nelle salette di socialità. Lì i volontari, dopo un percorso di formazione che include la conoscenza del carcere, le sue regole, incontri di gruppo, lezioni di lettura ad alta voce, vanno a coppie a proporre racconti e romanzi ai detenuti. E funziona: da gennaio 2019 a oggi le sezioni coinvolte sono passate da sei (con dodici volontari) a sette (con quattordici) ma il desiderio è di allargare l’iniziativa. “Per loro diventa un momento importante: di evasione, di crescita, di promozione umana” che raccoglie soprattutto l’interesse di persone tra i 40 e i 60 anni, per un totale di 1.814 presenze in dodici mesi nel corso di 233 incontri. “Noi vorremmo raggiungere tutte le sezioni del carcere” e allora un appello a chiunque voglia provarci: per incontrare l’associazione basta andare il mercoledì mattina alla Civica di via Giuliani (9.30-11.30) oppure scrivere alla mail bibliotecabellastoria@gmail.com. “Per i detenuti che partecipano è un momento molto importante. In carcere ci sono ogni tanto iniziative, ma sono occasionali. Gli incontri di lettura sono invece sistematici ed è un momento su cui possono contare, di forte impatto: l’incontro con i libri”. Verona. Gli studenti del “Medici” incontrano i detenuti del carcere di Montorio lanotizia.news, 18 febbraio 2020 Le classi quinte dell’indirizzo Socio Sanitario hanno partecipato il 15 febbraio al laboratorio dell’associazione MicroCosmo. “Grazie all’incontro di oggi abbiamo capito che, dietro ai reati spesso raccontati per tv, ci sono delle persone con le loro storie e i loro percorsi di vita”: questo il commento di una delle studentesse delle classi quinte dell’indirizzo Socio Sanitario dell’Istituto “Giuseppe Medici” che, sabato 15 febbraio, si sono recate alla Casa circondariale di Montorio (Verona) per partecipare al laboratorio organizzato dall’associazione MicroCosmo. Accompagnati dalle docenti Anna Picca, Elisa Costantini e Barbara Gobbetto, gli studenti hanno trascorso un’intera mattina a tu per tu con i detenuti che partecipano alle attività curate dalla volontaria Paola Tacchella. “Da circa 30 anni” racconta Paola “con l’associazione MicroCosmo seguiamo le persone presenti in struttura, accompagnandole nella rielaborazione della loro storia perché possano individuare le scelte e i momenti che li hanno portati a delinquere. Si tratta di un percorso indispensabile perché possano autoresponsabilizzarsi su quanto compiuto ed essere consapevoli di ciò che le loro azioni hanno comportato per loro stessi e per le loro famiglie”. Grazie a questa occasione concessa dalla Direzione della Casa Circondariale di Montorio, previa autorizzazione da parte dei magistrati competenti, i ragazzi hanno potuto così conoscere le storie di chi si trova a scontare la pena nella struttura di Verona, come quella di un giovane ragazzo con alle spalle già un lungo percorso in carcere per svariati crimini anche mafiosi, di un uomo colpevole di tentato femminicidio dopo l’abuso di sostanze, il racconto di un usuraio e quello di uno spacciatore, attirato nel giro per la “fame di denaro” e che solo ora, nel carcere, vedendo le conseguenze della droga sugli altri detenuti, ha compreso che quel denaro era pieno del dolore provocato a molte persone. Ogni storia è stata raccontata direttamente dai protagonisti i quali, in alcuni casi, hanno fatto fatica a trattenere le lacrime. “Grazie a questa visita” ha spiegato il dirigente scolastico dell’istituto Medici Stefano Minozzi “gli studenti, oltre che ricevere un’importante lezione di vita, hanno potuto approfondire, tramite vicende concrete, le tematiche delle dipendenze che stanno affrontando nel programma di studio e conoscere da vicino la realtà del carcere nel quale vengono impiegate quotidianamente anche professioni che operano nell’ambito socio-sanitario, nell’ottica che guida questa scuola di continuo rapporto tra lo studio e le possibili realtà lavorative presenti sul territorio”. La giornata ha gettato le basi perché possa essere intrapreso uno stabile percorso di collaborazione tra l’istituto Medici e l’associazione MicroCosmo. Milano. “Guerra di parole”, detenuti e studenti si scontreranno a suon di retorica di Nicòl De Giosa internationalwebpost.org, 18 febbraio 2020 Detenuti e studenti si sfideranno a colpi di retorica. L’iniziativa si chiama Guerra di Parole e quest’anno avverrà a Milano, con la sua IV edizione. In questo scontro si confronteranno gli studenti universitari della Statale e i detenuti del Carcere di San Vittore, ma la loro unica arma sarà la forza della parola e solo il più abile vincerà. Il tema di questa edizione, su cui i gruppi si misureranno, sarà: “L’opinione pubblica è il sale della democrazia o il dominio del populismo?”. I partecipanti (scelti esclusivamente per la loro volontà di prendere parte all’iniziativa) seguiranno un corso di formazione gratis, tenuto da professionisti nei diversi settori, di public speaking, all’interno della sede universitaria, per imparare le tecniche della retorica, del teatro e del rap. Le lezioni saranno tenute dalla presidente dell’Associazione PerLaRe (Associazione Per La Retorica) Flavia Trupia, dall’attore e regista Enrico Roccaforte e dal rapper Amir Issaa. Le squadre saranno preparate separatamente in vista dello scontro finale che avverrà il 23 novembre nel Carcere di San Vittore e si svolgerà in due round di 15 minuti, i quali, all’inizio e alla fine, saranno accompagnati da un appello di un minuto in versione rap, in cui le due squadre devono prima difendere un’idea e poi il suo contrario. In fine, una Giuria composta da sette esperti decreterà la squadra vincitrice fra detenuti e studenti, in base ad alcuni criteri quali il rispetto delle regole, l’utilizzo del linguaggio del corpo e la forza delle argomentazioni. Flavia Trupia, ricordando le edizioni precedenti, sottolinea: “Le prime tre edizioni della Guerra di Parole sono state vinte dai detenuti, malgrado gli studenti abbiamo dimostrato di avere tecnica e determinazione - prosegue la presidente dell’associazione PerLaRe. Nell’arte oratoria non conta solo la preparazione tradizionale, ma anche la capacità di gestire il corpo, di divertire e di comunicare con l’uditorio. Abilità che raramente vengono acquisite tra i banchi. Inoltre non è facile per gli studenti, a vent’anni, entrare in un carcere e sfidare degli adulti che si sono formati nell’università della vita. Ma quest’anno gli studenti potrebbero stupirci”. L’iniziativa supporta la cultura e la condivisione del valore della retorica, in quanto essa sia un pacifico strumento per cambiare il modo di stare insieme nella società. Le gare di retorica hanno l’obiettivo di preparare i partecipanti ad affrontare le sfide che la vita preserverà loro in futuro, in contesti in cui è indispensabile sapersi confrontare con diverse idee e opinioni discordanti. Chi la spunterà quest’anno? Riusciranno gli studenti a farsi valere? L’iniziativa è appoggiata e promossa da Toyota Motor Italia ed è organizzata da PerLaRe - Associazione Per La Retorica, Università degli Studi di Milano La Statale, Crui - Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, Casa Circondariale di Milano San Vittore, insieme a Unione Camere Penali Italiane - Osservatorio Carcere Ucpi, Amici della Nave. Il progetto è supportato da Ferpi - Federazione Relazioni Pubbliche Italiana. Siracusa. I burattini realizzati dai detenuti di Brucoli esposti in una mostra a Floridia Nuovo Sud, 18 febbraio 2020 Si chiama “Reclusione” la mostra di burattini e di sculture inaugurata sabato sera a Floridia nei locali della Lilt di via Archimede 107. È stata organizzata da Daniela Cornelio e Maurizio Villari. Un evento che andrà avanti per almeno un mese. All’apertura si è tenuto uno spettacolo teatrale (Teatro di figura e carcere) con testi di Daniela Cornelio, che oltre ad insegnare lettere a Canicattini Bagni è diplomata allo Stabile di Catania, Tiziana Miano e con voce narrante di Gerri Cucinotta. La mostra nasce da un progetto di Cornelio, nato alcuni anni fa dalla sua esperienza di avere insegnato a 24 detenuti rinchiusi nel carcere di Brucoli. Nella mostra di Floridia sono esposti i lavori fatti dai ragazzi del carcere, in particolare i burattini. In un angolo della location è stata riprodotta pure una cella degli Anni Sessanta. “La maggior parte di questi burattini esposti - dice Daniela Cornelio - sono stati realizzati dai miei allievi detenuti. C’è in questi lavori molta tecnica, unita alla fantasia, ma con un messaggio scritto che deve lasciare riflettere “almeno questi oggetti portateli fuori da qui”. Alla mostra di Floridia ci sono anche i miei lavori, perché io sono una burattinaia”. La mostra di Floridia merita di essere visitata, coinvolgendo la società civile e soprattutto gli studenti. Oltre ai burattini è arricchita dalle sculture di un artista autodidatta come Maurizio Villari che anche lui si è prodigato ad organizzare questo evento che non ha avuto un solo centesimo di fondi pubblici. Una goccia di cultura in una Floridia nelle sabbie mobili di una crisi globale. Migranti. Decreti Salvini: no all’abolizione, sì a modifiche di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 18 febbraio 2020 L’indicazione al termine del vertice di maggioranza a Palazzo Chigi. previsti interventi sia in tema di sicurezza che di immigrazione. No alla cancellazione, sì a una modifica “profonda” dei decreti Salvini: è l’indicazione che emerge al termine del vertice di maggioranza conclusosi questa sera a palazzo Chigi. Verranno adottati due provvedimenti distinti, uno in materia di sicurezza e uno in materia di immigrazione. Correzioni alle norme in vigore erano state caldeggiate fin da subito dal presidente della repubblica Sergio Mattarella (per il quale i soccorsi in mare vanno sempre garantiti) e anche più settori della maggioranza e dell’area di governo (ultimo in ordine di tempo il movimento delle Sardine) avevano chiesto l’abolizione tout court dei decreti. “Questi decreti hanno prodotti obiettivamente più irregolarità” ha detto il viceministro degli interni Matteo Mauri (Pd). “Vanno cancellate le sanzioni alle Ong” gli ha fatto eco l’esponente di Leu Nicola Fratoianni. Altro punto sul quale sembra esserci convergenza tra tutte le componenti di governo è il ritorno degli Sprar, i centri di accoglienza diffusi e di piccole dimensione che avevano dato risultati in fatto di integrazione dei richiedenti asilo. La maggioranza ritiene sarà necessario un altro incontro sul tema, per discutere (anche) del memorandum con la Libia che regola gli attuali compiti della cosiddetta Guardia Costiera di Tripoli. Al di là delle dichiarazioni ottimistiche, tuttavia, l’impressione è che in seno alla maggioranza le posizioni in tema di immigrazione e sicurezza le posizioni non siano univoche. Il M5S, in particolare non è disposto a cancellare l’eredità del precedente governo, come lasciano intendere le parole di Vito Crimi; quest’ultimo dice no a posizioni ideologiche sui decreti Salvini e no a gettare al vento i risultati ottenuti per effetto di quei provvedimenti. Di fronte alla ripresa degli sbarchi dalla Libia delle ultime settimane, tuttavia, la ministra deli interni Luciana Lamorgese ha decisamente cambiato atteggiamento rispetto al passato, scegliendo di “ignorare” l’applicazione dei decreti Salvini concedendo l’approdo in Italia delle imbarcazioni che soccorrono migranti alla deriva nel mediterraneo. I provvedimenti varati dal precedente governo, come è noto, danno facoltà al Viminale di vietare l’ingresso in acque italiane alle navi ritenute un pericolo per l’ordine pubblico o gli interessi nazionali dell’Italia. Infliggono inoltre pesanti sanzioni alle Ong che violano questi divieti. Migranti. Decreti sicurezza, prime prove per cambiarli di Carlo Lania Il Manifesto, 18 febbraio 2020 Restano le differenze ma ci sarebbe l’accordo per cancellare le supermulte alle ong e allargare la protezione umanitaria. Novità potrebbero arrivare sul sistema Sprar e anche sull’oltraggio al pubblico ufficiale. Il percorso è appena all’inizio e probabilmente servirà ancora del tempo, ma dopo mesi di attesa e di rinvii la revisione dei decreti sicurezza sembra essere finalmente partita. Tre ore di riunione a palazzo Chigi hanno aperto il confronto tra le forze di maggioranza registrando una inaspettata convergenza di opinioni tanto che perfino il Movimento 5 Stelle, da sempre il più restio a intervenire sui provvedimenti salviniani che aveva votato nel precedente governo Conte, si sarebbe mostrato disponibile a interventi più decisi almeno su alcuni punti. Solo il viceministro dell’Interno Vito Crimi avrebbe mostrato perplessità: “Attenti a non cambiare tutto e a rifare gli errori del passato”, avrebbe raccomandato prima di lasciare la riunione. E la prima modifica sulla quale si è registrato un consenso unanime riguarda la decisione di separare il tema immigrazione da quello più generale della sicurezza. Presenti al Tavolo, oltre al premier Giuseppe Conte e alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, era presenti anche i viceministri dell’Interno Crimi e Matteo Mauri, il ministri della Difesa Lorenzo Guerini, il sottosegretario alla presidenza del consiglio Riccardo Fraccaro, e il sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano. Inoltre Loredana De Petris e Nicola Fratoianni per LeU, il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia (M5S), Roberta Pinotti (Pd) Laura Garavini e Gennaro Migliore per Italia Viva. La bozza di modifiche messa a punto dalla titolare del Viminale non sarebbe stata discussa, ma le premesse per un accordo ci sarebbe tutte. A partire dall’abolizione delle supermulte - fino a un milione di euro - per le navi delle ong (uno dei rilievi fatti a suo tempo dal presidente della Repubblica Mattarella), che nella proposta Lamorgese dovrebbero tornare a essere comprese tra i 10 mila e i 50 mila euro. Sempre per quanto riguarda le navi, non verranno più sequestrate se violano il divieto di ingresso nelle acque territoriali (finora mai firmato, va detto, dalla ministra Lamorgese), ma solo in caso di un’ulteriore violazione. Il ridimensionamento delle multe non soddisfa però LeU, Pd e Italia Viva che avrebbero preferito cancellarle completamente perché, è stato spiegato, “chi salva vite non può essere punito”. Altro punto sul quale si sarebbe trovato l’accordo è un allargamento della protezione umanitaria, abrogata con il primo decreto sicurezza ma che ora si vorrebbe riconoscere a nuove categorie di migranti vulnerabili. Cinque in particolare: le famiglie con figli minori, le persone gravemente ammalate, quelle con disturbi psichici, ai disabili e alle donne in stato di gravidanza. Inoltre, come richiesto da molti Comuni, per un migrante sarà di nuovo sufficiente la richiesta di asilo per potersi iscrivere all’anagrafe. Ultimo punto, anch’esso sottolineato da Mattarella nella sua lettera al parlamento, riguarda oltraggio al pubblico ufficiale. Il decreto Salvini cancella la discrezionalità del giudice estendendo il reato a tutti i pubblici ufficiali, dall’agente in servizio a una manifestazione all’impiegato di un ufficio postale. La modica dovrebbe restituire al magistrato la possibilità di valutare le tenuità del fatto o, in alternativa, considerare il reato solo se a subirlo è un membro delle forze dell’ordine. Novità infine potrebbero arrivare anche per quanto riguarda il sistema Sprar (Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati) fortemente ridimensionato con il primo decreto sicurezza. Il pentastellato Giuseppe Brescia avrebbe chiesto un passo indietro per ripristinare il sistema nella versione originale. “Ci sarà un altro incontro, poi il ministro produrrà il testo”, ha detto Mauri al termine del vertice. Scontata la reazione di Matteo Salvini alla notizia di una possibile revisione dei decreti: “Cancellare i decreti sicurezza significa aiutare la mafia e gli spacciatori di droga”, ha detto il leader della Lega. Parole che hanno suscitato la reazione di Nicola Fratoianni: “Quello di Salvini è solo un delirio”, ha detto l’esponente di Sinistra italiana. “I suoi decreti hanno provocato nel paese insicurezza e delusione”. Migranti. Il piano Lamorgese: multe più leggere alle Ong e permanenza più breve nei Centri di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 18 febbraio 2020 L’obiettivo della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese è dichiarato: “Impedire di trasformare il testo che cambia i decreti sicurezza in materia di scontro politico”. Anche perché la strada da seguire per le modifiche era stata indicata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella al momento di controfirmare il provvedimento voluto dall’allora titolare del Viminale Matteo Salvini. E dunque i nuovi decreti vanno tenuti al riparo dal fuoco incrociato interno alla maggioranza. Anche tenendo conto della delicatezza della materia trattata, che impatta direttamente con la salvaguardia dei diritti umani. Perché si vorrebbe ridurre da 180 a 120 i giorni di massima permanenza nei centri per chi deve essere rimpatriato, ma anche tornare alle multe per le Ong che non superino i 50 mila euro e soprattutto senza far scattare automaticamente la confisca delle navi utilizzate per il soccorso dei migranti. E poi riconoscere la “tenuità del fatto” in alcuni casi di oltraggio e minacce a pubblico ufficiale, norma che rischia di provocare malcontento all’interno delle forze dell’ordine. E dunque, come continua a sottolineare la ministra “ci vuole coesione, condivisione vera”. Una strada sulla quale insiste il viceministro Matteo Mauri del Pd, quando spiega che “se Salvini aveva ottenuto una riduzione dell’integrazione degli stranieri e un aumento dell’irregolarità, noi non vogliamo perdere l’occasione di una revisione complessiva di materie fondamentali come l’immigrazione e la sicurezza”. Ecco perché il “tavolo” a palazzo Chigi è stata l’occasione per illustrare i punti fondamentali, ma un esame del testo approfondito dovrà essere fatto con ministri e capidelegazione. Appare fin troppo evidente che i decreti sicurezza saranno l’argomento preferito di Salvini per attaccare il governo. E Lamorgese - peraltro ministra tecnica - non ha alcuna intenzione di diventare il bersaglio. Del resto la delicatezza delle nuove norme è fin troppo evidente esaminando le bozze preparate al Viminale. Perché al centro c’è la “salvaguardia dei diritti umani” a partire da quell’articolo che impedisce “il divieto di espulsione per le persone a rischio di tortura”, come lo aveva scritto Salvini, ma viene integrato prevedendolo anche per chi rischia “trattamenti inumani e degradanti”. Le commissioni territoriali avranno maggiori poteri sia per riesaminare “la domanda reiterata in fase di esecuzione di un provvedimento di allontanamento” sia nel “rilascio di un permesso di soggiorno agli stranieri in condizioni di salute di particolare gravità” oppure “per la concessione dell’autorizzazione giudiziaria a permanere sul territorio per assistenza a familiari minori”. La proposta di far scendere a 120 giorni la permanenza nei centri mira a snellire le procedure di rimpatrio, ma si prevedono pene più severe “per l’allontanamento arbitrario da tali strutture e per le condotte violente commesse nei Cpr”, dove andranno anche “gli stranieri condannati e quelli in attesa di rimpatrio negli Stati che hanno un’intesa con l’Italia”. Nei decreti sicurezza Salvini ha previsto pene più severe - fino a 5 anni di carcere - per minacce e ingiurie a pubblico ufficiale, inserendo nell’elenco anche i dipendenti pubblici. Un’impostazione che secondo il Quirinale “impedisce al giudice di valutare la concreta offensività delle condotte poste in essere” e “solleva dubbi sulla sua conformità al nostro ordinamento e sulla sua ragionevolezza nel perseguire in termini così rigorosi condotte di scarsa rilevanza”. Per questo nella nuova formulazione si inseriscono nell’elenco gli agenti di polizia, gli ufficiali di pubblica sicurezza, i vigili urbani e i magistrati in udienza. Ma è di tutta evidenza che per arrivare a questo risultato bisognerà superare le resistenze delle varie categorie di lavoratori e soprattutto tenere testa agli assalti dell’opposizione. E per farlo - su questo Lamorgese ha l’appoggio di Conte - il governo deve mostrarsi compatto, la maggioranza parlare a una sola voce. Esattamente il contrario di ciò che accade in questi giorni. Un vero decreto sicurezza? Sanatoria per gli irregolari di Riccardo Magi* Il Riformista, 18 febbraio 2020 Limitarsi a rimodulare le misure dell’ex ministro sarebbe come farle proprie. Sull’immigrazione la maggioranza deve cambiare completamente politica. Il banco di prova è la riforma della Bossi-Fini. I due decreti sicurezza varati dal governo giallo-verde, anche definiti “decreti Salvini” e considerati i provvedimenti simbolo di quell’esecutivo, sono l’esempio di come si possa strumentalizzare un fenomeno complesso fornendone all’opinione pubblica una visione distorta, e di come si possa creare conflittualità sociale, marginalità e insicurezza mentre si annuncia maggiore sicurezza. Questo è ciò che ormai quasi tutti i sostenitori dell’attuale governo affermano ed è pienamente condivisibile. Quelle norme - secondo il giudizio unanime dei maggiori conoscitori della materia - oltre ad avere una potente valenza demagogico propagandistica, hanno concretamente leso diritti umani e hanno danneggiato la società italiana colpendo i luoghi e gli strumenti attraverso i quali si realizzano la protezione e l’inclusione dei cittadini stranieri: processi tanto delicati e difficili quanto indispensabili e preziosi nella società contemporanea, su cui al contrario bisognerebbe investire con costanza e dedizione. Quei decreti. come noto, hanno pesantemente investito e. in alcuni casi travolto, una serie di principi costituzionali e del diritto internazionale che dovrebbero rappresentare degli obblighi inderogabili per il nostro Stato. come il Presidente della Repubblica è stato costretto a ricordare intervenendo a più riprese con comunicazioni rivolte al governo e ai presidenti delle Camere. Alla luce di queste considerazioni, è evidente l’importanza politica dell’intervento che il governo e la maggioranza vorranno e sapranno fare sui decreti sicurezza. Se sarà un intervento volto esclusivamente a registrare, rimodulare, diminuire l’intensità di alcune delle misure volute da Salvini, vorrà dire che il governo e la maggioranza ne avranno mantenuto l’impianto, la ratio e, tutto sommato, ne avranno emulato la volontà politica. Li avranno, in qualche misura, fatti propri. Se, ad esempio, ci si dovesse limitare ad abbassare la sanzione pecuniaria per i soggetti che, pur impegnati in operazioni di salvataggio in mare, violino l’ordine del governo di non entrare nelle acque italiane, o ci si dovesse limitare ad aggiungere altri “casi speciali” (quali?) per il riconoscimento di permessi di soggiorno dopo l’abrogazione di quelli per motivi umanitari che davano attuazione all’articolo 2 e 10 della nostra Costituzione, vorrebbe dire che l’odiosa retorica del “business dell’immigrazione” e dei “taxi del mare” continua a vincere ed ha convinto anche molti di coloro che erano all’opposizione del Conte I e votarono contro la conversione di questi decreti. Le notizie circolate sul provvedimento su cui da mesi lavora il ministro Lamorgese ci parlano degli interventi resi necessari dai rilievi del Capo dello Stato, di cui si è detto sopra, della possibilità di iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo come imposto da numerose sentenze di tribunali italiani, del ritorno ai due anni di attesa (che Salvini aveva portato a quattro) per l’esame delle domande di cittadinanza. Sono punti importanti, che devono costituire la base per un cambio di politica sul tema più ampio, sul quale - mentre scriviamo - nella riunione di maggioranza si sta cercando un’intesa. L’attuale maggioranza dovrà spingersi più avanti se intende confermare il suo giudizio sui “decreti Salvini”. Ricordo che entrambi quei provvedimenti ebbero una significativa lievitazione durante la loro conversione in legge. In negativo. Ecco, sarebbe, più che auspicabile, necessario che se le modifiche promosse dall’esecutivo nel suo provvedimento dovessero limitarsi a quelle trapelate in queste ore, anche in questo caso ci sia un approfondito lavoro parlamentare, stavolta in positivo, finalizzato quantomeno a ridefinire i permessi di soggiorno per “protezione speciale” affinché attuino in modo più esteso le tutele e le garanzie costituzionali. E sarebbe davvero grave, oltre che incredibile, se non si volesse mettere mano al sistema dell’accoglienza ripristinando e rafforzando il sistema Sprar mentre sono sotto gli occhi di tutti le conseguenze del ritorno dei mega centri con servizi di basso livello e rischi elevatissimi di infiltrazioni malavitose. È del tutto evidente, poi, che l’urgenza reale per il nostro Paese non sono mai stati i 150 naufraghi da tenere bloccati a un miglio dalle coste italiane inscenando un braccio di ferro con l’Europa, con la Costituzione, con i diritti umani. L’urgenza sono 600 mila stranieri irregolari presenti in Italia (700 mila secondo alcune stime entro la fine del 2020 anche per effetto dei decreti sicurezza). considerati fantasmi da una normativa, tanto rigida quanto astratta e sbagliata, che non consente loro di emergere da questa condizione neppure a fronte della disponibilità di un lavoro. Qui si misurerà davvero l’esistenza di un fronte riformatore e progressista: nel superamento della Bossi-Fini con una riforma organica della legge sull’immigrazione che preveda ingressi regolari per ricerca di lavoro e possibilità di regolarizzazione su base individuale di chi è già qui a determinate condizioni. Una riforma necessaria e che è già sul tavolo, grazie alla proposta di legge di iniziativa popolare della campagna “Ero straniero”. della quale sono relatore nella commissione Affari costituzionali alla Camera. Il provvedimenti di modifica dei decreti sicurezza possono persino essere un veicolo per cominciare a inserire elementi che vadano in questa direzione. *Deputato Radicali +Europa “Basta guerra alla droga, ora costruiamo la pace” di Emanuele Di Nicola rassegna.it, 18 febbraio 2020 La presentazione alla Camera della Conferenza nazionale sulle droghe, il 28-29 febbraio a Milano. È urgente riformare la legge 309 del 1990, che ha imposto un approccio repressivo. Amerini (Cgil): “Serve un governo serio, non stigmatizzare le persone”. Dopo trent’anni di guerra alla droga adesso bisogna costruire la pace. Con questo slogan, che è anche una dichiarazione di intenti, si terrà la Conferenza nazionale sulle droghe a Milano il 28 e 29 febbraio, autoconvocata dai promotori (qui il sito ufficiale). “Prove generali per un governo alternativo”, si legge nel sottotitolo. Tante sono le organizzazioni a sostegno della due giorni, tra cui la Cgil che nella Conferenza si è sempre impegnata. Tra gli altri troviamo A Buon Diritto, Arci, Associazione Antigone, Associazione Freeweed, Associazione Luca Coscioni, Cnca, Conferenza dei Garanti delle persone private della libertà e molti altri. L’iniziativa è stata presentata oggi (17 febbraio) a Roma, in una conferenza stampa alla Camera. La “guerra dei trent’anni” riguarda la legge 309 approvata proprio nel 1990, che impose alle politiche sulle droghe in Italia un indirizzo soltanto punitivo. Le associazioni chiedono di cambiarla al più presto possibile, dando all’approccio sulle sostanze un’impronta di governo vero, uscendo dalla logica della repressione. A illustrare il senso della Conferenza di Milano è stata Denise Amerini, responsabile per le Dipendenze nell’area welfare della Cgil nazionale. “La legge compie trent’anni, oggi sono evidenti gli effetti che ha avuto - ha esordito -: la patologizzazione e lo stigma lanciato addosso alle persone, che è poi ricaduto su tutti coloro che lavorano nel settore. Si tratta di un approccio repressivo che ha portato a una grave regressione culturale. Basti guardare in questi giorni al caso di Verona: c’è una scuola che ha imposto i cani antidroga e perfino l’esame dell’urina per gli studenti”. Nel nostro Paese la percezione delle sostanze stupefacenti sconta una serie di stereotipi, indotti dalla politica e dai media, tanto che la cosiddetta “guerra alla droga” è tra le espressioni preferite dei giornali. “Siamo davanti a un progressivo indebolimento dei servizi - così Amerini -, che è dovuto proprio a come si ragiona rispetto alle sostanze: non si investe e non si valorizzano mai gli operatori. Alla mancanza di risorse si aggiunge poi il blocco delle assunzioni, negli ultimi anni i nuovi ingressi sono pochi e tutti precari”. Alla base, come detto, c’è un più vasto problema culturale: “Molte opinioni diffuse sono profondamente sbagliate: spesso si attribuisce a una sostanza un effetto che non ha, invece bisogna studiare prima di intervenire”. La Conferenza nazionale sulle droghe per legge è prevista ogni tre anni, eppure non si svolge dal 2009. “Per questo l’autoconvocazione è particolarmente importante - secondo Amerini -, chiediamo alla politica di assumere il ruolo che le spetta: affrontare il tema non in modo emergenziale, ma con strumenti seri. Vogliamo subito la riforma della legge 309. Bisogna poi legalizzare la cannabis, per favorire l’accesso alle cure per le persone, ma anche per migliorare l’economia e colpire la criminalità. Occorre capire che esiste un utilizzo controllato e molti usi della cannabis si sono normalizzati nella società attuale. Tutto questo - infine - aiuterebbe a combattere il sovraffollamento nelle carceri”. Tra i vari interventi alla presentazione c’è stato quello di Fabrizio Mariani, presidente del Cnca (Coordinamento nazionale comunità di accoglienza): “L’attuale legge sulle droghe è ingiusta perché impone un approccio punitivo: sono cresciute le morti per overdose, le persone in carcere, la quantità di eroina sul mercato. È necessaria una profonda riflessione legislativa, che deve passare anche attraverso l’offerta di servizi al passo coi tempi”. Così Alessio Guidotti, presidente di Itanpud, associazione di promozione sociale costituita da consumatori di sostanze: “La Conferenza accoglierà la voce dei consumatori. Nel Paese c’è una difficoltà a iniziare un percorso di questo genere: i consumatori vanno ascoltati, perché proprio loro sono al centro di una guerra inutile che ha fatto solo danni. Quindi devono portare le loro posizioni anche ai tavoli istituzionali”. Per Stefano Vecchio (Forum Droghe) “la legge 309 ha fallito anche negli obiettivi che si era posta: tutt’ora la presenza di sostanze fortemente diversificate è articolato, il mercato è vivo e si riorganizza continuamente. Inoltre nel 2018 il 35% dei detenuti italiani erano lì per violazione dell’articolo 73 della legge 309 (detenzione di sostanze stupefacenti, ndr), quindi con politiche di depenalizzazione si possono svuotare le carceri. Serve un cambio radicale, bisogna passare dalla colpevolizzazione al governo del fenomeno”. La Conferenza nazionale vuole redigere una “Carta di Milano” con le richieste da inviare alla politica. Appuntamento dunque il 28-29 febbraio nel capoluogo lombardo. Conferenza sulle droghe autoconvocata. “Serve un cambio di rotta” di Giovanni Augello Redattore Sociale, 18 febbraio 2020 Presentato oggi nella sala stampa della Camera dei deputati l’evento convocato da una vasta rete di soggetti della società civile. Appuntamento il 28 e 29 febbraio a Milano. “Avviare un dialogo per la riforma di una normativa sulle droghe palesemente inadeguata”. Undici anni di silenzio della politica sul tema delle droghe possono bastare. Dopo l’ultima conferenza nazionale sul tema tenutasi a Trieste nel 2009, una vasta rete di soggetti della società civile ha presentato questa mattina presso la sala stampa della Camera dei deputati la Conferenza nazionale autoconvocata per la riforma delle politiche sulle droghe che avrà luogo a Milano il 28 e 29 febbraio prossimi. Un appuntamento, spiegano gli organizzatori, voluto “per aprire un confronto con tutte le realtà Istituzionali, dei servizi pubblici e del terzo settore, con gli operatori e con le persone che usano sostanze ed avviare un dialogo per la riforma di una normativa sulle droghe palesemente inadeguata”. Mentre la Conferenza convocata dal governo manca da 11 anni (sebbene la legge 309 del ‘90 preveda che venga organizzata ogni tre anni), ha qualche anno in più sulle spalle la stessa normativa, ferma a trent’anni fa. “Gli effetti della legge sono sotto gli occhi di tutti - ha affermato Denise Amerini, responsabile Medicina di genere della Cgil nazionale -. Sappiamo gli effetti che ha avuto sul carcere, quelli che ha avuto sulle persone che fanno uso di sostanze e gli effetti che ha avuto nell’organizzazione dei servizi. In questi anni abbiamo assistito alla criminalizzazione delle persone e allo stigma anche degli operatori che lavorano nei servizi rivolti alle dipendenze”. Al mondo della politica la richiesta di prendere una posizione e “di assumere il tema delle droghe non in maniera esclusivamente emergenziale - ha aggiunto Amerini - di convocare la Conferenza e di istituire gli organismi previsti dalle norme. Già a marzo 2019 avevamo inviato una lettera di diffida al governo, lettera che non ha mai ricevuto alcuna risposta”. Per questo, ha aggiunto Amerini, a Milano “vogliamo discutere di come si possa produrre il cambiamento, di come pensare e agire politiche ufficiali nei confronti dell’uso e dell’abuso di sostanze”. Tra i tanti temi da affrontare nella Conferenza autoconvocata anche quello della riduzione del danno e della limitazione dei rischi. “La riduzione del danno è entrata nei livelli essenziali di assistenza ormai dal 2017 - ha aggiunto Amerini - ma ad oggi ben poco, troppo poco, è stato fatto riguardo a questa pratica che ha dimostrato ampiamente il proprio valore e la propria efficacia”. Di legge “ingiusta” e “inefficace”, riferendosi alla 309 del ‘90, ha parlato Fabrizio Mariani, del Cnca. “La legge sulle droghe attuale esprime un approccio securitario, punitivo e ha dimostrato in questi 30 anni la sua palese inefficacia - ha aggiunto Mariani -. Inefficacia che si è espressa anche con dati ed evidenze scientifiche, ma lo vediamo dalla stessa Relazione al Parlamento licenziata non molto tempo fa: un aumento delle morti per overdose, un aumento delle persone incarcerate per una interpretazione discrezionale dell’art. 73 della legge 309 e un aumento della disponibilità sul mercato dell’eroina così come un maggiore accesso in termini quantitativi da parte dei giovani delle nuove sostanze psicoattive”. Per questo, ha aggiunto Mariani, occorre “una profonda riflessione dal punto di vista normativo, dell’organizzazione e della messa a disposizione di servizi che possano correre al passo con i tempi - ha specificato -, con bisogni nuovi e correlati a nuove sostanze, nuove tipologie di consumo e nuove fasce di popolazione che consumano sostanze”. Altro tema su cui si lavorerà alla Conferenza autoconvocata di Milano sarà di sicuro quello della diffusione dei servizi sul territorio nazionale. “Attualmente in Italia c’è un’estrema frammentarietà - ha spiegato Mariani. Ogni regione ha un proprio sistema e una propria organizzazione. Come i servizi di riduzione del danno e limitazione dei rischi, centrali e strategici nel nostro lavoro, che tuttavia mancano in tutto il Centro Sud Italia. O come anche le misure alternative alla detenzione spesso e volentieri disattese per problemi dei territori”. Alla Conferenza autoconvocata non mancheranno i consumatori, come ha raccontato Alessio Guidotti, presidente di Itanpud, il network italiano delle persone che utilizzano droghe. “La presenza di una rappresentanza dei consumatori è sicuramente un grande punto di cambiamento - ha sottolineato Guidotti -. La voce dei consumatori che non è qualcosa di simbolico. Speriamo che questa conferenza sia un punto di partenza per avviare un percorso verso un cambiamento reale”. Della necessità di un “cambio di rotta radicale” nelle politiche ha parlato anche Stefano Vecchio del Forum Droghe, secondo cui è necessario passare “da politiche incentrate sulla patologizzazione a politiche centrate sul governo del fenomeno - ha aggiunto -. I fenomeni sociali vanno governati con politiche adeguate, così come accade a livello internazionale in molti paesi”. Tra gli interventi anche quello di Franco Corleone, garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Toscana e da sempre impegnato in prima linea sul tema delle droghe e delle dipendenze. Secondo Corleone, la questione delle droghe è stata “declinata nel mondo e in Italia come questione criminale - ha spiegato -. I dati sono imponenti: 1,3 milioni di giovani dal 1990 ad oggi segnalati alle prefetture, l’80% solo per essere stati colti nel fumare uno spinello. In carcere abbiamo oltre il 35% fra le presenze in carcere per violazione dell’art. 73 che riguarda la detenzione di sostanze stupefacenti”. A questi numeri, ha aggiunto Corleone, si aggiungono anche nuove preoccupazioni per il futuro. “A Milano dobbiamo lanciare una mobilitazione di tutti i soggetti interessati perché abbiamo dei rischi tremendi - ha spiegato Corleone -. Nella commissione Giustizia della Camera è incardinata la proposta Salvini per abolire la previsione dei fatti di lieve entità per quanto riguarda il cosiddetto piccolo spaccio. Significa che da 60 mila detenuti in carcere rischiamo di arrivare a 70 mila presenze di persone che non hanno alcuna ragione di essere incarcerate. Questo sarà uno dei temi della conferenza”. A chiudere la conferenza stampa l’intervento del deputato Riccardo Magi che ha ringraziato gli organizzatori della Conferenza autoconvocata di Milano per aver svolto “ancora una volta un ruolo di supplenza rispetto alle istituzioni”, ha spiegato Magi. “La conferenza triennale dovrebbe essere uno strumento fondamentale per il lavoro dei legislatori - ha aggiunto Magi. La conferenza, unitamente alle Relazioni annuali, è uno strumento essenziale per prendere atto dei risultati dell’applicazione della normativa e orientarsi in direzione di modifiche della normativa stessa”. Secondo Magi, sul tema delle droghe c’è una “banalizzazione”, una “strumentalizzazione”, ma anche una “rimozione”. “Veniamo da settimane di scontro sul tema della giustizia focalizzato unicamente sulla questione della prescrizione - ha sottolineato Magi -, chiedendosi poi come attuare misure deflattive rispetto ai processi e non si è discusso del motivo principale per cui le persone finiscono in carcere nel nostro paese. Questo dimostra tutta la distorsione che c’è da un punto di vista mediatico e di quello che si offre all’opinione pubblica”. Libia. “Tregua appesa a un filo”. Missione Ue per lo stop alle armi di Paolo Valentino Corriere della Sera, 18 febbraio 2020 Conferenza di Monaco, accordo (a metà) sulla linea italiana: monitoraggio aereo. L’embargo sulle forniture d’armi in Libia deciso dalla comunità internazionale alla Conferenza di Berlino “è diventato una barzelletta” e occorre “fare un salto di qualità”. Anche perché la situazione sul terreno, “nonostante alcuni segnali positivi, rimane molto preoccupante e la tregua è appesa un filo”. Parole chiare e drammatiche quelle di Stephanie Williams, vice del Rappresentante Speciale dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamè, al termine dell’incontro dei ministri degli Esteri dei Paesi che lavorano a una soluzione della crisi nord-africana. Ospitato dalla Germania in margine all’annuale Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, il vertice si è concluso con una dichiarazione comune, in cui i capi delle 13 diplomazie hanno rinnovato la loro “determinazione a contribuire alla piena applicazione dell’embargo”.Le ripetute violazioni al divieto di fornire armi alle parti in conflitto sono state denunciate dalle Nazioni Unite, senza tuttavia fare i nomi dei Paesi responsabili. Ma tutti sanno che si tratta soprattutto di Emirati Arabi ed Egitto sul fronte che appoggia i ribelli del generale Khalifa Haftar, e della Turchia su quello che sostiene il governo di Tripoli guidato da Fayez al Serraj. L’ostacolo maggiore - La dichiarazione di Monaco lascia aperta la questione cruciale sugli strumenti con cui l’embargo verrà sorvegliato e applicato, nonché sulle eventuali sanzioni per chi lo viola. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, presente alla riunione, ha detto che per renderlo efficace “ci vuole una missione dell’Unione europea che sia in grado di monitorare e bloccare l’ingresso delle armi nel Paese”. Della missione si parlerà oggi a Bruxelles al Consiglio Affari Esteri della Ue. Il maggior ostacolo è l’opposizione di Austria e Ungheria alla parte navale: Vienna e Budapest sostengono che una nuova operazione tipo “Sophia” (ma limitata al controllo delle forniture d’armi) finirebbe per riprendere i soccorsi in mare, incoraggiando nuove ondate migratorie. Ieri il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, ha lasciato intravedere una soluzione spiegando che “potrebbe non esserci bisogno di navi europee nel Mediterraneo, poiché tutte le vie, marine, terrestri e aeree, possono essere monitorate dal cielo”. A Bruxelles si parlerà anche di misure punitive: “Chiunque continuerà a violare il blocco - ha detto Maas - deve sapere che sarà individuato pubblicamente e sanzionato”. Il ministro ha annunciato che la prossima riunione dell’International Follow-up Committee, il gruppo che segue l’attuazione della road-map di Berlino, si svolgerà a Roma in marzo. L’Italia nell’E3 - A Monaco, l’Italia incassa comunque un importante successo diplomatico, con il prossimo ingresso, su proposta tedesca, nel formato E3, il gruppo europeo fin qui composto da Germania, Francia e Regno Unito, che si occupa del dossier iraniano. Sia Luigi Di Maio che il ministro della Difesa Lorenzo Guerini hanno espresso soddisfazione per questo riconoscimento al lavoro del nostro Paese nelle crisi internazionali. Libia. La barzelletta dell’embargo di armi di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 18 febbraio 2020 Dopo il consiglio dei ministri degli esteri dell’Ue sulla Libia, Luigi Di Maio si è detto contento: “Abbiamo trovato l’accordo per una missione che blocchi il flusso di armi; l’Ue si impegna con una missione navale, aerea e con disponibilità anche terrestre, per bloccare l’ingresso delle armi”. Un annuncio sul quale pesano però le profonde divisioni europee sull’accoglienza dei migranti - da parte di Austria e Ungheria e non solo - al punto che Di Maio si è affrettato ad aggiungere: “Se l’embargo stimolerà le partenze lo bloccheremo”. Come a dire che se il blocco delle armi non sia mai funzionasse e ne “approfittassero” i profughi disperati, allora meglio che la guerra continui. Sull’accordo pesa inoltre la forte incredulità delle Nazioni unite che, con Stephanie Williams, vice dell’inviato speciale Onu Ghassan Salamè, ha dichiarato che “l’embargo sulle armi in Libia è una barzelletta”, segnalando 150 violazioni della tregua. Perché al colto e al profano una cosa è chiara: se si vuole davvero avviare un embargo di armi alla Libia, in guerra intestina tra fazioni eredi del disastro della guerra Nato del 2011 prima e poi del conflitto per procura - vista la quantità di interessi e di Stati coinvolti - tra il governo “riconosciuto” di al Serraj a Tripoli e quello della Cirenaica del generale Haftar, quel che si deve concretamente fare è bloccare l’export di armi verso il Paese in guerra. E avviare una politica di decrescita del mercato mondiale delle armi, visto che armamenti e guerre si espandono come un’epidemia. E per il quale, il bilancio dell’export italiano è di circa 5 miliardi di euro l’anno, con circa la metà destinata ai Paesi del Nord Africa come la Libia e il Medio Oriente. Allora, come si fa ad embargare le armi se il Paese proponente, vale a dire l’Italia, è tra i principali fornitori dei fronti che sul terreno libico si contrappongono? Il rischio della barzelletta è davvero fortissimo. Perché l’alleato Turchia, baluardo Nato con Trump al suo fianco, traffica in armi atlantiche con noi e con l’area mediorientale, e allo stesso tempo non lesiniamo certo commesse militari all’Egitto anzi, grazie alla nostra ambasciata diventata un fortilizio d’affari, implementiamo nuove forniture (in navi ed aerei) in questi giorni per 9 miliardi di dollari. Ora il ministro Di Maio dichiara finita la missione Sophia” e parla di una nuova missione “navale, aerea e con disponibilità anche terrestre”. Ma quali forze aeree e con quale legittimità bloccheranno cargo volanti con armi atlantiche alle forze turche dislocate a Misurata, oppure armi russe alle forze egiziane che fanno arrivare armamenti - con i fondi delle monarchie del Golfo invise ai Fratelli musulmani - al governo in Cirenaica, sul fronte di Misurata ma dall’altra parte “nemica”? E ancora, quali “scarponi a terra” controlleranno i confini della Tunisia, dell’Egitto, dell’immensa area del Sahel, da Mali, Niger, Ciad (per una frontiera di più di 5mila chilometri? E per finire, come verrà punito il Paese che violerà l’embargo? Il vero embargo di armi dovrebbe partire dallo stop ai traffici “legali” dei principali Paesi impegnati a soffiare sul fuoco della guerra in Libia. Paesi come gli Stati uniti che con Trump sono corsi a portare in dote alla “democratica” monarchia dei Saud - schierata con Haftar - un arsenale di armamenti per il valore di 100 miliardi di dollari. Non è chiaro dunque in che modo questo “accordo” di facciata possa mai arrivare al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, evitare una litania di veti contrapposti e diventare così una reale, quanto necessaria, missione di blocco della guerra. Un elemento è subito evidente. Che l’Italia del nuovo governo giallo-rosa, persegua “a sua insaputa” la stessa politica estera strumentale che, dallo scranno di ministro degli interni, dirigeva Matteo Salvini, soprattutto prono ai ricatti degli Stati uniti e delle loro strategie per il Medio Oriente. Dove scopriamo che l’Italia non fa parte del gruppo che in Europa in queste ore si sta costituendo per rilanciare per la Palestina la legittimità internazionale delle Risoluzioni Onu che parlano di “due Stati” e per dire no “all’accordo del secolo” con il quale Trump consegna definitivamente i Territori occupati palestinesi nelle mani dello Stato d’Israele, delle sue colonie e del suo Muro, senza possibilità d’appello se non l’accettazione di bantustan e apartheid. Un’Italia che s’affida più all’”eccellenza” della produzione e import-export di armi che non ai diritti umani, come dimostra il silenzio governativo e non solo sull’arrivo “normale” della nave Bahri Yanbu nel porto di Genova con il suo carico di morte destinato allo schieramento alleato saudita nella guerra in Yemen, le cui vittime sono soprattutto miglia di civili. Allora, che senso ha riempire allegramente di armi un’altra insanguinata terra mediorientale e annunciare l’embargo a chiacchiere per la guerra in Libia che ci preoccupa solo perché temiamo l’arrivo dei profughi disperati, ormai bersaglio dei combattimenti, e per le sue decisive fonti energetiche ? “La più grande struttura dell’ingiustizia è la stessa industria della guerra”: possibile che l’affermazione sia del papa e non il tema centrale delle piazze, delle convention della sinistra e dei sindacati? Turchia. Il “sultanato” di Erdogan fabbrica della repressione di Ezio Menzione* Il Dubbio, 18 febbraio 2020 Oppositori politici, giornalisti, avvocati nel mirino del leader. Talora l’autoritarismo di un regime lo si valuta appieno mettendo insieme grandi e piccoli casi, iniziative legislative ed iniziative giudiziarie, distorsioni delle pratiche amministrative e regolamenti, da quelli più importanti, a quelli apparentemente impolitici, solo amministrativi. Si tratta spesso di costellazioni di elementi, che magari fanno emergere qua e là punti di resistenza, perché una connotazione complessivamente autoritaria non riesce mai a impedire che si mostrino anche elementi di resistenza: soprattutto quando questo autoritarismo si connota per migliaia di processi contro altrettanti oppositori, per il solo fatto di avere mostrato e dimostrato le ragioni del proprio dissenso e per ciò stesso essere stati condannati ad anni ed anni di carcere. Qui vogliamo prendere in considerazione recenti fatti e “fatterelli” molto significativi nel dimostrare il clima che ancora e sempre più si vive in Turchia, anche al di là della crisi economica che sta impoverendo i ceti più bassi della società e dei due gravissimi interventi bellici: nel nord della Siria ed in Libia. Il massacro di Sivas - Il 2 luglio 1993 a Sivas, una città dell’Anatolia centro settentrionale, una folla fanatica e inferocita di circa 20.000 persone appiccò fuoco all’Hotel Madimak, dove un folto gruppo di intellettuali di religione alevita (una minoranza mussulmana) stava celebrando la loro più importante festa annuale, il Pir Sultan Abdal. Polizia e vigili del fuoco, pur presenti, non fecero assolutamente nulla. I morti nel rogo furono 37, fra cui 2 dipendenti dell’albergo e due fra gli attentatori: 33 gli intellettuali aleviti periti nelle fiamme. I feriti non si contarono nemmeno. Si celebrò poi il processo e 31 attentatori furono condannati a morte. Tale condanna fu poi commutata con l’ergastolo quando nel 2003 fu abolita la pena di morte. Il 20 gennaio di quest’anno Erdogan ha graziato uno dei 31 attentatori detenuti per ragioni di età (86 anni) e di salute, come prevede l’art. 104 della costituzione turca. Altri degli attentatori di allora sarebbe intenzionato a graziarne. Non sono mancate le proteste sui media, che notano come nelle carceri turche siano detenuti centinaia di ultra-ottantaseienni in pessime condizioni di salute e per reati molto più lievi e non si vede perché ad essi la norma costituzionale non si applichi. Femminicidi - Si calcola che nel 2019 in Turchia siano stati consumati 479 femminicidi. Le statistiche in questo campo sono molto difficili e tendono sempre a dare numeri inferiori al reale, per ovvii motivi. Ma il numero è allucinante, sol che si pensi che in Italia annualmente vengono uccise, in media, 120 donne: anche qui, con conteggi che tendono a diminuire, ed in ogni modo in linea con gli anni precedenti. Il fenomeno delle “spose bambine”, cioè delle ragazze o addirittura bambine che vengono fatte sposare utilizzando il rito della sharia, laddove invece la legge nazionale considererebbe ciò violenza sessuale (purché la donna rimanga incinta), ammonterebbe a circa mezzo milione negli ultimi dieci anni. In questo contesto il governo ha rilanciato il progetto di legge sul “matrimonio riparatore” della violenza perpetrata, purché la differenza di età fra la stuprata e lo stupratore non superi i dieci anni. Si dice: così si va a sanare il disagio di mille situazioni che soprattutto in zone rurali si vanno determinando. Agli occhi delle donne turche la legge non sarebbe altro che un via libera allo stupro delle minorenni. Non solo in campagna, si legga il meraviglioso romanzo “La Bastarda di Istanbul” di Elif Shafak. L’intervento in Siria - Non si hanno notizie precise su quanti possano essere i fermati per attività antistatali in occasione dell’aggressione turca nel nord della Siria nell’estate scorsa (e ancora perdurante): Una prima ricognizione avrebbe individuato 186 fermati, di cui 24 poi arrestati per “propaganda al terrorismo” e “degrado dello stato”. Si tratterebbe soprattutto di bloggers o semplicemente di chi, sui social media, aveva criticato tale intervento. I processi non sono ancora cominciati. Nessuno parla dei 700.000 sfollati dalla zona di Idlib da dicembre ad oggi (dati Onu), attualmente attendati alla meno peggio con una temperatura di - 11°: e sono in maggioranza donne e bambini: Men che meno si sa quale sia stata la reazione repressiva alle critiche al recente intervento in Libia. Basti pensare che filtrano con difficoltà anche le notizie sulla morte di soldati turchi in quell’area. Le manifestazioni degli avvocati - Ogni giovedì mattina, dinnanzi al grande Tribunale di Istanbul si svolge una manifestazione di avvocati che protestano per gli innumerevoli arresti e per le condanne di altri colleghi. Si tratta di una manifestazione molto civile che si tiene da ormai molti mesi, intitolata Justice Watch, in cui qualche collega prende la parola in mezzo a una selva di foto e manifesti dei colleghi detenuti. Un autorevole e anziano collega è intervenuto uno degli ultimi giovedì ed è stato incriminato per propaganda al terrorismo per avere iniziato a parlare col megafono per raccogliere gli altri colleghi di fronte all’entrata. Gezi Trial - Il “Processo Gezi”, che ormai sta muovendo verso la fine del primo grado, vede come imputati una decina di esponenti delle professioni (c’è anche un avvocato, un architetto, alcuni imprenditori eccetera) e della Istanbul bene: per questo ha un’eco mediatica molto forte e non può essere “silenziato”, come invece accade normalmente per i processi contro tutti gli altri oppositori. Tutti gli imputati debbono rispondere di avere ispirato e istigato alla rivolta nei giorni della protesta di Gezi Park: eravamo nell’estate del 2013. Niente di più falso, naturalmente, perché se mai ci è stata una protesta del tutto spontanea, questa fu Gezi Park. Ciò non ha impedito al Pubblico Ministero di chiedere l’ergastolo per due imputati e pene severissime per gli altri. La Corte Costituzionale - Sono interessanti i numeri riguardanti i ricorsi alla Corte Costituzionale dal 2012, data dell’inizio del funzionamento della Corte, alla fine del 2019. Di 254.00 ricorsi ne sono stati esaminati 211.000 con un 89% di inammissibilità; del restante 11% il 6% sono rigetti per motivi procedurali e solo il 4% (pur sempre più di 8.000) investono violazione di almeno un diritto. Il 52% riguarda il diritto ad un giusto processo; il 30% il diritto di proprietà; il 7% la libertà di espressione e il 3% il diritto al rispetto della libertà privata. I numeri sono interessanti, tenendo presente che l’accesso alla Corte è diretto, e non mediato dall’accettazione di un giudice come avviene, per esempio, da noi. Essi ci danno l’idea di una Corte Costituzionale abbastanza attiva e relativamente slegata dai diktat governativi. Da un lato la Corte ha rigettato proprio in questi giorni un ricorso contro il folle progetto (ormai vicino all’inizio dei lavori) del Canale Istanbul (quello noto come il secondo Bosforo) adducendo che si tratta di un progetto di competenza dei poteri legislativo ed esecutivo, ma sorvolando che esso ha implicato la modifica di 32 articoli di 20 leggi. Per non dire che la Valutazione di Impatto Ambientale è stata affidata ad una società il cui amministratore, pur avendo riportato condanne varie per un totale di 5 anni di prigione, è risultato vincitore di appalti per centinaia di milioni di euro. Dall’altro però è lei che ha giudicato come diritto di espressione quello esercitato da più di 2000 Accademici per la Pace che firmarono un manifesto contro l’aggressione militare ad Affrin. Sempre lei ha statuito, ad inizio 2018, in linea con quanto affermato dalla Cedu, che il noto intellettuale Mehmet Altan doveva essere rilasciato per avere esercitato il proprio diritto di espressione e stampa, anche se due corti di merito si sono rifiutate di ordinare il rilascio sostenendo che “adempiere automaticamente all’ordine emesso dalla Corte Costituzionale viola il diritto all’indipendenza dei giudici”, finché non intervenne la Corte di Cassazione che nel novembre 2019 assolse e conseguentemente liberò l’intellettuale. Proprio in questi giorni la stessa Corte Costituzionale si è pronunciata sui possibili conflitti fra sè e i giudici di merito, statuendo che le sue pronunce valgono di fronte ad ogni giudice del processo. Insomma una Corte non del tutto succube dei voleri dell’esecutivo. *Osservatore Internazionale per l’Ucpi Egitto. Caso Zaky, Saviano: “Diamogli cittadinanza italiana, è in carcere a causa delle sue idee” di Monica Rubino La Repubblica, 18 febbraio 2020 L’appello dello scrittore su Twitter. Cirinnà e altri senatori Pd chiedono a Casellati una missione in Egitto. La lettera è già sul tavolo della presidente del Senato. La senatrice dem: “Chiediamo di verificare le condizioni di detenzione del ragazzo, ma vogliamo dare supporto anche ai suoi familiari e agli avvocati”. E punta il dito contro la presidente leghista della Commissione diritti civili. Diamo la cittadinanza italiana a Patrick Zaki, incarcerato in Egitto a causa delle sue idee. L’Italia deve tutelarlo affinché possa tornare a Bologna, nella sua università, tra i suoi amici e colleghi, nel Paese che già l’ha accolto e che non vede l’ora di riabbracciarlo”, così su Twitter lo scrittore Roberto Saviano, sul caso di Patrick Zaky, il giovane egiziano allievo del master internazionale in Women’s and Gender Studies presso l’Università di Bologna arrestato il 7 febbraio al suo rientro in Egitto. “Diamo la cittadinanza italiana a Patrick Zaki, incarcerato in Egitto a causa delle sue idee. L’Italia deve tutelarlo affinché possa tornare a Bologna, nella sua università, tra i suoi amici e colleghi, nel Paese che già l’ha accolto e che non vede l’ora di riabbracciarlo”, così su Twitter lo scrittore Roberto Saviano, sul caso di Patrick Zaky, il giovane egiziano allievo del master internazionale in Women’s and Gender Studies presso l’Università di Bologna arrestato il 7 febbraio al suo rientro in Egitto. L’appello dello scrittore coincide con la manifestazione organizzata a Bologna, dove migliaia di persone, con in testa il sindaco Virginio Merola e il rettore. Intanto, sulla vicenda, la senatrice del Pd Monica Cirinnà dà la sveglia alle istituzioni. E manda alla presidente del Senato Elisabetta Casellati una lettera - firmata anche da altri quattro senatori dem - per chiedere una missione in Egitto allo scopo di andare a visitare il giovane, trattenuto in carcere a Mansura con l’accusa di “rovesciamento del regime al potere”. Accusa per la quale la pena, secondo la legge egiziana, è la prigione a vita. “Dal giorno dell’arresto si susseguono notizie - si legge nella missiva firmata anche da Luigi Zanda, Alessandro Alfieri, Roberto Rampi e Franco Mirabelli - di torture ed episodi di violenza ai danni del giovane e, in occasione dell’udienza di ieri, è stato reso noto che egli si trova attualmente recluso in una cella con altri 35 detenuti e non ha modo di incontrare i propri familiari se non per brevissimi momenti. Inoltre, come dichiarato dai legali e dalla famiglia, non si ha certezza alcuna sulla effettiva consistenza delle accuse, così come sulla durata delle indagini e del processo. La vicenda sta destando grave preoccupazione e, sia in Egitto che in Italia, è in corso una mobilitazione di singoli e associazioni che chiedono di tenere alta l’attenzione sul caso, il quale rievoca tristemente la drammatica fine di Giulio Regeni. Anche il Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha chiesto l’immediata scarcerazione del giovane. Pertanto ci rivolgiamo a Lei nella certezza che voglia autorizzare una delegazione di senatrici e senatori a recarsi in Egitto per potere, d’intesa con la rappresentanza diplomatica italiana, visitare la famiglia di Zaki, interloquire con i suoi legali e, se le condizioni lo permetteranno, visitarlo in carcere”. La senatrice dem, da sempre in prima linea nella difesa dei diritti civili, raggiunta da Repubblica aggiunge: “L’emergenza è andare non solo a verificare le condizioni di detenzione di Zaky ma anche dare supporto ai familiari e ai difensori del ragazzo, perché il regime inibisce il diritto di difesa e arresta anche gli avvocati. Non si possono avere relazioni economiche e commerciali con l’Egitto quando i diritti umani vengono calpestati. La lettera è già sul tavolo di Casellati, speriamo che la nostra richiesta venga accolta quanto prima anche di concerto con la Farnesina, benché si tratti di un’iniziativa parlamentare”. Cirinnà inoltre punta il dito contro la leghista Stefania Pucciarelli, che presiede la commissione Diritti umani di Palazzo Madama. “C’è grande insoddisfazione rispetto a una latenza della commissione sui grandi temi. Vengono fatte solo audizioni e non viene mai proposta alcuna iniziativa. Confidiamo nel fatto che tra un mese bisognerà rinnovare le presidenze di tutte le commissioni”.