L’educazione è digitale. Un progetto itinerante rivolto ai detenuti di Marzia Paolucci Italia Oggi, 17 febbraio 2020 Tim e ministeri insieme: coinvolti 400 formatori, pmi, dipendenti. In un quadro che ci vede ancora indietro nelle classifiche europee per l’utilizzo dei servizi digitali nonostante l’elevato livello di infrastrutture, parte “Operazione risorgimento digitale”. Un progetto di educazione digitale rivolto ai detenuti e itinerante per 107 province italiane fi rmato il 6 febbraio 2020 dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della giustizia, Francesco Basentini e dal Chief public affair offi cer di Tim, Alessandro Picardi. Coinvolti 400 formatori, un milione di cittadini, piccole e medie imprese e dipendenti pubblici. Una partnership tra pubblico e privato per l’avviamento durante la detenzione di percorsi di formazione professionale e di orientamento alle competenze digitali in linea con le ultime tendenze tecnologiche utili al loro reinserimento nel mercato del lavoro. La prima applicazione dell’intesa prevede la partecipazione di detenuti della Casa di reclusione di Milano Opera allo svolgimento di attività di formazione professionale e assistenza tecnica sui prodotti di rete fissa commercializzati da Tim grazie a un accordo che Tim ha siglato con la società Service Trade. Il progetto si rivolge a detenuti selezionati tra quelli a bassa pericolosità e con pene ridotte, dopo un periodo di affiancamento finalizzato a renderli del tutto indipendenti nello svolgimento dell’attività, avrà inizio il lavoro di assistenza tecnica vera e propria. Ma l’iniziativa lanciata a via Arenula il 6 febbraio scorso fa parte di un progetto più ampio lanciato da Tim verso il mondo dell’industria, delle istituzioni, dell’associazionismo di categoria e del terzo settore per dare la possibilità a tutti di diventare “cittadini di internet”. Il progetto realizzato in collaborazione con la Commissione europea e la Polizia di stato con la partecipazione degli operatori della polizia postale e delle comunicazioni aderisce al Manifesto della repubblica digitale promosso dal ministro dell’innovazione e ha il patrocinio dell’Anci. In particolare hanno aderito Google, Cisco, Hewlett Packard Enterprise, Huawei, Zte, Lenovo, Samsung, Nokia, Ericsson, Accenture, Engineering, Ntt Data, Dell, Qualcomm, Oppo, Sap, Adobe, Manpower, Xiaomi, Arthur D. Little, Pricewaterhouse-Coopers, Boston consulting group oltre a Inwit e Olivetti. L’iniziativa ha inoltre ottenuto il sostegno di associazioni di categoria, terzo settore e importanti attori nel campo dell’innovazione sociale che affiancheranno Tim nel percorso di trasformazione digitale del paese mettendo a disposizione competenze e know-how specifici. Un programma formativo che prevede anche l’aggiornamento digitale dei dipendenti dei ministeri coinvolti: pubblica amministrazione, istruzione e della stessa giustizia. Il progetto “Operazione risorgimento digitale”, partito l’11 novembre da Marsala, ha attraversato fi no ad oggi tutte le province siciliane e ora sta percorrendo la Calabria per un totale di quattro settimane di corsi in ciascuna città toccata dal tour: la prima settimana con 10 brevi sessioni formative da meno di un’ora per imparare ad utilizzare i principali servizi digitali e le tre settimane successive con un programma di 3 moduli da 2 ore per navigare e trovare informazioni online, comunicare, condividere informazioni online. Dal 24 febbraio, diventano così tre ogni settimana le “scuole di Internet” per raggiungere simultaneamente tre città di regioni diverse, grazie all’impiego di due nuove “scuole mobili” che si andranno ad aggiungere a quella attualmente già utilizzata nelle piazze. È possibile iscriversi ai corsi e chiedere ulteriori informazioni sia attraverso il numero verde dedicato 800 860 860 sia online sul sito https://operazionerisorgimentodigitale.it/ arricchitosi di nuovi contenuti e dell’accesso alle video-pillole “Lezioni di Internet in 100 secondi” di Salvatore Aranzulla, famoso divulgatore di temi tecnologici: connessione e Wi-Fi, browser di navigazione, ricerche online, invio di e-mail, utilizzo dei social network, applicazioni, Spid e servizi di e-government, home banking. Cartabia: “Il carcere dia al detenuto una seconda chance” Il Dubbio, 17 febbraio 2020 Parla la presidente della Corte Costituzionale: “La Carta illumina anche i luoghi più remoti della società”. “La giustizia deve sempre esprimere un volto umano” e “bilanciare le esigenze di tutti” ed “ è evidente che i processi troppo lunghi si tramutano in un anticipo di pena anche se l’imputato non è in carcere”: lo ha affermato, la presidente della Corte costituzionale, Marta Cartabia, in un’intervista a Repubblica. “Il carcere - ha poi aggiunto la presidente Cartabia - rispecchi il volto costituzionale della pena e dia al detenuto una seconda chance, partendo dal luogo più remoto della società qual è appunto il carcere, la Corte sta portando la Costituzione ovunque. Perché la Costituzione e i suoi valori vivono e muoiono nella società”. Sulla Spazzacorrotti, Cartaba ha sottolineato che “la Corte ha semplicemente applicato uno dei principi fondamentali della civiltà giuridica in materia penale che vieta l’applicazione delle leggi più severe ai fatti commessi prima della loro entrata in vigore”. “La Spazza-corrotti ha inasprito il regime penitenziario per i reati contro la pubblica amministrazione, assimilandoli a quelli di criminalità organizzata e terrorismo, ed è stata applicata anche ai reati commessi prima della sua entrata in vigore”, ha osservato. “La nostra decisione ha colpito non la legge, ma la sua interpretazione retroattiva, con una sentenza che tecnicamente definiamo ‘interpretativa di accoglimento’“, ha osservato. La presidente della Consulta ha assicurato che “la Corte non agisce mai come l’avversario politico di una parte. La Corte è garante della Costituzione, che è la casa comune di tutti, come diceva Giorgio La Pira”. E sul dibattito sulla riforma della prescrizione, senza entrare nel merito ha osservato che “è evidente che i processi troppo lunghi si tramutano in un anticipo di pena anche se l’imputato non è in carcere”. Quando la giustizia è una cura di Luigi Manconi La Repubblica, 17 febbraio 2020 La forza letteraria del bellissimo racconto di A Raymond Carver “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”, (1981) si annuncia già nella sorprendente elementarità del titolo, che riporta tutto un mondo di emozioni e di pensieri al fondamento primo della passione. Non mi sembra una troppo ardita associazione mentale, suggerire come titolo dell’intervista rilasciata da Marta Cartabia a Liana Milella di Repubblica la seguente versione “di cosa parliamo quando parliamo di Giustizia?”. La giustizia, dunque, come pretesto per mille altre storie e, allo stesso tempo, come intreccio delle contraddizioni e delle sofferenze di una società complessa. Per ritrovare tutto ciò nella concretezza della nostra vita collettiva, potremmo ricorrere alla cronaca di un arco temporale ormai vicino ai trent’anni, ma limitiamoci a un periodo assai più breve. A partire dal settembre 2019 fino a oggi, è stato il tema della giustizia a dominare incontrastato l’intero panorama nazionale, costituendo la principale materia del conflitto politico e delle controversie tra le istituzioni. Questo pone due interrogativi: quando si dibatte di giustizia, qual è effettivamente la posta in gioco? E poi: se l’amministrazione della giustizia è questione così lacerante (come l’amore?) cosa c’è al fondo di essa? Marta Cartabia, prima donna presidente della Corte Costituzionale, offre significative risposte. Lo fa, partendo da un caso particolare: quello di una reclusa, alla quale è stata negata la detenzione domiciliare per assistere la figlia con disabilità, in quanto quest’ultima ha superato il limite d’età previsto. Con una sentenza, scritta dalla stessa Cartabia, la Consulta ha stabilito che l’età anagrafica della figlia non può impedire la detenzione domiciliare della madre. Solo uno sciocco o chi mai ha avuto esperienza del dolore può ritenere che si tratti di una decisione minore, o dell’espressione di una sorta di “giustizia compassionevole”. Al contrario, in quella sentenza c’è tutta una concezione della giustizia e della pena che indica un’idea innovativa del diritto e dei diritti. Non si tratta propriamente di una svolta. Emerge una certa continuità nella giurisprudenza della Corte e si avverte il forte impulso impresso dal precedente presidente, Giorgio Lattanzi. Si deve a questi quel “Viaggio in Italia” che ha permesso ai membri della Consulta di visitare le nostre disgraziate carceri. (Ma non sarebbe la cosa più sensata del mondo che una simile esperienza fosse materia curriculare della formazione del magistrato?). In una prospettiva generale, poi, la presidente, indica i principi che dovrebbero orientare l’amministrazione della giustizia: “Proporzionalità, flessibilità e individualizzazione della pena”. Una denuncia limpida delle pene eccessive, di quelle fisse, di quelle che non possono essere modificate nel corso della loro esecuzione. E dei meccanismi di automatismo nella valutazione e nell’entità della pena. Alla radice si trova una cultura giuridica che sa e vuole scommettere sempre sull’uomo e sulla sua capacità di trasformarsi e di emanciparsi dal crimine. La giustizia, dunque, deve sempre guardare al futuro, non cristallizzando (“non pietrificando”, dice la Cartabia) né il reo né la società nel momento di lacerazione manifestatosi con il reato. Si devono rendere possibili piuttosto quelle figure della riparazione e della riconciliazione capaci di suturare la ferita prodotta dal reato. Solo ciò può permettere la “condivisione” della pena, dei suoi effetti e degli oneri che gravano sulla società. In altre parole, la collettività intera è chiamata ad assolvere quell’obbligazione che l’esecuzione della sanzione comporta per tutti i soggetti, allo scopo di realizzare il reinserimento sociale previsto dalla nostra Costituzione e così indispensabile ai fini della sicurezza pubblica. Nell’intervista, il tema più delicato, quello della prescrizione, è ovviamente richiamato, ma (chi scrive offre la sua soggettiva interpretazione) come se fosse successivo e interno a quello, che risulta prioritario, della “ragionevole durata dei processi”. Di conseguenza l’attenzione della presidente si concentra sulle misure di breve e medio termine, le uniche in grado di evitare che i processi troppo lunghi “si tramutino in un anticipo di pena anche se l’imputato non è in carcere”. Preme evidenziare, infine, che quella delineata dalla Cartabia è un’idea di giustizia, che non è definibile secondo le convenzionali categorie di destra e di sinistra e che sembra, piuttosto, discendere dalla migliore cultura giuridica liberale e garantista, laica e cattolica (viene ricordato Giorgio La Pira, ma non è difficile scorgervi il pensiero di Aldo Moro); e che rivela la fisionomia di Valerio Onida, del quale la Cartabia è stata allieva e di interlocutori quali Gustavo Zagrebelsky, cui si deve la definizione di “diritto mite”, ben presente in alcuni passaggi di questa intervista. Non è poco in tempi che molti vorrebbero “di ferro e di fuoco”. Le toghe moderate ora attaccano Bonafede: “La riforma ha ucciso il processo penale” Il Dubbio, 17 febbraio 2020 Magistratura Indipendente contro le azioni disciplinari a carico dei pm che non rispettano i tempi. Magistratura Indipendente, la corrente moderata delle toghe - fino a qualche tempo fa associazione di riferimento di Piercamillo Davigo - esprime “profondo dissenso rispetto allo schema di disegno di legge del Governo sul processo penale varato dal Consiglio dei ministri” che “pur recependo alcune delle proposte di riforma da sempre avanzate da Magistratura Indipendente, come la modifica delle norme in tema di notifiche, la digitalizzazione del processo, l’ampliamento delle possibilità di ricorso ai riti alternativi, interviene soprattutto sulla durata dei processi, sui tempi delle indagini e sulle sanzioni disciplinari dei magistrati, con previsioni che potranno avere un impatto devastante sulla magistratura”. Per Mi, “siamo di fronte alla cronaca di una morte annunciata del processo penale, a una riforma che dell’efficienza del processo penale e della sua celere durata ha solo l’etichetta, proclamata in modo propagandistico dall’attuale Governo. Imporre termini rigidi per la durata delle indagini preliminari e per la durata del processo, prevedendo sanzioni disciplinari a carico dei magistrati in caso di loro mancato rispetto, così come riversare sul dirigente dell’ufficio scelte organizzative che competono alla politica, al fine di assicurare una celere durata dei processi, sono misure che non realizzano alcun nuovo assetto della situazione attuale e dimostrano, ancora una volta, la mancanza di conoscenza dei reali problemi che affliggono il mondo della giustizia e l’incapacità della politica di farsene carico”. Mi avverte che “sarà inevitabile il rischio di eccessiva responsabilizzazione del dirigente dell’Ufficio, con un ripiegamento di tale ruolo verso un modello tecnocratico di natura manageriale. Per poter esercitare con credibilità e autorevolezza la funzione di amministrazione della giustizia il dirigente deve essere coinvolto nell’attività giurisdizionale: i capi devono continuare ad essere giudici e pubblici ministeri vicini a tutti i colleghi che hanno chiesto di dirigere”. Inoltre, “nel disegno di legge, è stato inserito il cosiddetto Lodo Conte bis, che prevede il blocco della prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado, mentre per chi viene assolto la prescrizione continua a decorrere. Questo intervento di riforma contribuirà ad appesantire i carichi di lavoro con devastanti ricadute per le Corti d’Appello e per la Corte di Cassazione, gravate da un peso ormai insostenibile. A fronte di ciò, è del tutto inadeguata la previsione di inserire i giudici ausiliari nelle Corti d’Appello per il settore penale: è noto che analoga misura ha prodotto effetti deflattivi molto limitati nel settore civile”. Mi ritiene che occorre “pensare a una riforma organica del processo penale che individui e rimuova le cause strutturali che ne determinano l’endemica lentezza. Concepire una riforma del processo penale senza dotare il sistema giudiziario delle risorse umane, materiali e organizzative che rappresentano l’effettiva attuazione del principio costituzionale del giusto processo finirà per essere una riforma non per ma contro tutta magistratura. Sorprende, sempre per Mi, “quanto tiepida e del tutto inconsistente sia stata, in questo iter, l’azione di contrasto dell’attuale giunta dell’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, composta da Area, Unicost e Ai. In questi mesi che hanno preceduto l’annunciata riforma l’Anm e la sua giunta dov’erano? Come hanno interloquito? Come hanno mediato? - si chiede - È evidente che le interlocuzioni che ci sono state si sono rivelate del tutto insufficienti”, visto che “solo ieri la giunta, con un comunicato formalmente indignato, stigmatizza il disegno di legge, senza comunque contrastare adeguatamente il complessivo impianto della riforma”. Per Mi, “l’inesistenza di una efficace azione di contrasto dell’Anm, anche nell’immediatezza dell’approvazione del testo con i suoi articolati più devastanti, rivelano una incapacità politica della giunta nella difesa delle prerogative della magistratura tutta e, con essa, del servizio giustizia. Non si può consentire che si sgretoli ogni giorno la capacità dissuasiva e propositiva della magistratura italiana contro i tentativi di delegittimazione da qualunque parte e forza politica provenienti. Dunque, “è necessario che l’Anm si intesti una battaglia chiara, netta, su principi non negoziabili che riguardano il diritto di ciascuna parte del processo, vittima o imputato, a un giudizio giusto e celere e il diritto dei giudici a lavorare nella normalità, senza stress da produttività, per poter garantire la ragionevole durata dei processi”. Prima di abolire la prescrizione fate lavorare meglio i giudici di Pier Luigi del Viscovo Il Giornale, 17 febbraio 2020 Il dibattito sulla prescrizione nasconde un importante tema di cultura economico-sociale. Della prescrizione in sé, la capacità del sistema di perseguire i delinquenti, non interessa a nessuno degli attori sul palco, questo è ovvio. Per ognuno è una bandiera. L’hanno piantata i 5S, per soddisfare il sangue forcaiolo dei loro elettori, che vivono raccontandosi che non hanno colpe e i loro guai sono addebitabili ai corrotti e ai poteri forti, un’entità sociale non meglio definita. Col beneplacito della Lega, a cui non interessava all’epoca più di tanto polemizzare, occupata com’era a fornire ai suoi sostenitori un alibi diverso, quello dell’attacco allo Stato portato da alcuni disperati. Neanche notata dal Pd, in quanto bandiera né radical né chic. Ora Renzi cerca di divellerla, per farsi notare dai moderati anti- Pd come potenziale sequel di Forza Italia. Chi l’ha piantata sostiene di voler assolutamente processare e condannare i colpevoli, mentre chi vorrebbe sradicarla, la bandiera, sostiene la civiltà di non tenere un imputato appeso sine die. Come si vede, entrambi puntano il dito sul reo. Sarebbe presunto, e non è un dettaglio, ma lasciamo stare. Questa impostazione è un segno di inciviltà, non giuridica ma sociale, di quel contratto sociale tra i cittadini e lo Stato, che si incarica di perseguire i crimini, evitando il Far West. Affinché possa farlo, i cittadini pagano le tasse. Detto diversamente, la sentenza definitiva, di assoluzione o di condanna, è già pagata e deve solo essere consegnata, dal sistema giudiziario alla comunità. Dunque, un dibattito civile, anche se con sventolio di bandiere, dovrebbe puntare il dito sul vero elemento difettoso: un sistema incapace di giudicare e sentenziare. Ora, per quanto affascinante sia per la pubblica opinione farsi coinvolgere nelle diatribe tecniche, sul perché il sistema non arrivi a dama, dove sia l’inghippo e chi si metta di traverso, se manchino le persone o solo non lavorino in maniera efficace, anche questo diventa un segno di inciviltà sociale. Se prendi i soldi per darmi giustizia, giustizia esigo. Non spiegazioni e motivazioni. Quando è dovuto un versamento fiscale, lo Stato non accetta spiegazioni su quanto carico di lavoro abbia la persona che deve effettuarlo, se sia ammalata o sia andata via la corrente e nemmeno se abbia o meno i soldi. t giustissimo che sia così, altrimenti l’intero apparato smetterebbe di avere le risorse per andare avanti. Bene. Che la stessa logica valga pure quando è lo Stato a dover consegnare qualcosa ai cittadini: si arrangi e produca. Invece da noi la cultura tardo-feudale preferisce aggiustarsi diversamente, pur di non affrontare il problema dove sta. Ecco allora che, non riuscendo a portare a termine il processo nei tempi ragionevoli, si agevola la scappatoia della prescrizione, che in Italia è effettivamente sbilanciata a favore dell’imputato, rispetto ad altri Paesi europei, dove quando il sistema giudiziario si muove la decorrenza dei termini si sospende o si interrompe addirittura, a seconda dei casi e degli ordinamenti. Questo si spiega con la filosofia che ispira l’istituto: se tu Stato non fai nulla per perseguire un reato, dopo un certo tempo amen. Mentre è pacifico che i reati vadano perseguiti e che la prescrizione sia una sconfitta per la società, è anche vero che la riforma Bonafede sia una toppa peggiore del buco. Principalmente perché continua a ignorare il vero tema, quello dell’efficienza e dell’efficacia di un sistema, la cui soluzione farebbe emergere tante storture ormai non più sopportabili. Ma anche, nello specifico, perché non arrivare mai a sentenza giudicata, ovvero arrivarci in tempi biblici, equivale alla prescrizione per la comunità. E alla barbarie per gli imputati. Presunti innocenti. Un nuovo spread chiamato stato di diritto di Annalisa Chirico Il Foglio, 17 febbraio 2020 L’economia italiana è ferma e da tempo il suo problema è anche la giustizia, con i suoi tempi dilatati, le sue inefficienze, la sua imprevedibilità e le incertezze normative che scoraggiano imprese e investimenti. Idee per invertire la rotta. Un girotondo. Sarebbe facile prendersela con il M5s che, da quando si è insediato al Mise seicento giorni or sono, con Di Maio prima e Patuanelli poi, non ha risolto neanche una delle centocinquanta crisi industriali in corso. Si deve tuttavia rifuggire dalla tentazione perché l’anemica crescita italiana - 0,3 percento, la più bassa a livello Ue - ha cause profonde. Un governo che non governa ma rinvia peggiora il quadro, certo, ma il vero spread che da tempo imprenditori e investitori scontano in Italia ha a che fare con la giustizia. Con i suoi tempi dilatati, con la sua insostenibile imprevedibilità. “Assistiamo a quella che potrebbe chiamarsi una ‘recrudescenza dell’incertezza del diritto’ - dichiara al Foglio il giudice emerito della Consulta -. Da un lato, ci sono forze politiche nuove che, per differenziarsi dalle precedenti, cambiano le regole del gioco durante la partita. Dall’altro, uffici pubblici bizantini, spaventati e incerti, che navigano a vista, timorosi per le troppe responsabilità loro assegnate, preferiscono negoziare le regole invece di obbedire a esse”. Instabilità politica come fonte di instabilità normativa. “L’Italia è da tempo considerato un paese dove il diritto è incerto, soggetto a interpretazioni difformi, poco stabile nel tempo. Ragion per cui gli investitori esteri diffidano e quelli italiani non s’impegnano. Per uscire dallo stallo, i rimedi sono molti, e noti, ma non vi si fa ricorso per via dell’incertezza del quadro politico. Quello attuale è il 66esimo governo in settant’anni di storia repubblicana. Governi transeunti non agevolano gli investimenti. Un imprenditore non è interessato ad aggiungere ai rischi di mercato, propri del fare impresa, quelli legati al contesto politico e giuridico. Un secondo gruppo di rimedi riguarda l’equilibrio dei poteri: se esso viene continuamente rotto dalle procure che si arrogano i compiti di decisori di ultima istanza, anche in materie o campi altamente tecnici, smentendo i tecnici amministrativi, si alimentano ulteriori incertezze. Un terzo gruppo di rimedi riguarda la pubblica amministrazione, oggi impoverita di tecnici (abbonda il personale amministrativo, mancano gli ingegneri), messa in un angolo da leggi debordanti, prodotte da governi che ambiscono alle cosiddette norme auto-applicative (che facciano a meno della Pa e della burocrazia), spaventata dall’estensione di sanzioni antimafia ai reati amministrativi, additata dall’opinione pubblica e dai politici”. Per il direttore generale di Confindustria “l’incertezza normativa e la continua introduzione di oneri e adempimenti a carico degli operatori economici sono tra i peggiori nemici della libertà d’impresa. Troppe regole, spesso mal scritte e modificate nel giro di pochi mesi, sono una delle maggiori cause della crisi di competitività del nostro sistema e della bassissima crescita. Ciò non consente alle imprese di programmare gli investimenti e crea inevitabilmente un aggravio del contenzioso, con ulteriori ricadute negative sul sistema paese. Si pensi al caso della mini-Ires: introdotta dalla legge di bilancio per il 2019 in sostituzione dell’Ace, successivamente modificata dal decreto crescita e abrogata con la manovra per il 2020 con contestuale ripristino dell’Ace. O, ancora, alla nuova disciplina delle ritenute fiscali negli appalti, introdotta con il decreto fiscale lo scorso anno, su cui proprio in questi giorni abbiamo nuovamente preso una forte posizione critica con molte altre associazioni di imprese”. Il vero spread con cui le imprese devono fare i conti è la giustizia. “L’efficienza della giustizia è un fattore decisivo per la crescita economica e per la fiducia di cittadini e imprese. Lo sosteniamo ormai da molti anni. In Italia occorrono 1.295 giorni per un procedimento civile di primo grado. Siamo al 157° posto su 183 paesi secondo la Banca mondiale. Anche sul versante penale, i dati restano preoccupanti: il giudizio di primo grado dura più che in ogni altro paese (310 giorni a fronte di una media europea di 138 giorni). Con un dato aggiuntivo: assistiamo ormai da anni a una sempre più diffusa applicazione di misure cautelari nella fase delle indagini, misure che incidono pesantemente sulla libertà delle persone e sulla continuità dell’attività delle imprese, con effetti spesso irreversibili in assenza di una sentenza di condanna e quindi delle garanzie che solo il processo può offrire”. Nella vicenda Ilva, la clausola di immunità penale, il cosiddetto “scudo”, ha influito nella trattativa tra ArcelorMittal e il governo? “Bisognerebbe riflettere sul perché i commissari straordinari del tempo e, successivamente, ArcelorMittal abbiano ritenuto di chiedere uno scudo penale prima di assumere determinati impegni gestionali e contrattuali. Il confronto sullo scudo penale si inserisce in un contesto di incertezza più ampio, frutto anche di uno scontro tra politica e magistratura che ha avuto effetti molto pesanti su Ilva, un’impresa strategica per l’economia nazionale. Ora la priorità è continuare a garantire la gestione dello stabilimento, i livelli occupazionali e il completamento della riqualificazione ambientale, evitando ulteriori interventi estemporanei su un asset fondamentale per il paese”. Anche sulle concessioni autostradali il governo Conte bis galleggia. “Sono convinta che occorra sempre distinguere le responsabilità economiche e sociali da quelle giudiziarie. Gli interventi unilaterali su contratti in essere tra lo stato e i concessionari autostradali, come quelli previsti nel recente decreto Mille proroghe, modificano l’equilibrio economico e negoziale stabilito dalle parti nelle convenzioni. Così come trasformare la questione della revoca in uno scontro ideologico non aiuta ad affrontare i problemi. Le contestazioni contrattuali così come gli illeciti penali vanno affrontati in sede giudiziaria, la definizione delle regole in sede legislativa. Cosa che non sta accadendo con riferimento al caso Autostrade. E questo mi porta a fare una riflessione di carattere più generale. In uno stato di diritto non si possono scaricare sui giudici responsabilità e mancate scelte della politica e, invece, assumere in capo alla politica compiti che sono propri della magistratura”. Come replica a chi sostiene che la voce di Confindustria sia troppo debole in un momento economico così negativo? “Confindustria non è mai stata silente davanti alle grandi crisi industriali. Partecipiamo a tutti i tavoli di confronto con il governo e veniamo auditi costantemente in Parlamento sui temi di maggiore interesse per le imprese. Il confronto è sempre leale e rispettoso, ma anche serrato come, ad esempio, nel caso Autostrade. In generale le crisi però dovrebbero essere prevenute piuttosto che affrontate in maniera emergenziale. Serve una visione moderna, duratura e credibile del paese”. Da giurista, considera un compromesso accettabile quello raggiunto sulla prescrizione? “Sono convinta che la disciplina in materia debba contemperare l’esercizio dell’azione punitiva da parte dello stato e il diritto dell’imputato a ottenere una sentenza in tempi ragionevoli. Allungare indefinitamente i tempi della prescrizione - come ha fatto la legge Spazza-corrotti - senza ridurre la durata dei processi finisce per abbandonare imprese e cittadini nell’incertezza per anni. La riforma della prescrizione non può rappresentare da sola il rimedio alla lentezza del processo. Occorre un più ampio disegno riformatore della giustizia penale, che sia in grado di abbatterne drasticamente la durata, attraverso interventi sulla normativa sostanziale, ad esempio iniziando a depenalizzare condotte non gravi ed evitando di introdurre nuove fattispecie di reato ogni volta che un fatto di cronaca suscita allarme sociale, e di carattere organizzativo, dotando i tribunali di risorse umane e tecnologie adeguate”. A sentire l’avvocato managing partner dello Studio legale Grande Stevens, “la correlazione tra efficienza del sistema giudiziario e propensione agli investimenti è un fatto matematico, non è un’opinione. Già nel 1651, nel ‘Leviatano’, il grande filosofo Thomas Hobbes afferma che la sola parola data è un elemento troppo debole per mettere al riparo dalle passioni umane come avarizia, cupidigia, rabbia… Chi adempie a una obbligazione preferisce affidarsi a una forza coercitiva terza per garantirsi che anche la controparte rispetti gli accordi presi”. In controtendenza, voi dello Studio Grande Stevens avete aperto la filiale londinese in tempi di Brexit. “Abbiamo fatto una scommessa che si sta rivelando vincente. Certo, paragonare il sistema italiano e quello britannico ha poco senso, ed è sempre sbagliato importare modelli stranieri senza tener conto delle specificità locali. Se però guardiamo fuori dal nostro cortile, ci rendiamo conto che, al netto delle peculiarità territoriali, tendenzialmente i paesi che attuano riforme giudiziarie sono quelli che hanno maggiore bisogno di ripresa economica. Ciò vuol dire che se vuoi attrarre investimenti devi dotarti di un sistema giudiziario efficiente e affidabile”. Qualche esempio? “In pochi sanno che la World Bank, l’Inter-American Development Bank e l’Asia Development Bank hanno finanziato progetti di riforme giudiziarie per quasi 750 milioni di dollari in 26 paesi. La Us Agency for International Development ha speso quasi 200 milioni di dollari su progetti analoghi. A partire dal 2010 la Grecia e il Portogallo hanno avviato riforme dei codici per introdurre, per esempio, il ricorso ai metodi alternativi di risoluzione delle controversie e dei distretti giudiziari (Atene). Nel 2011 la Spagna, con la Leyde medidas de agilización procesal, ha anch’essa cercato un modo per agevolare gli investimenti nazionali e stranieri. In Italia c’è stato l’esperimento del cosiddetto ‘tribunale delle impresè, specializzato in controversie commerciali, che non ha forse sortito pienamente gli effetti sperati. Sugli sforzi italiani, gli studi della Fondazione Astrid del professor Franco Bassanini e gli scritti su processo ed efficienza dell’attuale procuratore generale presso la Cassazione Giovanni Salvi meritano una citazione particolare e un rimando”. Come si conferisce efficienza al sistema giustizia? “Ci sono due equazioni con cui fare i conti. La prima riguarda la matematica per smaltire il carico pendente, in inglese ‘backlog’. Devi superare l’ingolfamento, e per farlo devi agire sulla prima variabile dell’equazione, la cosiddetta Size of Courts. Devi aumentare la potenza della macchina giudiziaria: il numero dei magistrati, i mezzi e le risorse organizzative, la quantità di distretti in relazione alla popolazione. Il secondo elemento, ossia la seconda variabile dell’equazione, è il litigationratio, vale a dire la propensione a ricorrere alla giurisdizione. Nel 2019 la Corte suprema Usa ha dato accesso a 73 casi, la Corte di Cassazione italiana invece ha 38.725 ricorsi iscritti e pendenti. Occorre quindi ridurre il secondo fattore dell’equazione, ossia l’indice di litigiosità, prevedendo maggiori barriere all’ingresso. Si può intervenire in vari modi la cui definizione spetta alla politica e al legislatore: puoi aumentare i costi di accesso alla giustizia; puoi stabilire l’obbligo di pagare una percentuale significativa del valore di una causa (ad esempio il dieci per cento) per depositare la domanda giudiziale; puoi introdurre un vaglio preventivo giurisdizionale più severo. Una volta smaltito il backlog, per creare un sistema investment friendly viene la parte più complessa ed entra in gioco la seconda equazione. Serve un sistema affidabile, che garantisca la prevedibilità delle decisioni giudiziarie e un basso tasso di errore, accettabile come fisiologico in un sistema virtuoso. Le variabili di questa seconda equazione sono molteplici, vettoriali e contemplano anche indici idiosincratici peculiari, mi limiterei pertanto alle principali due. La prima è che la magistratura deve essere indipendente: in Cina e in diversi paesi africani un investitore è più cauto perché sa di avere a che fare con regimi che non rispettano l’indipendenza della giurisdizione che può dunque essere indotta o forzata a decisioni tecnicamente non consequenziali, imprevedibili o inique. La seconda variabile fondamentale è la competenza tecnica: in sistemi virtuosi e invidiabili come gli Usa esistono meccanismi che consentono elevati gradi di specializzazione e interscambio tra eccellenze professionali: avvocati e professori del diritto, a carriera avanzata, possono diventare magistrati e dunque portare le proprie competenze specialistiche nei tribunali. Per avviarsi alla carriera nella magistratura è proficuo un periodo di tirocinio in istituzioni finanziarie o agenzie governative di eccellenza”. In Italia si è discusso a lungo, nel caso Ilva, della clausola di esclusione penale, introdotta ai tempi del commissariamento e poi oggetto di un atteggiamento ondivago e contraddittorio da parte del governo. “Inutile prendersi in giro: una garanzia penale influisce eccome nella decisione di un investitore, tanto più se le clausole cambiano più volte a seconda del ministro di turno in un paese dove i governi durano circa dodici mesi. L’ex Ilva è uno dei casi pilota a cui si guarda con trepidazione. La certezza della continuità dei patti all’interno di un sistema legale è uno degli indicatori che incidono maggiormente sugli Investimenti diretti esteri (Ide). L’imprevedibilità, che è già di per sé un fattore di riduzione degli investimenti di medio e lungo periodo, tende per giunta ad aumentare quelli cosiddetti opportunistici o predatori”. Che pensa della possibile revoca delle concessioni ad Aspi? “Nel caso specifico, per come è stata posta, la revoca è un tema di valutazione dell’inadempimento di una delle parti. Il rapporto tra concedente e concessionario è regolato da un contratto, e in uno stato di diritto si accerta l’inadempimento nelle sedi giurisdizionali deputate. L’accertamento di presunti inadempimenti richiede approfondimenti tecnici, ed ecco allora che ritorna il tema dei tempi processuali: se devi aspettare cinque anni per conoscerne l’esito, aggiungi alle variabili una esternalità negativa non indifferente e così qualcuno si può sentire autorizzato a valutare eventuali scorciatoie. È una questione cruciale per la salute economica di un paese, da affrontare con la dovuta serietà. In Francia si sono verificati, anche di recente, alcuni ‘tentativi di scorciatoiè e gli esiti giurisdizionali hanno penalizzato chi ha tentato di percorrerle”. “Io dico che viviamo in una Repubblica antindustriale fondata sull’inaffidabilità politica, sulla ricorsite e sulla certezza del contenzioso”, la tocca piano il segretario della Fim Cisl “Quando un’impresa, un fondo finanziario o un qualsiasi operatore economico pianifica le sue scelte di investimento, prende in considerazione alcune variabili fondamentali. Gli investimenti industriali che interessano la fascia alta del mercato considerano sempre di più tra i vantaggi competitivi di localizzazione di nuovi impianti industriali il valore ‘affidabilità’ di un paese. Depredare ambiente e salari fa parte di analisi anacronistiche perché quelle prerogative non solo non hanno bandiera né dimensione aziendale ma soprattutto perché il peso dei salari è poco rilevante nel costo del lavoro per unità di prodotto, e anzi nessuna azienda vuole andare dove rischia contenziosi giudiziari e perdita di immagine per reati ambientali. Se guardiamo l’orientamento anche recente degli Ide, scopriamo che, se è vero che esiste il dumping di alcuni paesi sui diritti e sulla sostenibilità ambientale e nei sostegni pubblici, non è quello il motivo di localizzare nuovi investimenti industriali o consolidare quelli esistenti. La Germania ha un’ottima legislazione ambientale, alti salari, sindacati forti, mercato del lavoro abbastanza rigido eppure è ancora il paese che detiene il primato come destinatario della maggior quota di Ide passivi, localizzazione in Germania di investimenti esteri”. C’entra la stabilità politica. “Nei quindici anni del governo Merkel, in Italia abbiamo cambiato otto governi; sessantasei sono stati i governi nei primi settant’anni di storia repubblicana dal dopoguerra a oggi con ventinove capi del governo, mentre la Germania ha avuto appena sette cancellieri. Siamo il paese di otto riforme del mercato del lavoro in dieci anni. La stabilità delle norme è una condizione di piani industriali seri e di lungo periodo. Per fortuna la contrattazione ha garantito maggiore affidabilità alle relazioni industriali spesso compensando litigiosità e instabilità della politica. Da questa necessità derivano le norme di auto-responsabilizzazione di cui spesso ci dotiamo con la contrattazione aziendale a livello di gruppo o di singola azienda per dare solidità e ancoraggio normativo ai piani di investimento”. Il modello Marchionne docet. “È avvenuto nel Gruppo Fca quando l’azienda aveva dimezzato le vendite e iniziava a chiudere stabilimenti: grazie agli accordi di Pomigliano e Mirafiori riprese a investire. Ilaria Capua, la virologa che finì in “quarantena” per uno scandalo inventato di Davide Varì Il Dubbio, 17 febbraio 2020 La scienziata che in questi giorni sta combattendo il Coronavirus fu accusata di “traffico di virus”. Fu assolta dopo una lunga odissea. C’è stato un tempo in cui Ilaria Capua, la virologa che in questi giorni sta seguendo la diffusione e la mutazione del Coronavirus, era in quarantena assieme a suo marito. Una quarantena mediatico-giudiziaria cominciata nell’aprile del 2014, mese in cui l’Espresso fece un titolo da far rabbrividire anche Bonnie e Clyde: “Trafficanti di virus”. E poi, sempre più duri: “Accordi tra scienziati e aziende per produrre vaccini e arricchirsi, ceppi di aviaria contrabbandati per posta rischiando di diffonderli. L’inchiesta segreta dei NAS e dei magistrati di Roma sul grande affare delle epidemie”. E al vertice di quella presunta associazioni a delinquere composta da camici bianchi (l’Espresso parlò esplicitamente di “Cupola dei vaccini”) ci sarebbe stata proprio lei: Ilaria Capua. Almeno secondo le rivelazioni del settimanale dei De Benedetti, perché la diretta interessate di quell’indagine non ne sapeva nulla. Solo qualche mese dopo la virologa scoprì che era sotto inchiesta dal lontano 2005, ciò significa che se lei e la famigerata cupola stavano davvero infettando il mondo per arricchirsi attraverso un traffico illecito di vaccini, la procura decise misteriosamente (e con un filo di incoscienza) di lasciarla agire indisturbata per dieci lunghi anni. Fatto sta che nel 2015 i magistrati decisero di agire chiedendo il rinvio a giudizio per Ilaria Capua e altre trenta persone. Le accuse, raccolte dai Nas, vennero però analizzate da Science, una delle riviste scientifiche più importanti e autorevoli, e il giudizio sul lavoro dei Nas fu lapidario: “I documenti non sembra siano stati revisionati da esperti scientifici”. Del resto, nella relazione di Science, pesò inevitabilmente anche la reputazione di Ilaria Capua che per il mondo accademico era la scienziata che nel 2006, in piena emergenza Sars, decise di sfidare i colossi dell’industria farmaceutica depositando la sequenza genetica del primo ceppo africano di influenza H5N1 in GenBank (un database “open access”) e non in un database ad accesso limitato. Una scelta molto coraggiosa che diede il via alla condivisione trasparente dei dati medici in modo da mettere nelle migliori condizioni di lavoro i laboratori di virologia di tutto il mondo. Inutile dire che nel 2016 Ilaria Capua venne assolta perché “il fatto non sussiste”. Una vittoria netta e cristallina. Ma ancora più interessante è la relazione - pubblicata qualche giorno fa dal Foglio - degli ispettori ministeriali inviati a verificare il lavoro dei magistrati.Al termine di quella ispezione l’allora ministro della Giustizia Orlando scrisse al Csm che la condotta del dottor Capaldo, titolare dell’indagine, aveva determinato “una violazione grave, determinata da inescusabile negligenza”.E ancora: “Con tale condotta il dott. Capaldo - scriveva Orlando - si è reso immeritevole della fiducia e della considerazione di cui il magistrato deve godere, con compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario e dell’immagine del magistrato”. Il dottor Capaldo ora si gode la sua lauta pensione mente Ilaria Capua è tornata in trincea, stavolta in America, dove dirige il dipartimento dell’Emerging Pathogens Institute dell’Università della Florida. Per l’astensione del legale dall’udienza non basta la comunicazione con la Pec di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2020 L’astensione degli avvocati difensori nel processo penale non è legittimata dall’invio della Pec che avvisa di un’eventuale “‘assenza dei legali”. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 5798/20. Le regole - La Cassazione chiarisce che nel processo penale alle parti non è consentito effettuare comunicazioni, notificazioni e istanze mediante l’uso della posta elettronica certificata e, pertanto, deve ritenersi illegittima la comunicazione diretta alla cancelleria tramite tale forma di trasmissione, quando la stessa non sia accompagnata da un formale deposito in cancelleria come previsto dall’articolo 121 del Cpp. Nel caso concreto, pure a volere riconoscere l’obbligo in capo al giudice di prendere in considerazione il contenuto dell’istanza di differimento dell’udienza motivata dall’adesione del difensore all’astensione dalle udienze proclamata dall’organismo unitario degli avvocati, va evidenziato come il giudice di appello avesse congruamente motivato evidenziando come l’istanza fosse pervenuta alla cancelleria dell’ufficio giudiziario soltanto allorquando l’udienza era già terminata e quando era ormai chiuso il relativo verbale cosicché non sarebbe stato possibile disporre il differimento dell’udienza dal momento che la stessa era stata già programma ed effettuata all’ora di rito. Conclusioni - La motivazione - sottolinea la Cassazione - risulta in piena sintonia con la disciplina regolamentare contenuta nel codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati che all’articolo 3 punto b) prevede che la dichiarazione di astensione possa essere comunicata con atto scritto trasmesso o depositato nella cancelleria del giudice o presso la segreteria del pubblico ministero almeno due giorni prima della data stabilita proprio per consentire all’autorità giudiziaria di esaminarla preventivamente e di apprezzare le ragioni della richiesta e confrontarle con la peculiarità del caso concreto. Omicidio stradale: lo stato di ebbrezza è presupposto di applicazione dell’aggravante di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2020 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 5 febbraio 2020 n. 4882. In tema di omicidio stradale, il testo dell’articolo 589-bis, comma 2, del Cpnon riconduce la fattispecie aggravata all’ipotesi in cui lo stato di ebbrezza sia la causa del sinistro mortale, ma indica nello stato di ebbrezza il presupposto di applicazione dell’aggravante. Il legislatore, infatti - precisa la Cassazione con la sentenza 4882/2020- stabilisce l’aggravamento per l’ipotesi in cui il conducente, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica, cagioni, per la violazione delle norme sulla circolazione stradale, la morte di una persona. Del resto, che la guida in stato di ebbrezza costituisca di per sé il presupposto applicativo dell’aggravante, ancorché non incidente sulla causazione del sinistro, si desume anche dalla scelta legislativa di introdurre con la fattispecie autonoma dell’omicidio stradale un reato complesso in cui la contravvenzione di cui all’articolo 186 del codice della strada perde la propria autonomia. La violazione della regola cautelare - È assolutamente condivisibile il principio secondo cui la violazione della regola cautelare rappresentata dall’essersi posto alla guida in condizioni pregiudicate non entra necessariamente nel contenuto della colpa penalmente sanzionata ex articolo 589-bis, comma 2, del codice penale, nel senso che l’ipotesi incriminatrice è configurabile anche allorquando l’incidente non risulti essersi verificato in ragione dell’alterazione del conducente, cui questo quindi risulti addebitabile per altri e diversi profili di colpa. È peraltro ovvio, secondo le regole generali, che, perché possa formalizzarsi l’addebito (aggravato o meno), a carico del conducente risultato in condizioni alterate, occorre il riscontro della sussistenza del nesso causale tra la condotta e l’evento dannoso derivatone, che occorre sempre provare e che si deve escludere quando sia dimostrato che l’incidente si sarebbe ugualmente verificato senza quella condotta o quando risulti parimenti dimostrato che è stato, comunque, determinato esclusivamente da una causa diversa al medesimo non imputabile (per riferimenti, sezione IV, 24 maggio 2007, parte civile Venticinque in proc. Cammusso). Sulla responsabilità aggravata -Vale cioè il principio pacifico secondo cui, in materia di incidenti da circolazione stradale, l’accertata sussistenza di una condotta antigiuridica di uno degli utenti della strada con violazione di specifiche norme di legge (qui, la violazione della normativa in tema di assunzione di alcool o di droghe) o di precetti generali di comune prudenza non può di per sé far presumere l’esistenza della “causalità” tra il suo comportamento e l’evento dannoso, che occorre sempre provare e che si deve escludere quando sia dimostrato che l’incidente si sarebbe ugualmente verificato senza quella condotta o è stato, comunque, determinato esclusivamente da una causa diversa: ciò perché, per poter affermare la responsabilità, occorre non solo la “causalità materiale” tra la condotta e l’evento dannoso, ma anche la cosiddetta “causalità della colpa” ossia la dimostrazione del nesso in concreto tra la condotta violatrice e l’evento (per riferimenti, ancora, sezione IV, 18 maggio 2011, parte civile Longo e altri in proc. Mercurio e altro; nonché, sezione IV, 22 settembre 2011, Michelini). Per intenderci, non potrebbe essere ritenuto responsabile del reato di omicidio colposo aggravato de quo il conducente - pure in stato di ebbrezza alcolica o sotto l’influenza della droga - allorquando risulti che, anche laddove fosse risultato in condizioni “normali”, l’incidente si sarebbe comunque verificato per altre ragioni, a lui non imputabili e magari riconducibili esclusivamente alla condotta della vittima. Per converso, sussisterebbe la responsabilità “aggravata” in caso di incidente riconducibile alla colpa del conducente in condizioni alterate, pur se i profili di colpa nulla avessero a che fare con lo stato di alterazione. False identità e abusi sui social network: scatta il reato di sostituzione di persona di Marisa Marraffino Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2020 I social network hanno rivitalizzato il reato di sostituzione di persona, nato per punire condotte ben lontane dal mondo del digitale. Il reato, previsto dall’articolo 494 del Codice penale, ha dato luogo nel passato a una curiosa giurisprudenza che configurava l’illecito in tutti i casi di matrimoni per procura in cui uno dei due coniugi mentiva sul proprio status sociale o addirittura sulla propria identità. Per questo ha fatto discutere la sentenza della Corte di cassazione 652 del 10 gennaio scorso, che ha considerato di lieve entità il fatto di creare un falso profilo social, attribuendosi quindi l’identità di un’altra persona, se il fatto è isolato. In realtà la pronuncia non afferma che il fatto non sussiste ma che, pur costituendo reato, se commesso una volta soltanto può non essere punibile in base all’articolo 131-bis del Codice penale, che ha introdotto proprio una particolare causa di esclusione della punibilità quando la condotta nel suo complesso viene considerata lieve. L’esimente viene concessa in genere per i furti e le truffe di lieve entità. Di recente la giurisprudenza ha allargato le maglie dell’esimente, configurandola ad esempio anche nei casi più lievi di guida in stato di ebbrezza (Cassazione, 44171 del 17 ottobre 2019). Il cambio di fattispecie - Nel 2016 la Cassazione aveva stabilito che il marito che si finge single per conquistare l’amante commette il reato di sostituzione di persona. Si trattava del caso di un uomo che per prolungare la relazione con l’amante le aveva anche mostrato un finto atto di annullamento del matrimonio per poi frequentare insieme a lei un corso prematrimoniale. Senza dubbio in questo caso sussiste l’attività ingannatoria che, per pacifica giurisprudenza, sta alla base del reato. Da qui a configurare la fattispecie anche nel caso in cui l’utente di Facebook menta sul proprio “status” del profilo web definendosi “single”, il passo è breve e scontato. Spesso la creazione di fake sui social network viene contestata insieme ad altri reati, come la diffamazione, le molestie o gli atti persecutori. Gli autori, infatti, usano i falsi profili per vendicarsi delle vittime, offenderle o perseguitarle. In questi casi, ovviamente, non c’è clemenza da parte dei giudici. Determinante è anche il contesto. Così viene condannato chi crea un falso profilo per molestare minorenni o per denigrare la vittima. In questi casi non vengono concesse neppure le attenuanti generiche (Cassazione, sentenza 38911 del 12 giugno 2018). Il bene giuridico protetto dalla norma è la fede pubblica, quindi anche la pluralità indistinta degli utenti, considerazione che giustifica la sua procedibilità d’ufficio. Quando si creano false identità virtuali o falsi profili Facebook non si lede soltanto la fiducia del singolo utente ma si turba un equilibrio più ampio, quello della comunità intera degli utenti che devono poter fare affidamento sulla lealtà delle identità con le quali intrattengono rapporti virtuali. Per questo non vanno sottovalutate le condotte che però devono essere opportunamente pesate caso per caso. Attenzione, perché anche la falsa attribuzione di una qualifica professionale può integrare il reato. La norma punisce infatti anche le attribuzioni di qualità cui la legge attribuisce effetti giuridici. Si pensi alle false identità su skype o su social network di chi millanta posizioni professionali di prestigio per corteggiare le vittime, invitarle a falsi colloqui di lavoro o per aumentare i propri follower. Le conseguenze - Vecchie e nuove falsificazioni finiscono in tribunale con esiti spesso diversi. Così c’è chi preferisce chiedere la sospensione del processo penale con la messa alla prova, cancellando il reato con lavori socialmente utili; oppure chi paga decreti penali di condanna o sceglie la via del patteggiamento. Ma, anche se il fatto viene considerato tenue, non c’è troppo da rallegrarsi: il reato in realtà c’è, viene iscritto nel casellario, e può dar luogo in sede civile al risarcimento del danno, come ha stabilito la Cassazione con la sentenza 32010 dell’8 marzo 2018. Competenza sulla istanza di liquidazione delle spese degli ausiliari del magistrato Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2020 Competenza - Spese di custodia dei beni sequestrati - Istanza di liquidazione presentata dopo l’archiviazione del procedimento penale - Giudice dell’esecuzione - Competenza del Gip. La competenza a provvedere ai sensi dell’art. 168, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 sulla istanza di liquidazione delle spese di custodia dei beni sequestrati presentata dopo l’archiviazione del procedimento, spetta al giudice per le indagini preliminari in qualità di giudice dell’esecuzione. Il provvedimento di archiviazione definisce la fase delle indagini preliminari facendo sì che tutti i poteri conferiti al Pm e al giudice per le indagini preliminari passino a quest’ultimo, in funzione di giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 665 c.p.p.Pertanto il magistrato “che procede” ai sensi dell’art. 168, T.U. Spese di giustizia, è il giudice delle indagini preliminari quale giudice dell’esecuzione, rilevando, ai fini della competenza non già la collocazione fisica del fascicolo archiviato, ma la materiale disponibilità del medesimo in ragione della funzione esercitata. • Corte di cassazione, sezioni Unite penali, sentenza 3 febbraio 2020 n. 4535. Spese di giudizio penali - Liquidazione delle spese degli ausiliari del magistrato - Competenza. Ai sensi dell’articolo 168 del decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, la liquidazione delle spettanze degli ausiliari del magistrato spetta a quello che procede (nella specie, si trattava della liquidazione dei compensi del custode), onde deve ritenersi attribuita al pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari e dopo che il procedimento si sia concluso con l’archiviazione (sussistendo la competenza del giudice per le indagini preliminari, invece, nell’ipotesi in cui la richiesta di archiviazione del pubblico ministro non sia stata ancora evasa), al giudice dell’esecuzione dopo la sentenza irrevocabile e al giudice che ha la disponibilità del procedimento nel corso del giudizio di cognizione. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 5 dicembre 2018 n. 54227. Prove - Mezzi di ricerca della prova - Intercettazioni di conversazioni o comunicazioni - In genere - Spese - Liquidazione - Decreto di archiviazione - Avvenuta trasmissione degli atti al p.m. - Competenza del p.m. - Sussistenza. La competenza a liquidare le spese relative all’acquisizione di tabulati telefonici appartiene al “magistrato che procede”, locuzione da riferire al magistrato che ha materialmente la disponibilità degli atti al momento della richiesta di liquidazione e che - dopo l’archiviazione del procedimento e la trasmissione degli atti all’ufficio di Procura - va individuato nel pubblico ministero. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 13 febbraio 2017 n. 6657. Impugnazioni - Provvedimenti impugnabili - Provvedimenti abnormi - Procedimento conclusosi con l’archiviazione - Provvedimento con cui il gip disponga la trasmissione al p.m. della richiesta di liquidazione dell’indennità di custodia di un veicolo - Atto abnorme - Sussistenza. È abnorme il provvedimento con cui il Gip disponga la trasmissione al Pm dell’indennità di custodia relativa a procedimento conclusosi con l’archiviazione, in quanto la competenza a provvedere spetta, in tal caso, al Gip e non al Pm. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 22 gennaio 2014 n. 2924. Spese giudiziali penali - Archiviazione del procedimento - Giudice competente a liquidare le spese di custodia dei beni sequestrati. È abnorme il provvedimento con cui il Giudice delle indagini preliminari dispone la trasmissione al pubblico ministero della richiesta di liquidazione delle spese di custodia di beni sottoposti a sequestro, in relazione a procedimento conclusosi con l’archiviazione, in quanto l’espressione “magistrato che procede” di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002 n. 115, articolo 168, deve essere intesa quale indicativa della competenza del magistrato che comunque disponga del procedimento, con la conseguenza che una volta che il giudice abbia accolto la richiesta di archiviazione proposta dal Pm, deve disporre anche della sorte delle cose sequestrate. • Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 19 settembre 2011 n. 34335. Campania. Progetto sulla genitorialità rivolto alle detenute di Erica Gigante* linkabile.it, 17 febbraio 2020 L’impotenza di chi abita il carcere, soprattutto se ad essa si accompagna un momento disperato e drammatico come quello di sentirsi lontano dai propri affetti, può essere un passo fondamentale per chi, al contempo, la trasforma in un valido motivo di riscatto. Fiore all’occhiello è stato proprio il progetto sulla genitorialità, a cui, io stessa come criminologa, ho partecipato, promosso dall’Associazione “Città della Gioia” che, assieme al Garante dei detenuti della Regione Campania, ha dato l’opportunità a tre Istituti penitenziari, sezione femminile di Bellizzi Irpino, Pozzuoli e Salerno, di valorizzare il concetto di genitorialità nel suo significato più profondo: crescere come persona in qualità di genitore, poter migliorare le relazioni con i propri figli, accettare una situazione familiare particolare, riconoscere l’affettività come diritto della persona detenuta, sono stati i principi per i quali noi tutti abbiamo creduto e combattuto. In tal senso, ci siamo adoperati a dare alle detenute gli strumenti necessari per attenuare, almeno in parte, l’impatto con la vita detentiva. È stata l’occasione per abbracciare le loro debolezze, per ascoltare il loro cuore, per guardare il loro volto malinconico e lontano dalla speranza di chi, da quel volto, ne vorrebbe trarre un po’ di gioia e di chi, in realtà, vorrebbe essere ancora mamma, figlia, sorella, compagna. Dopo una fase preliminare di conoscenza, si è passati ad una fase operativa che ha permesso di avvicinarci al tema della genitorialità. La proiezione di film, cortometraggi, la lettura di libri, di testi di canzoni, iniziative teatrali, hanno permesso alle detenute di trovare il modo di affrontare domande riguardanti la realtà complessa in cui vivono ovvero “chi siamo”? “Cosa siamo diventate”?, “Dove andremo a finire”? “Ma soprattutto perché, da detenuta, non riesco a trovare il modo più adatto per spiegare il mio ruolo di madre o figlia”? A tale proposito mi sono chiesta, in che modo, il carcere devasta le relazioni innescando sensi di colpa, turbinio di emozioni contrastanti, assenza di ruoli. Ma soprattutto qual è la strada più idonea da mettere a disposizione di chi vive un momento delicato come la detenzione. In linea teorica, sebbene l’ordinamento penitenziario tuteli l’affettività e i rapporti familiari, tuttavia nelle pratica, non è di facile attuazione: Le relazioni vengono vissute quasi in senso negativo come mancanza, perdita, dove niente dipende più da chi è carcerato ma da chi, al contrario, rappresenta un’autorità onnipotente e, forse, quasi invisibile. Molto spesso sia gli uomini che le donne, se non hanno commesso reati in famiglia, vengono privati della possibilità di mantenere un legame con i figli. Se pensiamo agli stessi familiari che non li portano a colloquio solo perché il proprio papà o la propria mamma sono in carcere fingendo, casomai, che siano lontano per lavoro. Eppure non dimentichiamo che, anche se sono persone recluse, mantengono il diritto alla genitorialità e all’affettività. Ed è proprio da questa complessità di relazioni, aggravate dalla stessa detenzione, che il progetto ha sostenuto e favorito tale diritto, un diritto che, nel caso di specie, ha subito conseguenze devastanti e sofferte soprattutto per quelle detenute che non vedono i propri figli da mesi o addirittura anni. È il caso di R. che, al suo grido disperato di voler vedere e riabbracciare la sua bambina di 7 anni che si trova in casa famiglia, si è cercato di dare supporto e sostegno al suo ruolo di madre; o il caso di detenute dove l’essere madre si manifestava nel mostrare foto dei propri bambini o nel considerare il figlio come un essere bisognoso di cure e, in quanto tale, affidato ai nonni, sorelle o ai papà se, questi ultimi non erano, a loro volta, rinchiusi in carcere. O il caso di A. che come figlia ha messo a nudo, senza vergogna ma con coraggio le sue emozioni, quelle che, con le parole, sono diventate in una lettera un esempio di vita non solo per chi è in carcere, ma anche uno spunto di riflessione per chi, quel contesto, non l’ha mai vissuto. A tale proposito ho voluto riportarla qui con grande orgoglio! “Qui nessuno si conosce, ma la strada, le storie sono sempre le stesse, nessuno è più lontano, niente è impossibile, niente e mai nessuno ci fermerà. La strada è la stessa, le stesse illusioni, le stesse emozioni, le stesse occasioni, nessuno è diverso, qui siamo tutti uguali. C’è chi ha troppo e chi non ha nulla, chi ha una stella, chi un cielo nero, chi può parlare, chi deve solo ascoltare, chi ha una strada e chi cammina sui sassi, c’è chi è bianco e nero, c’è chi si trasforma come me per esigenza, c’è chi cerca sempre la speranza, qui nessuno si conosce, ma la musica, i fatti, le storie, la sofferenza, il patimento sono gli stessi. Non è per niente facile restare in bilico e né è facile sognare… nessuno è diverso, siamo tutti uguali, non è per niente facile restare stabile, nessuno è distinto siamo tutti uguali, identici e niente e nessuno ci fermerà. Non è per niente facile restare in equilibrio, nessuno è più diverso, siamo tutti identici, uniformi, coerenti, nemmeno più l’Africa è lontana, e il vuoto di chi è solo si riempirà. Questo posto così oscuro per chi non lo conosce, mette i brividi… tu carcere pensi che ti sia tutto concesso, ma ti sbagli, non capisci che sai solo uccidere. Tu carceriere del mio corpo, ma mai e quando dico mai, mai del mio io, tu qui ci rimarrai a vita mentre noi siamo solo di passaggio”. Quanto, quindi, è necessario favorire i legami all’interno di un carcere soprattutto se, gli stessi, costituiscono un fattore fondamentale nella vita del detenuto. Il duro regime carcerario, la sottocultura carceraria, la difficoltà per il detenuto di sviluppare la propria autonomia sempre in contrasto con l’ambiente carcerario, sono fattori che, di certo, non favoriscono l’attuazione concreta di programmi rivolti, non solo ai bisogni dei detenuti ma anche a tutte quelle persone coinvolte, come ad esempio la famiglia. Proprio per questo, è necessario una giustizia che, nella pratica, metta in atto una serie di interventi utili al cambiamento della vita di ognuno di loro, un cambiamento finalizzato alla riflessione della propria dimensione genitoriale attraverso maggiori incontri individuali con i propri figli, attraverso incontri volti alla formazione personale sia del detenuto/genitore che del proprio figlio, attraverso maggiori contatti con il mondo esterno. È necessario, altresì, non impedire la comunicazione e la relazione con il genitore recluso che potrebbe comunque sviluppare, attraverso adeguati interventi, una buona capacità genitoriale, senza che il carcere diventi così un luogo devastante non solo per chi è dentro ma anche per chi è fuori innescando sentimenti di abbandono per chi è figlio e sentimenti di rabbia e colpevolezza per chi è detenuto. Ecco perché valorizzare i legami personali all’interno del carcere, attribuisce valore al percorso di recupero, un percorso fondamentale per chi vuole reinserirsi in modo responsabile nella società. Non dimentichiamo gli artt. 29 e 31 della Costituzione, che tutelano i rapporti parentali e le relazioni affettive salvaguardando i rapporti familiari e i doveri del genitore, così come l’art. 28 dell’Ordinamento Penitenziario secondo cui “ particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le famiglie”. Dalla mia esperienza come criminologa, concludo nel considerare che, ogni progetto in carcere ha una sua utilità nei confronti non solo di chi crede nel recupero, nella reintegrazione sociale e nella prevenzione della recidiva, ma anche di chi si impegna a creare un ambiente che possa accogliere adeguatamente la vita intramuraria di ogni detenuto preservando soprattutto il mantenimento delle relazioni familiari. *Criminologa Calabria. “Le istituzioni diano risposte ai minori in difficoltà” corrieredellacalabria.it, 17 febbraio 2020 A Reggio Calabria l’iniziativa di Agape, camera Minorile e Forum associazioni familiari. “Poche le risorse destinate ai servizi sociali, ci aspettiamo risposte dal nuovo governo regionale”. I numeri e le speranze dopo le “sparate della politica” nell’estate di Bibbiano “È stata l’ultima estate quella del caso Bibbiano e delle sparate dei politici contro le case famiglia, gli affidi e le adozioni. Ma se davvero si vuole mettere mano a un sistema di accoglienza che, inclusi i minori stranieri non accompagnati, accoglie oltre 30mila minorenni in Italia occorre farlo con serietà e competenza. Ascoltando la voce in primis dei diretti interessati, tutti quei ragazzi e quelle famiglie e centri che li hanno accolti dando loro la possibilità di sperimentare una vita diversa dopo tante ferite, abbandoni, maltrattamenti”. È questo l’appello che Centro Comunitario Agape, Camera Minorile e Forum delle associazioni familiari intendo lanciare a tutte le istituzioni interessate per ribadire che l’affido, la comunità, l’allontanamento dalla propria famiglia in casi estremi, l’adozione, sono un’opportunità che nella bagarre mediatica di questi mesi, è stata colpevolmente silenziata. “C’è stata una distorsione strumentale della realtà e una rabbia incomprensibile contro i servizi. Le esperienze di accoglienza che anche in Calabria sono oggi attive, pur con enormi difficoltà, possono restituire la verità di un sistema che ha le sue falle ma che nel complesso funziona e che sarebbe folle smantellare”, continua la nota. “La Calabria e in particolare il territorio della Città metropolitana di Reggio - si legge ancora - registrano infatti la presenza di una rete di servizi significativa ma tante sono le criticità che hanno ostacolato la sperimentazione di un sistema di Welfare per le famiglie e per i minori adeguato. In primis la mancata applicazione della legge 328, di un piano sociale regionale e di zona in grado di attivare una programmazione dei servizi socio sanitari su tutto il territorio regionale, con investimento di risorse, con la copertura dei vuoti di organici nei Comuni di profili professionali fondamentali come assistenti sociali, psicologi, educatori. Compresa un riparto più equo delle risorse da parte delle regione che in atto vede penalizzate alcune aree come quelle del Reggino”. La recente approvazione della delibera sui regolamenti attuativi ha aperto un primo spiraglio che ora il nuovo governo regionale dovrebbe dare concreta applicazione. Su questi temi, per contribuire all’avvio di una nuova fase nelle risposte all’infanzia a rischio e alla fragilità delle famiglie che in Calabria tocca un minore su due, è stato promosso un incontro di studio che focalizzerà in particolare il ruolo dei Tribunali per i Minorenni e quello della città metropolitana per politiche e metodologie di intervento in grado in garantire a tutti i minori il diritto a vivere in una famiglia, privilegiando quella d’origine oppure quella affidataria e adottiva. Su questo tema il Tribunale per i Minorenni sta lavorando per delle linee guida in grado di migliorare il sistema, di garantire sempre più trasparenza, tempestività negli interventi, coinvolgimento della rete degli attori istituzionali e sociali del territorio. Il programma prevede dopo l’introduzione di Mario Nasone del Centro comunitario Agape, un breve video, il saluto del parroco del crocefisso don Marco Scordo, la relazione per il Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria di Saverio Sergi, psicologo e giudice onorario del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, interventi di Maria Grazia Marcianò, psicologa referente area minori Comune di Reggio Calabria, avv. Alessandra Callea della Camera Minorile, Elisa Mottola, psicologa per la rete dei Consultori dell’Asp, le testimonianza di una famiglie adottiva (Suraci Nicolò) e di una famiglie affidataria (Palumbo Cilione), di Gerhard Bantel e Suor Angela Paglione componenti di associazioni e comunità impegnate nella Locride e nella Piana di Gioia Tauro. A margine dell’incontro sarà fatta comunicazione sull’evento che si svolgerà il 28 marzo a Reggio Calabria su iniziativa del Forum nazionale delle associazioni familiari inserito nella campagna Donàti-Dònati, una festa sull’accoglienza aperta a famiglie ed associazioni che si terrà nella stessa data in tutte le regioni. Con interventi di Lucia Nucera, Assessore alle politiche sociali comune di Reggio Calabria, Aldo Riso, referente Forum famiglie di Reggio Calabria. Il garante per l’infanzia della Città Metropolitana Emmanuele Mattia infine presenterà una iniziativa del suo ufficio in grado di offrire una prima risposta sul piano istituzionale alle richieste che emergeranno in grado di dare anche continuità all’iniziativa. Campobasso. In carcere mancano medici e infermieri, la Cgil denuncia le carenze isnews.it, 17 febbraio 2020 Il sindacato evidenzia la necessità di potenziare il personale in servizio presso il penitenziario di Campobasso. Chiesto un incontro urgente con il presidente della Regione Toma. Mancano medici e infermieri in servizio nel carcere di Campobasso. Una situazione che va avanti da tempo e ancora una volta scende in campo FP Cgil Abruzzo Molise, che torna a chiedere risposte e sollecita un incontro urgente con il governatore Donato Toma. “La cronica vacanza delle figure professionali sanitarie, purtroppo - evidenzia il sindacato - continua a destare forte preoccupazione, con ripercussione della popolazione detenuta sul quotidiano lavoro dei poliziotti penitenziari, di operatori a vario titolo e dell’organizzazione generale. Oggigiorno, da notizie in nostro possesso, vi sono solo tre infermieri professionali operanti e sembrerebbe che, vi è una carenza di specialisti del S.E.R.T deputati ai colloqui e gestione dei detenuti tossicodipendenti, senza tralasciare la carenza di medici di medicina generale. Se la questione potrebbe, in un certo modo, coinvolgere analogamente anche altri Istituti del Paese, visto che si necessiterebbe di un efficace piano di assunzioni nel comparto sanitario italiano, riteniamo che sia doveroso affrontare la situazione del carcere campobassano, con attività interventistiche improcrastinabili, nel rispetto di tutta la collettività penitenziaria, vista anche la cospicua presenza di detenuti patologici”. Il sindacato chiede dunque risposte certe e un incontro urgente con il presidente Toma “così da avviare un giusto e sano confronto”. Taranto. Carcere, assistenza sanitaria al collasso tarantobuonasera.it, 17 febbraio 2020 Franzoso: Regione e Asl intervengano. Il Consigliere regionale Francesca Franzoso al carcere di Bari con i Radicali. Sovraffollamento, carenza di agenti, assistenza sanitaria inadeguata. È il bilancio del sopralluogo nel carcere di Bari che Francesca Franzoso, consigliere regionale, ha effettuato ieri mattina insieme a Massimiliano Iervolino, segretario dei Radicali Italiani e Annarita Di Giorgio, di Associazione Pannella. Il penitenziario, “Rucci” ha una capienza massima di 299 persone ma, ad oggi, ospita 435 detenuti. Di questi 150 hanno disagi psichiatrici. La struttura, del 1920, dispone anche di un carcere sanitario da 24 posti letto, con strumentazione e personale insufficiente. “Ed è proprio la sanità, di competenza regionale, sostiene Franzoso, una delle principali note dolenti. Nessuna delle strumentazioni medico-sanitarie previste con lo stanziamento di 300 mila euro, appostati nella finanziaria 2019 con un mio emendamento è mai entrata nella struttura. Non solo. La Asl Bari non ha attivato un sistema unico di prenotazione, così un detenuto, per effettuare più esami diagnostici, deve essere trasferito in giorni diversi presso la struttura ospedaliera con notevole disagio per il personale penitenziario già ridotto al minimo. Il piano di riordino della rete ospedaliera di Emiliano prevede per questi detenuti l’attivazione presso l’Ospedale San Paolo di un reparto di medicina protetta da 16 posti letto, che ad oggi è solo sulla carta. Una situazione esplosiva, tenuta sotto controllo solo grazie alla professionalità e agli sforzi della direttrice del Carcere, Valeria Pirè. Le istituzioni, invece, Regione Puglia in primis, sono assenti. Invito Emiliano e Asl Bari ad attivarsi quanto prima per sanare una situazione di insopportabile emarginazione dei detenuti e restituire dignità alla vita carceraria. I diritti fondamentali non si cancellano neppure dietro le sbarre, e questo il Governatore della Puglia, che dice di aver giurato trevolte sulla Costituzione, dovrebbe saperlo”. Reggio Emilia. Un sit-in contro il carcere al collasso di Ambra Prati Gazzetta di Reggio, 17 febbraio 2020 Una mattinata di sciopero con presidio, trasversale e indetto in modo unitario dalla quasi interezza delle sigle sindacali della Polizia penitenziaria (manca solo il Sappe), per attirare l’attenzione sulla situazione della casa circondariale. Lo stato di agitazione, fissato per mercoledì 26 febbraio - quando dalle 9 alle 12 si svolgerà un sit-in nel piazzale antistante l’ingresso della Pulce in via Settembrini - è stato proclamato da Cgil-Fp, Fns-Cisl, Uil-Pa, Osapp, Sinappe, Cnpp, vale a dire i tre sindacati confederali più quelli autonomi, per la prima volta uniti in una protesta che vuole essere costruttiva. “Il giudizio è positivo perché da anni non si vedevano unificate le sigle sindacali: segno che i problemi sono consistenti e sentiti - dice l’ispettore Giovanni Trisolini della Cgil - Negli ultimi tempi si è parlato del carcere per episodi di cronaca (incendi e aggressioni al personale): bisognerebbe invece evidenziare più in generale un sistema penitenziario al collasso. Il presidio vuole approfondire le motivazioni di questo forte disagio e magari indicare soluzioni rapide, tenendo presente che trattandosi di un’amministrazione statale non è facile avere un dialogo diretto”. I problemi della casa circondariale sono noti. Sul fronte del sovraffollamento, si registra l’alto numero di detenuti pericolosi e difficilmente gestibili (oggi concentrati a Reggio e Piacenza), la variegata tipologia (ben 12 le sezioni), l’altissima percentuale di reclusi extracomunitari (quasi il 60%) che non partecipano ai progetti. La presenza di due sezioni di Tsm (trattamento salute mentale) con reclusi affetti da malattie psichiatriche è un altro aspetto critico, poiché i detenuti che durante l’espiazione della pena si ammalano di mente confluiscono a Reggio e vi resteranno anche dopo l’apertura della Rems. Altra nota dolente la carenza di personale: di polizia penitenziaria (gli agenti dovrebbero essere 250 invece sono 195) ma anche di educatori (sulla carta 8 ma ce ne sono 3) e di assistenti sociali. A ciò va aggiunta la penuria di personale dell’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe), che potrebbe decongestionare il sovraffollamento con percorsi alternativi, così come quella degli uffici di sorveglianza. Se si considera che i continui tagli alla pubblica amministrazione hanno determinato uno stop nella manutenzione ordinaria, il quadro è completo. Per l’ispettore Trisolini “manca una politica penitenziaria ormai da decenni e gli interventi sono rimasti sporadici”. Che fare, dunque? “Il miglioramento è possibile. A breve termine si può ridurre il numero di detenuti pericolosi e ridistribuirli tra gli istituti della Regione; diminuire il numero complessivo dei detenuti e delle tipologie; integrare l’organico del personale, non solo di polizia penitenziaria, tenendo presente le lungaggini dell’operazione di finanziare e bandire concorsi”. Il sindacalista della Cgil mette poi l’accento su un altro nodo. “La perenne emergenza rischia di inficiare i progetti, la formazione, le iniziative culturali finalizzate al reinserimento sociale: tutte risorse positive a Reggio storicamente presenti. Questo è fondamentale ai fini della sicurezza pubblica perché è dimostrato che il detenuto che fa un percorso di reinserimento di qualità è una persona che non commette più reati”. Milano. Impariamo da un detenuto a dare senso al tempo che passa di Maure Leonardi mauroleonardi.it, 17 febbraio 2020 A 27 anni Daniel si è laureato in Scienze della formazione all’Università Cattolica di Milano. Questa è già una bella notizia e, coi tempi che corrono, è bello assistere ad una bella notizia qualsiasi e la laurea è più di una bella notizia qualsiasi: riguarda non solo una persona ma una famiglia, tanti amici e tante famiglie. Nel caso di Daniel la notizia diventa commovente perché chi raggiunge la laurea non è un giovanotto qualsiasi ma un ex detenuto e alla cerimonia non sono presenti solo amici e parenti come da copione ma anche il pubblico ministero che aveva chiesto il processo e la condanna del ragazzo. Le statistiche dicono che nel 68% dei casi i detenuti tornano a delinquere (“vanno in recidiva”) ma se sono affidati a misure alternative il tasso scende al 19% e, se addirittura il delinquente trova lavoro, si arriva al 2% o 3%. Nel caso di Daniel l’obiettivo è raggiunto attraverso la comunità di recupero Kayròs di don Claudio Burgio. E così, l’ex detenuto che ha commesso tanti errori durante la sua adolescenza ora diventa un educatore che vuole aiutare tanti giovani a non commettere gli stessi errori. La cosa più difficile per chi sta in carcere è trasformare quel periodo - che può anche essere molto lungo - non in una parentesi della propria vita ma in un pezzo di vita vera. Gli anni passati in carcere devono diventare non anni nei quali è come se non avessi vissuto - o anni in cui ho vissuto al peggio - ma tessere di un mosaico che è quello della mia vita. Daniel, con l’aiuto di chi gli è stato vicino, anche del pm che lo ha messo in carcere, c’è riuscito. Lavoriamo perché ci riescano tanti altri. Prima di tutto quelli di noi che sono liberi e che proprio per questo hanno il compito urgente di non passare la vita in un’enorme parentesi, in una grande sala d’attesa aspettando chissà un treno che, così facendo, non passerà mai “Doppia pena. Il carcere delle donne” di Nicoletta Gandus e Cristina Tonelli recensione di Irma Loredana Galgano articolo21.org, 17 febbraio 2020 Le donne fino a tempi non lontani erano internate per essere ricondotte al modello femminile dominante e curate per i loro comportamenti non conformi. Non è ancora morta la vecchia idea, alla base della storia della istituzionalizzazione femminile, che oltre alla trasgressione del codice penale vi sia anche la trasgressioni dei codici di genere, di una certa idea di cosa sia e debba essere “femminile”. Emblematico il tema, troppo ricorrente nella narrazione diffusa, della “cattiva madre”. Parole, espressioni che possono essere e diventare macigni, pilastri dell’orribile muro fondato su pregiudizi e stereotipi, oppure picconi necessari per abbatterli quei muri. La differenza, ancora una volta, la fa la conoscenza. Nella fattispecie di un mondo che è davvero un universo a se stante, parallelo al mondo di fuori, che con questo si interseca inevitabilmente ma che da esso si vorrebbe lasciare staccato. Eppure la vita dentro il carcere e quella fuori da questo non sono semplicemente due facce della stessa medaglia, no, sono proprio il medesimo metallo che si fonde nello stesso conio e la forma che ne uscirà non sarà altro che il frutto di scelte o di mancanze. Nicoletta Gandus e Cristina Tonelli curano il volume Doppia pena. Il carcere delle donne, edito da Mimesis nel 2019, e che raccoglie i contributi di coloro che il mondo di dentro lo hanno vissuto in prima persona, lo hanno conosciuto per lavoro o volontariato, lo hanno studiato e hanno tentato di cambiarlo, per renderlo non tanto migliore, nell’accezione più comune del termine, quanto piuttosto più adatto al presente. A un oggi che non può più permettersi di essere nostalgico del passato, soprattutto quando si parla di società e di diritti. Sottolinea Susanna Ronconi, nel suo contributo al libro, che le donne sono da sempre accostate ai minori, e la storia della reclusione femminile in tutte le sue forme fino a tempi recenti è stata assimilata a quella dei minori, non degli uomini adulti. Quando invece uno dei principi cardine del discorso verte proprio sulla parola responsabilità. Non può essere, infatti, la deresponsabilizzazione a preparare il rientro nella società. Minorazione e infantilizzazione sono i principali dispositivi del quotidiano carcerario che incarnano la mortificazione del sé, e disegnano quella mappa così sottile ma potente di regole, consuetudini, impedimenti e parole che sottraggono alle donne detenute la signoria su di sé. Tanti sono i nodi della questione affrontati nel testo: dal carcere per le donne che sono anche delle madri a quello di donne straniere. Dalla carcerazione di persone transgender alle misure alternative alla detenzione. Le problematiche emerse sono nell’ordine ancora maggiori e, analizzandole, traspaiono solchi profondissimi che sono non tanto e non solo giudiziari quanto culturali. Il carcere rende evidente con particolare drammaticità il processo di criminalizzazione e l’ossessione securitaria che hanno indirizzato le recenti politiche in materia di immigrazione, finendo col creare istituzionalmente marginalità, che diventa a sua volta zona sociale organizzata in cui si addensano le fasce più deboli e mal tollerate di popolazione. Il carcere sembra svolgere ormai di fatto la funzione di selezionare tra gli stranieri presenti quelli destinati a essere espulsi, quelli destinati alla clandestinità perenne e quelli che si possono avviare a percorrere l’accidentato sentiero che li porterà, forse, al raggiungimento di un permesso di soggiorno e di uno status legale. Dare valore e parola a coloro che vivono il carcere può innestare un meccanismo di riforma delle pratiche concrete della vita carceraria. Le donne sono una minoranza ed è proprio da questa minoranza che, per le curatrici del testo, potrebbe partire un cambiamento nei fatti esteso, nel tempo, all’intero mondo del carcere. A fine aprile 2016 si sono conclusi Gli Stati Generali della Esecuzione Penale che hanno visto la presenza e l’operatività di circa 200 tra esperti ed esponenti della società civile, impegnati in 18 Tavoli e il cui lavoro ha portato alla formulazione di numerose proposte. I principi fondamentali affermati dagli Stati Generali riguardano maggiormente la tutela della dignità, dei diritti, delle relazioni famigliari, anche attraverso la modifica della disciplina dei permessi per estendere l’applicazione. Della tutela del diritto al lavoro, anche con l’istituzione di un organismo per favorire le opportunità di lavoro dopo la liberazione. Della salute, anche con la previsione dello spazio minimo e delle celle aperte. Altri principi riguardano la territorialità della pena. La mediazione dei conflitti fra detenuti e fra detenuti e personale anche mediante un apposito ufficio. L’incremento del rapporto con la società esterna, la particolare attenzione alla fase della dimissione, con il potenziamento degli Uffici di Esecuzione penale esterna e delle risorse degli Enti territoriali. Molte le raccomandazioni fatte dagli Stati Generali per promuovere l’affettività e l’esercizio della sessualità in carcere. Ma, sottolineano Gandus e Tonelli, di tutto ciò non si è poi voluto tenere conto. Assistendo, tra l’autunno 2018 e l’estate 2019, a una massiccia campagna massmediatica di segno opposto, segnata dalle affermazioni della necessità di innalzare le pene per i reati che provocherebbero allarme sociale, di rinchiudere i colpevoli e gettar via la chiave. Siamo certi che ciò basti o almeno contribuisca davvero a rendere la società migliore, più sicura, civile e de-criminalizzata davvero? Lo stile di “ZeroZeroZero”, un trattato di economia criminale di Aldo Grasso Corriere della Sera, 17 febbraio 2020 Basata sul romanzo-inchiesta di Roberto Saviano, la serie vuole raccontare la criminalità globale seguendo il viaggio della cocaina. Dopo il successo di “Gomorra” o di “Narcos”, che hanno scavato sempre più a fondo e senza remore nelle viscere delle organizzazioni criminali, il rischio di scadere nel “già visto” era altissimo. “ZeroZeroZero”, la nuova serie prodotta da Sky con Amazon Studios e Canal+, sfugge alla trappola, deviando parzialmente dal solco tracciato. Basata sul libro di Roberto Saviano, “Zero ZeroZero” vuole raccontare la criminalità globale seguendo il viaggio della cocaina: dalla preparazione alla sua immissione sui mercati illegali di tutto il mondo. È un percorso che mette l’accento sulle economie occulte che governano le leggi della criminalità. Ma è anche una storia di famiglie, di stili mafiosi differenti, di contesti locali dove tradizioni ancestrali e operazioni finanziarie si tengono in un filo che lega tutto. Emblematica, in questo senso, la differenza profonda tra il vecchio boss della ‘ndrangheta Don Minu che vive in un bunker e addestra il nipote (“non c’è nessuna pietà nella delusione”), le squadre della morte messicane e gli insospettabili uomini d’affari americani. Nulla come la criminalità tiene insieme globale e locale, sembra dirci la serie. Diretta da Stefano Sollima e scritta, tra gli altri, con Leonardo Fasoli e Stefano Bises, la fiction alterna scene d’azione tipiche del crime americano con il gusto nazionale dell’indugiare sui personaggi, alla ricerca delle radici del male e di un’umanità tormentata. “ZeroZeroZero” vuole essere tante cose, ma soprattutto un trattato di economia criminale, che mette in scena la legge della domanda e dell’offerta; le famiglie vengono presentate rispetto ai loro ruoli nella filiera e nella catena del valore (i “compratori”, i “venditori”, gli “intermediari”). Le musiche dei Mogway e una fotografia curata fanno risaltare un cast internazionale nel quale spiccano Gabriel Byrne e Giuseppe De Domenico, nei panni del rampante ‘ndranghetista Stefano La Piana. Sicurezza, maggioranza divisa: è lite sui decreti da riscrivere di Emilio Pucci Il Messaggero, 17 febbraio 2020 Oggi vertice con Lamorgese sui dl Salvini. Dem e Leu: aprire sui permessi umanitari. Altolà dei 5Stelle. Verso il ripristino delle iscrizioni all’anagrafe per i richiedenti asilo. È con l’approccio del tecnico che punta a risolvere i problemi e non alle polemiche che il ministro dell’Interno Lamorgese oggi porterà sul tavolo di palazzo Chigi testi e ipotesi di lavoro per cambiare i decreti sicurezza emanati da Matteo Salvini. Si prepara la svolta sul fronte delle polemiche migratorie nel vertice di maggioranza convocato dal premier Conte. Se dovesse arrivare - ma è difficile - subito l’accordo, i dl Salvini andranno già nel prossimo Consiglio dei ministri. Ma bisognerà vedere se i rilievi avanzati dal Capo dello Stato nelle due lettere inviate al premier (ottobre 2018 e agosto 2019) saranno tradotti in maniera restrittiva o espansiva. Per M5S (linea Di Maio, infatti, bisogna attenersi solo a quelle indicazioni, non è possibile andare oltre. Il Pd vorrebbe ben di più. Si prevede per esempio un braccio di ferro sul tema dei permessi umanitari, il cui numero è crollato in Italia dal 40 al 18%. L’orientamento del governo che continua a puntare sul criterio della redistribuzione dei migranti in Europa è quello di ripristinare la protezione umanitaria per alcune categorie a rischio. A quei migranti che arrivano in cattivo stato di salute, a chi manifesta disagio psichico, con la possibilità di considerare anche esigenze legate ai nuclei familiari. Pd, Leu, Iv e l’ala M5S che fa riferimento al presidente della Camera Fico, puntano ad allargare le maglie, a far sì che l’Italia si allinei con il resto d’Europa. I fedelissimi di Di Maio fanno muro: sarà possibile solo un aumento marginale. “Il ministro si è tenuto le deleghe sull’immigrazione ma sa che non potrà spingersi più di tanto”, spiega un big M5S, “il sistema non tiene, non possiamo tornare al passato”. Ma le novità in arrivo sono diverse. Più fondi per il sistema di accoglienza: lo stanziamento del Viminale era sceso nell’estate del 2018 da 35 a 19 euro al giorno a migrante. Una circolare del ministero ha aumentato i rimborsi, sull’onda dei ripetuti allarmi dei prefetti perché i bandi di gara andavano deserti. Verrà confermata questa direzione e dovrebbe essere inserito un criterio di flessibilità, dal momento che - questa la tesi - i costi sono diversi di regione in regione. Multe alle Ong: si ritorna a un massimo di 50mila euro, un ventesimo della cifra monstre, fino ad un milione di euro, partorita durante la conversione del decreto, con l’eventualità anche di eliminare del tutto le sanzioni qualora si registrasse una convergenza nella maggioranza di governo. E a tenere - come richiesto dal Colle - in debita considerazione, per l’eventuale confisca delle navi, la reiterazione della violazione dell’eventuale divieto di ingresso in acque territoriali e la tipizzazione dei mezzi che possono essere oggetto di multe. L’obiettivo è far sì che le Ong si muovano all’interno di una griglia di regole seguendo un codice firmato a livello Ue dagli Stati che battono bandiera. Verrà inoltre rivista la circolare Salvini che impedisce ai richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe comunale. Iscrizione necessaria - spiegano fonti parlamentari della maggioranza - per il rilascio del certificato di residenza e del documento d’identità senza i quali non è possibile iscriversi a scuola, stipulare un contratto di lavoro e di affitto. Si punta a cambiare anche le regole sulle richieste di cittadinanza per matrimonio: prima dei dl Salvini se a seguito della domanda non veniva riscontrata entro il termine perentorio di 2 anni nessuna difformità o anomalia, si prefigurava il cosiddetto silenzio- assenso, ovvero la domanda non poteva più essere respinta. L’idea ora è tornare appunto a quel silenzio-assenso. Per quanto riguarda il dl Salvini bis si mira a reintrodurre la discrezionalità del magistrato sulla tenuità del fatto con la distinzione delle categorie nelle norme che puniscono l’oltraggio e la resistenza al pubblico ufficiale. Sulle modifiche ai due decreti Pd, Leu e Iv dovranno convincere M5S e l’operazione non è semplice perché anche il premier Conte non intende mostrare il fianco agli attacchi di Salvini. Nel Pd la strategia è al contrario di andare in profondità: “Tanto Salvini ci dà addosso anche se ci muoviamo di un centimetro”, osserva un big dem. Poi c’è un’ala ‘oltranzista’. “Inutile fare vertice. Basta un tratto di penna e cancellare i dl Salvini”, afferma Orfini. I renziani vogliono un dispositivo organico per ridisegnare l’intero sistema per ripristinare la protezione umanitaria, salvaguardare le Ong e revisionare il meccanismo della cittadinanza. Ma il braccio di ferro, come si diceva, è solo agli inizi. Decreti sicurezza, il piano Lamorgese per smontare le leggi “bandiera” di Salvini Il Riformista, 17 febbraio 2020 Dopo una lunga attesa e le sollecitazioni della piazza ecco il piano della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese per smontare i decreti sicurezza firmati da Matteo Salvini. La ministra porterà oggi al tavolo della maggioranza che dovrà cercare un accordo un testo scritto per smontare l’ossatura della legge che prevede tra l’altro due temi forti: cittadinanza e diritto all’iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo. Un piano per cambiare i decreti sicurezza targati Salvini. È quello che poterà al tavolo della maggioranza previsto in giornata il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, che dovrebbe ‘smontarè la legge fortemente voluta dal leader della Lega in particolare sul tema della cittadinanza a del diritto all’iscrizione all’anagrafe per i richiedenti asilo. Una bozza a lungo rimandata dal governo anche per gli appuntamenti elettorali in Emilia Romagna e Calabria. Secondo quanto filtra, sarebbero quattro le “grandi modifiche” ai decreti sicurezza. Si parte dalle sanzioni alle Ong: le multe scenderanno ad un massimo di 50mila euro (attualmente è un milione di euro) mentre la confisca della nave e l’arresto del suo comandate scatterà solo in caso di reiterazione della condotta contestata. Tornerà poi ad ad un massimo di 24 mesi (attualmente è da 2 a 4 anni) il termine per concludere l’iter per la connessione della cittadinanza per residenza al compimento dei 18 anni dei figli di cittadini di stranieri nati in Italia. Nel piano Lamorgese è quindi prevista la cancellazione della norma del decreto sicurezza di Salvini che prevede che il permesso di soggiorno per richiedente asilo non costituisce più titolo per l’iscrizione all’anagrafe. Infine il permesso umanitario dovrebbe venire reinserito, con un ampliamento delle protezioni speciali per i casi di vittime di tratta. “Libia, tregua appesa a un filo”. Missione Ue per lo stop alle armi di Paolo Valentino Corriere della Sera, 17 febbraio 2020 Conferenza di Monaco, accordo (a metà) sulla linea italiana: monitoraggio aereo. L’embargo sulle forniture d’armi in Libia deciso dalla comunità internazionale alla Conferenza di Berlino “è diventato una barzelletta” e occorre “fare un salto di qualità”. Anche perché la situazione sul terreno, “nonostante alcuni segnali positivi, rimane molto preoccupante e la tregua è appesa un filo”. Parole chiare e drammatiche quelle di Stephanie Williams, vice del Rappresentante Speciale dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamè, al termine dell’incontro dei ministri degli Esteri dei Paesi che lavorano a una soluzione della crisi nord-africana. Ospitato dalla Germania in margine all’annuale Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, il vertice si è concluso con una dichiarazione comune, in cui i capi delle 13 diplomazie hanno rinnovato la loro “determinazione a contribuire alla piena applicazione dell’embargo”. Le ripetute violazioni al divieto di fornire armi alle parti in conflitto sono state denunciate dalle Nazioni Unite, senza tuttavia fare i nomi dei Paesi responsabili. Ma tutti sanno che si tratta soprattutto di Emirati Arabi ed Egitto sul fronte che appoggia i ribelli del generale Khalifa Haftar, e della Turchia su quello che sostiene il governo di Tripoli guidato da Fayez al Serraj. La dichiarazione di Monaco lascia aperta la questione cruciale sugli strumenti con cui l’embargo verrà sorvegliato e applicato, nonché sulle eventuali sanzioni per chi lo viola. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, presente alla riunione, ha detto che per renderlo efficace “ci vuole una missione dell’Unione europea che sia in grado di monitorare e bloccare l’ingresso delle armi nel Paese”. Della missione si parlerà oggi a Bruxelles al Consiglio Affari Esteri della Ue. Il maggior ostacolo è l’opposizione di Austria e Ungheria alla parte navale: Vienna e Budapest sostengono che una nuova operazione tipo “Sophia” (ma limitata al controllo delle forniture d’armi) finirebbe per riprendere i soccorsi in mare, incoraggiando nuove ondate migratorie. Ieri il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, ha lasciato intravedere una soluzione spiegando che “potrebbe non esserci bisogno di navi europee nel Mediterraneo, poiché tutte le vie, marine, terrestri e aeree, possono essere monitorate dal cielo”. A Bruxelles si parlerà anche di misure punitive: “Chiunque continuerà a violare il blocco - ha detto Maas - deve sapere che sarà individuato pubblicamente e sanzionato”. Il ministro ha annunciato che la prossima riunione dell’International Follow-up Committee, il gruppo che segue l’attuazione della road-map di Berlino, si svolgerà a Roma in marzo. A Monaco, l’Italia incassa comunque un importante successo diplomatico, con il prossimo ingresso, su proposta tedesca, nel formato E3, il gruppo europeo fin qui composto da Germania, Francia e Regno Unito, che si occupa del dossier iraniano. Sia Luigi Di Maio che il ministro della Difesa Lorenzo Guerini hanno espresso soddisfazione per questo riconoscimento al lavoro del nostro Paese nelle crisi internazionali. Libia, l’Onu: “Fermare l’arrivo delle armi”. Italia nel gruppo a quattro sul dossier Iran di Valentina Errante Il Messaggero, 17 febbraio 2020 “L’embargo delle armi in Libia è diventato una barzelletta, dobbiamo tutti veramente intervenire”. Le parole di Stephanie Williams, vicecapo della missione dell’Onu in Libia, sono nette. Durante la riunione di ieri al follow- up Committee di Monaco, a quattro settimane dal vertice di Berlino voluto da Angela Merkel, la Williams ha preso atto della drammatica situazione: “Ci sono violazioni, via terra, via mare e via aerea”, fornisce i dati e aggiunge: “È necessario che ci siano un monitoraggio ed un sistema di attribuzione di responsabilità”. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, annuncia che oggi a Bruxelles sarà affrontata la questione di una missione europea “che avrà il compito di dare un segnale chiaro: in Libia va bloccato il flusso delle armi”. Non una missione militare, sottolinea Di Maio, ma l’Europa dovrà utilizzare anche mezzi militari per un monitoraggio del rispetto dell’embargo e del cessate il fuoco, che potrebbe avvenire “via mare, via terra e per via aerea”. È però anche questo punto ad accendere la discussione a margine del tavolo, a cui ieri sedevano dodici stati e tre organizzazioni internazionali. È stato l’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, a lanciare l’appello, indignandosi per il veto austriaco sul riavvio della missione marittima Sophia. “Non può accadere che a causa del veto di un solo Stato, che peraltro non ha una Marina propria, si debba bloccare la missione marina europea. Se succede, rispondere ‘peccato non c’è stata l’unanimità’ è semplicemente ridicolo”, ha sbottato, puntando il dito contro il tallone d’Achille del metodo Ue. Un segnale positivo arriva: il prossimo 26 febbraio, per la prima volta dopo due anni, le parti in confitto dialogheranno. L’allarme riguarda anche le conseguenze per l’economia, con una crisi esacerbata anche dal blocco dei pozzi petroliferi. Haftar rimuova il blocco, tuona l’Onu. Il quadro generale viene supportato da alcuni dati. Sono state 1501e violazioni al cessate il fuoco, ha riportato Williams, e sono 140 mila i libici scappati e sfollati. La conferenza di Berlino è stata dunque una tappa importate, ma il percorso per una soluzione effettiva del conflitto è ancora lungo. A marzo il Committee follow up potrebbe tenersi a Roma, è stato detto. E del resto l’Italia ha ottenuto ieri “un importante riconoscimento” - nelle parole di Di Maio e Lorenzo Guerini - con l’apertura di Berlino ad accoglierla nel formato E3 sull’Iran, proprio con un occhio alla Libia, come affermato ieri dalla ministra della Difesa tedesca Annegret Kramp-Karrenbauer, come lo stesso Guerini aveva chiesto alla Germania lo scorso 12 febbraio, a margine del vertice Nato. Dopo la ministeriale, in un panel dedicato Ue, Di Maio ha ribadito che “per l’Italia la stabilizzazione della Libia è un obiettivo prioritario”. A chi rimprovera l’Europa di aver perduto influenza “va risposto che l’Europa non manda armi né mercenari”, ha aggiunto. Come pure va ribadito che la crisi di Tripoli ha bisogno di una risposta della comunità internazionale, “nessuno pensi di poter fare da solo”.