Cartabia: “La giustizia deve avere sempre un volto umano. E stop ai processi troppo lunghi” di Liana Milella La Repubblica, 16 febbraio 2020 “La giustizia deve sempre esprimere un volto umano”. E “deve bilanciare le esigenze di tutti”. “È evidente che i processi troppo lunghi si tramutano in un anticipo di pena anche se l’imputato non è in carcere”. “Il carcere rispecchi il volto costituzionale della pena e dia al detenuto una seconda chance”. “Partendo dal luogo più remoto della società, qual è appunto il carcere, la Corte sta portando la Costituzione ovunque. Perché la Costituzione e i suoi valori vivono e muoiono nella società”. Tutto questo dice a Repubblica, nella sua prima intervista, la presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia. Presidente buongiorno. Appena l’altro ieri è stata depositata alla Corte l’ultima sentenza che la vede come relatrice. Dopo non ce ne saranno altre a sua firma. Riguarda le detenute madri di figli gravemente disabili che potranno scontare la pena anche a casa. Perché ha voluto scriverla? “Non abbiamo voluto rinviarla perché riguardava la vita in concreto di due persone. Oltre che la madre reclusa, n’era coinvolta anche la figlia disabile, incolpevole. Ci si pensa raramente ma, in casi come questo, la pena è sì inflitta al condannato, ma ricade anche sulle persone vicine. L’ordinamento prevede strumenti - com’è la detenzione domiciliare - che, senza fare sconti, permettono di eseguire la pena con modalità che tengono conto delle persone innocenti bisognose di assistenza, ovviamente quando le esigenze della sicurezza lo consentono. Il magistrato di sorveglianza di certo non concederà la detenzione domiciliare a un detenuto pericoloso”. Cos’ha fatto la Corte? “Ha semplicemente detto che quando il figlio della madre detenuta è affetto da grave disabilità non conta l’età anagrafica, e quindi la detenzione domiciliare può essere concessa anche oltre l’età di dieci anni. Per le persone più fragili la vicinanza di quelle più prossime fa una grande differenza”. Lei sta parlando di una giustizia dal volto umano. “La giustizia deve sempre esprimere un volto umano: ciò significa anzitutto - come dice l’articolo 27 della Costituzione - che la pena non deve mai essere contraria al senso di umanità; ma anche che la giustizia deve essere capace di tenere conto e bilanciare le esigenze di tutti: la sicurezza sociale, il bisogno di giustizia delle vittime e lo scopo ultimo della pena che è quello di recuperare, riappacificare, permettere di ricominciare anche a chi ha sbagliato”. Torna di nuovo il trinomio Corte costituzionale-carcere-diritti dei più deboli, divenuto ormai un leit motiv per la sua istituzione negli ultimi due anni grazie al “Viaggio in Italia”, i giudici costituzionali nelle carceri. C’è un collegamento tra il Viaggio e le sentenze? “La Corte si è sempre occupata della condizione dei detenuti e in quest’ultima decisione vengono sviluppati alcuni principi già espressi in un caso analogo nel 2003. Certamente entrare negli istituti di pena ha permesso a noi giudici di comprendere e conoscere meglio la realtà del carcere. Mentre scrivevo quest’ultima sentenza avevo negli occhi il volto, e nelle orecchie le parole di una madre detenuta a Lecce, alla quale era stata negata la detenzione domiciliare perché la figlia aveva superato i dieci anni di età. Nel docufilm, questa donna si rivolgeva alla giudice de Pretis dicendo: “Signor giudice l’età non vuol dire nulla, perché la mia bambina è disabile e non sa nemmeno lavarsi le manine da sola”. Come darle torto? Come negare che la disabilità prolunga il bisogno del rapporto quotidiano con la madre?”. Vita vissuta, soprattutto quella di chi è ai margini della società, chi viene da un altro Paese, ha commesso un grave delitto, ma s’impegna in un percorso di risocializzazione. La Corte ritiene che questo percorso sia fedele alla Costituzione? “Certamente, ma la Corte opera con gli strumenti che le sono propri e nei limiti che sono imposti al suo agire: giudicando le leggi, eliminando gli ostacoli incostituzionali all’effettivo reinserimento sociale di chi in carcere ha davvero colto l’opportunità di una seconda chance. Ma, mi creda, questo è un compito corale”. In che senso mi scusi? “La Corte fa la sua parte, ma occorre l’azione responsabile e convinta di molti: il legislatore, i giudici, la polizia e l’amministrazione penitenziaria, i servizi sociali, le associazioni di volontariato. E talvolta ci sono storie meravigliose che nascono dal coinvolgimento di tutti, come la storia di Liz, una ragazza dominicana che si è lasciata invischiare nel traffico di stupefacenti. Dopo un percorso travagliatissimo, ormai maggiorenne, il suo tenace cammino di rinascita rischiava di essere interrotto dall’espulsione una volta uscita dal carcere. Di questo paradosso Liz, nel film, chiede conto al giudice Amato e dice: “Non mi sembra giusto che uno straniero che ha fatto un percorso in carcere e vuole integrarsi nella società venga espulso”. Anche grazie al viaggio e al film, con l’intervento di molti, questa storia ha avuto un lieto fine, dando a Liz una concreta speranza di vita in Italia”. È fresca di polemica politica l’ultima decisione che la Corte ha assunto mercoledì sulla legge Spazzacorrotti. Qualcuno ha parlato di legge bocciata, altri hanno accusato la Corte di far uscire dalle prigioni i delinquenti. Qual era il vostro obiettivo? “Guardi, qui la Corte ha semplicemente applicato uno dei principi fondamentali della civiltà giuridica in materia penale che vieta l’applicazione delle leggi più severe ai fatti commessi prima della loro entrata in vigore. La Spazzacorrotti ha inasprito il regime penitenziario per i reati contro la pubblica amministrazione, assimilandoli a quelli di criminalità organizzata e terrorismo, ed è stata applicata anche ai reati commessi prima della sua entrata in vigore”. Un errore quest’ultimo? “La nostra decisione ha colpito non la legge, ma la sua interpretazione retroattiva, con una sentenza che tecnicamente definiamo “interpretativa di accoglimento”. La legge di per sé non disponeva l’applicazione retroattiva, ma nemmeno la escludeva, non avendo previsto nessuna disciplina transitoria per i fatti pregressi. Si tratta comunque di una decisione che introduce un’importante innovazione perché chiarisce che il divieto di retroattività delle leggi penali riguarda anche quei cambiamenti nel regime penitenziario che comportano una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato”. L’impressione è che la Corte stia segnando un cammino sui diritti del tutto nuovo, una Costituzione mite, quindi una legge mite, che “mette alla prova”, non butta la chiave. È così? “È da molti anni che la Corte sta lavorando perché il carcere rispecchi “il volto costituzionale della pena”, come disse in una sentenza del 1980. L’articolo 27 della Costituzione parla di pena, non solo di carcere, che deve tendere alla rieducazione del condannato: dare una seconda chance. Negli anni più recenti la Corte sta sviluppando in particolare tre principi: proporzionalità, flessibilità della pena, individualizzazione. La proporzionalità è contro le pene eccessive, l’individualizzazione è contro le pene fisse, la flessibilità è contro le pene che non possono essere modificate nel corso dell’esecuzione”. Mercoledì, a Catanzaro, con le toghe dell’Anm, lei presenterà di nuovo il film sul Viaggio della Corte nelle carceri. È almeno la quindicesima volta che lo vede, oltre essere stata protagonista del dibattito con i detenuti a San Vittore. Cosa vuole trasmettere la Corte con quel film e cosa vuol dire agli italiani? “Pensi che ci sono state ben 36 proiezioni in Italia e all’estero e già ne sono fissate altre 21, nei cinema, nei tribunali, negli auditori, nelle carceri, nei luoghi di cultura, nelle scuole per citare solo quelle alle quali la Corte ha partecipato, quindi si può dire che partendo dal luogo più remoto della società - qual è il carcere - la Corte sta parlando a tutti, ovunque, e sta portando la Costituzione a tutti, ovunque. Del resto, la Costituzione e i suoi valori vivono e muoiono nella società: il dovere, e la responsabilità della nostra Corte, è custodire e al tempo stesso promuovere quei valori, farli ritrovare a chi li ha smarriti, tenerne viva la coscienza, diffonderne la conoscenza tra le più giovani generazioni. Un compito, peraltro, a cui tutti devono concorrere, con modalità diverse, anche l’informazione”. Glielo chiedo, ma non interrompa questa nostra intervista: è una Corte di sinistra o di destra, secondo una distinzione tranchant che piace alla politica, quella che incontra i detenuti, che sente la voce degli ultimi e la riporta dentro la Corte stessa per trasformarla in diritti di carta, traducendo i principi della Costituzione? “La ringrazio di questa domanda perché mi permette di fare una precisazione importante. La Corte non è un attore politico e non ha un programma politico da realizzare. La sua azione non può essere compresa attraverso chiavi di lettura di tipo politico, come la contrapposizione “destra-sinistra”. Non bisogna mai dimenticare la grande distinzione tra istituzioni politiche e istituzioni di garanzia. Il Parlamento e il governo sono istituzioni politiche. Il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e i giudici sono organi di garanzia, cioè arbitri. La Corte costituzionale deve vigilare che le decisioni degli attori politici rispettino sempre gli argini segnati dai principi costituzionali. E per farlo, talvolta deve “bocciare” - come si dice in gergo giornalistico - una legge, un referendum, o altri atti dei pubblici poteri. La Corte non agisce mai come l’avversario politico di una parte. La Corte è garante della Costituzione, che è la casa comune di tutti, come diceva Giorgio La Pira”. Immagino che lei non possa rispondere a una domanda su temi su cui la Corte potrebbe doversi pronunciare, come la prescrizione. Ma c’è una questione che da decenni ormai tormenta il dibattito non solo politico, ma scuote la vita dei cittadini: i tempi della giustizia. Le chiedo: è una giustizia giusta quella che impiega anni per emettere una sentenza di condanna o di assoluzione? “È evidente che i processi troppo lunghi si tramutano in un anticipo di pena anche se l’imputato non è in carcere. Che il processo debba avere una ragionevole durata è un principio di civiltà giuridica scritto nelle norme internazionali ed esplicitato nella Costituzione dal ‘99. Sono molti i fattori che concorrono alla lunga durata del processo, alcuni di natura organizzativa, altri legati alla necessità di accuratezza delle prove e alle garanzie per l’imputato. Perciò, risolvere questo problema richiede un’azione su vari fronti e certamente una riflessione pacata di tutti, al di là di ogni steccato ideologico. Ma, a proposito di giustizia giusta, mi lasci aggiungere un’ultima considerazione”. Mi dica… “Una giustizia giusta, se vogliamo usare quest’espressione, è una giustizia che permette di guardare al futuro, che non si pietrifica su fatti passati che pure sono indelebili. La giustizia giusta è riconciliazione, non vendetta. Perché la giustizia vendicativa - ce lo insegna la tragedia greca, in particolare l’Orestea di Eschilo - distrugge insieme gli individui e la polis, mentre una giustizia riconciliativa realizza l’armonia sociale. Come insegna la storia di Liz, senza cancellare nulla, bisogna che sia possibile aprire una prospettiva nuova per la singola esistenza individuale e per l’intera comunità”. Il ministro Bonafede: “Italia viva è isolata, i veti di Renzi non passeranno” di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 16 febbraio 2020 Il ministro della Giustizia: dopo dieci vertici con Iv, no ai veti di Renzi sulla prescrizione. “Il boato con cui la piazza mi ha accolto non lo dimenticherò mai”. Si è sentito difeso dai militanti, dopo lo scontro sulla prescrizione? “Difeso no, ma abbracciato sì”, risponde il ministro della Giustizia e capo delegazione del M5S, Alfonso Bonafede. Il ritorno in piazza con slogan anticasta non destabilizza Conte? “Assolutamente no, non c’entra nulla con il governo. In piazza Santi Apostoli il Movimento ha rivendicato il diritto a difendere le battaglie che porta avanti da sempre, a cominciare dai vitalizi. È stata una occasione di incontro meravigliosa”. C’erano cartelli contro Renzi e contro le alleanze con il Pd. Il progetto unitario a cui lavora Conte per voi è archiviato? “Ma no, da quella piazza non è uscito un messaggio sulle strategie politiche, è arrivata la voce dei cittadini. Con le forze politiche con cui siamo al governo stiamo scrivendo un’agenda di impegni ambiziosi su temi come economia, ambiente, giustizia. Poi le singole situazioni verranno viste sui territori, passo dopo passo. Il Movimento ha una sola strategia, fare le cose. E con questo governo le stiamo facendo”. Il via libera alla sua riforma del processo penale è arrivato senza le ministre di Italia Viva. Che conseguenze avrà lo strappo di Renzi? “Dispiace quando, in un governo che dovrebbe lavorare in squadra, c’è una forza politica che si isola. Detto questo, stiamo parlando di una riforma che tutti gli italiani ci chiedono per accelerare i tempi della giustizia. Non ci possono essere veti e chi li pone dovrebbe poi spiegare ai cittadini che sta bloccando una riforma fondamentale. Si lavora insieme, ci si confronta, ma la politica dei veti non serve agli italiani”. Italia Viva è stata estromessa dalle decisioni, sia sulla giustizia che sulle nomine pubbliche? “No, nessuna estromissione, lo dimostrano i circa dieci vertici sulla giustizia che io stesso ho fatto con Italia viva. Abbiamo lavorato insieme e ci siamo confrontati, come sul carcere ai grandi evasori. La riforma del processo penale l’avevo presentata già a ottobre e il vertice decisivo lo abbiamo fatto il 9 gennaio, ma da allora a causa dei veti siamo arrivati a metà febbraio. Si sono fissati su un punto...”. La prescrizione. “La mia riforma della prescrizione è già in vigore dal primo gennaio. Ma poiché a me interessa eliminare le impunità e velocizzare i processi ci siamo messi a lavorare. Con il Pd e con Leu, che pure ha un numero inferiore di parlamentari, si è lavorato alla pari. L’isolamento di Italia viva è totalmente irragionevole”. Un pretesto per buttare giù Conte? “A un certo punto, quando dici no a qualsiasi cosa e ti metti a votare con l’opposizione, non stai facendo più il gioco di squadra. Che un processo su quattro vada in fumo ogni anno è un problema che andava affrontato, nessuno lo può mettere in dubbio. E noi con il processo penale velocizziamo i processi e ci allineiamo agli altri Paesi Ue, perché solo la Grecia ha un meccanismo simile a quello applicato sin qui in Italia, che ha comportato denegata giustizia”. Renzi non molla, dice che il “lodo Conte bis” è incostituzionale. Lei è disposto a cambiare ancora per evitare altre fratture? “Abbiamo discusso tanto nella maggioranza, il lodo Conte bis è il punto di arrivo di un accordo. Rallentare questa riforma sarebbe particolarmente grave, si bloccherebbe il Paese. Io ho sempre detto che la prima cosa da fare è investire nell’infrastruttura. Stiamo facendo un piano di assunzioni di 600 magistrati e 9000 unità di personale amministrativo. Con la riforma del processo penale mettiamo un’ulteriore iniezione di energia. Anche grazie alla collaborazione del Mef inseriamo 500 giudici ausiliari nelle corti d’appello dall’1 gennaio 2021 e mille unità di personale amministrativo dall’ 1 settembre 2020”. Avete messo il Lodo Conte bis nel ddl della riforma penale per allungare i tempi e allontanare lo scontro con Renzi? “No, perché la maggioranza è d’accordo su quella norma e perché è bene che ci sia un disegno unico. La giustizia è fondamentale, gli investitori stranieri guardano le classifiche sui tempi dei processi”. Se davvero l’ex premier provasse a sfiduciarla in aula, il governo cadrebbe? “Sfiduciare me? Io non commento voci di corridoio, che mi sembrano del tutto illogiche. Ciascuno fa quel che ritiene e si assume le proprie responsabilità. Quando l’argomentazione diventa provocazione, il modo peggiore di rispondere è caderci. La mia riforma è in vigore, il lodo Conte bis è una buona norma, ma non è la mia legge sulla prescrizione. Io alle polemiche e alle provocazioni non ho mai risposto, se non per dire che i cittadini hanno bisogno della riforma in tempi celeri”. La convince il tentativo di spaccare i gruppi renziani? O è meglio chiedere aiuto ai “responsabili” di Forza Italia ed ex M5S? “C’è un governo, c’è una maggioranza e la mattina, quando mi alzo, penso a lavorare per i cittadini. Ce la metto tutta e penso di aver fatto molto come ministro della Giustizia. Basta vedere l’elenco dei provvedimenti approvati, che li si condivida o meno”. Se Renzi continuerà a fare opposizione, come pensate di andare avanti? “Io sono stato attaccato, mi sono state portate delle offese personali, ma non mi interessa e rispetto tutti. La questione non è personale. Si parla del bene del Paese e io ho giurato sulla Costituzione. Si possono raggiungere obiettivi insieme, gli attacchi me li aspetto dall’opposizione”. Il M5S è al minimo storico, è preoccupato? “Non ho mai lavorato guardando ai sondaggi”. Lucia Annibali: “Se osi toccare la giustizia quanto odio ti tiri addosso” di Alessandro Giuli Libero, 16 febbraio 2020 La deputata simbolo della lotta alla violenza sulle donne: “Da quando mi occupo di prescrizione c’è perfino chi esalta il mio sfregiatore”. Lucia Annibali non si spaventa: è una garantista tenace, una donna che conosce il peso della sofferenza privata ma al clamore e agli insulti pubblici reagisce con la forza dell’intelligenza. Non c’è alcun cedimento emotivo nel nostro colloquio sul Lodo che porta il suo nome e che per poco non ha fatto saltare per aria la maggioranza giallorossa: due emendamenti presentati da Italia Viva e votati dal centrodestra, ma bocciati per un pelo, che avrebbero sospeso per un anno la riforma della prescrizione targata Bonafede. La battaglia non è finita, anche se ha provocato un grande tramestio parlamentare con una sordida coda di attacchi sui social contro l’avvocatessa di Urbino eletta alla Camera nel 2018 e nota alle cronache come vittima, nel 2016, di stalking e di un tentato omicidio culminato con uno sfregio a base di acido. Onorevole Annibali, chi gliel’ha fatto fare? “Sono orgogliosamente esposta come capogruppo di Italia Viva nella commissione Giustizia. Occuparmi di questi temi è la mia responsabilità. Abbiamo presentato due emendamenti al Milleproroghe, sono stati dichiarati ammissibili, li abbiamo messi ai voti. Tutto qui: si tratta di ordinari strumenti parlamentari per portare avanti un’idea di buon senso”. Il Pd, che sembrava attestato sulle stesse posizioni garantiste, sostiene che abbiate rinunciato a ogni mediazione. Il premier Conte dice avete preferito mettervi all’opposizione… “Non siamo stati noi a votare con le opposizioni ma loro a convergere sulla nostra iniziativa. Il punto è cruciale: stiamo conducendo una battaglia, anche se il termine “battaglia” non mi piace, per far tornare il sistema della giustizia a una narrazione corretta, senza strumentalizzazioni. Tutti dovremmo convergere insieme, in nome dello stato di diritto, di fronte alla visione giustizialista dei Cinquestelle. Invece ci siamo trovati di fronte a un muro inspiegabile, sia sul piano politico sia sul piano della cultura giuridica”. Per la verità una mediazione c’è stata: ne è nato il lodo Conte con un disegno di legge che controriformerà la riforma Bonafede e con essa il processo penale… “Intanto mi è sembrato surreale dover impiegare così tanto tempo a spiegare che l’istituto della prescrizione non è il male, anche se in passato qualcuno ne ha abusato. È ridicolo dire che noi non vogliamo riformare il processo penale, è una ricostruzione infantile. Dopodiché, sì, il ddl in questione introduce altri margini negoziali e temporali: ci vorrà almeno un anno di tempo per portare il dossier a conclusione. Non possiamo immaginare che la riforma possa essere completata in due mesi, in regime di bicameralismo paritario e con tutte le audizioni previste. Tanto valeva approvare la mia proposta e rinviare di un anno la legge Bonafede”. Ma nella nuova legge non c’è solo la sospensione della prescrizione, ci sono anche vincoli più stringenti per accelerare i processi… “Il tema va affrontato con la logica: non ha senso intervenire sulla prescrizione partendo dalla coda per arrivare alla testa. Dovremmo cominciare dai problemi prioritari: la prescrizione è il rimedio a una eccessiva lungaggine dei processi penali; nessuno nega che il processo accusatorio oggi non funzioni perfettamente, ma se il tempo medio per arrivare a sentenza è di 15 anni; se nella maggior parte dei casi lo Stato non riesce nemmeno a celebrare il primo grado di giudizio, non possiamo pensare che i cittadini restino in balìa dei tribunali. Di fronte a questo dato di fatto, la giustizia non può diventare una bandierina politica”. Lei invece è diventata, suo malgrado, una bandiera della dignità femminile e politica oltraggiata dai soliti odiatori da tastiera... l’hanno ricoperta di contumelie sui social network… “Ho subìto attacchi spropositati ma non è la prima volta. Ce ne sono stati altri, fin dal 2016 quando mi espressi a favore del referendum costituzionale renziano. Da “eroina” della cronaca nera diventai per alcuni una persona orribile. Poi, a fine 2017, quando collaboravo con la sottosegretaria Maria Elena Boschi, ci fu quell’episodio spiacevole con il direttore del Fatto, Marco Travaglio (lui si augurava che la legislatura venisse “sciolta nell’acido”, lei replicò così: “Chi, come me, ha conosciuto gli effetti dell’acido, per sua sfortuna, si augura invece che questo non debba mai accadere a nessuno, nemmeno per scherzo”, ndr). Quindi, con l’ingresso in politica, le aggressioni si sono moltiplicate”. C’è un tizio in particolare, sul quale i pm hanno aperto un fascicolo per apologia di reato, che ha elogiato il suo sfregiatore definendolo “un mito” che ha fatto il suo dovere contro “una misera infame”, che sarebbe lei… “Quel tizio se l’è cercata... L’odio in rete colpisce molte donne, ma soprattutto le donne che fanno politica; se poi tuo malgrado sei conosciuta per un fatto personale di rilievo pubblico, ci mettono un carico ulteriore. La mia vicenda privata è stata mescolata con un tema tecnico come la prescrizione (e io ricordo che sono anzitutto una tecnica), così mi ritrovo rinfacciato il fatto di essere stata aggredita con l’acido... Mi fa un po’ innervosire il fatto che non capiscano l’aspetto tecnico della vicenda prescrizione; invece di approfondire il tema, gli odiatori mi dicono: proprio tu che sei stata ridotta così...”. Se esiste un identikit dell’odiatore medio, possiamo affermare che non è di destra né di sinistra: è soltanto una bestia eccitata dai social… “Nessuno può sapere che cosa provo oggi dentro di me, qual è stato il mio percorso interiore, ed è molto triste. Se mi fossi dedicata ad altro rispetto all’impegno in politica, magari sarebbe andata diversamente. Ma il fatto che una donna si proponga in modo vincente ad alcuni non va giù. Ciò detto, e con tutte le implicazioni psicologiche che appesantiscono una realtà personale per me già tanto faticosa, sono stata educata a riprendermi la vita ogni volta che qualcuno tenta di portarmela via”. Per fortuna lei ha anche ricevuto tanta solidarietà e in forma trasversale. Non soltanto da sinistra... “Sì, da Guido Crosetto a Giorgia Meloni e Roberto Calderoli: un bel segnale. Anche il ministro Bonafede è stato solidale, gli ho scritto in privato, siamo andati subito al di là della questione politica”. Lei è una persona schiva, mite, all’apparenza timida perfino. Preferirebbe tornare sui suoi passi oppure la politica è ormai un orizzonte professionale stabile? “In questo momento sono una donna politica. Dopodiché io ragiono sempre sull’oggi. Ma devo dire che l’esperienza con Italia Viva rappresenta un motivo di forte crescita personale, ho conosciuto e sperimentato responsabilità diverse da quelle legate alla professione di avvocato”. Certo che se Renzi continua così, con le sue intemperanze politiche, c’è il rischio che torniate tutti a casa dall’oggi al domani... “Matteo è Matteo, gli vogliamo bene così. Non rimpiango la scelta di lasciare il Pd per Italia Viva e le assicuro che fra noi parlamentari renziani non c’è alcun disagio”. Una concezione mite di politica e giustizia di Paolo Franchi Corriere della Sera, 16 febbraio 2020 L’idea puramente vendicativa della pena era diffusa anche in passato. Ma allora era contrastata da uomini, tradizioni e culture radicate nel Paese. “Hanno fatto il percorso rieducativo previsto dall’articolo 27 della Costituzione, e ritengo che mio padre come Aldo Moro, che hanno dato la vita per la Costituzione e lo Stato di diritto, non possano che rallegrarsi di ciò”. Risponde così Giovanni Bachelet, nella bellissima intervista rilasciata nei giorni scorsi al Corriere, a Giovanni Bianconi, che gli chiede un giudizio sul fatto che i brigatisti che il 12 febbraio del 1978, quarant’anni fa, uccisero alla Sapienza suo padre Vittorio, ex presidente dell’Azione Cattolica e vicepresidente del Csm, sono da tempo in libertà. E le sue parole sembrano contraddire vistosamente lo spirito del tempo. Come può mai fare, non un cittadino qualsiasi, ma addirittura il figlio di una vittima, a essere così “buonista” da non esigere che gli assassini siano quanto meno lasciati a “marcire in carcere” (anche se meglio sarebbe giustiziarli, o perché no, lapidarli, o linciarli) sino alla fine dei loro giorni? In realtà, l’idea che la giustizia sia un sinonimo della pubblica vendetta, comprensibilmente destinata a tradursi in dilagare delle vendette private se le istituzioni non sanno o non possono o non vogliono metterla in pratica, in Italia, uno Stato di diritto, fondato, oltre tutto, sulla “Costituzione più bella del mondo”, non ha preso corpo solo negli ultimi decenni. Negli anni Settanta, segnati da una vistosa recrudescenza della criminalità organizzata oltre che dallo stragismo di destra e dal terrorismo di sinistra, il tentativo del Msi di promuovere un referendum per la reintroduzione della pena di morte raccolse un consenso popolare assai più vasto di quanto si possa desumere dalla lettura dei giornali del tempo. Nel marzo del 1978, all’indomani del rapimento di Moro, la invocò, nella convinzione che tra i brigatisti e lo Stato vigesse ormai lo stato di guerra, persino Ugo La Malfa. Della medesima opinione si dichiararono (nel 1981, lo stesso anno in cui in Francia François Mitterrand consegnava ai musei la ghigliottina e in Italia Marco Pannella cercava senza successo di abolire l’ergastolo per via referendaria) il grande musicologo Massimo Mila, resistente e azionista, e dieci anni dopo, ma stavolta a fini dissuasivi verso la fiorente industria dei sequestri, il pur mitissimo segretario della Dc Arnaldo Forlani. Si potrebbe proseguire a lungo, e non solo a proposito della pena di morte. Ma resterebbe sempre il fatto che tra il nostro passato (relativamente) recente e il nostro presente c’è una differenza fondamentale, anche se quasi universalmente sottaciuta. Certo, anche ieri la concezione puramente afflittiva (ma forse sarebbe più esatto dire: vendicativa) della pena, che è parte essenziale del fenomeno che un po’ sommariamente definiamo giustizialismo, era assai diffusa, e secondo i sondaggi d’epoca addirittura maggioritaria. E probabilmente era diffusa, e magari anche maggioritaria, pure l’idea che, se non c’è fumo senza arrosto, un imputato andasse considerato colpevole, non innocente, fino a prova contraria, e che i garantisti fossero amici del giaguaro (nel caso del terrorismo: fiancheggiatori nemmeno troppo occulti). Ma trovavano a contrastarle sul campo uomini e prima ancora tradizioni e culture radicate tanto nel Paese quanto nelle pratiche di governo e di amministrazione. In particolare le tradizioni e le culture portatrici di una concezione mite della politica, che erano ben consapevoli dell’esistenza degli spiriti animali della società, ma che, invece di cavalcarli e all’occorrenza di scatenarli, cercavano di addolcirli e comunque di tenerli a bada. Due su tutte. Quella del socialismo umanitario, che pesò, eccome, anche nella scelta di Bettino Craxi (che pure, del suo, mite proprio non era) di mettersi in cerca quasi in solitudine di una via appunto umanitaria per cercare di strappare vivo Moro ai suoi carnefici. E, ben più influente, quella del cattolicesimo democratico, che invece sul caso Moro drammaticamente si divise (un suo esponente illustre come Vittorio Bachelet, lo ricorda il figlio Giovanni nell’intervista al Corriere, non si schierò pubblicamente né per il partito della fermezza né per il partito della trattativa, ma perché pensava, da uomo delle istituzioni, che bisognasse lavorare in silenzio all’interno di queste per liberare il prigioniero). Entrambe sono state travolte agli inizi degli anni Novanta, quando anche le loro virtù vennero rappresentate come delle maschere, o degli alibi costruiti perché non venissero alla luce i loro vizi. Della prima, la socialista umanitaria, si sono smarrite ormai le tracce. La seconda è viva, sì, ma innegabilmente minoritaria, temo anche all’interno del cattolicesimo italiano, e sul piano politico, dopo la scomparsa della Dc, conta quello che conta, cioè poco, o pochissimo. Sarebbe inutile, e anzi controproducente, indulgere alle nostalgie. Ma non c’è bisogno di essere dei nostalgici per segnalare che se ne avverte assai l’assenza, o il ridotto peso specifico. Per dire: difficilmente, nei tempi ormai lontani in cui contavano, avremmo anche solo immaginato di poter sentire, a proposito della prescrizione, un ministro della Giustizia affermare in tv che “gli innocenti non vanno in galera”, salvo poi precisare che si riferiva, bontà sua, agli imputati assolti. Ha ragione Aldo Cazzullo, quando al funerale di Vittorio Bachelet sentimmo emozionati Giovanni esortare a pregare per i servitori dello Stato democratico, certo, ma anche per gli assassini, per la prima volta pensammo che forse “i buoni” avrebbero vinto la loro battaglia senza smettere di essere tali. Trent’anni dopo, purtroppo, ne siamo meno convinti. Prescrizione, la vera posta in gioco dietro lo scontro politico sulla giustizia di Alberto Custodero La Repubblica, 16 febbraio 2020 Sulla prescrizione si sta giocando uno scontro politico che ha generato, come ha detto il coordinatore di Italia viva Ettore Rosato, una “crisetta” di governo. La crisi non la vuole nessuno, ma i partiti che reggono il Conte bis sono al momento spaccati: da una parte Pd-M5S-Leu, dall’altra Italia viva. Fra questi due schieramenti è in corso da tempo un braccio di ferro con un reciprroco scambio di accuse su questo delicato tema della giustizia far cadere il governo. Da una parte un fronte compatto composto da Pd, M5S e Leu, che hanno raggiunto un accordo proposto dal presidente del Consiglio. Con questa proposta del premier il testo è rimasto identico a quello deciso dieci giorni fa nell’ultimo vertice sulla giustizia e battezzato da Bonafede come ‘lodo Conte-bis’. Nel senso che, rispetto alla sua prescrizione “corta” originaria - si ferma dopo il primo grado per tutti i processi - si passa a una distinta per assolti e condannati. Per i primi la prescrizione continua a correre. Ma, su richiesta di Bonafede e dopo un paio di riunioni con Pd e Leu, ci potrà essere una sua sospensione per 18 mesi solo qualora la prescrizione rischi di scadere, in modo da celebrare il processo d’appello, se il pm ovviamente impugna. Per i condannati invece la prescrizione si ferma. Il processo deve essere celebrato in tempi rapidi. Se l’imputato viene condannato di nuovo si ferma definitivamente, altrimenti se viene assolto potrà recuperare con un bonus un tempo pari alla prescrizione perduta. Inoltre anche nell’ultimo grado di giudizio la prescrizione può essere sospesa per gli assolti per sei mesi se rischia di scadere nel giro di un anno. Italia viva ha votato con il centrodestra al Senato, in commissione Giustizia, dove erano stati dichiarati ammissibili gli emendamenti di Fi Monaco-Caliendo contro la prescrizione di Bonafede e proposti nel decreto legge sulle intercettazioni. Non sono passati perché il voto è finito in parità, 12 a 12. Ma si tratta solo della prima minaccia concreta del potere di veto che Italia viva ha al Senato dove i numeri della maggioranza sono risicati, e che potrebbe costringere la maggioranza a mettere la fiducia anche sulle intercettazioni entro la fine di febbraio quando il decreto scade, nonché su tutti i provvedimenti nei quali il forzista Enrico Costa minaccia adesso di inserire ogni volta emendamenti sulla prescrizione. La minaccia del 24 febbraio - È il giorno in cui il disegno di legge Costa, che cancella la legge Bonafede originaria, andrà in Aula alla Camera. Proprio in quel ddl la maggioranza vorrebbe inserire l’emendamento sul ‘lodo Conte bis’ per modificare subito la legge Bonafede. Iv ha già annunciato che voterà invece per la sua cancellazione come propone Costa. I renziani insistono sul lodo Annibali articolato in due punti, il primo il rinvio di un anno della riforma Bonafede sulla prescrizione. Il secondo il ritorno in vita della legge Orlando. Ma le commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera hanno detto no. La posizione di Iv al momento è attestata su fatto di un rinvio della riforma Bonafede. Al Senato si gioca il vero scontro politico sulla tenuta del governo - Al Senato si verifica una situazione anomala di equilibri politici. Pd-M5S-Leu, nelle commissioni competenti in materia di giustizia, possono contare su una loro maggioranza. In Aula, invece, la maggioranza il governo la ottiene con i voti di Iv: tale assetto conferisce di fatto a Renzi una sorta di ‘diritto di veto’ finale sui provvedimenti da votare. Questo ‘potere politico’ che esercita sulle decisioni del governo è il motivo per cui Conte, Franceschini e il Pd in generale stanno tentando di sfilare alcuni senatori a Iv. Il retroscena: la lotta di potere dietro lo scontro sulla prescrizione - Dietro lo scontro sulla prescrizione si sta consumando una battaglia politica fra Renzi e Conte in cui uno tenta di sostituire l’altro. Conte sta cercando di rendere Iv irrilevante (al Senato) ai fini della tenuta del governo. Mentre Renzi non ha nascosto critiche alla gestione del premier ventilando anche la possibilità di una sua sostituzione. Nel frattempo il Consiglio dei ministri ha votato l’altra sera la riforma del processo penale attesa da anni che accorcia sensibilmente la lunghezza dei processi. All’interno di questa riforma penale è stato inserito il ‘lodo Conte bis’, fatto questo che ha ‘rasserenato’ un po’ Renzi in quanto il tutto avrà un iter di legge parlamentare con tutte le possibilità che ciò comporta. Sulla prescrizione è solo armistizio. Riforma Bonafede al test processi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2020 Rischio binario morto per i correttivi inseriti nel riordino del rito penale, per il quale sono previsti tempi lunghi. Lo scontro con Iv ripartirà nei prossimi giorni su Ddl Costa e Dl intercettazioni. La guerra non è finita. E la prescrizione rischia di agitare ancora per parecchio tempo l’agenda politica e non solo. Perché alla fine la decisione del Governo di innestare il lodo Conte bis nel più ampio disegno di legge di riforma del processo penale ha permesso a 5 Stelle, Pd e Leu, di uscire dall’impasse nella quale da giorni si trovavano impantanati per la guerriglia di Italia Viva, e tuttavia ha come effetto quello di prolungare a oltranza l’operatività della riforma Bonafede, che invece si intende correggere. Le ragioni sono evidenti: dal 1° gennaio è in vigore il blocco dei termini dopo la sentenza di primo grado, indipendentemente dal suo contenuto, di condanna o assoluzione; gli effetti si potranno misurare solo tra qualche tempo, certo, quando andranno in prescrizione i primi reati contravvenzionali. Ma che un impatto ci possa essere da subito, per esempio sui tempi di durata del primo grado, è testimoniato dalla volontà del ministero della Giustizia di varare già la prossima settimana una commissione, nella quale dovrebbero essere presenti sia magistrati sia avvocati, per misurare da subito gli effetti della riforma. Nel frattempo quella soluzione tra il barocco, certo, e l’incostituzionale, per alcuni, sintetizzata nel lodo è e sarà ben lontana dall’entrata in vigore. Difficile infatti pronosticare un cammino parlamentare rapido per un disegno di legge delega, come sempre in realtà assai dettagliato però, che interviene su elementi cruciali del processo penale, dalla durata delle indagini preliminari ai riti alternativi, alle notifiche. E questo anche se al consiglio dei ministri di giovedì notte è arrivato un provvedimento privo di tutta la parte ordinamentale, senza cioè la riforma del sistema elettorale del Csm e la revisione delle regole per l’ingresso (e l’uscita) dei magistrati da cariche politiche. Bene che vada se ne riparlerà tra parecchi mesi e il rischio molto concreto è che la riforma della riforma più che su una corsia preferenziale sia finita su binario morto. E dove le insidie alla Bonafede arriveranno in realtà nei prossimi giorni sul fronte parlamentare, tra Camera e Senato. Con una ricorrenza che non dovrebbe essere ricorrente, quella del voto di un partito di maggioranza, Iv, con le opposizioni. Alla Camera il problema si riproporrà con gli emendamenti al disegno di legge Costa al voto in commissione dal 18 febbraio (solo con il voto determinante della presidente 5 Stelle ne passò uno soppressivo) e in Aula dal 24 febbraio. Ma, considerati i margini assai più esili per la maggioranza, il nodo più intricato sarà quello del Senato dove la prossima settimana andrà al voto il decreto legge intercettazioni, in scadenza tra l’altro a fine mese. Già in commissione la scelta di Italia Viva di votare con le opposizioni su un emendamento agganciato al testo da Forza Italia per cancellare la Bonafede ha visto un pareggio 12 a 12 (al Senato equivale a bocciatura) per il rotto della cuffia. Se, come assai probabile l’emendamento sarà riproposto in Aula, con il rischio assai concreto per la maggioranza di andare sotto, allora è più che possibile che sarà necessario mettere la fiducia su un testo che, comunque, ha raccolto anche una serie di perplessità da parte del Csm. Dopo 28 anni torna il vento di Mani pulite, ma è una farsa di Piero Sansonetti Il Riformista, 16 febbraio 2020 Il governo ha confermato l’abolizione della prescrizione. Come voleva il partito dei Pm. Ha stabilito che il processo penale può durare un tempo eterno. Rispetto alla prima norma anti-prescrizione (quella del governo Lega-5 Stelle) contenuta nella legge “spazzacorrotti”, le novità sono due. La prima è che si introduce (bypassando la Costituzione) una distinzione tra condannato o assolto in primo grado. Il condannato è fregato, finisce nel tunnel dei processi senza fine. L’assolto conserva la prescrizione. Questo avrà una conseguenza inevitabile: che le Corti d’appello manderanno avanti i processi agli assolti (cioè i ricorsi dei Pm) che altrimenti vanno in prescrizione, e lasceranno languire, magari per dieci anni, o venti, gli appelli dei condannati. I quali però, in uno strano gioco dell’oca, potranno recuperare la prescrizione se riusciranno a ottenere che l’appello si celebri prima della loro morte e riusciranno a essere assolti in appello (statisticamente è una situazione frequente: circa il 40 per cento dei condannati viene assolto in appello). Solo che a quel punto - vecchi - la prescrizione gli servirà a poco. Il partito del giustizialismo, quello guidato da Travaglio e da Bonafede, e che ha alle spalle la forza prepotente del partito dei Pm, ha vinto una bella battaglia. Lunedì prossimo sarà il ventottesimo anniversario dell’inizio della stagione di Mani Pulite. Qualcuno la ricorda? Qualcosa come 5000 politici finiti nella retata, centinaia e centinaia di arresti, delazioni ottenute col ricatto del carcere, suicidi, interi partiti rasi al suolo, la democrazia politica messa con le spalle al muro, i magistrati e i loro assistenti giornalisti con pieni poteri poi ci furono 4000 assoluzioni. È stato uno dei periodi più foschi della storia della Repubblica. Beh, l’aria che si sente soffiare, oggi, è molto simile a quella. Il partito dei Pm ha un nemico giurato: la Costituzione. I principi dello stato di Diritto. L’attacco punta lì. E non si fermerà se qualcuno non scenderà per strada a fermarlo. Il compito spetterebbe al Pd, che è un partito che vanta qualche tradizione democratica. E che sta nel governo. Però, se non ci siamo sbagliati, ora è nascosto tra le fila dei 5 Stelle, e sembra passato al servizio dei magistrati. Si sveglierà? Avrà uno scatto di orgoglio? Sperare è sempre legittimo (per ora…). P.s. La storia, lo sapete, si ripete. La prima volta è una tragedia, la seconda una farsa: speriamo che sia vero, che avesse ragione Marx. Tutte le buone ragioni per “tornare” all’Anac di Antonio Pagliano ilsussidiario.net, 16 febbraio 2020 L’Anac è priva da mesi della sua guida. Ma il governo non è ancora intervenuto. Invece la struttura andrebbe supportata e rafforzata. L’ultima riflessione del nostro ciclo è dedicata alla lotta alla corruzione e alla struttura che nel nostro paese è deputata al preventivo contrasto al fenomeno. Aperta nel 2012 la stagione della prevenzione come necessaria leva di supporto alla repressione affidata alla magistratura, la normativa in tema di anticorruzione ha consentito di varare una particolare autorità indipendente, cui è stato affidato il compito di introdurre, rafforzare, applicare i presidi di prevenzione. Parliamo dell’Anac, presieduta da Raffaele Cantone fino a pochi mesi fa, quando, prematuramente sulla scadenza prevista, sono giunte le sue dimissioni dall’incarico per la presa d’atto di una sostanziale crescente sfiducia sull’operato da parte dell’allora governo giallo-verde. Sono stati mesi difficili per l’Anac, attualmente guidata dal professor Francesco Merloni in veste di facente funzioni come consigliere anziano, e sono tempi magri per chi ha creduto nella prevenzione. È un dato di fatto che il governo giallo-verde non abbia creduto, e tanto meno investito, sull’autorità, forse perché la sua primogenitura era marcatamente renziana. Un certo malumore sembra continui a respirarsi nei corridoi dell’agenzia, soprattutto a causa di un emendamento che avrebbe lo scopo di dare sostanza al lavoro dell’Anac anche in questo periodo, ormai decisamente lungo, in cui è priva del suo capo. Ebbene, la cronaca parlamentare racconta che quell’emendamento sia stato dai Cinquestelle prima sventolato, poi, senza spiegazioni, affossato. Sciatteria, disattenzione o altro? Inevitabile che tornino alla memoria le dichiarazioni formulate dal premier Giuseppe Conte, che ai tempi del suo esordio, nel giugno 2018, aveva rifilato all’Authority di Cantone un giudizio severo, parlando di “risultati deludenti”. Poi il Presidente del Consiglio ha fatto un po’ retromarcia, ma da allora, nei corridoi dell’Anac, la sensazione di non essere amati a Palazzo Chigi è rimasta. E la sensazione si rafforza adesso, nella fase delicata in cui l’Authority deve continuare a lavorare senza presidente. Come accennato, in questo periodo l’Anac è diretta dal più anziano tra i consiglieri, Francesco Merloni: un galantuomo, come si diceva una volta, un tecnico, con un corposo curriculum di lavori sui rapporti tra pubblica amministrazione e corruzioni. Allo stato, il professor Merloni dirige l’Anac con pieni poteri, ma unicamente sulla base di un regolamento interno. Per dare solidità al suo operato servirebbe una norma di legge che equiparasse il vicario al presidente effettivo, in particolare per le funzioni che deve svolgere in solitaria: a partire dalla più delicata, il potere di commissariamento degli appalti considerati a rischio corruzione, esercitato, appunto, direttamente dal suo ex presidente oltre 40 volte dall’entrata in servizio di Anac. Inevitabile formulare pensieri tinti. I media hanno dato assai poco spazio a questa vicenda. Circostanza altrettanto significativa: l’Anac non gode di grande sostegno, non gode di grande simpatia. La sensazione è che il Governo in primis non la ritenga un vanto come invece dovrebbe essere, certo con tutti i limiti di una giovane creatura poggiata su basi non proprio solidissime. Al contrario, quella struttura andrebbe rafforzata, supportata, posta al centro di un progetto di ancor più ampio respiro. Si può dire che la presidenza Cantone, la prima avuta da Anac, sia stata di natura sperimentale. Sarebbe saggio trarre le somme di questo esperimento. Anche qui, dimostrare di avere una visione. Anche qui, l’auspicio resta vivo così come la disponibilità a rimboccarsi le maniche per contribuire a tirare fuori dal fallimento il sistema giustizia di questo paese. Sassari. Tragedia nel carcere di Bancali, detenuta si toglie la vita di Andrea Busia L’Unione Sarda, 16 febbraio 2020 Aveva 39 anni ed era sarda la detenuta che si è tolta la vita nel penitenziario di Bancali. Le agenti della Polizia Penitenziaria hanno fatto di tutto per salvarla, ma quando sono entrate nella cella era già troppo tardi. La detenuta si è impiccata, questo emerge dalle indagini interne avviate dopo la tragedia. Giuliana Contini stava scontando la pena per una serie di furti e nei giorni scorsi aveva avuto la notizia della liberazione anticipata, sarebbe uscita dal carcere sassarese a maggio. Stando agli accertamenti in corso, la sua condizione, almeno in questo momento, non era tale da rendere necessaria una sorveglianza più stretta. Ma questo sarà accertato dalle indagini interne. Nel reparto femminile di Bancali ci sono una quindicina di detenute, seguite dalle poliziotte penitenziarie. Il clima non è quello di tensione della sezione maschile, anche se le problematiche delle persone detenute sono gravi, si parla soprattutto di tossicodipendenza. Nell’istituto, privo di un direttore e di un comandante della Polizia penitenziaria in pianta stabile, ci sono soltanto uno psicologo e due psichiatri per oltre 400 detenuti. La notizia del suicidio di ieri è stata data dal segretario del sindacato Osapp, Domenico Nicotra, che da tempo denuncia la situazione del penitenziario sassarese. Anche la sigla sindacale Sappe, tramite il delegato Antonio Cannas, ieri era intervenuta sulle aggressioni ai danni degli agenti. Il garante dei detenuti del Comune di Sassari, Antonello Unida, ha commentato così la tragedia: “Una bruttissima triste notizia, una mia sconfitta, una sconfitta per la società intera. Un suicidio è sempre una brutta sconfitta e quando avviene all’interno di una struttura penitenziaria è di tutti noi. È successo nella sezione femminile, è un bruttissimo colpo”. Rovigo. Gli ex consiglieri comunali: “No al carcere minorile. Bergamin doveva fermarlo” di Nicola Astolfi Il Gazzettino, 16 febbraio 2020 “Non è la città adatta ad avere anche un carcere minorile. E la soluzione di trasferirvi quello di Treviso è sbagliata, perché anche l’ex casa circondariale di via Verdi è un carcere per adulti: se la sezione minorile là è incompatibile con gli spazi di un carcere per adulti, perché allora dovrebbe esserlo a Rovigo?”. Gli ex consiglieri comunali Livio Ferrari, Francesco Gennaro e Ivaldo Vernelli sono intervenuti sulla questione con un incontro all’hotel Regina Margherita, per chiedere al Comune di attivarsi con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria affinché sia reso noto qual è l’impegno economico che ha già assunto per trasferire in via Verdi il carcere minorile di Treviso e per sapere le eventuali penali in caso di stop al progetto. Per fermare il quale, tuttavia, poco è stato fatto: la notizia del trasferimento è del 2016 “ed ero stato il primo a portarla in consiglio comunale”, ha ricordato Ferrari. La gara di progettazione è stata aggiudicata nel novembre 2018 per un importo di poco inferiore a 722mila euro. “La sezione minorile di Treviso può ospitare 17-18 persone ed è uno dei 18 istituti che in Italia - ha aggiunto Ferrari - sono una soluzione residuale alle misure alternative o di comunità. E poi a Treviso e Rovigo ci sono le stesse condizioni strutturali, quindi non serve a nulla. Anzi, non sappiamo se Rovigo riuscirà ad attrezzarsi per fare una comunità esterna di associazioni, imprese e cooperative che possano diventare la motivazione per i giovani in carcere a costruirsi un progetto, una volta finita la detenzione”. Quello che si sa è che “prima di chiudere la casa circondariale di via Verdi, la sezione minorile era stata sistemata: contiene una quindicina di celle ed è a ridosso del Tribunale”. Oltre alla rete di comunità per il reinserimento sociale dei giovani detenuti, l’eventuale carcere minorile a Rovigo richiede nuovi spazi, in particolare aree verdi. Per Ivaldo Vernelli,è evidente l’errore di programmazione da parte del Comune. E risale alle amministrazioni Baratella e Avezzù: “Perché non è stata fatta una variazione della destinazione urbanistica per restituire alla città uno spazio centrale, quando già si era deciso di costruire il nuovo carcere?”, ha chiesto. E secondo Francesco Gennaro “le responsabilità dell’ex sindaco Bergamin per non aver fatto il necessario a fermare il progetto, sono evidenti e irrevocabili”. Così, sostiene con Vernelli l’auspicio che il leghismo locale prenda esempio da quello trevigiano nell’opposizione al carcere e possa appoggiare una mozione unitaria che trovi in consiglio comunale “un escamotage” per fermare il progetto che dagli ambienti ministeriali, tuttavia, si dà per certo a Rovigo. Ferrari ha rivelato che nel 2002 c’era stato per il carcere minorile di Treviso il progetto di una nuova collocazione a dieci chilometri da quella attuale, ma trovò molte resistenze, e saltò. Lucca. Una giornata dedicata all’inserimento lavorativo degli ex detenuti loschermo.it, 16 febbraio 2020 Si è svolto mercoledì 12 febbraio un incontro fra la garante per i detenutI, avvocato Alessandra Severi, il sindaco Alessandro Tambellini, l’assessore al sociale Valeria Giglioli e Pilade Ciadetti presidente della commissione consiliare sociale. Il colloquio è stato l’occasione per presentare al primo cittadino un’iniziativa dedicata al reinserimento degli ex detenuti nel circuito lavorativo. Mercoledì 26 febbraio nel complesso di San Micheletto dalle 15.30 si terrà l’incontro “Carcere e Lavoro”. Fra i relatori saranno presenti i rappresentanti del Comune di Lucca, della Camera penale di Lucca, lo studio legale Tirrito, l’associazione Mestieri Toscana, il Garante dei detenuti di Firenze e l’Ufficio di esecuzione penale esterna della Casa circondariale di Lucca. L’obiettivo della giornata sarà quello di far incontrare le aziende del settore agricolo e alimentare con le persone in misura alternativa o giunte al termine del percorso rieducativo penitenziario. Il focus dell’appuntamento sarà particolarmente incentrato sugli sgravi fiscali per le aziende che intendono assumere queste persone. Milano. Quadri e street food, l’altra vita oltre il carcere di Federica Venni La Repubblica, 16 febbraio 2020 A 69 anni e dopo ventuno dietro le sbarre Gianni Marelli anima un’associazione alla Barona che aiuta ex detenuti e migranti. Gianni si è fatto ventuno anni di carcere. E mentre lo racconta davanti ad una classe di ragazzi e ragazze del liceo classico Tito Livio si commuove. “Essere qui con voi è la dimostrazione che non mi sono mai arreso”, sorride. Via Teramo, Barona: in uno spazio al piano terra di un caseggiato popolare di proprietà del Comune messo a bando la scorsa primavera, Giovanni Marelli a 69 anni sta costruendo la sua seconda vita, quella arrivata “dopo l’errore”. La prima, nata nella Milano da bere di cui Gianni era uno dei protagonisti per aver lanciato locali alla moda come la Champagneria di via Clerici, finisce con un arresto per concussione nel 1990: pagava alcuni poliziotti amici per ottenere i permessi di soggiorno dei ragazzi cingalesi che lavoravano come camerieri nei suoi locali. “Il mio fu di fatto il primo arresto di “Mani pulite”, ricorda. Da lì, inizia il suo “inferno”, un’escalation nera fatta di cocaina e reati contro il patrimonio. Nelle carceri di mezza Italia Gianni prova “a dare un senso al tempo”. Inizia il suo “viaggio introspettivo” grazie al quale scrive decine di poesie che gli portano diversi riconoscimenti. Diventa anche pittore, “artista del disagio”, ed espone, lavorando insieme con un artista giapponese e un canadese, al Manifesto della Quinta Dimensione. Dopo vent’anni dietro le sbarre è libero, ma una volta fuori la montagna del riscatto si rivela difficilissima da scalare: le notti nei dormitori della città, la voglia di rimettersi in gioco spesso mortificata da una realtà che inchioda al proprio passato. Finché un paio d’anni fa decide di fondare “Ci sono anch’io”, un’associazione di promozione sociale che aiuta ex detenuti, immigrati e persone disagiate a regalarsi un’altra possibilità. In un anno, tra servizi di catering e piccoli lavori edili l’associazione cresce e si presenta al bando “Spazio Quartiere” con cui Palazzo Marino mette a disposizione a un canone ridotto alcuni locali ai piani terra delle proprie case popolari: Quarto Oggiaro, Chiesa Rossa, Barona. Ed è proprio qui, davanti al civico 10 e al parchetto di via Campari, in fondo a viale Faenza, che per Gianni e la sua associazione arriva la prima vittoria. Due locali rimessi a nuovo, arredati con panche e un palcoscenico dove si suona musica dal vivo. Dentro queste mura ci sono mille progetti: “Stiamo facendo i salti mortali, ma ora ci mancano i soldi per finire la cucina che sarà il cuore delle attività. La prima cosa che vogliamo realizzare è il “Pollo Volante” per la consegna a domicilio di pollo e patate in tutta la zona 6”. Il girarrosto c’è, alcuni mobili pure, ma mancano un po’ di attrezzi per aprire l’attività: “Per raccogliere fondi il 19 febbraio alle 20 organizziamo un’asta di beneficienza con i miei quadri”. Gianni, abituato a quei “pochi metri quadri” del carcere che ha tanto descritto nelle poesie ora sogna in grande: “Vorrei un Pollo Volante per ogni municipio di Milano, così potrei dare lavoro a cento persone e vedere realizzato il mio sogno”. Tra le idee ci sono anche uno street food - l’“Hot Dog della Pace, fatto con il pollo così che possano mangiarlo tutti, sia i cristiani che i musulmani” - e un tendone- balera da montare nel parco come polo di aggregazione per il quartiere. Gli studenti del Tito Livio, arrivati qui per un progetto di alternanza scuola-lavoro, lo ascoltano curiosi. Uno di loro chiede: “Perché dipingi tutti questi triangoli, cosa rappresentano?”. “Sono la vita”, sorride Gianni. Chi c’è dietro il nazista alla porta. Ecco le chat segrete della scuola dell’odio di Giovanni Tizian L’Espresso, 16 febbraio 2020 Una rete suprematista internazionale diffusa dagli Usa all’Europa e ramificata anche in Italia. Che su Telegram e altri canali incita a colpire ebrei e immigrati. Con aggressioni, minacce e svastiche sulle case. “Il tempo che perdi non è sprecato. Perché in quel tempo potevi uccidere un ebreo”. “Cerchiamo terroristi e soldati”. “Combatti. Fino all’ultimo respiro, perché alla fine cosa ci rimane da fare?”. Caccia a ebrei, immigrati, omosessuali. Ragazzini disposti a passare all’azione militare, fomentati da nuovi ideologi della razza bianca. Un fiume carsico gonfio di odio. Che scorre su chat riservate di Telegram, l’applicazione di messaggistica per cellulari considerata più sicura di whatsapp. Prosegue la sua corsa su VKontakte, il social network russo diventato il buen retiro degli fondamentalisti ariani banditi da Facebook. Si nutre dell’anonimato garantito dai forum di discussione fondati con un preciso scopo: adescare nuovi adepti, indottrinarli, prepararli alla battaglia finale della rivoluzione nazionalsocialista. Camere oscure zeppe di insulti omofobi, antisemiti, xenofobi. Stanze virtuali dove la spinta a praticare la violenza è quotidiana. Popolate di ideologi che con i loro scritti definiscono i contorni del nazifascismo 4.0, che non riunisce le proprie truppe nei circoli e va oltre la creazione di un sito o di una pagina social. Cresce, piuttosto, nel segreto dei forum o delle chat. Si alimenta di sermoni impregnati dell’ideologia suprematista. Il ritorno al concetto della razza ariana, da preservare dalle contaminazioni di “giudei” e “negri”. Atomwaffen Division è un gruppo di suprematisti che negli Usa è considerato eversivo. E che ha fatto proseliti anche in Europa e guarda all’Italia. Nel video, pubblicato nelle chat nel giugno del 2019, la minaccia della divisione tedesca: “Siamo pronti all’ultima e lunga battaglia” Insomma, null’altro che la teoria che ha ispirato i nazi-terroristi degli ultimi dieci anni: dal norvegese Anders Breivik al più recente Brenton Tarrant, il 28enne australiano autore il 13 marzo 2019 della strage in Nuova Zelanda che ha provocato 50 morti tra i musulmani, senza dimenticare l’italiano Luca Traini, che a Macerata ha ferito sei migranti e ha esibito il saluto romano quando i carabinieri lo hanno arrestato. Una spirale di violenza che non sembra sopita. Anzi, negli ultimi tempi è sospinta dal vento nazionalista. Legittimata da leader politici che hanno messo in cima alla lista nera dei veri patrioti i migranti, che inneggiano alla tradizione. E poi ci sono altri che non rinnegano il passato fascista, quello trascorso insieme agli ultras nazisti. La manovalanza che si muove nell’ombra non teme più la condanna della destra istituzionale. Il clima politico e sociale si è fatto corrosivo, si cercano casa per casa gli stranieri per scacciarli dalla casa popolare occupata per diritto. Si dileggiano gli ultimi, la società raccoglie i cocci della guerra tra poveri, bacini di consenso dei nazionalisti. Ecco che non devono sorprendere le intimidazioni mirate di questo primo mese e mezzo del 2020. Le ultime due a Pomezia, provincia di Latina, il 12 febbraio scorso: “Anna Frank brucia”, vergato con una bomboletta spray sul muro dell’istituto superiore Ipsia dove quel giorno era atteso Gabriele Sonnino, memoria della Shoah; in una seconda scuola della città, il Liceo Pascal (dove si era svolto un incontro sulla memoria), gli studenti hanno trovato sull’asfalto, all’entrata dell’edificio, la frase “Calpesta l’ebreo”, accompagnata da una croce celtica e una stella di David. Un’escalation che ha prodotto in Italia una sequenza di azioni dimostrative nei confronti di obiettivi strategici per i seguaci di Hitler. Le svastiche, le ingiurie antisemite e le scritte “qui abita un ebreo”, apparse nei giorni precedenti e successivi alla giornate del ricordo delle vittime della Shoah, hanno preso di mira case vissute da chi ha collegamenti familiari con i deportati nei campi di concentramento o con la lotta partigiana. Testimoni, insomma, di un’epoca che sembrava chiusa per sempre. Eppure questi segnali, insieme alla crescente marea nera virtuale, ci confermano che non è così. Sono episodi da non sottovalutare, spiegano all’Espresso gli esperti dell’antiterrorismo. Così come destano allarme gli arsenali ritrovati nei mesi scorsi dalla polizia di Stato a disposizioni di neofascisti italiani, in collegamento con il network europeo dei suprematisti. La saldatura tra “ideologia estrema e l’utilizzo di internet quale strumento di veicolazione e propaganda” è estremamente pericoloso, rivelano i carabinieri del Ros in alcune recenti analisi sul fenomeno suprematista. I detective dell’antiterrorismo del Ros osservano i movimenti della galassia nera con attenzione. Hanno firmato importanti inchieste come quella denominata “Banglatour” (il processo è iniziato a gennaio) sui alcuni militanti neofascisti di Forza Nuova nella quale erano emerse aggressioni a cittadini bengalesi. O come l’indagine “Aquila Nera” sul movimento Avanguardia Ordinovista, che aveva l’obiettivo eversivo di colpire le istituzioni. Senza dimenticare l’operazione sui mercenari italiani neofascisti andati a combattere in Donbass con i separatisti filorussi: per alcuni di loro sono arrivate le prime condanne, mentre in tre sono ancora latitanti protetti dalla rete internazionale che li ha portati fin lì. E quella su “Azione Europea”, che come emerso dall’indagine del Ros, è un enclave in Trentino-Alto Adige di fanatici hitleriani che sognavano la restaurazione del Terzo Reich e la soppressione della democrazia parlamentare. Adesso, tuttavia, le attenzioni sono rivolte a un fenomeno nuovo: l’atomizzazione della militanza, più fluida e meno irregimentata in regole di partiti o movimenti. Il che vuol dire meno prevedibilità e luoghi di ritrovo quasi sempre virtuali. Un po’ come per l’Isis che ha colpito spesso in Europa avvalendosi di soldati radicalizzati sul web oltreché nelle carceri. Lupi solitari, appunto. Termine che ritorna nei rapporti delle polizie europee e del Ros sul pericolo suprematista. L’ideologo della guerriglia solitaria ha un nome: James Mason, 67 anni, americano dell’Ohio. La sua raccolta di scritti, “Siege”, è diventato un testo di riferimento nei discepoli moderni del nazi-fascismo. Mason è stato negli anni ‘80 l’ideologo del suprematismo bianco. E neppure lui, duro e puro della rivoluzione ariana, mai si sarebbe aspettato che potesse tornare in auge nel 2020. Finché un gruppetto di giovani non l’ha pescato dall’oblio in cui era caduto. Le teorie di Mason, hitleriano di ferro e ammiratore del serial killer Charles Manson, sono state il concime ideologico sul quale è germogliata la “Atomwaffen Division”, la divisione delle armi nucleari. Un gruppo paramilitare, considerato dalle autorità americane una formazione terroristica. Tanto che alcuni dei suoi membri, molti giovanissimi, sono sospettati di aver commesso omicidi a sfondo razziale. “AtomWaffen” è nato sul web nel 2015 sulle pagine del forum “Iron March”. Chiuso nel 2017 dagli stessi fondatori - tra cui un russo dal profilo misterioso - contava oltre 2 mila membri. La banda nera della “Atomwaffen” resta però alla costante ricerca di nuovi adepti, meglio se giovanissimi. “Unisciti ai nazisti locali” è il claim dell’organizzazione comparso in alcuni college americani. Ci sono poi i militanti più esperti, chi con un passato nell’esercito, altri ancora in servizio. Con la chiusura di Iron March, l’attività di proselitismo è proseguita e oggi esistono due canali Telegram, entrambi non pubblici. L’8 giugno scorso è stato pubblicato l’annuncio della nascita della sezione tedesca del gruppo: il video si apre con un militante che indossa la maschera raffigurante un teschio, il cappuccio in testa, alle sue spalle fa da sfondo una svastica nera su sfondo bianco; è armato, carica una pistola e avverte che il battaglione è pronto “per l’ultima e decisiva battaglia”. In un video successivo, sempre su Telegram, un altro militante in mimetica si allena con un fucile da guerra in un luogo non identificato. Gente pericolosa, insomma. Che ha valicato i confini statunitensi per approdare con proprie cellule in Europa. L’Fbi l’ha messa nel mirino da tempo, ritenendola tra le minacce più serie nell’ultimo periodo. Un militante di Atomwaffen Division è un gruppo di suprematisti che negli Usa è considerato eversivo. E che ha fatto proseliti anche in Europa e guarda all’Italia. Del resto tutto il fenomeno del suprematismo è una priorità in questo momento per i detective americani. Lo ha spiegato Christopher Wray, il direttore dell’Fbi, in commissione giustizia della Camera: la violenza politica di estrema destra, motivata dall’odio razziale, è una “minaccia prioritaria per la sicurezza nazionale”. Pericolosa, ha sottolineato Wray, quanto l’Isis. E Atomwaffen è una formazione liquida, post gerarchica, dove l’emulazione è il fine della violenza stessa. Lupi solitari del nazismo, che assomigliano per metodo a quelli dell’Isis, capaci di paralizzare l’Europa con il terrore. Pericolosità, del resto, che emerge dai dati hackerati a novembre 2019 dal forum Iron March. La fuga di notizie riconduce all’Italia. Una decina di profili fanno riferimento al nostro Paese. Gli italiani sono stati localizzati tra Napoli, Roma, Torino, Milano, Firenze. Hanno quasi tutti nomi di fantasia. Di certo su Iron March avevano trovato un luogo sicuro dove radicalizzarsi. Scorrendo le discussioni del forum troviamo continui riferimenti al nazismo, alle figure del fascismo combattente, a Mussolini. E soprattutto prevalgono le liturgie xenofobe e antisemite. Con più di qualche riferimento all’acquisto armi da guerra. È il caso di due utenti che contrattano l’acquisto di fucili d’assalto e pistole: un francese chiede il prezzo di un Kalashnikov Ak47 a un camerata serbo, il costo di mille euro, è ritenuto eccessivo per l’acquirente, che spiega come “in Francia lo pagherebbe 600-700 euro e che conviene quindi comprarlo in patria così da evitare dogane e frontiere”. C’è un altro utente, invece, sempre europeo, che “diffida degli intellettuali” e crede che l’unica cosa di cui aver paura sono “i colpi dell’Ak47 nella guerra razziale”. I messaggi, analizzati dall’Espresso, si fermano al 2017. I riferimenti al nostro Paese non mancano: “La situazione dell’immigrazione in Italia è disgustosa. Un governo tecnocratico non eletto prende letteralmente le persone dai barconi e li porta in Italia... Quando dovrebbero affondarli tutti fuori da Lampedusa. Quest’anno hanno già “salvato” oltre 60.000. Matteo Renzi e tutti i suoi servi devono essere sparati e gettati nel Mediterraneo. Le persone ne sono stufe, indipendentemente dalla loro politica, c’è il 40 per cento di disoccupazione giovanile. Ora l’Ue sta costringendo altre nazioni dell’euro ad assumersi alcuni degli oneri italiani. È davvero la prima linea dell’Europa e dove inizierà la rivoluzione”. Iron March non è un sito di partito. È una galassia che aggrega schegge neonaziste sparse per il mondo. Diventato in poco tempo il riferimento culturale di altri spazi virtuali dove la violenza verbale si mescola a progetti di azioni militari sul territorio. Anche in Italia è diventato un modello. Per esempio su Telegram, confusi tra milioni di dati e utenti, si sono moltiplicati i gruppi nazisti e suprematisti. Alcuni accessibili da chiunque, altri vietati agli intrusi. “Il suono del nazionalsocialismo”, “Sole Nero”, “Fascio littorio”, “Hyperborean worldview”, “Fascismo V2-Lgbt shit”, “Avanguardia nazionalsocialista”, “Meridiano Zero”. Queste sigle sono solo la punta dell’iceberg nero che emerge da Telegram. Una platea di migliaia di utenti. Quelle più seguite e create in Italia ne raccolgono quasi 2mila. Poi ci sono quelle internazionali, a cui partecipano camerati di tutto il globo. L’Espresso ne ha scoperte diverse. C’è la chat “Sole Nero”, 475 iscritti, in cui è forte il misticismo nazista: ritratti del Fuhrer, illustrazioni di svastiche che sorgono da dietro le montagne, un’iconografia che ricorda il signore degli anelli di Tolkien. Qui alcuni degli iscritti pubblicano veri e propri manifesti della guerra razziale. Tra queste conversazioni, L’Espresso ha rintracciato un breve testo dal titolo evocativo “L’Apocalisse” pubblicato il 3 dicembre 2019: “Create terrore, create panico, create l’Apocalisse. Coloro che sopravviveranno al collasso, alla furia dei guerrieri del sole nero, potranno ricostruire un mondo nuovo. Cosa aspettate? Fategli assaggiare le radiazioni, fateli bruciare, fateli soffrire e pentire di tutto ciò che hanno fatto. È tempo di eliminare, di purificare”. Lo stesso autore ha pubblicato su Telegram anche un ebook dal titolo “Il Vento bloccato”, il manifesto della rivoluzione nazionalsocialista: “Camerati è tempo di imbracciare le armi e combattere contro il vero nemico. Questo manifesto è una chiamata alle armi. Combattere fino all’ultimo respiro. Non abbiate pietà. Sieg heil!” Il testo è scaricabile dal canale Telegram “Meridiano Zero”, che conta 640 iscritti. Su Meridiano Zero troviamo centinaia di post e pubblicazioni sul negazionismo dell’olocausto. Non ingiurie antisemite vaghe, ma una precisa campagna ideologica: “Il mito dello sterminio ebraico”, è il titolo di un testo pubblicato sul canale; “La frode del diario di Anna Frank”, si legge in un altro post; e, poi, ancora, “Il diario di Anna Frank, guida a una lettura critica… noi, come tutti gli storici revisionisti, siamo convinti della non autenticità del diario di Anna Frank e cercheremo di dimostrare che esso non è stato altro che uni strumento nelle mani dei sostenitori dell’olocausto”. Nell’elenco di canali nazifascisti su Telegram troviamo “FascismoV2-Lgbt Shit”. In questa chat un piccolo gruppo di iscritti vomita minacce contro gay, neri ed ebrei: “Lo voglio fare davvero!, lo farò al prossimo gay pride nella mia città”, si legge nei commenti a corredo della foto della bandiera arcobaleno che brucia. L’elenco dei canali è lungo. Tra questi c’è “Il suono del nazionalsocialismo”, 220 membri, dove il tema più dibattuto è lo strapotere finanziario dei “giudei”. E il canale “Avanguardia nazionalsocialista”: ad accoglierci una foto di un campo di concentramento, a fianco una bimba cartone animato dai capelli fucsia, che esclama in inglese: “Nel tuo cuore sai che se lo sono meritato”. Alcuni suprematisti italiani oltreché su Telegram sono approdati sul social network russo VKontakte, isola felice di neonazisti banditi da Facebook. Qui troviamo profili antisemiti che si richiamo al fascismo: Ordine Ario Romano e Lictorii signo. I video pubblicati mostrano il nemico da combattere: gli ebrei. In uno di questi compare una donna intervistata mentre parla dell’antisemitismo, sulla sua fronte compare una stella gialla che la marchia come “Jude”. Dalle parole ai fatti, il confine è sottile. Come accaduto con le scritte razziali apparse con una meccanica inquietante nell’ultimo mese, a ridosso della giornata della memoria per le vittime della Shoah. L’offensiva ideologica lanciata nei circuiti social sembra, dunque, aver trovato terreno fertile nella realtà. Dall’inizio dell’anno, infatti, si sono ripetuti gli attacchi a bersagli precisi. Il 13 gennaio a Torino, una svastica sulla porta dell’abitazione di una artigiana quarantaquattrenne di Torino. Il 24 gennaio a Mondovì, provincia di Cuneo, la scritta antisemita “Juden hier”(qui abita un ebreo) e una stella di David disegnata sulla porta di casa del figlio di una staffetta partigiana deportata nel 1944 nel campo femminile di Ravensbruck. Il 27 gennaio, sempre in Piemonte, una nuova minaccia, “Crepa sporca ebrea”, sul pianerottolo dell’appartamento della figlia, di origine ebraica, di una staffetta del Partito d’Azione attiva a Torino nei primi anni ‘40. Il 30 gennaio, gli adesivi con il saluto nazista “Sieg heil” e alcuni simboli delle “SS” tedesche incollati sul citofono dell’abitazione di una donna iscritta all’Anpi(figlia di un partigiano). E poi altri episodi simili, verificatisi nelle settimane precedenti, senza però che le vittime denunciassero il fatto. Un gennaio nero, insomma. Non solo a Torino e in Piemonte. Negli stessi giorni a Rezzato, provincia di Brescia, è stato distrutto un bar di proprietà di una cittadina italiana di origini marocchine. Sul pavimento il marchio di fabbrica del blitz: una svastica e la scritta “negra”. Di certo, come spiega a L’Espresso il comandante del Ros Pasquale Angelosanto, ad allarmare è la scelta degli obiettivi da colpire. Non sono scritte su muri scelti a caso o su panchine dei parchi pubblici delle città. Ma prendono di mira persone che hanno legami familiari con chi in qualche modo è stato testimone dell’olocausto o della lotta partigiana. C’è, quindi, uno studio del territorio, l’anamnesi della storia familiare dei target da colpire. Il frasario è quello che ancora oggi, mentre scriviamo, circola liberamente sulle chat di Telegram, nei profili social di Vkontakte e nei forum d’area radicale. Proclami che potrebbero aver trovato nuove reclute pronte all’azione. Anche per emulare i “lupi” suprematisti che hanno già imbracciato i fucili: dal nazista norvegese Anders Breivik al leghista Luca Traini fino a Stephen Balliet, l’ultimo in ordine di tempo, che in Germania ha ucciso due persone vicino a una Sinagoga nel giorno della celebrazione ebraica dello Yom Kippur. Balliet, aveva postato un documento nel quale preannunciava l’attacco al luogo di culto, mostrando le armi e lanciando il proclama del guardiano della razza :”Gli stati hanno l’obiettivo di uccidere il maggior numero di possibile di anti-bianchi, meglio se ebrei”. Un lessico che ritroviamo spesso nelle chat e nei forum analizzati da L’Espresso. I luoghi di ritrovo virtuale dei miliziani ariani. Dove l’indottrinamento può tramutare in miscela esplosiva il rancore e la solitudine delle giovani leve. Dallo schiavismo nei campi alla nostra tavola: dove fare la spesa per non essere complici di Antonello Mangano L’Espresso, 16 febbraio 2020 Da trent’anni nelle cronache leggiamo di caporalato e sfruttamento nelle campagne italiane. Ma esistono alternative per non appoggiare tutto questo. Un estratto del libro inchiesta “Lo sfruttamento nel piatto. Quello che tutti dovremmo sapere per un consumo consapevole”. Dalle campagne italiane arrivano cronache drammatiche: incidenti in cui muoiono centinaia di lavoratori; ghetti che bruciano ; donne sfruttate sessualmente tra le serre che assicurano ortaggi fuori stagione; braccianti ridotti in schiavitù dal Piemonte alla Sicilia. In realtà, la questione risale ad almeno trent’anni fa: nel 1990 fu ucciso a Villa Literno il rifugiato sudafricano Jerry Masslo, che passò dalla negazione dei documenti alla raccolta dei pomodori. Anche se a fatica, oggi cominciano a emergere le cause. I passaggi dal campo al bancone del supermercato sono numerosi e poco tracciati; non esiste una etichetta trasparente; gli strumenti di contrasto adottati dalle aziende (ispezioni, liberatorie, certificazioni) appaiono insufficienti. La “Grande Distribuzione Organizzata” non è l’unica responsabile, ma appare poco intenzionata a prendere provvedimenti risolutivi. Quindi cosa possono fare i consumatori per evitare di essere complici di un sistema che non vuole auto-riformarsi? In sintesi, dove facciamo la spesa? Trovare un’alternativa non è difficile. È possibile acquistare prodotti etici e di qualità superiore, senza necessariamente spendere di più. Per fortuna l’Italia, nonostante l’attacco della globalizzazione, è ancora un paese ricco di diversità. Esistono diverse opzioni: evitare il cibo “a rischio” trovando produttori alternativi; sostituire tutta la spesa associandosi con altri consumatori oppure incontrando i contadini in un mercato rionale; ma, soprattutto, occorre superare l’ideologia trentennale del “consumerismo”. Può essere impegnativo sostituire tutta la spesa. Ma non è detto che lo sia per i prodotti più “critici”. Chi non ha la possibilità di un consumo radicalmente alternativo, per ragioni economiche o di tempo, può comunque iniziare un boicottaggio intelligente di alcuni prodotti. In Italia esistono situazioni estreme e le peggiori riguardano la produzione di arance e pomodori. Quindi, un primo passo per non essere complici può essere sostituire questi due prodotti cercando aziende che offrano garanzie sull’etica. Ecco due esempi. In seguito alla rivolta del 2010, alcuni attivisti calabresi insieme ai migranti, decisero di fare qualcosa di concreto. Nacque “Sos Rosarno”. “Tutti i produttori sono piccoli proprietari, singoli o associati in cooperative, assumono regolarmente la manodopera impiegata nella raccolta, per oltre il 50% immigrata, e sono interni al circuito della solidarietà con gli africani di Rosarno, che nell’assoluta insufficienza delle politiche istituzionali d’accoglienza possono sopperire ai bisogni più elementari solo grazie al sostegno delle realtà associative della società civile”, si legge nel sito ufficiale. Da allora l’unione di alcuni produttori della Piana di Gioia Tauro permette la produzione di arance, in particolare clementine; poi olio, grano, formaggi e insaccati. I prodotti sono acquistabili dai “Gruppi di Acquisto Solidali” (Gas) in Italia e all’estero, ma anche nei punti di distribuzione della rete “Fuori Mercato”. L’altro prodotto critico è sicuramente il pomodoro. Per alcuni è il simbolo della dieta mediterranea, per altri è sinonimo di caporalato. Negli ultimi anni, tuttavia, sono nate diverse esperienze per proporre un’alternativa al consumatore. “Funky Tomato” è probabilmente la più conosciuta. È nata tra Puglia, Basilicata e Campania, nel 2005, dopo la morte della bracciante Paola Clemente. A partire da Taranto, un gruppo di agricoltori, attivisti e ricercatori ha deciso di costruire una filiera partecipata e di creare un’alternativa al caporalato del pomodoro. Come comprare i pelati e le passate di Funky Tomato? Il modello è quello del pre-acquisto sul sito, a cui si affianca la distribuzione in alcuni ristoranti e punti vendita. Conoscendo in anticipo l’ammontare degli acquisti, la filiera può essere organizzata fin dalla piantumazione. Agricoltori, braccianti e trasformatori sanno di poter contare su un reddito certo e non vivono in balia delle fluttuazioni del mercato. Il barattolo di Funky Tomato vuole essere la passata realmente conservata in cantina per l’inverno, come nella tradizione italiana, e non un consumo d’elite. Un cibo “coltivato localmente e artigianalmente”. All’inizio degli anni 90 le ideologie novecentesche arretrano e la fuga nel privato prende il sopravvento. In tanti non vogliono rinunciare all’impegno politico e lo spostano nella quotidianità. Si diffondono idee come “si vota anche facendo la spesa”, “piccolo è bello” e “i grandi cambiamenti sono la somma di piccole scelte individuali”. In tutta la penisola nascono le botteghe del “commercio equo e solidale” che vogliono connettere consumatori del Nord del mondo e produttori del Sud, assicurando a questi ultimi un compenso giusto e sottraendoli allo sfruttamento delle multinazionali. Un modello che inizialmente riguarda contadini africani e latinoamericani, ma che oggi può essere tranquillamente applicato anche gli agricoltori italiani. Nel 1994, a Fidenza, in provincia di Parma, nasce il primo “Gruppo di Acquisto Solidale”. Nel 1997, i Gas si uniscono in rete per scambiarsi informazioni sui produttori. Ma come funziona un gruppo? Il Gas può essere un’associazione costituita a norma di legge oppure un gruppo informale. Durante le assemblee, si prendono le decisioni fondamentali: i criteri di scelta dei prodotti, la lista dei fornitori, la gestione degli ordini, lo scarico delle merci e infine il ritiro. I Gas verificano il rispetto di tutti i criteri attraverso un legame diretto col produttore: visite periodiche nei campi e rapporti consolidati nel tempo. Si crea spesso una rete fiduciaria che genera una specie di “certificazione partecipata”. Si tratta di una galassia molto articolata. Il sito “Eventhia” traccia oggi oltre 500 gruppi, la maggior parte dei quali si trova nel Centro Nord. Grandi aree sono ancora scoperte, paradossalmente nelle zone rurali del Mezzogiorno; ma nelle città medio grandi c’è in genere almeno un Gas. I mercati rionali sono centri della cultura e della vita popolare delle città italiane. Soltanto a Roma ce ne sono 127, per un totale di oltre cinquemila esercenti. Il caso della capitale è esemplare: sarebbero un migliaio i “posteggi” chiusi, cioè spazi non assegnati. A oggi, resistono circa 120 contadini “storici” dietro i banchi dei mercati rionali romani. Gli altri sono venditori che di solito all’alba acquistano all’ingrosso al Car (Centro Agro Alimentare) di Guidonia. Sono alcuni tra i dati contenuti in un rapporto dell’associazione “Terra!”. L’agro romano, il territorio agricolo collegato all’area metropolitana, potrebbe rifornire quasi completamente i mercati nella capitale ma non esiste una politica efficace che connetta gli agricoltori del circondario ai banconi dei mercati rionali. Un’altra criticità è il ricambio generazionale, sia nelle vendite che nei consumi. Nella maggior parte dei mercati si aggirano pensionati per cui è normale un’apertura solo mattutina e venditori che si tramandano da generazioni il bancone della frutta, senza una prospettiva per il futuro. La prima questione è appunto quella degli orari: è difficile essere concorrenziali coi supermercati se è possibile acquistare soltanto da lunedì a sabato dalle 8 alle alle 14,30. I mercati hanno grandi potenzialità (stagionalità dei prodotti, qualità, prezzo conveniente perché senza intermediazioni) ma al momento molte carenze: orari, servizi, luoghi fatiscenti, parcheggi. E su etichette e trasparenza sono persino più indietro dei supermercati. Inserire l’origine in etichetta, pratica oggi trascurata all’interno dei mercati, sarebbe un primo passo verso la fidelizzazione dei clienti. Il paradosso è che i mercati di quartiere non comunicano qualcosa che è molto richiesto dai consumatori. Anche passando per il Car, l’ortofrutta del territorio romano e laziale non impiega più di 24 ore a raggiungere i banchi del mercato. Ma questo enorme punto di vantaggio non viene comunicato: c’è ma non si vede. Possiamo trovare nello stesso bancone zucchine raccolte appena il giorno prima e pomodori che hanno viaggiato dalle serre siciliane. Come si vede, i mercati non hanno soltanto bisogno di una boccata d’ossigeno: è necessario ripensarne globalmente la funzione sociale. I mercati romani sono spesso posizionati in centro, in siti storici che potrebbero diventare luoghi di incontro, di educazione alimentare, oltre che aperti alla ristorazione con prodotti freschissimi. Ma al momento i meccanismi di autorizzazione, mappatura, rotazione dei banconisti non più attivi sono iper-burocratizzati e lenti. A volte sembra che ci sia un vero abbandono da parte della politica. Come se i mercati dovessero funzionare da sé fino alla naturale estinzione dei suoi protagonisti, dal vecchio fruttarolo che ha ereditato il bancone dal padre al pensionato che non rinuncia alle sue abitudini. Oggi nessuno ha il polso dei mercati rionali, nessuno sa con esattezza quante postazioni siano attive e quante no. L’ultimo censimento è stato effettuato ormai tre anni fa, nel marzo del 2015. Il Comune, dal canto suo, non favorisce la ripresa del settore: ha lanciato l’ultimo bando nel 2013, finendo di assegnare le postazioni nell’autunno 2017. Per quanto la situazione romana sia unica, la tradizione del mercato in strada è diffusa in tutta Italia. Dalle “Piazze delle Erbe” in gran parte delle città medievali del Nord fino ai “suk” di origine araba della Sicilia, come la celebre Vucciria immortalata da Guttuso. Anche queste realtà in crisi che meriterebbero un intervento: sono un concentrato di storia e cultura così come infrastrutture di distribuzione già esistenti. Con poco, potrebbero diventare un valido sbocco per un’agricoltura diversa. Ci sono tante alternative per i consumatori, ma le due più “consistenti” appaiono i Gas e i mercati rionali. Sono esperienze con una storia alle spalle (breve i primi, pluridecennale i secondi). Entrambi hanno bisogno di essere rafforzati oppure rivitalizzati. Ma sono diffusi sul territorio e coinvolgono una rete ampia di consumatori, rivenditori e produttori. Nei casi migliori, i passaggi dal produttore al consumatore sono rapidi e diretti. L’etica non è garantita solo da etichette e certificazioni, ma da un rapporto immediato e quotidiano. Per rendere queste esperienze molto più forti e sfondare la quota del 30% (la percentuale di consumi alimentari sottratta ai supermercati) è fondamentale non abbandonare la sfera pubblica e dare meno rilevanza al punto di vista del consumatore. In altre parole, fare la spesa è un atto collettivo mascherato da scelta individuale. Negli ultimi anni, le scelte politiche sono state decisive: dalla liberalizzazione delle licenze e degli orari dei negozi alle aperture dei festivi, fino al sostegno ai grandi centri commerciali. Parallelamente, le politiche del lavoro hanno creato consumatori con poco tempo a disposizione, senza alcuna educazione alimentare, bombardati dalla pubblicità e dal marketing del sottocosto. Certo, comprare una cosa anziché un’altra è una scelta che in ultima istanza compete all’individuo. Ma l’individuo è inserito in un contesto, indirizzato e guidato. Alla fine la sua scelta è sempre un gesto “sociale”. Il consumatore deve risolvere il paradosso della scissione con sé stesso (“sono contento di trovare un prezzo basso anche se danneggio un altro lavoratore”) e vedersi anche come produttore. Confrontarsi con le istituzioni e con le aziende, attraverso boicottaggi mirati. Chiedere tempo, diritti, potere di acquisto, dignità sul posto di lavoro e non solo cibo sano sul bancone. Migranti. “Il Dl sicurezza arricchisce le maxicoop”, il ritorno del Mondo di mezzo di Alessandra Ziniti La Repubblica, 16 febbraio 2020 Indagine Openpolis-Actionaid: il 73% degli stranieri vive in Centri da cento o più posti. “Mai più”, avevano detto in coro in Parlamento dopo l’inchiesta Mondo di mezzo. “Basta con le megastrutture”, aveva promesso Matteo Salvini. Mai più grandi Centri di accoglienza, con i migranti stipati a centinaia in condizioni indecenti, merce preziosa per far arricchire chi aveva fiutato l’affare, criminalità organizzata in prima fila. E invece ci risiamo: un anno e mezzo di decreto sicurezza è bastato per demolire l’esperienza virtuosa dell’accoglienza diffusa, degli immigrati distribuiti sul territorio in numeri tali da rendere più facile l’integrazione. La chiusura del Cara di Mineo è stata solo uno specchietto per le allodole. Le grandi strutture, da cento posti in su, sono tornate. E soprattutto sono tornati loro: gli enti profit, le società immobiliari e commerciali, i grandi gruppi che nulla sanno e fanno di accoglienza, gli unici in grado, con economie di scala, di gestire, come carceri o alberghi di infima categoria, i rinati centri di accoglienza straordinaria aggiudicandosi quei bandi che le associazioni del terzo settore hanno dovuto disertare, licenziando centinaia di persone. La mangiatoia, per ricordare le parole sprezzanti di Matteo Salvini, è appannaggio dei soliti noti. E poco importa se nell’oligopolio di quello che (privato di ogni obiettivo di integrazione) è il vero business dell’accoglienza spicca in posizione dominante Medihospes, colosso del settore che ha condiviso esponenti di vertice, sedi e appoggi politici, con il gruppo La Cascina, cooperativa commissariati per infiltrazioni mafiose nell’inchiesta Mondo di mezzo. Alla vigilia del tavolo di maggioranza di governo che dovrà trovare il punto di caduta sulle modifiche ai decreti sicurezza, un rapporto di Openpolis e Actionaid fotografa con precisione come le aggiudicazioni dei bandi con i nuovi criteri (dal taglio dei rimborsi a migrante, passati da 35 a 19-26 euro al giorno, al ridimensionamento dell’assistenza e all’azzeramento delle attività di integrazione) abbia drasticamente modificato la struttura del sistema di accoglienza: insomma grandi centri per grandi gestori. La riduzione della spesa 11 numero dei migranti in accoglienza si è dimezzato rispetto a tre anni fa, scendendo dai 180.000 del 2017 sotto i 90.000, grazie anche all’esclusione di chi aveva la protezione umanitaria. E la spesa, da 1,7 miliardi del 2017, è calata sotto il miliardo. Ma a fare la parte del leone, lasciando solo le briciole alle associazioni del terzo settore, sono i grandi gruppi che si sono aggiudicati la gestione dei Cas: nati come strutture di emergenza, oggi sono tornati a contenere oltre il 70% dei posti. Medihospes, le mani su Roma - Dopo la presentazione del nuovo capitolato d’appalto con i prezzi al ribasso, i bandi di gara sono stati orientati verso le grandi strutture che oggi sono 1’83 per cento del totale. Dei circa 4.000 posti disponibili, solo 200 sono rimasti in unità abitative. E dei 17 gestori che fino a un anno fa si dividevano i centri, sette sono stati costretti ad abbandonare lasciando campo libero ai colossi. Medihospes, nella Capitale, lavora oggi in una condizione di quasi monopolio, gestendo il 63 per cento di tutti i posti in accoglienza. E il suo fatturato è triplicato negli ultimi tre anni. Dimenticati gli intrecci con il Gruppo La Cascina, dimenticato lo scandalo delle condizioni disumane della gestione del Cara di Borgo Mezzanone, a voler cercare la rendicontazione delle spese la cui pubblicazione è obbligatoria per legge, non si trova assolutamente nulla. Milano, cede il no profit - L’ex caserma Mancini, il Cas Aquila e altri centri da 300 posti hanno subito supplito all’abbandono di ben Il associazioni del terzo settore. E il 64 per cento dei posti in accoglienza, oltre 2.200, è finito in mano a due grandi gruppi che hanno incassato in un anno cifre superiori ai 12 milioni a testa: anche qui Medihospes e la Versoprobo che si è aggiudicata anche la gestione del contestato centro di via Corelli, destinato di nuovo a centro per il rimpatrio, dunque dove non si fa accoglienza ma detenzione amministrativa. Il rischio dei bandi in deroga - E la recente circolare con la quale il Viminale consente una deroga ai prezzi medi (con un potenziale aumento di 2-3 euro a persona), secondo Openpolis e Action Aid, “propone una soluzione peggiorativa. Invece di reintrodurre servizi fondamentali per la salute e per l’inclusione sociale dei nuovi arrivati, i bandi delle prefetture sembrano favorire operatori economici profit e non certo i bisogni delle comunità accoglienti e la tutela dei diritti delle persone”. Migranti. Asgi: “Il nuovo memorandum Italia-Libia? Bozza contraria ai diritti umani” Vita, 16 febbraio 2020 La nota dell’Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione): “Il Governo ritiri il testo di revisione dell’intesa del 2017 e interrompa ogni forma di collaborazione con le autorità libiche nell’ambito delle operazioni di intercettazione o soccorso di migranti in mare”. Il 2 febbraio 2017 è stato firmato da Fayez al Serraj per il Governo di Riconciliazione Nazionale dello Stato di Libia e da Paolo Gentiloni per il Governo Italiano un Memorandum of Understanding, con lo scopo di rafforzare la cooperazione nella gestione delle frontiere libiche, “per garantire la riduzione dei flussi migratori illegali”. Lo stesso Memorandum prevede una validità triennale e il suo rinnovo tacito alla scadenza - il 2 febbraio 2020 - per un periodo equivalente, salvo il parere contrario di una delle Parti, da esprimere almeno tre mesi prima. Il 12 febbraio 2020, da fonti di stampa veniva reso pubblica la bozza di rinegoziazione del Memorandum inviata dal Governo italiano alla controparte libica: il testo, ad una prima lettura, appare sconcertante. Sin dalle premesse, il Governo italiano afferma “la comune determinazione a collaborare nel rispetto dei trattati e delle norme internazionali e consuetudinarie di diritto umanitario e di diritti umani inclusi i principi e gli scopi della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati”, quest’ultima tuttavia mai ratificata dalla Libia. Con l’art. 1, lett. c) della bozza viene ribadito l’impegno dell’Italia a fornire supporto tecnico e tecnologico al Governo di Accordo nazionale libico - come ha già fatto in passato con i finanziamenti stanziati all’interno del c. d. “Fondo Africa” - per “ prevenire e contrastare l’immigrazione irregolare e a svolgere attività di ricerca e salvataggio in mare”: si continuerà, perciò, a fornire motovedette e soldi pubblici alla Guardia costiera libica nonostante ad oggi risultino chiaramente coinvolti anche ex trafficanti di esseri umani. Alla successiva lett. e) dell’art. 1 della bozza si legge che il Governo libico si impegnerà a sostenere le misure adottate dall’Unhcr e dall’OIM nel quadro del piano d’azione per l’assistenza dei migranti in Libia. Viene da domandarsi come possa il Governo libico adempiere a tali obblighi, considerato che la Libia non dichiara di voler recepire nel proprio ordinamento interno la citata Convenzione di Ginevra e altre norme internazionali e le stesse agenzie Unhcr e OIM operano in Libia senza precisi accordi internazionali con il Governo di Tripoli. Certamente, non può una trattativa tra due Stati comportare obblighi per altri soggetti di diritto internazionale, sicché questa parte della bozza di accordo rimane di fatto inapplicabile senza alcun miglioramento della condizione giuridica (e quindi della protezione effettiva) dei migranti e dei rifugiati presenti in Libia e alle sue frontiere terrestri e marittime. Del resto, come è noto, poco più di due settimane fa l’Unhcr ha ufficialmente dichiarato di non controllare più la situazione dei centri di detenzione libici e ha annunciato l’inizio della chiusura dei propri centri: in particolare, dalla sede principale di Ginevra è stata ufficializzata l’interruzione delle operazioni nel centro di transito di Tripoli nel quale, nel corso delle ultime settimane, avevano trovato rifugio oltre 1700 migranti. La decisione, come è stato in più sedi spiegato dall’agenzia ONU, è stata presa a causa dei timori per la sicurezza e la protezione delle persone ospitate nella struttura, del suo staff e dei suoi partner, in considerazione anche dell’aggravarsi del conflitto civile in atto in Libia. Si pensi soltanto all’obbligo che il Governo libico avrebbe ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. b, ossia il rilascio immediato di donne, bambini e altre persone vulnerabili dai centri di detenzione per migranti. Ebbene, le Nazioni Unite - sin dal mese di settembre del 2018, a voce del proprio Segretario Generale Guterres - hanno evidenziato come nelle carceri libiche i migranti detenuti siano vittime di gravi torture ed abusi; spesso per ragioni meramente burocratiche, il Governo libico impedisce al personale delle Nazioni Unite l’accesso alle carceri per visionare lo stato di detenzione e verificare la sussistenza di abusi e torture nei confronti dei migranti prigionieri. Si tratta di luoghi di detenzione sotto la gestione e la sorveglianza del Ministero dell’Interno libico dove i cittadini stranieri (senza alcun distinguo) sono trattenuti sine die in condizioni di gravissima prostrazione fisica e psicologica. Del resto, il rapporto Unismil documenta come i migranti e i rifugiati trattenuti nelle prigioni del Ministero dell’Interno, siano sottoposti a torture, trattamenti disumani, lavoro forzato, isolamento prolungato, violazioni sistematiche dei propri diritti fondamentali. La situazione non è mutata ad oltre un anno dal citato rapporto: proprio nello scorso mese di gennaio 2020, infatti, le Nazioni Unite hanno continuato a registrare denunce per torture e stupri nei centri di detenzione libici, in particolare da parte delle donne detenute, mentre il 31 dicembre 2019 l’Associated Press - con una dettagliata inchiesta giornalistica - ha denunciato che almeno sette milioni di Euro stanziati dall’UE per la sicurezza delle carceri libiche sono stati intascati dai capi delle milizie armate che controllano i centri detentivi. Lo scorso 25 gennaio, il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha denunciato per l’ennesima volta come i migranti presenti nei centri di detenzione libici vengano sistematicamente sottoposti a detenzione arbitraria e tortura da parte di funzionari governativi, mentre i profughi catturati in fuga nelle acque antistanti Tripoli vengono intercettati dalla Guardia costiera libica e portati in centri di detenzione ufficiali e non, dove si hanno notizie di “omicidi illegali”. Ciò nonostante, in nessuna parte della bozza si parla di evacuazione e di chiusura immediata di tutti i centri di detenzione libici in cui vengono rinchiusi i migranti presenti sul territorio: sulla base della normativa interna libica, così come riscontrato fattualmente dai numerosi report internazionali e dalle inchieste giornalistiche susseguitesi nel corso degli ultimi mesi, i soccorsi via mare della Guardia costiera si concludono tutti con il trattenimento nelle carceri libiche dei migranti “salvati”. Questo trattenimento per legge è senza termine, né risulta che venga garantito un qualche passaggio giurisdizionale a tutela della libertà personale dei detenuti (circostanza questa che, di per sé sola, determina un grave vulnus dei loro diritti fondamentali, pur essendo stati “salvati” dalla Guardia costiera libica). Anche volendo mettere in disparte la circostanza che nelle carceri libiche si consumano sistematiche violazioni dei diritti fondamentali dei detenuti migranti, che subiscono trattamenti inumani e degradanti quotidianamente, resta il dato di fatto che esse sono un obiettivo sensibile e primario nello scenario di guerra in atto nel Paese. Il conflitto armato in corso in Libia, del resto, integra un mutamento fondamentale delle circostanze nel quale il trattato è stato concluso e costituisce il presupposto fattuale per l’immediata sospensione unilaterale degli accordi di cooperazione in vigore tra Italia e Libia, ai sensi della regola codificata nell’art. 62 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. In ogni caso, tanto il testo originario del Memorandum quanto questa bozza di proposta di revisione hanno natura politica e comportano oneri alle finanze pubbliche: ciò nonostante, in palese violazione dell’art. 80 della Costituzione, entrambi non sono, ad oggi, mai stati sottoposti a preventiva discussione e autorizzazione alla ratifica da parte del Parlamento italiano. Si ricorda, infine, che l’accordo Italia-Libia del 2017 è stato dichiarato illegittimo dalla sentenza del Gip del Tribunale di Trapani del 23 maggio 2019 in quanto non è stato mai ratificato a seguito di legge di autorizzazione alla ratifica come esige l’art. 80 Cost., non rispetta la Convenzione Sar sui salvataggi in mare e viola i fondamentali i diritti umani dei profughi in fuga da un Paese che certo non può essere considerato sicuro. Qualora un simile accordo fosse firmato si sporgerà denuncia sia alla Corte dei conti perché non registri atti del Governo comportanti spese derivanti da accordi stipulati in violazione dell’art. 80 Cost. e non previste nella legge di bilancio, sia alla Procura della Repubblica presso la Corte dei conti per danno erariale contro chiunque darà materialmente ordine di spesa di fondi dello Stato fuori dai casi e dai modi consentiti dalle norme legislative in vigore. Alla luce di quanto sin qui esposto, Asgi ribadisce che: Il rafforzamento delle autorità libiche tramite finanziamenti italiani ed europei sono contrari alle norme nazionali e comunitarie. Gli interventi di equipaggiamento, supporto tecnico e di cooperazione nella gestione dei confini, sia per le modalità pratiche con cui è stato disposto, sia per i soggetti a cui è rivolto, finisce per rafforzare pratiche e politiche di controllo dei flussi migratori contrarie ai diritti fondamentali, in quanto a sostegno delle autorità libiche che hanno commesso e continuano a commettere gravissimi crimini contro i migranti e i rifugiati in totale spregio della normativa in materia di diritti umani fondamentali e del diritto di asilo in palese violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, rafforzando al contrario autorità che commettono gravi crimini internazionali. Tramite il sostegno alla Guardia costiera libica, il Governo italiano ricerca un’ immunità da pesanti responsabilità di tipo giuridico: la delega alle autorità libiche della conduzione delle operazioni di soccorso in mare tramite la fornitura di supporto logistico, non esime lo Stato italiano da responsabilità per i c.d. respingimenti delegati e per la violazione degli obblighi di soccorso, laddove si rifiuta sistematicamente di assumere il coordinamento delle operazioni di soccorso lasciandole alle autorità libiche, le quali o non intervengono o riportano i migranti nei centri di detenzione della terraferma dove i loro diritti sono violati. L’intervento delle Organizzazioni internazionali e delle Organizzazioni Non Governative non può più essere strumentalizzato dall’Unione europea e dagli Stati membri per continuare a supportare le autorità libiche nella gestione del blocco dei flussi a fronte dell’apparente miglioramento delle condizioni dei centri di detenzione. Le condizioni all’interno dei centri di detenzione, nonostante gli interventi umanitari effettuati, sono tuttora caratterizzate da un altissimo livello di violenza. L’uso indiscriminato della detenzione in Libia, conseguenza delle politiche europee di esternalizzazione dei confini, comporta gravi violazioni dei diritti umani e impedisce l’esercizio del diritto di asilo. Alla chiusura dei centri di detenzione non può sostituirsi la creazione di centri gestiti da Oim ed Unhcr per una sorta di ordinaria gestione dei flussi migratori in assenza totale, come sopra evidenziato, di qualsivoglia quadro giuridico di protezione, ma solo interventi mirati ad organizzare nel minor tempo possibile il trasferimento dei migranti verso paesi sicuri e a far sì che i migranti possano facilmente raggiungere, in sicurezza, i paesi dell’Unione Europea dove possono presentare domanda di asilo o essere ammessi ad altre forme di tutela dove possibile. Per questo ASGI chiede al Governo italiano: l’immediata dichiarazione di sospensione del Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione del 2008 e di tutti i suoi supplementi applicativi e integrativi (comunque denominati), per mutamento fondamentale delle circostanze; l’immediato annullamento del c.d. Memorandum d’intesa con la Libia del 2017 ed il ritiro della bozza di revisione ; l’immediata interruzione di ogni forma di collaborazione con le Autorità libiche nell’ambito delle operazioni di intercettazione o soccorso di migranti in mare; l’immediata interruzione di ogni attività a sostegno del sistema di centri di detenzione per migranti in Libia; l’immediata evacuazione di tutti gli stranieri richiedenti protezione fuori dalla Libia in luoghi sicuri preferibilmente europei; di sottoporre qualsiasi accordo internazionale con la Libia - in quanto di natura politica e comportante oneri alle finanze - alla preventiva legge di autorizzazione alla ratifica ai sensi dell’art. 80 Cost.; l’immediata evacuazione di tutti gli stranieri richiedenti protezione fuori dalla Libia in luoghi sicuri preferibilmente europei; di sottoporre qualsiasi accordo internazionale con la Libia - in quanto di natura politica e comportante oneri alle finanze - alla preventiva legge di autorizzazione alla ratifica ai sensi dell’art. 80 Cost.; l’immediata evacuazione di tutti gli stranieri richiedenti protezione fuori dalla Libia in luoghi sicuri preferibilmente europei; di sottoporre qualsiasi accordo internazionale con la Libia - in quanto di natura politica e comportante oneri alle finanze - alla preventiva legge di autorizzazione alla ratifica ai sensi dell’art. 80 Cost. Egitto. Zaki non torna libero: “Situazione brutta. Siamo 35 in una cella” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 16 febbraio 2020 “La mano, datemi la mano”. Come stai, Patrick? “Tutto bene…”. Nella stanzetta delle udienze riservate, aula 4 del terzo piano del palazzaccio di Mansura, il pericoloso libero pensatore viene portato in manette alle dieci e mezza. Sfila nella luce dei neon bianchi e lungo i banconi della corte, in una folla d’avvocaticchi di provincia, di graduati con la pancia e i baffoni, di venditori di caffè. Il caso 1.372 di Patrick George Michel Zaki Suleimani è stato inserito nel calendario del sabato mattina: subito dopo la denuncia d’un furto di mobili, la querela d’una moglie contro il marito troppo violento, una lite fra i soci d’una finanziaria. Già buono che l’abbiano accettato in una settimana, dice un diplomatico, di solito le istanze di scarcerazione slittano molto più in là. Fa freddo, fuori c’è la nebbia e dentro s’annuvola il fumo delle sigarette. Sotto una sura dorata del Corano che esalta il Regno della Giustizia, Zaki guarda i suoi carcerieri. Ha di fronte i tre giudici e una sentenza che deciderà se rilasciarlo. Gli occhi addosso, sa come si deve rispondere in questi casi: tutto bene, sì, cibo ottimo e abbondante. Ma poi, ma poi. Appena la tensione si scioglie, il ragazzo ha l’ansia di chi sarà anche sbarbato e avrà i capelli tagliati di fresco e una camicia verdolina ben stirata e porterà pure jeans di marca e scarpe da ginnastica senza stringhe, sembrerà magari uno normale, eppure qui c’è poco di normale. Zaki ostenta calma, non ha segni visibili di botte e sta meglio che all’ultimo colloquio di giovedì, nella calca gli finiamo a fianco e stavolta trema: gli prendiamo la mano sinistra lasciata libera dalle manette e mentre parlano gli avvocati, lui stringe e ascolta le domande che gli sussurriamo. Ti trattano bene? “Very bad situation”. Tanto brutta? “Sono in una cella con 35 persone, abbiamo una latrina soltanto, la finestra è piccolissima”. Sai che hai intorno tanta solidarietà? “Sì, bene, grazie, bene così”. Dai, fai un sorriso, prima o poi tornerai a vedere le tue partite di pallone: che cosa diciamo all’Italia? “Forza Bologna”. La paura ha gli occhi persi d’un ricercatore universitario di 27 anni, elettrificato come altre migliaia di poveracci per avere scritto che il potere è marcio. Smarrito fin qui in una storia “più grande di lui”, come dice il suo amico Gasser Abdel Razek, e in una vicenda che nell’equiparazione a Regeni sta scappando di mano anche agli egiziani. Difensori, diplomatici, giornalisti, pacifisti: la piccola scia del pubblico è una confusione di ruoli, l’udienza era a porte chiuse ma fa nulla, e i poliziotti si confondono pure loro, non sanno chi può e chi no, in una quindicina c’infiliamo dietro Patrick in quel bugigattolo e a sentire quel che ne sarà. Dieci minuti soltanto d’udienza, mezz’ora appena di consiglio e a mezzogiorno il destino si compie: sabato prossimo si discuteranno le accuse di sovversione dello Stato, per cinque settimane non si parlerà più di scarcerazione e ora basta - toc! - la seduta è tolta. La giustizia di Al Sisi se ne infischia che la cristianissima famiglia di Zaki sia lontana parente del papa copto Tawadros II, delle autorevoli telefonate partite in queste ore dall’Europa per evitare l’ennesimo scontro, dei quattro diplomatici Ue (italiano e svedese) ed extra Ue (statunitense e canadese) venuti a “monitorare” questa palese violazione della libertà d’opinione, dei quattro amici d’infanzia saliti dal Cairo, dei quattro avvocati ingaggiati dall’ong Eipr che si batte per i troppi diritti calpestati delle persone. L’avvocatessa Huda Nasrallah s’accalora fino a irritare i giudici: “L’accusate sulla base d’un profilo Facebook falso! L’avete torturato sei ore in aeroporto! L’avete trattenuto 30 ore illegalmente! L’avete interrogato senza difensore! Gli imputate cose accadute in Egitto mentre lui era in Italia!”. Anche Patrick prova a dire la sua, ma a bassa voce: “Io sono solo un ragazzo che era atterrato al Cairo per venire a Mansura a salutare la famiglia. Sono solo un laureato che vuole finire il suo master a Bologna. Voglio solo tornare alla mia borsa di studio. Mi hanno messo in carcere perché hanno letto dei post sull’account d’un nome che non era il mio. Mi hanno denudato per ore in una sala, mi hanno preso a schiaffi in faccia. Lasciatemi libero”. Niente. La sentenza di rigetto non ha bisogno di motivazioni, e infatti i giudici non ne danno agli avvocati che le chiedono. Al caffè Oscar, poco fuori, ci s’abbraccia e un po’ ci si dispera: quando lo rivedremo? E se si facesse venire gente dall’Europa per organizzare un flash-mob al Cairo? “Follie, finirebbe malissimo - dicono all’Eipr - nell’Egitto di oggi è troppo pericoloso fare queste cose”. Qualcuno ha scattato una foto a Zaki: come l’hanno portato in aula, così se lo sono ripresi in prigione. Trascinato giù per le scale, la testa schiacciata da un secondino, le manette strette dietro il buio d’una gabbia. Egitto. Il governo italiano con un piede in due scarpe di Alberto Negri Il Manifesto, 16 febbraio 2020 L’Italia si prepara a prendere una bella fetta di commesse militari egiziane, ecco perché l’esecutivo finge di interessarsi della sorte di Zaki e della verità su Regeni ma in realtà non vede l’ora di archiviare queste questioni. Perché non possiamo rinunciare a fare affari con il Faraone? Mai dimenticare come è iniziata la storia: con il golpe militare del 3 luglio 2013 del generale Al Sisi, centinaia di morti, migliaia di incarcerati, il governo dei Fratelli Musulmani fuorilegge, i capi arrestati, torturati e condannati con processi farsa. E poi i miliardi delle monarchie del Golfo al generale-presidente per eliminare la Fratellanza, non solo in Egitto ma anche in Libia con il sostegno del Cairo al generale Haftar. Al centro ci sono i rivolgimenti di alleanze del Medio Oriente. E gli interessi delle grandi potenze e di quelle regionali nel campo del gas e delle armi. Ecco perché per inchiodare alle loro responsabilità i colpevoli dell’uccisione di Giulio Regeni e ora dell’arresto del giovane studente egiziano Patrick George Zaki - per il quale Amnesty International chiede proprio adesso una mobilitazione civile ancora più forte - non si risolvono con la diplomazia e la legge. Solo la mobilitazione e l’allarme probabilmente ha fatto sì che Zaki, per il quale ieri all’ultimo momento il giudice ha deciso che “deve restare in carcere” sia ancora fortunatamente vivo. Anzi è proprio la nostra diplomazia a mostrare sotto traccia il maggiore fastidio, anche dentro Palazzo Chigi, perché il messaggio che viene è chiarissimo: “I rapporti tra Italia ed Egitto devono essere disgiunti dal “caso Regeni” e dalla sua famiglia e ora anche da quello di Zaki”. Insomma la versione del nostro governo è questa: l’Italia non può farsi condizionare da questi “casi particolari”. Alla faccia dei diritti umani e del più elementare desiderio di giustizia. E così sembra una chimera poter ottenere la verità per il barbarico assassinio di Regeni da parte della polizia egiziana e la liberazione di un giovane studente egiziano che nulla ha fatto se non manifestare il suo libero pensiero, come i tanti giovani oppositori finiti in carcere o fatti sparire. La reale versione livida e rinunciataria del nostro governo, con dichiarazioni biforcute da langue de bois, la lingua di legno, viene dopo il fallimento della missioni in Egitto del premier Conte e del ministro degli Esteri Di Maio. In realtà sono due anni che la nostra procura non vede arrivare dal Cairo carte significative sul caso Regeni: inutile girarci intorno gli egiziani non collaborano, anzi ritengono irritante e fuori luogo l’insistenza degli italiani per avere giustizia. Al punto che il raìs Al Sisi con l’arresto di Zaki ha mandato un altro messaggio: a casa mia faccio quello che mi pare. Il raìs è anche irritato per il nostro appoggio a Tripoli e si è adombrato quando l’8 gennaio scorso Di Maio non ha firmato al Cairo un comunicato sulla Libia sbilanciato in funzione anti-turca. Quella tra Ankara e il Cairo è una delle grandi sfide del Mediterraneo e l’Italia c’è dentro in pieno. Da una parte fornisce con il giacimento Eni di Zhor l’autosufficienza di gas per i prossimi 50 anni all’Egitto ed è pure impegnata nel gasdotto East-Med con Egitto, Israele, Cipro e Grecia. È il grande gioco del bacino gasiero del Levante, l’alternativa ai riforimenti russi, incrinando anche il ruolo della Turchia come “hub” energetico. Dall’altra parte negozia con Ankara che vuole impedire le prospezioni nei giacimenti offshore di Cipro greca nella zona economica esclusiva. È su questa partita che il raìs Al Sisi sfida il Sultano Erdogan: chi non è con lui è contro di lui. Si aggiunge la Libia: dove il Faraone appoggia Haftar e il Sultano Sarraj e i Fratelli Musulmani. Il nostro governo vuole mano libera: finge di interessarsi della sorte di Zaki e della verità su Regeni ma in realtà non vede l’ora di archiviare queste questioni. Come ha anticipato Chiara Cruciati su il manifesto - testata e articolo denunciati sul canale di Stato della tv egiziana come “minaccia ai rapporti Roma-Il Cairo” - l’Italia si prepara a prendere una bella fetta di commesse militari egiziane. Un contratto da 9 miliardi di dollari, incentrato sulla fornitura di fregate Fremm (Fincantieri), due date per sicure e altre quattro da confermare. Ma nell’affare ci sarebbero anche pattugliatori, 24 cacciabombardieri Typhoon (joint venture di Leonardo), oltre ad aerei da addestramento Macchi M-346. A noi il Faraone del Cairo fa così comodo che mai, nei quattro anni (e tre governi) che ci dividono dall’uccisione di Giulio Regeni, abbiamo messo in discussione le relazioni strategiche ed economiche bilaterali. L’Egitto è un mercato ambito dai maggiori produttori di armamenti, Usa, Russia e Francia, e Al Sisi ha stipulato un patto d’acciaio con le monarchie del Golfo, oltre ad avere una relazione privilegiata con Israele. Il tutto alimentato dal gas del giacimento offshore di Zhor e dai mega-progetti di pipeline nel Mediterraneo orientale. Con tutto questo ben di dio pensavate che il governo Conte 2 ritirasse l’ambasciatore, come ha chiesto anche ieri la famiglia Regeni? No, a quanto pare: cerca di tenere il piede in due scarpe ma in realtà trova, finora assai comoda la pantofola del Faraone egiziano Turchia. Mercoledì termina il processo contro 11 difensori dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 febbraio 2020 Mercoledì 19 febbraio è attesa la sentenza di un tribunale di Istanbul nei confronti di 11 difensori dei diritti umani della Turchia che hanno passato oltre due anni e mezzo a difendersi da accuse fabbricate e che, in caso di colpevolezza, potrebbero subire condanne fino a 15 anni di carcere. Tra gli 11 imputati, arrestati nell’estate 2017 per infondati reati di terrorismo, vi sono l’ex presidente Taner K?l?ç, l’ex direttrice Idil Eser e diversi altri esponenti di Amnesty International Turchia. Sin dal primo momento, è apparso chiaro che si trattasse di un procedimento motivato politicamente, avviato con l’obiettivo di ridurre al silenzio la società civile turca. Nel corso di 10 udienze, le accuse di “terrorismo” sono state ripetutamente e categoricamente confutate, anche sulla base di elementi di prova di origine statale. Il tentativo della procura di presentare legittime attività in favore dei diritti umani come azioni illegali è totalmente fallito. Per questo, dopo mesi di carcere e anni di udienze e senza alcuna credibile prova portata a sostegno delle accuse, qualsiasi verdetto diverso dalla piena assoluzione costituirebbe un oltraggio. Gli attacchi contro i difensori dei diritti umani sono aumentati a partire dalla repressione scatenata dalle autorità dopo il tentato colpo di stato dell’estate 2016. L’assalto, ancora in corso, alla società civile turca ha significato la chiusura di oltre 1.300 organizzazioni non governative e di 180 organi d’informazione e il licenziamento arbitrario di quasi 130.000 impiegati pubblici. Texas. Stop a cartoline, soldi e cibo per i detenuti nel braccio della morte adnkronos.com, 16 febbraio 2020 L’allarme è dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. Nuovi regolamenti nel braccio della morte del carcere texano di Polunski Unit. Le regole impediscono l’invio di cartoline, soldi o cibo ai detenuti in attesa della pena capitale da parte di chi non è sulla lista dei visitatori autorizzati. A segnalarlo Daniela Fontana, che da 14 anni ha rapporti di corrispondenza con un detenuto: “Ho sempre cercato quando potevo di inviargli piccole somme di denaro” e di inviargli cibo, “a quanto pare, dal primo marzo non potrò più farlo. E come me anche altri italiani ed europei, che scrivono e inviano denaro, ma non hanno la possibilità di andare negli States. La vita di molti detenuti nel braccio della morte diventerà ancora peggiore di quanto già non sia”, dice all’associazione Nessuno Tocchi Caino: “È un colpo al cuore”. “Non poter più mandare card e greeting card ridurrà la corrispondenza che i prigionieri ricevono, ma il cambiamento più grave è che molti di loro non potranno più acquistare francobolli per mantenere i contatti con l’esterno, potendo contare solo sul supporto economico dei loro visitatori. E per molti di loro significherà non ricevere più nessuna somma in denaro. Le lettere portano la vita dentro la cella, e creano legami. Ma serve denaro per comprare francobolli, buste, carta da lettera. Questa norma si tradurrà in un annientamento psicologico per chi riceveva lettere e piccole somme di denaro dall’Europa”, sottolinea Fontana. Brasile. “Formazione e ascolto”, piano delle diocesi per il volontariato nelle carceri L’Osservatore Romano, 16 febbraio 2020 Formazione di nuovi volontari, assistenza spirituale e sostegno materiale e psicologico ai detenuti e alle loro famiglie con una presenza costante a difesa della dignità umana. Queste in sintesi le linee di intervento seguite dalla pastorale carceraria della Conferenza episcopale del Brasile (Cnbb) per la città di Londrina, comune brasiliano nello stato del Paranà, unite a un fitto programma di appuntamenti contrassegnati dalla preghiera, dalle celebrazioni liturgiche e soprattutto dall’ascolto. L’iniziativa, che comprende la fornitura di un kit per l’igiene personale fino al dono delle Bibbie, riserva priorità assoluta alla formazione. L’ultimo corso professionale si è svolto nello scorso novembre presso la Casa de Retiro Monte Carmelo a Jardim Nova Esperan, periferia sud di Londrina. In occasione dell’incontro, che ha visto la partecipazione di 41 volontari provenienti da dieci diocesi dello stato, si è parlato soprattutto della tematica relativa al trattamento delle detenute nel Paranà, illustrata dalla responsabile e dalla coordinatrice della pastorale penitenziaria, rispettivamente suor Luciene Melo e Cristina da Silva Souza Coelho. Si è sottolineato soprattutto come il potenziamento dell’attività di volontariato negli istituti di pena sia stato possibile grazie al sostegno finanziario del Fondo di solidarietà nazionale e, nello specifico, dalle risorse provenienti dalla Campagna di fraternità della Cnbb intitolata “Per una pastorale carceraria più umana e solidale in Paranà”. Un progetto di fondamentale importanza “che ha reso possibile una maggiore conoscenza delle nostre case di reclusione, delle esigenze di chi è ospite e di chi lavora all’interno di esse”, ha osservato suor Luciene Melo. Più volte nel corso degli anni e in relazione a drammatici episodi di rivolte di detenuti represse duramente, la Chiesa brasiliana ha auspicato il prevalere di una cultura della prevenzione, e non della repressione, all’interno e all’esterno delle carceri, attraverso programmi sociali volti a sostenere famiglia, infanzia e giovani. Nel Paranà attualmente vi sono circa milleottocento donne private della libertà, gran parte delle quali detenute nel carcere di Depen a Curitiba e le restanti negli altri istituti di pena e nei distretti di polizia. Allarmanti i dati pubblicati dopo il censimento del 2o16: la popolazione carceraria femminile è di quasi quarantacinquemila detenute, con il 61 per cento di colore, il 58 per cento analfabeta e il go per cento madri. Rappresentano il 7 per cento della popolazione carceraria e fanno del Brasile il quinto stato al mondo con il più alto numero di recluse.