Niente carcere per le detenute con figli disabili, possono scontare la pena ai domiciliari Il Mattino, 15 febbraio 2020 Niente carcere per le madri di figli gravemente disabili. La Consulta ha stabilito che possono scontare la pena in detenzione domiciliare, qualunque siano l’età del figlio e la durata della pena, sempre che il giudice non riscontri in concreto un pericolo per la sicurezza pubblica. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 18, depositata oggi (relatrice la Presidente Marta Cartabia), accogliendo le censure della Corte di cassazione dove non prevede che la detenzione domiciliare “speciale” sia concessa anche alle madri di figli con più di dieci anni, se affetti da grave disabilità. Nel solco di quanto già affermato nel 2003 sulla detenzione domiciliare “ordinaria” (sentenza n. 350, relatrice Fernanda Contri), la Corte ha ora rimosso anche per la detenzione domiciliare “speciale” il limite di età dei dieci anni del figlio affetto da grave disabilità. Questa misura, infatti, è finalizzata principalmente a tutelare il figlio, terzo incolpevole, bisognoso del rapporto quotidiano e delle cure della madre ristretta in carcere. La sentenza si inserisce nell’ambito di una copiosa giurisprudenza costituzionale che considera le relazioni umane più prossime, specialmente familiari, fattori determinanti per la tutela effettiva delle persone più fragili. Perciò la Corte ha ritenuto che la detenzione domiciliare debba essere concessa alla madre di un figlio gravemente disabile, considerata la sua particolare vulnerabilità fisica e psichica. Dap, Giulio Romano nuovo Direttore Generale Detenuti e Trattamento di Marco Belli gnewsonline.it, 15 febbraio 2020 Si è insediato ieri, nel suo studio al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il nuovo Direttore Generale dei Detenuti e del Trattamento, Giulio Romano. Magistrato, nato a Roma e classe 1960, Romano ha ricoperto, fra gli altri, l’incarico di giudice presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma e, fino al dicembre scorso, quando il Consiglio Superiore della Magistratura deliberò il suo collocamento fuori ruolo, quello di sostituto procuratore generale in Corte di Cassazione. Ieri mattina, prima di salire nel suo ufficio al secondo piano del palazzo in Largo Luigi Daga, stretta di mano e auguri di rito da parte del Capo del DAP Francesco Basentini, che ha voluto presentare il nuovo Direttore Generale ai suoi più stretti collaboratori e ad una numerosa rappresentanza del personale del Dipartimento. “Insieme al vostro consiglio e alla vostra esperienza sono certo che sapremo fare un ottimo lavoro”, ha detto Romano salutando tutti. I numeri drammatici della giustizia in Italia. Che la riforma della prescrizione non migliorerà di Paolo Biondani L’Espresso, 15 febbraio 2020 Il governo si divide sulla legge Bonafede che avrà effetti solo nel 2025 e incide poco sui veri mali della giustizia. Un esempio? Nell’ultimo anno non c’è stato neanche un condannato in via definitiva per concussione e corruzione. Basta impunità per evasori e corrotti, basta prescrizione per inquinatori e banchieri ladri di risparmi. Ma solo a partire dal 2025. Ci voleva tutta la scienza politica e giuridica italiana per rischiare una crisi di governo, spaccando la giustizia, su una riforma destinata a produrre i primi effetti concreti, salvo intese contrarie, tra almeno cinque anni. Nell’attesa, il sistema resterà fermo alle statistiche da favola delle ultime annate giudiziarie. In un paese come l’Italia, ad esempio, non si trova nessuno che abbia cercato di incassare o pagare tangenti. Numero di condanne definitive per tentata corruzione o concussione: zero. E mentre i dati aggiornati dell’Istat e della Banca d’Italia quantificano l’evasione fiscale in oltre 190 miliardi, gli sfortunati che stanno scontando in carcere la pena prevista dalla legge per il reato di “dichiarazione infedele”, cioè per aver sottratto al fisco almeno 150 mila euro all’anno, sono soltanto otto. Miracoli della prescrizione. Favorita da un’abnorme durata media dei processi, che punisce gli innocenti e salva decine di migliaia di colpevoli. La prescrizione, spiegano i giuristi, è la scadenza dei termini massimi di punibilità, che provoca “l’estinzione” del caso. L’anomalia italiana è l’altissimo tasso di mortalità dei processi, solo per alcune categorie di reati. Nella fase delle indagini la prescrizione esiste in tutto il mondo: dopo un certo numero di anni, stabiliti in ogni nazione in base alla gravità dei fatti, lo Stato smette di sprecare tempo e risorse per giudicare reati troppo vecchi. Gong, tempo scaduto. Per fatti gravissimi, in tutti i paesi civili esistono reati dichiarati “imprescrittibili”, sull’esempio del genocidio: un criminale nazista, se è ancora vivo, si può processare sempre. Ma non si può reclamare la galera a spese dello Stato per un furto del secolo scorso. È una regola di efficienza, non di giustizia: magistrati e forze di polizia devono concentrarsi, nell’interesse di tutti, sui reati più recenti e sui criminali più pericolosi. In Italia, nell’ultimo anno giudiziario (dal luglio 2018 al giugno 2019), questo primo tipo di prescrizione ha azzerato oltre 50 mila fascicoli delle procure, il 42,7 per cento del totale: indagini archiviate in partenza, senza fare i processi, quindi senza troppi rimpianti. La vera anomalia italiana è la prescrizione dopo un processo, addirittura dopo una condanna. “Siamo l’unico paese del mondo dove la prescrizione parte quando viene commesso il reato, continua in tutti i gradi di giudizio, fino alla Cassazione, e per molti illeciti dura pochissimo”, puntualizza l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Edmondo Bruti Liberati, che fu tra i primi a denunciare la massiccia “impunità selettiva” prodotta dalla legge ex Cirielli, approvata dal centrodestra nel 2005 con Silvio Berlusconi premier. L’ex procuratore capo di Milano, ora in pensione, ne parla al presente, perché quelle regole, in apparenza abolite da due successive riforme, sono ancora vive. E secondo gli ultimi dati (anno 2018) hanno incenerito oltre 29 mila processi solo in appello. Questo significa che dopo anni di indagini e due gradi di giudizio, un processo su quattro si chiude con un verdetto inutile e ingiusto: il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma ha diritto di restare impunito. Il professor Gian Luigi Gatta, che insegna diritto penale alla Statale, è uno dei pochi giuristi italiani che studiano i sistemi stranieri: “In quasi tutti i paesi, come in Germania, Francia, Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti, la prescrizione si interrompe dopo il rinvio a giudizio e dopo una condanna in primo grado non esiste. Un sistema non identico, ma paragonabile al nostro si trova solo in Grecia e Argentina”. Due nazioni che condividono con l’Italia enormi problemi di debito pubblico, evasione fiscale, corruzione e stagnazione economica. L’effetto più vistoso della prescrizione all’italiana è l’impunità per i colletti bianchi. I dati pubblicati in queste pagine documentano che in un paese con 60 milioni di abitanti e innegabili problemi di legalità, sono poche decine i condannati definitivi per reati di corruzione, evasione o frode fiscale, disastri ambientali, truffe finanziarie, illeciti bancari, omicidi colposi (cioè morti sul lavoro, vittime di malasanità o dei pirati della strada). Una cifra tra tutte: nella patria degli ecomostri si contano solo 20 colpevoli di abuso edilizio. E ancora meno sono i condannati che scontano davvero la pena della reclusione prevista dalla legge, come mostrano le nostre tabelle sulle carceri. Da notare che i dati ufficiali del Dap, aggiornati al 6 febbraio, non riguardano solo i colletti bianchi, ma tutti i detenuti per quel tipo di reato, che spesso rispondono anche di altre accuse: il boss della cocaina che corrompe l’agente, l’inquinatore che manda l’azienda in bancarotta, il mafioso che froda il fisco e ricicla i soldi. Di fronte a migliaia di vittime che restano senza giustizia, dal caso Eternit ai processi per i terremoti, nel 2017 è entrata in vigore, dopo anni di parole, la prima riforma, intitolata all’allora ministro Andrea Orlando, ma basata sui lavori di una commissione creata dal suo predecessore Paola Severino, che è un’illustre avvocata. Una soluzione di compromesso: la prescrizione rimane, per evitare processi infiniti, ma viene sospesa fino a tre anni per i condannati in primo e secondo grado. Nel 2019 il contratto di governo tra Cinquestelle e Lega ha rincarato la dose, inserendo nella legge spazza-corrotti uno stop anticipato, rinviato però di un anno: basta prescrizione dopo la sentenza di primo grado. È la riforma intitolata all’attuale ministro Alfonso Bonafede, in vigore dal primo gennaio 2020 e subito tornata in discussione. Perché si applica anche agli assolti. E dunque fa riesplodere il problema dell’eccessiva durata dei processi: la media nazionale è 1.725 giorni, compresi i riti abbreviati e immediati. Con tempi indecenti nelle corti d’appello: 840 giorni, in media. Con grosse disparità geografiche: a Milano e Palermo l’assolto in primo grado aspetta meno di un anno per la sentenza d’appello; a Roma e Venezia più di tre anni; a Napoli almeno quattro. Di qui l’insurrezione dell’Unione degli avvocati penalisti e dei loro referenti politici, cioè l’intero centro-destra allargato a Italia Viva: un processo interminabile è già una pena, quindi la prescrizione non si tocca. Mai. Nemmeno per i soli condannati in primo e secondo grado, come ora propone il nuovo “lodo” del governo giallorosso. Queste polemiche tra opposte tifoserie stanno oscurando le analisi dell’ufficio studi della Cassazione e dei giuristi non schierati. Che il professor Gatta riassume così: “La durata dei processi è una patologia, ma non si può curarla con un’altra patologia come la prescrizione delle condanne”. Bruti Liberati fa notare che “i tempi dei giudizi sono da anni in calo lento, ma costante, e si potrebbero ridurre notevolmente con diversi piccoli interventi legislativi di cui nessuno parla”. Un esempio, segnalato da molti presidenti di corti d’appello, da Roma a Venezia: i giudici sono oberati da “migliaia di processi contro imputati assenti, irreperibili, con notifiche da consegnare a mano, continui rinvii e rischi di nullità”. Il presidente della Cassazione, all’apertura dell’anno giudiziario, ha segnalato anche l’assurdità dei “tempi di attraversamento”: i processi sono ritardati da regole ottocentesche di “formazione dei fascicoli, trasporto manuale da una corte all’altra, avvisi e notifiche ripetute”. Problemi pratici, aggravati dalla “cronica carenza di personale giudiziario”, indispensabile per gestire i processi: i cancellieri dovrebbero essere 43.304, ma in servizio (nonostante le prime 625 assunzioni degli ultimi vent’anni decise nel 2018) ce ne sono 10 mila in meno, con un’età media di 54 anni. Nel frastuono politico sulla prescrizione sta passando sotto silenzio un’altra questione centrale: qualsiasi limite o blocco della prescrizione non si può applicare subito, a tutti i processi in corso, ma vale solo per i reati futuri. Anche questa è una particolarità nazionale, consacrata dalla nostra Corte Costituzionale. Mentre in quasi tutta Europa vale il principio opposto: la prescrizione è una regola processuale, quindi una riforma può avere effetti immediati. Invece in Italia restano tuttora valide le vecchie regole della ex Cirielli: impunità sicura dopo cinque anni per i reati minori come le contravvenzioni (che comprendono gran parte dei reati ambientali e abusi edilizi), dopo 7 anni e mezzo per corrotti, evasori e criminali economici. A conti fatti, le prime sentenze definitive senza prescrizione si vedranno, dopo tre gradi di giudizio, nel 2025. In questa situazione molti tecnici del diritto si sentono presi in giro. Luca Santamaria è un importante avvocato milanese che ha difeso grandissime aziende segnalandosi per indipendenza e rigore: come studioso, pubblica su Internet dotte riviste giuridiche gratuite. Ed è scandalizzato da un dibattito “falso”: “Non c’è alcun motivo razionale per cui debba andare in prescrizione una condanna di primo grado, tantomeno se confermata in appello. Ma qui nessuno dice tutta la verità: la prescrizione fa comodo a molti. A noi penalisti, certo, perché qualsiasi avvocato decente conosce i sistemi per allungare i tempi dei processi e ritardare o evitare la condanna del cliente che paga la parcella. Ma conviene anche a molti magistrati. Un pm che fa indagini da circo non è costretto a mostrare in tribunale le prove che non ha. E per i giudici pigri è molto più facile applicare la prescrizione che motivare una sentenza di condanna o assoluzione. Il vero problema di cui non si parla è lo scollamento drammatico tra giustizia e società. La prescrizione non ha nulla a che fare con il garantismo vero, con quelle regole serie, universali, che dovrebbero proteggere gli innocenti da condanne ingiuste. La nostra giustizia è debole con i forti e forte con i deboli”. I dati statistici illuminano anche questo lato oscuro del sistema italiano: sentenze-lampo per migliaia di accusati per reati di strada. In meno di tre mesi si è arrivati a condanne definitive per 5.781 arrestati per droga. E 7.995 accusati di furto. Nello stesso intervallo di tempo, la giustizia è riuscita a punire solo 3 colpevoli di peculato, 8 di corruzione, nessuno per concussione. Mentre per una massa di circa 28 mila condannati definitivi per furto o droga, i tre gradi di giudizio sono durati meno di un anno. Come funziona il processo-lampo per i reati di strada lo racconta l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone: “L’imputato viene arrestato in flagrante e processato per direttissima. Il difensore d’ufficio viene avvisato la sera con una telefonata di un agente che comunica solo data e ora dell’udienza, in genere l’indomani mattina. Il tempo medio di consultazione del fascicolo è ridottissimo: nel 25 per cento dei casi, a Roma, è stato di cinque minuti”. Durante il processo, velocissimo, il presunto innocente capisce poco o nulla, perché ha problemi di droga, vita da sbandato, istruzione minima, povertà cronica e magari è straniero (con interpreti che traducono una parola su dieci). E molte condanne diventano definitive subito, perché nessuno le impugna. E la stessa ex Cirielli che favorisce i colletti bianchi, vieta sconti di pena per i condannati del passato: in galera. Nei rari episodi di condanne eccellenti, invece, i processi sono una corsa contro il tempo per l’accusa. Nel caso simbolo di questi mesi, Roberto Formigoni, l’ex governatore della Lombardia, ha avuto la sfortuna di essere processato dall’efficiente giustizia milanese. Qui l’inchiesta nasce per caso, nell’estate 2011, dall’improvvisa bancarotta dell’ospedale San Raffaele, esplosa con il suicidio di un manager. Indagando sui debiti, la procura scopre che quella struttura privata e un’altra fondazione sanitaria (Maugeri) erano fabbriche di fondi neri, versati sui conti esteri di due mediatori ciellini (almeno 60 milioni) che poi riversano contanti e regali milionari a Formigoni, in cambio dei soldi pubblici della sanità. Nei primi atti d’accusa, i pm contestano al parlamentare di Forza Italia tangenti “continuate dal 1997 al 2011”. Le indagini durano due anni. E la prescrizione continua ad annientare reati. All’udienza preliminare sopravvivono solo le accuse successive al 2007. Formigoni viene rinviato a giudizio nel 2014 per aver incassato “oltre 6 milioni”. Il tribunale, nel 2016, lo condanna a 5 anni e mezzo. La sentenza d’appello, nel settembre 2018, aggrava la pena. Il verdetto della Cassazione arriva nel febbraio 2019: la prescrizione cancella altri reati, per cui la condanna definitiva scende a 5 anni e 10 mesi. A conti fatti, sarebbero bastati altri quattro mesi di ritardi per annientare tutte le accuse. Invece, per una volta, il politico corrotto finisce davvero in carcere. Cinque mesi dopo, Formigoni è già fuori: può scontare la pena a casa sua. La ex Cirielli, nel 2005, fu definita “legge ad personam” perché ha consentito all’allora premier Berlusconi, in particolare, di ottenere svariate prescrizioni (ad esempio per corruzione dell’avvocato Mills). La sua prima e unica condanna è diventata definitiva a un passo dalla prescrizione, nell’agosto 2013. I giudici di tutti i gradi spiegano che la frode fiscale di Berlusconi consiste nell’aver nascosto, sui conti esteri delle sue società offshore, almeno 368 milioni di dollari. La prescrizione però ha lasciato sopravvivere solo l’ultimo pezzo di reato: 7,3 milioni. Condannato a quattro anni tra le proteste di mezzo parlamento, il leader di Forza Italia è rimasto libero, affidato ai servizi sociali, e ha risarcito al fisco 10 milioni in tutto. Un trentaseiesimo del bottino. Il ministro della Salute e la sua onnipresenza riluttante da domatore di coronavirus. Il Guardasigilli che confonde 41 bis con 416 bis estenuato dalla lotta sulla prescrizione. Ecco i gemelli eterozigoti del contismo, un governo del quale siamo condannati a non ricordare un volto, un carisma, una decisione appena Una delle maggiori novità delle riforme è proprio la fine della prescrizione spezzettata: di fronte a una serie di illeciti, i giudici possono considerarli un unico “reato continuato”. E calcolare la prescrizione a partire dall’ultimo. Per gli imputati eccellenti, però, se ne parla dopo il 2025. Intanto continua a valere la ex Cirielli. Che il governo Renzi annunciò di voler cancellare, con la commissione Gratteri, seguendo due esempi stranieri: basta prescrizione dopo la condanna di primo grado; e sconti di pena per i processi troppo lunghi. Oggi il leader di Italia Viva sposa invece la linea berlusconiana: la prescrizione è sacra, perfino dopo la condanna in appello. A questo punto non resta che misurare i tempi del procedimento più criticato dall’ex sindaco di Firenze (anche se non risulta indagato): i soldi privati alla fondazione Open. Un esercizio di scuola, viste le polemiche. I reati finora ipotizzati vanno dal 2016 al 2018. Le indagini sono iniziate solo nel 2019. E a Firenze un processo penale dura, in media, molto più che a Milano: in tribunale 435 giorni, in appello altri 878. A conti fatti, metà delle accuse già si avvia verso la prescrizione. Quindi anche il futuro processo, se mai si farà, sarà una corsa contro il tempo di berlusconiana memoria. La riforma non accorcia i tempi. I giuristi: il lodo a rischio incostituzionalità Il Messaggero, 15 febbraio 2020 Prescrizione, trattamenti diversi per gli imputati. Non convince gli avvocati il Conte bis. L’unione camere penali parla di imputati a vita neppure la formula che blocca l’orologio solo in caso di condanna e al secondo grado di giudizio piace ai legali. Resta lo spettro dell’incostituzionalità, come hanno sostenuto giuristi e magistrati. La norma contravverrebbe il principio della ragionevole durata del processo, rischierebbe di rendere esecutiva una pena anche 15 anni dopo i fatti contestati e riserverebbe un trattamento differente agli imputati. Non si esclude, però, che l’articolo riguardante il lodo Conte bis possa essere stralciato e trasformato in una diversa proposta di legge. La durata, processi in 4 anni. il no dei magistrati. Sono invece le toghe a opporsi alla norma che prevede sanzioni disciplinari in caso di indagini che si prolunghino nel tempo e un tempo massimo di quattro anni per i processi. La bozza prevede un anno per il primo grado, due per il secondo e un anno per la Cassazione. “È sbagliatissimo stabilire una durata predeterminata per tutti i processi poi scaricare l’inefficienza del sistema sul singolo magistrato. È una risposta semplicistica, brutale e ingenerosa, e controproducente rispetto a ciò che si attendono i cittadini”, dicono i magistrati. L’Anm ribadisce il proprio no alle sanzioni ai magistrati per il mancato rispetto dei tempi predeterminati dei processi, previste dalla riforma del processo penale. Un “principio irricevibile”. Tribunali lenti, carenza di mezzi e di personale. Le norme non risolvono il problema della lentezza dei processi. Perché procure, tribunali e Corti d’appello sono sottodimensionati: manca il personale amministrativo, ma risultano inferiori alle esigenze anche i magistrati. È uno dei nodi irrisolti, su cui penalisti e toghe concordano. Questi ultimi, tra l’altro, rischiano anche le sanzioni. Pensare di ridurre i tempi fissando un limite massimo, senza risolvere il problema di rinforzare gli uffici per gli attori principali del mondo della Giustizia è inutile, dicono. Lo hanno ribadito i vertici di Corti d’appello e procure generali dei diversi distretti, in occasione dell’anno giudiziario, e lo sostiene anche il presidente delle Camere penali, Giandomenico Caiazza. La Cassazione: il pericolo sovraccarico. Nonostante la norma sulla prescrizione voluta dal ministro Bonafede sia stata rivista, il lodo Conte bis rischia di ingolfare la Cassazione con migliaia di processi. I numeri dicono che, nella maggior parte di casi, gli appelli sono presentati da imputati e non dalle procure generali. Pertanto il Lodo Conte bis non risolverebbe il problema, dal momento che prevede la sospensione della prescrizione in caso di condanna in secondo grado. Una norma che, tra l’altro, secondo giuristi ed esperti, ha anche profili di incostituzionalità. Si verrebbe a creare, infatti un diverso trattamento a seconda delle sentenze, circostanza che va contro la presunzione di non colpevolezza fino al terzo grado. Il processo penale cerca slancio di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 15 febbraio 2020 Indagini più veloci, corsie preferenziali per i reati più gravi, rinvii a giudizio più selettivi, più spazio ai riti alternativi. E poi, prescrizione sospesa dopo la condanna in primo grado e rinfoltimento degli organici con più 500 giudici onorari e mille impiegati amministrativi. Indagini più veloci, corsie preferenziali per i reati più gravi (la procura deve fissare le fasce di priorità), rinvii a giudizio più selettivi, più spazio ai riti alternativi. E poi, prescrizione sospesa dopo la condanna in primo grado e rinfoltimento degli organici con più 500 giudici onorari e mille impiegati amministrativi. È quanto prevede il ddl contenente le deleghe per la riforma del processo penale, approvato il 14 febbraio 2020 dal Consiglio dei ministri. Il disegno di legge è costruito sulla necessità di velocizzare i processi e fare in modo che arrivino in tempo breve a una definizione. Ciò, innanzi tutto, per il collegamento tra i temi della sterilizzazione della prescrizione e dall’altro della efficienza della giustizia penale. Al di là di questi aspetti di politica legislativa, è necessario, però, approfondire l’identikit della giustizia penale che verrà tracciato dai decreti legislativi, una volta che la legge delega verrà approvata dal parlamento (e il cammino si prospetta non certo in discesa). Vediamo alcuni tratti del nuovo profilo del processo penale. Il ddl prevede che tutte le notifiche successive alla prima, che comunque dev’essere necessariamente effettuata all’imputato, siano effettuate al difensore, anche per via telematica. Tradotto, gli uffici e i giudici non dovranno perdere tempo a rincorrere l’imputato nomade o irreperibili. Niente stasi o rinvii dei giudizi per mancata o omessa notifica. L’avvocato diventa il domiciliatario ex lege dell’imputato. Tappe forzate e rush finale per il pubblico ministero, impegnato al rispetto dei termini delle indagini preliminari. Nel dettaglio il ddl delega individua tre termini di durata, legati alla gravità del reato su cui si indaga: 1) sei mesi per i reati meno gravi; 2) un anno per quelli ordinari; 3) diciotto mesi per i reati di maggiore allarme sociale e per quelli associativi di stampo mafioso o di natura terroristica o definibili di particolare complessità per il numero di imputati o di capi di imputazione. La durata sarà prorogabile una sola volta, di sei mesi, su istanza del pm, con provvedimento del giudice per le indagini preliminari. Ma quel che è più importante è che scatta un obbligo di disclosure una volta, scaduto il termine massimo di durata delle indagini preliminari. Il pm sarà tenuto, entro i 3, 6 o 12 mesi a seconda del tipo di reato, a richiedere l’archiviazione o esercitare l’azione penale. Dopo questi termini, il pm dovrà notificare all’indagato la fine delle indagini e a svelare il contenuto degli atti. Sarà quindi facoltà delle parti richiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione. Per accelerare le indagini il ddl prevede anche il potere del giudice di retrodatare l’iscrizione dell’indagato nell’apposito registro con la conseguente sanzione di inutilizzabilità degli atti di indagine effettuati a termini già scaduti. Le indagini con il countdown sveltiscono l’iter. Ma il ddl progetta di ridurre il numero delle indagini che sfociano in un processo dibattimentale, cioè con tutte le possibili garanzie per l’imputato. Il primo strumento è rendere più selettivo il criterio per cui il pm deve chiedere il rinvio a giudizio e il gip deve mandare il processo. Non basterà una generica sostenibilità dell’accusa, ma ci vorrà una più stringente prognosi di condanna. Il procuratore della Repubblica dovrà stilare criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, da concordare con il procuratore generale e con il presidente del tribunale. Altrimenti detto, le autorità dovranno studiare la specifica realtà criminale e territoriale, valutare le risorse umane, finanziarie e tecnologiche a disposizione dell’ufficio e, poi, individuare quali indagini hanno la precedenza rispetto agli altri. Viene codificata, quindi, una modalità operativa che di fatto è già in atto in alcune procure. Si è detto indagini più veloci con pianificazione delle priorità e rinvii a giudizio più selettivi. A ciò il ddl aggiunge un maggior spazio di azione per i riti alternativi. Cosicché i processi che arrivano al giudizio hanno l’opportunità di essere chiusi più in fretta. Come? Ad esempio con il patteggiamento esteso a tutte le ipotesi di reato alle quali sia applicabile complessivamente una pena inferiore agli otto anni, rispetto agli attuali cinque, questo bilanciato con un ampliamento dell’elenco dei reati che escludono a priori il patteggiamento. Il ddl interviene sulla sospensione della prescrizione. Si prevede la sospensione della prescrizione dalla pronunzia della sentenza di condanna di primo grado fino alla data di esecutività della sentenza, e che la stessa riprenda il suo corso e i periodi di sospensione siano computati, quando la sentenza di appello proscioglie l’imputato o annulla la sentenza di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità o ne dichiara la nullità. Questo disincentiverà manovre di dilatazione dei tempi del processo, poiché il decorso del tempo non sarà più un vantaggio per l’imputato. Per dare sprint alla produttività dei tribunali, il ddl prevede la possibilità di impiegare i giudici onorari ausiliari nei collegi giudicanti (più giudici uguale più processi da definire). Inoltre sono previsti l’aumento dell’organico dei giudici onorari ausiliari di 500 unità, dagli odierni 350 a 850 e l’assunzione, con contratto a tempo determinato di 24 mesi, anche in soprannumero, di mille unità di personale amministrativo. Prescrizione, per gli assolti spunta la sospensione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2020 Le parti potranno chiedere una sentenza di appello entro sei mesi. Garantire l’appello quando il reato si sta per prescrivere. Alla fine è questo il punto di caduta cristalizzato nell’articolo 14 del disegno di legge delega di riforma del processo penale. Perché alla fine di un Consiglio dei ministri nel quale molto hanno pesato considerazioni politiche davanti al forfait delle ministre di Italia Viva, più che strette valutazioni tecniche, il lodo Conte bis è stato innestato nel corpo del provvedimento. Con alcune novità sul punto che da giorni era apparso il più critico, quello del trattamento da riservare agli assolti in primo grado. Se per chi è condannato in primo grado la soluzione è quella nota: interruzione dei termini con possibilità di recupero in appello anche del tempo trascorso in precedenza, da utilizzare in caso (raro, peraltro) di ricorso della Procura generale, se il giudizio di secondo grado è stato di proscioglimento e stop definitivo in caso di conferma della condanna, è sulla sospensione che si è giocato il trattamento degli assolti. Contrariamente a quanto prefigurato in un primo momento, non in tutti i casi di assoluzione la prescrizione continuerà a correre. Per consentire la possibilità di impugnazione da parte del pm, quando il reato per il quale si procede, o anche solo uno di questi in caso di pluralità di capi d’imputauzone, si prescriverà entro i anno dal deposito della motivazione della sentenza di assoluzione di primo grado, il corso della prescrizione è sospeso per un periodo massimo di i anno e 6 mesi tra il primo grado e l’appello e di 6 mesi tra la pronuncia di assoluzione in appello e il verdetto definitivo. Barocco per alcuni, incostituzionale per altri. Se per il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si tratta del frutto di “un lavoro collegiale con le altre forze di maggioranza in circa io incontri”, per le Camere penali è “uno dei più incomprensibili obbrobri mai concepiti in materia di diritto penale e processuale”. Matteo Renzi rilancia il tema costituzionalità e ribadisce la volontà di cambiare il lodo prima che venga bocciato dalla Consulta, “come già avvenuto in settimana alla legge Bonafede (la “spazzacorrotti”, ndr). In ogni caso, è all’appello che il disegno di legge dedica la maggiore attenzione, tanto da dedicargli un articolo, i113. Qui si legge, in dichiarato collegamento con le misure sulla prescrizione, che i difensori, con l’obiettivo di accelerare i tempi di trattazione, una volta esauriti i 2 anni che il ddl fissa come limite per lo svolgimento del secondo grado di giudizio (fanno eccezione i procedimenti per alcuni gravi reati, come quelli di mafia e terrorismo), possono fare richiesta di immediata trattazione processo. A quel punto l’impugnazione dovrà essere definita entro i successivi 6 mesi. E se il dirigente dell’ufficio giudiziario non provvederà a organizzare il lavoro per assicurare il risultato, allora potrà essere colpito da illecito disciplinare. La prossima settimana, il ministero della Giustizia dovrebbe mettere poi in campo una commissione, nella quale dovrebbero essere rappresentati anche magistrati e avvocati, per misurare gli effetti della riforma Bonafede. Perché, si fa notare, se è vero che le conseguenze principali saranno visibili solo tra qualche anno (5 per il presidente della Cassazione, quando andranno in prescrizione i primi illeciti contravvenzionali), da subito potrebbe essere verificato l’allungamento dei tempi di durata del primo grado, visto che comunque, al netto delle correzioni è qui che potrebbe maturare la prescrizione. Indagini preliminari da chiudere al massimo entro due anni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 febbraio 2020 Critica la Anm: il rischio è depotenziare la risposta dello Stato alla criminalità Rischiano di passare sottotraccia in una stagione di polemiche esasperate sulla prescrizione, ma, in altri tempi, sarebbero bastate solo alcune delle misure inserite nel progetto di riforma della procedura penale per fare discutere a lungo. Perché, per esempio, si prova a intervenire sulla durata delle indagini preliminari, dove, tra l’altro, matura il maggior numero di prescrizioni. Il termine sarà di ianno per la generalità dei reati, di 6 mesi per reati puniti conia sola pena pecuniaria o con pena non superiore nel massimo a3 anni e, infine, di ianno e 6 mesi per i reati di criminalità organizzata o terroristica e, comunque, per quelli più gravi. Una proroga potrà essere richiesta, per una sola volta e per un termine di 6 mesi. Scaduto il termine massimo di durata, il pm sarà obbligato, entro un ulteriore periodo di 3, 6 0 12 mesi a seconda della tipologia di reato, a richiedere l’archiviazione o esercitare l’azione penale. Trascorso questo termine, il pm dovrànotificare all’indagato la fine delle indagini e dovrà svelare il contenuto degli atti. Saràquindi facoltà delle parti chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione Polemica l’Anm, che contesta l’intervento perché “tagliare conia scure i tempi delle indagini preliminari può depotenziare la risposta dello Stato alla criminalità organizzata ed economica”. Ma nel testo c’è posto anche per l’estensione della possibilità del patteggiamento atutte le ipotesi di reato alle quali è applicabile una pena inferiore agli 8 anni, rispetto agli attuali 5, riequilibrata da un ampliamento dell’elenco dei reati che escludono a priori il patteggiamento e misure per favorire il ricorso al giudizio abbreviato condizionato, sul calendario delle udienze e sui termini di deposito delle perizie. Spazio anche all’indicazione da parte del Procuratore dei criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e all’introduzione della valutazione del giudice sulla eventuale retrodatazione dell’iscrizione dell’indagato nel registro e la conseguente sanzione di inutilizzabilità degli atti di indagine effettuati a termini già scaduti. L’Anm applaude la riforma: “Non ci saranno imputati a vita” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 15 febbraio 2020 Giuseppe Conte l’aveva detto che non avrebbe ceduto a ricatti, all’opposizione “maleducata” di Matteo Renzi. E così il Consiglio dei ministri notturno, a cavallo tra giovedì e venerdì di San Valentino, ha approvato, con i ministri di Iv platealmente assenti, la riforma del processo penale del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Per la prima volta, come anticipato dal Fatto, si prevedono misure per accorciare iprocedimenti, per impedire che almeno 120 mila processi all’anno vadano al macero per prescrizione. Non solo i processi dovranno durare tra i 3 e i 5 anni complessivi (per mafia e terrorismo nessun tetto) ma sono previste altre misure contro la malagiustizia. A partire dalle notifiche telematiche agli imputati, con una serie di doverose garanzie. A oggi si procede con la notifica a mano della polizia giudiziaria: è una delle armi, legittime, degli avvocati per rendere nulli gli atti e puntare così alla prescrizione. Già l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva previsto notifiche via mail agli avvocati, ma alla fine fu costretto alla rinuncia a causa delle barricate degli uomini di Angelino Alfano e Denis Verdini. Vialibera del Cdm anche alla modifica della prescrizione: il lodo Conte bis, ideato da Federico Conte, LeU. È il doppio binario per condannati e assolti, una mediazione respinta solo da Iv, tanto davotare per 3 volte con il centrodestra per ostentare il suo peso nella maggioranza. Senza successo, visto com’è andata in Cdm. Ma Renzi è come il can che abbia e non morde. Poiché non vuole andare avotare né uscire dalla maggioranza, ecco che ieri fonti parlamentari di Iv hanno fatto filtrare che voteranno la fiducia al governo sul Milleproroghe. Quanto alla partita avvelenata sulla giustizia si arrampicano sugli specchi: “Il lodo Conte è incostituzionale. Ora è stato inserito in un ddl (con la riforma penale, ndr), quando arriverà in Parlamento si vedrà. Ma la velocizzazione dei tempi della giustizia per noi è una priorità”. La situazione politica è liquida e quindi solo a ridosso del 24 febbraio, quando è previsto alla Camera il voto sul ddl Costa, che chiede l’abolizione della legge Bonafede sulla prescrizione bloccata per tutti dopo il primo grado, si saprà se invece ci sarà il lodo Contebis inserito come emendamento. Il pacchetto votato dal Cdm incassa un giudizio positivo dall’Associazione nazionale magistrati che smentisce la posizione catastrofista di penalisti e dei partiti di centro e destra contrari al blocco della prescrizione, sia pure solo per i condannati: “Il principio è giusto- ha detto il segretario Giuliano Caputo - non ci saranno imputati a vita”. Riconosce che la riforma penale “insieme alle risorse stanziate, può effettivamente aiutare a velocizzare il processo” ma ribadisce che sarebbe “brutale” qualsiasi misura contro le toghe legata a tempi processuali. Nella riforma, però, non c’è più l’ipotesi di sanzioni disciplinari. Si prevede, invece, che dal 2024 “il dirigente dell’ufficio” debba fare una segnalazione “all’organo dell’azione disciplinare” quando c’è una “negligenza inescusabile”. Invece, resta l’ipotesi che integra un illecito disciplinare”, sempre per “negligenza inescusabile”, il mancato deposito da parte del pm dell’avviso conclusioni indagini alle parti nei termini stabiliti. Il lodo Conte bis invece funziona così: la prescrizione si ferma definitivamente se c’è condanna in primo grado e in appello. Se, invece, dopo una condanna di primo grado segue un’assoluzione in appello, scatta il recupero dei tempi di prescrizione. Ma ci sono eccezioni importanti che hanno l’obiettivo di ottenere quasi sempre sentenze di merito. Se c’è un’assoluzione in primo grado la prescrizione continua, se, però, il pm fa appello e il reato contestato si prescrive in un anno, allora la prescrizione è sospesa per 18 mesi. Per la Cassazione, 6 mesi. Tornando alla riforma accorcia-processi, ricordiamo che prevede, tra l’altro, priorità dei reati da perseguire indicate dai procuratori, stretta alle indagini preliminari, su cui l’Anm è critica, processi d’appello pure monocratici. Per velocizzare i processi in corso, previsto l’impiego di giudici onorari ausiliari che passano da 350 a 850. Assunti per due anni mille amministrativi. Riforma del processo penale, l’allarme dell’Anm: “pericolosa scure sui tempi delle indagini” huffingtonpost.it, 15 febbraio 2020 Il segretario Caputo: “Le sanzioni alle toghe per l’inefficienza del sistema sono una risposta brutale” “Tagliare con la scure i tempi delle indagini preliminari, può depotenziare la risposta dello Stato nei confronti della criminalità organizzata ed economica”. L’Anm lancia l’allarme sugli effetti dei limiti alla durata delle indagini stabiliti dalla riforma del processo penale, che comportano in caso di superamento, l’obbligo per il pm di depositare gli atti, facendo cadere il segreto. “Per le forme più insidiose di criminalità un sistema di questo tipo è pericolosissimo”, avverte il segretario Giuliano Caputo. In un’intervista all’Ansa la seconda carica del sindacato delle toghe concentra l’attenzione sugli aspetti più critici della riforma del processo penale varata nella notte dal Consiglio dei ministri. Tornando a ribadire l’assoluta contrarietà alle sanzioni per i magistrati che non rispettano i tempi di durata fissa dei processi: “è sbagliatissimo stabilire una durata predeterminata per tutti i processi poi scaricare l’inefficienza del sistema sul singolo magistrato. È una risposta semplicistica, brutale, ingenerosa, e controproducente rispetto a ciò che si attendono i cittadini. Ed è un principio irricevibile”. La riforma stabilisce un anno di durata dei processi in primo grado, due in appello e uno in Cassazione. “I magistrati vorrebbero far durare i processi anche la metà di quanto dice il ministro Bonafede, ma devono essere messi nelle condizioni di farlo. Per giudici che hanno centinaia di processi di cui occuparsi può essere difficile rispettare quei tempi”. Il problema è che servono risorse: “per 20 anni non si è investito nel settore giustizia. Ora non basta fare annunci. Bisogna assumere il personale e deve essere qualificato. Sulla carta c’è l’ampliamento degli organici anche della magistratura, ma ci sono uffici con scoperture molto elevati. E si contano sulle dita di una mano gli uffici giudiziari che hanno presenti tutti i magistrati in servizio. Se questo è il quadro, è ingiusto scaricare le inefficienze sui magistrati”. Un discorso che si lega a quello della durata delle indagini, che secondo la riforma non potranno superare i 6 mesi per i reati più lievi e un anno e mezzo per quelli più gravi, con conseguenze disciplinari per i pm che sforano e l’obbligo della discovery degli atti. Un aspetto questo ancora più preoccupante. “Far vedere gli atti di indagine compiuti alle parti per reati bagatellari non ha conseguenze significative”; tutt’altro è il discorso per i reati di criminalità economica “che richiedono accertamenti bancari, intercettazioni, e perciò tempi lunghi” e in cui gli indagati tendono a sottrarsi ai controlli: l’idea che questi possano “vedere le carte, la troviamo pericolosa e indebolisce la lotta alla criminalità economica”. “La magistratura italiana ha una tradizione di impegno. Ma se ci si chiede di rispettare tempi predeterminati e fuori dalla realtà - conclude Caputo - c’è il rischio che lo si faccia a scapito della qualità”. Prescrizione, il lodo Conte-bis è un mostro di Giovanni Altoprati Il Riformista, 15 febbraio 2020 Dopo settimane di scontri feroci sulla riforma della prescrizione, ha vinto il tandem Bonafede-Travaglio. Il Consiglio dei ministri, nella serata di giovedì, ha dunque approvato il disegno di legge che prevede deleghe al governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le Corti d’appello, al cui interno è presente il lodo Conte bis. La prescrizione, nella nuova disposizione si bloccherà quindi dopo la sentenza di condanna di primo grado. Se l’imputato sarà assolto in appello, gli verrà riconosciuta la prescrizione in maniera “retroattiva”. Per chi è stato assolto, invece, continuerà a correre Molte le conseguenze nefaste di questo doppio binario, da tutti i giuristi dichiarato anticostituzionale in quanto affievolisce il principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. La principale è che gli appelli dei pm contro le assoluzioni saranno fissati celermente, per evitare che il processo si prescriva, mentre quelli contro le condanne andranno in coda. Oltre il danno, la beffa. Se la riforma della prescrizione è cosa fatta, sui modi per aumentare i tempi del processo lo scontro con i magistrati è però solo rinviato. Vediamo in dettaglio le norme su cui a breve si scatenerà la furia togata. Ridefinizione della durata delle indagini preliminari. La delega individua tre termini di durata, legati alla gravità del reato su cui si indaga. I termini saranno di sei mesi per i reati meno gravi, di un anno per quelli ordinari e di diciotto mesi per i reati di maggiore allarme sociale e per quelli associativi di stampo mafioso o di natura terroristica o definibili di particolare complessità per il numero di imputati o di capi di imputazione. La durata sarà prorogabile una sola volta, di sei mesi, su istanza del pm, con provvedimento del giudice per le indagini preliminari. Scaduto il termine massimo di durata delle indagini preliminari, il pm sarà tenuto, entro un ulteriore lasso di tempo di tre, sei o dodici mesi a seconda della tipologia di reato, a richiedere l’archiviazione o esercitare l’azione penale. Decorso tale termine, il pm sarà tenuto a notificare all’indagato la fine delle indagini e a svelare il contenuto degli atti relativi. Sarà quindi facoltà delle parti richiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione. Fra i primi a replicare sul punto al ministro, le toghe di sinistra di Area. “Giudici con il timer”, il titolo della loro campagna contro Bonafede. “Il giudice che ha necessità di approfondire, giunto al 365simo giorno cosa dovrebbe fare? Lanciare una moneta o rischiare un disciplinare? Si tutelano così le vittime e gli imputa-ti? Per paradosso, si può stabilire in anticipo quando il paziente dovrà uscire dalla sala operatoria? Se il medico non fa guarire entro l’anno lo si sanziona? E poi? Chi curerà il malato?”, si legge nel loro comunicato. Il testo contiene, poi, una novità di rilievo: Bonafede ha stabilito che il procuratore indichi i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, da concordare con il procuratore generale e con il presidente del Tribunale, sulla base della specifica realtà criminale e territoriale e delle risorse umane, finanziarie e tecnologiche a disposizione dell’ufficio. Anche in Francia esiste una norma del genere. Con una piccola differenza: in Francia non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e le priorità vengono date dal ministro della Giustizia che ne risponde, insieme al governo, agli elettori. Il pm, a cui Bonafede affida il potere di indicare su cosa indagare o meno, risponde solo a stesso. Per smaltire la mole di arretrato è poi prevista una task force. Di precari. Saranno assunti, con contratto a tempo determinato di 24 mesi, 1.000 unità di personale amministrativo. Se i processi non termineranno entro due anni sarà un problema di chi verrà dopo. Oltre ai precari, verranno impiegati nel penale “giudici onorari ausiliari”, che oggi hanno la possibilità di esercitare soltanto la funzione di integrare il collegio nel settore civile. Non sono previsti limiti alle pene che potranno irrogare. Dulcis in fundo la tanto annunciata riforma del Csm per voltare pagina dopo lo scandalo Palamara è sparita. Le correnti dell’Anm possono dormire sonni tranquilli. La battaglia di Giuseppe Gulotta, torturato da uomini in divisa e 22 anni in carcere da innocente di Giorgio Mannino Il Riformista, 15 febbraio 2020 Il caso della strage di Alcamo Marina, nella quale il 27 gennaio 1976 furono uccisi i due carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, è approdato martedì scorso per la prima volta, a distanza di quarantaquattro anni, sul tavolo della commissione parlamentare Antimafia presieduta da Nicola Morra. Un fatto storico che riaccende i riflettori su una pagina ancora buia della storia italiana, gravida di buchi neri e soprattutto rimasta senza colpevoli. A Palazzo San Macuto è stato ascoltato - insieme al giornalista Nicola Biondo che ha raccontato in un libro la sua storia - Giuseppe Gulotta, considerato dai giudici di due corti, uno degli autori della strage. Ma i processi che lo hanno condannato insieme a Giovanni Mandalà, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, erano viziati - come ha stabilito trentotto anni dopo una sentenza di Cassazione - da prove false e abusi di ogni genere. Una frode processuale che ha consegnato all’opinione pubblica una verità preconfezionata, scritta a tavolino, in un truce inganno di sangue, ancora tutto da chiarire, capace di stritolare la vita di quattro ragazzi alcamesi finiti all’ergastolo poco più che maggiorenni. Mandalà morì di morte naturale nel 1998, Santangelo e Ferrantelli si rifugiarono in Brasile. A pagare il prezzo più alto è stato Gulotta, 61 anni. Ne ha trascorsi più della metà nelle aule dei palazzi di giustizia e ben ventidue dietro le sbarre, da innocente. “Mi venne offerto, all’epoca, di fuggire con un nuovo passaporto ma decisi di restare per non dare la sensazione di essere colpevole”. La sua confessione è stata estorta in caserma “dopo una notte - prosegue Gulotta in Antimafia - di sevizie e torture”. Le stesse che subì il suo accusatore, Giuseppe Vesco, un ragazzo considerato vicino agli anarchici, arrestato un mese dopo l’eccidio, dai carabinieri guidati dal colonnello Giuseppe Russo, che poi sarà ucciso dai corleonesi il 10 agosto 1977. “Russo la notte delle torture che ho subito era lì, in divisa”, racconta Gulotta. “In molti contestano questa cosa perché si dice che il colonnello non portasse quasi mai l’uniforme, ma io riconosco Russo molti anni dopo su una foto apparsami su internet. Dopo quella notte non lo vidi mai più”. Le manette a Vesco costituiscono il primo atto del depistaggio. Otto mesi dopo l’arresto, Vesco cerca di scagionare i nomi urlati sotto tortura ma verrà trovato impiccato nella cella di detenzione nonostante avesse una mano sola, l’altra l’aveva persa anni prima in un incidente. Morti Vesco e Russo, Gulotta sembra arrendersi all’ingiusta condanna, ma nel 2009 - tre anni dopo la cattura dell’ultimo boss corleonese Bernardo Provenzano - Renato Olino, un ufficiale dei carabinieri testimone di quelle torture, rompe il silenzio e racconta la verità. Per Gulotta è la fine di un incubo. “Ho sempre avuto fiducia nelle istituzioni, ho continuato ad averla nonostante tutto. Purtroppo oggi non c’è ancora verità per i familiari dei due carabinieri uccisi. Ho ottenuto la mia giustizia ma siamo di fronte a una verità a metà. Sarei felice se questo caso si potesse riaprire”, ha detto Gulotta rivolgendosi ai membri dell’organo parlamentare. Seduto al suo fianco, il giornalista Nicola Biondo ha fornito alcuni spunti per provare a dare una risposta a quelle domande che restano ancora aperte: “Dovete chiedervi perché e chi ripete il metodo Alkamar (così veniva chiamata la piccola caserma, ndr) e fino a dove arriva. Ci sono tre casi in Sicilia in cui investigatori eccellenti, come lo erano Giuseppe Russo o Arnaldo La Barbera, usano la tortura, da cui nasce solo la menzogna per coprire la verità. Bisogna ripartire dalla scena del delitto. La procura di Trapani ha aperto un nuovo fascicolo per strage, fatevi ritrovare dalla procura le foto dell’assalto alla casermetta, gli atti che sono coperti da segreto. I testimoni ci sono ancora”. Input che, come confermato dal presidente Morra, saranno raccolti “per aprire uno squarcio su una vicenda oscura in terra di mafia che non possiamo ignorare”. Intanto per Gulotta la battaglia contro lo Stato che lo ha lasciato solo non è finita: dopo l’ottenuto risarcimento di sei milioni e mezzo di euro ha chiesto 66 milioni di danni all’Arma dei carabinieri e ai ministeri della Difesa e dell’Interno. L’Avvocatura dello Stato però si è opposta, parlando di “lite temeraria” e precisando che “non ci sono prove degli abusi”. Lombardia. A Monza e Como sovraffollamento da record: arriva al 200 per cento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 febbraio 2020 Monitoraggio dell’Osservatorio Carcere dedicato al militante Radicale Lucio Bertè. Le carenze più evidenti riscontrate in entrambe le carceri visitate sono quelle sul numero degli educatori e dei medici psicologi e psichiatri. In Lombardia è nato da poco l’Osservatorio Carcere “Lucio Bertè” che opera sotto l’ala esperta dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. L’Osservatorio, dedicato al militante radicale Lucio Bertè, scomparso lo scorso 24 dicembre e da sempre impegnato nella difesa dei diritti del detenuto ignoto, si propone di monitorare le condizioni delle carceri lombarde nello spirito della storica battaglia di Marco Pannella “Spes contra Spem”, attraverso la partecipazione delle diverse anime radicali del territorio accomunate dall’intento di tenere accesa l’attenzione sulle condizioni della comunità carceraria e sulle sue criticità. A gennaio hanno inaugurato la nascita dell’osservatorio facendo le prime visite nelle carceri. Per ora sono due, ovvero quelle di Monza e Como dove inevitabilmente hanno riscontrato delle criticità in comune: il sovraffollamento, carenza di educatori per la effettività della finalità rieducativa della pena, quella di psicologi e psichiatri per il diritto alla salute mentale del detenuto e la mancanza dei garanti locali dei detenuti. Sabato scorso due delegazioni si sono quindi recate in visita nelle carceri di Como e Monza. In entrambe le carceri il dato che emerge è l’elevato sovraffollamento che si assesta al 200%. A Monza la delegazione (guidata da Simona Giannetti, del direttivo di Nessuno tocchi Caino, e composta da Francesca Bertè, Serena Marchetti, Paola Maria Gianotti, Lorenzo Ceva Valla, Chiara Villa e Simona Artesani) ha riscontrato che per 400 posti di capienza regolamentare - ma solo 300 circa disponibili - i detenuti presenti erano 631: in questa condizione di sovraffollamento la delegazione ha constatato che in quasi tutte le celle c’era la terza branda che durante il giorno viene chiusa e risposta sotto un letto. Anche a Como la delegazione (guidata da Mauro Toffetti, del direttivo di Nessuno tocchi Caino, e composta da Giulia Crivellini - tesoriera di Radicali Italiani, Riccardo Giorgio Frega - Segretario dell’Associazione Tortora Radicali Milano, Gianni Rubagotti - Associazione Cazzavillan- Francesco Condò, Andrea Miglio, Fabrizio Pesoli e Maurizio Pistorio) ha riscontrato che per nel carcere del Bassone c’è sovraffollamento che si avvicina al 200%. Le carenze più evidenti riscontrate in entrambe le carceri visitate sono quelle sul numero degli educatori e dei medici psicologi e psichiatri. A Monza è la Direttrice Maria Pitaniello a segnalare alla delegazione la carenza: per il numero di 9 educatori previsto dalla pianta organica, presenti in servizio sono solo 4 per 631 detenuti. Lo stesso accade a Como dove per 4 previsti da organico presenti in servizio sono solo 2 per 442 detenuti. Oltre all’alto numero dei tossicodipendenti (la metà del totale), i detenuti psichiatrici sembrano essere in gran numero in entrambe le carceri. L’osservatorio carceri Bertè ha riscontrato che tra questi ci sono anche i detenuti che assumono prestazioni di tipo calmante, visto anche le condizioni di sovraffollamento che aggravano lo stato psicofisico dell’individuo. C’è anche il problema degli internati in lista d’attesa. Al carcere di Como ce ne sono due, mentre a Monza la direttrice ha riferito che da poco era stato trasferito un internato che aveva trascorso in carcere ben 6 mesi in attesa di poter raggiungere la Rems. A Como, sempre a proposito delle problematiche collegate con il diritto alla salute mentale, la delegazione ha riscontrato una criticità nella gestione dei detenuti transgender, alcuni dei quali hanno profili psicologici piuttosto particolari, al punto da rendere difficile la convivenza con quelli che sono sani e che hanno subito anche atteggiamenti violenti dai primi. In entrambi le carceri manca il garante locale dei detenuti: l’osservatorio carcere Lucio Bertè fa sapere che vigilerà affinché venga istituito questa figura fondamentale. Sicilia. Intesa Uiepe-Anci per i lavori di pubblica utilità negli enti locali di Erica Maida gnewsonline.it, 15 febbraio 2020 È stato firmato oggi, a Villa Niscemi, a Palermo, il Protocollo d’intesa tra l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna (Uiepe) per la Sicilia e l’Associazione Nazionale dei Comuni Siciliani, per la promozione di attività e la creazione di una rete integrata per i lavori di pubblica utilità in favore delle comunità locali da parte dei soggetti sottoposti a procedimenti di esecuzione penale esterna e messa alla prova. L’Accordo di collaborazione ritiene che sia fondamentale promuovere “il valore della messa alla prova come espressione di educazione alla legalità e di responsabilità verso la comunità, in un’ottica di cittadinanza attiva”. In rappresentanza dell’Uiepe erano presenti la direttrice Marina Altavilla ed Eugenia Cortese, responsabile dell’area di coordinamento, mentre per l’Anci Sicilia hanno sottoscritto l’accordo il presidente Leoluca Orlando e il segretario Mario Emanuele Alvano. Il lavoro di pubblica utilità svolge un ruolo essenziale nel processo di recupero di condannati e imputati, anche in considerazione del contenimento del rischio di recidiva e del valore rieducativo e risocializzante di soggetti che, con la propria condotta, hanno procurato un danno all’intera società. I percorsi di reinserimento dovranno inoltre tenere conto delle peculiarità dei soggetti coinvolti, e dovranno essere approvati dall’autorità giudiziaria competente. Gli interventi da adottare saranno pianificati da un Tavolo Tecnico di gestione degli interventi, presieduto dal Dirigente per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova, in cui siederanno i rappresentanti di tutti i firmatari dell’accordo. Il Protocollo entrerà in vigore alla data della sottoscrizione ed ha una durata di tre anni. Al termine dell’evento la direttrice Altavilla ha voluto sottolineare l’importanza del ruolo dell’ente locale “che, da una parte, rappresenta gli interessi della comunità che subisce un danno dalle condotte devianti e, dall’altro, è parte attiva corresponsabile nel processo di integrazione sociale di tutta la comunità dei cittadini”. Sassari. Detenuta si impicca in cella nel carcere di Bancali sardegnareporter.it, 15 febbraio 2020 Ennesima tragedia nel carcere di Bancali. Ieri, venerdì 14 febbraio, si è consumata nel carcere sassarese l’ennesima tragedia. Una detenuta si è tolta la vita impiccandosi nella propria camera detentiva. Purtroppo, l’intervento celere della polizia penitenziaria e dei medici, non è servito ha salvarla. A darne la notizia è il segretario aggiunto dell’Osapp, Mimmo Nicotra, che evidenzia ancora una volta la grave situazione che si vive nel carcere sassarese di Bancali e in tutta la Regione, dal momento che sono presenti solo 6 direttori per 11 carceri e pochi commissari. Gorizia. Una nuova ala per 50 detenuti “ma personale insufficiente” di Marco Bisiach Il Piccolo, 15 febbraio 2020 Arriva il giorno della svolta per il carcere goriziano di via Barzellini. Questa mattina infatti saranno presentati i rinnovati padiglioni della casa circondariale, recuperati dopo i lunghi lavori di ristrutturazione che avevano ridotto notevolmente la capienza della struttura. Pronta, adesso, ad ospitare almeno una cinquantina di ulteriori detenuti. L’appuntamento per i rappresentanti istituzionali, tra i quali il provveditore triveneto Enrico Sbriglia e il sindaco Rodolfo Ziberna, e per i media è previsto alle 10.30. “È una giornata importante sotto tanti punti di vista - commenta il sindaco Ziberna -. Da un lato si creeranno condizioni di vita migliori per i detenuti, dall’altro con l’inaugurazione di questo ampliamento del carcere si mette in sicurezza il futuro di una struttura che fino a qualche anno fa sembrava dover essere sull’orlo della chiusura. E con essa, viene rinsaldato anche il ruolo e il futuro del Tribunale di Gorizia. Insomma, un po’ come anche nel caso della sanità stiamo assistendo a segnali di inversione di tendenza che salutiamo positivamente, nonostante rimangano criticità sulle quali dobbiamo lavorare”. Tra i passi avanti da compiere si attende con ansia anche la firma definitiva e ufficiale sull’accordo di massima per il passaggio dell’ex scuola Pitteri dal Comune allo Stato, per la sua successiva trasformazione in struttura annessa al carcere: progetto per il quale sono già stati stanziati 4,5 milioni di euro. Parlando delle criticità non si può dimenticare che se il problema degli spazi in parte viene risolto, resta pressante quello del personale. “Questo resta il problema più grande - sottolinea il segretario triveneto dell’Uspp Leonardo Angiulli - ed è destinato ad aggravarsi con l’aumento della presenza di detenuti in via Barzellini in seguito all’inaugurazione. L’organico della polizia penitenziaria è sotto dimensionato, si riescono a garantire solo 22 dei 37 posti di servizio giornalieri, con gli agenti che svolgono turni di 8 ore per sei giorni alla settimana, senza veder assicurati diritti come congedi, ore di recupero non pagate e accantonate. Oltretutto di qui a breve andranno perse altre tre unità, per quiescenza”. I sindacati di polizia penitenziaria denunciano anche l’assenza di servizi (sale per i colloqui, spazi a norma per cucine e postazioni degli agenti). “Se non dovessero arrivare rinforzi al personale potremmo pensare a sit-in di protesta, o forme di astensione dal lavoro da concordare”, dice Angiulli. Di tutto questo i sindacati vorrebbero parlare in prossimi incontri anche al governatore della Regione Fedriga e al sindaco di Gorizia Ziberna, che più volte ha manifestato al Ministero la sua preoccupazione in merito. “Ci deve essere un rapporto adeguato tra il numero di agenti e i detenuti, così come devono essere rispettate le condizioni di lavoro del personale”, sottolinea il primo cittadino. Roma. In carcere lavoro fa rima con accoglienza di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 15 febbraio 2020 L’esperimento pilota nella Casa di reclusione di Rebibbia. Il lavoro è spesso un sogno inseguito da tanti uomini e donne attraverso anni di richieste, trafile burocratiche, formazione e diventa, alla fine, un premio, dimenticando che si tratta di un diritto. Figuriamoci quando a cercare un’occupazione è un detenuto che, oltre a vincere il pregiudizio di una comunità che lo guarda con diffidenza e ostilità, deve anche fare i conti con una domanda di mercato pressoché inesistente. Uno dei problemi più importanti delle nostre carceri è la mancanza di un lavoro produttivo e retribuito per chi vuole (e lo vuole la grande maggioranza dei reclusi) lavorare e guadagnare. Un impiego prepara alla vita esterna, vince l’ozio, crea reddito utile anche per le famiglie dei detenuti e, non ultimo, è funzionale per risarcire il danno subito da terzi. Il valore lavoro costituisce la personalità stessa dell’uomo, anche se dentro c’è gente che non ha mai lavorato e spesso non si è posta neanche il problema. Per questo il percorso formativo è lungo, ma è un investimento per tutta la società. Lo hanno intuito gli imprenditori di Unindustria che hanno presentato nei giorni scorsi la fase conclusiva della prima edizione del Corso per la ricerca attiva del lavoro, iniziativa patrocinata dal Garante dei detenuti del Lazio e da diverse aziende che hanno scelto di assumere anche “chi ha la divisa da carcerato”. “Ciò che è stato avviato dagli imprenditori che hanno voluto scommettere su questi ragazzi rappresenta la pietra miliare di un percorso virtuoso che rappresenta qualcosa di più rispetto al mero adempimento del compito che ci è stato affidato”, spiega la direttrice della Casa di reclusione di Rebibbia, Nadia Cersosimo. “Non possiamo limitarci a far rispettare le regole dietro le sbarre, dobbiamo far comprendere alla società che il nostro lavoro può essere utile anche fuori, se è accompagnato dalla rieducazione”. L’istituzione penitenziaria italiana non è in grado di affrontare da sola il problema del reinserimento dei detenuti (formazione professionale e lavoro interno ed esterno al carcere), per questo l’intervento di colossi dell’imprenditoria, tenendo conto della particolarità degli utenti cui sono destinati, si è orientato verso l’individuazione di professionalità che possa tradursi in occupazione lavorativa. “Hanno aderito inizialmente 27 detenuti. Siamo arrivati in 22 a fine corso. Questo non perché ci sono state defezioni in corso d’opera ma a causa di scarcerazioni o trasferimenti”, spiega Rosalba Console, responsabile dell’Area Educativa dell’istituto romano. “Da una fase iniziale, più specificatamente preparatoria, siamo passati ad una successiva più concreta: il colloquio con il titolare di un’azienda, la stesura del curriculum vitae e così via”, ha aggiunto Console. Dunque l’ipotesi di un carcere della speranza, dopo l’intervento di colossi dell’imprenditoria quali Bridgestone, AbbVie, Orienta, British American Tobacco e Fassi, non è più una utopia anche se la realtà quotidiana deve fare i conti con un sistema di ignoranza, per cui molti detenuti non sanno nemmeno quali sono le loro possibilità, le loro opportunità. Spesso prima di parlare di lavoro bisogna insegnare al detenuto che non ha mai lavorato fuori il valore dell’occuparsi di qualcosa ricavandone un guadagno onesto. “Ho appreso molto di più di quanto ho insegnato”, rileva Roberto Santori, presidente della Sezione Formazione, Consulenza e Attività Professionali di Unindustria. “Se arriveremo ad assumere, due o dieci persone, poco importa. La cosa più rilevante è che siamo riusciti a creare un ponte con le imprese e il nostro obiettivo è quello di far sì che tale ponte sia sempre più solido”. Le opportunità occupazionali per i detenuti sono di tre tipi: il lavoro interno al carcere, o “domestico”, che interessa purtroppo ancora la più alta percentuale dei detenuti. C’è poi il lavoro all’esterno in semilibertà ed i lavori, sempre esterni ma saltuari. L’esperienza di Rebibbia ci insegna che è necessario passare attraverso la creazione di un circuito particolare nel quale convergono le varie forze interessate, così come è fondamentale riuscire a sviluppare l’istruzione e la formazione professionale di chi sta in carcere. Ovviamente a tale progetto non dovrebbero essere estranei gli imprenditori che con una rinnovata sensibilità devono essere portati a svolgere un ruolo fattivo nella determinazione della politica penitenziaria inerente al lavoro, valutando fino in fondo l’estrema importanza di questo loro ruolo. Secondo Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, “la forza di questa esperienza è legata all’impegno soggettivo. Le istituzioni sono chiamate a fare la loro parte, ma se c’è in questo caso, un’attiva partecipazione di operatori esterni, si possono costruire percorsi molto efficaci di reinserimento anche perché attraverso la formazione e il confronto con professionisti, valorizzano il tempo della detenzione e imparano qualcosa che potrà tornagli utile una volta terminata la pena”. Quando si sta in una cella di pochi metri quadrati con altri detenuti che hanno magari esperienze diverse, quando si hanno poche ore d’aria al giorno in un cortile ristretto (non è il caso di Rebibbia), è evidente che è difficile negare che vi sia unicamente una condanna. Per chi sta in cella il lavoro diventa allora l’unica speranza di recupero. “È il coronamento di un sogno”, dice Danilo, uno del gruppo di frequentanti. “Il lavoro nobilita l’uomo, ma a noi detenuti restituisce la dignità e ci regala la speranza di un domani migliore”. Silvio invece intende valorizzare le conoscenze e le competenze acquisite prima dell’arresto: “Ero un imprenditore edile e, grazie a mio padre, conosco molto bene il settore. Anche perché ho svolto tutti i ruoli all’interno dell’azienda di famiglia. Dal manovale in poi”. Infine Daniel che punta molto sulla manualità perché ha già seguito corsi ad hoc all’interno del carcere: “Ora sono in grado di scrivere il mio curriculum e di sostenere un colloquio. Se riuscirò a trovare un lavoro, il mio desiderio più grande sarà quello di trovare una società disposta ad accogliermi e a farmi ancora sentire che sono un uomo e un cittadino utile alla comunità come tutti gli altri”. Parma. Protestano gli agenti: “No all’apertura di un nuovo padiglione” di Marco Vasini La Repubblica, 15 febbraio 2020 Presidio di fronte all’istituto penitenziario in via Burla. Previsto l’arrivo di altri 200 detenuti. Un gruppo di agenti penitenziari del carcere di Parma aderenti alle sigle Sappe, Osapp e Sinappe, ha manifestato questa mattina con un presidio dalle 10 alle 12 di fronte all’istituto penitenziario in via Burla. Fra i motivi della protesta spicca la prevista apertura di un nuovo padiglione che a breve, entro aprile, dovrebbe portare la capienza della casa circondariale a più di 900 detenuti. I sindacati lamentano una forte carenza di organico e chiedono all’amministrazione penitenziaria di fermare l’apertura e aumentare l’organico della polizia con almeno 50 unità in più. Richieste che arivano a fronte “dell’aumento vertiginoso di aggressioni ed eventi critici” denunciate anche nei giorni scorsi. A questo proposito, gli agenti chiedono la “dotazione di strumenti atti a rendere inoffensivi i detenuti più intemperanti, quali ad esempio i taser, recentemente assegnati alle altre forze di polizia”. Altra criticià rilevata è la “presenza di un numero spropositato di detenuti malati, anche nelle sezioni ordinarie, tutti in attesa di essere assegnati all’ex centro diagnostico terapeutico, oggi denominato Sai. Persone di difficile gestione sia dal punto di vista sanitario che da quello della sicurezza interna, per la non facile integrazione e interazione coi detenuti in buona salute”. E ancora l’onerosità dei canoni mensili per gli alloggi della caserma agenti che versano in condizioni di insalubrità e completa violazione degli standard alloggiativi previsti dalle vigenti norme contrattuali. Di carcere si è parlato di recente anche in municipio nel corso di una commissione ad hoc. “Esprimo la mia solidarietà agli agenti della polizia penitenziaria che lavorano nel carcere di Parma in condizioni veramente difficili. Da mesi e mesi segnalo al ministro Bonafede che la situazione non è più sostenibile per il sovraffollamento, i continui episodi di violenza, l’assenza di una dirigenza stabile. Il nuovo padiglione non risolverà alcun problema, anzi li peggiorerà tutti, visto che non servirà per ridurre l’affollamento, ma per portare nuovi detenuti e con essi un bel po’ di ulteriori problemi per l’istituto e per la città. L’ho fatto a mezzo stampa e in Parlamento, anche recentemente, con interrogazioni e interpellanze dirette a un Ministro della Giustizia che non risponde, non interviene e non viene a vedere il carcere” scrive la deputata parmigiana della Lega Laura Cavandoli. “Un tale disinteresse verso chi rappresenta e fa rispettare lo Stato e le sue leggi all’interno del Carcere di Parma è incomprensibile”. Firenze. Croce Rossa in carcere, progetto pilota di educazione e prevenzione sanitaria cri.it, 15 febbraio 2020 Educare e informare i giovani all’interno degli Istituti Penitenziari Minorili - comunità vulnerabili ad alto rischio - per trasformare la detenzione in un’occasione di cura e responsabilizzazione verso la propria salute e per la promozione di stili di vita sani e sicuri. É questo l’obiettivo del “Progetto Salute” promosso dalla Croce Rossa Italiana di Firenze in collaborazione con il Centro di Solidarietà di Firenze onlus, che è partito dall’Istituto Penale per Minorenni “Gian Paolo Meucci” di Firenze e che coinvolgerà i volontari giovani CRI formati nelle attività di prevenzione e promozione della salute, il corpo docenti dell’istituto e i ragazzi detenuti. Un’iniziativa che permetterà di mettere a punto un modello da utilizzare, successivamente, anche in altri contesti e magari in altri territori. Basato sulla semplicità, si avvale infatti di strumenti “sostenibili”: incontri informativi e attività di educazione e confronto attivo per diventare consapevoli dell’importanza del proprio corpo come strumento principale per la salute e per il benessere dell’individuo. Il “Progetto Salute” si articolerà in 15 incontri che svilupperanno più tematiche di educazione sanitaria: dall’educazione dei giovani alla sicurezza stradale, all’educazione alimentare e prevenzione delle patologie non trasmissibili, passando per l’educazione alla sessualità e prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale e dalle misure di primo soccorso ed interventi in urgenza-emergenza. La formazione tra pari è un tratto distintivo di questo progetto che permetterà l’instaurarsi di un dialogo interattivo e incoraggerà lo scambio di esperienze. Un momento importante sia per i beneficiari del progetto che per i giovani della Croce Rossa, che si misureranno con i temi della prevenzione, della salute e dell’inclusione sociale. “In una condizione come quella carceraria, l’istruzione e le attività culturali rappresentano un’ancora di salvezza e di speranza affinché la detenzione sia davvero riabilitativa”, ha spiegato il Presidente del Comitato Cri Firenze, Lorenzo Andreoni. “Questo progetto conferma quanto sia preziosa la collaborazione tra le Istituzioni e la Croce Rossa per la tutela dei diritti umani costituzionalmente garantiti e per il recupero della persona detenuta, ancor di più in un contesto minorile. Troppo giovani per non pensare ad un futuro diverso”, ha aggiunto Andreoni. Trapani. Quando la pena inizia con il “fine pena” L’Osservatore Romano, 15 febbraio 2020 L’iniziativa di un parroco di Valderice (Trapani) per aiutare chi esce di galera. “Può sembrare che Papa Francesco esageri quando parla di poveri, immigrati e carcerati. Ma chi vive in mezzo agli altri, senza isolarsi, capisce quanto sia giusto che il Papa dia voce a questi nostri fratelli meno fortunati. Io penso di avere appena iniziato a capire”. Don Francesco Pirrera è il parroco di Valderice, un paese in provincia di Trapani. Da due anni ha deciso di dedicarsi a un’opera preziosa e nascosta: aiutare gli ex detenuti, appena usciti dal carcere, a reinserirsi nella società. La fine della pena carceraria è un momento particolarmente delicato. Le statistiche sui suicidi negli istituti di pena dimostrano che il periodo che precede l’uscita di galera è quello nel quale si registrano i casi maggiori, assieme ai momenti immediatamente successivi alla condanna. Un’emergenza nascosta, un “non problema” per la società, che del resto ha già dimenticato i detenuti nel momento esatto in cui varcano la porta di una cella. Don Francesco ha avvertito tutta l’urgenza di prestare soccorso a queste persone. Del resto per lui l’esperienza della pastorale per i detenuti non è una novità, come lui stesso racconta al sito dell’Opus Dei: “Già da seminarista il Signore aveva messo nel mio cuore questo seme, perché in alcuni periodi dell’anno ospitavamo in parrocchia dei detenuti per mezza giornata, e quando ero diacono ho predicato un triduo pasquale proprio in un carcere. Già allora mi resi conto che le persone che si trovano in carcere sono persone che hanno un grande bisogno di essere ben volute”. L’affetto, la considerazione, la vicinanza degli altri, è un elemento determinante sotto molti aspetti per la vita dei condannati al carcere. Anzitutto disinnesca la rabbia che si prova per una società alla quale, quasi sempre, i detenuti attribuiscono la responsabilità originaria della propria condizione. In molti racconti dei detenuti c’è la narrazione del momento in cui più forte si è presentato il conto delle proprie azioni: accade quando si riceve magari il perdono delle vittime o appunto l’accoglienza di una comunità che fino ad allora era sembrata ostile, un nemico da combattere con la stessa violenza che spesso chi delinque ritiene di aver subito sulla sua stessa pelle. La vita da parroco di don Francesco è cambiata nel momento in cui il vescovo si è messo alla ricerca di un cappellano per il carcere. “Credevo che il Signore me lo stesse chiedendo - ricorda don Francesco - per mezzo del vescovo, ma non mi soffermavo troppo su questa sensazione. Dopo l’incontro con un amico sacerdote sentii come una voce interiore che mi diceva: ti devi scomodare: dì di sì! Telefonai al vescovo che mi disse che ci saremmo visti tra qualche giorno, ma io insistetti a vederlo quanto prima per non perdere lo slancio interiore”. Perché talvolta il bene bisogna saperlo cogliere, prima che svanisca come acqua fra le mani. Oggi don Francesco, che appartiene alla Società sacerdotale della Santa Croce, anima una realtà riconosciuta, nata gradualmente. “Un giorno - racconta - il responsabile dell’area educativa del carcere mi ha chiesto di accogliere un ragazzo che usciva. Poi si sono aggiunti altri ragazzi che godevano di permessi premio. Si trattava di passare con loro una giornata: vedevamo insieme qualcosa della città, facevamo delle piccole escursioni nei dintorni”. Un giorno il sacerdote è entrato in contatto, a Trapani, con un Centro di permanenza per il rimpatrio, una di quelle strutture che di fatto costituiscono una triste sala d’attesa per l’espulsione: “Vidi un giovane appoggiato a un pilastro. Non stava facendo niente, e gli ho chiesto che cosa stesse aspettando. Si trattava di un ragazzo del Gambia che non sapeva dove sarebbe andato a dormire. Decisi di lasciargli il mio numero di telefono. Giusto il tempo di tornare in parrocchia e lui mi aveva già chiamato”. Il ragazzo si chiama Babacar. Ha 22 anni e ora vive nella casa con Fan, Bà Musa, e Suane. Ragazzi che hanno fame di relazioni, in primo luogo. Anche se poi qualche ospite della “casa” di don Francesco se ne va troppo presto, senza avere basi sufficientemente solide, “perché manca la pazienza”, come osserva il sacerdote con rammarico. Ad ogni modo, la vita in casa diventa per i nuovi arrivati una vita di famiglia: “A pranzo e cena ci ritroviamo insieme - spiega don Francesco - e ognuno ha un piccolo incarico domestico. Chi apre le finestre, chi chiude, chi controlla le luci, chi prepara da cucinare. Parallelamente alla vita di casa continua la ricerca, molto difficile, di un lavoro regolare. Quando mi sembra di avere fretta, di voler cambiare tutto e subito, ritorno a quello che diceva san Josemaría (Escrivá de Balaguer ndr): “Non dimenticare che sulla terra tutto ciò che è grande è cominciato piccolo. Ciò che nasce grande è mostruoso e muore”“. Il vescovo Pietro Fragnelli ha passato la scorsa notte di Natale con gli ospiti di don Francesco. Il sacerdote gli è molto riconoscente: “Gli devo tutto questo, non mi ha mai lasciato senza sostegno”. Il presule ha voluto ricordare quella sera con un messaggio indirizzato a don Francesco: “È stata una serata ricca di emozioni: abbiamo avuto videotelefonate per augurare buon Natale ai bambini e familiari lontani. Quattro persone che stanno cambiando vita e hanno bisogno dell’aiuto e della fiducia di tutta la Chiesa e di tutta la società per redimersi da un passato che ha meritato la detenzione. Una fiducia che comincia anche da te”. Milano. Daniel, da bullo a laureato alla presenza della pm che lo fece condannare di Valentina Stella Il Dubbio, 15 febbraio 2020 Aveva una vita “difficile” nel quartiere milanese di Quarto Oggiaro. Bella e la storia di rinascita di un giovane milanese. Da bullo ad educatore, passando per il carcere: è questa la vicenda di Daniel Zaccaro. Nel suo passato ci sono pestaggi, violenze, bullismo: è persino finito in carcere dopo una rapina. Prima al Beccaria, poi a San Vittore, Daniel Zaccaro, 27 anni, aveva ottenuto l’affidamento in prova presso la comunità Kayro’s di don Claudio Burgio. E due giorni fa, si è laureato all’Università Cattolica, in Scienze della formazione. Il suo sogno: diventare educatore. Daniel ha già cominciato a darsi da fare e a lavorare con un ragazzo difficile, proprio come era lui da giovanissimo, nel quartiere milanese di Quarto Oggiaro. Ad applaudirlo il giorno della laurea c’era anche la pm del Tribunale per i minorenni che l’ha processato e fatto condannare in tutti i procedimenti in cui era imputato. “È una grande vittoria di tutti noi, questa”, ha detto il magistrato, che, dando una carezza al ragazzo sulla corona d’alloro ha proseguito: “Daniel racconta agli adolescenti come è riuscito a trovare dentro di sé la forza del cavaliere Jedi. Ma io glielo dico sempre, a costo di sembrare pedante: attento a non farti sedurre dal lato oscuro della forza”, ha scherzato il pm. Presente alla discussione anche Fiorella, docente in pensione che a San Vittore gli ha fatto studiare il suo primo libro di scuola: l’Inferno di Dante. Hanno voluto essere accanto a Daniele lo stesso don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria insieme a don Gino Rigoldi, storicamente impegnato nel recupero di giovani difficili. “La brutalità è indice di povertà di pensiero - ha raccontato Daniele -; è l’espressione di chi non sa comunicare in altro modo. I violenti hanno profondissimi problemi di linguaggio. Quando non sai chiamare il dolore e la rabbia con il loro nome, ti scateni così, come un animale. Io l’ho capito, e lo voglio spiegare al maggior numero di ragazzi possibile”. E le buone notizie non finiscono qui. Le madri di figli gravemente disabili possono scontare la pena in detenzione domiciliare, qualunque siano l’età del figlio e la durata della pena, sempre che il giudice non riscontri in concreto un pericolo per la sicurezza pubblica. Lo ha deciso ieri la Corte Costituzionale con la sentenza n. 18, depositata oggi (relatrice la Presidente Marta Cartabia), accogliendo le censure della Corte di Cassazione sull’articolo 47quinquies, primo comma, dell’Ordinamento penitenziario, là dove non prevede che la detenzione domiciliare “speciale” sia concessa anche alle madri di figli con più di dieci anni, se affetti da grave disabilità. “La sentenza - si legge in una nota della Corte - si inserisce nell’ambito di una copiosa giurisprudenza costituzionale che considera le relazioni umane più prossime, specialmente familiari, fattori determinanti per la tutela effettiva delle persone più fragili. Perciò la Corte ha ritenuto che la detenzione domiciliare debba essere concessa alla madre di un figlio gravemente disabile, considerata la sua particolare vulnerabilità fisica e psichica, qualunque sia l’età, anche in nome della protezione della maternità (articolo 31 Costituzione), cioè del legame tra madre e figlio, che non si esaurisce affatto nelle prime fasi di vita del bambino”. Bologna. Anche i detenuti aderiscono alla fiaccolata contro l’odio di Fernando Pellerano Corriere di Bologna, 15 febbraio 2020 Lettera dalla Dozza al prof. Lederman: siamo con voi. Venti detenuti della Dozza hanno preso carta e penna per esprimere vicinanza al professor Henri Lederman, vittima di un episodio di antisemitismo. “Siamo venuti a conoscenza di alcuni vergognosi atti antisemitici (così nel testo, ndr). Noi generalmente siamo stati puniti per azioni socialmente riprovevoli e penalmente perseguibili. Le persone colpite da questi atti vengono discriminate senza aver commesso azioni penalmente punibili. Troviamo questo assurdo e ingiustificabile. È vergognoso assistere a tutto questo e vorremmo anche noi essere presenti fisicamente a questa fiaccolata silenziosa e pacifica per dire basata a questo razzismo ingiustificabile”. Inizia così la lunga lettera di solidarietà di un gruppo di carcerati della Dozza inviata al professor Henri Lederman, sul cui campanello il 30 gennaio scorso è stata disegnata una stella di David con un pennarello. Un gesto inaccettabile e non certo isolato (vedi il caso della svastica disegnata sul muro del liceo Copernico), che hanno spinto Lederman a organizzare, insieme a molte altre reti cittadine, la fiaccolata silenziosa e senza bandiere, contro l’odio, il razzismo e l’intolleranza che si svolgerà mercoledì prossimo. Fra le tante adesioni, inaspettata e fuori dall’ordinario arriva anche quella da carcere della Dozza. “La storia umana ci ha insegnato che l’odio verso il nostro simile non ha mai portato a un mondo migliore. In una società cristiana come si definisce la nostra, sarebbe meglio per tutti noi sforzarsi di mettere in pratica le parole della bibbia che ci esorta a perseguire la pace con tutti”, prosegue la lettera che porta in calce la firma autografa di una ventina di detenuti. Consci della loro condizione, così concludono il messaggio di solidarietà, “mercoledì dalle nostre celle saremo con voi fortemente a favore del massimo rispetto che dobbiamo avere per il nostro simile a prescindere dal suo colore, dalla sua nazionalità, dalla sua religione, lingua e cultura. Con affetto…”. Nella passeggiata di “fratelli umani”, come è stata definita dai promotori, ci saranno tante comunità straniere: islamica, ebraica, indiana, ortodossa e anche quella cinese, impegnata ieri in una cena solidale, con piatti orientali, alle Cucine Popolari di via del Battiferro. La fiaccolata vuole metaforicamente far uscire dalle tenebre ogni genere di discriminazione e intolleranza, compresa quella sottile e pericolosa prodotta dalla paura del Coronavirus nei confronti dei cittadini cinesi. L’ultima adesione è arrivata dalla presidenza del Collegio dei Maestri Venerabili dell’Emilia Romagna che, “con tolleranza, uguaglianza e libertà”, invita tutti i fratelli a partecipare alla fiaccolata che per raggiungere piazza del Nettuno attraverserà il ghetto. Bollate (Mi). Il ristorante “InGalera” fa scuola nel mondo di Roberta Rampini Il Giorno, 15 febbraio 2020 Dopo Colombia e Francia, una delegazione di magistrati messicani ha visitato il carcere per “copiare” il progetto. L’orgoglio di chi lo ha pensato e realizzato con determinazione è tanto: “Questa “bricconata” che mi sono inventata piace molto all’estero perché offre un percorso concreto di riabilitazione ai detenuti”. Lei è Silvia Polleri, presidente della cooperativa Abc La Sapienza in Tavola che dal 2004 svolge servizi di catering dando lavoro ai detenuti. La “bricconata” di cui parla è il ristorante “InGalera” aperto nell’ottobre 2015 all’interno del carcere di Bollate. Ancora oggi unico in Italia (quello di Torino ha chiuso lo scorso gennaio), il ristorante dietro le sbarre piace e dopo la Colombia anche il Messico ha deciso di “copiare” il progetto. Una delegazione di cinque magistrati messicani e un rappresentante dell’Onu hanno visitato il ristorante per apprendere il know how del progetto. “Questa voglia di esportare l’iniziativa ci fa capire che siamo sulla strada giusta, nel 2016 avevamo ricevuto la visita di Johana Bahamon, famosa attrice colombiana impegnata in un progetto per il recupero delle donne detenute, e qualche mese dopo è nato Interno-ristorante in una piccola prigione femminile di Cartagena. Ci hanno contattato pure da Marsiglia, anche la Spagna è interessata alla nostra esperienza e nelle prossime settimane verrà dalla Norvegia un gruppo di docenti che lavorano in carcere”. E ogni volta clienti e visitatori si stupiscono di qualcosa: “I magistrati sono rimasti sorpresi del fatto che ai tavoli ci sono i coltelli, io ho detto loro che in cucina ne avevamo altri molto più grandi”, ironizza Silvia. E poi mette in fila qualche numero: sedici anni di cooperativa, quattro anni e mezzo di ristorante, oltre 50.000 clienti, circa 70 detenuti che hanno lavorato per la cooperativa, 15 al ristorante tutti assunti e retribuiti con busta paga a fine mese. Oggi tra i tavoli e in cucina ci sono 8 detenuti e un non-detenuto, tutti professionisti. E così “il ristorante è diventato un luogo di incontro tra chi sta dentro e chi sta fuori, la maggior parte delle persone non avrebbe mai oltrepassato la soglia del carcere”, spiega Polleri. Ad accompagnare la delegazione messicana c’erano Pietro Buffa, provveditore dell’amministrazione penitenziaria in Lombardia, e la direttrice del carcere, Cosima Buccoliero. “Credo che la caratteristica vincente di questo progetto sia la tenacia di chi lo ha realizzato - spiega Buffa -, inoltre la collocazione all’interno di un carcere all’avanguardia favorisce il successo”. Bologna. “Il cavaliere di legno” alla Dozza: fare teatro in carcere di Luciano Martucci bandieragialla.it, 15 febbraio 2020 “Il Cavaliere di legno”: è questo il titolo dello spettacolo teatrale andato in scena il 27 gennaio alla Dozza, che si presenta come l’”esito finale” del corso di formazione nei mestieri del teatro, curato dagli attori Giacomo Armaroli e Paolo Fonticelli, dal drammaturgo Mattia De Luca, dallo scenografo Nicola Bruschi e dal tecnico audio-luci Andrea Biondi della Compagnia del Teatro dell’Argine di S. Lazzaro. Lo spettacolo è stato, appunto, la tappa finale del progetto “Per aspera ad astra”, a cui hanno partecipato 15 detenuti, dal periodo che va dal 18 novembre al giorno della prima, per un totale di 200 ore di lezioni teorico-pratiche, attraverso un percorso che ha consentito di sperimentare tutto ciò che succede in un vero teatro. Per quanto riguarda la recitazione, il programma prevedeva l’apprendimento di moduli di respirazione, dizione, mimica, postura e tecniche corporee per poi passare alla tecnica scenografica e ai costumi, per arrivare ad aspetti più strettamente tecnici come le luci e l’audio. Gli attori detenuti hanno partecipato con grande impegno, mettendosi in gioco e dando il meglio di se. Nel gruppo solo Paolo Grassi aveva già alle spalle un’esperienza di teatro svolta presso la casa di reclusione di Fossombrone: intervistato su questo progetto, ha dichiarato di essersi divertito molto a interpretare il ruolo di Grillo Sansone Carrasco, aggiungendo che è sempre emozionante trovarsi davanti al pubblico. Tra gli attori che hanno interpretato il ruolo dei burattini in veste di cavalieri erranti, c’era Domenico Caputo, che in occasione della sua prima esperienza ha raccontato di quanto sia stato impegnativo studiare il copione, apprendere le tecniche, collaborare a disegnare le scene, insomma una vera sfida, un continuo ed impegnato mettersi in discussione. Anche per me che invece avevo già avuto esperienza come scenografo, salire sul palcoscenico è stata una full immersion in una dimensione nuova, dove ho sentito particolare interesse per le tecniche corporee. Tutti gli attori sono stati impegnati per 6 ore al giorno, e questo è stato davvero uno sforzo notevole, considerando che alcuni sono studenti universitari, mentre altri svolgono attività lavorative a rotazione all’interno dell’istituto. L’unione rappresentata dall’impegno dei partecipanti, insieme alla professionalità degli insegnanti ha prodotto alla fine un ottimo risultato. La questione su cui interrogarsi è se ci sarà continuità nel percorso per questo valido progetto, bello e interessante come la maggior parte di quelli che vengono proposti in carcere, sperando in una sua continuazione nel mese di marzo. Migranti. Memorandum Italia-Libia, sui diritti umani non ci si accontenta di Massimiliano Iervolino e Giulia Crivellini Il Manifesto, 15 febbraio 2020 Cambia la forma, ma non la sostanza: le modifiche al memorandum Italia-Libia sono il tentativo di mettere a tacere chi ne chiede la sospensione immediata, poiché è impossibile garantire la piena tutela dei diritti umani di rifugiati e migranti in un paese dilaniato da un conflitto civile, in cui il numero di sfollati aumenta (150mila in più dallo scorso aprile, quando è iniziato lo scontro) e dove abusi e violenza sono sistematici. Solo pochi giorni fa 81 persone, tra le quali 18 donne e 4 bambini, sono stati intercettate dalla Guardia costiera libica e riportate indietro, a Tripoli, città che ospita il centro di raccolta dal quale l’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i Rifugiati (Unhcr) ha deciso a fine gennaio di ritirare i propri operatori, perché in un’area troppo esposta alla guerra. L’Unhcr, che continua a domandare la chiusura di tutte le strutture di detenzione, non è stato interpellato dal governo sulla versione del memorandum che riporta le modifiche proposte. D’altra parte l’Italia è sorda anche di fronte ai richiami del Consiglio d’Europa, che poco prima del rinnovo dell’accordo, avvenuto il 2 febbraio, chiedeva di “sospendere con urgenza le attività di cooperazione con la guardia costiera libica almeno fino a quando quest’ultima non possa assicurare il rispetto dei diritti umani”. Condizione, quest’ultima, che non è di certo stata raggiunta. Il risultato è che oggi ci ritroviamo con una nuova bozza di memorandum. Nuova si fa per dire,perché l’Italia continuerà a supportare la Guardia costiera libica affinché riconduca rifugiati e migranti nel Paese dal quale tentano di fuggire e dove possono divenire vittime di torture, stupri, omicidi o della violenza generalizzata che imperversa nel Paese. Basta che non arrivino qui, siamo disposti a continuare a fornire denaro e mezzi perché vada avanti così. Cosa cambia, allora? Cambia, per esempio, che la Libia si impegna a favorire un “sistema di strutture posto sotto il controllo del ministero della Giustizia libico e basato sullo Stato di diritto, nel rispetto dei principi e fini della Convenzione di Ginevra del 1951”. Stato di diritto e Libia? Un ossimoro nello scenario attuale. Senza contare che la Libia non ha mai ratificato il trattato internazionale sullo status di rifugiato firmato nella città svizzera. E ancora, la Libia si impegna a “migliorare, anche mediante fondi resi disponibili da parte italiana e nell’ottica del progressivo superamento del sistema dei centri di accoglienza, le condizioni dei migranti trattenuti nei centri di accoglienza ufficiali”. Chi non farebbe affidamento, per mettere fine agli orrori di quelli che sono descritti dai testimoni come lager, sulla dichiarazione d’intento delle autorità di un Paese dove è in corso una guerra civile? Oggi, poi, in Libia i rifugiati (parliamo solo delle persone registrate come tali presso l’Unhcr) sono circa 47.000; di questi 2.800 si trovano nei centri. Tutti gli altri sono fuori, in strada, a volte nei magazzini dove le milizie concentrano le persone, le sequestrano, le tengono prigioniere. Dove con maggiore difficoltà le organizzazioni internazionali riescono a fornire supporto. La minoranza che finisce nei centri di detenzione, i quali almeno sulla carta, sono diretti dal governo libico di Al Serraj, va incontro al rischio di subire violazioni anche gravissime dei propri di diritti, allo stesso modo; la maggioranza, che non entra in queste strutture, fronteggia pericoli ancora più numerosi. Chi è nero è utilizzato come scudo umano, per esempio, costretto dai gruppi armati a combattere in prima linea. Non possiamo permetterci di dimenticare che tutto ciò sta accadendo, dentro e fuori i centri di detenzione: sappiamo e ne siamo complici. Interessante che in questo nuovo memorandum l’immigrazione non sia più definita clandestina e illegale, bensì irregolare. Una piccola modifica che, però, forse, è stata fatta per inviare un segnale: questo accordo è cosa diversa dal precedente, cambia l’approccio, la visione. No, non funziona così: un uso diverso del linguaggio, affiancato da tante e poco solide promesse, non sono sufficienti a fare la differenza. La forma cambia, ma la gente continua a morire. Sui diritti umani non ci si accontenta, l’unica vera differenza può farla solo la sospensione. *Segretario e Tesoriera di Radicali Italiani Droghe. L’allarme di Don Ciotti: “I ragazzi cominciano a 14 anni, noi non li capiamo” di Caterina Pasolini La Repubblica, 15 febbraio 2020 Storie e dati nel libro del fondatore del Gruppo Abele e di Libera, da 50 anni in trincea contro le dipendenze: “Cercano di riempire un vuoto, la politica approva leggi proibizioniste invece di capire cosa spinge i giovani a usare le sostanze”. “In Italia c’è una strage di giovanissimi che arricchisce i trafficanti di stupefacenti. Avevano tutte 16 anni, Alice trovata senza vita nel bagno della stazione di Udine, Carmela in una casa popolare del Catanese, Desirée morta dopo aver assunto sostanze ed essere stata violentata in uno stabile degradato di San Lorenzo a Roma”. Don Luigi Ciotti nel suo libro “Droghe, storie che ci riguardano”, fotografa un’Italia che cambia. Dove l’età del primo incontro con hashish o cocaina, oppio o amfetamine è in media a 14 anni, tra gli europei gli adolescenti italiani sono tra i primi posti per consumo di droghe legali e illegali. E dove il numero dei morti da tre anni ha ricominciato a salire, 334 nel 2018, e ci sono più tossicodipendenti in carcere che in comunità. Tutto questo accade mentre i nostri governi fanno “la politica dello struzzo tra cecità e demagogia, hanno approvato leggi proibizioniste invece di capire le differenze tra le varie sostanze e i motivi per cui i ragazzi le usano. Perché in quel modo cercano di riempire il vuoto di senso, di relazioni, di opportunità. Così il no alla droga è solo per campagne elettorali”, dice il fondatore di Libera e del Gruppo Abele, da 50 anni in trincea. Che nelle pagine ricche di dati e statistiche, analizza un’Italia dove diminuiscono gli operatori dei Serd, dove i nuovi policonsumatori restano sconosciuti ai servizi, in una presunta normalità quotidiana così facile da ignorare. Tanto che solo 11 mila su 130 mila pazienti avevano tra i 15 e 24 anni nel 2018, mentre i dati dell’ultimo studio europeo parlavano di 800 mila adolescenti che avevano consumato droghe nell’ultimo anno, 400 mila nell’ultimo mese di cui quasi 100 mila cocaina. E nel libro sono gli stessi nuovi consumatori a raccontare le loro storie. Ci sono quelle di ragazzi senza apparenti problemi alle spalle o storie di disagio in famiglia. Come Rocco, 28 anni. “In un giorno riuscivo a farmi 7 tipi di droga, la mia famiglia è ricca è alle feste girano ansiolitici, antidepressivi. Le dosi arrivano a casa come fosse Foodora. Ma è a scuola che abbbiamo tutti cominciato”. O Giorgio, 22 anni. “Sono stato un cretino. In famiglia avevo tutto, ma la droga è ovunque e bastano 5 euro... Un mio amico fumava eroina a ricreazione, ho provato, ci sono finito dentro. A 17 anni mi si è spenta la vita, dovevo bucarmi ogni giorno. Ho perso gli anni più belli, ero sempre solo, ma la verità è che quando sei tossico la tua unica compagna è la droga”. Le sostanze costano poco, per i ragazzi è facile provare tutto. Roberto, 18 anni: “Alle superiori ho scoperto la cocaina, mi piaceva da matti l’effetto di concentrazione e mi faceva prendere bei voti. Difficile resistere quando in classe e alle feste ti offrono di tutto. Con 5 euro ti puoi fare tre fumate di eroina, una dose in vena 10 euro quanto tre spinelli, una pasticca di lsd 20, la coca 50 al grammo. Ti cali e i problemi te li scordi, io non riuscivo più a fermarmi, per calmarmi sono passato all’eroina. I miei genitori mi hanno portato in comunità. Spero di non ricaderci. Voglio fare il pugile”. Davide, 22 anni, ha iniziato alle medi. “Bevevo e fumavo spinelli poi ho avuto un lavoro da cuoco, per resistere ai ritmi ho iniziato a tirare cocaina. In cucina c’erano ragazzi che si bucavano, l’eroina mi copriva tutti i pensieri. Non ho più smesso. Ho scelto io di venire in comunità anche se l’ansia la sento nel petto e non mi lascia mai. Spero di farcela”. Mohammed, 18 anni. “A 10 anni la prima canna, a 15 già dipendente dalla coca. A casa mi menavano e allora uscivo ed erano risse, furti. Sono scappato da una comunità, qui sto bene. Spero di farcela”. Youssef ora ha 19 anni. “Quando spacciavo nel bosco di Rogoredo era pieno di ragazzini di 13, 14 anni che compravano fumo, pasticche, eroina con 5, 10 euro. Addirittura mi chiedevano come farsi un buco. Oggi dico che quel bosco è l’inferno. Somalia. Giornalisti sotto assedio tra attentati, arresti e censura di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 febbraio 2020 Secondo un rapporto di Amnesty International, la Somalia è diventata uno dei paesi più pericolosi al mondo per i giornalisti. Il drastico deterioramento della libertà di espressione e di stampa è conciso con l’inizio, nel febbraio 2017, della presidenza di Mohamed Abdullahi “Farmajo”. Gli attacchi mirati del gruppo armato “al-Shabaab” e delle forze governative somale hanno inasprito la censura e causato un aumento degli arresti arbitrari. Da allora, almeno otto giornalisti sono stati costretti a lasciare il paese e altrettanti sono stati uccisi: cinque in attacchi indiscriminati di “al-Shabaab”, uno da un poliziotto e due da soggetti non identificati. Il caso di Zakariye Mohamud Timaade è esemplare: già giornalista di Universal Tv, ha lasciato la Somalia nel giugno 2019 dopo essere stato minacciato sia da “al-Shabaab” che da ambienti governativi a causa di due diversi servizi che aveva realizzato. Il gruppo armato lo aveva minacciato di morte per aver riferito della cattura di tre miliziani da parte delle forze di sicurezza, il governo si era infuriato per aver rivelato la presenza attiva di “al-Shabaab” a Mogadiscio. Amnesty International ha anche documentato casi di censura e tentativi di corruzione dei giornalisti da parte del governo somalo. Funzionari dell’ufficio del presidente pagano regolarmente tangenti mensili ad alcuni editori e direttori affinché non pubblichino articoli “sfavorevoli”. Alcuni giornalisti hanno raccontato ad Amnesty International che i loro editori gli hanno ordinato di non scrivere articoli critici nei confronti degli uffici del presidente e del primo ministro o sui temi dell’insicurezza, della corruzione e delle violazioni dei diritti umani. Amnesty International ha verificato che in quattro casi altrettanti giornalisti sono stati licenziati dai loro datori di lavoro. Poi ci sono i social media, dove il clima di censura ha costretto molti giornalisti a spostarsi per poter esprimere le loro opinioni. La reazione delle autorità è stata di costituire unità dedicate specificamente a monitorare e a segnalare post contenenti critiche. Giornalisti hanno riferito che ricevono frequenti e minacciose telefonate in cui vengono invitati a cancellare i loro post. Amnesty International ha documentato la disattivazione permanente di 16 pagine Facebook, 13 delle quali appartenenti a giornalisti, tra il 2018 e il 2019, sempre per aver violato “gli standard della comunità”.