Salute in carcere, il 20-35% dei detenuti ha l’Eptatite C gonews.it, 14 febbraio 2020 Due detenuti su tre sono malati,tra i 25 mila e i 35 mila sono affetti da Epatite C, in aumento Hiv positivi (6.500) e tubercolosi, almeno un migliaio i detenuti con problemi mentali nelle celle di istituti normali e 1200 in istituti specifici. Sono questi in sintesi i dati del dossier che il Sindacato Polizia Penitenziaria ha consegnato oggi nell’incontro al Ministero della Salute dedicato ai problemi della sanità penitenziaria. Epatite C priorità. L’Epatite C è tuttora l’infezione maggiormente presente nella popolazione detenuta in Italia anche a causa dell’alta percentuale di tossicodipendenti (un terzo del totale). Tra il 25 e il 35% dei detenuti nelle carceri italiane sono affetti da epatite C: si tratta di una forbice compresa tra i 25mila ei35mila detenuti all’anno. A questi vanno aggiunti 6.500 portatori attivi del virus dell’epatite B. Molti istituti italiani si stanno attenendo sempre di più alle indicazioni ministeriali, per raggiungere l’obiettivo dell’assenza di nuove infezioni da HCVentro il 2030. Un altro dato che sta emergendo dagli studi dei medici penitenziari è che tra tutti i detenuti HCV positivi, solo poco più del 50% sono realmente viremici e, quindi, da sottoporre a terapie, rispetto al 70-80% atteso. Hiv in carcere tra gestione e controllo. Gli Hiv positivi sono circa 5.000. Secondo dati più aggiornati l’assunzione dei farmaci antiretrovirali ha ridotto in maniera notevole la trasmissione del virus anche in presenza di comportamenti a rischio. Infatti, la prevalenza di detenuti HIV positivi è discesa dal 8,1% del 2003 al 1,9% attuale. Questo avviene in modo particolare tra i tossicodipendenti, che rappresentano oltre un terzo della popolazione detenuta, certificato dal 34% di presenti per reati correlati a consumo e spaccio. Questi dati - da quanto riferisce Sergio Babudieri, Direttore Scientifico Simspe - indicano chiaramente che, nonostante i comportamenti a rischio come lo scambio delle siringhe ed i tatuaggi non siano diminuiti, la circolazione di HIV non avviene più perché assente dal sangue dei positivi in terapia antivirale. Questi farmaci non sono in grado di eradicare l’infezione ma solo di bloccarla. Di fatto con l’aderenza alle terapie viene impedita l’infezione di nuovi pazienti. Tubercolosi. Risulta poi dai dati ufficiali del Ministero della Giustizia che un terzo della popolazione sia straniera, e, con il collasso di sistemi sanitari esteri, con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale. Se in Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie sono stati rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera. Dunque un detenuto su due risulta essere tubercolino positivo e questo sottintende una maggiore circolazione del bacillo tubercolare in questo ambito. È, quindi, indispensabile effettuare controlli estesi in questa popolazione, perché il rischio che si possano sviluppare dei ceppi multi resistenti è molto alto, con conseguente aumento della letalità nei pazienti in cui la malattia si sviluppa in modo conclamato”. Un caso emblematico è accaduto circa un mese fa a Pavia dove tutti gli agenti di polizia penitenziaria hanno dovuto fare il test di Mantoux per l’infezione della tubercolosi latente, non si trattava di negligenza o incuria, ma di mancanza di tempo del medico di turno troppo oberato di lavoro. Quindi questo detenuto con tubercolosi attiva prima di essere isolato, ha avuto modo di girare per il carcere col rischio di infettare altre persone. E questi episodi sono all’ordine del giorno. Psichiatria. Ci sono almeno un migliaio di detenuti con problemi mentali nelle celle in istituti normali e 1200in istituti specifici. Il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psicotici, contro l’1% della popolazione generale. La depressione colpisce il 10% dei reclusi, mentre il 65% convive con un disturbo della personalità. Significativa, infine, la percentuale di popolazione carceraria che soffre di disturbo da stress post-traumatico, con particolare riferimento ai detenuti migranti: si va dal 4% al 20%. L’emergenza suicidi in carcere conseguenza quasi sempre di stupro subito. È questa l’allarmante situazione nelle carceri italiane, dove la malattia mentale è molto più presente di quel che si pensa. Nelle carceri il problema è molto delicato-come spiega Enrico Zanalda, presidente della Società italiana di psichiatria (Sip)-Sicuramente il tasso di disturbi psichici è molto elevato ma è anche legato a disturbi che non hanno influenza sulla commissione del reato. Legati, piuttosto, alla condizione di detenzione. E quindi vanno trattati dal personale che assiste i detenuti all’interno del carcere. Carenza di personale e burnout. I medici nelle carceri sono sempre meno. Ogni duecento pazienti detenuti dovrebbe esserci un medico, mentre l’incolumità professionale non è garantita perché esiste un burnout di lavoro insostenibile. In media i medici fanno 70 visite giornaliere, a cui si aggiungono controlli e dimissioni,quindi c’è una mole di lavoro eccessiva che mette a rischio l’incolumità professionale. Questi dati - commenta Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria S.PP.- sono allarmanti e mettono a rischio la salute dei detenuti e del personale penitenziario. Il carcere è territorio tra infettivologia e psichiatria con i continui casi di suicidio ed autolesionismo. Ci associamo all’appello dei medici per un piano straordinario di prevenzione delle malattie infettive che coinvolga il personale in servizio. Pertanto è indispensabile per queste categorie di detenuti una carcerazione diversa in strutture specifiche che si occupino di curare prima di ogni cosa. Non si può sottovalutare - aggiunge - che la situazione in tutte le carceri è diventata esasperante per il personale che specie per il sistema “celle aperte” non è in grado svolgere il suo lavoro e non ha alcuno strumento di prevenzione per la salute. È ancor più intollerabile -continua Di Giacomo -che si parli solo ed esclusivamente di assicurare i Lea (Livelli essenziali di assistenza) ai detenuti escludendo il personale penitenziario, continuando a sottovalutare i rischi. Inoltre, il caso dello stupro nel carcere di Udine di un detenuto con problemi mentali ad opera di altri detenuti dovrebbe riaccendere l’attenzione su un problema che abbiamo sollevato da troppo tempo sempre inascoltati: solo l’1 per cento delle violenze sessuali in cella viene denunciato, con i più deboli costretti a pagare l’assenza di misure di tutela personale. È evidente che se fuori dal carcere stenta ad affermarsi la denuncia di violenze sessuali nel carcere questa tendenza è ancora più negativa per una serie di motivazioni che gli esperti hanno più volte indicato, dalla vergogna e paura di chi ha subito la violenza all’assenza di garanzie di tutela per il denunciante. Un fenomeno rispetto al quale l’Amministrazione Penitenziaria volutamente non è in grado di fornire dati specie se si pensa allo “scambio di sesso” di detenuti tossicodipendenti o alcolisti in cambio di psicofarmaci e alcol. Colloqui via Skipe tra marito e moglie al 41bis: lui a Viterbo, lei a L’Aquila di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 febbraio 2020 Per la prima volta c’è stata l’autorizzazione del Tribunale di sorveglianza di Roma. Un’ordinanza della magistratura di Sorveglianza senza precedenti. Per la prima volta viene autorizzato il colloquio via Skype tra due detenuti reclusi al 41bis. Sono moglie e marito che fin dal 2015 hanno potuto avere solo contatti epistolari. Il tribunale di sorveglianza di Roma - che ha la competenza esclusiva per il 41bis -, dopo aver rilevato che vi è in gioco il diritto del detenuto al mantenimento di relazioni affettive dirette e di presenza con i congiunti, ha evidenziato che in proposito vi sono due orientamenti della Corte di Cassazione, uno più risalente favorevole a questo tipo di colloqui e uno più recente contrario. La presidente Angela Salvio afferma nell’ordinanza di aderire al primo dei due (il sacrificio del diritto in questione, infatti, non risponde alla concreta esigenza del 41bis di garantire l’ordine e la sicurezza pubblica) e rileva, inoltre, che vi è un elemento di novità: una circolare del Dap che promuove l’utilizzo della piattaforma “Skype for business” per effettuare colloqui di detenuti inseriti nel circuito di media sicurezza con i familiari. Sempre secondo la magistratura di sorveglianza non vi sarebbero neanche problemi legati alla sicurezza in quanto, sia il sistema di videoconferenza, sia quello di skype, sono già utilizzati per i video-collegamenti dei detenuti 41bis in occasione delle udienze. Tutto è partito dal tempestivo reclamo - presentato dal difensore del detenuto recluso al 41bis del carcere viterbese - avverso alla decisione della magistratura di sorveglianza di Viterbo che aveva negato tale possibilità. All’udienza collegiale è stato ascoltato il reclamante, collegato in videoconferenza, il quale ha chiarito che non effettua colloqui con la moglie dall’aprile 2015, e cioè da quando la moglie ha ricevuto la notifica del decreto di applicazione della misura di prevenzione. Ha specificato di intrattenere rapporti con la moglie esclusivamente con la corrispondenza epistolare e, inoltre, ha fatto presente che la moglie successivamente è stata arrestata e sottoposta al regime del 41bis al carcere de L’Aquila, ed è già stata autorizzata dal Gip di Palermo all’effettuazione di colloqui con il marito in videoconferenza, che però la donna non ha potuto effettuare, stante la mancanza di autorizzazione per il marito. La magistratura di sorveglianza ha accolto il reclamo, osservando che l’articolo dell’ordinamento penitenziario riguardante il 41bis ha previsto espressamente anche per i detenuti dotati di una spiccata pericolosità sociale il diritto alla effettuazione dei colloqui visivi con i congiunti più stretti indicati dalla legge, introducendo soltanto delle restrizioni e controlli accurati per la finalità di salvaguardia dell’interesse superiore, di conservazione dell’ordine e sicurezza pubblica. Ha inoltre osservato che il Dap stesso, dopo un periodo di sperimentazione iniziato dal 2015, ha diramato la Circolare del 30 gennaio 2019, contenente le indicazioni per agevolare le attività e predisporre gli interventi necessari a rendere fruibile - su vasta scala- l’utilizzo della piattaforma “Skype for busines” s per l’effettuazione di video chiamate da parte dei detenuti - in questa prima fase di avvio appartenenti al circuito media sicurezza - con i familiari e i conviventi. La magistratura di sorveglianza di Roma ha anche sottolineato che le indicazioni contenute nella circolare sono estremamente dettagliate e forniscono le modalità per assicurare la garanzia in ordine all’identificazione della persona con la quale viene effettuato il colloquio e alla possibilità di rilevazione di qualsiasi anomalia durante il colloquio stesso. Nel caso di comportamenti non corretti del detenuto o dei familiari, il videocollegamento verrà interrotto immediatamente con conseguente preclusione del servizio. Quindi, per la prima volta, si autorizza - con tanto di coordinamento tra i due istituti penitenziari che ospitano i coniugi al 41bis - il colloquio attraverso la piattaforma “Skype for business”, ovvero con le modalità adoperate per i videocollegamenti ordinari con la magistratura di Sorveglianza per le rogatorie e i colloqui. Ribadendo, ovviamente, l’interruzione del colloquio in caso di anomalie. Via libera dal Cdm alla riforma del processo penale, c’è anche il lodo Conte bis Il Riformista, 14 febbraio 2020 Italia Viva verso la sfiducia a Bonafede. Via libera dal Consiglio dei ministri che si è svolto giovedì sera al ddl delega di riforma del processo penale. Nel testo c’è anche il lodo Conte bis sulla prescrizione. Al Consiglio dei ministri non hanno partecipato i rappresentanti di Italia Viva nel governo dopo il durissimo botta e risposta tra il premier Giuseppe Conte e Matteo Renzi. Il Quirinale è stato informato minuto per minuto su quanto stava accadendo a palazzo Chigi, ma per ora resta alla finestra. La fase è delicata e il premier Giuseppe Conte non può non condividerla con il capo dello Stato, Sergio Mattarella, in via del tutto informale. Smentita una visita al Colle, Conte e Mattarella si sono incontrati prima alla Corte dei Conti, dove hanno scambiato qualche battuta, e poi si sono sentiti telefonicamente poco prima delle dichiarazioni del presidente del Consiglio. Conte ha voluto anticipare a Mattarella la sua strategia, certo, viene riferito, che quello di “Renzi è un bluff”. Il premier non è più disponibile a proseguire con i continui stop and go di Italia Viva. “Adesso si farà la sfiducia a Bonafede”. È quanto apprende LaPresse da fonti di Italia viva dopo che il Consiglio dei ministri che ha approvato la riforma del processo penale che contiene anche il lodo Conte bis sulla prescrizione. Con una mozione di Iv andrebbe al Quirinale ad aprire la crisi? “Se mai ci fosse una iniziativa del genere il sottoscritto per assicurare credibilità alla politica ne trarrà tutte le conseguenze”. Lo ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel corso di una conferenza stampa al termine del Consiglio dei ministri. “Da presidente del Consiglio, non riesco a capire dal punto di vista logico cosa vuol dire mozione di sfiducia al ministro Bonafede. Di cosa lo accusiamo? Ha portato all’approvazione la riforma del processo civile e penale e sulla prescrizione ha cambiato la sua norma. Si chiarisca agli italiani cosa vuol dire. È irragionevole”, aggiunto. Teme la fine del Conte Bis? “Non ho arroganza e paura, quello che garantisco è che fino all’ultima ora di questo governo daremo la massima concentrazione, determinazione e garanzia”, ha quindi aggiunto Conte. “Abbiamo approvato vari provvedimenti quello di maggiore importanza e rilievo è la riforma del processo penale. Quando si lavora con responsabilità e impegno i risultati arrivano e si riesce a soddisfare le richieste dei cittadini che ci chiedono processi più rapidi e veloci”. È stato questo l’esordio in conferenza stampa del premier, Giuseppe Conte, al termine del consiglio dei ministri che ha approvato il disegno di legge sulla riforma del processo penale e che comprende anche il lodo Conte bis sulla prescrizione. Per il presidente del Consiglio il provvedimento di maggiore importanza approvato dal Cdm è “la riforma del processo penale. Quando si lavora con responsabilità e impegno i risultati arrivano e si riesce a soddisfare le richieste dei cittadini che ci chiedono processi più rapidi e veloci”. Un ampio capitolo della conferenza è stato dedicato ai rapporti con Italia Viva, ormai tesissimi. “Mi dispiace che non ci siano state le ministre di Iv e non abbiano deciso di dare il proprio contributo a questo importante risultato”, ha detto Conte. “Credo che per una forza politica sia sempre una sconfitta decidere di non sedere a un tavolo. Devo purtroppo prendere atto che si è mantenuta una posizione iniziale e non ci si è scostati mai da quella, ritenendosi depositarie di una verità. Ma la verità non esiste, esiste una mediazione”. Il presidente del Consiglio ha provato comunque a tendere una mano ai renziani: “Nei confronti di Italia viva c’è la massima disponibilità a confrontarci con loro e ad ascoltare. Ma se la posizione è ‘si fa come dico io oppure basta’ non è possibile”. Parlando di Renzi, Conte ha quindi precisato: “Chi più di un ex presidente del Consiglio può capire la difficoltà di questa sfida? Che ha sempre attaccato il fuoco amico e la dittatura della minoranza. Io sono sempre disponibile con i compagni viaggio, ma devono chiarire”. Con la riforma il processo penale non potrà durare più di quattro anni di Francesco Grignetti La Stampa, 14 febbraio 2020 Il Consiglio dei ministri licenzia i cambiamenti chiave: tempi definiti per legge, 24 mesi per finire le indagini. Nonostante i venti di crisi, e anzi a dispetto di questi, proprio a rimarcare che ci sono tre partiti della maggioranza giallo-rossa che comunque vogliono andare avanti, il consiglio dei ministri di ieri sera ha licenziato la riforma del processo penale. Dentro c’è finito a sorpresa anche il Lodo Conte bis. E la logica della scelta è chiara. Come annunciato dal premier Conte nella telefonata al Capo dello Stato, è finito il tempo delle mediazioni con Italia Viva. Al contrario, è il momento dello scontro finale. Quindi quell’accordo a tre Pd-M5S e LeU che Renzi definisce “incostituzionale” e “peggio che un obbrobrio giuridico” è parte integrante della riforma, immediatamente applicabile nel momento in cui la legge- delega sarà promulgata, intrinsecamente connesso con le altre norme. Possibile però che venga stralciato in Parlamento e trasformato in emendamento al ddl Costa per fare prima. La sfida a Italia Viva non potrebbe essere più plateale. Non c’è invece la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Quest’ultima sarà affrontata a parte, previa discussione con il Csm stesso. Scopo della riforma varata è la velocizzazione del processo penale. A questo fine si prevede una serie di grandi-piccole innovazioni. La principale sono i tempi predefiniti, cosiddetti “tempi di fase”. Per le indagini preliminari: su mafia, terrorismo, stragi, omicidio e violenza sessuale potranno raggiungere il tetto di due anni; 18 mesi per la gran massa dei reati; massimo un anno per le inchieste sui reati minori, detti bagatellari. Per i processi: da uno a tre anni a seconda della gravità del reato per il primo grado, due per l’Appello, uno per la Cassazione. La legge impone un taglio dei tempi morti (che però sono notoriamente causati dalle carenze clamorose di personale amministrativo): se entro 3 mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari (che diventano 5 o 15 per i reati più gravi) il pm non avrà notificato l’avviso di conclusione delle indagini, previsto dall’articolo 415-bis del codice di procedura penale, o richiesto l’archiviazione, dovrà depositare gli atti e avvisare sia l’indagato che la persona offesa. I capi degli uffici dovranno prevedere un’adeguata organizzazione per rispettare i tempi. E se il magistrato non li rispetterà per dolo o negligenza inescusabile, rischierà un procedimento disciplinare. Potrebbe scattare un’azione disciplinare anche per “l’omesso deposito della richiesta di archiviazione” oppure per “il mancato esercizio dell’azione penale entro il termine di 30 giorni dalla presentazione della richiesta del difensore della persona sottoposta alle indagini o della parte offesa”. Prevedibile la reazione indignata dell’associazione nazionale magistrati, perché le toghe non ci stanno a essere considerati colpevoli delle disfunzioni della macchina giudiziaria. Si annuncia un largo ricorso all’informatica, ma sono le misure deflazionistiche che dovrebbero essere l’arma vincente per questa velocizzazione. Ovvero meno processi da avviare o da gestire. Ad esempio nell’ordine di priorità per le notizie di reato, come già accade nelle procure principali. Finora la materia era regolamentata con circolari. Ora diventerebbe legge la potestà dei procuratori capo d’indicare a quali notizie di reato dare la precedenza nella trattazione (“secondo criteri predeterminati indicati nei loro progetti organizzativi, sentiti il Pg e il presidente del tribunale, e tenendo conto della specifica realtà territoriale e criminale e delle risorse a disposizione”). Teoricamente, molti processi non dovrebbero vedere la luce: il pm avrà l’obbligo di chiedere l’archiviazione se gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari sono insufficienti, contraddittori, o non tali da far prevedere l’accoglimento dell’accusa in giudizio. Il giudice non potrà disporre il dibattimento. La prescrizione entra nella riforma penale. Ma Palazzo Chigi vuole bruciare le tappe di Liana Milella La Repubblica, 14 febbraio 2020 Sorpresa nel consiglio dei ministri. Perché il lodo sulla prescrizione viene inserito dentro la riforma del processo penale. Con un obiettivo chiaro. Poterlo utilizzare per trasformarlo in un emendamento al disegno di legge Costa, in aula il 24 febbraio, che all’opposto vuole cancellare la prescrizione “corta” del Guardasigilli Alfonso Bonafede entrata in vigore il primo gennaio. Oppure potrebbe diventare parte integrante del ddl di Federico Conte di Leu, il vero padre della nuova versione del lodo, che era abbinato in commissione Giustizia al ddl Costa, ma è stato disabbinato nell’ultima seduta. Ma niente esclude che possa tornare dentro la Costa in aula, oppure sostituirla del tutto. Una cosa è certa. Dopo le pressioni di Italia viva, che ancora ieri al Senato ha votato con Lega, FI e Fdl per cancellare la prescrizione, all’opposto la legge nella nuova versione va avanti. Nella formula che piace a Pd, M5S e Leu. Si chiamerà definitivamente “lodo Conte-bis”. E non è certo quello che avrebbero voluto i renziani (prescrizione bloccata solo dopo l’appello). Alla fine di una giornata pazzesca l’ha sdoganato definitivamente, anche nel suo contenuto, il consiglio dei ministri dopo l’ennesima riunione tra il Guardasigilli Alfonso Bonafede e i tecnici di Pd e Leu. Il lodo ha assunto la sua forma definitiva. Due corsie differenti per assolti e condannati in primo grado. Chi viene assolto vede la prescrizione continuare a correre, salvo nel caso in cui - e su questo Bonafede ha puntato i piedi - stia per scadere entro un anno e il pm fa appello. A quel punto ci sarà una sospensione di 18 mesi per finire il processo. Per i condannati invece la prescrizione si ferma, il processo di appello va celebrato entro due anni e sei mesi. Dopo una nuova condanna lo stop è definitivo. Con l’assoluzione scatta un bonus per la prescrizione perduta. Nuova sospensione dei termini invece per chi è assolto in vista della Cassazione, ma di sei mesi se la prescrizione stessa muore entro un anno. Ma i renziani bocciano tutto al pari di Forza Italia. La loro battaglia continua com’è avvenuto ieri al Senato, quando è stato votato un emendamento forzista, ispirato da Costa, col blocco della prescrizione di Bonafede, inserito nel decreto sulle intercettazioni. È finita 12 a 12, quindi emendamento respinto per le regole del Senato, ma Iv ha votato col centrodestra. In aula il decreto dovrà passare con la fiducia, come il Milleproroghe dove ci sarà un nuovo emendamento Annibali. Senza Iv, per non andare sotto, per la maggioranza non resta che affidarsi al gruppo dei responsabili. Mentre Costa minaccia emendamenti a raffica: “Voglio proprio vedere se avranno il coraggio di mettere la fiducia su ogni legge”. Ma la novità è un’altra. Dopo oltre un anno di stand-by fa anche un passo avanti il ddl sul processo penale, bloccato coi governi giallo-verde e giallo-rosso per via della prescrizione. Ora l’intesa Pd, M5S e Leu è stata raggiunta con le novità sui tempi del processo e sul disciplinare. L’appello potrà durare due anni. In primo grado invece un range da uno a tre anni a seconda della gravità dei reati e del numero degli imputati. Un anno in Cassazione. La scure disciplinare agisce in due tempi. Il pm finisce sotto inchiesta al Csm se, di fronte alla richiesta dell’imputato di celebrare il dibattimento in tempi rapidi per una sua inderogabile esigenza di vita, il magistrato non risponde entro 30 giorni. In appello invece, sempre nel caso di una esplicita richiesta dell’imputato, il giudice avrà al massimo sei mesi di tempo per procedere. Prescrizione. Il premier avverte Italia viva: “Sfiducia Bonafede? Trarrò le conseguenze” di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 14 febbraio 2020 Cdm senza le ministre renziane. Il lodo Conte bis inserito nel ddl giustizia. Il capo del governo: “Renzi dica cosa vuole fare”. Poco prima della mezzanotte, Giuseppe Conte scende in conferenza stampa a Palazzo Chigi, insieme al Guardasigilli, la riforma del processo penale è stata approvata con incorporata anche la norma sulla prescrizione del lodo Conte bis, ed è il momento di fare un bilancio dopo lo scontro con Renzi del pomeriggio: “Io non ho alcuna paura, nè arroganza - dice Conte - è Italia viva che deve decidere se fare squadra o meno, la loro assenza di stasera è una loro sconfitta, e se ci sarà una mozione di sfiducia contro il ministro Bonafede ne trarrò tutte le conseguenze”. È l’epilogo, in qualche modo amaro, di una giornata di nuovi scontri fra la maggioranza e il partito di Renzi. Ancora una volta Italia viva ha votato al Senato con le opposizioni, e forse questo è stato determinante. Del resto erano ormai diversi giorni che veniva annunciato un intervento duro del premier contro il partito Renzi. Le parole di Conte hanno fatto alzare la fibrillazione politica interna alla maggioranza, quasi a un passo dalla crisi: “Per lavorare il clima non può essere questo, qui i ricatti non sono accettati. Non si può pensare di votare” un provvedimento “con le opposizioni”. Insomma Conte, dopo giorni di silenzio e di scontro fra Italia viva e il resto della maggioranza, è sbottato. “Da parte mia Iv è più che rispettata, ma il clima non può essere questo, serve uno spirito costruttivo. Io siedo sempre al tavolo e ascolto tutti, non è mai successo che io mi sieda a un tavolo e tutte le 4 forze politiche non abbiano avuto pari dignità. Tutti hanno la possibilità di proporre le proprie idee, se poi la loro idea non viene accettata non si può pensare di votare con le opposizioni”. Conte rincara la dose dando anche del “maleducato e aggressivo” al modo di fare di Renzi: “Stiamo vivendo una situazione un po’ paradossale, la maggiore opposizione ci viene non da un partito di opposizione ma da Italia viva che un giorno sì e l’altro pure ci dice che vuole promuovere un atto di sfiducia nei confronti del ministro Bonafede”. E se i ministri di Italia viva disertano il Cdm, in polemica con le norme sulla prescrizione, “per quanto riguarda l’assenza non è stata fatta nessuna comunicazione ufficiale. Non sedersi a un tavolo istituzionale quando si ha un incarico di ministro e quindi una responsabilità, è una assenza ingiustificata”. La risposta di Renzi non si fa attendere: “Presidente, la palla tocca a te. Noi non abbiamo aperto la crisi, tu puoi cambiare, sai come farlo, perché lo hai già fatto. Se noi siamo opposizione, voi non avete la maggioranza. Non puoi dire che siamo opposizione maleducata: se vuoi cambiare maggioranza fallo, ti daremo una mano. E non puoi parlare come un preside di scuola di assenze ingiustificate di ministri. Lo dico a tutti: se si vuole lavorare rimbocchiamoci le maniche, se qualcuno vuole staccare la spina se ne assuma la responsabilità. Per fare il governo con i 5 Stelle ho dovuto prendere due maalox, ma sono aperto a tutte le soluzioni, anche al tornare al voto”. E se Nicola Zingaretti condivide “il richiamo e la preoccupazione” di Conte, lo stesso fa il Movimento 5 Stelle, che come il Pd difende il lodo Conte bis sulla prescrizione. Il governo a tre gambe prende tempo sulla prescrizione di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 14 febbraio 2020 Consiglio dei ministri senza le ministre renziane. Sulla correzioni alla riforma Bonafede si seguirà la via parlamentare. Tempi lunghi anche per la riforma del processo penale, ieri il via libera al disegno di legge delega. Senza le parti che avrebbero irritato Csm e Anm. Italia viva diserta il Consiglio dei ministri serale che si occupa di giustizia perché non vuole sentir parlare del famoso “lodo Conte” - versione bis - sulla prescrizione, ma quel lodo non nell’ordine del giorno della riunione né potrebbe esserci visto che avrà la forma di un atto di iniziava parlamentare dei capigruppo di 5S, Pd e Leu. Quale ancora non è certo, se disegno di legge autonomo o emendamento al disegno di legge Costa, con il quale l’opposizione e Renzi vorrebbero cancellare la riforma Bonafede, che invece potrebbe per questa via essere solo modificata e in definitiva salvata. Assenza politica quella delle due ministre di Italia viva, Bellanova e Bonetti, come rivendicato da Matteo Renzi nel pomeriggio, ma anche assenza obbligata, visto che erano entrambe in missione all’estero. La maggioranza a tre, Italia viva esclusa, continua a discutere sul “veicolo” parlamentare della “riforma della riforma” della prescrizione, ma ha ormai trovato l’accordo nel merito del provvedimento. Perché è tramontato in appena 24 ore un tentativo del ministro Guardasigilli di forzare la mano al Pd e a Leu, inserendo una sospensione della prescrizione - 18 mesi - anche per gli imputati assolti in primo grado, che invece da accordi dovevano essere tenuti salvi dalle nuove regole. La fine della prescrizione si applicherà solo ai condannati, i quali però anche loro - ecco il “nodo del lodo” bis - in caso di assoluzione in appello recupereranno i termini integrali di prescrizione (a quel punto molto probabilmente inutilmente). La sospensione della prescrizione per gli assolti dovrebbe però rispuntare in caso di termini in scadenza a ridosso dell’appello. Come previsto, un nuovo fronte si è aperto al senato, quando il rappresentante di Iv ha votato con le opposizioni in commissione giustizia, nel tentativo di cancellare la riforma della prescrizione approfittando del decreto sulle intercettazioni. È finita con un pareggio, che significa per la fortuna del governo che l’emendamento soppressivo è stato respinto. L’asse centrodestra-renziani minaccia di riprovarci, con numeri più favorevoli, in aula. Ma il governo chiederà sicuramente la fiducia, per evitare la conta e perché il decreto è prossimo alla scadenza. Nel Consiglio dei ministri il Pd è riuscito a ottenere da Bonafede un disegno di legge delega di riforma del processo penale “pulito”, cioè senza le norme inizialmente previste dal ministro sul Csm e i magistrati in politica. Due argomenti che avrebbero sicuramente complicato la discussione, e probabilmente provocato una polemica con il Consiglio superiore e l’Associazione magistrati, visto che il ministro vorrebbe per un verso diluire il ruolo della magistratura associata nel Csm, per un altro alzare un muro tra le toghe e le candidature. “Ci concentriamo sugli strumenti che possono rendere più efficiente e più veloce il processo penale”, spiega uno dei mediatori del Pd sulla giustizia, Alfredo Bazoli. Nel testo, dimezzato, sono adesso contenute novità tecniche, come un allargamento delle notifiche e del deposito atti via mail, tempi per le indagini preliminari più brevi (massimo due anni per i reati più gravi), ostacoli agli avvocati nella presentazione del ricorso di appello. Ma anche innovazioni importanti come l’obbligo delle procure di darsi criteri di priorità nella trattazione dei reati (nella pratica avviene già, ma adesso il principio di obbligatorietà dell’azione penale viene messo formalmente in discussione), la previsione di tempi standard per i diversi gradi di giudizio e di conseguenze disciplinari per i magistrati che per dolo o negligenza non li rispettano (misura contrastata dall’Anm e ancora in forse), l’obbligo per il pubblico ministero che chiude le indagini di chiedere l’archiviazione anche nel caso in cui ha raccolto prove sufficienti per un processo, ma che si può prevedere non siano sufficienti per una condanna. In ogni caso si tratta di un disegno di legge delega, dunque tra la prima approvazione delle camera, il tempo necessario all’esecutivo per attuare la delega (sono previsti 12 mesi) e il passaggio finale nelle commissioni, le nuove misure entreranno in vigore tra quasi due anni, se tutto va bene. E saranno oggetto di trattative e mediazioni che non finiscono certo con il Consiglio dei ministri di ieri sera. Verso la crisi di governo: da 30 anni magistratura decide durata legislatura, non i partiti di Piero Sansonetti Il Riformista , 14 febbraio 2020 Voi vi chiederete per quale ragione al mondo il Pd vuole andare alle elezioni. Perché i sondaggi lo danno intorno al 20 per cento, cioè un paio di punti sopra i risultati del 2018? Non ha senso. Oltretutto, con il nuovo parlamento coi “seggi tagliati”, Il Pd perderebbe comunque un bel gruzzoletto di deputati e senatori. E per di più finirebbe all’opposizione. E allora? Per far dispetto a Renzi? In politica le ripicche contano, ma fino a un certo punto, alla fine contano interessi più grandi. Quindi? Vediamo allora perché i 5 Stelle dovrebbero vedere di buon occhio le elezioni. Per estinguersi, vittime del crollo dei sondaggi e della legge taglia-parlamentari che loro stessi hanno fatto? E per perdere una posizione di grande potere nel governo? A occhio, no. Non saranno dei grandi strateghi, questi 5 Stelle, ma fessi così tanto è improbabile. E allora? Beh, noi lo abbiamo scritto tante volte. Lo scriviamo di nuovo. C’è in Italia un partito politico, molto più forte di tutti gli altri partiti politici - e più compatto, più combattivo, molto, molto più ideologico - che ha una idea chiarissima di società futura e che è deciso a realizzarla, e che ha la capacità di condizionare e dirigere i partiti che sono in Parlamento o, almeno, parti molto grandi di questi partiti. Anche contro i loro stessi interessi. È il partito delle Procure, unica vera grande potenza nella vita pubblica. Qual è l’idea di società che ha in mente? Una società molto controllata, relativamente libera, ordinata e legalizzata, punitiva, obbediente ad una scala di valori decisa dallo Stato, e diretta da una aristocrazia, da una vera e propria aristocrazia costituita, appunto, dall’apparato giudiziario, che ammette l’esistenza di una struttura democratica ma pretende che questa struttura viva in una condizione di subalternità ai guardiani della legge. La legge è sopra ogni altra cosa, i guardiani della legge sono i sacerdoti. Poi, sì, la politica, la democrazia, la libertà: ma limitate e condizionate da una grande capacità repressiva dello Stato. Da anni questo partito decide le sorti della politica. Nel 1992 rade al suolo la Democrazia Cristiana, il partito socialista e la prima Repubblica. Nel 1994 silura il primo berlusconismo. Nel 2008 manda a casa il governo Prodi-Mastella. Nel 2011 abbatte l’ultimo governo Berlusconi. Quasi tutti questi passaggi avvengono principalmente per una ragione: per impedire una riforma garantista della giustizia, oppure per imporre delle modifiche nei rapporti di potere tra magistratura e società. Andate a controllare le date e le cronache dell’epoca: è esattamente così. Tutte le grandi crisi politiche sono determinate dalla questione giustizia. E tutte - tutte - sono precedute o seguite da misure di riduzione dello Stato di diritto e di sottomissione del potere politico-democratico al potere delle Procure. Fine dell’immunità parlamentare, fine del potere delle Camere di concedere l’amnistia, istituzione di nuovi reati con pene esorbitanti, misure drastiche contro i reati attribuibili ai politici, blocco di riforme come quella Mastella, o quella Orlando o - in precedenza - quelle immaginate e mai realizzate dai governi Berlusconi. Oggi siamo tornati lì: niente di nuovo. Il Partito delle procure (che noi chiamiamo il PPM, partito dei Pm) non vuole permettere che sia neppure sfiorata la credibilità del ministro Bonafede, che tra tutti i ministri della giustizia del dopoguerra si è mostrato il più prono al PPM. Il PPM è un partito di persone che rispettano l’onore, e non possono permettere che un loro uomo fedele sia ferito. Non lo abbandonano, né per necessità né per opportunismo. E dunque il diktat è semplice: giù le mani da Bonafede o il governo cade e si va alle urne. Non permetteremo la formazione di un nuovo governo. Era evidente che i 5 Stelle si sarebbero inchinati. Come è possibile che il Pd faccia lo stesso? E dentro il Pd c’è pieno accordo su questo cedimento e questa rinuncia ai propri principi? E lo stesso ministro Orlando, che è stato un nemico dei giustizialisti quando ha fatto il ministro, ora è pronto a cedere loro e a deporre le armi? Non lo so, ma guardo i fatti: è possibile. È sempre sbagliato sottovalutare il Partito delle Procure. E non si capisce proprio niente della politica italiana se non si capisce che il comando, lo scettro, è loro e solo loro. Almeno finché qualche pezzo di politica, abbastanza robusto, non si decida a dare battaglia. Quanto è lontano questo tempo? A occhio, molto, molto lontano. La scelta garantista di Renzi stretta tra principi, calcolo politico e famiglia di Paolo Delgado Il Dubbio, 14 febbraio 2020 L’illusione che il braccio di ferro sulla giustizia fosse per Italia viva solo un espediente per acquisire visibilità e conquistare consensi nell’elettorato un tempo berlusconiano è svanita negli ultimi giorni. Troppo violenta e prolungata l’offensiva, troppo rigide le posizioni per ridurre il tutto al solito gioco propagandistico. Nel braccio di ferro ingaggiato da Renzi c’è anche questo, non c’è dubbio, come c’è forse un retropensiero sui guai di famiglia. Ma né l’uno né l’altro elemento bastano a spiegare una drammatizzazione che non accenna a scemare, nonostante i tentativi in questo senso di Conte e Zingaretti e che ha raggiunto ieri nuove vette. Gode di ampia circolazione una spiegazione che in realtà spiega pochissimo. Il segreto starebbe tutto nella certezza di Renzi, in realtà giustificata, che ‘ tanto non si voterà. È evidente che l’ex premier, spaventato com’è dall’eventualità di elezioni politiche a breve, ha scelto di correre un classico rischio calcolato e che attacca a testa bassa perché ritiene di essere al riparo dalla minaccia più temuta, quella appunto dello scioglimento delle Camere. Ma sarebbe fare torto al leader di Iv pensare che tutta la sua strategia si riduca a fare molto rumore senza però arrivare al voto. Inoltre la contraddizione con la altrettanto diffusa e altrettanto giustificata convinzione che nel mirino di Renzi ci sia da un pezzo la poltrona di ‘ Giuseppi’ Conte sarebbe in questo caso stridente. In realtà l’offensiva garantista vanta requisiti che vanno molto oltre la peraltro dubbia resa in termini di propaganda. Traccia una linea di demarcazione all’interno della maggioranza, scegliendo come linea del fronte precisamente il tema identitario sul quale il M5S non può permettersi di arretrare. Pone il Pd, che non può rompere con i 5S ma neppure abbracciare il loro giustizialismo, in una situazione di stress e imbarazzo permanente. Ma soprattutto pone le basi per un ponte con il centrodestra. Nessuno sa meglio di Renzi che la massima aurea della politica italiana è ‘ Mai dire mai’ e a ogni buon conto è buona norma preparare un possibile terreno comune, possibilmente tale da poter essere sbandierato come questione di principio e di alta idealità. Tra Iv e il centrodestra l’incontro è possibile su due fronti: quello dello sviluppo economico, quello sul quale si è già consumata in agosto la rottura del governo gialloverde, e, appunto, quello del garantismo. Ma è quest’ultimo che offre la possibilità di giustificare il dialogo non solo in nome di una comune strategia economica ma anche della difesa di alcuni valori imprescindibili. Renzi in realtà si sta muovendo a tutto campo per occupare quella posizione. Si in aula che in sede di cdm i suoi gruppi parlamen-tari e la sua delegazione al governo si sono già smarcati più volte, e ieri la divaricazione si è prodotta su entrambi i fronti: voto in aula con l’opposizione e scelta di disertare il cdm con all’odg il dll sul lodo Conte bis in materia di prescrizione. A Bruxelles Iv ha abbandonato il gruppo del Pse per passare ai centristi di Macron. I leader di Iv, con Maria Elena Boschi particolarmente combattiva, condiscono ogni dichiarazione bellicosa sulla prescrizione con un passaggio acuminato sulla politica economica, indicando così già da ora quale sarà il prossimo fronte da aprire. Tutto ciò non significa affatto che Renzi abbia deciso di tentare l’azzardo di un nuovo governo col centrodestra e non è affatto detto che un disegno del genere avrebbe qualche possibilità di prendere corpo. Però Renzi sa bene che, in una situazione così precaria, previsioni a lungo termine non sono possibili. Il governo non cadrà prima del referendum del 29 marzo. Probabilmente reggerà senza rischiare troppo anche fino alle prossime elezioni regionali di primavera. Poi però tutti diventerà più incerta e lo stesso Renzi, a quel punto, dovrà chiudere la partita con Conte oppure rassegnarsi a lasciare “Giuseppi” a palazzo Chigi. E in quel momento poter giocare su più tavoli, avere porte se non aperte almeno non blindate di fronte su diversi fronti sarà essenziale. Spazza-corrotti, adesso il ministero dovrà risarcire per ingiusta detenzione di Giovanni Altoprati Il Dubbio, 14 febbraio 2020 Piove sul bagnato per il governo e per il ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede. All’indomani della decisione della Corte costituzionale di dichiarare illegittima la legge Spazzacorrotti nella parte in cui se ne prevede l’applicazione retroattiva, si profila la possibilità per l’esecutivo di dover risarcire tutti coloro che in questi mesi sono stati incarcerati per effetto di questo provvedimento voluto dal tandem Bonafede-Travaglio. Il primo ad aver sollevato il problema è stato Pierantonio Zanettin, componente di Forza Italia della Commissione giustizia della Camera ed ex membro del Csm, con una interrogazione urgente presentata ieri a Montecitorio. “L’anno scorso tale illegittimità era stata denunciata, già in sede di approvazione della legge, nel corso del dibattito parlamentare”, scrive Zanettin. “Le conseguenze della pronuncia appaiono dirompenti: molti cittadini italiani, noti e meno noti, in questi primi mesi di applicazione della legge non hanno potuto usufruire delle misure alternative alla detenzione e sono stati costretti al carcere, nonostante i fatti da loro commessi fossero antecedenti l’entrata in vigore della norma”. Fra gli arrestati “illustri”, l’ex presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, condannato in via definitiva per corruzione. L’equiparazione dei reati contro la Pubblica amministrazione ai reati di mafia e terrorismo, aveva precluso al Celeste, pur essendo ultrasettantenne, l’accesso ai benefici penitenziari. “Il governo è sempre rimasto sordo ad ogni richiesta di modifica di quella normativa, palesemente illegittima”, prosegue Zanettin, svelando un particolare che inchioderebbe l’esecutivo alle proprie responsabilità. “Nella seduta del 20 febbraio 2019, il governo espresse parere contrario alla risoluzione a prima firma dell’onorevole Enrico Costa che lo impegnava a disporre affinché la nuova formulazione dell’art 4 bis dell’ordinamento penitenziario si applicasse solo ai fatti successivi alla sua entrata in vigore”. “La maggioranza - prosegue Zanettin - nella stessa seduta di Commissione respinse detta risoluzione”. “Ora i cittadini che non hanno potuto usufruire dei benefici della legge Gozzini hanno certamente diritto al risarcimento del danno per l’ingiusta detenzione subita”, sottolinea il parlamentare forzista, domandando al governo “quali iniziative di propria competenza intenda assumere per ottenere dai responsabili di questo grave vulnus costituzionale il recupero del danno erariale che deriverà allo Stato per l’ingiusta detenzione dei cittadini”. Nel mirino, dunque, Bonafede che aveva sempre affermato che la Spazzacorrotti avrebbe addirittura “proiettato l’Italia come Paese leader a livello internazionale nella lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione”. Ora il Guardasigilli rischia di mettere mano al portafogli e risarcire tutti coloro che non dovevano essere arrestati. Ogni giorno di ingiusta detenzione ammonta a 250 euro. Ipotesi di un caso Tortora senza prescrizione e nell’Italia giustizialista di oggi di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 febbraio 2020 “Enzo Tortora fu condannato a dieci anni di carcere a settembre del 1985 e morì a maggio del 1988. Se ci fosse stata l’applicazione della legge che prevede la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, Enzo sarebbe morto da colpevole. Questo è inaccettabile. Faccio il nome di Tortora ma vale per chiunque”. A parlare, intervistata dal Foglio, è Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora, il protagonista del più clamoroso errore giudiziario della storia dell’Italia repubblicana. Scopelliti parla dopo aver partecipato a un convegno organizzato dal gruppo Italia viva al Consiglio regionale della Toscana sulla riforma della prescrizione, che, afferma, “non deve passare. In uno stato di diritto - dichiara - i tempi lunghi della giustizia rappresentano una denegata giustizia. Già Beccaria, in Dei delitti e delle pene, affermava che il giudizio deve essere dato in tempi brevi dalla commissione del reato. È un principio giuridico molto antico, che non può essere stravolto oggi dal ministro Bonafede”. “Garantire alla giustizia tempi rapidi è una questione di cultura giuridica. In mancanza di questa cultura, diventa necessario avere una legge che impone dei tempi precisi. Per questo mi auguro che venga accettata la proposta avanzata da Renzi di rinviare di un anno la riforma Bonafede, e che in questo anno si studi una riforma del processo penale, per arrivare ad avere una giustizia con tempi normali e accettabili”. Nel frattempo, c’è da prendere atto che proprio la vittima per eccellenza dell’errore giudiziario, Enzo Tortora, con la nuova norma che abolisce la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, entrata in vigore il 1° gennaio, avrebbe probabilmente subito un’umiliazione persino maggiore, morendo da colpevole. Arrestato il 17 giugno 1983, Tortora venne accusato di traffico di stupefacenti e di essere colluso con la camorra sulla base delle ricostruzioni di alcuni pentiti. Il 17 settembre 1985 venne condannato a dieci anni di carcere, sentenza poi ribaltata in appello un anno dopo e divenuta definitiva nel 1987. In mezzo sette mesi di carcere e gli arresti domiciliari. “Nel caso di Enzo i tempi del processo furono brevi - ricorda Scopelliti - ma questo avvenne solo perché, in primo grado, i magistrati partenopei Lucio Di Pietro e Felice Di Persia ebbero fretta di togliersi la patata bollente, visto che dalle indagini avevano capito che Enzo non c’entrava niente, e poi perché, in appello, il giudice Michele Morello invece capì che bisognava fare presto perché non c’erano elementi a sostegno di quella condanna”. Con la riforma Bonafede che abolisce la prescrizione, però, dopo la sentenza di primo grado nessun giudice avrà interesse a esprimersi in tempi brevi, col risultato che un innocente, condannato per sbaglio in primo grado, potrà restare in balia della giustizia per un tempo indefinito, ed eventualmente morire da colpevole. Uno scenario che rende inaccettabile anche la proposta di modifica avanzata dal premier Giuseppe Conte per raggiungere un accordo nella maggioranza, vale a dire il cosiddetto “lodo Conte”, che prevede l’applicazione della riforma Bonafede solo ai condannati in primo grado. “In Italia tantissimi condannati in primo grado vengono poi assolti in appello - nota Scopelliti. È proprio il carcere preventivo subìto dall’innocente a creare spesso l’errore giudiziario, perché il carcere subìto ingiustamente deve essere giustificato dal magistrato che ha provocato la detenzione. Quindi in primo grado si condanna, poi in appello ci può essere l’assoluzione”. Una dinamica perversa, riassunta perfettamente da Enzo Tortora in una delle atroci lettere che inviò alla sua compagna dal carcere (e raccolte nel libro “Lettere a Francesca”, pubblicato nel 2016 per Pacini editore): “Questi signori per salvare la loro faccia fottono me”. Nell’Italia di oggi, Enzo Tortora avrebbe rischiato non solo di morire da colpevole, ma anche di essere vittima di un’ondata giustizialista persino più feroce. “Se la vicenda fosse stata vissuta oggi, con tutti questi social network e con la diffusione sempre più veloce delle notizie, Enzo sarebbe stato massacrato. In tempi rapidissimi sarebbero arrivate cattiverie e fake news, senza nemmeno riuscire a controllarle o a controbilanciarle, e senza nemmeno riuscire a trovare i responsabili - spiega Scopelliti - Nella nostra società è cresciuta una sorta di rancore sociale, che in materia di giustizia si trasforma in una cultura giustizialista, secondo cui sono tutti colpevoli”. “Purtroppo - aggiunge la compagna di Enzo Tortora - a suggerire questa idea è anche la politica. Di Maio, che è ministro della Repubblica, non può sostenere che dietro il crollo del ponte Morandi ci siano i Benetton. Lo faccia dire a un procedimento giudiziario. Lo stesso sta avvenendo attorno al deragliamento del treno a Lodi. Sarò eccessivamente garantista, ma non me la sento di dire che la colpa è di quei cinque operai. Io voglio che si facciano le indagini e che dopo si dica di chi è la colpa. Per questo non accetto neanche le conferenze stampa dei procuratori, in cui si afferma che gli operai si sono comportati in maniera superficiale e scorretta: perché a quel punto nella società si inculca l’idea, anzi la verità assoluta, che siano stati loro. Forse sono stati loro, ma non vanno condannati preventivamente”. Scopelliti torna poi sulle parole del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che in un’intervista a La7 ha addirittura dichiarato che “gli innocenti non finiscono in carcere”: “Premetto che ormai non mi sorprende più nulla di ciò che dicono i ministri e i rappresentanti del M5s, perché sono eterodiretti e fanno propri dei concetti che non sono maturati da un’esperienza, da uno studio o da una realtà dei fatti. Io non guardo ‘Otto e mezzo’, perché la trovo una trasmissione di parte, ma quando il giorno dopo ho letto la battuta di Bonafede ho pensato che fosse completamente fuori dal mondo. Non conosce la realtà del suo paese. Se hai la fortuna di diventare ministro, devi almeno avere l’umiltà di studiare per meritare quel titolo, altrimenti diventiamo veramente il paese di Pulcinella”. Monza. Arriva il Garante dei diritti dei detenuti, in Consiglio però è polemica di Valentina Vitagliano mbnews.it, 14 febbraio 2020 Con 25 voti favorevoli e un astenuto (il consigliere di Civicamente, Paolo Piffer), il consiglio comunale di Monza ha approvato il documento che sancisce l’arrivo del garante dei detenuti. Una seduta sentita quella di lunedì sera, 10 febbraio, in virtù del delicato argomento quale è appunto il carcere di Monza. La struttura di via S. Quirico, infatti, si trova ormai da tempo a fare i conti con diverse problematiche, prima tra tutte la questione del sovraffollamento. Ed è proprio da questa premessa che il primo cittadino, Dario Allevi, ha commentato in aula il provvedimento. “Il nostro carcere ha problemi di sovraffollamento come per le altre case circondariali del Paese. - ha affermato il sindaco - Da tempo ci stiamo adoperando affinché la vita al suo interno possa migliorare. Iniziative quali l’orto coltivato dai detenuti, il giornale scritto dagli stessi ospiti, sono solo i primi tasselli messi in campo per avviare un miglioramento nel percorso rieducativo. Ora approviamo questa nuova figura che diverrà un interlocutore in più per preservare i diritti delle persone in stato di detenzione. Il mio pensiero e ringraziamento va soprattutto agli agenti di polizia penitenziaria e tutti coloro che vivono il carcere per svolgere il proprio lavoro”. Il Garante dovrà vegliare sulle condizioni di vita dei detenuti, sull’eventuale soppressione dei diritti individuali, sul rispetto della Costituzione in merito alla pena inflitta, che non dovrà essere addittivata con altre spiacevoli situazioni. Il Garante dovrà coordinarsi con l’istituzione carceraria per trovare il modo che i detenuti possano imparare mestieri o comunque poterli praticare, in un’ottica di vera rieducazione sociale, così da trasformare questi concittadini in vere e proprie risorse per la nostra comunità. Il documento, che ha accolto il parere favorevole dell’aula, ha comunque suscitato alcune polemiche. A manifestare le sue perplessità è stato il capogruppo di Civicamente, Paolo Piffer: “Peggio di non fare nulla c’è solo approvare documenti ipocriti e inefficaci. L’avevano già fatto con il regolamento della polizia, prima ancora c’è stato il bluff contro il gioco d’azzardo, stasera hanno replicato con l’istituzione del garante dei detenuti . È sempre tutto solo di facciata. Non si percepisce mai davvero l’intenzione di voler affrontare il problema in modo radicale. Non potevo rendermi complice di questa cosa, non potevo votare a favore. La questione Carcere è una cosa seria. Ci sono ragazzi che si sono tolti la vita, l’ultimo pochi giorni fa. Ci sono Agenti, medici, educatori e volontari costretti a lavorare in condizioni pietose. Mi sono permesso di proporre l’istituzione di una commissione straordinaria perché è evidente che molte cose non vanno e che è doveroso provare a capirci di più. Niente, bocciata. Secondo il Sindaco e molti consiglieri non è necessaria. E come se non bastasse oggi è successa una cosa straordinaria, il consiglio comunale ha votato contro se stesso. Praticamente per paura di “disturbare” il primo cittadino, i consiglieri di maggioranza (tranne Canesi e Capra) hanno votato contro la proposta di far partecipare il Consiglio nella scelta della figura del Garante, modalità tra l’altro già presente in molti altri comuni. Niente. Davvero ogni tanto mi chiedo come si possa fare politica in questo modo”. Trani (Bat). Sarà la seconda città della puglia ad avere un Garante dei diritti dei detenuti comune.trani.bt.it, 14 febbraio 2020 Dopo Lecce (unico in Puglia al momento) anche il Comune di Trani eleggerà il garante dei diritti delle persone private della libertà personale. L’individuazione del profilo idoneo a ricoprire questo ruolo avverrà mediante indizione di avviso pubblico, nel rispetto della tipologia di persone che possono ricoprire tale funzione (persone competenti ed esperte nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, dell’amministrazione penitenziaria e con conoscenza, documentata, della realtà carceraria). La presentazione dell’avviso pubblico con la partecipazione del garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della liberta personale, Pietro Rossi, è in programma giovedì 20 febbraio alle ore 10 presso la casa di reclusione femminile di Trani (piazza Plebiscito). La scelta di questo luogo dalla forte valenza simbolica, è stata determinata dalla volontà di questa amministrazione di sensibilizzare la comunità locale sul tema della umanizzazione e della finalità rieducativa della pena. Parteciperanno, con il garante regionale Rossi, il sindaco, Amedeo Bottaro, il presidente del Consiglio comunale, Fabrizio Ferrante, l’assessore alle culture, Felice di Lernia, l’assessore al patrimonio, Cherubina Palmieri, ed il direttore degli Istituti penali di Trani, Giuseppe Altomare. Cuneo. Cercasi volontari che stiano al fianco dei detenuti in un percorso di reintegrazione cuneocronaca.it, 14 febbraio 2020 Mercoledì 19 febbraio alle 18, presso l’Open Baladin di piazza Foro Boario a Cuneo, l’Associazione Ariaperta, che da oltre 25 anni offre sostegno morale e interventi di reinserimento sociale per persone detenute o ex detenute nella Casa Circondariale di Cuneo, si presenta alla cittadinanza. L’associazione è partner del progetto Ri.connessioni: percorsi di promozione delle relazioni famigliari e comunitarie per persone in esecuzione penale interna e esterna, selezionato dalla Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando Libero Reload 2018 e presentato dalla Cooperativa Sociale Emmanuele in collaborazione con una rete di Enti e Organizzazioni che lavorano da anni per l’inclusione sociale: il Consorzio C.I.S., la Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Cuneo, la Casa circondariale di Cuneo, la Casa di Reclusione di Alba e i Comuni di Cuneo e di Bra. Tra le numerose azioni di progetto, Ri.connessioni tenta di rispondere alla necessità di reinserimento sociale di alcuni detenuti vicini al fine pena, sia accompagnandoli in percorsi individuali di appoggio presso l’alloggio “ponte” dell’associazione Ariaperta, sia sensibilizzando le comunità locali nella costruzione di relazioni sociali, lavorative e abitative che permettano una reale integrazione. L’incontro pubblico è rivolto all’intera cittadinanza, per favorire l’avvicinamento di nuovi volontari che possano mettere in campo proprie competenze e disponibilità, in particolare per le azioni legate all’alloggio “ponte” di Cuneo. L’alloggio, messo a disposizione dell’associazione Ariaperta dal Comune di Cuneo, ospita persone in misure alternative al carcere al fine di accompagnarli ai servizi del territorio per la ricerca del lavoro, la sistemazione documentale, la ricerca abitativa, e per promuoverne la socializzazione e il ripristino di relazioni familiari. Rovigo. Il carcere minorile arriva in via Verdi di Nicola Astolfi Il Gazzettino, 14 febbraio 2020 Le notizie delle ultime ore danno quasi per certo il trasferimento del carcere minorile di Treviso nell’ex casa circondariale di via Verdi e, di conseguenza, l’addio del tribunale di Rovigo dall’attuale sede. Ma non tutti la pensano così e il presidente dell’Associazione nazionale forense Lorenzo Pavanello sostiene, secondo i dati dei tecnici interpellati dall’Associazione e dall’Ordine provinciale degli avvocati, che l’ex carcere in centro storico abbia abbastanza spazio per ospitare sia il carcere minorile sia l’allargamento urgente e indifferibile del tribunale, secondo le parole del presidente Angelo Risi, ricordate ieri da Pavanello nel suo intervento al workshop Tribunale in centro, sì! Perché?. Il coordinamento provinciale di Forza Italia ha organizzato l’evento nel tardo pomeriggio in sala consiliare a palazzo Celio: hanno partecipato più avvocati e rappresentanti delle amministrazioni e della politica locale che commercianti a un’iniziativa pensata per avviare “un lavoro collettivo, che coinvolgerà tutte le realtà interessate dal rischio dello spostamento del tribunale di Rovigo dal centro”, ha spiegato il commissario vicario di Forza Italia in Polesine Andrea Bimbatti, aggiungendo: “Da Gaffeo arrivano parole contraddittorie: il sindaco dice che le cose sono compromesse per evitare il trasferimento, ma che c’è ancora margine per fermare l’arrivo del carcere minorile”. Bimbatti ha poi riferito che fonti a 5 stelle a diretto contatto con i rappresentanti di governo, hanno confermato ieri l’arrivo del carcere minorile. Per le associazioni economiche locali sono intervenuti il presidente di Confesercenti Vittorio Ceccato e il presidente di Federmoda Giulio Pellegrini, in rappresentanza di Confcommercio. Ceccato ha ribadito il no di Confesercenti all’addio del tribunale dal centro, perché lascerebbe un ulteriore vuoto urbano in un tessuto già “impoverito da scelte urbanistiche che hanno fatto perdere a Rovigo la sua centralità”. E poi, è solo dell’altro ieri la prima riunione della cabina di regia del Distretto del commercio di Rovigo: così, quale situazione gestirebbe il neo manager del distretto, Giacomo Pessa, senza tribunale in centro? “Se spostiamo i servizi fuori dal centro storico - ha aggiunto Giulio Pellegrini - l’economia se ne va con loro”. Nonostante le notizie da Roma, s’è detto ieri che restano margini di trattativa perché il carcere minorile non arrivi nell’ex casa circondariale di via Verdi. L’ha detto l’avvocato Pavanello, spiegando che sul progetto di trasferire il carcere trevigiano a Rovigo, “alla gara iniziale di progettazione esecutiva è seguita una gara di verifica progettuale, ma poi nessuna gara di inizio lavori”. Inoltre, Pavanello ha aggiunto che sulla scorta delle consulenze tecniche richieste dalla locale Associazione nazionale forense, in accordo con l’Ordine provinciale degli avvocati, si può pensare che anche con il trasferimento del carcere minorile in via Verdi vi si possa realizzare comunque l’allargamento del tribunale. L’opzione Maddalena, invece, “è quasi impossibile dal punto di vista tecnico”, perché i lavori necessari a trasferirvi il tribunale durerebbero dai 7 ai 10 anni, spendendo 15 milioni di euro e senza avere gli spazi per i parcheggi, a meno di non abbattere alberi del parco secolare. Le alternative sono, piuttosto, gli immobili dell’ex liceo classico Celio e dell’ex Questura, oppure l’edificio che ospitava la Banca d’Italia, ma che da solo non basterebbe per i 10 mila metri quadrati al coperto necessari al tribunale. Per l’avvocato Pavanello, “gli atti amministrativi si possono negoziare. E se si è fermata una Tav, tutto è possibile. Dipende dal negoziatore”.L’ipotesi Maddalena dunque è da scartare, e la soluzione di allargare il tribunale all’ex carcere non è ancora tramontata. Napoli. Storia di Liz, dalla prigione a una nuova vita di Marìka Surace* Il Foglio, 14 febbraio 2020 Grazie al carcere di Nisida, grazie alla legge italiana. Arrestata da adolescente a Malpensa, ha cercato sua madre, ha sbagliato ancora, ha rischiato il rimpatrio e si è meritata la sua chance. L’incontro con Elizabeth, che preferisce essere chiamata Liz, è in centro storico, a poche centinaia di metri dalla stazione di Napoli Piazza Garibaldi. Qui, nell’edificio che ospitava un vecchio lanificio, c’è la sede della Cooperativa Dedalus, uno dei punti di riferimento cittadini per le fasce più deboli della popolazione, soprattutto vittime di tratta e minori. Queste strade, sempre affollate, rumorose di voci e traffico, sono le stesse che Liz ha percorso la prima volta che è uscita da Nisida. Grazie all’intervento coordinato di avvocati e operatori, ma grazie anche all’attenzione del direttore del carcere, Gianluca Guida, e del magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, nonché alla disponibilità della questura, si è applicata al caso di Elizabeth una norma del nostro ordinamento troppo spesso ignorata: l’articolo 18 comma 6 del Testo Unico Immigrazione. La norma prevede che a fine pena venga rilasciato un permesso di soggiorno a coloro che hanno compiuto il reato da minorenni. E che, durante l’esecuzione della pena, abbiano intrapreso un programma di integrazione con un’associazione accreditata. Uno strumento importante che, dopo il caso di Elizabeth, è stato applicato altre due volte, sempre a Napoli. E che consente al minore autore del reato (che, ricordiamolo, a volte è anche vittima, poiché, come nel caso di Liz, è spesso eterodiretto da adulti) di proseguire in libertà il reinserimento già intrapreso in carcere. “Non ci credevo. E non ci ho creduto fino all’ultimo giorno. Fino a quando le porte di Nisida, per me, si sono aperte. E non c’era l’incubo dell’ignoto ad aspettarmi, ma una nuova vita”. Una nuova vita che non le fa dimenticare il passato. Il cuore di Liz, che ora vive in una piccola comunità e segue dei corsi di cucito e fotografia presso la cooperativa Dedalus, è ancora in carcere. “Non posso che pensare a tutti quelli che sono rimasti lì, a quelli che usciranno presto o che hanno pene più lunghe. Cammino per le strade, ogni tanto devo ripetermi che sono libera, che sono fuori. Ma sento la loro mancanza, ci scriviamo. Vorrei che a tutti loro venisse data un’altra possibilità. Tutti sbagliamo, siamo esseri umani. Ma se inizi a credere che un altro modo di vivere è possibile, meriti una chance. Soprattutto se impari la cosa più importante di tutte: farsi aiutare, fidarsi di chi ne sa più di te. Perché non c’è niente di male a dire che da sola non ce la fai”. *Avvocato immigrazionista Milano. Musulmani e cattolici all’ora di religioni a San Vittore di Giampiero Rossi Corriere della Sera, 14 febbraio 2020 Trenta detenuti frequentano le lezioni con sacerdoti e imam. “Così il dialogo batte l’estremismo”. L’ora di religione non bastava più. Non perché sessanta minuti scorrono troppo veloci, ma perché in carcere, ancor più che nel mondo esterno, una religione sola abbraccia soltanto una parte della popolazione. E allora, su segnalazione dei cappellani dei penitenziari, la chiesa milanese e i principali punti di riferimento della comunità islamica e ebraica e le rappresentanze delle fedi che arrivano dall’Asia hanno progettato una nuova iniziativa rivolta ai detenuti: l’ora di religioni, un ciclo di incontri gestiti sempre in comprensenza da rappresentanti delle diverse confessioni e aperti a fedeli di ogni religione. Insomma, un corso per approfondire la conoscenza del libri sacri delle rispettive religioni e il valore di precetti e tradizioni. Le lezioni sono iniziate all’inizio del mese e proseguiranno fino ad aprile, all’interno della struttura scolastica di San Vittore. Gli insegnanti sono sacerdoti, imam, guide spirituali. “Il progetto nasce dalla volontà di assicurare ai detenuti la libertà di culto in un’ottica pluralista, l’unica possibile in un ambiente multireligioso com’è il carcere, ma anche di prevenire forme di radicalizzazione che possono trovare proprio nelle carceri il loro terreno di incubazione - spiega monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura e l’azione sociale - ma non si tratta di un catechismo, bensì di dialogo: voci differenti per un messaggio condiviso”. All’ultimo incontro, per esempio, erano presenti un aula proprio don Bressan e un imam legato alla Coreis (Comunità Religiosa Islamica). Uno ha parlato del Simbolo di fede, cioè del Credo che noi cattolici recitiamo ogni domenica durante la messa, l’altro ha illustrato una sura fondamentale. Entrambi hanno risposto alle domande, senza sconti, dei partecipanti e hanno evidenziato i tratti comuni delle due fedi monoteiste. “In carcere c’è una domanda di religione - sottolinea il cappellano di San Vittore don Roberto Mozzi - e l’unica figura di riferimento è a quella del cappellano cattolico”. A don Mozzi, infatti, arrivano richieste di copie del Corano o di ricevere la visita di un ministro del culto di altre religioni. Anche da qui è nata l’idea di “mettere in dialogo mondi che coesistono per offrire loro una conoscenza corretta, di se stesso e dell’altro, smontare pregiudizi e, anche, prevenire interpretazioni e approcci radicali”. Torino. Un cortometraggio per parlare di detenuti di Tony De Nardo comune.torino.it, 14 febbraio 2020 Il carcere è un mondo a sè, una città nella città, dove i diritti sono molte volte a rischio. A Palazzo Barolo secondo appuntamento di un progetto dedicato alla realtà delle case circondariali e alle vite che vi dimorano. Raffaella Dispenza, presidente Acli città metropolitana Torino, ha subito indicato le difficoltà che si incontrano per stabilire un contatto con questo questo sistema chiuso. I volontari si orientano verso le situazioni che maggiormente necessitano di un intervento, come le madri con bambini. La proiezione di un cortometraggio, basato su una favola Rom, ha mostrato (con la collaborazione delle detenute) aspetti del rapporto madre-figlio. Il progetto completo “In rel-azione: io, tu, noi” nasce dalla Convenzione tra la Casa circondariale “Lorusso e Cutugno e le Acli provinciali, consiste nella creazione di laboratori di manualità, produzione di creme e prodotti per la cura del corpo, incontri sulla fiaba e dello scambio di esperienze di essere madri. La seconda parte si è svolta a Palazzo Barlo mercoledì 12 febbraio con la proiezione del cortometraggio, realizzato con il supporto dell’Ufficio Garante dei diritti delle persone private di libertà della Città di Torino. Guerra. Weapon Watch, dall’Italia la rete globale che svela i traffici di armi di Andrea Bottalico Il Manifesto, 14 febbraio 2020 Il progetto nasce dalla mobilitazione dei portuali dello scorso anno contro il cargo saudita Bahri Yanbu. Uno strumento transnazionale di analisi dei movimenti e dei lavoratori per definire la geografia dei produttori di armi e i percorsi. Lo scorso 20 maggio la nave Bahri Yanbu, battente bandiera saudita, è attraccata al Ponte Eritrea del porto di Genova. Il cargo trasportava un carico di armi pesanti destinate all’Arabia saudita e si sospettava che avrebbe caricato altro materiale bellico in Italia. Dopo un presidio e uno sciopero è stato impedito alla nave di effettuare le operazioni di carico. “Porti chiusi alle armi, porti aperti ai migranti”, era scritto su uno striscione. Nelle stesse ore veniva impedito alla Sea Watch 3 di sbarcare migranti a Lampedusa su pressione del ministero degli Interni. La costituzione di “Weapon Watch - Osservatorio sulle armi nei porti europei e del Mediterraneo” nasce dal blocco di quella nave saudita e dall’esigenza di esplorare la realtà dell’economia di guerra. All’origine del blocco vi è stata la mobilitazione che ha coinvolto diversi gruppi indipendenti in Belgio, Francia, Spagna, Italia, che hanno seguito i movimenti della “nave delle armi” fino al presidio sulle banchine del porto di Genova. I lavoratori portuali sono stati capaci di far emergere le contraddizioni a partire da alcuni princìpi che per ragioni storiche sentono propri, facendosi carico di ciò che le autorità hanno ignorato. Piccole ruote di un gigantesco ingranaggio, i portuali avrebbero dovuto favorire con il loro lavoro un’operazione per la guerra dimenticata dello Yemen, condotta dall’Arabia saudita e sostenuta dai suoi alleati nel Golfo e in Occidente in violazione delle Convenzioni di Ginevra, della Carta Onu e del Trattato sulle armi convenzionali. A questo va aggiunta la questione della sicurezza di chi lavora in porto movimentando merci pericolose come munizioni, bombe o altri esplosivi di Classe 1, secondo l’International Maritime Dangerous Goods Code. È noto agli addetti che le Bahri entrano in porto già cariche di merci esplosive, come potrebbe constatare l’Autorità di Sistema Portuale, a cui tocca il compito del monitoraggio in tempo reale delle merci pericolose giacenti o transitanti nel porto. Weapon Watch sta pensando di presentare un esposto per la richiesta di accesso agli atti all’Autorità di Sistema del porto di Genova, che dispone del manifesto di carico delle navi in anticipo, allo scopo di esercitare ulteriore pressione. Ma che le navi saudite contengano merci pericolose possiamo affermarlo in base alle testimonianze oculari dei lavoratori dei porti in cui sono state imbarcate munizioni, o a partire dai documenti che le ong hanno potuto ottenere utilizzando il Freedom of Information Act, o ancora guardando la rotta di queste navi, che riguarda spesso porti nordatlantici ed europei militarizzati o da cui transitano i maggiori flussi delle forniture militari verso l’Arabia saudita e gli Emirati. La presenza di armi in stiva è indirettamente confermata dalle strategie di occultamento della compagnia Bahri, che da tempo ordina ai comandanti delle navi di presentarsi in porto con i portelloni interni chiusi allo scopo di impedire ai lavoratori la vista delle merci trasportate. Anche la presenza di personale di polizia durante le soste delle Bahri entro la cinta portuale testimonia i forti interessi, venuti alla luce con l’azione dello scorso maggio a Genova. Come ha sottolineato Carlo Tombola, coordinatore scientifico di Opal (Osservatorio Permanente Armi Leggere di Brescia), autore insieme a Sergio Finardi del libro La strada delle armi e tra i fondatori di Weapon Watch, è stato il movimento stesso nato dal blocco della Bahri Yanbu a decidere di dotarsi di uno strumento di conoscenza. L’associazione nasce dunque dalla volontà di creare uno strumento trasversale di analisi e un luogo critico in cui discutere, confrontare idee, creare dibattito e conflitto. “Il nostro progetto - spiega Tombola - è definire una geografia dei produttori di armi che trasportano questa merce attraverso i porti, che rappresentano il perno della filiera logistica militare. Dobbiamo e vogliamo osservare le armi che transitano nei porti attraverso la creazione di una rete nazionale e transnazionale, sia perché è nei porti che queste merci diventano meno nascoste, sia perché i lavoratori dei porti e i marittimi sulle navi non amano maneggiare queste merci mortifere”. Migranti. Hrw: il Memorandum tra Italia e Libia va sospeso di Roberto Prinzi Il Manifesto, 14 febbraio 2020 Guerra. Human Rights Watch chiede protezione per i migranti, come aveva fatto l’Onu a gennaio. L’aeroporto di Mitiga sotto le bombe di Haftar, mentre il generale della Cirenaica riceveva Di Maio. Il Memorandum d’Intesa firmato da Italia e Governo di accordo nazionale libico (Gna) nel 2017, rinnovatosi automaticamente lo scorso 2 febbraio, deve essere sospeso finché la Libia “non si impegnerà a un piano chiaro per garantire il pieno rispetto della sicurezza e dei diritti dei migranti”. A dirlo è un rapporto pubblicato l’altro ieri da Human Rights Watch. Secondo l’ong, i centri di detenzione dovrebbero essere chiusi e i migranti protetti dai trattamenti inumani e degradanti che continuano a subire. Finora, però, il governo Conte promette fuffa: il ministero degli Esteri italiano guidato da Di Maio ha annunciato lo scorso 9 febbraio di aver inviato a Tripoli delle “modifiche” che, afferma, aumenteranno la loro protezione. Ma che non cambieranno la sostanza dei fatti: la Libia non è un “porto sicuro” dove rispedire migliaia di persone intercettate in mare dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Lo ha detto a metà gennaio il segretario dell’Onu Guterres e lo ha ripetuto due settimane dopo la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, che ha invitato il nostro paese “a sospendere urgentemente” la cooperazione con la Guardia costiera libica “fino a quando non ci saranno chiare garanzie sul rispetto dei diritti umani”. Ma il governo finge di non vedere e tira dritto cercando di ritagliarsi un ruolo da protagonista sul dossier libico. Ieri Di Maio ha terminato una visita di due giorni nel paese nordafricano dove ha incontrato a Tripoli e Bengasi i principali protagonisti della crisi libica: il premier del Gna al-Sarraj e il suo nemico giurato, il capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) Haftar. Ha parlato anche d’immigrazione, discutendo con Haftar “della messa in sicurezza dei confini marittimi e di come impedire l’infiltrazione di elementi di gruppi terroristi e criminali via mare”. A tutti i suoi interlocutori Di Maio ha poi ribadito di seguire la via politica tracciata nel summit internazionale di Berlino dello scorso 19 gennaio. Una via morta e sepolta già al suo concepimento: mentre il generale (ex nemico dell’Italia) lo ascoltava, i suoi jet bombardavano l’aeroporto di Mitiga costringendolo nuovamente alla chiusura. Non solo: corpi di mortaio cadevano alla periferia meridionale della capitale, uccidevano una donna e ferivano altre quattro persone. Eppure solo poche ore prima il Consiglio di sicurezza Onu approvava una risoluzione che ribadiva la necessità per un cessate il fuoco duraturo. Non è la prima volta che la diplomazia parla una lingua diversa da quello che avviene sul campo. La duplicità della Libia non è solo militare esemplificata nella guerra tra Gna e Haftar. Ma è prima di tutto quella raccontata dalla diplomazia e quella invece vissuta dai civili. Quella di Di Maio o del suo omologo tedesco Maas che parla di “progressi” in vista di dopodomani a Monaco dove si incontreranno per la prima volta il Comitato dei seguiti e i gruppi di lavoro per attuare i risultati di Berlino. E quella dei civili sotto attacco e, soprattutto, dei più deboli tra loro: i migranti. Tre giorni fa 116 sudanesi detenuti nel centro di detenzione di Kufra sono stati riportati in Sudan dopo essere entrati “illegalmente”. “Oltre 60 di loro - ha detto il direttore della struttura - erano senza documenti ed erano portatori di gravi malattie infettive”. Gli untori del 21esimo secolo. Libia. “Gli abusi sono noti, il sostegno alla guardia Costiera libica rende Roma complice” La Repubblica, 14 febbraio 2020 Il rapporto di Human Rights Watch. “La retorica umanitaria non giustifica il continuo appoggio alla Guardia Costiera. L’Italia sa che le persone intercettate in mare subiranno abusi”. Parole dure e inequivocabili rivolte al governo italiano da Human Rights Watch in relazione alla condizione degradante e rischiosa delle decine di migliaia di migranti catturati in mare dalla Guardia Costiera Libica e trattenuti nei cosiddetti “centri di accoglienza” che però altro non sono che delle galere sovraffollate e luoghi di abusi di ogn sorta. Il governo italiano, dunque, secondo l’appello che scaturisce dal rapporto di Human Rights Watch, dovrebbe sospendere ogni sostegno alla Guardia Costiera Libica fino a quando la Libia non si impegnerà per un piano chiaro capace di garantire il pieno rispetto della sicurezza e dei diritti dei migranti. “La complicità italiana”. Il piano dovrebbe includere la chiusura dei centri di detenzione per migranti e, in particolare, la garanzia di proteggerli contro la detenzione arbitraria e i trattamenti inumani e degradanti. “L’Italia non può giustificare la sua complicità nella sofferenza dei migranti e dei rifugiati che cadono nelle mani della Guardia Costiera Libica”, ha detto Judith Sunderland, direttrice associata della divisione Europa e Asia Centrale di Human Rights Watch. “La retorica umanitaria non giustifica il continuo sostegno alla Guardia Costiera, dal momento che l’Italia sa che le persone intercettate in mare torneranno ad essere detenute arbitrariamente e a subire abusi”. La proposta di modifica della Farnesina. Il 9 febbraio 2020 il Ministero degli Esteri italiano ha annunciato di aver inviato a Tripoli la proposta di modifica del Memorandum d’intesa del 2017 che delinea il quadro della cooperazione in materia di controllo delle frontiere tra i due paesi. La dichiarazione si limita a dire che le modifiche sono finalizzate ad aumentare la protezione per i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati in Libia, e a richiedere il rafforzamento delle attività dell’agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, l’UNHCR, e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, OIM. Il 30 gennaio il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, ha riferito al Parlamento che l’Italia sosterrà la chiusura dei centri di detenzione e l’apertura di strutture sotto l’egida dell’ONU, oltre a incoraggiare un maggior numero di rimpatri volontari dalla Libia verso i paesi di origine. In 3 anni 40.000 migranti nelle galere libiche. Il supporto materiale e tecnico dell’Italia ha permesso alla Guardia Costiera Libica, sotto il riconoscimento del Governo di Accordo Nazionale (GNA) dell’ONU, di intercettare migliaia di persone in mare. La Guardia Costiera Libica ha poi riportato le persone in condizioni di detenzione arbitraria e a durata indeterminata in strutture in cui sono esposte a un alto rischio di sfruttamento e di atti di violenza, tra cui lo stupro. Il Memorandum d’intesa è stato rinnovato automaticamente per altri tre anni il 2 febbraio. Secondo i dati dell’UNHCR, quasi 40.000 persone sono state intercettate e riportate in Libia da quando il Memorandum è stato firmato tre anni fa. L’UNHCR costretta a chiudere un centro di accoglienza. Il 30 gennaio, l’UNHCR ha annunciato di essere stato costretto a chiudere il suo Centro di accoglienza e di partenza a Tripoli, a causa delle preoccupazioni per la sicurezza legate alle ostilità in corso nella capitale. Il centro era stato progettato per ospitare persone in lista per l’evacuazione e il reinsediamento in Europa e altrove, tuttavia ha ospitato altre centinaia di persone fuggite o rilasciate dai centri di detenzione ufficiali dallo scoppio del conflitto, intorno a Tripoli, nell’aprile 2019. Secondo le stime dell’UNHCR, alla fine di dicembre, circa 4.000 persone erano rinchiuse nei centri di detenzione ufficiali, ai quali le organizzazioni umanitarie e le agenzie dell’ONU hanno accesso solo sporadicamente. Le prove del sostegno italiano. Nel gennaio 2019, Human Rights Watch ha pubblicato le prove che il sostegno dell’Italia e di altri Stati membri dell’Unione Europea a favore dell’assistenza umanitaria ai migranti detenuti e ai richiedenti asilo, e dei programmi di evacuazione e rimpatrio, ha fatto ben poco per affrontare i problemi sistematici della detenzione e dei maltrattamenti dei migranti in Libia. In un rapporto di metà gennaio sulle attività della Missione di sostegno dell’ONU in Libia (UNSMIL), il segretario generale dell’ONU ha ribadito che la Libia non è un porto sicuro e ha esortato tutti i paesi membri a “rivedere le politiche che sostengono il ritorno dei rifugiati e dei migranti”. La Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha invitato l’Italia a “sospendere urgentemente” la cooperazione con la Guardia Costiera libica “fino a quando non ci saranno chiare garanzie sul rispetto dei diritti umani”. In Libia si è esposti a gravi rischi di abusi. La cooperazione con la Guardia Costiera Libica dovrebbe avvenire solo se necessario per ottemperare all’obbligo, secondo il diritto internazionale del mare, di coordinare la risposta in caso di situazioni di emergenza in mare, ha detto Human Rights Watch. In questi casi dovrebbe essere fatto ogni sforzo per assicurare lo sbarco al di fuori della Libia, finché questo paese rimane un luogo in cui i migranti sono sottoposti a una detenzione arbitraria a durata indeterminata e dove sono esposti a un grave rischio di abusi. “L’Italia torni ad essere leader nei salvataggi in mare”. “Invece di ritoccare il Memorandum d’intesa”, ha detto Sunderland, “le autorità italiane dovrebbero insistere sulla chiusura dei centri di detenzione, indirizzare le proprie risorse a sostegno di alternative sicure alla detenzione, aumentare le evacuazioni dalla Libia, comprese quelle verso l’Italia, e riprendere un ruolo di leadership nel salvare vite umane in mare”. La brutalità del carcere negli Stati Uniti di Jamelle Bouie Internazionale, 14 febbraio 2020 Il penitenziario statale di Parchman, nel Mississippi, ha un lungo passato di violenza. E non è un caso isolato, ma solo un esempio delle condizioni carcerarie negli Stati Uniti. All’inizio del 2020 nelle prigioni dello stato del Mississippi sono morte 15 persone, la maggior parte nel penitenziario statale di Parchman. La causa principale è la violenza tra detenuti: risse e accoltellamenti. Ma c’è stato almeno un caso di suicidio. I funzionari statali hanno promesso di mettere fine alla violenza. A gennaio il governatore repubblicano Tate Reeves, entrato in carica all’inizio dell’anno, ha dichiarato che avrebbe affrontato la questione il prima possibile. La cosa impressionante di questa faccenda è che non è affatto una novità. La prigione di Parchman, costruita nel 1904, ha un lungo passato di violenza. È stata riformata più volte. Ma nessun cambiamento è riuscito a spezzare il circolo vizioso della brutalità. E perché mai avrebbe dovuto? La storia di Parchman è un esempio di come la disumanizzazione e l’abbandono siano intrinsechi all’esperienza carceraria. Il Mississippi alla fine dell’ottocento era uno stato modellato sull’apartheid, in cui il sistema giudiziario si fondava sul castigo crudele e gratuito. Arrestati spesso per piccoli reati come furto o “vagabondaggio” (se si spostavano senza un permesso di lavoro), gli abitanti neri dello stato venivano multati e messi in prigione. Poi il loro lavoro veniva messo a disposizione di aziende private che li sfruttavano come schiavi nelle piantagioni. Le loro condizioni di vita erano terribili. “Mangiavano e dormivano per terra, senza materassi e spesso senza vestiti”, scrive lo storico David Oshinsky. Negli anni ottanta dell’ottocento il tasso di mortalità annuale della popolazione carceraria del Mississippi era tra il 9 e il 16 per cento. Alla fine dell’ottocento il “prestito” dei detenuti stava scomparendo, ma l’élite bianca del Mississippi rimase ossessionata dalla “criminalità negra”. A quel punto entrò in scena il governatore James K. Vardaman. Eletto nel 1903 con un programma a base di sciovinismo rurale e suprematismo bianco, Vardaman era una specie di riformatore, contrario al prestito dei detenuti. Voleva invece creare una prigione che permettesse ai criminali neri di socializzare all’interno di “un’appropriata disciplina, una forte abitudine al lavoro e il rispetto dell’autorità dei bianchi”, spiega Oshinsky. Voleva anche rendere la cosa redditizia. Sotto la sua guida, lo stato liberò migliaia di ettari di terreno vicino al delta dei fiumi Yazoo e Mississippi. Lì fu costruito il penitenziario di Parchman, dal nome della famiglia proprietaria dei terreni. Negli anni dieci era ormai autosufficiente, e si basava sugli stessi princìpi di una piantagione prima della guerra civile, con i neri al lavoro sotto la supervisione dei bianchi. Parchman sarebbe presto diventato tristemente noto per le dure condizioni di lavoro e la brutalità. Una riforma arrivò con il movimento dei diritti civili, grazie alla causa collettiva Gates contro Collicr. La sentenza del 1974 impose degli standard minimi per la detenzione negli Stati Uniti. A Parchman questo significò fine della segregazione, libertà di culto, spazio minimo per ogni detenuto e fine dei lavori forzati e spinse lo stato del Mississippi a creare un supervisore per il dipartimento penitenziario. Ma la riforma aveva dei limiti: le strutture nuove non cambiano il fatto che le prigioni siano un luogo di esclusione, in cui la società isola i cittadini più vulnerabili. Negli anni novanta, secondo un rapporto dell’Unione americana per le libertà civili (Aclu), i prigionieri del braccio della morte di Parchman dovevano sopportare “isolamento, inoperosità e monotonia ininterrotte, impossibilità di praticare esercizio fisico, puzza intollerabile e sporcizia diffusa e una costante esposizione agli escrementi umani”. Le aggressioni tra detenuti erano ancora diffuse. Parchman non è un caso isolato. È solo un esempio estremo delle condizioni delle carceri statunitensi. C’è anche di peggio. Nel 2019 il dipartimento di giustizia ha diffuso un rapporto di 56 pagine sul sistema carcerario dell’Alab ama, dove le guardie sono poche, i prigionieri devono fare i conti con alti tassi d’omicidio e aggressione sessuale e, come ha scritto il New York Times, “un detenuto era morto da così tanto tempo che, quando è stato scoperto faccia a terra, aveva il viso appiattito”. Le prigioni che ospitano chi è in attesa di processo o di condanna non sono migliori. Secondo i dati più recenti, nel 2014 in queste prigioni sono morte 1.053 persone. Il 35 per cento si è suicidato. È quasi sicuro che, a Parchman e in altre strutture, qualcosa cambierà. Ma una riforma è sempre temporanea. All’interno del sistema carcerario il margine di cambiamento è ridotto. Una prigione può essere più o meno umana, ma sarà sempre disumanizzante. La mancanza di libertà è incompatibile con la vita umana. L’unico modo di “risolvere” un problema come il sistema carcerario statunitense è porvi fine. Ma, per una società disuguale come quella statunitense, un obiettivo simile è in un orizzonte lontano. Ammesso che un orizzonte ci sia. Egitto. Zaky, sabato udienza per la scarcerazione. Amnesty: “L’Italia può fare la differenza” La Repubblica, 14 febbraio 2020 Lunedì a Bologna corteo con sindaco e rettore per lo studente arrestato in Egitto. La procura di Mansoura ha fissato a sabato 15 febbraio l’udienza per valutare la richiesta di scarcerazione presentata dai legali di Patrick Zaky, lo studente egiziano dell’università di Bologna arrestato al suo ritorno in Egitto, una settimana fa, e posto in detenzione preventiva per 15 giorni. Secondo il suo legale, rischia l’ergastolo. Ne dà notizia in una nota l’Egyptian initiative for personal rights, ong che sta seguendo il caso del giovane ricercatore, e con cui Zaky collabora in difesa dei diritti umani e di genere. Secondo l’Eipr, “oggi Patrick - detenuto nella stazione di polizia di Mansoura dall’8 febbraio scorso - è stato trasferito alla stazione di polizia di Talkha, non lontano dalla prima centrale e dall’abitazione in cui risiede la sua famiglia. La famiglia di pPtrick e un collega dell’Eipr- si legge ancora - hanno potuto visitarlo per un brevissimo momento questo pomeriggio a Talkha”. In merito alle condizioni dell’attivista, l’eipr fa sapere che zaky “è detenuto in condizioni meno favorevoli rispetto al suo primo luogo di detenzione, ma ha confermato durante il colloquio col legale e i famigliari che non è stato maltrattato o discriminato in alcun modo nel suo nuovo luogo di detenzione”. Amnesty International aveva dichiarato che Zaky è stato picchiato e torturato con scosse elettriche per 17 ore durante un interrogatorio ammanettato. Patrick Zaky è accusato di diffusione di notizie false attraverso i social network, incitamento alle proteste non autorizzate, apologia di crimini di terrorismo e attività volte a destabilizzare la sicurezza nazionale. “Questa data intermedia ci conferma che sono giorni cruciali in cui l’Italia può fare la differenza”: così Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “A caldo - spiega Noury - dico che gli avvocati se la stanno giocando bene e che ci sono piccoli segnali di attenzione, ma sul caso deve esserci ancora molta cautela”. “Bene il richiamo di ieri del presidente del Parlamento europeo David Sassoli, bene anche le parole del sindaco di Bologna Virginio Merola che ha dichiarato Patrick ‘cittadino bolognesè - sottolinea Noury - e immagino anche il lavoro non pubblico della Farnesina”. Sono giorni “cruciali” per Patrick, ripete, “l’Italia può fare la differenza”. “Il vostro supporto e la voce ci stanno aiutando molto. I prossimi due giorni saranno cruciali per tutti noi, continuate a parlare di Patrick”. Così Amr, amico egiziano dello studente di Bologna arrestato al Cairo venerdì scorso in un tweet riferendosi all’udienza fissata il 15 febbraio per discutere dell’appello dei legali di Zaki alla custodia cautelare. “È assolutamente una buona notizia - dice all’Ansa l’amico di Patrick che vive a Berlino e che ha denunciato di aver subito rapimento e torture nel 2015 - perché non è comune fissare qualcosa prima dell’udienza canonica per il prolungamento della custodia cautelare. Speriamo non sia una trappola per far pensare all’opinione pubblica che abbiamo vinto in modo che cali l’attenzione. L’hanno anche trasferito in una prigione di qualità inferiore, per così dire, dove ora è circondato da criminali, mentre prima era circondato solo da detenuti politici”. Intanto è stata indetta per lunedì 17 una manifestazione, promossa dagli studenti dell’università di Bologna per esprimere solidarietà e chiedere la liberazione di Patrick Il corteo è stato annunciato ieri e intanto la data è stata concordata con il sindaco Virginio Merola e il rettore Francesco Ubertini, che saranno presenti. Il corteo partirà alle 18 dal rettorato e arriverà in piazza maggiore. Al termine del corteo, in piazza, sono previste le letture di alcuni brani. L’invito a manifestare “è rivolto - dai promotori - a tutta la comunità universitaria”, docenti compresi, ma anche “a tutta la città e in generale a chiunque voglia venire insieme a noi a manifestare solidarietà”. Soldati Usa via da Kabul. L’Afghanistan come il Vietnam di Franco Venturini Corriere della Sera, 14 febbraio 2020 Il segretario alla difesa Esper ha annunciato al vertice Nato di Bruxelles che americani e talebani afghani sono pronti a una intesa. Ma sono fondati i dubbi sulle reali intenzioni dei talebani e sulla capacità dei loro rappresentanti di controllare un movimento tutt’altro che unito o prevedibile. La prudenza è d’obbligo, dopo che Donald Trump ha mandato all’aria nel settembre scorso un accordo con i talebani che sembrava fatto. Ma stavolta c’è anche il crisma dell’ufficialità, perché il segretario alla difesa Mark Esper ne ha parlato ieri con gli alleati al vertice Nato di Bruxelles: americani e talebani afghani sono pronti alla firma di una intesa, in verità non troppo diversa da quella negoziata lo scorso anno. È previsto un seguito di colloqui inter-afghani per cancellare l’impressione che l’amico governo di Kabul sia stato in qualche modo tradito, i talebani si impegnano a non permettere attività terroristiche come quelle che prepararono l’attacco alla Torri Gemelle, e soprattutto, perché è questo che interessa a Trump in piena campagna elettorale per la conferma alla Casa Bianca, i 13.000 soldati Usa presenti oggi in Afghanistan saranno ridotti a scaglioni successivi in modo da poter fare del ritiro un solido argomento elettorale prima del voto di novembre. Secondo quanto ha riferito Esper, l’elemento più innovativo (e singolare) è però un altro: gli Usa avevano chiesto 10 giorni senza violenza da parte dei talebani dopo l’annuncio dell’accordo, altrimenti Trump avrebbe rischiato un diluvio di critiche. I talebani hanno detto no e alla fine è stata trovata una intesa su 7 giorni di tregua. Il che non può che confermare i dubbi sulle reali intenzioni dei talebani, e anche sulla capacità dei loro rappresentanti di controllare un movimento tutt’altro che unito o prevedibile. Del resto i dubbi sull’operazione sono molteplici, riguardano il futuro della società afghana e delle donne in particolare, coinvolgono i contingenti di altri Paesi che stanno addestrando le forze afghane (gli italiani sono 850) che con la Nato dovranno decidere come comportarsi, e si riassumono nel pronostico che dopo 18 anni di guerra non vinta l’Afghanistan sia avviato a diventare un nuovo Vietnam. Ma in America si vota. L’Iran e la tortura, ma nel mondo nessuno protesta di Lucio Malan Il Riformista, 14 febbraio 2020 Violazioni dei diritti umani, sostegno al terrorismo, minacce di guerra, repressione. C’è un solo Paese che mette insieme sanguinosa repressione di pacifiche manifestazioni di protesta, sostegno evidente al terrorismo internazionale, promesse di annientare uno stato sovrano (Israele) e sistematica e grave violazione dei diritti umani, in particolare di dissidenti, donne e omosessuali. Eppure ha generalmente buoni rapporti con quasi tutti i paesi del mondo, Unione Europea inclusa. Se ne è parlato ieri in una conferenza stampa al Senato, per iniziativa di Elisabetta Zamparutti di Nessuno tocchi Caino, insieme a Laura Harth, rappresentante del Partito Radicale Trasnazionale presso l’Onu, Elisabetta Rampelli, presidente del Tribunale delle Libertà Marco Pannella, con la partecipazione dell’ex ministro degli esteri Giulio Terzi, del sottoscritto, da tempo impegnato contro gli abusi del regime di Teheran, del senatore del Pd Roberto Rampi, autore di un disegno di legge per introdurre sanzioni individuali contro i responsabili di gravi violazioni di diritti umani, e di Mahmoud Hakamian, del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana. Elisabetta Zamparutti ha presentato il dossier “I volti della repressione”, i profili di 23 esponenti del regime iraniano. I protagonisti, tra l’altro, del massacro di trentamila prigionieri politici nel solo 1988, e quelli della gravissima repressione delle recenti proteste in tutte le province dell’Iran contro il regime degli ayatollah, al quale imputano di usare i soldi della gente per portare la guerra in paesi esteri anziché migliorare la vita della popolazione. La proposta concreta è di inserire quei 23 nomi nella lista Uedelle persone da sottoporre a misure restrittive. Di questi gravi fatti, però, non si parla molto, forse perché si tratta dell’Iran, paese potente, maestro nel coltivare relazioni internazionali da almeno 2500 anni - quando si chiamava Persia. Quando ci si chiede come mai al regime iraniano vengano sostanzialmente condonate le sue condotte inaccettabili, ricordo che, secondo lo storico Plutarco, Alessandro Magno trovò negli archivi persiani le lettere del re di Persia che ordinava di pagare il grande oratore e politico Demostene perché portasse la sua potente città, Atene, su posizioni convenienti per la Persia. Sono passati più di 2300 anni, ma qualcosa mi dice che la tradizione è rimasta.