Figli di detenuti: che cosa c’è di più incivile? di Iuri Maria Prado Il Riformista, 13 febbraio 2020 Si parla spesso di vittime di illeciti e vittime di ingiustizie, mai però delle vittime più fragili di tutte: i bambini separati dai loro genitori incarcerati. Una vergogna che interroga l’intera società. E che dimostra l’inciviltà del carcere. Si parla sempre delle “vittime”, ma solo di alcune. Perlopiù ci si riferisce alle vittime degli illeciti: nei discorsi di quelli che, per vederle ripagate, vogliono sanzioni più gravi e “certezza della pena”. Altre volte si tratta delle vittime dell’ingiustizia: nei discorsi di quelli che della giustizia denunciano errori e abusi. E non c’è dubbio sul fatto che quelle e queste abbiano diritto di ricevere attenzione e cura, e va benissimo che se ne parli. Ma di altre vittime non si parla né ci si preoccupa mai, e sono le più numerose e spesso fragili. Sono i figli, spesso bambini, dei detenuti. Sono i loro compagni e le loro compagne. Sono i loro genitori. Non si pensa abbastanza attentamente, sempre che ci si pensi, a come l’inciviltà del carcere, così oscena e pressoché sempre inutile per come infierisce sulla vita del detenuto, si moltiplichi e diffonda scaricandosi impietosamente su queste vittime ulteriori e indiscutibilmente innocenti. Qui non si parla di vaghe notizie di malagiustizia di cui è possibile non sapere, o di sentenze opinabili che possono sfuggire al controllo civile degli osservatori: qui si parla del fatto notorio e indiscutibile, determinato da una giustizia teoricamente anche impeccabile, per cui la detenzione di uno produce la sofferenza di altri. Ed è un effetto del processo anche più garantito. È una conseguenza della decisione anche più corretta e meglio motivata. Perché anche il processo che più efficacemente protegge il diritto della difesa ricasca su quelle vittime quando giunge all’irrogazione della pena detentiva. Anche la sentenza più attenta e scrupolosa, quando comanda il carcere, libera tuttavia una violenza che si dirige contro la vita di quegli innocenti. Come possiamo permettere che un bambino sia separato in questo modo dal genitore, e che sia costretto a vederlo, semmai può vederlo, come si fa visita a un allevamento di bestie? Come possiamo non vergognarcene? Permettiamo che un bambino non solo sia privato del diritto di frequentare il padre o la madre, ma oltretutto che cresca nell’imbarazzo, nella vergogna per il marchio che si porta addosso: di essere figlio di un detenuto. Immaginiamola, questa domanda generalmente innocua e routinaria, il primo giorno di scuola, ai giardinetti o durante una merenda: “E il tuo papà che lavoro fa?”. Metterebbe a disagio una moglie dover rispondere: “Mio marito è in prigione”. Ma un bambino! Ho scritto: “il marchio che si porta addosso”. Ma glielo abbiamo appiccicato noi. È un contrassegno che gli imponiamo noi. Perché è colpa della comunità civile e politica che organizza in questo modo il sistema carcerario e delle pene se quel bambino non solo non può vedere il genitore ma deve anche vergognarsi del motivo per cui non può vederlo. E a ricadere su di lui non è la colpa del genitore che delinque, come una retorica balorda risponderebbe: a ricadere su di lui è la colpa di quella comunità, un complesso sociale indifferente davanti a una simile mortificazione e in ogni caso incapace di adottare alternative a quest’unica soluzione afflittivi. Una soluzione ingiusta e violenta. Una soluzione ingiustamente violenta. Anche senza aprirci verso una prospettiva decisamente abolizionista, infatti, potremmo almeno comprendere che la privazione della libertà dovrebbe riguardare unicamente i soggetti attualmente pericolosi. E non pericolosi perché beccati ad alterare un bilancio o a rubare una macchina, cose semmai da sanzionare con risarcimento e lavoro: ma pericolosi per l’incolumità e la salute delle persone. Questi devi isolarli per forza, magari senza trattarli da cani (sempre che valga il riferimento, visto che i cani sono spesso trattati meglio di tanti detenuti). E in quest’altro sistema, se fossimo completamente civili, penseremmo anche ai figli di questi pochi che purtroppo devono essere isolati dalla società. Forniremmo loro assistenza, dimostreremmo loro simpatia, assicureremmo loro ogni cura possibile per rimediare almeno un poco al torto che siamo costretti a fargli imprigionandogli la famiglia. E intanto agli altri l’avremmo restituita, e ci sarebbero meno bambini costretti ad addormentarsi e a svegliarsi pensando al padre in galera. E ad abbassare gli occhi quando gli chiedono dov’è. Restare dentro. Storie di carcerazione fisiologica a cura di Gioacchino Criaco Il Riformista, 13 febbraio 2020 “Io esco poco, il meno possibile, basta un niente a suscitarmi emozione. Devo correre in bagno. Mi succede da quella volta: ero finito in carcere, e non ci ero abituato, anzi era una cosa a cui non avevo mai pensato. Era stato per via di una foto in cui ero stato ritratto con dei miei paesani, poi qualche rimpatriata al ristorante, una telefonata di tanto in tanto. Il carcere lo conoscevo per i film americani, cercavo di non urtare gli altri, li assecondavo. Rimasi in cortile con tutti quando protestarono per il sovraffollamento, un pomeriggio di febbraio: gli agenti ci lasciarono fare, si fece sera, poi notte. Dopo l’una spruzzarono acqua in aria che ricadde già ghiaccio. Restammo a indurirci per un paio d’ore. Poi gli idranti ci sbatterono al muro, non sapevo che avessero così tanta forza. Ci fecero spogliare nudi e passare fra due file di poliziotti con casco, scudo e manganello. Io non presi botte. Me la feci addosso. Dopo due anni e passa mi assolsero. Basta una piccola emozione a mandarmi in bagno”. “Io non ce la faccio a spogliarmi davanti al mio compagno, anzi a volte non mi spoglio nemmeno se sono da sola, vado a letto vestita. Per anni, nei giorni d’udienza, mi spogliavo prima di andare in tribunale, poi al ritorno. “Tutto, si tolga tutto”, mi ordinavano le poliziotte. “Si pieghi”, “allarghi le gambe”, “apra le natiche”. Si dovevano vedere bene tutti i miei orifizi, si doveva vedere che non nascondessi nulla. Mi fecero spogliare e mi ordinarono le flessioni pure il giorno che mi assolsero e uscii. Un’amica aveva utilizzato la mia identità, servirono anni per capire che io non ero stata complice. Mi diedero anche un bel po’ di soldi oltre le scuse. Ma non li tocco quei denari, sarebbe come pagarmi gli spogliarelli, giustificarli. La mia dottoressa dice che alla fine ce la farò a mettermi nuda, anche senza la necessità che qualcuno me lo ordini”. “Io non dormo, perché appena chiudo gli occhi mi rimbomba in testa la sirena della volante sopra cui sono stato portato via una notte d’ottobre, e quando non è la sirena è il suono della battuta dei ferri delle sbarre della finestra in cella, tre volte per dì, per prevenire le evasioni. Io non sarei scappato nemmeno se si fossero dimenticati la porta aperta, che ne sapevo di fare la latitanza. Il mio terrore era di fare più di cinque anni di galera perché mi ero ricordato di aver letto da qualche parte che superata quella soglia si impazziva, irreversibilmente. Stavo anche attento a non raccogliere i punti delle merendine, anche quello segno di demenza. Ai giudici non rispondevo, mi ero fissato: che se loro, sbagliando, mi avevano messo dentro, avrebbero dovuto riparare. E loro davvero lo fecero, dopo quattro anni e prima dei spaventevoli cinque. Non mi diedero né soldi né scuse perché, dissero, il mio silenzio li aveva aiutati a proseguire nell’errore. Fortunatamente non sono impazzito, però non dormo con questo frastuono”. “Io non ho più certezze, ce le avevo quando mi hanno arrestato, ce le avevo l’anno scorso: ero un treno in corsa, sbriciolavo vite come il latte con i biscotti. Quelli come me non si fermavano con i ragionamenti. Servivano le manette o le pallottole. Così ho dato ragione a chi mi ha arrestato, ho tifato con chi mi ha condannato. E ho benedetto il vetro che al parlatoio, una volta al mese, mi ha diviso dal calore umano, la piccolezza della mia cella, il poco fiato dell’acqua nel rubinetto, l’asfissia del cubicolo, le parche parole dei due compagni due ore al giorno, gli occhi e le orecchie di telecamere e microfoni ogni minuto di ventiquattrore. Ogni dolore che mi hanno inflitto era una medaglia che mi issavo in petto. L’ho meritato tutto l’orrore del carcere al 41bis. Certo, ogni ora, di ogni giorno, per venticinque anni. Da quando è cominciato il ventiseiesimo anno di galera mi è balenato in testa il pensiero di aver pagato il giusto, che se mi cacciassero fuori mi sentirei in pace con me stesso e con la società. Starei buono, davvero, cercando di utilizzare al meglio i rimasugli di vita che ancora mi scuotono. E ora mi passa in testa che anche se non sono buono, e non sono il dato fisiologico degli errori giudiziari, forse neanche quelli che mi fanno questo siano perfettamente buoni”. Scambio di oggetti al 41bis: la Consulta deciderà sul divieto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 febbraio 2020 Il 5 maggio si esaminerà la illegittimità costituzionale del comma secondo quater, lett. f. La Corte costituzionale ha fissato la data dell’udienza pubblica in merito alla questione di illegittimità costituzionale del 41bis, relativamente alla parte del comma secondo quater, lett. f), secondo periodo, che impone all’Amministrazione penitenziaria di adottare tutte le misure di sicurezza volte ad assicurare l’assoluta impossibilità per i detenuti di scambiare oggetti tra loro, anche se appartengono al medesimo gruppo di socialità. Si terrà il 5 maggio prossimo e a discuterla per il detenuto Giambò Carmelo saranno gli avvocati difensori Barbara Amicarella e Valerio Accorretti Vianello. Della vicenda sollevata dalla Cassazione ne ha già data notizia Il Dubbio. Tutto ha avuto inizio grazie al reclamo proposto dall’avvocata Barbara Amicarella del foro de L’Aquila, in seguito al cui accoglimento, dinanzi al magistrato di sorveglianza di Spoleto, l’Avvocatura di Stato aveva proposto reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Perugia. Il ricorso veniva respinto, ma l’Avvocatura di Stato proponeva ricorso per Cassazione e in quella sede la Corte ha trasmesso gli atti alla Consulta, come del resto aveva sin dall’inizio auspicato l’avvocata Barbara Amicarella. La Corte di Cassazione adotta la soluzione dell’incidente di costituzionalità, attraverso un percorso logico. l diritto allo scambio di oggetti trova fondamento nel diritto di qualsiasi detenuto, a prescindere dal regime detentivo, a fruire di momenti di socialità tra persone ristrette, che si ritiene rientri tra quelli previsti dall’art. 1 dell’ordinamento penitenziario, tanto che esso è garantito anche ai detenuti sottoposti al regime del 41bis sebbene nell’ambito di un determinato gruppo di socialità. Ma da dove è scaturito, quindi, la necessità del divieto? Bisogna riportare ciò che dice la lettera f) dell’articolo 41bis, ovvero dove prevede l’adozione di “tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata l’assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi”. Tutto si basa sull’interpretazione data dall’inserimento del segno di interpunzione della virgola fra le parole “socialità” e “scambiare”. Non è una questione da poco, perché si potrebbe evincere che tale la disposizione avrebbe contemplato ‘ l’assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità’ e pertanto ‘ l’assoluta impossibilità’ deve ritenersi riferito alle comunicazioni fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, con l’ovvia conseguenza che non è richiesto di impedire in modo così radicale lo scambio degli oggetti. Da ricordare che il divieto di cuocere cibi, invece, è decaduto grazie alla sentenza 26 settembre 2018, n. 186 della Corte costituzionale. Infatti il tribunale di Perugia aveva accolto il reclamo dell’avvocata Amicarella, disapplicando le determinazioni assunte dall’Amministrazione penitenziaria, ordinandole di emettere un Ordine di servizio volto a consentire il passaggio di oggetti e di generi alimentari tra i detenuti facenti parte del medesimo gruppo di socialità. Ma l’avvocatura di Stato ha fatto ricorso in Cassazione, che a sua volta ha sollevato il caso alla Consulta con riferimento agli art. 3 e 27 della Costituzione, dichiarando rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale. Identica vicenda riguarda il caso del detenuto al carcere di Terni difeso dall’avvocata Piera Farina. Entrambi i casi, riuniti, saranno quindi discussi il 5 maggio davanti alla corte costituzionale. Se i detenuti non fanno l’amore possono solo peggiorare di Claudia Osmetti Libero, 13 febbraio 2020 La proposta di legge per il sesso dietro le sbarre. La Toscana chiede al governo di istituire in ogni carcere il tempo dell’affettività e una stanza dedicata. “Proibire le relazioni non serve ai fini dell’efficacia della pena”. Non c’è niente di più civile del sesso. Anche in prigione, e perché no? Il consiglio regionale della Toscana, una manciata di giorni fa, ha approvato una proposta di legge al Parlamento sulla cosiddetta “affettività in carcere”. Il concetto è semplice: pure i detenuti hanno diritto a far l’amore, dentro la struttura penitenziaria ma lontani dagli sguardi indiscreti di chicchessia. A licenziare il provvedimento è la maggioranza dem dell’ente fiorentino (tra l’altro Lega e Forza Italia, almeno a livello locale, si barricano dietro il parere contrario) e suona come una tirata d’orecchi al governo dem di Roma. Sì, insomma: è il Pd che si richiama all’ordine da solo. Anche perché il tema è di quelli tutt’altro che nuovi: se ne è parlato molto, in passato. Poi è arrivato l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando (ancora, Pd) e l’ha inserito nella bozza di riforma del sistema carcerario del 2018. Però niente, di mezzo ci si sono messe le elezioni e quell’altro dem di Paolo Gentiloni ha congelato ogni cosa. Vero, sui decreti attuativi è caduta la mannaia del governo giallo-verde: ma assieme a quella si è abbattuto anche il silenzio collettivo. E non s’è più saputo nulla. Se ne torna a discutere adesso, con un testo recapitato in parlamento che la dice chiara. “I detenuti e gli internati hanno diritto a una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro, con le persone autorizzate ai colloqui”. Partner, mogli, mariti e amanti: non stiamo lì a sottilizzare. “Le visite si svolgono in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi”. Ci mancherebbe giusto il contrario: ma visto che sul tavolo si tratta di un luogo, come le patrie galere, in cui l’intimità rasenta lo zero spaccato, conviene specificare. Questo sarebbe il comma che la regione Toscana vuole aggiungere all’articolo 28 delle norme sull’ordinamento penitenziario a cui l’esecutivo Conte Uno aveva già messo mano l’anno scorso. Non l’hanno presa tutti benissimo, va detto. I sindacati degli agenti, per esempio, saltano sulla sedia. “I nostri penitenziari non devono diventare dei postriboli”, tuona Donato Capece, segretario generale del Sappe. È preoccupato, Capece, dei possibili risvolti di un simile provvedimento. Ma il punto è un altro. “La maggior parte dei Paesi europei ha già una regolamentazione in materia”, spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio Antigone che da anni monitora quel che avviene dietro le sbarre italiane. “L’Italia è tra i pochi Stati che non ha adottato ancora nessun provvedimento”. Il detenuto resta tale - Fanalino di coda, sai che novità. “Questo è il pezzo di un discorso più ampio e abbastanza scontato”, comincia Scandurra. Sarà pure banale, però è il caso di farlo una volta per tutte. “I rapporti sessuali e affettivi dei detenuti non andrebbero impediti perché è pacifico che limitarli non è un’azione necessaria ai fini dell’esecuzione della pena”. Della serie: il detenuto rimane detenuto anche se, una volta al mese, incontra la compagna in lingerie. “Senza contare che un divieto simile ha ripercussioni anche sull’altra persona che è libera a tutti gli effetti”. Invece da noi, oggi, i carcerati possono contare su dieci minuti di telefonata (che nell’era delle connessioni no-stop è una misura fuori dal tempo) e su un colloquio familiare tenuto in un ambiente comune alla settimana. Skype, Internet e altre forme di comunicazione digitale manco a pensarci. “Eppure”, prosegue Scandurra ricordando che anche Antigone ha redatto una proposta simile a quella toscana, “le relazioni famigliari e col partner sono la cosa più importante a cui i detenuti si aggrappano il giorno in cui escono dal carcere. Per cui è fondamentale fare in modo che li possano coltivare durante tutto il periodo di detenzione”. Come diceva Voltaire - La funzione rieducativa si pone l’obiettivo del reinserimento in società, altrimenti abbiamo fallito su tutta la linea. Non serve nemmeno tirare in ballo il supercitato Voltaire: “il grado di civiltà di una nazione si misura dalle sue carceri”. Basta il buonsenso: oltre 60 suicidi all’anno (praticamente uno a settimana) sono una cifra che impressiona. Forse, checché ne dicano i manettari di tutta Italia, chi sta al fresco non si sente proprio ospite del grand hotel. “La mentalità con cui si affronta il carcere è fondamentale”, chiosa l’esperto, “se è positiva aiuta a cogliere quel poco che il sistema mette a disposizione, se è negativa fa sprofondare nel tanto che toglie. Bisogna lavorare sulla prima, anche permettendo le visite affettive”. In Sen. Mirabelli presena Ddl per consentire una telefonata al giorno ai detenuti senatoripd.it, 13 febbraio 2020 “Qualche mese fa con altri parlamentari siamo stati invitati ad un incontro a San Vittore con le persone detenute del reparto chiamato La Nave, amministrato dall’azienda sociosanitaria territoriale degli ospedali San Carlo e San Paolo. Abbiamo per due ore ascoltato richieste e testimonianze sulla condizione carceraria. Ci hanno raccontato dell’assurdità di un regolamento penitenziario che consente ai detenuti solo una telefonata a settimana senza alcuna registrazione, giustamente solo verso pochi numeri autorizzati. Non ci sono ragioni, con questi limiti, per non consentire la possibilità di avere più contatti con le famiglie per salutare i figli o avere notizie dei genitori. Per questo abbiamo presentato un disegno di legge per consentire ai detenuti comuni di poter telefonare ai propri affetti una volta al giorno”. Lo scrive il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente del gruppo del Pd. “È una proposta di umanità - prosegue Mirabelli - che aiuterebbe a migliorare la vita in carcere. Il disegno di legge porta anche le firme della senatrice Riccardi (M5S), che era con me a quell’incontro, e dei senatori Cucca (Iv) e Grasso (Leu), ma nasce da una proposta che viene dai ragazzi della Nave”. Old Wild Gratteri di Claudio Cerasa Il Foglio, 13 febbraio 2020 Il pm vuole i lavori forzati per i detenuti. Roba da film western, non da Costituzione. Premessa la massima solidarietà per le minacce ricevute dalla criminalità organizzata e l’apprezzamento per il suo impegno nel contrasto alla ‘ndrangheta, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri - uno dei magistrati più attivi sui media - dovrebbe forse essere un po’ più cauto quando offre al pubblico statistiche basate su sensazioni personali (come quelle sulla corruzione nella magistratura che sarebbe del 6-7 per cento oppure del 2-3 per cento) e anche quando fa proposte a dir poco semplicistiche di riforma della giustizia. Perché se in generale tutte hanno un sapore un po’ reazionario, alcune - nello specifico - sono proprio incostituzionali e fanno venire i brividi se escono dalla bocca di un procuratore. Intervistato da Lucia Annunziata, ad esempio Gratteri ha candidamente proposto i lavori forzati per i detenuti. C’è il problema che sarebbe illegale, ma basta cambiare nome alla schiavitù in “lavoro come rieducazione e come trattamento”: sarebbe cioè una “terapia” medica. “Abbiamo 50 mila detenuti, ma non abbiamo soldi per pagarli - è la riflessione di Gratteri - ma se dico ‘il lavoro come terapia’ non devo pagarli per lavorare, ma solo l’assicurazione”: A quel punto avremmo “spiagge, fiumi e montagne più pulite al mondo”. A Gratteri, che senza rendersi neppure conto del significato ha detto all’Annunziata di condividere il tragico motto “Il lavoro rende liberi”, ha risposto in maniera efficace l’associazione Antigone che si occupa dei diritti dei detenuti e delle garanzie del sistema penale: “Il lavoro gratuito non è altro che lavoro coatto. Il diritto internazionale vieta i lavori forzati. La storia delle tirannie - nazionalsocialista ma anche stalinista - è una storia iconograficamente nota al mondo anche tramite le immagini dei lavori forzati. Auschwitz-Birkenau era un campo di lavori forzati”. E ancora: “Il sistema penitenziario non ha bisogno di taumaturghi e soluzioni giustizialiste. Necessita di razionalità e umanità”. I prigionieri con il piccone in mano e la palla al piede, sorvegliati dagli sceriffi col fucile in spalla, sono compatibili con i film western ma non con l’articolo 27 della Costituzione. Giustizia e politica: acrobazie bipartisan di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 13 febbraio 2020 Chissà che lo spettacolo offerto in Senato non convinca tutti ad abbandonare la propaganda, concentrandosi sull’esame delle carte processuali. Quanto accaduto ieri nell’aula del Senato dimostra ancora una volta come le vicende giudiziarie siano ormai per ministri e parlamentari uno strumento di lotta politica che nulla ha a che fare con l’accertamento dei fatti e della verità. Ma soprattutto con la verifica di quanto previsto dalla legge e cioè se “il ministro inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”. E così anche il caso della nave Gregoretti - rimasta in mare per una settimana con a bordo 131 migranti soccorsi nel Mediterraneo - è stato affrontato da tutte le forze politiche senza mai analizzare in maniera approfondita la sequenza dei fatti; le diverse posizioni dei magistrati che se ne sono occupati, visto che la Procura di Catania aveva sollecitato l’archiviazione dell’inchiesta; le ragioni dell’accusa e quelle delle difesa. Tanto che persino l’imputato Matteo Salvini ha dovuto precisare nell’intervento a palazzo Madama, di non poter seguire i suggerimenti del suo avvocato Giulia Bongiorno che nei giorni lo aveva esortato a “tenere conto dei rischi del processo”. E ha continuato a sfidare avversari politici e giudici. Nel corso dell’ultimo mese, peraltro segnato dalla campagna elettorale in Emilia-Romagna e Calabria, alcuni cambi di linea sono apparsi imbarazzanti. Quando Salvini fu indagato per sequestro di persona per aver bloccato l’ingresso in un porto sicuro della nave Diciotti i ministri del governo gialloverde in carica all’epoca, Luigi Di Maio e Danilo Toninelli, ma anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, decisero addirittura di autodenunciarsi pur di dimostrare la condivisione di ogni mossa, l’unità della squadra. Con il cambio di maggioranza e l’alleanza con il Pd - governo giallorosso - i 5 Stelle sono arrivati ad accusare Salvini di “aver agito da solo” per la Gregoretti, votando sì all’autorizzazione a procedere. E questo nonostante le dichiarazioni pubbliche del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, mentre la nave era bloccata in mare, disse: “C’è un dialogo tra i ministeri delle Infrastrutture, dell’Interno e della Difesa, la posizione del governo è sempre la stessa: vengono salvaguardati i diritti, le persone che dovevamo scendere sono scese, sono monitorate le condizioni di salute, ma del problema immigrazione deve farsi carico tutta l’Europa”. Il 20 gennaio scorso, una settimana prima delle Regionali, Salvini esortò i parlamentari leghisti componenti della Giunta a concedere il via libera al processo. “Penso di essere il primo politico al mondo che chiede di essere processato”, dichiarò pensando probabilmente più alle urne che al dibattito parlamentare. Prova ne sia che ieri - passate le Regionali - ha cambiato idea e i senatori del Carroccio hanno abbandonato l’aula. Esattamente come avevano fatto gli esponenti del Pd in Giunta - scelta che sarebbe stato opportuno evitare se davvero si vogliono contestare in ogni sede le scelte del leader leghista in materia di migranti - e per questo Salvini li aveva definiti “vigliacchi”. Tra qualche settimana ci sarà un’altra occasione: per Salvini è scattata un’accusa analoga, questa volta relativa alla gestione della nave Open Arms, e il Senato dovrà nuovamente pronunciarsi. Chissà che lo spettacolo offerto ieri non convinca tutti ad abbandonare la propaganda, concentrandosi sull’esame delle carte processuali. E così dimostrando ai cittadini che il Parlamento è il luogo dove si analizza quel che accade nel Paese e si prendono decisioni in loro nome e non propri tornaconti. Perché se davvero si crede - come sostengono molti parlamentari e leader di partito - che i magistrati usino le inchieste a fini politici, dovrebbe essere proprio la politica a dover rispondere in maniera coerente e adeguata. Lasciando perdere le convenienze momentanee e gli interessi di bottega. Spazza-corrotti incostituzionale di Errico Novi Il Dubbio, 13 febbraio 2020 La Consulta: illegittima la retroattività della legge. La Corte rovescia la dottrina per tutte le norme che “incidono sulla natura della pena”. Bonafede: “Stop solo all’interpretazione”. Ma Costa (Fi) ribatte: “Gli avevo proposto di anticipare i giudici, i 5 Stelle dissero no”. La norma che vieta le pene alternative non può valere per il passato. Ora trema un altro totem dei 5S: l’equiparazione tra corrotti e mafiosi. Con una sentenza storica, la Consulta ha stabilito che l’applicazione retroattiva della “spazza corrotti” è incostituzionale. In particolare, la parte della legge che preclude, per i reati contro la Pa, l’accesso alle pene alternative al carcere non può avere effetti sui reati antecedenti l’entrata in vigore del provvedimento. Principio che, sancisce la Corte, vale per tutte le “modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative”. Il ministro Bonafede puntualizza che appunto “l’intervento della Consulta è sull’interpretazione e non sulla legge” e che “nella spazza corrotti non c’è una norma che dice di applicarla retroattivamente”. Ma il deputato di Fi Costa sostiene di aver presentato, un anno fa, “proposte per introdurre una disciplina transitoria, anticipando al guardasigilli le eccezioni di costituzionalità” e di essersi imbattuto però nel no dei 5 Stelle che, dice, “presuntuosi, hanno tirato diritto”. A fine mese la stessa norma della “spazza corrotti” sarà di nuovo vagliata dalla Corte, che potrebbe dichiararla illegittima anche per la “irragionevolezza” dell’equiparazione tra reati di corruzione e mafia. È andata oltre. Oltre il pur notevole coraggio dell’avvocato di Stato Massimo Giannuzzi. Oltre il “minimo” atteso dagli avvocati del libero Foro. La Corte costituzionale dichiara illegittima l’applicazione retroattiva della legge “spazza corrotti”. In particolare nella parte in cui preclude, a chi è condannato per corruzione, l’accesso ai benefici penitenziari. Non solo. Perché a cadere sotto la netta censura della Corte è l’interpretazione retroattiva non semplicemente di quella norma, ma di tutte le “modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione”. È perciò una pronuncia storica, una battaglia vinta, in modo memorabile, dagli avvocati, in particolare dai penalisti. Con meriti che possono essere riconosciuti, tra gli altri, anche a uno dei difensori intervenuti martedì in udienza, Vittorio Manes. L’avvocato e professore dell’università di Bologna era stato tra i primi, infatti, a pubblicare riflessioni scientifiche in grado di confutare l’applicazione retroattiva della “spazza corrotti” e, in generale, di tutte le leggi sull’esecuzione penale. Un suo intervento su Diritto penale contemporaneo, ripreso anche dal Dubbio, aveva squadernato la fragilità della dottrina secondo cui quel genere di norme avrebbe natura “processuale” anziché sostanziale” e produrrebbe perciò effetti retroattivi. Una tendenza che con la pronuncia di ieri la Corte costituzionale rovescia fragorosamente. Il giudice delle leggi, come fa notare il comunicato ufficiale, “ha preso atto che, secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, le modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione vengono applicate retroattivamente, e che questo principio è stato sinora seguito dalla giurisprudenza anche con riferimento alla Spazzacorrotti”. Ma appunto, “secondo i giudici costituzionali, invece, questa interpretazione è “illegittima” con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna”. Cade un totem. E a questo punto sembra persino secondario, collaterale, che la rivoluzione introdotta ieri dalla Corte nella giurisprudenza del diritto penale travolga anche la “spazza corrotti”. C’è però un’aggravante oggettiva impossibile a tacersi: il legislatore si era rifiutato di introdurre, persino a posteriori, un regime transitorio di applicazione. A inizio marzo dell’anno scorso, infatti, da un’iniziativa del responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico costa, messa a punto insieme con l’Unione Camere penali, si era aperto un dialogo col guardasigilli Alfonso Bonafede per arrivare a una “interpretazione autentica”, non retroattiva, della famigerata norma. Dopodiché né governo né Parlamento hanno più mostrato interesse per la faccenda. Così l’esclusione dei condannati per corruzione dalle misure alternative al carcere ha continuato a colpire decine di persone per reati commessi molti anni prima che la “spazza corrotti” entrasse in vigore. “Noi avevamo presentato proposte di legge per introdurre una disciplina transitoria della spazzacorrotti, anticipando al guardasigilli le eccezioni di costituzionalità”, è la ricostruzione di Costa. Secondo il quale “i 5 Stelle, presuntuosi, hanno tirato diritto”. Fino alla provocatoria iperbole: “Bonafede paghi di tasca propria l’ammontare delle riparazioni per le ingiuste detenzioni cagionate dalla sua testardaggine”. Il ministro deve essere certo di non avere la responsabilità politica che il deputato azzurro gli contesta, se poco dopo risponde che “l’intervento della Consulta è sull’interpretazione e non sulla legge” e che “nella spazzacorrotti non c’è una norma che diceva di applicarla retroattivamente”. Vero, ma forse proprio per questo sarebbe stato giusto ascoltare chi, come Costa, proponeva di chiarire il punto con una norma di interpretazione autentica. Bonafede chiede di “lasciare la Corte costituzionale fuori dalle polemiche” e Matteo Renzi, per tutta risposta, parla di “giustizialismo bocciato dalla Consulta”; poi con l’occhio alla prescrizione aggiunge perfido: “Non è che l’inizio. Chi ha orecchi per intendere intenda”. Certo è che come al solito è dovuto intervenire il giudice delle leggi, a compiere l’opera che invece spetterebbe in pieno al legislatore. Ed è stata così la Corte presieduta da Marta Cartabia, come recita ancora la nota ufficiale, a esaminare “le censure sollevate da numerosi giudici sulla retroattività della legge Spazzacorrotti che aveva esteso ai reati contro la pubblica amministrazione le preclusioni previste dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario rispetto alla concessione dei benefici e delle misure alternative alla detenzione”. In particolare, puntualizza impietosamente la Consulta, “era stata denunciata la mancanza di una disciplina transitoria che impedisca l’applicazione delle nuove norme ai condannati per un reato commesso prima dell’entrata in vigore della legge”. Da qui la necessità di provvedere a colmare il gravissimo, per lo stato di diritto, vuoto normativo. Secondo la Corte, infatti, “l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene, sancito dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione”. Un principio che si riflette in uno dei cardini della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, che all’articolo 7 stabilisce appunto l’irretroattività delle norme penali sostanziali. Ci voleva un giudice, per ricordarlo al legislatore. Una sentenza di grande spessore che corregge anche la Cassazione di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 13 febbraio 2020 La decisione è particolarmente importante anche dal punto di vista istituzionale perché ha dichiarato illegittima una consolidata ma erronea interpretazione della Suprema Corte. La Corte costituzionale presieduta dalla presidente Marta Cartabia ha pronunciato ieri una sentenza particolarmente importante anche dal punto di vista istituzionale, perché, tra l’altro, ha dichiarato illegittima una consolidata - ma erronea - interpretazione giurisprudenziale sostenuta dalla Cassazione. Al di là dei rapporti tra la Corte e la Cassazione, qui importa che ad esser dichiarata incostituzionale è stata una norma della c. d. legge “Spazzacorrotti” (legge 9 gennaio 2019 n. 3), fiore all’occhiello del tuttora ministro della giustizia Alfonso Bonafede e dei Cinque Stelle allora al governo con la Lega. Già di per sé un titolo così provocatoriamente propagandistico suscita inquietudine e preoccupazione. In particolare, la legge del 2019 è intervenuta su un tormentatissimo articolo dell’ordinamento penitenziario, ove si prevede che i condannati per delitti di rilevante gravità - tra cui quelli di terrorismo, eversione dell’ordinamento democratico, associazione di tipo stampo mafioso, riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, pedo-pornografia - non possono, salvo che collaborino con la giustizia, esser destinatari delle misure alternative al carcere, cioè non possono usufruire della semilibertà, dell’affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare. Ebbene, la trovata di ingegno della “spazza-corrotti” è l’estensione di quei divieti ai condannati per alcuni reati contro la Pubblica amministrazione, tra cui peculato, concussione, corruzione: come se fosse possibile equiparare la gravità dei delitti di terrorismo o di associazione mafiosa ai fatti, certamente riprovevoli ma talvolta di modesto rilievo, commessi da corrotti e corruttori. Sin qui, dunque, si può parlare di inopportunità e di superficialità dell’equiparazione propagandistica tra categorie di reati tra loro non comparabili, ma non di incostituzionalità. Tanto è vero che i 17 giudici che hanno sinora sollevato questione di legittimità costituzionale nei confronti della legge del 2019 non hanno messo in discussione questi profili. Come a dire che rientra nella discrezionalità del legislatore produrre talvolta norme poco sensate, di cui comunque la maggioranza parlamentare sarà a suo tempo chiamata a rispondere politicamente davanti al corpo elettorale. L’incostituzionalità sta nel fatto che ci si è dimenticati di inserire nella “Spazzacorrotti” una norma transitoria, volta a stabilire che il divieto di accesso alle misure alternative è operante solo quando i reati ostativi siano stati commessi dopo l’entrata in vigore della nuova legge, cioè dopo il 31 gennaio 2019. In questa “piccola” dimenticanza sta appunto il profilo di illegittimità costituzionale per violazione del principio di irretroattività della legge penale enunciato dall’articolo 25 della Costituzione, mediante la formula, di consolidata e indiscussa civiltà giuridica, in base alla quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. La stessa Avvocatura dello Stato, istituzionalmente chiamata a difendere la conformità alla Costituzione della norma di cui si sospetta l’incostituzionalità, ha eccezionalmente sostenuto in questo caso l’incostituzionalità della mancata previsione della irretroattività della legge del 2019. La Corte costituzionale si è però trovata di fronte a un ostacolo non di scarso rilievo, in quanto secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione nella nozione di legge penale non rientra la disciplina dell’esecuzione della pena detentiva. E cioè, secondo la Cassazione, la pena detentiva scontata in carcere piuttosto che in libertà, mediante l’affidamento in prova al servizio sociale, ovvero in regime di semilibertà sono piccoli particolari che non rientrano nella disciplina della legge penale. La Corte ha dichiarato questa interpretazione formalistica costituzionalmente illegittima e nello stesso comunicato diffuso dall’Ufficio Stampa ha fatto sapere che il principio costituzionale di irretroattività della legge penale si riferisce anche alle norme che incidono sulla natura della pena, trasformando il carcere in sanzione da scontare in libertà. In questo senso, cioè solo in caso di reati commessi dopo il 31 gennaio 2019, dovrà d’ora innanzi essere interpretata l’infelice legge del 2019, senza che sia neppure richiesta una iniziativa del ministro della giustizia Alfonso Bonafede, tuttora in carica. Spazza-corrotti, Formigoni: bene così ma ho trascorso mesi di carcere ingiusto di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 13 febbraio 2020 Per l’ex governatore della Lombardia l’ipotesi del risarcimento. La dichiarazione è formale: “Apprendo oggi con soddisfazione che la Corte ha ritenuto incostituzionale la retroattività della Spazzacorrotti in forza della quale, purtroppo, ho subito alcuni mesi di ingiustificata detenzione”. Roberto Formigoni non esulta più di tanto, sa che, se non ci fosse stata la legge voluta dal M5S, sarebbe uscito dal carcere “solo” qualche mese prima. Molte altre persone non ci sarebbero mai neanche dovute entrare. Condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione nel caso Maugeri, l’ex presidente della Regione Lombardia varcò la soglia di Bollate il 22 febbraio dell’anno scorso, meno di un mese dopo l’entrata in vigore la Spazzacorrotti che avrà un’influenza relativa sulla sua posizione. Come tutti coloro che hanno più di 70 anni, entrato in carcere avrebbe potuto chiedere immediatamente la detenzione domiciliare. Incensurato, senza legami con criminali, l’avrebbe ottenuta in qualche settimana se non ci fosse stata la Spazza-corrotti che nega questo e altri benefici ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione. I suoi legali, gli avvocati Mario Brusa e Luigi Stortoni,puntarono subito al superamento di questo divieto sostenendo (era già accaduto in un caso a Venezia) il principio di non retroattività della norma penale, e cioè che la nuova legge non potesse essere applicata ai reati commessi prima della sua entrata in vigore. Sostennero anche la “collaborazione impossibile”, quella che permette di concedere i benefici penitenziari anche ai condannati che non ne avrebbero diritto, se i giudici accertano che non sono in grado di dare nuovi elementi che facciano luce sulle vicende che li riguardano. Il Tribunale di Sorveglianza concesse la detenzione domiciliare e Formigoni uscì cinque mesi dopo. “C’è da augurarsi che il pronunciamento della Consulta freni una linea di politica penale giustizialista presente nei governi di questa legislatura”, aggiunge l’ex presidente le cui prospettive prossime sono un’eventuale richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione e l’affidamento in prova ai servizi sociali, che potrà chiedere all’incirca tra un anno quando la pena residua scenderà sotto i quattro anni. Cosa che avrebbero voluto fare coloro che, condannati a meno di 4 anni, senza la Spazzacorrotti non sarebbero finiti dentro perché l’ordine di carcerazione sarebbe stato sospeso in attesa della decisione dei giudici sull’affidamento. Sono in cella ingiustamente, vista la decisione della Corte costituzionale. Potrebbero essere qualche decina di detenuti in tutta Italia (un solo caso sarebbe comunque troppo) che già da oggi avrebbero diritto alla libertà. Prescrizione, Renzi ci riprova e oggi la maggioranza rischia di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 13 febbraio 2020 Italia Viva vota di nuovo con le opposizioni. Pronta un’altra insidia: un emendamento al dl sulle intercettazioni. E sullo “spazzacorrotti” la Consulta assesta il primo colpo. I renziani si schierano con le opposizioni ma la maggioranza regge senza problemi nelle commissioni prima e quinta della camera dove ieri pomeriggio si è votato ancora sulla prescrizione. Respinta la proposta Iv di sospendere per un anno la contestata riforma Bonafede. Che resta in vigore - lo è ormai da un mese e mezzo - mentre è ancora sospesa la soluzione che 5 Stelle, Pd e Leu immaginano di trovare, a questo punto con o senza il consenso dei renziani, ai problemi che la riforma ha aperto. Innanzitutto il rischio di processi interminabili, denunciato da ultimo da diversi procuratori generali durante le cerimonie di apertura dell’anno giudiziario. Stasera (alle otto) si terrà il tanto annunciato Consiglio dei ministri che dovrebbe licenziare sia il disegno di legge delega di riforma del processo penale - lo strumento per accelerare i tempi della giustizia e sterilizzare così l’impatto sui processi della cancellazione della prescrizione - sia il disegno di legge ordinario con il “lodo” che contiene le modifiche alla riforma Bonafede. Quest’ultimo però è tornato in forse, con alcuni degli alleati che ieri sera lamentavano di non ancora visionato nessun testo e i renziani che non ne vogliono sapere. È ormai certo che non si tenterà più il blitz con l’abbinamento alla proposta Costa: sarà un disegno di legge autonomo, magari quello firmato dal deputato di Leu Conte che giusto ieri è stato sganciato da quello di Forza Italia. Tempi lunghi, sarà approvato “entro l’estate”, prevede il responsabile giustizia dem Verini. Il testo di Forza Italia sarà invece bocciato a Montecitorio il 24 febbraio e non potrà essere ripresentato immediatamente in forma identica a palazzo Madama. Per la maggioranza l’insidia al senato è adesso un’altra. Un emendamento al decreto sulle intercettazioni che ripropone in quella sede la cancellazione della riforma Bonafede. In commissione a palazzo Madama la maggioranza senza il voto del commissario di Italia viva è sul filo, oggi può andare sotto o agguantare un pareggio. Il decreto sulle intercettazioni oltretutto è in forte ritardo (l’aspetta l’aula la prossima settimana per la fiducia) e ha bisogno di diverse modifiche. Il Csm ieri ha chiesto di fermarlo per altri tre mesi. Alla camera invece, nella conta nelle commissioni che stanno anche qui affannosamente esaminando il milleproroghe, Pd, 5 Stelle e Leu hanno superato lo scoglio dell’emendamento renziano (prima firmataria Lucia Annibali, ieri ignobilmente sotto attacco sui social e raggiunta dalla solidarietà di tutti i partiti): 49 voti a 40. Un margine più ampio di quello di appena due voti con il quale era stato respinto martedì sera un altro emendamento per la sospensione della Bonafede (Magi). Avrebbe potuto togliere qualche grattacapo al Pd, visto che la responsabilità dell’eventuale approvazione sarebbe ricaduta tutta sui 5 Stelle assenti. Intanto ieri la Corte costituzionale ha assestato un primo colpo alla legge cosiddetta “spazza-corrotti”. Decidendo con una sentenza interpretativa - che formalmente rigetta i dubbi di costituzionalità, ma sostanzialmente li accoglie dettando ai tribunali come interpretare d’ora in poi la legge - che è illegittima l’applicazione retroattiva delle norme che escludono i condannati per corruzione prima della spazzacorrotti dai benefici carcerari e dalle misure alternative. Ha un bel dire il ministro Bonafede che la decisione non lo riguarda e non macchia la legge che lui considera il suo fiore all’occhiello. Perché, spiega avviandosi a un’altra delle sue famose gaffe, “si interviene sull’applicazione dell’interpretazione di una norma… voglio chiarire che non c’era una norma della legge spazzacorrotti che diceva che si doveva applicare retroattivamente, quella era un’interpretazione che facevano i giudici”. Ovviamente perché così non fosse avrebbe dovuto esserci nella legge una norma opposta. E cioè la previsione di un regime transitorio che escludesse i condannati per reati commessi prima dell’entrata in vigore della spazzacorrotti dal regime peggiorativo. Ma il Movimento 5 Stelle non volle niente del genere, e anzi lo rivendicò come un successo proprio il giorno in cui al primo condannato celebre per reati contro la pubblica amministrazione, Roberto Formigoni, fu rifiutato l’accesso alle misure alternative al carcere. “È solo il primo, merito della nostra legge”, esultò il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Buffagni. La stessa presidenza del Consiglio che martedì, tramite l’avvocatura dello stato, ha riconosciuto che l’applicazione retroattiva della legge è incostituzionale. Ma soprattutto Bonafede dovrebbe essere più prudente nel dare per salva la sua legge, la stessa nel quale volle infilare all’ultimo momento la riforma della prescrizione, perché quello di ieri era solo il primo appuntamento con la Corte costituzionale. Prima della fine del mese sarà davanti ai giudici delle leggi anche il tema più generale della irragionevole equiparazione che ha fatto la spazzacorrotti dei reati contro la pubblica amministrazione con quelli di mafia e terrorismo. Arriva il superpatteggiamento. Rito per reati fino a 8 anni. E spazio alla telematica di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 13 febbraio 2020 In dirittura il ddl delega per l’efficienza del processo penale. Esteso il ravvedimento. Scorciatoia telematica per velocizzare il processo penale. Depositi di atti e documenti e notifiche in formato elettronico. E poi, meno processi in entrata (grazie al maggior rigore delle richieste di rinvio a giudizio: ci vuole la prognosi di condanna), tappe forzate per le indagini preliminari (con sanzioni disciplinari per i pm che sforano), riti alternativi amplificati (tra tutti un superpatteggiamento per reati fino a otto anni, oggi sono cinque), una falcidia degli appelli e varo del giudice unico in secondo grado, querela per le lesioni stradali e ravvedimento con oblazione per tutte le contravvenzioni. È la lenzuolata delle misure per accelerare i tempi e decongestionare i tribunali, secondo quanto prevede lo schema di disegno di legge delega per l’efficienza del processo penale, atteso in consiglio dei ministri. Il disegno di legge si occupa anche di personale amministrativo e prevede l’assunzione di una task force di 2 mila amministrativi per 24 mesi per smaltire gli arretrati e digitalizzare il rito. Trattandosi di legge delega, il ddl contiene i principi e criteri direttivi di futuri decreti legislativi. Peraltro, l’articolato consente di tracciare un quadro preciso degli intendimenti del governo. Vediamo i tratti salienti del provvedimento. Telematica. Due aspetti saltano agli occhi. Il primo è il deposito telematico di atti e documenti, ma non è ancora chiaro se sarà facoltativo o obbligatorio a tappeto. La telematica sarà usata anche per comunicazioni e notificazioni. Gli uffici manderanno al difensore tutto tramite telematica (Pec e non solo). Così facendo si semplificano anche le notifiche agli imputati (che causano nella prassi una enormità di rinvii perché non è facile reperirli), prevedendo che le notifiche agli imputati, successive alla prima, avvengano al difensore (e quindi a mezzo Pec o altro canale telematico). Indagini preliminari. Freno ai rinvii a giudizio: il pm dovrà chiedere l’archiviazione quando non c’è una prognosi favorevole di condanna (e non, come oggi, quando gli elementi a sue mani non sono idonei a sostenere l’accusa). Poi, indagini preliminari con il cronometro alla mano (da 6 mesi per i reati più lievi a un anno e mezzo per i più gravi), ma soprattutto con la tagliola della sanzione disciplinare per il pm che sfora i tempi. Tra l’altro si prevede, trascorso un lasso di tempo, l’obbligo del pm di far saper all’indagato che ci sono indagini in corso. Saranno formalizzate e ufficializzate la fasce di gravità dei reati, che rappresenteranno una modalità per individuare le priorità delle indagini, anche se non viene scalfito il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Per decidere quali reati avranno la precedenza investigativa, si dovrà tenere conto anche delle specializzazioni criminali di un determinato territorio. Superpatteggiamento. Si potranno patteggiare i reati puniti con la reclusione fino a otto anni (ora il limite è cinque). Anche se saranno comunque esclusi i patteggiamenti per strage e omicidio. Il rito abbreviato dovrà evitare lungaggini e si prevede che ci possano essere parentesi istruttorie (ad esempio sentire testimoni), ma solo se necessarie e se, comunque, si risparmia tempo rispetto a un possibile successivo processo dibattimentale. Udienze. Il ddl prevede che il giudice dovrà calendarizzare tutte le udienze del processo, si consente la lettura degli atti della polizia giudiziaria e non ci vorrà l’unanimità delle parti se una rinuncia a un testimone o altra prova. Appelli. Il difensore potrà impugnare solo se ha la delega specifica dell’imputato successiva alla sentenza da appellare. Inappellabili i proscioglimenti per reati puniti con pena pecuniaria o alternativa, le condanne sostituite con il lavoro di pubblica utilità. Introdotto il giudice unico d’appello, per i reati decisi dal giudice monocratico in primo grado. Possibile anche l’appello “non partecipato” e cioè senza le parti. Querela. Estesa alle lesioni personali stradali. Poi per tutti i reati procedibili a querela, se la vittima non si presenterà in udienza, la querela si considererà rinunciata. Ravvedimento. Estesa la possibilità di ottenere l’estinzione delle contravvenzioni, per effetto del pagamento di un’oblazione e della esecuzioni di prescrizioni ripristinatorie e risarcitorie. Ragguaglio. Un giorno di pena detentiva varrà 180 euro (ora vale 250 euro). Intercettazioni, il Csm chiede tre mesi di tempo in più di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2020 Tre mesi in più per fare entrare in vigore la riforma delle intercettazioni. Ma anche una nutrita serie di modifiche che vanno dall’utilizzo dei trojan alle prerogative della difesa. All’ordine del giorno del plenum del Csm in agenda questa mattina arriva il parere messo a punto dalla VI commissione (messo a punto dai togati Nino Di Matteo e Giuseppe Marra) sul decreto legge con il quale, a fine anno, da una parte è stata rinviato (di nuovo) il debutto della nuova disciplina e, nello stesso tempo, vi erano innestate modifiche sostanziali. Tanto sostanziali che ora se ne chiede un nuovo slittamento (non la prende bene l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando che qualifica come “incredibile” la richiesta del Csm). Infatti, osserva la bozza di parere, anche se è apprezzabile la scelta di fare riferimento, per l’applicabilità delle modifiche, alla data di iscrizione del procedimento, invece che a quella di emissione dell’autorizzazione, è prevedibile che il nuovo criterio “non sarà risolutivo di tutte le problematiche di diritto intertemporale che si porranno quando due o più procedimenti, con una diversa data di iscrizione, per alcuni antecedente e per altri successiva al 29 febbraio, siano riuniti o, all’opposto, quando da un procedimento iscritto prima del 29 febbraio ne scaturisca, per stralcio, un altro dopo tale data”. Difficoltà analoghe nel caso in cui all’iscrizione di alcuni reati, avvenuta prima del 29 febbraio 2020, ne seguiranno altre, per nuovi titoli di reato. Ma a non convincere è anche la nuova disciplina per l’uso dei trojan, dove non è chiaro il perimetro dell’allargamento dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni alla prova di reati diversi da quelli per i quali l’autorizzazione è stata concessa: nello stesso procedimento o in procedimenti diversi? E ancora, l’obbligo di vigilanza del pm perché nei verbali non vengano riportate espressioni in grado di danneggiare la privacy appare di difficile realizzazione nei casi di procedimenti con un numero elevato di operazioni da effettuare ogni giorno. La bozza di parere considera poi critico il limite temporale previsto per la conservazione delle registrazioni destinate alla distruzione una volta emessa la sentenza definitiva. “Non appare opportuno procedere alla distruzione delle registrazioni in assenza di motivate e pregnanti esigenze di riservatezza”, visto che l’esperienza giudiziaria insegna che l’intercettazione di una conversazione “può rivelarsi, anche dopo molti anni, fonte di prova preziosa e indispensabile”. Storia della nascita del giustizialismo: da Mani Pulite ai populisti passando per i girotondi di Paolo Persichetti Il Riformista, 13 febbraio 2020 È con il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati che l’azione della magistratura si impone come uno dei temi centrali della lotta politica. Dopo un decennio di consenso pressoché unanime attorno alla gestione della “emergenza giudiziaria” contro i movimenti sociali e i gruppi della sinistra rivoluzionaria armata, il protagonismo raggiunto dal sistema giudiziario comincia a essere messo in discussione. Il “caso Tortora” incrina l’unanimità del sistema politico di fronte a un’azione penale che era andata oltre la delega ricevuta oltrepassando i binari della sola repressione dei gruppi antisistema. Tuttavia questi tentativi di contrasto non indeboliscono la magistratura che, trovando una solida sponda in una parte del sistema politico (il Pci), può accrescere il proprio bagaglio di legittimità sociale erigendosi a unica istituzione integra del Paese, dopo il rovinoso effetto domino provocato dalla caduta del muro di Berlino sulle fondamenta della Prima Repubblica. Non a caso la centralità dell’azione penale si afferma definitivamente nel decennio successivo con l’avvio del ciclo d’inchieste denominate “Mani pulite”, per restare nel ventennio che segue il perno attorno al quale ruota l’agenda politico-istituzionale e si mobilitano i repertori ideologici delle nuove formazioni politiche populiste che si succedono nel frattempo: Lega, Girotondi, Idv, Popolo Viola, Rivoluzione civile, Fratelli d’Italia, M5s. Giudiziarizzazione della società - Per descrivere questa nuova realtà fu coniato un neologismo, giudiziarizzazione, un fenomeno descritto da autori come Neal Tate e Torbjorn Vallinder in un volume del 1995 che ha fatto scuola, The Global Expansion of Judicial Power, poi divulgato in Europa dai lavori di Antoine Garapon e Denis Salas. Le radici italiane della giudiziarizzazione risalgono agli anni 60, quando le porte della magistratura si aprono a ceti sociali prima esclusi favorendo lo svecchiamento della cultura giuridica. Fu allora che si mise in discussione la mancata applicazione di buona parte del dettato costituzionale, congelato da una sentenza della Corte di Cassazione negli anni in cui questa svolgeva il ruolo di supplenza della Consulta non ancora istituita. La Suprema Corte aveva suddiviso la costituzione in norme immediatamente attuabili e norme programmatiche che il legislatore avrebbe dovuto completare successivamente. Tra queste ultime si trovavano le parti a più alto contenuto innovativo in materia economico-sociale e dei diritti. Per modificare questa situazione la corrente di sinistra della magistratura cominciò a elaborare la cosiddetta “teoria dell’interferenza”, attraverso la quale - racconta Giovanni Palombarini nel suo Giudici a sinistra, 2000 - si cerca di ripristinare la completezza del dettato costituzionale attraverso un uso dell’interpretazione e delle fonti che riconosce un carattere immediatamente normativo a tutta la Costituzione. Il reintegro del dettato costituzionale con gli strumenti della “creazione giuridica”, di fronte all’inerzia o al sabotaggio legislativo della politica, fa emergere una innovativa concezione del ruolo del magistrato come “guardiano della Costituzione”: non più mero organo burocratico asservito alle gerarchie dello Stato-apparato ma “soggetto istituzionale indipendente, operante come momento di raccordo fra lo Stato e la società civile”. Questa nuova funzione interventista, contrapposta alla vecchia immagine conservatrice della casta preposta a funzioni di tutela degli interessi più forti e di salvaguardia dell’ideologia dominante, raggiunge la sua maturità intorno alla metà degli anni Settanta. La repressione emancipatrice - È questo il decennio in cui si afferma il singolare ossimoro ideologico della repressione emancipatrice, il magistrato si autopromuove avanguardia politica che interpreta i bisogni della società civile, demistifica valori e privilegi delle classi dominanti, tutela dagli abusi i ceti meno abbienti e lavora alla realizzazione di una via giudiziaria per la costruzione di una società più giusta. Il vecchio rivoluzionario di professione passa alla professione di magistrato, una contraddizione in termini che ripristina forme di Stato etico e di moralismo giudiziario, per giunta portando a invertire il rapporto tra costituzione materiale e costituzione legale, tale da indurre a credere - per esempio - che lo Statuto dei lavoratori fosse il risultato dell’azione dei “pretori d’assalto” e non delle lotte operaie. Nella seconda parte degli anni Settanta, di fronte alla contraddizione introdotta dalla spinta sociale dei movimenti rivoluzionari, si esaurisce la battaglia protesa ad abolire la sopravvivenza di leggi e codici arcaici ereditati dal vecchio Statuto albertino o fascista per sostituirli con le norme inattuate della Costituzione. Si sgretola il terreno della difesa dei diritti, delle garanzie e degli obiettivi di innovazione sociale a tutto vantaggio di una rivalorizzazione e di un ulteriore inasprimento della normativa fascista, che sanziona i reati politici e sottopone a uno Stato di polizia le libertà pubbliche. Per l’originaria concezione critica e garantista della funzione giurisprudenziale suona il de profundis, come aveva spiegato Luciano Violante, magistrato passato alla politica, sull’Unità del 27 settembre 1979: “La giurisprudenza alternativa poteva di per sé avere un significato di rottura dieci anni fa; ma oggi?”. La delega totale che il mondo politico aveva concesso alla magistratura per liquidare militarmente la dissidenza dei movimenti più radicali, porta all’affermazione del “giudice sceriffo” “. Negli anni Novanta il processo di legittimazione sociale che investe una magistratura sempre più combattente, uscita dai tribunali e scesa - come i generali golpisti - nelle piazze, nei posti di lavoro, nelle scuole, fa affiorare la percezione degli enormi spazi che l’azione penale può aprire davanti a sé. Prende forma la teoria della supplenza “del potere giudiziario, in caso di assenza o di carenze del legislativo”, che rivendica per sé un ruolo politico decisivo e una competenza illimitata che mina i parametri classici della tripartizione dei poteri. Si chiude così la parabola avviata decenni prima. Di fronte al richiamo della statualità l’originario impianto della teoria dell’interferenza escogitato con iniziali intenti progressisti si risolve nel suo contrario: un efficiente apparato concettuale impiegato per definire modelli di regolazione disciplinare della società. La politica sottomessa ai giudici di Marcello Sorgi La Stampa, 13 febbraio 2020 Sebbene molti leghisti siano seriamente preoccupati per la piega che hanno preso le cose nel “caso Gregoretti”, Salvini ha affrontato spavaldamente, com’è suo costume, la seduta del Senato conclusa con il voto che ha autorizzato il procedimento contro di lui per sequestro di persona. Invano ha consigliato prudenza, sperando in un impossibile sovvertimento del voto finale, la senatrice avvocata Giulia Bongiorno, che di processi se ne intende, avendo difeso Andreotti in quello per mafia. Né Renzi, tentato fino ha potuto mettersi di traverso alla ghigliottina voluta dalla maggioranza di governo - e in prima linea da Conte, ormai avversario diretto del leader leghista -, dopo aver votato con l’opposizione per due giorni di fila sulla prescrizione. La ragione per cui Salvini andrà a testa alta alla sbarra come imputato è molto semplice. A meno di sorprese da parte della magistratura (teoricamente il Gip potrebbe ancora decidere di archiviare tutto), quello contro il Capitano sarà il nuovo “processo del secolo”, né più né meno come quello al Divo Giulio, accusato di essere il capo politico della mafia, lo era stato a fine Novecento. Come ha spiegato la Bongiorno a Palazzo Madama, i giudici dovranno decidere se la volontà dell’allora ministro dell’Interno Salvini di tenere al largo, e impedire per giorni che potesse attraccare in porto, la nave italiana “Gregoretti” carica di 116 migranti costituisse un sequestro di persona, o non fosse invece la logica premessa politica - dura quanto si vuole, fino a un discutibile eccesso - del lavoro che nelle stesse ore stava facendo il premier Conte per ottenere ascolto da un’Europa sorda alla necessità di una redistribuzione continentale dei naufraghi, malgrado tanti impegni presi in proposito. Lo era, secondo una dichiarazione di Conte citata dalla stessa Bongiorno (ma che ovviamente andrebbe riletta nel contesto in cui fu pronunciata). Il governo italiano non avrebbe ricevuto aiuto “volontario” nell’assegnazione di quote di immigrati (dal momento che non esiste alcun meccanismo automatico concordato, e tutti i vertici europei convocati a questo scopo sono falliti miseramente), da parte di altri Paesi membri della Ue, se il caso “Gregoretti” non fosse stato al centro di un’amplificazione politico-mediatica tale da sollevare un’imprescindibile questione umanitaria, che alcuni governi europei, su pressione di Conte e grazie alla risolutezza, o forse alla spietatezza di Salvini, furono praticamente costretti ad affrontare. Si dirà che se questo è lo stato dei rapporti tra Paesi alleati, e se l’allarme anche solo per alcune decine di immigrati da sistemare è tale da rendere necessari rimedi estremi, come quelli che furono messi in atto nel luglio 2019 (con il rischio, per Salvini, di incorrere nei reati per cui adesso il Tribunale dei ministri vuol portarlo in giudizio), forse sarebbe stato meglio che il Senato avesse trovato un escamotage per evitare il processo e non fornire a Salvini il palcoscenico da cui adesso potrà esibirsi indisturbato. Magari, data la buona stagione in arrivo, mentre sulle coste siciliane o a Lampedusa gli sbarchi di clandestini riprenderanno, con conseguente allarme dell’opinione pubblica e imbarazzo del governo giallo-rosso, che sull’immigrazione non si è ancora chiarito bene le idee. Invece, com’è sempre accaduto in questi anni (con l’eccezione dell’autorizzazione a procedere negata nel 1993 a Craxi, subito dopo aggredito per strada con lanci di monetine), i parlamentari si sono sottomessi alla magistratura e hanno mandato Salvini al processo. Lo hanno fatto, non ci sarebbe neppure bisogno di dirlo, perché sperano che ne esca con le ossa rotte. Non potendo liberarsi politicamente di un avversario così temibile, che in un anno ha raddoppiato i suoi voti, pensano di farlo per via giudiziaria. E possibile. E già accaduto, ma è l’ambizione di una politica debole che scommette suvecchia legge non scritta. Secondo la quale, le sole incognite che un leader o uno statista devono temere sono i giudici, i soldi e le donne. La somma delle tre è senza scampo. Ma come dimostra Berlusconi, due sole, tante quante ne ha incrociate anche Salvini, possono rivelarsi letali. Caso Gregoretti, sì del Senato al processo per Matteo Salvini di Leo Lancari Il Manifesto, 13 febbraio 2020 152 voti contro 76, passa l’autorizzazione a procedere. Cinque senatori della maggioranza si schierano con il centrodestra. Così come era stato annunciato quando si arriva al dunque, vale a dire al momento in cui bisogna votare l’autorizzazione a procedere per il loro leader, i 60 senatori della Lega abbandonano l’aula di Palazzo Madama. Gesto plateale ma richiesto dallo stesso Matteo Salvini nell’intervento che l’ex ministro dell’Interno tiene a metà mattinata, al termine del quale si sfiora anche la rissa tra il pentastellato Marco Pellegrini e il leghista William De Vecchis. A parte questo, il giorno del giudizio parlamentare di Salvini si è concluso come previsto, con l’aula del Senato che a maggioranza (152 voti contro 76) dice sì alla richiesta del tribunale dei ministri di Catania di processarlo per sequestro di persona per la vicenda della nave Gregoretti. Si differenziano i senatori ex 5 stelle Saverio De Bonis e Carlo Martelli, del senatore Pierferdinando Casini (citato e ringraziato da Salvini) e dei due rappresentanti delle Autonomie Dieter Seger e Durnwalder Meinhard, che hanno votato a favore dell’ordine del giorno presentato da Forza Italia e Fratelli d’Italia in cui si chiedeva di negare l’autorizzazione a procedere. Ora gli atti torneranno al tribunale dei ministri di Catania per essere poi trasmessi alla procura etnea che dovrà istruire il processo. Per l’occasione nella tribuna del Senato si fa vedere anche Giorgia Meloni, venuta per esprimere solidarietà all’alleato. Le prime parole del leghista sono però un mezzo passo falso. “Permettetemi di dire che se in questa aula oggi qualcuno scappa, non è fra i nostri banchi ma fra quelli del governo” attacca sottolineando come in aula non sia presente neanche un ministro. E costringendo però per questo la presidente Casellati a intervenire ricordandogli come in occasioni simili, dove le decisioni spettano a soli senatori, non è richiesta la presenza dell’esecutivo. Annotazione pressoché ignorata. In quasi trenta minuti Salvini tocca poco e tardi il merito della questione, il mancato sbarco di 131 migranti dalla nave della Guardia costiera, preferendo dilungarsi su altro. Nomina più volte i figli, fino a provocare le proteste della maggioranza alle quali risponde ricordando come nessuno tra quanti protestano “ha ricevuto un sms con scritto Forza papà”. Accusa l’esecutivo di essere litigioso e per questo di non prendere mai decisioni, parla dei cantieri chiusi, ricorda di aver abbattuto con la ruspa una villa dei Casamonica, rivendica i decreti sicurezza e di aver chiuso alcuni centri di accoglienza per migranti. E poi cita Montanelli e, senza nominarli esplicitamente, anche Falcone e Borsellino. Quando finalmente parla della vicenda Gregoretti, lo fa per ribadire gli stessi concetti espressi da settimane: “Non ho paura del processo”, ripete ribadendo come l’intera vicenda sarebbe stata gestita in accordo con il governo. “Chiunque sapeva che votando Lega avremmo fatto di tutto per chiudere i porti e combattere l’immigrazione clandestina”, dice. Scelte e decisioni politiche prese “con i 5 Stelle. Le dichiarazioni di quei giorni di Toninelli, Bonafede e Di Maio sono del 28, 30 e 31 luglio. O c’erano, ed erano d’accordo, o c’erano e non hanno capito. E sarebbe ancora più grave”. Rivendica infine di aver difeso i confini nazionali, motivo per cui “chiariamo una volta per tutte davanti ai giudici se ho fatto il mio dovere e sono un sequestratore”. Ma la vera difesa di Salvini è affidata al suo avvocato, la senatrice Giulia Bongiorno. Per la responsabile giustizia del Carroccio nella vicenda Gregoretti “tutto il governo prese decisioni, ma non lo dico per chiamare in correità nessuno, perché nessuno ha commesso reati”. E a riprova delle collegialità delle decisioni la senatrice ricorda una frase del premier, quando Conte disse: “Noi della presidenza del consiglio abbiamo lavorato perché bisogna ricollocare e poi consentire lo sbarco”. Sarebbe sbagliato quindi, per Bongiorno, parlare di sequestro di persona: “Chi ritiene che ci sia un disvalore - è la conclusione - dovrebbe creare una fattispecie incriminatrice: rallentamento allo sbarco e poi processare Salvini”. Non la pensa così, tra gli altri, l’ex comandante della Guardia costiera ed ex M5S Gregorio De Falco che sottolinea le differenze tecniche tra la Gregoretti e la nave Diciotti per la quale in passato è stato richiesta l’autorizzazione a procedere sempre per Salvini (respinta in quel caso grazie ai voti dei M5S): “La Diciotti è una nave di 100 metri, costruita e allestita per il soccorso d’altura - ricorda il senatore -, la Gregoretti è di 60 metri e costruita per l’attività di vigilanza alla pesca e non può tenere a bordo un gran numero di persone per tanto tempo e sotto il sole: fu un’inutile crudeltà”. Salvini sfida i giudici pronto al martirio: conta sul tribunale dell’opinione pubblica di Paolo Armaroli Il Dubbio, 13 febbraio 2020 Suppongo che in questi giorni la senatrice della Lega Giulia Bongiorno, allieva di Franco Coppi e pupilla di Giulio Andreotti, abbia rimuginato su un episodio del lontano ottobre del 1922. Alla vigilia della marcia su Roma, Vittorio Emanuele III domanda al suo aiutante di campo, salvo errore il generale Cittadini, come si sarebbe comportato l’esercito nel caso di stato d’assedio. Questa la risposta: “Maestà, l’esercito farà il proprio dovere. Come sempre”. Ma poi, dopo una studiata pausa, aggiunge: “Però sarebbe meglio non metterlo alla prova”. Ecco, la Bongiorno sa bene che la magistratura è come la moglie di Cesare: al di sopra di ogni sospetto. Ci mancherebbe. Ma, previdente com’è, avrà concluso che sarebbe meglio non metterla alla prova. Non si sa mai. Ieri, nell’aula di Palazzo Madama, la Bongiorno non ha solo perorato da par suo una causa nella quale crede dal profondo del cuore. Ha fatto di più: ha battibeccato con il suo leader, nella fattispecie una sorta di suo assistito, con spunti degni di un teatro di gran classe. Lei che avrebbe voluto rubare un po’ di minuti al suo Capitano nel timore che questi si facesse del male con parole tipiche del guascone che c’è in lui. E Salvini che prima le nega un altro po’ di spazio e poi, dopo un batti e ribatti, glielo concede. Ma a malincuore. Perché questo di Palazzo Madama è stato un palcoscenico tutto per lui. Ha preteso di essere, più che soggetto percosso, protagonista assoluto. Come la sposa ai matrimoni e il morto ai funerali. Anche a costo di far disperare la Bongiorno. E già, perché un grande attore si riconosce per come entra in scena. E lui è scivolato quando ha denunciato maldestramente l’assenza dei ministri, a cominciare dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dai banchi del governo. Una critica senza il benché minimo fondamento giuridico. Perché il governo è assente a ragion veduta. Ci mancherebbe altro che dicesse la sua su un ex ministro. Pro o contro, poco importa. Difatti il giudizio su Salvini è una gelosa prerogativa del Senato della Repubblica. Un discorso a braccio, il suo. Con luci e qualche ombra. Interessato a coinvolgere un po’ tutti i ministri del Conte uno. Dopo tutto, un gioco da ragazzi. Ma con qualche citazione di troppo. Sia pure anema e core: dai diletti figlioli alla cara nonna. D’altra parte, Salvini si considera un Capitano senza macchia. E, per ciò stesso, senza paura. Come dire: mandatemi sotto processo e poi ne vedremo delle belle. Se Salvini è stato la disperazione della Bongiorno, è venuto in soccorso di quest’ultima il decano del Parlamento italiano Pier Ferdinando Casini, a suo tempo impareggiabile presidente della Camera. Le cose non le ha mandate a dire. Se la Bongiorno aveva dichiarato che in questa fase il Senato deve valutare con imparzialità i due piatti della bilancia - Salvini da un lato e la magistratura dall’altro - Casini non è stato da meno. Ha dichiarato: “Non possiamo delegare questa azione (ovverosia il giudizio su Salvini, n. d. r.) alla magistratura, in una sorta di supplenza impropria. Peraltro, la magistratura ha fatto valutazioni di merito diverse, perché la procura della Repubblica non ha fatto la stessa valutazione del Tribunale dei ministri”. In un crescendo rossiniano, Casini è stato ancora più esplicito: “Salvini oggi è un leader emergente e una figura divisiva ed è chiaro che si fa fatica a fare un discorso in astratto, come se parlassimo di Pinco Pallino e non del principale oppositore di questo governo. Ma dobbiamo sforzarci di fare così. Ricordate, colleghi, che quello che oggi capita a Salvini in teoria può capitare a tutti coloro che hanno responsabilità di governo. La ruota gira, colleghi, e quello che capita a Salvini oggi può capitare domani a Zingaretti o a qualcun altro”. Un discorso degno di affissione, come si diceva nel lessico parlamentare di una volta. Purtroppo è come se avesse parlato al muro. Salvo lodevoli eccezioni, ieri si è registrato al Senato un dialogo tra sordi. Ravvivato a tratti da una involontaria comicità. Valga per tutti l’interrogativo del democratico Dario Parrini: “Noi avremmo politicizzato la vicenda?”. Figurarsi. Parrini è un superesperto di sistemi elettorali e un buon conoscitore di storia patria. Non pago di queste indiscusse qualità, ha pensato bene di rallegrare l’assemblea con una impareggiabile facezia. Da parte sua, Salvini ha mostrato il petto al fuoco nemico. Con la speranza che giudici degni di questo nome ci siano non solo a Berlino, come confidava il mugnaio di Potsdam, ma anche a Catania. In ogni caso, da professionista della politica qual è, sa bene che al di sopra dei magistrati c’è un altro tribunale. È il tribunale dell’opinione pubblica. E così sia. Caso Gregoretti, per Salvini ora il pm potrebbe chiedere l’assoluzione di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 febbraio 2020 La procura di Catania aveva già negato l’esistenza del reato di sequestro di persona. La decisione finale dopo l’udienza davanti al gup. I paradossi del caso Gregoretti non si sono esauriti al Senato - dov’è andato in scena il balletto dei rinvii, dei voti a favore di chi era contrario e infine del non voto leghista - ma sono destinati a proseguire nel palazzo di giustizia di Catania. È lì che adesso torneranno gli atti del procedimento, e la Procura (dopo un nuovo rimbalzo di carte con il Tribunale dei ministri) dovrà chiedere la fissazione di un’udienza preliminare. Ma a chi? Di nuovo al collegio che ha già chiesto e ora anche ottenuto di processare Matteo Salvini, oppure a un ordinario giudice dell’udienza preliminare (gup) da individuare tra i sedici in servizio alle falde del l’Etna? L’iter ordinario - Una sentenza della Corte costituzionale del 2002 sembra aver chiarito che si debba andare davanti al gup, quando stabilì che l’iter processuale a carico del ministro debba proseguire “secondo le forme ordinarie, vale a dire per impulso del pubblico ministero e davanti agli ordinari organi giudicanti competenti”. Ma proprio nell’ufficio dei pm guidati dal procuratore Carmelo Zuccaro ci si sta interrogando in queste ore se quella pronuncia (che fu “interpretativa di rigetto” di un’eccezione di incostituzionalità, non di accoglimento) sia vincolante o meno. La legge costituzionale del 1989 sui reati ministeriali dispone infatti che dopo l’autorizzazione il fascicolo venga restituito al tribunale dei ministri “perché continui il procedimento secondo le norme vigenti”. Come se il soggetto chiamato a continuare fosse lo stesso tribunale e non un altro giudice. Ma un po’ perché la Consulta ha già detto la sua, e un po’ perché il tribunale dei ministri ha svolto fin qui le funzioni di inquirente, sarebbe strano che ora dovesse anche vestire i panni del giudicante chiamato a decidere sul rinvio a giudizio di Salvini. L’udienza preliminare - È dunque presumibile che la Procura uscirà da questa complessa questione tecnico-giuridica chiedendo a un gup la fissazione dell’udienza preliminare. E qui si assisterà a un’altra stranezza di questa vicenda. Solitamente, anche nei casi di “imputazione coatta” imposta da un gip al quale il pm aveva chiesto l’archiviziazione di un caso, la Procura formula l’accusa e conclude chiedendo al gup il rinvio a giudizio. Stavolta di scontato c’è solo la prima parte, e cioè la richiesta di fissazione dell’udienza preliminare con il capo d’imputazione contro l’ex ministro dell’Interno: sequestro di persona aggravato di 131 migranti commesso a Catania e Augusta, tra il 27 e il 31 agosto 2019. Non ci fu alcun sequestro - Un atto dovuto. Il resto è incerto, perché già all’esito dell’indagine svolta dal Tribunale dei ministri, gli stessi pubblici ministeri (il procuratore Zuccaro e il sostituto Andrea Bonomo, che in questo caso ha sottoscritto gli atti) avevano sostenuto il contrario: per loro non ci fu alcun sequestro. Il fatto non costituisce reato, scrissero nella richiesta di archiviazione, perché lasciare i migranti a bordo per tre giorni (al quarto fu decisa l’autorizzazione allo sbarco, sebbene formalizzata solo l’indomani), assistiti per ogni necessità, al fine di stabilire dove dovessero essere collocati una volta scesi dalla nave, non è un periodo di privazione della libertà “apprezzabile” per essere considerato un sequestro. Proscioglimento o rinvio a giudizio? - I pm potrebbero insistere su questa posizione e proporre il proscioglimento dell’imputato Salvini, oppure il rinvio a giudizio se dovessero mutare orientamento al termine dell’udienza preliminare. Nella quale l’ex ministro potrà chiedere di essere interrogato, il suo avvocato presentare nuovi atti e sollecitare nuovi accertamenti. Poi la Procura formulerà le proprie conclusioni (lì si vedrà se cambierà idea oppure no), quindi il giudice deciderà: processo o archiviazione. Misure di prevenzione senza fine, il caso Cavallotti a Strasburgo di Simona Musco Il Dubbio, 13 febbraio 2020 Irragionevole durata dei procedimenti, deciderà la Cedu. Per la prima volta la Corte Europea si potrà pronunciare su alcuni aspetti del processo, dopo il no dell’Italia a portare la questione davanti alla Consulta. L’eccessiva durata delle misure di prevenzione finisce a Strasburgo. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha infatti dichiarato ricevibile il ricorso con cui gli imprenditori Cavallotti si sono lamentati della irragionevole durata del sequestro dell’azienda di famiglia, la Euroimpianti plus srl, tenuta sotto sigilli dallo Stato per otto anni, durante i quali, sotto amministrazione giudiziaria, ha subito danni - certificati dal commercialista Giovanni Allotta - per oltre 11 milioni di euro. La vicenda è quella degli imprenditori di Belmonte Mezzagno, in provincia di Palermo, assolti da ogni accusa di mafia eppure spogliati di tutto dallo Stato, che ha riconosciuto l’errore solo lo scorso anno, certificando la provenienza lecita di quei beni. E ora, dopo il rifiuto della Corte di Cassazione di portare la questione davanti alla Corte costituzionale, a confrontarsi con i tempi biblici delle misure cautelari reali sarà, per la prima volta in assoluto, la Corte europea. Un fatto storico, che affonda le proprie radici in un iter lungo e travagliato, iniziato nel 2011. La vicenda è stata portata davanti al tribunale di sorveglianza dall’avvocato Rocco Chinnici, che ha evidenziato il superamento del limite temporale del primo grado del giudizio di merito nel procedimento di prevenzione, fissato dalla legge in un anno e sei mesi, fino a un massimo di due anni e mezzo in caso di ricorso al meccanismo della proroga. Un limite che rappresenta “una garanzia di ragionevolezza e proporzionalità nell’applicazione di una misura cautelare reale”. Ma tribunale prima e Cassazione poi hanno respinto la richiesta, sostenendo che il termine di estinzione del procedimento “rimane sospeso” durante lo svolgimento degli “accertamenti peritali” e ciò “per tutta la durata di essi”. Un’interpretazione, ha obiettato Chinnici, che comporterebbe una abrogazione implicita dei termini massimi di durata del procedimento, stante l’indeterminatezza dei tempi degli accertamenti peritali, determinando “un grado intollerabile di incertezza e di allungamento del periodo di sospensione, in contrasto assoluto con il principio costituzionale e convenzionale della ragionevole durata del processo”. Dopo la restituzione dei beni, che per la famiglia rappresentava la “fonte di sostentamento economico”, i Cavallotti si sono ritrovati in mano una “scatola vuota”. Una beffa, considerando anche lo stigma sociale che, nonostante le assoluzioni, li ha trasformati in mafiosi e, dunque, reietti, spiega al Dubbio l’avvocato Stefano Giordano, che ha portato la questione davanti alla Cedu. Che, dunque, affronterà non il tema della restituzione, ma, per la prima volta la questione dell’irragionevole durata del processo dal punto di vista delle misure di prevenzione, nonché la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare e della protezione della proprietà. Una sorta di “esperimento che rappresenta un nuovo filone”, aggiunge Giordano. E anche una specie di eccezione, dal momento che circa il 90 per cento dei ricorsi presentati alla Cedu viene dichiarato irricevibile. “Per me è una grande soddisfazione personale - commenta Pietro Cavallotti, uno degli eredi dell’azienda ormai ridotta all’osso. Io non ho studiato legge per avere un titolo da sbattere in faccia alla gente e neppure per interesse professionale. L’ho fatto solo per aiutare la mia famiglia ad uscire dall’inferno in cui altri l’hanno scaraventata. Trovare strade che nessuno ha mai percorso prima, quando tutti ti dicono che è tempo perso, cogliere il frutto dello studio sofferto, dà grande soddisfazione. Indipendentemente da come andrà a finire, sarà una decisione che farà giurisprudenza”. Alle Sezioni unite l’inserimento della recidiva qualificata tra le aggravanti ad effetto speciale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Ordinanza 12 febbraio 2020 n. 5555. Saranno le Sezioni unite a stabilire se il riferimento alle aggravanti ad effetto speciale per alcuni reati contro il patrimonio riguardi anche la recidiva qualificata, ai fini della procedibilità d’ufficio. La Corte di cassazione chiama in causa il Supremo consesso per sciogliere un dubbio non di poco conto. L’occasione alla sezione remittente (ordinanza 555) arriva da un ricorso del Pm contro la dichiarazione di estinzione del reato di appropriazione indebita aggravata anche dalla recidiva specifica, nei cinque anni, per remissione di querela. Il Pg presso la Corte d’Appello ha chiesto l’annullamento della sentenza impugnata per violazione della legge penale. La norma presa in considerazione dalla pubblica accusa e dai giudici è il Dlgs 36/2018. Per il Pm è vero che l’articolo 10 ha esteso a tutte le fattispecie di appropriazione indebita il regime di procedibilità a querela, ma l’articolo 11 dello stesso decreto ha introdotto nel codice penale l’articolo 649-bis che, per quanto riguarda il caso specifico, prevede la procedibilità di ufficio del reato di appropriazione indebita se c’è un’aggravante ad effetto speciale, come ritenuta quella contestata. Per la Cassazione è dunque il caso di passare la parola alle Sezioni unite per capire se “il riferimento alle aggravanti ad effetto speciale contenuto nell’articolo 649-bis del Codice penale, ai fini della procedibilità d’ufficio per taluni reati contro il patrimonio (articolo 640, comma terzo, del Codice penale, ; fatti di cui all’articolo 646, secondo comma, o aggravati dalle circostanze di cui all’articolo 61 primo comma n.11 del Codice penale, vada inteso come riguardante anche la recidiva qualificata di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 99 dello stesso Codice”. Il collegio remittente sottolinea che nella giurisprudenza di legittimità, che si è formata dopo l’entrata in vigore del Decreto legislativo 36/2018, la questione proposta non è mai stata risolta con una motivazione espressa. Gratuito patrocinio, quanto dovuto alla parte civile non lo decide la Cassazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 12 febbraio 2020 n. 5464. Nel giudizio di legittimità spetta alla Cassazione la condanna generica dell’imputato ricorrente al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio. Mentre saranno il giudice del rinvio o quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato a liquidare tali spese emettendo il decreto di pagamento. Le Sezioni unite della Cassazione, con la sentenza 5464, dirimono il contrasto sul punto e prendono le distanze dall’orientamento che affidava alla Suprema corte anche il compito di liquidare le spese. Il contrasto riguardava l’individuazione, per il giudizio di Cassazione, del giudice competente a liquidare le spese sostenute dalla parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato e ad emettere, sempre in sede di legittimità, il decreto di liquidazione degli onorari in favore del suo difensore. Il Supremo consesso si affida all’interpretazione letterale della norma, sulle spese di giustizia (articolo 83 del Dpr 115/2002) che, nel caso specifico, non si presta ad ambiguità. Il comma 2 dell’articolo 83 dispone infatti che “la liquidazione è effettuata al termine di ciascuna fase o grado del processo e, comunque, all’atto della cessazione dell’incarico, dall’autorità giudiziaria che ha proceduto; per il giudizio di cassazione, alla liquidazione procede il giudice di rinvio, ovvero quello che ha pronunciato la sentenza passata in giudicato”. La Cassazione ricorda che le spese processuali che gravano sulla parte civile non sono limitate all’onorario e agli esborsi relativi al difensore. Per questo non si può affermare che gli importi delle due liquidazioni debbano coincidere. Ma è necessario coordinarle. La soluzione sta nella parte di giurisprudenza che affida alla Cassazione il compito “di condannare nell’an”, affermando il diritto della parte civile al ristoro delle spese processuali, mentre la quantificazione sarà determinata in seguito, tenendo conto della liquidazione dell’onorario e delle spese per la difesa. Una scelta che assicura la tutela dei diversi interessi in gioco. Nel caso esaminato dalla Sezione remittente la Cassazione aveva invece determinato l’ammontare delle spese. Un sbaglio da correggere con la procedura dell’errore materiale. Toscana. “Urgente la nomina del Garante dei diritti dei detenuti” controradio.it, 13 febbraio 2020 La consigliera regionale Spinelli (Gruppo misto) sollecita la nomina del nuovo Garante dei diritti dei detenuti e chiede un confronto trasparente nel merito delle candidature. “La nomina del Garante dei diritti dei detenuti continua a tardare e la Commissione consiliare competente non ha ancora avviato la discussione in merito alle candidature pervenute. Dopo la scadenza, anche della proroga fino al 24 gennaio, del mandato del dott. Corleone, l’assenza di questo organo di garanzia priva la Toscana, le sue istituzioni, le associazioni e le realtà impegnate sul tema, e in particolare gli stessi detenuti, di un riferimento imprescindibile per la tutela e il rispetto dei diritti delle persone private della libertà personale, in nome della garanzia di una detenzione dignitosa e sempre tesa alla rieducazione del condannato, così come previsto dalla nostra Costituzione. Per questo deve essere scongiurato ogni ulteriore rinvio e allungamento dei tempi e chiedo che la questione sia affrontata con urgenza e attenzione nelle sedi competenti, a partire dalla Prima Commissione che auspico proceda quanto prima con la convocazione e l’audizione dei candidati” - dichiara la consigliera regionale Serena Spinelli. “La scelta di chi andrà a rivestire questo importante ruolo deve essere frutto di un confronto aperto e trasparente, che tenga conto delle competenze e del programma dei candidati e di un convergenza la più ampia possibile da parte delle forze politiche. Ed è importante che a farlo sia il Consiglio uscente, per garantire nei prossimi anni la massima autonomia al Garante. Chiedo anche che si rispetti l’impegno che il Consiglio regionale si è assunto, con l’approvazione all’unanimità della mozione che ho presentato ad ottobre, con la quale si è impegnato a valutare, prima della nomina, le nuove Linee d’indirizzo in merito alla disciplina degli Organi regionali di Garanzia adottate dalla Conferenza delle Regioni, che hanno l’obiettivo di rendere omogenee e rafforzare le prerogative e le modalità operative dei Garanti”. - prosegue Serena Spinelli (Gruppo misto). “In tal senso raccolgo e ringrazio per l’appello rivolto al Consiglio regionale da parte delle associazioni di tutela dei diritti dei detenuti, dai rappresentati delle Camere penali di Firenze e Prato e dai Garanti comunali di Firenze e Prato affinché si proceda quanto prima all’esame nel merito delle candidature e alla nomina del nuovo Garante, rilanciato ieri attraverso un loro comunicato alla stampa e con una lettera che mi hanno indirizzato personalmente” - conclude la consigliera regionale Serena Spinelli. Calabria. Il Garante dei detenuti: “Istituire l’Osservatorio per la sanità penitenziaria” Giornale di Calabria, 13 febbraio 2020 Il Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Agostino Siviglia, ha inviato al Commissario Cotticelli e ai vertici dell’Amministrazione penitenziaria oltre che al Dirigente del Dipartimento salute della Regione Calabria una nota in cui sollecita l’istituzione dell’Osservatorio regionale permanente per la sanità penitenziaria. “Le complesse problematiche dell’assistenza sanitaria in carcere - scrive Siviglia - impongono l’immediato intervento di tutti coloro che interagiscono con il sistema penitenziario calabrese”. “Già in occasione degli Stati Generali dell’esecuzione penale in Calabria, fortemente voluti dal Garante regionale, si era convenuto di attivare al più presto l’osservatorio permanente al fine di fronteggiare le diverse urgenze che riguardano i vari istituti penitenziari calabresi nel delicatissimo ambito della salvaguardia del diritto fondamentale alla salute sancito dall’art. 32 della Costituzione”. “A distanza di due mesi - prosegue Agostino - ancora non si è proceduto ad emanare il relativo decreto di istituzione dell’organismo; nel mentre continuano i gravi disagi negli istituti penitenziari calabresi e, in particolare, in quello di Reggio Calabria Arghillà che soffre di un’endemica carenza di personale medico specialistico e non riesce a garantire la copertura infermieristica 24 ore su 24”. Il Garante Siviglia, da anni denuncia tale insopportabile situazione che “purtroppo ha portato a conseguenze irrimediabili, tra le quali si ricorda la morte in carcere, il 18 marzo 2018, del giovane detenuto Antonino Saladino, ancora oggi rimasta inspiegata”. “Il Garante Siviglia, nel sollecitare l’urgenza dell’intervento di chi di dovere, auspica un immediato riscontro a questa ulteriore segnalazione in difetto della quale intende coinvolgere i vertici dell’Amministrazione della giustizia, locali e nazionali nonché del Ministero della Sanità, non essendo più tollerabile il perdurare di tale situazione”. Messina. Rosa e le altre, in prigione per “associazione di stampo amoroso” di Sergio D’Elia* Il Riformista, 13 febbraio 2020 Imputate “ma già colpevoli perché mogli, figlie, sorelle”. Se non ci fossero il muro di cinta e le garitte, lo confonderesti con quelle palazzine tipiche dell’edilizia residenziale della fine degli anni 50. Tre piani al massimo, tirati su con molto mattone e poco cemento armato, la materia prima delle case popolari e delle carceri costruite negli anni 80, cosiddette “d’oro” solo per quanto sono costate, per il resto grigie, fredde d’inverno e bollenti d’estate, destinate alla fatiscenza nel giro di vent’anni. La Casa Circondariale Gazzi di Messina si presenta in condizioni generali dignitose, quasi tutti i reparti sono stati ristrutturati e sembrano nuovi, forse perché i lavori sono stati quasi totalmente realizzati “in economia”, senza gare d’appalto esterne e grazie solo a qualche unità di manodopera detenuta. Come annunciato a Rita Bernardini, il direttore accoglie con una sorpresa la delegazione di Nessuno tocchi Caino e della Camera Penale di Messina. Ci porta a vedere il teatro, il “Piccolo Shakespeare”, inaugurato a dicembre 2017: uno scrigno di bellezza dentro un luogo di bruttezza, creato da due donne straordinarie, il direttore del carcere Angela Sciavicco e il direttore artistico del teatro Daniela Ursíno, per cercare di contenere con leggerezza e umanità la natura di uno spazio e di un tempo che sono pur sempre quelli di privazione della libertà. Lì assistiamo a un saggio di teatro-danza delle detenute in Alta Sicurezza che, dando corpo alle proprie emozioni e alla propria anima, interpretano le più belle canzoni di Mina. Le ritroveremo nella sezione femminile dove vediamo l’altra faccia del carcere, la più dolente, quella della pena e della sofferenza che strutturalmente connotano il carcere, questo monumento anacronistico della storia ottocentesca dei delitti e delle pene, che gli analfabeti costituzionali della “certezza della pena” vorrebbero conservare in eterno, ristrutturare ogni tanto ed edificare ancora per far fronte a tutte le paure del nostro tempo e della nostra società. Che il carcere, e prima ancora il diritto penale, sia un sistema da superare è opinione sempre più diffusa, che ha colpito la mente anche di chi non t’aspetti, come Beppe Grillo: all’insaputa dei Cinque stelle al governo e in parlamento che vogliono chiudere la gente in cella e buttare via la chiave, ha detto che “il carcere è dannoso e, quindi, va abolito”. Se hai la disgrazia di ammalarti, in carcere il danno rischia di essere irreparabile. È quello che sta accadendo a Rosa Zagari, che incontriamo con Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti in una cella della sezione femminile. Un anno fa, quando era a Reggio Calabria, è caduta nel bagno del carcere e si è rotta due vertebre. I sanitari dell’ospedale e quelli del carcere le hanno prescritto l’uso costante del busto, che sarebbe stato montato però in modo irregolare e tenuto per sei mesi, tre mesi di troppo secondo la normale prassi terapeutica. I postumi della caduta, dopo un anno, sono evidenti. Se sei in carcere, tutto diventa più grave: non puoi scegliere un medico di fiducia, non puoi andare nella clinica migliore, non puoi dire la tua sulla prescrizione della terapia più idonea, non puoi avere un letto adeguato alla tua condizione clinica, non puoi, non puoi, non puoi. Rosa la vediamo che non riesce a camminare regolarmente senza l’aiuto di una compagna di cella e avverte fortissimi dolori a ogni movimento che - dice - sembra che la schiena le si stia spezzando. La troviamo stesa sul letto con due cuscini che la sollevano un po’ e, forse, alleviano i dolori. È uno scricciolo, forse più piccola di quanto sia mai stata, per il peso perso durante la detenzione o per via della malattia. È vestita di nero, il colore del lutto - penso anche - per la recente perdita della madre Teresa, che se n’è andata a dicembre con il suo cruccio più grande, quello di non sapere cosa sarebbe successo a sua figlia Rosa, finita in carcere per amore e bloccata su una branda per il dolore. Sì, perché Rosa è stata condannata a otto anni in primo grado per associazione di stampo mafioso, di fatto solo per via di una relazione di natura sentimentale più che criminale che l’ha portata a condividere una parte della sua vita con la persona amata da lei ma “sbagliata” per gli altri, essendo ritenuta il pericolo pubblico numero uno della ‘ndrangheta. “Pago una colpa, quella di aver amato una persona”, ci dice Rosa. “Se l’amore costituisce reato, ditemi dove sta scritto nel codice penale”. Si tratta di “associazione di stampo amoroso”, non c’è nel codice penale ma è comprovata da incontri, convivenze e intercettazioni con la persona amata. È un “reato” comune a molte detenute della sezione di alta sicurezza del Carcere di Messina, quasi tutte imputate e non condannate, eppure già colpevoli - dicono - sol perché “mogli, figlie, sorelle di nomi noti”. È il caso di una donna di una certa età con un tumore al seno, da un anno in carcere, in attesa di giudizio e di un posto letto all’ospedale per l’operazione. È il caso di una giovane mamma, anche lei “moglie di”, che piange disperata perché le hanno tolto la patria potestà, l’amore legale dei due figli piccoli e la gioia di fatto di vederli al colloquio. Nel caso di Rosa Zagari, quando lo incontrava, il suo amore era latitante, ora è detenuto al carcere duro. Dov’è il pericolo - di fuga o di reiterazione del reato - se Rosa uscisse dal carcere per andare a casa o all’ospedale, per curarsi, per evitare a se stessa il rischio patente di una paralisi, e allo Stato la patente di un potere paralitico, inanimato da giustizia, pietà, umanità. *Segretario di Nessuno tocchi Caino Udine. Presunto stupro di un disabile in carcere: indaga la Procura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 febbraio 2020 Anche il Garante nazionale dei detenuti sta acquisendo informazioni sulla vicenda. Dopo la denuncia da parte dell’attivista dei radicali italiani Emilio Quintieri, riportata anche su Il Dubbio dimartedì, il Garante nazionale delle persone private della libertà sta acquisendo informazioni in merito a un episodio di presunta violenza avvenuto nella Casa circondariale di Udine. La Procura friulana ha prontamente aperto un fascicolo per l’ipotesi di reato di violenza sessuale. Tale fatto, in base a quanto riferito dalla direttrice dell’Istituto, nel corso di un colloquio con il Garante, sarebbe stato denunciato recentemente dall’interessato pur essendo avvenuto negli ultimi mesi del 2019. In attesa dei riscontri e della documentazione richiesta, il Garante ha espresso seria preoccupazione, ha invitato la Direzione a dare chiari segnali di non tolleranza di tali comportamenti oltre che la doverosa informazione alla Procura della Repubblica e a garantire ogni tutela alla persona coinvolta. Parliamo del caso di un giovane detenuto con problemi psichici che sarebbe stato stuprato da quattro persone che erano in cella con lui al carcere di Udine. Sulla vicenda è intervenuto anche il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria Aldo Di Giacomo. “Il caso dello stupro nel carcere di Udine di un detenuto con problemi mentali ad opera di altri detenuti dovrebbe riaccendere l’attenzione su un problema che abbiamo sollevato da troppo tempo sempre inascoltati: solo l’1 per cento delle violenze sessuali in cella viene denunciato, con i più deboli costretti a pagare l’assenza di misure di tutela personale”, afferma Di Giacomo, sottolineando che “nel caso di Udine ritroviamo tre emergenze che riguardano l’intero sistema penitenziario del Paese: con almeno un migliaio nelle celle in istituti normali; l’emergenza suicidi in carcere conseguenza spesso di stupro subito; l’emergenza diffusione di malattie infettive come l’Hiv che già ha raggiunto livelli allarmanti con circa 5.000 detenuti che risultano Hiv positivi, mentre intorno ai 6.500 sono i portatori attivi del virus dell’epatite B”. Di Giacomo aggiunge che il loro sindacato “ha così a cuore questi temi e finalmente è riuscito ad ottenere oggi un tavolo “sanità penitenziaria” al ministero della Salute con funzionari ed esperti per affrontare anche i rischi che si ripercuotono sul personale”. Il sindacalista aggiunge che continuano sostenere che va urgentemente rivisto il sistema della “sorveglianza dinamica” che non consentirebbe di attuare controlli adeguati e misure di prevenzione in particolare contro gli stupri. “È evidente - prosegue Di Giacomo - che se fuori dal carcere stenta ad affermarsi la denuncia di violenze sessuali nel carcere questa tendenza è ancora più negativa per una serie di motivazioni che gli esperti hanno più volte indicato, dalla vergogna e paura di chi ha subito la violenza all’assenza di garanzie di tutela per il denunciante. Un fenomeno rispetto al quale l’Amministrazione Penitenziaria volutamente non è in grado di fornire dati, specie se si pensa allo “scambio di sesso” di detenuti tossicodipendenti o alcolisti in cambio di psicofarmaci e alcol”. Il segretario del Spp aggiunge: “Quanto alla situazione della sanità penitenziaria come sosterremo al tavolo di oggi, essa è ancor più preoccupante in quanto, secondo i medici della Società Medicina Penitenziaria, due detenuti su tre sono malati, in aumento Hiv e tubercolosi, un detenuto su due risulta essere tubercolino positivo e questo sottintende una maggiore circolazione del bacillo tubercolare in questo ambito. È, quindi, indispensabile effettuare controlli estesi in questa popolazione, perché il rischio che si possano sviluppare dei ceppi multiresistenti è molto alto, con conseguente aumento della letalità nei pazienti in cui la malattia si sviluppa in modo conclamato”. Di Giacomo conclude: “In questa situazione è intollerabile che si parli solo ed esclusivamente di assicurare i Lea (Livelli essenziali di assistenza) ai detenuti escludendo il personale penitenziario, continuando a sottovalutare i rischi”. Viterbo. “Basta violenza nelle carceri”, il Consigliere leghista vota la mozione ma poi si pente di Clemente Pistilli La Notizia, 13 febbraio 2020 “Purtroppo, per distrazione, ho votato a favore, ma non avevo letto il testo”. Prima vota per i diritti e poi, resosi forse conto che quando quei diritti non sono gli stessi cari a Matteo Salvini non è da dritti sostenerli, chiede di poter ritirare il suo voto. Rinnega il gesto di umanità appena compiuto, dicendo di essersi sbagliato. Protagonista dell’incredibile voltafaccia il Capogruppo della Lega al Consiglio regionale del Lazio, Angelo Tripodi. La scorsa settimana alla Pisana è stata approvata all’unanimità una mozione presentata dal consigliere radicale Alessandro Capriccioli, con cui è stato chiesto al presidente Nicola Zingaretti di attivarsi affinché il Governo faccia piena luce su quanto accade nel carcere Mammagialla di Viterbo. Un’iniziativa presa dopo i dieci rinvii a giudizio di agenti accusati di violenze su un detenuto e dopo il quadro sconcertante tracciato sul Mammagialla dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Oltre al caso oggetto del processo, sono infatti spuntate in sede europea accuse su un’ispettrice di polizia che avrebbe bruciato i piedi a un detenuto al 41bis e quelle su diversi altri detenuti colpiti alla testa con chiavi di metallo, presi a calci e pugni, o buttati giù dalle scale, sempre in luoghi dove non sono presenti telecamere di sorveglianza. Fatti che, per il Comitato, risulterebbero provati dalle stesse cartelle cliniche degli autori delle denunce. La mozione, sottoscritta da consiglieri sia di maggioranza che di opposizione, è stata così approvata all’unanimità. E a sottoscriverla subito è stato anche il leghista Tripodi. Sulle violenze in carcere da tempo Salvini ha dettato la linea: sempre dalla parte delle guardie. Tanto che a ottobre, dopo sei arresti per pesanti maltrattamenti nel carcere di Torino, il leader del Carroccio ha sostenuto: “Uno Stato civile punisce gli errori, ma che la parola di un detenuto valga gli arresti di un poliziotto mi fa girare le palle terribilmente. Quindi la mia massima solidarietà a quei sei padri di famiglia”. Tripodi ha comunque appoggiato la mozione di Capriccioli. Quasi al termine della seduta il capogruppo leghista deve essersi però reso conto di non aver eseguito gli ordini del Capitano. Ed ecco che ha provato a rimangiarsi tutto. “Presidente - ha detto - purtroppo, per distrazione, sulla mozione Capriccioli ho votato a favore, ma non avevo letto il testo”. E poi: “Invece, il voto dei consiglieri della Lega è contrario, perché naturalmente è una mozione che attacca la polizia penitenziaria”. Ma il voto, come viene fatto notare a Tripodi, non si può annullare. L’esponente del partito di Salvini ha insistito: “Facciamo una nota casomai. Per distrazione ho fatto questo errore, lo ammetto”. “Può fare un comunicato stampa”, lo ha liquidato il presidente Mauro Buschini. Per Tripodi, ex An ed ex Forza Nuova, che candidato nel 2016 a sindaco di Latina secondo gli investigatori avrebbe ottenuto voti acquistati per lui dal clan di origine nomade Di Silvio e già imputato per bancarotta, il vero problema sarà ora il rapporto da fare al suo Capitano. Messina. Carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, gestione complessa di Lina Bruno Quotidiano di Sicilia, 13 febbraio 2020 L’Articolazione per la tutela della salute mentale rappresenta ormai il reparto più critico. Associazioni e sindacati denunciano da tempo una situazione sempre più delicata. Una gestione complicata per un carcere nato come Opg (Ospedale psichiatrico giudiziario) e che adesso deve fare convivere differenti circuiti. L’Articolazione per la tutela della salute mentale (Atsm), l’ormai noto ottavo reparto, è il settore più critico, quello in cui costantemente si verificano atti di aggressione e autolesionismo, in cui emergono le lacune di una norma non completamente attuata e sono evidenti le difficoltà di fare convivere le misure di sicurezza con le cure psichiatriche per i ristretti. L’ultimo episodio di violenza si è registrato sabato, poco prima della visita dei rappresentanti dell’associazione Nessuno tocchi Caino e della Camera penale di Patti. “È un reparto - ha sottolineato Gianmarco Ceccarelli, esponente Radicale - dove si respira un clima pesante. Abbiamo trovato l’infermeria distrutta, con vetri e sedie rotte. Sono episodi che si verificano ogni giorno, come i tentati suicidi di cui ci ha riferito la direttrice aggiunta”. Nunziella Di Fazio dirige la Casa circondariale piazza Lanza a Catania ed è in missione a Barcellona per soli due giorni la settimana, circostanza che penalizza l’organizzazione del carcere che al suo interno, oltre ai 239 detenuti, ha l’Atsm maschile e femminile e la Casa di lavoro, una commistione che complica molto la gestione dell’Istituto. Ci sarebbe bisogno di un direttore a tempo pieno, come evidenziato anche da Carmelo Occhiuto, presidente della Camera penale di Patti. Allo stato attuale ci sono due istituzioni che sembrano non riuscire a parlare lo stesso linguaggio: l’Amministrazione penitenziaria, che si occupa della custodia, e il sistema sanitario regionale, che con l’Asp è responsabile della cura con competenze specifiche sull’Atsm. Qui ci sono circa settanta detenuti, provenienti da vari Istituti, che hanno problemi psichiatrici sopraggiunti in regime carcerario. Ma nella struttura vengono mandati anche detenuti in osservazione oppure con sentenza definitiva in alternativa alle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). In pratica, non si è riusciti a raggiungere alcuna intesa tra Asp e Amministrazione penitenziaria e così si ha a che fare con un’Articolazione che è un ibrido, con nessuna linea guida sul numero massimo di ristretti né sulle modalità di accesso. Le persone detenute con patologia psichiatrica vivono chiuse dentro la sezione: mancano le relazioni, l’attività riabilitativa e quella occupazionale. Non c’è stato finora nessun intervento per correggere il tiro e a complicare ulteriormente la situazione ci sono anche le carenze della Salute mentale del territorio, che non fornisce i servizi previsti. L’allarme lanciato da tempo dal Garante dei detenuti Giovanni Fiandaca e da padre Pippo Insana, ex cappellano dell’Opg e adesso volontario nell’Atsm, rimane quindi inascoltato. Fiandaca e Insana hanno evidenziato la necessità di tutelare la dignità e la salute di soggetti vulnerabili che dovrebbero essere presi in carico come malati prima che come detenuti. Anzi, secondo una sentenza del 2019 della Corte costituzionale, la loro condizione sarebbe proprio incompatibile con il carcere. Anche i sindacati da tempo denunciano la situazione, ma a tutela degli agenti di Polizia penitenziaria, ogni giorno a rischio e sottoposti a pressioni di ogni genere. “Non bastano - ha detto Domenico Mastrulli, segretario nazionale del sindacato autonomo Fs Cosp - gli ultimi undici nuovi agenti per migliorare una struttura a pezzi, come i nervi di chi vigila e assicura turni da otto a dodici ore continuative con più posti di servizio contemporaneamente e con diritti sindacali a volte negati. Insistiamo sulla necessità di un avvicendamento del Comando di reparto e contestuale affidamento della sicurezza al Gom (Gruppo operativo mobile) della Polizia penitenziaria di Roma”. “Più volte - ha concluso Giuseppe Conte, vice segretario regionale del Sappe - sono stati sollecitati i nostri politici a intervenire con l’assessorato regionale alla Salute per la stesura del protocollo per la gestione di questa utenza, con presidi e prese in carico dei Dsm. Non è un’utenza che può essere gestita dal personale di Polizia penitenziaria”. Reggio Calabria. Con “Liberi di scegliere” una vita lontana dalla criminalità è possibile di Elisa Barresi lacnews24.it, 13 febbraio 2020 Tempo di bilanci per il protocollo ideato dal presidente del Tribunale dei minori. Forte la testimonianza di Giosuè D’Agostino capace di onorare il suo No alla ‘ndrangheta e rifarsi una vita al Nord. Liberi di scegliere protocollo ideato dal presidente del tribunale dei minori Roberto Di Bella, dopo aver ispirato la fiction Rai, ed essere divenuto un modello da esportare, apre le porte al confronto e alle testimonianze dirette per tracciare un bilancio dei tanti incontri. Questa mattina a Reggio Calabria, a spiegare l’idea sostenuta da Libera e Agave è stato il presidente Mario Nasone. “Il messaggio che vogliamo mandare oggi è soprattutto di tipo educativo - conferma Nasone - a questi ragazzi che stanno facendo dei percorsi, che hanno commesso dei reati ma che noi dobbiamo considerare come risorse e non come dei problemi. Dobbiamo dare la possibilità anche a loro di riscattarsi”. Le testimonianze - La testimonianza di Giosuè D’Agostino è stata fondamentale in questi incontri, un uomo seguito negli anni 80 da Don Italo Calabrò, da Agape e dai servizi della giustizia minorile in un percorso di riscatto che lo ha portato a rompere con il clan di appartenenza della piana di gioia tauro e a rifarsi una vita al nord nel segno della legalità. “Giosuè oggi sarà una sorta di educatore per questi ragazzi. A loro trasmetterà la sua esperienza e le cose importanti che ha vissuto, spiegherà loro come è riuscito a dire di “No” a tutta una cultura di ‘ndrangheta, a un clan che gli chiedeva dopo il carcere che aveva fatto di prendere il suo posto di soldato nel territorio. Il suo “No” deve essere un esempio perché anche loro devono essere in grado di dire no alle lusinghe che arrivano dagli ambienti territoriali di cui fanno parte”. Liberi di scegliere, il progetto - Questo lo spirito di “Liberi di scegliere” che in questi mesi ha portato testimonianze reali tra i detenuti della sezione di alta sicurezza della casa circondariale di Palmi, in quattro scuole della città, nel rione Archi presso il tribunale per i minorenni di Reggio Calabria con i ragazzi ospiti delle comunità del distretto giudiziario. A confermare il valore dell’iniziativa è stata Isabella Mastropasqua direttore del centro per la giustizia minorile della Calabria. “Sono ragazzi che hanno avuto il coraggio e la forza di ricostruirsi una vita lontano dal fascino della criminalità organizzata e di raccontare questo percorso. Il valore di questi incontri è proprio questo - conclude la Mastropasqua - bilanciare storie negative con storie positive”. Sulmona (Aq). La condizione storica della donna: incontro nel supercarcere Il Centro, 13 febbraio 2020 Tappa del percorso rieducativo e delle attività trattamentali con la scrittrice Annacarla Valeriano prendendo spunto dal saggio Malacarne. La condizione della donna: la relazione coniugale e familiare, il sistema-famiglia, il tradimento (nell’accezione più ampia del termine), il pregiudizio, lo stereotipo. Sono le tematiche che vengono portate all’interno del supercarcere davanti a una platea di detenuti e detenute. L’occasione è rappresentata dal percorso rieducativo e delle attività trattamentali che ha avviato la Casa di reclusione a favore della popolazione reclusa. E nell’ambito di questo programma domani, giovedì 13 febbraio, è previsto (ore 15) l’incontro - mediato da Pasquale D’Alberto - con la scrittrice Annacarlo Valeriano su “donne e manicomio nell’Italia fascista”, prendendo spunto dal saggio “Malacarne” della stessa scrittrice. Nell’istituto è da anni è attivo un Gruppo di studio che, con incontri settimanali tenuti dal Capo area trattamentale, Fiorella Ranalli, legge, affronta e discute sulle relazioni interpersonali. E la lettura, insieme alla giusta interpretazione, del saggio “Malacarne” è ritenuta particolarmente significativa e di indubbio impatto emotivo: il manicomio, le lettere delle donne ricoverate, i concetti di inclusione ed esclusione, il ruolo della donna nel ventennio fascista, sono stati argomenti sui quali il Gruppo ha discusso per mesi. “Nel 2018 è stato letto un saggio sulla condizione degli orfani delle vittime di femminicidio, considerato che un altro tema dominante negli incontri è il diritto minorile”, spiega in una nota Fiorella Ranalli ricordando alcuni dei relatori che, nel corso degli anni, hanno tenuto conferenze per approfondimenti sui temi trattati: Anna Costanza Baldry, Dacia Maraini, Anna Oliverio Ferraris, Anna Maria Crispino, Cecilia Angrisano, Gianni Biondi, Vincenzo Spadafora, Giovanni Manera. Il Gruppo di studio è inoltre da tre anni giuria popolare nel Premio nazionale di letteratura “Benedetto Croce” ed è stato oggetto di un reportage della giornalista Maria Rosaria La Morgia, pubblicato sulla rivista “Leggendaria”. Casal del Marmo (Rm). Storia di un sabato in un carcere minorile a imbiancare le pareti di Martino Zavarise it.aleteia.org, 13 febbraio 2020 Da alcuni mesi, il sabato pomeriggio, vado in caritativa al carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma, insieme a Tommaso e a don Nicolò Ceccolini. Sto scoprendo la bellezza di un tempo totalmente donato a questi ragazzi che incontriamo: la nostra azione è essenzialmente stare con loro, condividere un pomeriggio della settimana, senza pretese e progetti, stando a quello che c’è. Un sabato accade qualcosa di diverso dal solito: don Nicolò ci chiede di aiutarlo ad imbiancare alcune celle insieme a tre giovani carcerati. I lavori erano già iniziati da qualche giorno: il nostro compito è terminare la tinteggiatura di alcune celle di un braccio della palazzina. Mentre iniziamo a verniciare, mi viene quasi da ridere guardando questa squadra di imbianchini: un prete, due seminaristi, una suora e tre zingarelli. Però siamo animati dal desiderio di rendere quel luogo - a guardarlo sembra incredibile che qualcuno possa viverci - più bello e umano. Mi colpisce anche il clima che si crea con i ragazzi. Pitturiamo al ritmo di improbabili musiche balcaniche che escono da un piccolo televisore. Le battute e gli scherzi sono sempre gli stessi, ma è evidente che questi ragazzi, quando offri loro uno scopo e li aiuti a perseguirlo, escono dalla loro scorza di superficialità e mostrano un volto più umano, desideroso che la vita non sia solo male e mancanza di senso. Don Nicolò ama ripetere che la vera misura dell’amore non è il successo ma lo spreco: sprecare tempo per loro con fedeltà e passione. Allora, anche riverniciare una cella scherzando, guardando alle ferite che portano, condividendo due ore di lavoro, diventa per me l’occasione di mettermi alla scuola di Cristo, che ha “sprecato” tutto se stesso per me. Uno dei ragazzi, quello a cui stiamo più antipatici, alla fine del pomeriggio ci dice: “Perché venite qua? Non servite a niente, la vostra presenza è inutile”. Tommaso ed io ci guardiamo, presi un po’ alla sprovvista. Proviamo a rispondergli che siamo lì per loro, ma ovviamente senza convincerlo. Ripensando a questo fatto, capisco ancora di più la misura dello spreco di Gesù, innanzitutto per me. Infatti, il primo che resiste sono io, ma Cristo entra nella mia vita attraverso il volto dei fratelli, attraverso la liturgia, nelle persone che incontro, per strapparmi dal mio rifiuto e riprendermi a sé. Così, mi sento privilegiato, ogni sabato, quando entro nel carcere: so che posso imparare un po’ di più ad amare come lui. Zero zero zero, Stefano Sollima: “Ecco perché siamo tutti narcos” di Chiara Nicoletti Il Riformista, 13 febbraio 2020 “Senza spettacolarizzare, la serie riflette sul potere, sull’economia del nostro tempo e il capitalismo contemporaneo dove il narcotraffico è un turbo. La legalizzazione interromperebbe la massa di guadagni ma rivoluzionerebbe l’economia. Legalizzare significa interrompere i pozzi di petrolio di questa economia che attraversa il mondo legale dandogli forza”, erano queste le parole con cui Roberto Saviano all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, aveva raccontato l’idea dietro la serie Sky Original ZeroZeroZero, tratta dall’omonimo libro. A distanza di 5 mesi, la serie creata da Stefano Sollima, Leonardo Fasoli e Mauricio Katz, e prodotta da Cattleya, è pronta per approdare, dal 14 febbraio, su Sky Atlantic e NowTv. Una sfida produttiva, quella di Sollima, della produttrice Gina Gardini e dell’head writer Fasoli, che ha puntato a smascherare il grande inganno dell’economia globale: l’incidenza del il traffico di cocaina mondiale nella nostra vita di tutti i giorni, quella condotta rettamente e senza illegalità. ZeroZeroZero di Roberto Saviano, così come era stato per la serie Gomorra, diventa quindi solo il punto di partenza per una crime story che percorre e indaga le rotte globali del narcotraffico. Lo sottolinea Stefano Sollima, ribadendo quanto detto a Venezia: “Del libro di Roberto abbiamo tenuto solo l’idea, l’anima, quella di costruire un racconto non tanto sulla cocaina ma sulla globalizzazione usando la cocaina in quanto merce per raccontare quanto il narcotraffico, quindi lo spaccio e il trasporto, impatti sulle realtà sociali ed economiche. Quella di Saviano era un’inchiesta giornalistica e noi mentre scrivevamo ne abbiamo fatto una parallela sui nostri personaggi, andando nei i posti che volevamo raccontare, intervistando più o meno tutti”. Di posti la produzione di ZeroZeroZero ne ha attraversati e indagati parecchi, a partire dalla Calabria della ‘ndrangheta fino a New Orleans e al Messico, passando per l’Africa, 3 continenti e 5 paesi, non tutti sempre pronti ad accogliere la produzione e le sue indagini: “In Calabria, in realtà, non abbiamo avuto problemi ma è chiaro che abbiamo dovuto superare una naturale diffidenza visto che stavamo raccontando una storia sulla ‘ndrangheta e ci portavamo dietro una certa eredità, quella di Gomorra” racconta Sollima. E prosegue: “I veri problemi li abbiamo avuti in Messico. Stavamo andando con la troupe intera a Monterrey a girare per cinque mesi e prima di salire in aereo ci è giunta la notizia che il sindaco non aveva autorizzato le riprese, anzi non eravamo molto graditi. Siamo dovuti tornare a Città del Messico e ricominciare daccapo”. Nei primi due episodi, visti in anteprima a Venezia, sono tre le tappe fondamentali della rotta del narcotraffico, Messico, Usa e Calabria, tre i mondi e le realtà che si vogliono raccontare: chi compra cocaina, chi la vende e chi fa da intermediario e spedisce. In mezzo, poi, c’è una famiglia americana, i Lynwood di New Orleans che nella loro apparente normalità testimoniano tutto ciò che non vogliamo vedere, di come il narcotraffico impatti nelle nostre vite: “Con i Lynwood abbiamo raccontato quanto, anche dietro l’economia legale, si nasconda quella reale che sopravvive proprio perché esiste un mondo illecito dietro. La famiglia Lynwood, perbene, inserita nel contesto sociale con un’impresa legittima, in realtà sopravvive grazie ad un carico annuale. Un carico che non è certo di banane”, spiega Sollima. Per prepararsi alla visione di questa serie crime on the road, possono essere utili le parole di Saviano nelle note di regia: “A volte mi chiedo: ma perché questo rumore lo sento solo io? La coca è come un fiume impetuoso che scorre sotto le grandi città, un fiume che nasce in Sudamerica, passa dall’Africa e si dirama ovunque. Un fiume bianco, impetuoso, scorre non visto, scorre inascoltato. A questo fiume ho dato una voce e un nome: ZeroZeroZero”. Migranti. Il memorandum con la Libia? Solo affari e buoni propositi di Nello Scavo Avvenire, 13 febbraio 2020 Si parla di diritti, ma con la lingua dei soldi. Per non irritare i libici, a cui offrire in cambio di qualche concessione perfino occasioni “sostitutrici di reddito”, lasciando così intendere che il traffico di esseri umani a Tripoli è davvero un affare di Stato. La bozza integrale della proposta di rinegoziazione del memorandum libico, ottenuta in esclusiva da Avvenire, non delude: buoni propositi e giri di parole. Cautele a cui Tripoli ribadisce per il momento chiudendo la porta. Quelli che Filippo Grandi, l’alto commissario Onu per i rifugiati, ha chiamato “veri e propri campi di concentramento”, nella bozza italiana non vengono derubricati a “centri di detenzione”, ma addirittura promossi al rango di “centri d’accoglienza”. Mai ricorrono parole come “tortura”, “abusi”, “stupri”, “riduzione in schiavitù”, “vendita di migranti”, invece adoperate dai dossier delle Nazioni Unite e dal segretario generale dell’ Onu, Antonio Guterres, che più volte ha accusato le autorità libiche di essere direttamente coinvolte negli “orrori indicibili” a danno dei migranti. Prudenza che non fa breccia nell’amministrazione libica. Il governo di al-Sarraj, a quanto si apprende, ricevendo ieri Di Maio ha preso altro tempo per valutare le richieste italiane con una commissione interministeriale, senza fornire però una scadenza. “L’idea di reinsediare migranti è respinta e inammissibile per i libici come qualsiasi altra questione che tocchi la sovranità libica”, ha reagito il ministero dell’Interno di Tripoli con una nota in cui respinge le richieste italiane e, di fatto, alza il prezzo del negoziato. La bozza puntava su alcuni impegni a cui il governo del premier al-Sarraj dovrà rispondere, come il “rilascio di donne, bambini e altri individui vulnerabili dai centri e alla chiusura di quei centri che, in caso di ostilità, siano più direttamente esposti al rischio di essere coinvolti nelle operazioni militari”. Sulle modalità e i temi della liberazione dei prigionieri nulla però è indicato. Nel testo di 7 pagine, da ieri disponibile sul sito Internet di Avvenire, si riconosce che il traffico di esseri umani, insieme a quello di armi e petrolio, sia una fonte di entrate per intere aree del Paese, perciò viene proposto di “avviare programmi di sviluppo, attraverso iniziative capaci di creare opportunità lavorative “sostitutrici di reddito” nelle regioni libiche colpite dai fenomeni dell’immigrazione irregolare, traffico di esseri umani e contrabbando”. Tradotto in euro, vuol dire almeno 800 milioni nei prossimi tre anni, cifra che non si rinviene nei documenti ufficiali ma che circola con insistenza alla Farnesina e al Viminale. L’Italia chiede “il pieno e incondizionato accesso agli operatori umanitari, che potranno rafforzare l’attività di assistenza umanitaria a favore dei migranti e delle comunità ospitanti”. E chiede anche la “progressiva” - non immediata - “chiusura dei centri non ufficiali in cui sono trattenuti i migranti irregolari”. Campi di prigionia in gran parte gestiti direttamente dalle milizie. Alludendo anche a figure come il comandante al-Milad, nome di guerra “Bija”, viene proposta “l’esclusione dai centri del personale che non abbia adeguate credenziali in materia di diritti umani”. Il rischio che possano essere sostituiti da prestanome è però altissimo. Come a Zawyah, dove tutte le inchieste della magistratura italiana indicano nei sodai di Bija e nella potente milizia al-Nasr la gestione del campo di prigionia. Tripoli continuerà a ricevere fondi, corsi di formazione ed equipaggiamento per la “guardia costiera del Ministero della Difesa”, oltre a “supporto tecnico e tecnologico”. In questo contesto “le parti si impegnano a sostenere le misure adottate dall’Unhcr-Acnur e dall’Oim (le agenzie umanitarie dell’Onu sul campo, ndr) nel quadro del piano d’azione per l’assistenza ai migranti in Libia e la Parte libica assumerà ogni utile iniziativa per facilitarne l’attuazione”. Di tutto questo, però, le agenzie Onu non sono state messe al corrente, né hanno potuto offrire osservazioni e suggerimenti in vista del negoziato. Sudan. “Bashir sarà consegnato all’Aja” per il genocidio e i massacri in Darfur di Michele Farina Corriere della Sera, 13 febbraio 2020 L’annuncio di Khartoum riguarda “tutti coloro che sono ricercati” dalla Corte Penale Internazionale. Il deposto presidente è accusato della morte di oltre 300mila persone. La giustizia per il genocidio in Darfur arriverà troppo tardi? E a pagare sarà soltanto un deposto dittatore? A 76 anni Omar al-Bashir, il deposto presidente del Sudan, sarà (forse) finalmente consegnato alla Corte Penale Internazionale (Cpi) dell’Aja, che dal lontano 2009 lo vuole processare per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. La svolta è stata annunciata oggi da Mohammed Hassan Eltaish, portavoce del nuovo governo sudanese, in margine ai colloqui di pace in corso tra le autorità di Khartoum e i ribelli del Darfur. “Non si può avere giustizia se non si curano le ferite” ha detto Eltaish nella capitale del Sud Sudan, Juba. “Abbiamo stabilito che tutti coloro che sono ricercati debbano comparire davanti alla Corte Penale Internazionale”. Un monito ai dittatori - Nessuno però, neppure il ministro sudanese dell’Informazione Faisal Saleh che ha confermato la notizia, ha parlato esplicitamente di Bashir. I suo avvocati hanno subito protestato, sostenendo che la Cpi è “un organo politico”. Fosse confermata, sarebbe certo una buona notizia per i superstiti del genocidio in Darfur, per chi negli ultimi dieci anni si è sgolato contro il regime sudanese quando il suo capo era protetto da piccole e grandi potenze. La consegna di Bashir alla Cpi sarebbe un monito da girare ai tanti dittatori ancora in circolazione. Il generale protettore - Certo Omar Bashir è un uomo finito. L’11 aprile del 2019 è stato deposto dagli stessi militari che per anni hanno sostenuto il suo trentennale regime, macchiandosi degli stessi crimini che vengono imputati all’ex uomo forte di Khartoum. Finora, l’estradizione del grande capo era sempre stata esclusa dalla giunta guidata da Mohamed Dagolo, l’ex commerciante d’oro e cammelli diventato il generale più potente del Sudan. Il soprannome di Dagolo è Hemeti, vezzeggiativo che le mamme danno ai loro “piccoli Mohammed”. Bashir lo chiamava Himayti, “mio protettore”: Dagolo ha guidato i miliziani della Forza di Intervento Rapido che dopo essersi fatti le ossa proprio nel genocidio in Darfur (al tempo dei Janjaweed) hanno ucciso decine di manifestanti nella rivolta della società civile sudanese nel 2019. Alla fine, pressati dia loro protettori nel Golfo, i militari hanno fatto mezzo passo indietro, accettando di governare in tandem con i partiti di opposizione in vista di future elezioni democratiche previste fra tre anni. In questa partita, ancora tutta da definire, il vecchio Bashir è stato sacrificato a più riprese. Lo scorso dicembre è stato condannato da un tribunale di Khartoum per corruzione a due anni di lavori socialmente utili. Un altro processo riguarda l’uccisione di alcuni dimostranti nell’ultima rivolta. Per la legge sudanese, dopo i 70 anni non si può finire in carcere. L’estradizione all’Aja può significare che, in caso di condanna, Bashir finirà la sua vita dietro le sbarre. Intoccabile - Per anni Bashir è stato un leader intoccabile, che poteva contare su vari protettori internazionali (dall’Egitto alla Russia, dai Paesi del Golfo alla Cina) e sulla difesa d’ufficio dei Paesi africani. È riuscito a restare al potere per 30 anni dividendo i suoi rivali, e sapendo quando lasciare al momento giusto i suoi protetti (come Osama Bin Laden). I massacri in Darfur da lui promossi e accettati, con oltre trecentomila morti e 2,5 milioni di rifugiati, restano una delle pagine più dolorose e vergognose dell’inizio di questo millennio. Il regime di Khartoum appoggiò e armò le milizie arabe dei Janjaweed (“i demoni a cavallo”) contro le popolazioni nere dei Fur, i Zaghawa, i Masalit nella parte occidentale del Sudan. Processato in patria? - Ma davvero Bashir finirà all’Aja? Mohamed al-Hassan al-Taishi, membro del Consiglio governativo che guida il Sudan, ha detto che agli incontri di pace di Juba le parti si sono anche accordate per la creazione di una corte speciale per investigare sui crimini in Darfur, gli stessi di cui si occupa da anni la Corte Penale Internazionale. Questo potrebbe anche significare che alcuni imputati saranno giudicati in Sudan? Bashir tra loro? Ancora troppo presto per dirlo. Non a caso, all’Aja, la Cpi ha scelto di non commentare le notizie che arrivano dal Sudan. Nel 2009 la Corte (istituita con lo Statuto di Roma firmato nel 1998) spiccò un mandato di cattura contro Bashir: per la prima volta un leader al potere era ricercato da un tribunale internazionale (riconosciuto oggi da 139 Stati, grandi assenti Stati Uniti, Russia e Cina). I processi in corso riguardano presunti responsabili di crimini commessi in diversi Paesi (quasi tutti) africani, dalla Repubblica Democratica del Congo alla Libia. Ai quali forse si aggiungerà il pezzo più grosso, il deposto presidente Bashir. Oltre a lui, sono ricercati dalla Cpi altri tre membri della cricca di comando ai tempi del genocidio in Darfur: Ahmad Harun, allora ministro dell’Interno, Ali Kushayb, uno dei capi Janjaweed, Abdel Hussein, rappresentante speciale del presidente. Anche loro, secondo l’annuncio del governo, dovrebbero essere consegnati alla Corte dell’Aja. Nessun mandato di cattura, finora, riguarda un solerte gregario del terrore oggi diventato il generale più potente del Sudan, quel “piccolo grande Mohammed” Dagolo che deve le sue ricchezze alle miniere d’oro (e al sangue sparso) in Darfur. Come spesso accade, è la giustizia che arride ai nuovi potenti?