“Dare ai detenuti più possibilità di telefonare a casa” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 12 febbraio 2020 Il ddl in Senato. Una telefonata non accorcia la pena. Ma può migliorare almeno un po’ la vita. Specie se una legge allungasse almeno un po’ la telefonata. Con questo pensiero se n’erano tornati a casa prima di Natale, dopo una mattina di incontro con un gruppo di detenuti di San Vittore, tre parlamentari di maggioranza e opposizione. E così adesso, mentre il resto della politica è tutto preso a parlare di prescrizione sì o no, cioè di chi in prigione non si sa ancora se andrà o meno, loro hanno deciso di occuparsi di quei circa 60 mila tra uomini e donne che in prigione nel frattempo già ci stanno. E hanno presentato al Senato un disegno di legge per cambiare di una riga l’art. 39 dell’ordinamento penitenziario, che finora consente ai detenuti una telefonata di dieci minuti alla settimana: la proposta è di autorizzarne una al giorno, e per la durata di venti minuti. Naturalmente a chi non abbia mai varcato i cancelli di un carcere potrebbe sembrare - per usare un termine in voga - roba buonista da condir via con un “che pretendono questi”. Ma si vede che quel mattino trascorso al terzo raggio del carcere milanese, nel reparto specializzato “La Nave” in cui una équipe della Asst Santi Paolo e Carlo guidata da Graziella Bertelli cura i detenuti con problemi di dipendenza, un segno lo ha lasciato. C’erano i senatori Franco Mirabelli (Pd) e Alessandra Riccardi (M5S) insieme con il deputato Igor Iezzi (Lega). “Per due ore - dice Mirabelli - abbiamo ascoltato il racconto di quante situazioni assurde nascono dalla regola di quella sola telefonata alla settimana, peraltro giustamente limitata a pochi numeri autorizzati”. Figli, genitori, coniugi. Famiglie che di fatto pagano una pena supplementare rispetto alla singola persona condannata. Alla fine la richiesta l’hanno fatta i detenuti stessi. “Pensiamo che con questi limiti non vi sia motivo - spiega il senatore - per non dar loro la possibilità di avere più contatti con le famiglie, sentire i genitori, salutare i figli”. Di qui il ddl presentato in Senato. Con le firme, oltre che di Mirabelli e Riccardi, dell’ex presidente dei senatori Pietro Grasso (Leu) e Giuseppe Cucca (Iv): “Ma se ne aggiungeranno altre - sottolinea Mirabelli - per una proposta di umanità che viene comunque dai ragazzi della Nave. E che faremo di tutto per mandare in porto”. Le esternazioni di Gratteri sul “lavoro gratuito” e Bollate di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 febbraio 2020 Il procuratore di Catanzaro ospite di Lucia Annunziata a “Mezz’ora in più”. Durissime reazioni della Camera penale di Milano, della direttrice del carcere e dell’associazione Antigone. Durante la trasmissione “Mezz’ora in più”, condotta da Lucia Annunziata, il procuratore della Repubblica Nicola Gratteri ha parlato del lavoro in carcere. O meglio, di campi di lavoro per i detenuti come terapia e rieducazione, ma soprattutto gratuiti. La stessa Annunziata ha fatto notare che la storia del lavoro come terapia somiglia molto da vicino a “il lavoro rende liberi”, un chiaro riferimento al motto posto all’ingresso del Lager nazista di Auschwitz. L’associazione Antigone è intervenuta, con una nota, stigmatizzando tale proposta ricordando che il lavoro gratuito non è nient’altro che lavoro coatto. L’associazione ha ricordato le Regole Penitenziarie Europee che contemplano l’importanza del lavoro come strumenti di riabilitazione, ma che “deve essere previsto un sistema equo di remunerazione del lavoro dei detenuti”. Antigone ricorda anche che lo afferma perentoriamente l’articolo 8 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966 entrato in vigore in Italia nel 1976: “A nessuno può essere richiesto di svolgere lavoro forzato”. Il lavoro gratuito e terapeutico non è altro che un altro modo di qualificare il lavoro forzato. “Il sistema penitenziario italiano non ha bisogno di taumaturghi e soluzioni giustizialiste. Necessita di razionalità e umanità, doti presenti in tanti operatori - direttori, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi, criminologi, volontari, religiosi, poliziotti - che da decenni si impegnano per una pena rispettosa dell’articolo 27 della Costituzione”. Il procuratore Gratteri, sempre a proposito del sistema penitenziario, ha anche detto che il carcere di Bollate, la casa di reclusione aperta nel 2000 nell’hinterland milanese, è un mero spot. Una affermazione che ha provocato il duro intervento della Camera penale di Milano. “Tale definizione - scrivono in una nota i penalisti - è del tutto inaccettabile. Il carcere di Bollate ha un tasso di recidiva del 17% rispetto alla media nazionale che è di circa il 70%. Si tratta quindi di una realtà positiva che non può e non deve essere banalizzata”. E lo testimonia, secondo la Camera penale, il fatto “che su un totale di 1300 detenuti, oltre 200 contribuiscono al loro mantenimento svolgendo un’attività lavorativa retribuita” che per altro “consente a molti di loro anche di risarcire le vittime”. A ciò si aggiungono i 40 detenuti in regime di semilibertà e i 350 che godono di permessi premio. “Il carcere di Bollate tende pertanto in modo concreto alla rieducazione dei condannati prosegue la nota - e questo nel rispetto delle norme previste dall’Ordinamento penitenziario. È la cooperazione tra tutte le figure professionali coinvolte, istituzionali e non, che ha reso possibile tutto ciò”. E in più “non è secondario che gli avvocati collaborino con gli operatori alla costruzione di percorsi di reinserimento”, quindi “Il carcere di Bollate costituisce pertanto un modello da condividere e replicare su tutto il territorio nazionale - concludono i penalisti -. Gli “spot” in materia giudiziaria sono altri e tra questi, certamente, non rientra il carcere di Bollate”. Anche Cosima Buccoliero, la direttrice del carcere di Bollate, ha dichiarato: “Ci sono cose che non si vorrebbero mai sentire soprattutto quando arrivano da importanti esponenti della magistratura. Bollate non è uno spot chiosa la direttrice - e questo non lo dico io ma l’impegno che tutti i giorni ci mettono poliziotti penitenziari, funzionari giuridico pedagogici, operatori sociali, volontari, il terzo settore, imprenditori, istituzioni e la stessa magistratura per fare in modo che la legge venga applicata secondo lo spirito della Costituzione. Non si può, in modo a dir poco superficiale, definire questa esperienza carica di umanità una trovata pubblicitaria”. Bollate uno spot? No, una lezione per l’Italia Il Riformista, 12 febbraio 2020 I penalisti milanesi replicano a Gratteri, definendo le sue parole “inaccettabili”. Dati alla mano il carcere lombardo è l’esempio di un modello di rieducazione da seguire. Non è passata inascoltata la dichiarazione del procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, che alla trasmissione di Rai3, “Mezz’ora in più”, di Lucia Annunziata ha definito il carcere aperto nel 2000 a Bollate un “mero Spot”. A dissentire con il procuratore è stata la camera penale di Milano che ha replicato in una nota, negando che si tratti di un “mero spot”, bensì di “un modello da condividere e replicare su tutto il territorio nazionale”, definendo altresì le parole di Gratteri “del tutto inaccettabili”. Come ricordano i penalisti “il carcere di Bollate ha un tasso di recidiva del 17% rispetto alla media nazionale che è di circa il 70%” e si tratta quindi “di una realtà positiva che non può e non deve essere banalizzata”. Inoltre, non è da sottovalutare il fatto che “su un totale di 1300 detenuti oltre 200 contribuiscono al loro mantenimento, svolgendo un’attività lavorativa retribuita” che, per altro, “consente a molti di loro anche di risarcire le vittime”. A questo numero si aggiungono anche “i 40 detenuti in regime di semilibertà e i 350 che godono di permessi premio”. Sono tutti esempi encomiabili che rendono quindi il carcere di Bollate un modello che “tende in modo concreto alla rieducazione dei condannati e nel rispetto delle norme previste dall’Ordinamento penitenziario”. Secondo la Camera Penale, tutto ciò è possibile solo grazie alla cooperazione tra tutte le figure professionali coinvolte, “istituzionali e non”, così come non è secondario che “gli avvocati collaborino con gli operatori alla costruzione di percorsi di reinserimento”. Concludono poi che la casa di reclusione aperta dell’hinterland milanese costituisce un modello da emulare e che “gli “Spot” in materia giudiziaria sono altri”, ma tra questi “certamente non rientra il carcere di Bollate”. Lucia Castellano: “Dobbiamo capire cosa significa punire” radiopopolare.it, 12 febbraio 2020 Il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, l’ex Ministro della Giustizia Nicola Gratteri, è recentemente intervenuto sul problema del sovraffollamento in carcere in Italia e sul ruolo delle strutture detentive in Italia, sempre meno orientate alla rieducazione: “Le carceri oggi sono dei contenitori, non si fa rieducazione e trattamento. Io non parlo di lavori forzati ma di campi di lavoro. Un tossicodipendente quanto entra in comunità lavora otto ore al giorno e poi fa un’ora o due di psicoterapia. Perché invece un detenuto deve stare otto ore al giorno davanti al televisore? Quando esce perché dovrebbe cambiare? Ma se invece usiamo il lavoro come terapia, come rieducazione, come trattamento allora le cose cambiano”. Ne abbiamo parlato con Lucia Castellano, Direttore Generale per l’Esecuzione Penale Esterna e di messa alla prova per il Ministero della Giustizia. Che cosa ne pensa di questa affermazione? “Io credo che il cammino verso un carcere davvero costituzionalmente orientato, cioè che rispetti tutti i diritti umani compatibili con la mancanza di libertà, sia un cammino molto complicato per una serie di ragioni che hanno a che fare con l’amministrazione penitenziaria, ma non solo. È evidente che parlare di lavoro in questo momento in cui è così difficile dare lavoro e offrire lavoro anche alle persone incensurate o che studiano o che sono fuori, è veramente molto complicato. È assolutamente vero che oggi il carcere non è quello che la Costituzione prevede, ma è anche vero che non può essere soltanto un problema dell’amministrazione. L’esempio di Bollate, fatto anche dal procuratore Gratteri, funziona perché la città prende in carico il carcere come un pezzo di sé e si crea una sorta di processo di vasi comunicanti: la città entra e vede le persone che sono detenute come una risorsa. Il problema è culturale, prima ancora che politico: nel momento in cui noi che siamo fuori viviamo il carcere come una sorta di discarica e di un luogo lontano dal centro in cui non si vuole vedere che cosa ci finisce dentro, allora è del tutto evidente che malgrado qualunque sforzo di qualunque amministrazione penitenziaria virtuosa il carcere sarà sempre altro da noi. Io volevo dare dei numeri oggi ai nostri ascoltatori. Questo è un periodo in cui il numero dei detenuti cresce vertiginosamente. Siamo a 60.971 persone dentro le carceri. Non è un tasso di carcerazione molto alto se confrontato con altri Paesi, ma è comunque un tasso di sovraffollamento molto altro rispetto alla nostra capienza. Abbiamo invece 60.785 in esecuzione penale esterna, cioè che scontano la pena in misura alternativa o, prima del processo, sono messi alla prova. Questo fenomeno significa che oggi crescono contemporaneamente due grandi tronconi: le persone che scontano una pena all’esterno e quelle che scontano la pena all’interno. Questo è un dato su cui la politica, le città e il Paese dovrebbero riflettere. Perché questo aumento esponenziale di tutti e due? Dovrebbe essere l’inverso. Le misure alternative dovrebbero aumentare e la detenzione dovrebbe diminuire. Un Paese in cui aumentano tutte e due, dentro e fuori, è un Paese che dovrebbe riflettere a lungo sulla sua capacità di punire: c’è un controllo penale sul territorio che si espande e si espande anche il controllo penale intra-media. E questo è un dato inquietante. Dovremmo cominciare a riflettere e far sì che ad ogni infrazione e ad ogni lesione del patto sociale sia data una risposta vera, effettiva, credibile ed efficace e, soprattutto, commisurata alla gravità del fatto commesso. In carcere ci sono circa 5mila persone che devono scontare meno di due anni. Questo significa che oggi non c’è una riflessione di sistema sui numeri che il nostro Paese ci offre. Se ci sono persone che potrebbero stare fuori perché devono scontare soltanto due anni e invece stanno dentro, se aumentano in modo esponenziale tutte e due le categorie, significa che aumenta la penalità. E questa penalità deve essere credibile, efficace, veloce e giusta. Chi deve scontare soltanto due anni probabilmente farebbe meglio a scontarli sul territorio. La pena scontata sul territorio abbatte i tassi di recidiva. È un fatto. A noi come Paese cosa interessa? Ci interessa di tenere la gente dentro o che quella gente non commetta più reati? Dobbiamo porci il problema di cosa significa oggi punire e capire qual è la differenza tra chi ha rotto il finestrino di una macchina e chi ha violentato una persona o chi ha rapinato una banca. Ad ognuna di queste persone deve essere data una risposta veloce. O quando ci sono reati minori aspettiamo che maturino tanti anni per poter finire in galera. E questo non va bene”. Quali sarebbero i primi interventi da fare? “Oggi abbiamo un assetto normativo che va solo applicato. Abbiamo una legge del 1975 che dice che il carcere è un posto che contiene delle persone che conservano i diritti che avevano fuori. Se la legge parla di camere di pernottamento e camere di soggiorno è del tutto evidente che si dorme da una parte e si soggiorna dall’altra. A causa del sovraffollamento questo non si può fare e le stanze devono stare chiuse, ma dobbiamo iniziare tutti a lavorare su questo anche insieme alla magistratura. Deve essere un processo corale, una responsabilità collettiva, di capire cosa succede oggi. I detenuti stanno dentro e stanno male perché sono troppi? Proviamo ad occuparcene, proviamo a ragionare sui numeri e vedere il perché”. Adesione a proiezione del docu-film “Viaggio in Italia: La Corte costituzionale nelle carceri” istruzioneer.gov.it, 12 febbraio 2020 Si ricorda alle scuole eventualmente interessate che il termine ultimo per aderire all’iniziativa promossa dalla Corte costituzionale e dal Ministero dell’Istruzione, relativamente alla proiezione del docu-film “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”, è prossimo alla scadenza: entro e non oltre il 28 febbraio 2020 gli Istituti scolastici secondari di secondo grado possono registrarsi, mandando un’email di adesione all’indirizzo di posta elettronica dgsip.ufficio3@istruzione.it. Ad esse, successivamente saranno trasmesse tutte le informazioni ed i materiali utili per la visione del docu-film. Il film, che è stato realizzato, con la collaborazione di Rai Cinema e Clipper Media e con la regia di Fabio Cavalli, racconta il viaggio di sette giudici della Corte costituzionale che incontrano i detenuti di sette Istituti penitenziari italiani: Rebibbia a Roma, San Vittore a Milano, il carcere minorile di Nisida, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, Terni, Lecce sezione femminile. Il film è il racconto dell’incontro tra due umanità, entrambe “chiuse” dietro un muro e apparentemente agli antipodi: da un lato la legalità costituzionale, dall’altro lato l’illegalità, ma anche la marginalità sociale. Nel nuovo processo penale tempi stretti e riforma Csm di Francesco Grignetti La Stampa, 12 febbraio 2020 Circolano le prime bozze della legge che dovrebbe arrivare domani in Consiglio dei ministri. Nel provvedimento c’è anche il “lodo Conte Bis”, ovvero la mediazione sulla prescrizione. La riforma del processo penale è virtualmente pronta. Domani andrà all’esame del consiglio dei ministri. E il ministro Alfonso Bonafede già ha iniziato a battere sul punto. “Interverremo con 50 misure per un processo penale celere e moderno, senza sacrifici per le garanzie delle parti. Non stiamo intervenendo sforbiciando qua e là i tempi ma per un processo penale con le spalle più larghe”. In effetti, a giudicare dalle bozze che circolano, pur premettendo che non sono quelle definitive, c’è un lavoro di fioretto. Ma c’è nascosta anche una bomba, quella che ha rischiato di deflagrare sotto la poltrona di Giuseppe Conte. Nel senso che dentro questa legge-delega che, una volta approvata dal Parlamento, avrà poi bisogno di tanti decreti legislativi di attuazione, c’è anche famoso Lodo Conte bis. Ovvero quella faticosa mediazione che riscrive la riforma Bonafede sulla prescrizione, ormai in vigore da quarantuno giorni. C’è davvero di tutto, nella riforma. Il tentativo di limare le mille asperità che rallentano il corso del processo penale. Ad esempio è previsto che i difensori possano presentare un’istanza per l’immediata definizione del processo, decorsi i termini di 2 anni per il giudizio di appello e di 1 anno per il giudizio di Cassazione. Parallelamente, si impone che il processo debba poi essere definito entro 6 mesi dal deposito dell’istanza da parte dei legali. Per rendere effettiva questa accelerazione, ci sarà un’infornata di personale nuovo: 3.000 assistenti giudiziari che verranno presi con contratto a termine di due anni e 500 nuovi giudici ausiliari nelle corti d’Appello. Dati alla mano, sono le corti d’Appello quelle più in sofferenza. Qui si accumula più arretrato, e i tempi si allungano. Ancora peggio sarà in futuro, quando decine di migliaia di fascicoli non finiranno più nel cestino per effetto della prescrizione come accade ogni anno. E allora, ecco il tentativo di aumentare la produttività dei giudici: ci sarà una composizione monocratica nei procedimenti a citazione diretta di cui all’articolo 550 del codice di procedura penale (un lungo elenco di delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa). Il pubblico ministero che non rispetta le varie tempistiche del processo penale incorrerà in un “illecito disciplinare quando il fatto è dovuto a dolo o a negligenza”. E se lo sforamento è dovuto al mancato rispetto delle misure organizzative adottate dal capo dell’ufficio. Per velocizzare il sistema, si introducono alcune misure deflattive. Ad esempio, l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, così come l’inappellabilità della sentenza di condanna a lavori di pubblica utilità. Ma c’è anche una mezza rivoluzione sulle archiviazioni da parte del pm, “prevedendo che il pubblico ministero non eserciti l’azione penale nei casi in cui gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentano, anche se confermati in giudizio, l’accoglimento della prospettazione accusatoria”. Cioè a fronte di prove molto deboli. Attualmente l’archiviazione è prevista solo quando il pm accerta “l’infondatezza” delle accuse. Largo spazio all’informatica, poi. Le notificazioni si considereranno perfezionate mediante mail certificata al difensore. Più in generale, nei procedimenti penali sarà possibile il deposito di atti e documenti “anche con modalità telematiche”, e con “soluzioni tecnologiche diverse dalla posta elettronica certificata”. Ovvero con mail semplice. Come annunciato, c’è anche un corposo capitolo dedicato al Consiglio superiore della magistratura. Sale da 20 a 30 il numero dei componenti del Csm (20 i togati, 10 i laici). È caduta l’ipotesi di un sorteggio tra toghe, aborrita dall’Associazione nazionale magistrati. È prevalsa invece l’idea di frazionare il collegio unico nazionale, suddividendo il territorio in 17 collegi territoriali. Dovrebbe servire a scoraggiare le correnti organizzate. Ma l’effetto concreto sarà da testare. Processo penale, la riforma in Cdm: sanzioni ai pm che sforano i tempi di Valentina Errante Il Messaggero, 12 febbraio 2020 Nella bozza di via Arenula una norma anti-correnti per Palazzo dei Marescialli. L’inappellabilità di sentenze di proscioglimento per i reati che prevedano solo pene pecuniarie, la riforma del csm e delle elezioni per Palazzo dei Marescialli e lo stop alle porte girevoli per il rientro in ruolo delle toghe che abbiano scelto la politica. L’ultima bozza, non ufficiale, del ddl Bonafede, che dovrebbe essere esaminata domani in Consiglio dei ministri, mantiene anche la dead line per le indagini, con relativi procedimenti disciplinari nei confronti pm che non rispettino i tempi. Le indagini dovranno essere più brevi e le procure dovranno archiviare i fascicoli se le prove non siano abbastanza forti da supportare il quadro accusatorio. La riforma, che non piace troppo all’Anm, resta quasi intatta, lasciando fuori, ovviamente, la questione prescrizione, che continua a creare forti tensioni nella maggioranza, suscita l’ira degli avvocati e le critiche di tutta la magistratura, come hanno dimostrato le relazioni di presidenti di corti d’appello e procuratori generali in occasione dell’anno giudiziario. Il pm che non rispetta le tempistiche del processo penale incorre in un “illecito disciplinare quando il fatto è dovuto a dolo o a negligenza”. Anche i tempi delle indagini vengono modificati in relazione alla gravità dei reati: sei mesi per i reati puniti con una pena non superiore a tre anni. Passa da due anni prorogabili, a un anno e sei mesi, prorogabili una sola volta, il tempo massimo per indagini di mafia, terrorismo, omicidio. Ovviamente l’orologio partirà soltanto al momento dell’iscrizione di un nome sul registro degli indagati. Il pubblico ministero non potrà esercitare l’azione penale nei casi in cui gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentano, anche se confermati in giudizio, l’accoglimento della “prospettazione accusatoria”. Secondo il documento non potranno essere impugnate le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa o quelle di condanna in cui la pena sia sostituita con il lavoro di pubblica utilità. Sale da 20 a 30 il numero dei componenti del Csm, con un aumento tanto dei togati quanto dei laici. I togati salgono da 12 a 20, mentre i membri laici aumentano da otto a dieci, lasciando quindi immutato il rapporto tra le due componenti. Secondo la bozza, i magistrati che verranno eletti dai loro colleghi al Csm non lo saranno più in un collegio unico nazionale, bensì suddividendo il territorio in 17 collegi territoriali, per scoraggiare le correnti. Il documento prevede anche una norma che preclude il rientro nei ruoli organici della magistratura ordinaria o speciale di appartenenza al magistrato “che abbia ricoperto la carica di parlamentare nazionale o europeo, di componente del Governo, di consigliere regionale o provinciale nelle Province autonome di Trento e Bolzano, di Presidente o assessore nelle giunte delle Regioni o delle Province autonome di Trento e Bolzano, di sindaco in comuni con più di centomila abitanti”. Il testo (non ufficiale per il Ministero) stabilisce che “alla scadenza o alla cessazione del mandato, il magistrato è collocato nei ruoli amministrativi della propria o di altra amministrazione conservando il suo trattamento economico”. Ermini (Csm): “Serve una moratoria politica per cambiare il Codice penale” di Barbara Jerkov Il Messaggero, 12 febbraio 2020 “Sui principi condivisione indispensabile La prescrizione non esaurisce i problemi”. Una “moratoria politica” per poter intervenire con la necessaria serenità su una riforma più complessiva della giustizia penale, a partire dal Codice Rocco. Perché non si può procedere, come sulla prescrizione, con riforme-spot. Ma, soprattutto, perché un tema che afferisce ai diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione va affrontato con un percorso condiviso e non nello scontro tra le forze politiche. Proprio mentre infuria la battaglia nella maggioranza, il vicepresidente del Csm, David Ermini, lancia un appello a sotterrare l’ascia di guerra in nome dei valori comuni. Governo sull’orlo della crisi, magistrati e avvocati in trincea: pochi provvedimenti hanno suscitato tante critiche come la prescrizione lunga introdotta da Bonafede. Qual è il suo giudizio, presidente Ermini “Non posso che ribadire quello che il Csm ha già espresso nel suo parere allo Spazza-corrotti, seppur a maggioranza. Cioè che così com’era stata approvata, quella norma pone diverse criticità perché non risolve i problemi dei tempi della giustizia e va a incidere su principi come la ragionevole durata dei processi”. Pd e M5S hanno concordato alcune modifiche: il cosiddetto lodo Conte bis potrebbe essere una risposta a questi rilievi? “Quando ci sarà una proposta di legge sull’argomento daremo i nostri pareri, al momento non abbiamo ricevuto niente di ufficiale. Io insisto nel dire, a prescindere dal tema specifico della prescrizione, che nella tutela della giurisdizione e dei valori costituzionali tutti devono stare dalla stessa parte, avvocati, magistrati e accademici. Senza voler fare alcuna invasione di campo, il mio auspicio è che tutte le riforme che riguardano la giustizia siano il più possibile condivise”. Un auspicio che sembra echeggiare i ripetuti moniti alla coesione che arrivano da Mattarella, ma troppo poco ascoltati evidentemente visto il clima attuale… “Ma non ha veramente senso che via via che cambia maggioranza si lavori per cambiare le norme sulla giustizia, che è un diritto di tutti i cittadini indipendentemente da come votano. Una vera collaborazione prevede da una parte gli operatori del diritto che lavorano per la giurisdizione e dall’altra una normativa che non assuma colorazioni di parte. Voglio essere ancora più chiaro: rendere la giustizia terreno di scontro politico non fa bene alla giustizia”. E però il legislatore, l’ha ricordato poc’anzi lei stesso, non ha tenuto in considerazione neppure il parere critico adottato a suo tempo dal Csm… “Noi facciamo il nostro compito e lì si esaurisce, il Parlamento è sovrano. Le posso però aggiungere una mia riflessione tutta personale. Se si pensa che i problemi della giustizia si risolvano nel tema prescrizione, è evidente che non è così. Come è stato detto anche all’inaugurazione dell’anno giudiziario da tanti magistrati, i problemi della giustizia sono innumerevoli, a partire da quello delle risorse, che oggettivamente va migliorando anche se ancora non basta. Ci vorrebbe una sorta di moratoria politica per poter intervenire anche sul Codice penale”. Sta parlando della necessità una riforma più complessiva? “Le tutele che andavano bene quando fu adottato il Codice Rocco non sono più attuali. Pensi solo alla truffa e all’appropriazione indebita che vengono punite con sanzioni irrisorie, oppure ci sono dei reati che oggi non esistono più o, al contrario, reati nuovi (come per esempio quelli informatici) che richiedono una riforma più organica. Lavorare sul Codice sostanziale e fare il tagliando al Codice di procedura dell’89 presupporrebbe però un’armonia maggiore tra tutte le forze politiche. Perché i Codici sono patrimonio di tutti e sulla giustizia, ripeto, non si può andare a colpi di maggioranza”. Il problema è che auspicando una revisione dei Codici lei introduce uno scenario perfino più complesso di quello attuale: se già si litiga sulla sola prescrizione lunga.. “Ma se non si fa così, se si procede sempre con interventi non organici, non si rivolvono i problemi. Del resto, ci sono principi condivisi, i principi costituzionali, a cui tutti facciamo riferimento. Poi, come è giusto che sia, si può discutere sulle norme, ma i principi e i percorsi per arrivarci devono essere comuni”. La riforma del processo penale, almeno quella, parrebbe essere a un passo dal primo via libera del Cdm, e però finisce per passare in secondo piano travolta dalla polemica sulla prescrizione. “Io non ho visto la riforma perché ancora non è stata formalmente depositata. Ma evidentemente tutto ciò che serve ad accorciare la durata dei processi è salutare, ho sentito per esempio parlare di un più ampio ricorso al patteggiamento... Quando avremo la bozza avremo modo di valutarla”. Viste tutte queste implicazioni, mi par di capire che condivide la richiesta, rinnovata anche dalle Camere penali: rinviare l’entrata in vigore della prescrizione lunga per poter prima sciogliere tutti i nodi che pone? “Non è compito mio intervenire su questi aspetti e non mi permetto di indicare un percorso piuttosto che un altro. Dico solo che se si cerca di agire a fondo sui tempi del processo, arrivando alle ragioni sostanziali affinché la giustizia sia giusta, equa e veloce, siamo pronti a dare sempre il nostro contributo. Come le ho detto, auspico un clima molto diverso, di grande collaborazione, anche perché servirà del tempo non solo per l’approvazione delle norme ma anche per valutarne gli effetti concreti. Questo clima è essenziale per creare un percorso virtuoso”. L’altro giorno il premier Conte ha dichiarato di non essere “né garantista né giustizialista”. Cos’ha pensato? “Io ho già detto come la penso. Ci sono i principi costituzionali e a quelli si fa riferimento. Poi sugli ismi la scelta è personale”. Un’ultima domanda, presidente. Oggi con il Capo dello Stato al Csm ricorderete la figura di Bachelet a 40 anni dal suo assassinio. Cosa le evoca la sua figura? “È stato un uomo di grande cultura, un grande giurista. Ma la cosa che mi ha colpito di più di Bachelet rileggendo i suoi scritti è la prudenza. Una qualità che oggi andrebbe riscoperta: mai una parola in più, ascoltare tutti... pregi un po’ scomparsi. Nonostante le grandi tensioni di quegli anni, il terrorismo nero, quello rosso, si sparava in strada, l’Italia rispose compatta. È l’identità nazionale, quella vera, basata sulla memoria condivisa, che dovremmo saper ritrovare, tanto più quando parliamo di giustizia”. Prescrizione, ora è stallo ma la crisi è dietro l’angolo di Rocco Vazzana Il Dubbio, 12 febbraio 2020 Niente forzature, Bonafede lavora a un ddl per evitare la crisi. Nessun emendamento al Mille Proroghe, nessun emendamento alla pdl Costa e nessun decreto legge. Sulla prescrizione, la maggioranza, o meglio, la maggioranza della maggioranza M5S, Pd e Leu - preferisce evitare forzature che creerebbero strappi irreparabili con Italia viva, indisponibile ad accettare la mediazioni del cosiddetto “lodo Conte bis”, che prevede lo stop della prescrizione in primo grado solo in caso di condanna. La strada meno accidentata, sulla carta, sarebbe dunque quella di un ddl, da presentare giovedì in Consiglio dei ministri, insieme alla riforma del processo penale. Più che un compromesso, un modo per congelare la polemica politica, visto che il disegno di legge prevede un iter parlamentare così lungo da non mettere la legge Bonafede al riparo da possibili incidenti d’Aula. “Sul veicolo normativo stiamo facendo tutte le valutazioni, anche relative alle dinamiche e ai tempi parlamentari”, spiega il ministro della Giustizia, nel tentativo di non offrire una “sponda a chi la vuole per alzare i toni”. Il riferimento è, ovviamente, a Matteo Renzi, il più grande nemico della prescrizione riformata da Bonafede, tanto da minacciare una mozione di sfiducia individuale nei confronti del Guardasigilli. “Ciascuno è libero di fare ciò che vuole, anche di decidere se stare in maggioranza o all’opposizione. Io continuo il mio lavoro”, commenta il ministro grillino. “Molestare quotidianamente i cittadini con minacce e risse e toni di un certo tipo è sbagliato”. Ma Italia viva, per ora, continua a mostrare i muscoli agli alleati intenzionati a trovare un punto di caduta definitivo a partire dal nuovo lodo Conte. “Noi saremo conseguenti con il nostro impegno di non votare questa norma”, dice Renzi, che poi scrive soddisfatto su Facebook: “Non inserire il lodo Conte nel Mille Proroghe è un gesto di buon senso”. Buonsenso che però non ha convinto Italia viva a rinunciare al “lodo Annibali” per lo slittamento al 31 dicembre dell’entrata in vigore della riforma Bonafede, presentato nello stesso decreto, nonostante il parere negativo del governo. L’atteggiamento ostile dell’ex premier nei confronti dell’ esecutivo manda su tutte le furie persino Nicola Zingaretti, che in mattinata usa parole poco lusinghiere nei confronti dell’ex compagno di partito. “Dicevano di voler allargare il campo ai moderati per sconfiggere Salvini. Sono diventati estremisti che frammentano il nostro campo e fanno un favore a Salvini”, sbotta il segretario dem, convinti che i leader dei partiti di centrodestra stiano “brindando” al lavoro dei renziani. La mozione di sfiducia contro Bonafede paventata da Iv? “Un teatrino insopportabile”, dice secco Zingaretti. “C’era una volta una bella trasmissione di Arbore, con il grande comico Catalano... Se un partito presenta una mozione di sfiducia al governo di cui fa parte, la risposta è nelle cose”. Insomma, secondo dem e pentastellati Renzi deve scegliere cosa fare da grande: continuare a cannoneggiare sulla sedia di Conte o entrare definitivamente in maggioranza? Quesito mal posto secondo gli esponenti di Italia viva, sicuri di condurre una battaglia campale contro la “barbarie” dei processi infiniti. “Quanto livore da Nicola Zingaretti contro”, di noi, replica a distanza il renziano Luciano Nobili. “Improvvisamente ci ha scelto come nemici. E sapete perché? Perché preferiamo la riforma Orlando a quella di Bonafede e Salvini”. Il clima è insomma più che frizzantino tra le forze di maggioranza, decise a fronteggiarsi in campo aperto. E ricorrere al tecnicismo parlamentare, spulciare tra i regolamenti nella speranza di individuare il mezzo più appropriato ad aggirare l’ostacolo non aiuterà di certo a risolvere il problema. La crisi di governo è sempre dietro l’angolo. Sempre che qualcuno dei contendenti trovi davvero il coraggio di restare con un pezzo di corda in mano. Prescrizione. Tensioni difficili da controllare tra governo e renziani di Massimo Franco Corriere della Sera, 12 febbraio 2020 La prescrizione rimane un’incognita per la maggioranza. E oggi il Senato vota per il processo a Matteo Salvini per i migranti bloccati sulla nave Gregoretti. Matteo Renzi aveva chiesto a Giuseppe Conte di mediare sulla prescrizione. Ma intanto ieri ha fatto votare Iv con le opposizioni, perdendo per due soli voti. La conseguenza inevitabile è che il governo potrebbe chiedergli di chiarire una volta per tutte se il suo partito vuole rimanere nella maggioranza o picconarla dall’interno, quasi fosse una “quinta colonna” dell’opposizione. Già ieri sera si era parlato di un intervento del premier Giuseppe Conte, annullato per non peggiorare le cose. Rimane una tensione artificiosa quanto gonfia di rischi, dopo che il conflitto sembrava avviato sul binario morto di un rinvio di fatto. La sensazione è che il M5S e il Guardasigilli Alfonso Bonafede, contro il quale Iv ha minacciato una mozione di sfiducia, non vogliano cedere. E ieri Conte ha incontrato a lungo il presidente della Camera, Roberto Fico, per capire quali siano i veri numeri della maggioranza. E anche Nicola Zingaretti e il suo Pd hanno usato parole ultimative, imputando a Renzi di surrogare Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi come guastatori dell’esecutivo. Conte e Zingaretti cercano di contrapporre il richiamo alla lealtà a quella che ritengono “la strategia del bluff”. L’obiettivo è di ridimensionare Renzi e verificare quanto la linea del “non mollo” e le minacce di sfiducie siano assecondate dai suoi. La volontà di arrivare a un chiarimento potrebbe però segnare un’accelerazione non scevra da rischi. Ma evidentemente, la prospettiva di proseguire la legislatura con un partito che ha un piede dentro e uno fuori dall’alleanza viene considerata troppo pericolosa. Logora l’esecutivo, e avvantaggia le opposizioni. La firma della Lega all’emendamento sulla prescrizione presentato da Iv e il voto di ieri in commissione sono considerati segnali sospetti. La mossa leghista tesa a spaccare la coalizione è stata usata come prova dell’ambiguità renziana. E ha insinuato il sospetto di manovre per fare cadere Conte. Sospetti tutti da verificare, che tra l’altro non tengono conto della determinazione del Quirinale a non sperimentare altre formule in questa legislatura. Ma il governo è troppo debole per potersi permettere gli smarcamenti a intermittenza di un alleato minore: sebbene sulla prescrizione il Pd abbia dato atto a Iv che alcune critiche alla sospensione della prescrizione, voluta dai grillini, hanno fondamento. La giustizia rimane uno spartiacque, e non è un buon segno. Oggi il Senato voterà l’autorizzazione a procedere per sequestro di persona contro Salvini per il blocco della nave dei migranti Gregoretti. E il probabile “sì” al processo, dopo le numerose contorsioni leghiste, aprirà nuove polemiche. Le contraddizioni del Lodo Conte: follia lasciar decidere al pm chi ha diritto ad avere diritti di Giorgio Spangher Il Riformista, 12 febbraio 2020 Premesso che il tema della prescrizione, come emerge dalle riforme Orlando e Bonafede andrebbe resettato; - che nell’attuale dibattito in materia spesso si confondono i piani della estinzione del reato per il decorso del tempo con quello della durata ragionevole del processo, perché si è imbastardito un tema di diritto penale sostanziale con un profilo di diritto processuale penale, come emerge dal fatto che un processo di durata irragionevole non implica necessariamente la prescrizione e che, all’opposto, un processo di durata ragionevole può veder prescritto un reato; - che la questione è “esplosa”, nei limiti delle statistiche evidenziate dall’indagine Eurispes delle Camere penali, perché la questione deflattiva nel passato era stata assegnata all’amnistia che, a differenza della prescrizione che opera a macchia di leopardo, agisce in modo orizzontale e indistinto; - che il problema della prescrizione consegna all’accusa la scelta di cosa far prescrivere e cosa condurre a decisione di merito; - che la prescrizione è la conseguenza del mancato funzionamento sotto vari profili della macchina giudiziaria: elefantiasi delle notizie di reato, mancanza di mezzi e di personale, tempi morti, burocratizzazione dei percorsi processuali; - che conseguentemente tutti gli imputati e le persone offese possono dolersi della durata irragionevole del processo e del loro processo in particolare; - che per le suddette ragioni si sono dilatati a dismisura i tempi della prescrizione dei reati; Limitandosi ad affrontare il tema della prescrizione dei reati nello sviluppo processuale si può dire che: - il soggetto che ha avuto la prescrizione non può lamentarsi dell’applicazione della prescrizione perché il presupposto è costituito dal giudizio di responsabilità; - il soggetto prosciolto non ha motivo di lamentarsi della modifica della prescrizione, perché, se è prosciolto, è quindi in una condizione migliore di quella nella quale la prescrizione si sarebbe applicata; - il soggetto che sia stato condannato in primo grado, evidentemente non poteva godere della prescrizione che diversamente gli sarebbe stata applicata; - il soggetto condannato in primo grado e prosciolto in appello, ottiene una decisione più favorevole della prescrizione; - l’unico soggetto “danneggiato” è il condannato in primo grado che non può ottenere - se ritenuto colpevole - la prescrizione che sarebbe maturata dopo la sentenza di condanna di primo grado se non ci fosse stata la sospensione del decorso della prescrizione; l’unica possibilità per questo soggetto è costituita dall’annullamento della condanna di primo grado, oltre alle variabili del ricorso in Cassazione; - dovrebbe escludersi un pregiudizio per l’assolto in primo grado che a seguito di appello del p.m. sia ritenuto colpevole, perché evidentemente non è maturata la prescrizione, perché non sospesa, e se invece è maturata, gli sarà stata applicata; - dovrebbe escludersi pregiudizio per l’assolto in primo grado che su appello del p.m. dovrebbe essere prosciolto per la prova insufficiente o contraddittoria dovendo prevalere la decisione più favorevole, anche se fosse maturata medio tempore la prescrizione. Essendomi già più volte espresso negativamente sulla questione di costituzionalità della disparità di trattamento tra condannato e assolto non ritorno sul punto se non per ribadire che l’incostituzionalità riguarderebbe il condannato. Quello che ritengo assolutamente inaccettabile riguarda la possibilità che si preveda una sospensione del decorso della prescrizione nel giudizio di appello nei confronti di un soggetto prosciolto a seguito di un dibattimento svolto in contraddittorio in conseguenza di una impugnazione del pubblico ministero. È inammissibile che un atto unilaterale dell’accusa nei confronti di un innocente, non solo presunto tale per costituzione ma anche in concreto per decisione di un giudice, possa subire una lesione di un suo diritto perché il pubblico ministero presumendo la sua responsabilità non vuole che possa avvalersi del suo diritto all’estinzione del reato. Lo Stato scarica sugli imputati le sue mancanze di Alberto Cisterna* Il Riformista, 12 febbraio 2020 La prescrizione era concepita come il prezzo che le istituzioni dovevano pagare al cittadino per risarcirlo di inefficienze o lungaggini. Interromperne il decorso esenta i magistrati da ogni colpa: ci rimette solo chi finisce alla sbarra. Stando ai numeri ufficiali alcuni milioni di italiani sono in attesa di conoscere, in un’ aula civile o penale, quale sorte toccherà ai propri beni, alla propria retribuzione o peggio ai propri figli o alla propria libertà. Cause civili e penali tengono prigionieri, spesso per anni, i destini di tante donne e di tanti uomini, troppe volte di bambini che attendono una pronuncia definitiva per una separazione, un’adozione, un affido. Migliaia e migliaia di vite che consumano, con i propri “carcerieri”, un terribile destino d’attesa con gli uni che invocano giustizia e gli altri che sanno di non potercela fare, che ci vorrà tempo, spesso tanto tempo. Per la giustizia civile in verità c’è poco o nulla da fare; forse nessuna riforma potrà ottenere che i giudici possano leggere atti e pronunziare più sentenze di quanto oggi accada, pena il torneo impazzito della fretta e della superficialità che produrrebbe solo altro contenzioso tra appelli e ricorsi. Più di quanto già oggi succeda. Per la giustizia penale la prescrizione era stata concepita nella sua essenza come il prezzo che lo Stato doveva pagare per le proprie inefficienze investigative (reati scoperti tardi) o per le proprie insopportabili lungaggini processuali. Una sorta di tacito patto tra Stato e cittadini per cui - dopo un tempo ragionevole - si era sempre ritenuto giusto che la prigione processuale spalancasse le proprie porte e mettesse in libertà carcerati e carcerieri perché fossero restituiti gli uni alla propria vita e gli altri alle urgenze di nuovi fascicoli. Un patto che nulla ha a che fare, si badi bene, con lo Stato liberale o con la democrazia rappresentativa, se è vero che la prescrizione fascista del Codice del 1930 ha attraversato i decenni sostanzialmente immutata nei suoi caposaldi. I paesi che non conoscono la prescrizione non hanno processi lunghi come in Italia. Da noi, dopo qualche anno, lo Stato ha sempre ritenuto indispensabile deporre le armi e rinunciare non già alle condanne (si badi bene), ma all’accertamento dei fatti e alla ricerca della verità, lasciando insoluta l’alternativa tra colpevolezza e innocenza. E ciò è tanto vero che lo Stato ha rimesso ai cittadini-imputati l’ultima parola potendo loro rinunciare alla prescrizione e affrontare il torneo processuale. Un gesto tutt’altro che raro tra gente comune e, talvolta, imputati eccellenti (lo ha fatto, a esempio, il tanto bistrattato governatore De Luca per un’accusa pesante da cui venne, infatti, assolto) che segna forse il più alto grado di fiducia verso il sistema processuale. Rompere quel patto e ricusare quell’alleanza ha aperto il vaso di Pandora e scatenato le Erinni dell’uno e dell’altro fronte. Un gesto sicuramente ispirato da buone intenzioni, ma che ha drammaticamente messo in discussione chi debba pagare le inefficienze del sistema. Finora uno Stato-Pantalone pagava per tutti, apriva le gabbie del processo e considerava equo rinunciare a ogni verifica sulla responsabilità dell’imputato. Neppure le parti civili subivano un vero danno perché la prescrizione consentiva loro di ottenere un risarcimento in sede civile contro lo stesso imputato. Dal gennaio improvvisamente si è deciso che a pagare il conto non sia più lo Stato il quale, a fronte di un mare di inefficienze quasi impossibili da sradicare, ne ha girato il costo sulle spalle degli imputati serrando le porte del processo praticamente senza fine e buttando via la chiave. Il sistema garantisce solo un grado di giudizio, forse due, per il resto si è chiamato fuori dal problema con vaghe promesse di un mondo nuovo in cui nessuno, invero, crede. Nel furore della polemica qualcuno ha anche pensato di poter accollare il prezzo sui magistrati suggerendo di mandare sotto procedimento disciplinare tutti i “rei” de ritardi, tutti quelli che non dovessero rispettare i nuovi protocolli e le nuove scadenze del nuovo mondo. Ovviamente l’Anm è insorta all’unisono con una buona dose di ragione e, dopo varie oscillazioni e un po’ di confusione, sembra aver deciso che - a ben considerare - sia tutto sommato meglio girare il pacco agli imputati anziché ai giudici. Soluzione un tantino, come dire, corporativa, ma si tratta pur sempre di un sindacato ed é giusto che faccia il proprio mestiere. In attesa che venga alla luce un improbabile sindacato degli imputati che, badate bene, correrebbe subito a solidarizzare con i giudici (nessuno vorrebbe essere giudicato da un magistrato strangolato disciplinarmente se non si sbriga a decidere), non resta che riconsiderare quali siano le ragioni profonde e le matrici ultime di una riforma che - come ha ricordato bene il procuratore di Catanzaro pochi giorni or sono - doveva solo servire a porre il tema della celerità dei processi e non a rendere perenne il limbo del processo scatenando una guerra tra sommersi e salvati. *Magistrato Spazza-corrotti, l’avvocato dello Stato: “Incostituzionale per le vecchie condanne” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 febbraio 2020 L’intervento alla Consulta: il divieto di misure alternative al carcere per i corrotti non può essere retroattivo. La decisione della Corte potrebbe arrivare già domani. Colpo di scena alla Corte costituzionale: con un’iniziativa di cui non si ricordano precedenti l’Avvocatura dello Stato ha “bocciato” la legge chiamata “Spazza-corrotti” nella parte in cui vieta retroattivamente ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione la possibilità di accedere alle misure alternative al carcere. La riforma varata un anno fa dal governo Cinque stelle-Lega ha introdotto, tra le altre novità, l’equiparazione della corruzione e altri reati simili a quelli cosiddetti “ostativi” (come mafia, terrorismo e traffico di droga), per i quali sono precluse le misure alternative alla detenzione normalmente applicate ai condannati a pene inferiori ai quattro anni di carcere. La norma è entrata in vigore il 31 gennaio 2019 ma non essendo previsti regimi transitori è stata applicata anche a tutti coloro che, prima di quella data, erano state condannate a pene per le quali avrebbero potuto beneficiare dell’affidamento ai servizi sociali, alla detenzione domiciliare, senza dover entrare in prigione. A partire dal primo febbraio 2019 quei condannati sono stati invece portati in cella, e contro questa situazione sono giunti alla Corte costituzionale ben 17 ricorsi di tribunali e corti che - sollecitati dai difensori dei condannati - ipotizzavano l’incostituzionalità della legge. Stamane, al palazzo della Consulta s’è svolta la discussione alla quale hanno partecipato, tra gli altri, gli avvocati Vittorio Manes e Giandomenico Caiazza, quest’ultimo presidente dell’Unione camere penali. Ribadendo ciascuno la necessità di bocciare quel pezzo della legge Spazza-corrotti, perché in contrasto con l’articolo 25 della Carta secondo il quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. I legali hanno spiegato che, incidendo sulla libertà personale dei condannati, il principio di irretroattività delle norme deve applicarsi anche a questa legge, poiché riguarda il “diritto sostanziale”. E al termine dei loro interventi l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi s’è detto d’accordo con i difensori che reclamano la bocciatura della legge. “In particolare dopo aver ascoltato il professor Manes e i suoi richiami alla comparazione con gli altri Paesi europei - ha spiegato - devo parzialmente correggere le nostre conclusioni. Non mi sento controparte rispetto ai colleghi difensori, perché lo Stato di diritto dev’essere un riferimento per tutti gli operatori del diritto. Questa norma non può essere retroattiva, e tuttavia non vi chiedo la dichiarazione di incostituzionalità bensì una sentenza interpretativa di rigetto: la legge deve essere infatti interpretata secondo i principi costituzionali, e quindi anche nella sua attuale forma i giudici possono non applicarla retroattivamente”. Al di là delle formulazioni giuridiche, almeno in questa parte la legge “Spazza-corrotti” - fiore all’occhiello del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dei Cinque stelle, nella quale fu inserita anche la norma che abolisce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado - viene dunque sconfessata anche dall’avvocatura dello Stato. Una bocciatura della norma, e dunque del governo che l’ha proposta e del Parlamento che l’ha approvata, da parte di chi solitamente è chiamato a difendere le leggi davanti alla Corte costituzionale. Che deciderà domani o nei prossimi giorni. Spazza-corrotti retroattiva? L’avvocato dello Stato dice “no” di Angela Pederiva Il Gazzettino, 12 febbraio 2020 A memoria di giuristi non era mai successo che l’Avvocatura dello Stato bocciasse una norma nazionale, davanti alla Corte chiamata a pronunciarsi sulla sua costituzionalità. Eppure è quanto accaduto ieri a Roma, sul caso sollevato dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia a proposito del geometra Antonio Bertoncello, primo di 17 ricorsi che in tutta Italia pongono dubbi di legittimità sulla Spazza-corrotti, nella parte che vieta retroattivamente la concessione dei benefìci penitenziari ai condannati per gravi reati contro la pubblica amministrazione. A sorpresa, infatti, la difesa del Governo ha chiesto alla Consulta di precisare che il testo va applicato “solo ai fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della legge”. L’avvocato Massimo Giannuzzi, noto in Veneto anche per difendere gli ex alti ufficiali della Marina imputati per le morti da amianto, ha definito “magistrale” l’arringa del docente universitario Vittorio Mares, che insieme al penalista veneziano Tommaso Bortoluzzi patrocina la causa di Bertoncello. “La legge non è incostituzionale ha premesso il rappresentante dello Stato ma è possibile intervenire, da parte della Corte Costituzionale, con una interpretativa di rigetto che dia una nuova lettura della sua applicabilità, formulando l’affermazione che tutte le norme che peggiorano lo stato di libertà del detenuto vadano lette in termini di non retroattività”. Tradotto: la Spazza-corrotti può restare scritta così com’è, ma occorre che la Consulta ne fornisca ai Tribunali un’interpretazione secondo i princìpi costituzionali, fra cui quello sancito dall’articolo 25 della Carta (“Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”). In mancanza di una disciplina transitoria per i reati compiuti prima del 31 gennaio 2019, invece, ora come ora verrebbe precluso l’affidamento in prova ai servizi sociali a un condannato come Bertoncello, che per le tangenti risalenti al periodo 2002-2011 deve ancora scontare 2 anni, 3 mesi e 12 giorni di reclusione. Di qui la richiesta dell’avvocato dello Stato, inaspettata se si pensa che la determina alla costituzione nel giudizio era stata firmata da un pentastellato qual è il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il trevigiano-trentino Riccardo Fraccaro, ma assai più ragionevole se si considerano le parole dello stesso Giannuzzi: “Lo Stato di diritto deve essere riferimento di tutti, quale che sia la parte che si rappresenta”. Soddisfatto l’avvocato Manes: “Sorprende positivamente la posizione dell’Avvocatura dello Stato, per la forza con cui ha condiviso i gravi dubbi di costituzionalità sollevati. Si tratta di una decisione cruciale per la tenuta dello Stato di diritto di fronte all’arbitrio punitivo dello Stato. E non può realizzarsi un cambio di scenario improvviso, per chi aveva la ragionevole previsione di accedere alle misure penitenziali alternative alla reclusione in carcere”. Ora si attende il verdetto della Consulta, interpellata da nove Tribunali, come ha ricordato l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali : “Non si è mai vista una legge appena promulgata travolta così da ordinanze di giudici di tutta Italia. E questo sarebbe il fiore all’occhiello della legislazione dei Cinque Stelle”. L’avvocato vicentino Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia, punge con un tweet il ministro della Giustizia: “Alfonso Bonafede chieda scusa agli italiani che in questo anno sono stati ingiustamente detenuti”. La Spazza-corrotti è uno schifo, una sfida a Falcone e a chi combatte la mafia di Piero Sansonetti Il Riformista, 12 febbraio 2020 La Spazza-corrotti, come l’hanno chiamata con un linguaggio da trivio, è una delle leggi peggiori e più reazionarie mai approvate dal Parlamento della Repubblica. In due parole spieghiamo cos’è. Una norma che equipara i reati di corruzione ai reati di mafia. Dal punto di vista di principio, questa legge ha stabilito che Roberto Formigoni - per esempio - deve essere trattato non come tutti gli altri condannati per reati vari (rapina, stupro, omicidio o cose così) ma come un mafioso: come Riina, o Provenzano, o Bagarella. Non solo in linea di principio, ma anche in linea pratica. Formigoni non può godere dei benefici penitenziari riservati a un assassino qualunque, perché lui - anche se non ci sono le prove - ha commesso un reato molto, molto più grave di quello commesso da chi - in un momento di confusione - ha - mettiamo - massacrato la moglie o sgozzato una figliola: Formigoni si è fatto ospitare in barca da un amico col quale - forse - aveva avuto rapporti politico-professionali nel suo ruolo di amministratore. Abuso: al rogo. Perché la Spazza-corrotti è una pessima legge? Per tre ragioni. La prima è abbastanza evidente. Equiparare un reato, anche piccolo, di corruzione, a un reato di mafia, è un atto evidente di insolenza e di sfida a tanta gente che ha dedicato la vita a capire e a combattere la mafia. Penso sempre a Falcone e a tanti che lavorarono con lui, e impiegarono anni, e tanta della loro credibilità, per spiegarci cosa fosse la mafia, come funzionasse, quanto e perché fosse pericolosa. Poi sono arrivati questi ragazzi a 5 Stelle e hanno deciso che mafia o traffico di influenze sono la stessa cosa. Seconda ragione. Proclamare una nuova gerarchia di reati nella quale abuso d’ufficio è molto più grave di stupro è qualcosa di orribile, di atroce, che può provocare - anzi, che provoca - una ferita difficile da rimarginare nel senso comune. Terza ragione, ma questa è più complessa e non riguarda i 5 Stelle ma chi ha governato prima di loro e ha aperto loro la strada: la giustizia, in un vero Stato di diritto, è uguale per tutti. Ci sono i reati più gravi e quelli meno gravi, ma ci dovrebbe essere un solo binario della giustizia. Il doppio binario è uno sgarro anche alla ragionevolezza. Sia il doppio binario nelle procedure e nei metodi di indagine, sia il doppio binario nelle punizioni. Riusciremo mai ad abolire questa anomalia? Intanto noi proviamo a chiederlo. E facciamo scandalo. Francesca Scopelliti: “Con questa riforma Tortora sarebbe morto in carcere da colpevole” di Simona Musco Il Dubbio, 12 febbraio 2020 Intervista alla della compagna del presentatore Rai. “Il mio Enzo rappresenta, oggi, l’innocenza assoluta. E allora uso il paradosso Tortora per spiegare a tutti questa norma sulla prescrizione. Fu condannato a dieci anni di galera, a settembre dell’85, da innocente, morendo a maggio dell’88: se ci fosse stata l’applicazione della legge per cui, dopo la condanna in primo grado, si cancella la prescrizione, Enzo sarebbe morto da colpevole. Un innocente, una persona perbene, una persona di grande dignità e moralità, sarebbe morto con la macchia della colpevolezza”. A parlare è Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora, che ha raccolto il suo testimone per portare avanti una battaglia a difesa delle vittime della malagiustizia. Una giustizia, racconta Scopelliti al Dubbio, che nelle sue storture è rimasta tale e quale a quando il presentatore finì nella macchina del fango, il 17 giugno 1983, quando venne arrestato a favore di telecamera con l’accusa di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Un clamoroso errore giudiziario risolto soltanto dopo due processi, quanto servì per stabilire la verità e riabilitare l’onore di uomo nel frattempo diventato leader di una battaglia civile, affiancato dal suo amico Marco Pannella, che fece di lui anche un leader politico. “Nel caso di Enzo i problemi dei tempi della giustizia non ci furono, perché i tre gradi di giudizio si conclusero in quattro anni - racconta. Ma immaginando la situazione attuale, che richiede anche 15 anni per un processo, e con la norma Bonafede, allora le cose sarebbero state diverse. E questo in un Paese civile non è accettabile”. Per Scopelliti, l’errore giudiziario, oggi, è diventato una consuetudine. E a dirlo, spiega, sono i dati sulle assoluzioni in appello, “numeri enormi”, che rendono la prescrizione “necessaria per limitare il fine processo mai che molte volte colpisce un innocente”. Le critiche di Scopelliti sono indirizzate anche a chi, come il procuratore Nicola Gratteri e il consigliere Csm Piercamillo Davigo, definiscono “fisiologici” i casi di innocenti in carcere. “Dire ciò è il male della giustizia - sottolinea - specie quando si è così tanto sotto i riflettori. Non ci si rende conto che la persona che finisce in galera da innocente vede la sua vita stravolta come in uno tsunami. Non si recupera più l’equilibrio di prima. Perché non ci provano loro? Perché non provano a vedere cosa succede ad un uomo perbene che si vede accusare delle peggiori cose? Perché non parlano con tutte le vittime della giustizia?”. Come Angelo Massaro, arrestato da innocente quando suo figlio aveva 40 giorni e tornato in libertà quando aveva 21 anni; o Giuseppe Gulotta, rimasto in carcere 30 anni senza aver alcuna colpa. “Chi ridarà loro indietro la vita persa?”, si chiede la Radicale, che ricorda: “meglio un colpevole fuori che un innocente dentro. Perché lo Stato non può disporre della vita di una persona e non può abusare delle vite senza motivo. È per questo non che in Italia non c’è la pena di morte”. La battaglia di Scopelliti va avanti soprattutto sul piano culturale, portando in giro le lettere che Tortora le ha inviato dal carcere e confluite in un libro. Un atto di denuncia attraverso le parole con le quali il presentatore tracciò un’analisi dei mali della giustizia, partendo dal proprio caso per parlare del caso Italia. “Quei problemi sono ancora attuali - sottolinea Scopelliti. Le parole di Enzo valgono più di qualsiasi altra parola e spero servano per fare un percorso di cultura. Le porto nelle scuole, affinché il mio sogno di una riforma della giustizia con il nome di Tortora sia esaudito dai magistrati del futuro, sperando che i 18enni di oggi facciano tesoro della sua vicenda”. La battaglia culturale deve, soprattutto, a incidere su una politica “oggi sorda e timorosa”. Una politica “che non ha il coraggio di fare riforme strutturali, perché ha sempre paura che ci possa essere una ritorsione”. Ma deve incidere anche sulla società, “diventata rancorosa per colpa del populismo, che ci rende giustizialisti”. Tutti colpevoli a prescindere, insomma. “Non dimenticherò mai quando un ministro, davanti al ponte Morandi crollato da poche ore - aggiunge - accusò la famiglia Benetton di essere colpevole. Io non voglio assolvere la famiglia Benetton, però non ci si comporta così come ministro. Si aspettano le indagini”. Scopelliti ha ora affidato a Matteo Renzi una proposta di legge per far sì che il 17 giugno diventi il giorno in ricordo di Tortora e di tutte le vittime della giustizia. “Voglio che Enzo diventi il tedoforo di questa giornata - conclude -, costringendo tutti a non lasciarlo mai più nel dimenticatoio”. Antimafia, in Commissione la strage di Alcamo Marina Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2020 Gulotta: “Io in carcere 22 anni da innocente. Giustizia per i carabinieri uccisi”. L’organo parlamentare ascolta il racconto dell’uomo accusato di aver partecipato al duplice omicidio di due carabinieri, all’interno della casermetta di Alcamo Marina, in provincia di Trapani, nel 1976. Il giovane fu condannato all’ergastolo, ha scontato 22 anni di carcere da innocente ed è stato assolto solo nel 2012, dopo aver subito nove processi. È uno dei tanti misteri italiani. Solo che questo è costato la vita non solo ai morti, ma pure ai vivi. Dopo 44 anni la strage di Alcamo Marina arriva in commissione Antimafia. L’organo parlamentare presieduto da Nicola Morra ha ascoltato il racconto di Giuseppe Gulotta che nel 1976, quando aveva 18 anni, venne arrestato con l’accusa di aver partecipato al duplice omicidio di due carabinieri, all’interno della casermetta di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Il giovane fu condannato all’ergastolo, ha scontato 22 anni di carcere da innocente ed è stato assolto solo nel 2012, dopo aver subito nove processi. L’audizione di Gulotta - “Ho sempre avuto fiducia nelle istituzioni, ho continuato ad averla nonostante aver subito tutto questo, ma ho sempre avuto la speranza di arrivare alla verità che per me c’è stata. Oggi non c’è ancora verità nei confronti dei carabinieri che sono morti. Io spero si arrivi a capire perché questi due ragazzi sono stati uccisi”, ha detto Gulotta ai commissari di Palazzo San Macuto. La sua confessione, è stata estorta in caserma “dopo una notte di sevizie e torture” tanto che a un certo punto il giovane dice: “Ditemi cosa devio dire, basta che la finitè. Non c’era l’avvocato e non c’era il pm”. Gulotta, davanti alla Commissione Antimafia, ha chiesto “giustizia per i due carabinieri morti”. “Io non ce l’ho con i carabinieri, la divisa per me è importante e anche io volevo indossare la divisa” ha spiegato facendo riferimento al fatto che, prima di essere coinvolto in tutta la vicenda, fece un concorso per entrare nella Guardia di finanza. “Ma questa - ha continuato - è una verità ancora a metà. Io la mia giustizia l’ho ottenuta, speravo che la verità venisse fuori e alla fine è arrivata. Spero si possa fare luce e capire perché i due carabinieri sono stati uccisi - ha continuato - Chiedo giustizia anche per loro, sarei felice se questo caso si potesse riaprire per capire perché sono morti”. “Le torture ci sono state, mi hanno fatto confessare duramente - ha proseguito - E in carcere ho passato i miei anni più belli”. “Mai ricevuto scuse da nessuno” - A riassumere la vicenda all’organo parlamentare è stato il giornalista Nicola Biondo, già capo della comunicazione del M5s alla Camera, che con Gulotta ha scritto un libro sul mistero di Alcamo Marina (Alkamar, edito da Chiarelettere). Nella serata del 12 febbraio l’uomo venne portato nella caserma di Alcamo, sua città d’origine, insieme con altri ragazzi molto giovani, due suoi amici e vicini di casa di 16 e 17 anni. I tre furono oggetti di pressanti interrogatori, sevizie e torture fino ad una sorta di esecuzione simulata. L’accusa era aver ucciso due carabinieri che prestavano servizio nella frazione balneare della cittadina: solo nel 2012 si è aperto un processo di revisione che si è concluso con l’assoluzione di Gulotta per non aver commesso il fatto. “Io non ho ricevute le scuse da nessuna parte, ma le scuse dovrebbero esserci nei confronti dei familiari dei due carabinieri morti ai quali, per 36 anni, hanno dato dei falsi colpevoli”, ha detto Gulotta. Anche dopo i processi di revisione, infatti, non sono mai stati identificati gli assassini dei due militari assassinati, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Torture per una confessione - Ad accusare Gulotta e i due amici Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli (che tra un processo e l’altro erano fuggiti in Sudamerica) fu Peppe Vesco, un ragazzo che veniva considerato vicino agli anarchici. Vesco fu arrestato un mese dopo l’eccidio dai carabinieri del colonnello Giuseppe Russo. Le indagini sulla strage vennero però depistate subito. È lo stesso Vesco che lo racconta nelle lettere scritte in carcere: per fargli fare i nomi dei presunti complici, i carabinieri lo tortureranno con botte e scariche elettrice nei genitali. Stesso destino che toccherà a Gulotta, Santangelo e Ferrandelli. Otto mesi dopo, Vesco cercherà di scagionare i tre ragazzi accusati ingiustamente, senza però riuscirci: verrà infatti trovato impiccato in carcere. Il ragazzo aveva una menomazione, aveva una mano sola: ma nessuno si chiede come sia riuscito in quel modo a fare il nodo scorsoio. Un anno dopo, il 10 agosto 1977, tocca al colonnello Russo finire assassinato a Corleone. Con la morte di Russo, uno dei responsabile delle torture, la verità sulla strage di Alcamo Marina sembra allontanarsi per sempre con il classico epilogo dei tanti misteri italiani: colpevoli perfetti, ma falsi, in carcere, quelli veri e insospettabili liberi. Invece nel 2006, quando Gulotta si è ormai rassegnato a convivere con la sua condanna, spunta a sorpresa un brigadiere in pensione che racconta la verità. Renato Olino è stato infatti il teste chiave del processo di Reggio Calabria, che raccontando in aula le sevizie e le torture che caratterizzarono quelle indagini ha consentito a Gulotta di tornare in libertà seppur dopo decenni passati in galera da innocenti. Tra Gladio e Cosa nostra - Ma perché i carabinieri cercarono in tutti i modi di depistare le indagini sugli assassini dei loro colleghi? E chi e perché uccise Apuzzo e Falcetta nella casermetta di Alcamo Marina? Domande queste che sono destinate probabilmente a restare senza risposta. Il pentito Leonardo Messina ha detto che già negli anni Settanta “Cosa Nostra aveva pianificato una serie di attacchi allo Stato”. Sul vicenda della casermetta indagò anche Peppino Impastato che in un volantino scriveva a questo proposito di stragi di stato e servizi deviati. Volantino sequestrato dopo la sua morte e mai più ritrovato. Dettaglio inquietante se si aggiunge che a sequestrarlo fu un carabiniere che sarebbe stato tra i torturatori di Gulotta. Proprio nel periodo in cui furono assassinati i due militari, Alcamo Marina era un vero scalo franco per il contrabbando di sigarette e il traffico di armi. Ambiente in cui si muoveva il fascista Pierluigi Concutelli. E in cui vanno inseriti i movimenti di Gladio che proprio in provincia di Trapani aveva un centro d’addestramento. Il cambio del capo d’imputazione non deve impedire la messa alla prova di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2020 Corte costituzionale - Sentenza 14/2020. Il cambio di imputazione non può impedire la messa alla prova. Questa la conclusione della Corte costituzionale con la sentenza n. 14 depositata ieri e scritta da Francesco Viganò. La Corte conferma così una linea interpretativa assai risalente e ispirata alla considerazione della scelta dei riti alternativi da parte dell’imputato come una delle più significative espressioni del diritto di difesa. Sono considerati così legittimi i dubbi di costituzionalità sull’articolo 516 del Codice di procedura penale avanzati dal tribunale di Grosseto che censurava come ostativa alla concessione della sospensione del procedimento con messa alla prova nel caso di contestazione di un fatto diverso. Per i giudici toscani, la disposizione era in contrasto, in particolare, con l’articolo 24 della Costituzione che riconosce il diritto alla difesa. A corroborare ulteriormente la questione di legittimità un precedente della stessa Consulta che, nel 2018, dichiarò l’illegittimità della norma del Codice (articolo 517) che impediva la messa alla prova nel caso di contestazione di una nuova circostanza aggravante. La sentenza muove anch’essa dalla sottolineatura di alcuni precedenti nei quali venne riconosciuta l’illegittimità di alcune preclusioni, tutte accomunate dalla lesione del principio di eguaglianza, perché l’imputato veniva irragionevolmente discriminato, quanto a possibilità di accesso ai riti speciali per effetto della maggiore o minore completezza della valutazione fatta dal pm dei risultati delle indagini preliminari. In una prima fase, si legge, le dichiarazioni di illegittimità costituzionale erano state spesso circoscritte all’ipotesi in cui la diversa o nuova contestazione riguardasse un fatto già risultante dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale (così le sentenze n. 184 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 265 del 1994). Questo criterio è stato però progressivamente abbandonato dalle pronunce più recenti (sentenze n. 82 del 2019, n. 141 del 2018, n. 206 del 2017, n. 273 del 2014 e n. 237 del 2012), nelle quali si è in sostanza sottolineato che, in ogni ipotesi di nuove contestazioni, indipendentemente dalla circostanza per cui ciò sia o meno addebitabile alla negligenza del pubblico ministero nella formulazione dell’originaria imputazione, all’imputato deve essere restituita la possibilità di esercitare le proprie scelte difensive, compresa la decisione di chiedere un rito alternativo. Questo principio è stato applicato anche dalla sentenza n. 141 del 2018 alla contestazione di nuove aggravanti nel corso dell’istruttoria dibattimentale di cui all’articolo 517 del Codice di procedura penale, in relazione all’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova; istituto che, ha osservato in passato la Consulta, “ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio”. E allora, osserva in conclusione la Corte, il principio non può che essere esteso al caso in cui a venire cambiata è la stessa imputazione originaria, come nel caso approdato alla Consulta, dove il pm, a un’originaria imputazione di ricettazione aveva ritenuto di doverne sostituire una di furto in abitazione. Infortuni, se è parte nei lavori risponde pure il committente di Luigi Caiazza Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sentenza penale 5113/2020. L’obbligo contrattuale assunto dall’azienda appaltante di fornire all’appaltatore e al subappaltatore energia elettrica, gas e ossigeno, in mancanza di apparecchi sufficienti per l’areazione dei locali e il rifornimento di ossigeno la espone al rischio interferenziale previsto dall’articolo 7 del Dlgs 626/1994 - poi confluito nell’articolo 26 del Dlgs 81/2008 (il Testo unico sulla salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro) - la cui gestione grava sul committente. Il principio è stato richiamato dalla Corte di cassazione, IV sez. penale, nella sentenza 5113/2020 deposita lo scorso 7 febbraio in cui è stata chiamata a decidere su un ricorso presentato dal committente e dal datore di lavoro di un’impresa appaltatrice, chiamati a rispondere e condannati in primo e secondo grado per l’infortunio mortale di un lavoratore dipendente dell’azienda esecutrice dei lavori di saldatura all’interno di una nave in costruzione a seguito di un incendio avvenuto nel doppio fondo di quest’ultima. L’infortunio era avvenuto per la presenza di ossigeno e di scintille causate dalla smerigliatura effettuata per eliminare le vernici e tagliare la parete dello scafo. Fermo restando che l’azienda committente aveva assunto il compito di assicurare aspiratori e ventilatori alle imprese operanti sull’imbarcazione, e conseguentemente di coordinarne l’uso, nel corso del giudizio era stato anche rilevato che le lavorazioni eseguite dall’impresa appaltatrice, datore di lavoro del lavoratore deceduto, presentavano un rischio che non era esclusivamente proprio e specifico di tale impresa in quanto l’intera costruzione della nave comportava pericoli collegati all’esecuzione delle operazioni in ambienti angusti, accompagnati da pericolo di sviluppo di gas tossici, polveri e di incendi. In questo contesto era stata, anzi, evidenziata una ingerenza della ditta committente, tramite proprio personale nella direzione delle lavorazioni eseguite dalle altre imprese operanti sull’imbarcazione, con la conseguente applicabilità del principio secondo cui in materia di infortuni sul lavoro, pur in presenza di un contratto di appalto, quest’ultimo non solleva da precise e dirette responsabilità il committente allorché esso assuma una partecipazione attiva nella conduzione e realizzazione dell’opera, in quanto, in tal caso, rimane destinatario degli obblighi assunti dall’appaltatore, compreso quello di controllare direttamente le condizioni di sicurezza del cantiere). La circostanza concretizza di fatto anch’essa un’interferenza che può verificarsi per gli eventuali contatti rischiosi tra l’attività lavorativa del committente e quelle delle diverse imprese che operano nella sede aziendale con attività differenti. Relativamente, poi, alla possibile abnormità della condotta del lavoratore, invocata dalla difesa, la Corte di legittimità ha ricordato che essa ricorre soltanto quando il comportamento del lavoratore sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli, fuori di ogni prevedibilità, lontano dalle ipotizzabili e imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro: fatto non successo nel caso di specie. Nel Daspo il difensore può usare la Pec di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 12 febbraio 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 11 febbraio 2020 n. 5427. Via libera, nei procedimenti che riguardano il Daspo, alla presentazione con la Posta elettronica certificata, di richieste e memorie difensive, al giudice competente per la convalida per provvedimento. La Corte di cassazione, con la sentenza 5427, accoglie il ricorso contro il provvedimento con il quale il questore vietava l’accesso del ricorrente per 5 anni nei luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive. Tra gli altri punti del ricorso la difesa lamentava un vizio di motivazione in relazione all’omessa valutazione di una memoria, malgrado fosse stata tempestivamente inviata alla cancelleria del Gip a mezzo posta elettronica certificata. La Cancelleria aveva, infatti, comunicato al difensore che la memoria non sarebbe stata presa in considerazione a causa dell’irritualità dell’invio. Per la Suprema Corte però è una conclusione sbagliata. I giudici, della terza sezione penale, ricordano che è possibile utilizzare la Pec nel Daspo, per la particolarità della procedura stabilita nel procedimento di convalida, caratterizzata dall’assenza di indicazioni specifiche sulla modalità di deposito degli atti. Il via libera si giustifica anche in considerazione del fatto che il mezzo telematico garantisce sicura affidabilità sulla provenienza e la ricezione di quanto inviato. Toscana. Ok alla legge per l’affettività in carcere di Laura Montanari La Repubblica, 12 febbraio 2020 Ventisette a sei. Passa con questa maggioranza la proposta di legge presentata da Leonardo Marras, capogruppo del Pd in Regione, Giacomo Bugliani e altri consiglieri, per l’affettività e la sessualità in carcere. La Toscana è la prima regione a viaggiare su questa linea e ad inviare la proposta di legge in parlamento. “Ce l’abbiamo fatta, è un’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni” spiega il garante regionale per i diritti dei detenuti Franco Corleone che da tempo porta avanti questa battaglia. In cosa consiste? “Da tempo ho chiesto una sala colloqui riservata per i detenuti dove non ci sia la videosorveglianza in modo che in una apposita unità abitativa ci possano essere incontri appartati con i familiari” precisa Corleone che con questa battaglia chiude il suo mandato, ma che ricorda le parole pronunciate nel 1999 da Alessandro Margara: “Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre alla perdita della libertà”. Il diritto all’affettività in carcere è riconosciuto in diversi Paesi a cominciare per esempio da Spagna, Svizzera, Finlandia, Svezia, Norvegia, Austria e altri. Sul diritto all’affettività e al sesso in carcere aveva scritto anche Adriano Sofri e nel 2012 si espresse la Corte Costituzionale su un ricorso del Tribunale di Firenze e pur dichiarando inammissibile la questione, richiamava l’attenzione del legislatore. Il Garante toscano, Franco Corleone è in scadenza e la Regione dovrebbe nominare il suo successore prima della fine della legislatura. Diversi i nomi in lizza anche se, stando alle indiscrezioni, due sarebbero i candidati più accreditati, Giuseppe Fanfani, ex sindaco di Arezzo e Francesco Ceraudo, pioniere della medicina penitenziaria e autore del libro “Uomini come bestie, il medico degli ultimi” con la prefazione di Adriano Sofri. Liguria. La pdl sul Garante dei detenuti passa il vaglio della commissione regionale ivg.it, 12 febbraio 2020 “Dopo un lungo iter, oggi finalmente la proposta di legge sul Garante dei Diritti dei Detenuti è stata approvata in tutti i suoi articoli dalla commissione affari generali da me presieduta, e verrà votata nel prossimo consiglio regionale”. Lo annuncia il capogruppo di Cambiamo in consiglio regionale Angelo Vaccarezza. “All’inizio dei questa legislatura, insieme al consigliere Pastorino, a cui si è aggiunta la collega Salvatore, abbiamo predisposto questo ddl, al quale si sono affiancate altre iniziative che dal nostro testo sono state poi assorbite. Da oggi non siamo più fanalino di coda dell’Italia per quanto riguarda la figura del Garante dei Diritti delle persone detenute o private della libertà. Oggi, é sempre più importante l’esigenza di costituire una figura che promuova il rispetto dei diritti fondamentali delle persone recluse o comunque in condizione di limitazione della libertà personale”. “Il Garante è fondamentale: favorisce la collaborazione di tutti gli enti, del mondo associativo e degli istituti penali, ivi compresi quelli per minori, è promotore di interventi utili a migliorare il livello di istruzione, di formazione e garanzia delle persone”. Roma. Quando le buone pratiche aiutano a coltivare la speranza degli ultimi di Valentina Stella Il Dubbio, 12 febbraio 2020 “Tutti hanno sempre diritto a un’altra chance e ognuno deve fare la sua parte. Sento anche io il dovere di costruire questa chance. La persona che entra il carcere lascia fuori il delitto che ha commesso e intraprende un altro percorso. Una società democratica dà sempre un’altra possibilità a tutti”, così il Presidente della Camera Roberto Fico ha concluso lo scorso 10 febbraio il convegno spettacolo de “Gli Ultimi Saranno”, tenutosi all’Aula dei nuovi gruppi parlamentari a Roma. Il tema dell’incontro era: “Laboratori creativi e buone pratiche in carcere”. Gli “Ultimi Saranno” è un collettivo nato nel 2018 da una idea dell’onorevole del Movimento 5 Stelle Raffaele Bruno ed è composto da artisti, musicisti, attori. Il progetto ha l’obiettivo di creare e potenziare i legami tra la società civile e gruppi di persone appartenenti a realtà socialmente periferiche, come i detenuti. E proprio il carcere è stato il primo luogo di sperimentazione del progetto: 20 sono gli eventi realizzati sino a questo momento in 15 strutture diverse e altri 9 ne sono in programma. “Anche chi viene messo ai margini deve avere la libertà e la speranza di immaginarsi chi vuole essere dopo. Non dobbiamo mai permettere a nessuno di mettere un bollino a qualcuno, tutti siamo momentaneamente in una situazione, e da questa posizione ci si può evolvere” ha detto l’onorevole Bruno, che poi ha lasciato la scena a cantanti, musicisti, attori che per tre ore hanno deliziato il pubblico con la recitazione di monologhi teatrali, lettura di brani, performance musicali, quasi tutte della tradizione napoletana. Tra loro detenuti di istituti minorili, maschili e femminili, ma anche Maurizio Capone, fondatore del gruppo musicale i “Capone & Bungt Bangt”, che suona utilizzando solo strumenti fatti con materiali riciclati, per spiegare che “niente e nessuno è un rifiuto”. L’evento è stato l’occasione per rilanciare una mozione a prima firma Raffaele Bruno che deve ancora essere calendarizzata: nell’atto si chiede al governo di “supportare le amministrazioni penitenziarie nell’organizzazione di progetti con finalità culturali, concentrandosi in particolare sui laboratori teatrali”, con la prospettiva di definire un quadro normativo per gli operatori all’interno delle carceri e rendere il teatro “parte integrante delle struttura”. A sostegno dell’impegno dell’onorevole Bruno e del collettivo (gliultimisaranno.it) è intervenuta anche la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina: “L’importanza della scuola in carcere è una necessità e deve essere un’opportunità. Penso con gratitudine ai docenti impegnati in queste classi, così come a quelli che insegnano negli ospedali. La loro passione supera le barriere, rimuove gli ostacoli, ci fa sentire comunità che accompagna questi giovani e non li lascia soli”. A fine ottobre scorso Azzolina e Bruno hanno ottenuto l’invio da parte del Miur di una circolare che permette di giustificare le assenze dei figli che vanno a trovare i genitori in carcere”. Ma il vero senso della riconciliazione della società con coloro che hanno sbagliato lo ha incarnato la storia di Lucia Montanino. Gaetano, il marito, conosciuto sui banchi di scuola lavorava come guardia giurata e fu ucciso mentre era al lavoro la sera del 4 agosto 2009 a Napoli da quattro giovanissimi che volevano rapinargli la pistola. Aveva 45 anni, una bambina ancora piccola. Antonio invece era il più giovane del commando: diciassette anni, fu catturato e condannato a 22 anni. Se al compimento del venticinquesimo anno di età non è stato trasferito dall’istituto minorile di Nisida a Poggioreale è stato anche grazie a Lucia, e al suo rapporto di riconciliazione. Piacenza. Col progetto eXnovo “matura” il frutto del lavoro dei detenuti piacenzasera.it, 12 febbraio 2020 Circa 3mila confezioni di fragole vendute. A cui si aggiungono 2mila chili di ortaggi e 120 chili di miele ricavati da tre varietà diverse. E poi vasi, fioriere, accessori per la cucina, portachiavi, oggetti vari di decoro ed uso comune. Tutti realizzati a mano. Sono questi, in sintesi e numeri alla mano, i frutti del lavoro di sei detenuti della Casa Circondariale di Piacenza coinvolti nel progetto eXnovo. L’iniziativa è promossa dalla cooperativa sociale L’Orto Botanico, che dal 2016 ha attivato una convenzione con il carcere cittadino avviando, nel tempo, quattro diverse attività: coltivazione e produzione di ortaggi, gestione del laboratorio di falegnameria, attività di apicoltura e - a partire dal 2018 nei terreni esterni alle mura di cinta - coltivazione di fragole, che avviene in partnership con l’Università Cattolica del Sacro Cuore (il primo raccolto è stato venduto presso l’Ipercoop di Piacenza). Occasione per fare il punto della situazione sul progetto e raccogliere spunti di riflessione e suggerimenti, attraverso il confronto con altre realtà operanti nella produzione carceraria, è stata il convegno organizzato nella mattinata del 11 febbraio presso l’Auditorium Santa Maria della Pace in via Scalabrini, dal titolo “Il carcere che produce”. “Con il logo eXnovo, che significa da capo, si esprime pienamente il senso di un passaggio da un passato fatto di errori a una nuova vita all’insegna della legalità - ha evidenziato Consuelo Sartori, rappresentante della Cooperativa Sociale l’Orto Botanico, nello spiegare l’iniziativa. Un passaggio che si concretizza attraverso il lavoro: i numeri di questi primi anni di progetto sono enormi per un’attività che avviene all’interno del carcere. Da un solo detenuto impiegato all’inizio, oggi se ne contano sei e, nel corso del 2020, l’obiettivo è arrivare ad undici. Per quanto riguarda la coltivazione di fragole, miriamo a triplicare la nostra capacità produttiva: è stata acquisita una nuova serra, grande il doppio rispetto all’attuale, per arrivare ad una teorica produzione di 12mila chili”. Il direttore della casa Circondariale di Piacenza, Maria Gabriella Lusi, ha quindi rimarcato i fondamentali aspetti sociali del progetto. “Un carcere che produce stimola tante riflessioni importanti - le sue parole -. Significa innanzitutto un carcere che vive e non sopravvive; che trasforma il tempo dei detenuti in un tempo di produzione e non di ozio. Ma è anche un carcere che agisce in funzione delle norme dello Stato che fanno leva sull’importanza del lavoro. Lavoro - ha sottolineato - che non è solo retribuzione, ma soprattutto occasione personale di crescita, acquisizione di competenze e abitudine a tendere verso l’obiettivo. Ma si tratta di un servizio che va al di là del muro di cinta: il carcere che produce è un carcere che si apre al territorio, si apre al mondo libero per evolversi, se non altro perché riflette la società, nei suoi aspetti di forza e di criticità”. E poi un appello ai detenuti (uno di loro era presente al convegno, e al termine ha portato la sua testimonianza). “Il lavoro che state svolgendo - ha detto Lusi - è una grande opportunità, per riconoscere voi stessi un una dimensione di vita allineata e conforme alla normalità. Vi invito a non prenderlo come un punto d’arrivo, solo in questo modo potrà essere quell’auspicato ponte tra carcere e vita libera”. L’intervento del direttore del carcere di Piacenza è stato preceduto dalle parole del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna, Gloria Manzelli. “L’amministrazione penitenziaria non può essere lasciata sola - il suo appello - il resto deve arrivare dal territorio, dal tessuto sociale. Fondamentale è il principio di responsabilità sociale della pena: il detenuto ha bisogno dell’aiuto di tutti per rientrare con dignità della società, in questo senso il lavoro costituisce l’elemento fondamentale all’interno del penitenziario. Nonostante gli sforzi c’è molto da fare, per questo chi vuole investire all’interno del carcere è benvenuto”. Il convegno è stato aperto dai saluti dell’Amministrazione comunale, rappresentata dagli assessori Paolo Mancioppi e Federica Sgorbati, e ha visto intervenire tutti i rappresentanti delle parti coinvolte nel progetto eXnovo: Tania Giovannini, per Coop Alleanza 3.0; Niccolò Rizzati, per l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza; Maria Teresa Filippone, Comandante di Reparto della Polizia Penitenziaria Casa Circondariale di Piacenza; Corinna Asta, Responsabile area educativa Casa Circondariale di Piacenza; Antonio Sartori, Volontario della Coop. soc. l’Orto Botanico. Inoltre è stato possibile anche ascoltare alcune testimonianze di altre realtà sociali che svolgono attività di produzione in istituti di detenzione italiani. Il convegno si è concluso con un rinfresco allestito da Piccoli Mondi - Asp Città di Piacenza. Saluzzo (Cn). Il mito di Ulisse cattura i detenuti che ne fanno una storia al contrario di Giulia Scatolero La Stampa, 12 febbraio 2020 Aperte le prenotazioni per il nuovo spettacolo che Voci Erranti ha allestito con i reclusi del Morandi di Saluzzo. “Ulisse. Una storia sbagliata”. È il titolo della nuova pièce che Voci Erranti organizza insieme ai detenuti del carcere di Saluzzo offrendo l’opportunità al pubblico esterno di entrare nel teatro della casa di reclusione. Le prenotazioni si sono aperte nelle scorse ore e si chiuderanno il 23 febbraio: lo spettacolo andrà in scena il 6, 7 e 8 marzo, alle 15 e alle 17. Per partecipare occorre scrivere a info@vocierranti.org o telefonare al 3801758323. Il biglietto costa 10 euro, 8 per gli studenti, 5 per gli under14. È il 18º spettacolo saluzzese di Voci Erranti, nata nel 2000 all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Racconigi dopo l’esperienza di un laboratorio teatrale con un gruppo di malati ed infermieri psichiatrici. Dal 2002, al Morandi, organizza il laboratorio teatrale. “Siamo partiti con il desiderio di dare voce alle persone che vivono ai margini e con loro narrare e celebrare, fare memoria - spiega Grazia Isoardi, direttore artistico di Voci Erranti. Ulisse è l’eroe che più di ogni altro ci è vicino, contemporaneo, perché è imperfetto, non si sottrae all’avventura e si contraddice continuamente, non è mai sazio di scoprire e superare i propri limiti”. Il gruppo di detenuti ha già rivisitato il mito insieme a Isoardi, autrice del testo, Marco Mucaria, alla regia, e Simona Gallo, alle luci. Il risultato è la rappresentazione di una storia al contrario che semina dubbi e mette in risalto le fragilità umane. “Si sono identificati nei compagni di Ulisse immaginando di invertire la storia perché sono loro a ritornare a casa e non l’eroe - specifica Mucaria. È una storia sbagliata così come sono state le loro vite caratterizzate dal forte desiderio di oltrepassare il limite di essere uomini invincibili, eroi improvvisati, padri inaffidabili, figli ingrati, compagni infedeli”. Uno spettacolo speciale perché inserito all’interno del progetto nazionale “Per aspera ad astra”, portato in Granda grazie al sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo. “Mamma” dell’iniziativa tutta italiana è la compagnia teatrale della Fortezza di Volterra, tra le storiche realtà nate in una casa di reclusione: era l’88 quando il regista Armando Punzo la fondò. Accanto alla compagnia toscana l’Acri, associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio Spa di cui la Crc fa parte. Cuore del progetto stimolare la condivisione di esperienze e buone pratiche per “fare il punto”, cogliere eventuali opportunità di sviluppo e insegnare un lavoro. “Siamo stati scelti dalla Fondazione Crc per un’esperienza che riteniamo sarà importantissima per la nostra associazione, ma anche per tutto il “mondo” carcere - spiega Isoardi. L’obiettivo è insegnare una metodologia per l’apprendimento dell’arte teatrale nelle case di reclusione”. Primo risultato, la messa in scena, con “Ulisse”, di uno spettacolo in più rispetto alla tradizionale unica pièce annuale. Secondo aspetto positivo avere un’occasione per imparare e formare. “Saranno coinvolti 30 detenuti - prosegue Isoardi: 20 reciteranno sul palco, 5 impareranno il mestiere di tecnico dell’audio e delle luci altrettanti quello di tecnico della scenografia”. Tutti detenuti di alta sicurezza, vista la recente trasformazione dell’istituto a carcere esclusivamente dedicato ad internati appartenenti alla criminalità organizzata. “Faranno formazione attraverso corsi e workshop anche gli operatori che operano nel Morando a partire da noi di Voci Erranti” conclude il direttore artistico. Fossano (Cn). Progetto Har: la fotografia per i detenuti con “il mondo inaspettato” ideawebtv.it, 12 febbraio 2020 La prima “lezione” si è tenuta il 20 gennaio e il programma prevede un percorso in 10 lezioni di affrancamento alla lettura dell’immagine fotografica, per poi arrivare a produrne alcune personalmente. Tra le tantissime attività dell’associazione Progetto Har, sicuramente la più innovativa riguarda il percorso fotografico organizzato all’interno della casa di reclusione di Fossano e cominciato alcune settimane fa. “Il mondo inaspettato”, così è stato intitolato. L’idea è venuta ad Alice Borgogno, affiliata dell’associazione, che, dopo aver assistito a diversi spettacoli tra le mura penitenziarie, ha iniziato a chiedersi in che modo anche lei avrebbe potuto essere utile alla comunità della casa di reclusione. In un lampo l’idea di coinvolgere Ober Bondi, il presidente, che le è sembrata la persona giusta per questo tipo di iniziativa e che in effetti ha risposto subito con l’entusiasmo che lo contraddistingue. Il confronto con la direttrice dell’istituto Assuntina Di Rienzo e con la responsabile degli educatori Antonella Aragno hanno reso possibile il concretizzarsi dell’idea. “Vogliamo offrire una diversa chiave di lettura della realtà che ci circonda, uno strumento in più per capire e abitare questo mondo” spiegano Alice e Ober “Dare un’altra via a chi ha trovato nel delinquere la sua via. È ormai dimostrato che i gruppi di detenuti che partecipano a programmi rieducativi e di lavoro nel periodo di carcerazione, hanno poi un tasso di recidiva (ovvero la probabilità di tornare a compiere reati al termine della pena) inferiore a coloro che non hanno questa opportunità. È dunque un vantaggio sì per il singolo, ma anche per l’intera comunità”. La prima “lezione” si è tenuta il 20 gennaio e il programma prevede un percorso in 10 lezioni di affrancamento alla lettura dell’immagine fotografica, per poi arrivare a produrne alcune personalmente. Una mostra finale accoglierà gli scatti dei partecipanti. Como. Letture in carcere con i “Classici dentro e fuori il Bassone” Corriere di Como, 12 febbraio 2020 La rassegna “I classici dentro e fuori il Bassone” è un ponte culturale che lega i lettori reclusi con i lettori liberi. Promossa e organizzata dall’Associazione Bottega Volante, coinvolgerà anche quest’anno, per la terza edizione, un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Como. Un giorno al mese, da febbraio a dicembre, si leggeranno classici antichi e contemporanei per assaporarne l’intramontabile bellezza e ritrovare l’essenza della nostra umanità. Novità di quest’anno, tra i titoli scelti ci saranno anche cinque graphic novel. Il mondo dell’illustrazione è entrato nel progetto anche grazie all’associazione Slow comix: ventisei disegnatori hanno infatti reinterpretato i classici 2019 per il sito www.bottegavolante.org. Quest’anno si scoprirà come Agota Kristof, Ismail Kadaré, Alan Bennett, Mary Shelley e Agatha Christie abbiano tanto da insegnare. E alcuni capolavori della letteratura - illustrati da disegnatori del calibro di Lorenzo Mattotti, Tim Hamilton, Marjane Satrapi e Art Spiegelman - regaleranno la bellezza delle immagini insieme a quella delle storie. Con l’illustratrice romana Rita Petruccioli, ospite a Como il 23 marzo, si andrà invece alla scoperta del mondo degli illustratori italiani. Venerdì 21 febbraio alle 18, alla Libreria Feltrinelli di Como, il primo appuntamento del 2020 che sarà con “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury, uno dei più importanti testi di fantascienza distopica del Novecento (proposto anche nella versione graphic novel di Tim Hamilton). Ospite il giornalista Paolo Moretti che dialogherà con Eletta Revelli e Katia Trinca Colonel. I commenti, le idee, le critiche e le impressioni dei detenuti verranno condivise con il pubblico in un’ottica di scambio tra “dentro” e “fuori”. Info: www.bottegavolante.org. Da Trento parte la campagna sull’imputabilità di Giulia Melani e Katia Poneti Il Manifesto, 12 febbraio 2020 Sono passati quasi tre anni dall’11 maggio 2017, l’antivigilia del trentanovesimo anniversario della legge Basaglia, giorno in cui l’ultimo internato uscì dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Tre anni che hanno visto l’assestamento degli effetti del loro superamento, l’emersione e la denuncia di criticità, tentativi falliti di revisione (parziale) del sistema delle misure di sicurezza. La ricerca e la riflessione sulla disciplina relativa al malato di mente autore di reato non si sono arrestate. In questo filone, si inserisce il convegno che si è tenuto all’Università di Trento il 31 gennaio e 1 febbraio, organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza e dalla Camera Penale, sul tema “Infermità mentale, imputabilità e disagio psichico in carcere”, trattato in chiave multidisciplinare. È superata quell’emergenza Opg, che nel 2012 spinse il legislatore ad una riforma repentina, ma lasciava il codice invariato. Oggi diventa necessario ricentrare l’analisi su alcuni aspetti cruciali, quali: i rapporti tra psichiatria e diritto; i concetti di imputabilità e pericolosità sociale; il doppio binario e le misure di sicurezza; il disagio psichico in carcere. Gli psichiatri e gli psichiatri forensi presenti al convegno hanno evidenziato la discrezionalità e opinabilità dei giudizi di incapacità e pericolosità sociale, spesso influenzati, come rilevato da Stefano Ferracuti, da bias del perito, alimentati dalla vaghezza dei concetti giuridici ed acuiti, come osservato da Gabriele Rocca, dalla mancanza di linee guida e standard nella formulazione dei quesiti. La denuncia di incertezza che proviene dalla stessa psichiatria chiama i giuristi ad una nuova riflessione sul concetto di imputabilità e sul doppio binario, che incarna, come ci ricorda autorevolmente Francesco Palazzo, l’approccio autoritario del Codice Rocco. La riforma che ha superato l’Opg, ha delineato una disciplina efficacemente definita da Marco Pelissero “a metà del guado”, che manca di definire un’organizzazione condivisa delle Rems, apre all’ibridazione penitenziario/sanitaria e mostra i suoi limiti applicativi nel numero crescente di persone in lista d’attesa e nell’uso smodato delle misure provvisorie; nonché, come ricordato da Antonia Menghini, nella mancata definizione della condizione del malato di mente autore di reato, con infermità sopravvenuta. Di fronte a un quadro denso di problematiche, la discussione vira sulla proposta, non nuova, ma rilanciata in questi giorni da Franco Corleone, di abolire la distinzione tra imputabili e non imputabili per vizio di mente (contenuta nel testo “Il muro dell’imputabilità”). Proposta nobile - come osserva il prof. Palazzo - ed ideologica, in quanto guidata dall’alto principio di equiparazione del folle e del sano. Un disegno assiologicamente fondato - come rilevato da Pelissero - ma che suscita perplessità sul piano attuativo, per timore che possa prodursi l’appiattimento del trattamento psichiatrico sulla logica custodiale e di quello penitenziario su quella psichiatrica. L’abolizione della non imputabilità si fonda, come ricorda Corleone, sul riconoscimento di piena soggettività al malato di mente autore di reato e sul principio per cui “la responsabilità è terapeutica”; mentre il rischio di carcerizzazione del malato di mente autore di reato appare scongiurato dalla previsione di misure alternative (specifiche) al carcere e dalla maggiore attenzione alla salute mentale negli istituti penitenziari assicurata da una gestione esclusivamente sanitaria. A fronte di posizioni favorevoli, contrarie o critiche, appare positivo che su una proposta, spesso considerata provocatoria e scandalosa, si apra finalmente una seria riflessione. Del resto, come ricorda nelle conclusioni Gabriele Fornasari, questa opzione non è estemporanea, ma presente in alcuni ordinamenti, come quello svedese. Sicurezza, un’Europa in cerca di difesa di Franco Venturini Corriere della Sera, 12 febbraio 2020 Se la Libia costituisce un assaggio delle nostre potenzialità, come minimo resta moltissimo da fare. Da quando russi e americani hanno cancellato di comune accordo (anche se non lo ammetteranno mai) il trattato Inf che vietava gli euromissili, la questione della sicurezza europea ha acquistato una nuova urgenza. Troppo passivo davanti alle nuove minacce del dopo-guerra fredda e troppo sicuro di una protezione statunitense meno scontata di un tempo, il Vecchio Continente ha incassato a fatica i dissensi transatlantici degli ultimi tre anni. E ora che aumentano le probabilità di rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca, in Europa cresce in parallelo un inedito tormento strategico: dove e con quale consenso sociale si possono trovare le risorse per far avanzare il progetto della difesa europea, oppure quello, più realizzabile, di un pilastro europeo all’interno della Nato e dell’alleanza con l’America? Come evitare di essere schiacciati in un futuro prossimo dalla tenaglia strategica e tecnologica Usa-Cina, con la Russia che non starà certo a guardare? E ancora, come promuovere l’unità di intenti almeno tra i principali Stati della Ue, essendo chiaro a tutti che non può esistere una sicurezza comune senza volontà politica comune? La Russia e la Turchia, davanti al tardivo risveglio dell’Unione, hanno avuto di recente l’involontaria cortesia di offrire all’Europa un banco di prova capace di collaudare le sue nuove inquietudini: la Libia. Un conflitto a noi vicino, legatissimo agli interessi europei a cominciare da quelli italiani, e per di più osservato con scarso interesse dagli Stati Uniti che più volte hanno invitato gli alleati a provvedere per proprio conto. Ebbene, se di collaudo si è trattato va detto che i risultati sono stati sin qui assai deludenti. Alla vaghezza retorica e agli errori passati dell’Italia si sono aggiunti i timori di fallimento della Germania, e così la conferenza di Berlino è diventata un esercizio diplomatico troppo affollato che ha prodotto un libro dei sogni senza impegni precisi da parte di chi tiene il dito sul grilletto. Tutti hanno detto “sì” ma ognuno si regola come vuole, la tregua e lo stop ai rifornimenti militari sono rimasti concetti in gran parte astratti, si parla anche in Italia di “missione europea” senza precisarne il ruolo e senza valutarne le necessarie premesse, restano inevasi interrogativi come quello che riguarderebbe Misurata (dove c’è un ospedale italiano protetto da forze italiane) nel caso il cirenaico Haftar decidesse di attaccarla, e le linee del confronto militare disegnano di fatto una spartizione della Libia che nessuno dichiara di volere. Se la Libia è un assaggio delle potenzialità di una nuova sicurezza europea, il meno che si possa dire è che resta moltissimo da fare. Ma sul tavolo dell’Europa prossima ventura non c’è soltanto la Libia. C’è, anche, quel Boris Johnson che ha appena celebrato la parte più facile della Brexit e si prepara a una guerra negoziale con Bruxelles su quella più difficile. Non solo, perché resta da scoprire quale sarà la politica estera di Johnson. Quella nazionale e spesso vicina all’Europa esibita in tema di Huawei e 5G, oppure quella appiattita sugli Usa (i precedenti non mancano) mostrata pochi giorni dopo elogiando, nell’imbarazzo degli altri alleati, il “piano del secolo” di Trump sul conflitto israelo-palestinese? L’interrogativo è cruciale, perché gli europei vorrebbero mantenere inalterata, se non allargare, la collaborazione con Londra in tema di sicurezza e di difesa. Cosa che potrebbe non piacere a Washington, particolarmente in campo industriale. C’è la nevrosi politica tedesca davanti al declino dei partiti tradizionali e della cancelliera Merkel, che si traduce in un indebolimento dell’intero progetto europeo. E poi c’è la Francia, diventata grazie al divorzio con Londra l’unico Stato europeo a possedere un seppur modesto arsenale nucleare. Cosa intendeva Emmanuel Macron quando nei giorni scorsi si è detto disposto ad associare altri Paesi europei al potere deterrente della Force de frappe? L’Eliseo ha respinto un suggerimento venuto da un parlamentare tedesco volto a porre le forze atomiche transalpine sotto comando Ue o Nato, ma se esiste davvero una via alternativa da mettere al servizio dell’autonomia strategica dell’Europa, fin dove vorrà e potrà spingersi un Macron che alle ultime europee ha soltanto pareggiato con Marine Le Pen e che tra poco dovrà affrontare una nuova campagna presidenziale? Di certo le parole del capo dell’Eliseo hanno fatto risuonare un campanello in molte cancellerie europee a cominciare da quella di Berlino, e le prospettive della mezza apertura di Parigi sembrano migliori, e soprattutto meno divisive, del coinvolgimento della Russia sollecitato da Parigi. L’Italia, se non fosse per l’industria della difesa che di norma difende bene occasioni e interessi, brillerebbe per la sua assenza da un simile dibattito. Indipendentemente dalla sorte futura dei progetti europei, si tratta di un errore non nuovo che soltanto in parte può essere giustificato dalla demagogia propagandistica e dalle liti permanenti che caratterizzano la nostra politica interna. A mancare è una consapevolezza fondamentale, che la pace si difende con una valida struttura di sicurezza, non con l’arrendevolezza, la vulnerabilità o l’incertezza dei trattati. Anche perché così si lascia spazio a una non nuova suggestione di certa destra americana, secondo cui l’Italia starebbe meglio rompendo con l’Europa e assumendo, con l’aiuto Usa, una ipotetica quanto poco probabile leadership nel Mediterraneo. Come dirci che continuiamo a essere il ventre molle dell’Europa, quello che più facilmente può essere allontanato dai suoi veri interessi nazionali. Il fallimento del neo liberismo e la rivolta globalizzata dei disperati e dei disuguali di Gennaro Malgieri Il Dubbio, 12 febbraio 2020 Dalla Francia, al Sud America all’Africa e all’Oriente le classi dirigenti sotto accusa per l’avanzare delle povertà. La sfiducia genera inquietudine e per tenerla sotto controllo i governi scelgono di solito la strada più breve: l’adozione di politiche “securitarie” per ristabilire l’ordine. Ma la repressione, doverosa in molti casi onde evitare tragedie, provoca l’indignazione le cui motivazioni sono quasi sempre riconducibili alle reazioni contro corruzione, costo della vita, disordine sociale, emergenza climatica, compressione dei diritti civili, pensioni. Il tutto fa parte di un quadro dai colori lividi che possiamo, senza esagerazione, intitolare al neo- liberismo che ispira tanto le scelte economico- sociali che le modalità per difenderle. Insomma, il popolo contro le élites o le oligarchie è un fenomeno contagioso che se fino a poco tempo fa era diffuso nelle società affluenti adesso si verifica anche in quelle meno progredite sotto il profilo della ricchezza e della dilatazione dei bisogni e dei desideri. Si ha la sensazione che il disordine mondiale stia prendendo piede senza alcun coordinamento, creando le premesse di una sorta di “rivoluzione permanente” contro il potere “ammaestrato” dal grande capitale finanziario, che non di rado alimenta il malaffare tanto nei regimi militari che quelli sedicenti democratici. Insomma, la sfiducia generale nelle pratiche globaliste che attengono alla distribuzione della ricchezza e all’alimentazione di necessità fittizie, veicolate da una tecnologia sempre più aggressiva della quale, paradossalmente, gli “indignati” sono attratti ed affascinati salvo poi contestarne gli esiti che si riassumono nelle devastanti ineguaglianze sociali, sta facendo breccia ovunque, ma soprattutto nei Paesi nei quali sono piuttosto consolidati gli aspetti democratici e di controllo. Il “caso francese” è emblematico al riguardo. E giornali e televisioni non possono fare a meno di documentare la più massiccia e continuativa contestazione al potere in un Paese europeo dalla fine della guerra che ha delegittimato il presidente e il suo governo. La Francia di Emmanuel Macron è un laboratorio di contraddizioni che sono fuori controllo. E sul banco degli imputati, per quanto lo si nasconda, vi sono le politiche neo-liberiste del presidente nato e cresciuto negli ambienti dell’alta finanza che al momento opportuno se n’è servito per consolidare le sue posizioni turbo- capitaliste. Il malessere ha cominciato a manifestarsi nell’autunno 2018. I gilets jaunes lanciarono il primo sasso. Macron si era messo in testa di aumentare il carburante agricolo per incamerare quattrini ai danni degli agricoltori. Il ceto medio comprese che non era soltanto una categoria ad essere penalizzata poiché la filiera del disagio avrebbe coinvolto tutti e si unì ai contestatori. Sbocciò da qualche parte l’idea, tutt’alto che peregrina, secondo la quale Macron era davvero il “presidente dei ricchi” che lo avevano eletto costruendogli un partito in grado di eliminare quelli tradizionali. Si sono poi aggregati i ferrovieri e gli studenti, ma le fiamme si sono alzate quando il governo ha varato la riforma delle pensioni che sta facendo diventare la Francia incandescente poiché riguarda tutti anche gli avvocati che disertano le udienze e platealmente gettano le toghe davanti ai Palazzi di Giustizia. Con la riforma pensionistica, che non tocca i più abbienti, Macron ha istituzionalizzato una rottura generazionale, dal momento che i lavoratori nati prima del 1975 non rientreranno nel nuovo sistema che contemporaneamente stabilisce, come ha scritto Serge Halimi su “Le Monde diplomatique”, “con il pretesto dell’uguaglianza, che i quadri superiori non avranno più una pensione a ripartizione oltre un certo stipendio”. Ciò significa che dovranno rivolgersi ai fondi pensionistici per assicurarsi la quota complementare. Chi gestisce tali fondi sono i privati che si arricchiranno maggiormente con la trovata macroniana, mentre il Presidente ha promesso un regime derogatorio per tutti coloro che “assumono funzioni sovrane di protezione della popolazione”, vale a dire i poliziotti, le forze dell’ordine. I beneficiari della politica “securitaria”. A Macron ovviamente interessa far quadrare i conti, ma a spese delle classi più deboli. Come ha osservato Sylvain Cipel sull’americano “The New York Review of Books”, la riforma porterà “necessariamente un appiattimento verso il basso delle pensioni per milioni di lavoratori, e i vantaggi persi non saranno compensati da stipendi più alti”. Perché lo sta facendo? Certo, per ridurre il debito pubblico mettendo le mani nelle tasche dei cittadini più indifesi, come i pensionati appunto. Tuttavia il vero obiettivo, come ha sottolineato il giornale americano, “non è tanto gestire in modo più efficiente le pensioni, ma ridurre i costi. E la strategia del governo per farla approvare è stata dividere i lavoratori, dicendo a quelli del settore privato che per tutelare le loro pensioni era necessario abolire i privilegi di quelli del settore pubblico”. Insomma, teoria e prassi della diseguaglianza formulate e portate avanti da un presidente che, come ha detto un intellettuale tra i più noti in Francia, il quale da giovanissimo previde la fine dell’impero sovietico con un libro di raro acume, La chute finale, Emmanuel Todd, “la lotta di classe è tornata”. Contro ogni possibile immaginazione mettendo i lavoratori gli uni contro gli altri e tutti insieme contro il governo, dagli agricoltori ai pensionati, dagli studenti ai ferrovieri, agli avvocati a coloro che immaginavano, dopo aver letto il libro-manifesto di Macron, Révolution del 2016, che una nuova stagione s’apriva, ma non pensavano nel modo opposto a come la descriveva il giovanotto di Amiens. Per fortuna, tutti hanno capito che a beneficiare della riduzione delle pensioni e dei salari sarà l’élite che ha “inventato” Macron verso il quale la stragrande maggioranza dei francesi comincia a pensare che nutra “obiettivi nascosti”. In aggiunta, per compiacere l’industria del lusso o del superfluo, legata all’establishment, il sindaco socialista di Parigi, Anne Hidalgo, mentre finge di perorare cause ecologiste, lascia che i grandi edifici della città vengano rivestiti di luminescenti ed obbrobriosi cartelloni pubblicitari di marchi glamour e telefoni cellulari; il ministro dei trasporti sponsorizza carriere nel suo settore e fa sapere che nei prossimi anni serviranno trentamila autisti per mettere sulle strade gli “autobus Macron” in un Paese nel quale l’ecosistema non è dei migliori. E il trasporto ferroviario? Va penalizzato perché il numero dei dipendenti è eccessivo, come in tutte le imprese pubbliche. L’iper-liberismo viaggia su gomma a Parigi. La Francia fa più notizia degli altri Paesi, ma non è sola nel quadro della disintegrazione del sistema economico, finanziario ed anche morale. La rivolta tunisina che dieci anni fa inaugurò la mostruosità politica delle “primavere arabe”; la nascita coeva del movimento degli Indignados in Spagna che mise soqquadro il Paese, ma si fermò prima di varcare i confini per la risibilità di una organizzazione senza idee, animata da rancore e risentimento; la successiva mobilitazione degli studenti cileni, e nel 2009, l’apparizione a Wall Street di Occupy, fenomeno poco indagato che comunque diede voce ad un malessere diffuso, sono stati derubricati ad episodi estemporanei di insoddisfazione delle classi subalterne. Ma quei fuochi si sono mai del tutto spenti. E di tanto in tanto in altre forme emanano bagliori. Per esempio, nessuno poteva immaginare disordini a Beirut, dove si protesta contro la corruzione che le élites finanziarie mondialiste stanno alimentando a scapito dei ceti più deboli, appropriandosi delle ricchezze nazionali e dove infuria la “guerra islamica” tra bande contrapposte. A Santiago del Cile, dove nell’ottobre scorso una rivolta, tenuta in qualche modo sotto controllo, originata da una protesta studentesca per l’alto costo dei biglietti dei mezzi pubblici, tiene il agitazione la popolazione: da più di tre mesi, infatti, i manifestanti si riuniscono a Plaza Italia (ribattezzata Plaza Dignidad) che divide i quartieri ricchi da quelli poveri della capitale, invocando una società più giusta; le rivendicazioni, che riguardano la sanità, l’istruzione, il sistema pensionistico, i trasporti, hanno un dato comune: il cambiamento della Costituzione che è ancora quella dell’80 voluta da Pinochet. Il fuoco di Santiago potrebbe incendiarne il Cile e in allarme non è non soltanto il presidente Sebastian Pineira, bensì la popolazione immiserita da una gestione dissennata da parte del governo la cui politica è funzionale alla tutela delle classi più agiate contigue al potere che ha progressivamente depauperato il Paese fino a creare sacche di vero e proprio disagio sociale al quale hanno tentato di reagire sia i più poveri che cospicue fasce del ceto medio. Anche in Sudan (la rivolta del Pane) si lotta contro il carovita responsabile dell’ impoverimento progressivo di tutti coloro che non partecipano al banchetto dell’oligarchia, mentre l’Iraq non si sa più se è una nazione e la mattanza continua “normalmente”, favorita dall’Iran dove pure manifestazioni di segni diversi e contraddittori hanno mandato in confusione gli ayatollah e nello Yemen si uccide per un boccone di pane o per un’oncia di khat, la droga dei poveri. Ogni giorno in questi Paesi - al netto di quelli dove sono in corso vere e proprie guerre, a cominciare dalla Siria - c’è qualcuno che muore o viene arrestato. Come a Hong Kong, dove da mesi, il regime cinese ha lanciato un’offensiva che non si placa per zittire chi protesta contro l’estradizione verso Pechino (che non era nei patti del ricongiungimento), mentre è alle prese con la conquista del mondo ed una strana malattia che sta facendo centinaia di migliaia di vittime. L’America Latina, dall’Ecuador al Perù, dalla Bolivia al Brasile, è attraversata da un malcontento diffuso alimentato da profonde diseguaglianze socio-economiche. Per non parlare della crisi endemica che sta letteralmente facendo saltare il Venezuela una volta tra le più floride nazioni sudamericane. L’Algeria - e non è il solo Paese africano dove tensioni acutissime rischiano di sfociare in violenze di regime e riapparizione di terroristi - vive giorni di grande incertezza dopo le elezioni- farsa del successore di Bouteflika ed il controllo ossessivo dei militari sulla società, mentre l’inquietudine attraversa il Marocco dove da mesi non si sa che fine abbia fatto la regina: lotte di potere che minano l’azione di governo. Nel contempo tra Marocco, Algeria e Mauritania, popoli dimenticati come i Saharawi si stanno letteralmente estinguendo perché non rientrano nei piani del Fondo monetario internazionale: la fame e l’indignazione li distrugge, il loro capitale è la povertà assoluta, senza patria e senza speranza di averne una. L’anno appena passato, insomma, è stato segnato da una serie di rivolte popolari che hanno contestato duramente l’ordine economico globale, chi nutre la corruzione a spese dei più deboli, chi se ne frega del mondo che soffoca nei miasmi della produttività che deve garantire il profitto a pochi, gli avanzi a tutti. E megalopoli oscene, dall’Africa all’America Latina, si popolano di disperati e di immondizia nociva che dal mondo dei ricchi viene venduta a chi si nutre di scarti e veleni, prima o poi esploderanno e non sarà per dare ad esse un nuovo ordine, ma per reclutare il terrorismo nelle pieghe del malessere, come avviene in Nigeria, nel Mali, in Sierra d’Avorio, mentre la malavita imperversa tra la povertà delle favelas brasiliane, ecuadoregne, boliviane, chiudendo bocche e lo stomaci con droga e prostituzione (da consumare nel nord del mondo, ovviamente) a milioni di disgraziati. Popoli in rivolta. Angosce planetarie. Il fashion style illumina la povertà più indecente. E l’Occidente libero e l’Oriente rosso sono sempre di più la stessa cosa. Del resto si sono spartiti la disperazione pagandola con le illusioni a poco prezzo. È la prassi dei coloni del neo-capitalismo per chi non l’avesse capito. Gran Bretagna. Il governo deporta ex detenuti in Giamaica di Leonardo Clausi Il Manifesto, 12 febbraio 2020 La politica del cosiddetto hostile environment intesa a disincentivare/dissuadere/scoraggiare l’immigrazione - una delle più detestabili eredità di Theresa May fatta immediatamente sua da Boris Johnson - ha raggiunto nuovi picchi di ostilità. Ieri un volo charter che doveva riportare “nel loro paese” cinquanta cittadini giamaicani con precedenti penali (stupro, omicidio, ma soprattutto spaccio) è decollato con solo diciassette persone a bordo. Gli altri sono rimasti a terra grazie a una decisione in extremis della corte di appello (motivata dal fatto che alcuni dei “rimpatriati” non erano riusciti a mettersi in contatto con i propri legali dai centri di detenzione dove si trovavano prima della partenza per via di una mancanza di copertura della rete telefonica mobile). È una deportazione particolarmente repellente perché viola i diritti umani di alcuni di loro, che sono senz’altro più britannici che giamaicani, ed è avvenuta nonostante un centinaio fra deputati e Lord da tutti i partiti avessero scritto un’inutile lettera a Johnson perché desistesse dall’autorizzarla. Come accade sin troppo spesso quando si tratta di cittadini dell’ex-colonia caraibica - alcuni dei quali fin troppo recenti (2017) vittime del rimpatrio forzato della cosiddetta Windrush generation - almeno cinque di ro erano arrivati in Gran Bretagna in un’età compresa fra i due e gli undici anni, e uno è a sua volta figlio della generazione Windrush. Hanno tutti scontato la pena inflittagli, sono stati tutti mandati in centri di detenzione per immigrati e ora alcuni rischiano la vita: secondo il Guardian, sono almeno cinque le persone uccise in Giamaica dopo esser state lì deportate dopo l’affare Windrush. Abbastanza inquietante la reazione governativa. L’ufficio stampa di Downing Street, in piena modalità intimidatoria, ha così commentato: “Certe parti di Westminster non hanno ancora imparato la lezione delle ultime elezioni”. Insomma tenetevi forte, branco di snowflakes (lett, fiocco di neve, sarcastico epiteto rivolto dai neodestri anglosassoni ai giovani liberali): questo è solo l’inizio. La nota piccata prosegue con la minaccia di intervenire in modo contenitivo sul controllo da parte del tribunale: un altro aspetto del conflitto fra potere esecutivo e giudiziario emerso platealmente quando la corte suprema decretò illegale la sospensione del parlamento da parte di Boris Johnson. Questo governo sguazza prevedibilmente nell’atmosfera rancorosa nella quale è immerso il paese post elezioni. In piena modalità farlocco-identitaria, manda avanti i propri membri non bianchi come Priti Patel (interni, fa sembrare Salvini un moderato) o il ministro delle finanze Sajid Javid a difendere le proprie azioni semi-totalitarie e discriminatorie. Ora che è il momento di ringraziare l’elettorato sovranista, niente di meglio di una prova di fermezza con lo straniero criminoso. Peccato l’infausta coincidenza di date: l’aereo partiva a trent’anni esatti dal rilascio di Nelson Mandela dalla galera razzista nella quale avevano cercato di seppellirlo vivo. Stati Uniti. Salviamo Chico Forti, condannato all’ergastolo senza prove di Marco Perduca Il Riformista, 12 febbraio 2020 Il 15 giugno del 2000 Enrico (Chico) Forti fu ritenuto colpevole di “aver personalmente e/o con altre persone, allo stato ancora ignote, agendo come istigatore e in compartecipazione, ciascuno per la propria condotta e/o in esecuzione di un comune progetto delittuoso, provocato dolosamente e preordinatamente la morte di Dale Pike”. Life without parole, ergastolo senza condizionale, fu la pena comminatagli da una giuria di Miami per “omicidio di primo grado a scopo di lucro”. Il processo durò poco più di un mese senza che elementi di prova consolidati venissero portati dall’accusa. Life without parole solitamente si riserva per crimini efferati o a criminali incalliti. Da quasi 20 anni Chico, che non intende dichiararsi colpevole, lotta perché il suo processo venga riaperto. Le prove raccolte successivamente, grazie all’incessante minuzioso lavoro di amici, parenti, esperti e persone che negli anni si sono interessate al suo caso, potrebbero sovvertire la sentenza. Occorre trovare il bandolo della matassa. L’amministrazione della giustizia negli Usa, come dappertutto del resto, è tutt’altro che senza macchia: a conflitti d’interessi, uso politico di casi clamorosi, corruzione diffusa s’aggiunge un intreccio procedurale degno d’un percorso di guerra dove, inciampati sul primo ostacolo, non si ha una seconda possibilità. Secondo la Farnesina gli italiani detenuti all’estero sono 3.278 (non pochi se paragonati ai 60.971 ristretti in Italia al 31 gennaio scorso), uno su 5 ha riportato una condanna, tre su 4 sono in attesa di giudizio: l’80% è in Europa, il 14% nelle Americhe, il resto in giro per il mondo. Se ne parla poco e alle volte basta “poco” per migliorare le loro condizioni detentive o riportarli a casa. Ci sono innocenti, colpevoli, adulti, ragazzi, a volte anche a rischio di pena di morte, dietro ogni storia ci sono altrettante famiglie che vivono l’incubo della lontananza e quello dell’impotenza di fronte a errori giudiziari, sciatterie, corruzione, macchinazioni o mancanza di democrazia nel Paese dov’è arrestato il parente. Dal 2008 esiste Prigionieri del silenzio, un’associazione che di questo s’interessa - non sempre il Governo è presente per come potrebbe. Sono anni che, con fortune alterne, si parla di Chico Forti - recentemente in particolare grazie alle Iene - ma anche quando l’attenzione istituzionale era ai massimi livelli è mancato quel “coraggio politico” necessario per inquadrare la complessità del caso nella cornice del rispetto dei diritti umani, degli obblighi del giusto processo e delle relazione Italia-Usa. E proprio su questo, grazie al lavoro del giudice Ferdinando Imposimato e delle certosine ricostruzioni della criminologa Roberta Bruzzone, che assieme al Senatore Giacomo Santini ci confrontammo a più riprese con la Farnesina di Frattini e quella di Terzi nella speranza che un passo nei confronti del Governatore della Florida potesse esser fatto. Parte di quella documentazione è diventata poi un libro, ma il dossier con oltre 100 elementi di prova non è mai stato utilizzato per riaprire il processo - complice anche qualche errore procedurale dei primi legali statunitensi di Chico. La sentenza Forti lasciò esterrefatto chiunque avesse seguito il processo, pareva infatti impossibile che una giuria potesse ritenere Chico colpevole di omicidio “oltre ogni ragionevole dubbio” a fronte delle prove flebili e confuse del Procuratore che tra l’altro non trovarono mai riscontri fattuali. Una successiva verifica indipendente della fondatezza di quelle “prove circostanziali” produsse una tale quantità di dubbi che il sospetto che i fatti fossero andati in modo completamente diverso è divenuto certezza per tutti coloro che hanno partecipato alla ricostruzione di quelle ore tragiche. Nel febbraio del 2012 da Senatore, e l’anno successivo da semplice cittadino, ho incontrato Chico in carcere in Florida su segnalazione di Marco Pannella. Durante le nostre visite, più simili a riunioni di lavoro, Chico ripercorse per filo e per segno gli ultimi tre giorni della sua vita da libero cittadino. Racconti a cui ero stato preparato da Roberto Fodde, l’amico che mi aiutò in quelle occasioni e che, successivamente, cronometro alla mano, mi fece fare il giro dei luoghi del delitto per come descritti dai documenti processuali incrociandoli con le contro-deduzioni preparate dall’attento studio delle carte. Un sopralluogo illuminante mai effettuato dall’accusa. Forti non chiede trattamenti speciali, offre l’opportunità di unirsi a lui nella ricerca dell’affermazione di una versione dei fatti alternativa alle speculazioni pregiudizievoli dell’accusa. Il recente interessamento di diversi parlamentari e membri del Governo lascerebbe ben sperare. L’8 febbraio è stato il compleanno di Chico, le curve di San Siro gli hanno dedicato un enorme striscione, ricevere un chiaro impegno da parte della Repubblica italiana per ridargli una speranza di giustizia gli farà sicuramente altrettanto piacere. L’Egitto censura la campagna social per Patrick Zaki di Pino Dragoni Il Manifesto, 12 febbraio 2020 La piramide del terrore. Twitter esegue la richiesta del Cairo. I media attaccano anche il manifesto. L’avvocato del giovane: “Psicologicamente distrutto”. Ma gli affari con le aziende italiane vanno a gonfie vele, da Egypt 2020 al Bit di Milano. “Patrick si trova al momento in una camera di sicurezza del commissariato di polizia Mansoura-2. È psicologicamente distrutto, è arrabbiato”: sono le parole consegnate all’Ansa da Hoda Nasrallah, parte del team impegnato nella difesa di Patrick George Zaki, lo studente dell’università di Bologna arrestato venerdì al suo arrivo dall’Italia. Patrick, la cui detenzione è stata prorogata per 15 giorni, “ha chiesto di essere visitato da un medico legale - continua l’avvocata dell’Eipr, la stessa organizzazione con cui in passato ha collaborato Zaki - per mettere agli atti le tracce della tortura subita”. Colpi e scosse elettriche subite nelle prime 24 ore del sequestro, “ma in maniera da non far vedere tracce sul suo corpo”. La mobilitazione dal basso intanto prosegue, anche al di fuori dell’Italia. Al coro di chi chiede la liberazione immediata di Patrick si è unito tutto il consorzio di università del master Gemma in Studi di genere e delle donne, a cui è iscritto il ricercatore. Sette atenei europei di cui è capofila Granada, dove ieri si è tenuto un partecipato presidio di studenti e docenti. La pressione dell’opinione pubblica continua a smuovere anche i livelli istituzionali. Dopo la pronuncia dell’Ue che tramite un suo portavoce si è detta pronta a “sostenere pienamente” le autorità italiane in caso di azioni necessarie, la delegazione Pd a Bruxelles ha scritto all’ambasciatore egiziano in Belgio e presso l’Unione europea, Khaled Aly El Bakly: “Dato il partenariato tra Egitto e Unione europea, ai sensi dell’accordo di associazione che prevede significativi fondi di cooperazione per l’Egitto e di cui il rispetto dei diritti umani è un elemento essenziale, chiediamo alle autorità egiziane di rilasciare immediatamente Patrick George Zaki”. Anche l’ambasciatore italiano al Cairo Giampaolo Cantini si è mosso sulla vicenda, incontrando il presidente del Consiglio nazionale per i diritti umani egiziano, organo governativo che ha ribadito la posizione del ministero dell’Interno: Patrick, dice il Consiglio, “risulta essere stato fermato in base a un’ordinanza della Procura generale ed è attualmente sotto inchiesta presso la stessa”. La vasta risonanza ricevuta dalla vicenda non è stata particolarmente gradita dalle autorità del Cairo, che hanno subito messo in atto le loro contromosse. L’account Twitter ufficiale della campagna Free Patrick è stato sospeso domenica per aver “violato le regole di Twitter”, senza specificare ulteriori motivazioni. Non è la prima volta che la divisione Medio Oriente di Twitter, basata a Dubai, silenzia voci critiche su pressione dei vari regimi arabi. Era già accaduto a settembre durante l’ondata di proteste in Egitto: centinaia di utenti si erano ritrovati bannati per aver espresso critiche ad al-Sisi, mentre il regime faceva arrestare oltre 4mila persone. Un nuovo account è stato immediatamente creato, ma i gestori della pagina chiedono a Twitter “spiegazioni subito”. Nel mirino della stampa pro-regime è finito di nuovo anche il manifesto, che in una trasmissione sul canale TenTv (la stessa in cui si denigrava Patrick e il suo lavoro) è stato additato come presunto agitatore di una campagna mirata a colpire i rapporti economici e militari tra Italia ed Egitto. L’articolo in questione, con tanto di screenshot dal sito del giornale, è quello che riportava la vendita delle due navi militari Fincantieri al Cairo. Un affare milionario che, se messo in discussione, rischia di mandare all’aria tutta una serie di altre vendite di armamenti, che fanno molta gola all’industria militare italiana. Gli affari comuni a ogni modo proseguono indisturbati in diversi settori. In questi giorni il Cairo è stata teatro di Egypt 2020, la fiera egiziana del settore petrolio e gas in corso fino a domani, di cui Eni è uno degli sponsor principali. All’evento, inaugurato ieri dal presidente al-Sisi in persona, hanno preso parte 24 aziende italiane. Di queste, undici partecipano attraverso una missione collettiva di Ice, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, un organismo del governo che ha favorito la presenza dei privati all’evento cairota. A Milano contemporaneamente era in corso la quarantesima edizione della Bit, la Borsa internazionale del turismo, che ha celebrato il “ritorno” dell’Ente del turismo egiziano. Il presidente dell’ente Emad Abdalla, nel promuovere le mete nel paese delle piramidi, si è rallegrato della crescita esponenziale dell’afflusso di italiani registrata nel 2019: +46% rispetto al 2018, pari a 619mila presenze, come riferisce askanews. “Aspettiamo tutti gli italiani - ha commentato Abdalla - In Egitto si possono fare tutti i tipi di vacanza e gli italiani sono sempre i benvenuti in Egitto”. Un invito che suona come macabra beffa Per i migranti subsahariani l’Egitto è diventato più razzista di Khaled Said Il Manifesto, 12 febbraio 2020 Aumentano i casi di insulti e abusi nel paese nordafricano, casa a circa sei milioni di migranti, la metà da Sudan e Sud Sudan. In assenza di politiche governative, con scuole off limits e lavori sottopagati, è l’Unhcr a tentare la via (anche social) all’integrazione. Il Nilo e i grattacieli della città sono nascosti da una fitta nebbia sopra il ponte 6 Ottobre al Cairo, una delle arterie che porta al quartiere Zamalek, sede di ambasciate e uffici internazionali. Qui c’è anche una delle quattro sedi dell’Unhcr presenti in Egitto: “Tre sono qui al Cairo e una ad Alessandria”, ci dice Radwa Sharaf delle relazioni pubbliche dell’agenzia che fa campo alle Nazioni unite. Il personale della sicurezza è ovunque, sorvegliano i piani tra un tè e l’altro verificando chiunque entri nell’edificio. L’Egitto ospita circa sei milioni di immigrati secondo l’Oim, la metà dal Sudan e dal Sud Sudan, dove la guerra civile ha provocato l’esodo di oltre due milioni di rifugiati. Solo nel 2019 circa 29mila immigrati hanno avanzato richiesta di asilo politico, stando ai dati dell’Unhcr, molto più bassi perché riferiti ai soli migranti registrati. “Abbiamo 129.426 siriani di cui 122.416 richiedenti asilo e 7.010 rifugiati. I sudanesi sono circa 47mila di cui 25mila richiedenti asilo”, afferma Radwa elencando i numeri a memoria. “Siamo convinti che i numeri siano molto più alti, non tutti vengono a registrarsi nelle nostre sedi per prendere la residenza”. Le altre nazionalità più presenti sono i sud-sudanesi, gli eritrei e gli etiopi. I siriani arrivano con i corridoi umanitari, mentre gli altri, in particolare i sudanesi, attraversano illegalmente il confine sud. I numeri sono alti, a dimostrazione che i flussi migratori sono preponderanti anche nella sponda sud del Mediterraneo. “Una volta fatta la registrazione - spiega Radwa - ci sono tre soluzioni durature offerte ai migranti: la prima consiste il rientro nel loro paese di origine, la seconda è il ricollocamento in un altro Stato e infine la terza opzione è quella dell’integrazione ma non è molto diffusa”. Si parla poco di integrazione. Le difficoltà economiche in cui versano gli egiziani rischiano di alimentare sentimenti discriminatori contro gli immigrati in caso di misure di integrazione percepite come onerose dalla popolazione. Una linea politica, quella adottata da al-Sisi, molto simile a quella dei paesi europei dove il tema migrazione è sempre scottante. tuttavia, un’inchiesta pubblicata ai primi di gennaio dalla Ap ha evidenziato l’incremento di attacchi a sfondo razziale nel paese, registrando un aumento di sentimenti xenofobi contro gli immigrati di origine sub-sahariana. A farne le spese maggiori, si legge nel testo, sono le donne, prese di mira con insulti e abusi sessuali soprattutto nei luoghi di lavoro. Secondo l’inchiesta dell’Ap la maggior parte degli immigrati vive in quartieri poveri dove cercano di dare vita a piccole comunità per proteggere le famiglie e i nuovi arrivati, più vulnerabili ad attacchi e violenze. Molti di loro vengono sfruttati nei negozi o nelle aziende con salari molto bassi per intere giornate di lavoro durante le quali subiscono costanti trattamenti denigratori. Tuttavia, Radwa afferma che all’Unhcr non dispongono di dati o rapporti che possano confermare un aumento o una diminuzione degli episodi di razzismo, ma sono molte le iniziative messe in campo contro la discriminazione razziale. “Per sensibilizzare la popolazione - continua - cerchiamo di portare avanti anche campagne social attraverso personaggi famosi come attori e cantanti che abbracciano la causa dei rifugiati e cercano di fare informazione sull’argomento”. Con aria soddisfatta ricorda che l’hashtag #isirianiilluminanolEgitto è stato trend topic su Twitter, ma confida che “per i siriani l’integrazione diventa più semplice rispetto agli immigrati africani, perché c’è una sorta di fratellanza solidale tra gli appartenenti al mondo arabo”. Oggi molti di loro lavorano nel settore della ristorazione, principalmente come cuochi o pasticceri. Di al-Sisi e del governo non ne parlano: “I rifugiati tendono a vivere per conto loro - ci spiega Radwa - Non si interessano alla vita politica egiziana, cercano di aiutarsi a vicenda per trovare un lavoro o un appoggio dove stare”. Trovare lavoro non è facile, soprattutto per chi aspira a qualcosa in più rispetto a una mansione come manodopera a basso costo. “Recentemente abbiamo organizzato un workshop su come curare una mostra per aiutare gli artisti che hanno difficoltà a entrare nel mercato del lavoro - afferma Radwa - Abbiamo esposto le opere di artisti provenienti da sei nazionalità diverse, per dieci giorni. Sono venute tante persone, molte delle quali hanno pure acquistato alcune opere”. L’integrazione però avviene anche attraverso l’accesso all’istruzione pubblica, non garantita a tutti gli immigrati, ma solo a chi proviene dal mondo arabo “perché il sistema scolastico egiziano è diverso e l’ostacolo della lingua è molto grande”, conferma Radwa. Chi non è arabo, dunque, non può iscriversi a una scuola pubblica rimanendo ancora più escluso all’interno della società. Il modo migliore per alimentare le distanze e le disuguaglianze tra gli immigrati e gli egiziani.