Il lavoro “gratuito e terapeutico” per i detenuti è lavoro forzato antigone.it, 11 febbraio 2020 Gratteri torna a parlare di lavoro gratuito in carcere. Ma non è altro che un altro nome per definire i lavori forzati. Ieri il Procuratore della Repubblica Nicola Gratteri è tornato a parlare di lavoro in carcere, riconoscendone il ruolo fondamentale per il reinserimento delle persone ma proponendo che, in assenza di risorse, questo avvenga in forma gratuita. Ma il lavoro gratuito non è altro che lavoro coatto. Il diritto internazionale vieta i lavori forzati. La storia delle tirannie - nazionalsocialista ma anche stalinista - è una storia iconograficamente nota al mondo anche tramite le immagini dei lavori forzati. Auschwitz-Birkenau era un campo di lavori forzati. Così recitano le Regole Penitenziarie Europee: “Il lavoro penitenziario deve essere considerato come un elemento positivo del trattamento, della formazione del detenuto e della gestione dell’istituto… Nella misura del possibile, il lavoro deve essere tale da conservare e aumentare la capacità del detenuto di guadagnarsi normalmente la vita dopo la sua dimissione... L’organizzazione e il metodo di lavoro negli istituti devono avvicinarsi, nella misura del possibile, a quelli che regolano un lavoro nella società esterna, al fine di preparare il detenuto alle condizioni normali del lavoro libero… Deve essere previsto un sistema equo di remunerazione del lavoro dei detenuti”. Ce lo dice anche l’Europa dunque che il lavoro non può che essere retribuito. Lo dicono secoli di storia di sfruttamento umano. Lo afferma perentoriamente l’articolo 8 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966 entrato in vigore in Italia nel 1976: “A nessuno può essere richiesto di svolgere lavoro forzato”. Non vi sono eccezioni. Il lavoro gratuito e terapeutico non è altro che un altro modo di qualificare il lavoro forzato. D’altronde in una società libera neanche le imprese vogliono il lavoro coatto e gratuito in quanto si andrebbe a manipolare il mercato all’esterno rendendolo non competitivo. L’unico lavoro gratuito ammissibile dal mercato resterebbe quello non produttivo, inutile. Sorprende che si auspichi un ritorno al lavoro gratuito. La questione penitenziaria è una questione complessa che ha a che fare con la società, con il diritto interno e internazionale, con i diritti umani, con l’urbanistica e l’architettura, con il welfare, con il fisco, con la sicurezza. Il sistema penitenziario italiano non ha bisogno di taumaturghi e soluzioni giustizialiste. Necessita di razionalità e umanità, doti presenti in tanti operatori - direttori, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi, criminologi, volontari, religiosi, poliziotti - che da decenni si impegnano per una pena rispettosa dell’articolo 27 della Costituzione. Una telefonata al giorno può migliorare la vita in carcere francomirabelli.it, 11 febbraio 2020 “Qualche mese fa con alcuni altri parlamentari siamo stati invitati ad un incontro a San Vittore con le persone detenute del reparto chiamato La Nave, amministrato dall’azienda sociosanitaria territoriale degli ospedali San Carlo e San Paolo. Abbiamo per due ore ascoltato richieste e testimonianze sulla condizione carceraria. In particolare ci hanno raccontato dell’assurdità di un regolamento penitenziario che consente ai detenuti solo una telefonata a settimana, senza alcuna registrazione e, giustamente solo verso pochi numeri autorizzati. Non ci sono ragioni, con questi limiti, per non consentire la possibilità di avere più contatti con le famiglie. Certamente, poter salutare i figli la mattina prima che vadano a scuola o avere notizie quotidiane della salute dei propri genitori anziani e malati, aiuterebbe ad alleviare le sofferenze di persone detenute e loro famigliari. Per questo abbiamo presentato un progetto di legge per consentire ai detenuti comuni di poter telefonare ai propri affetti una volta al giorno. È una proposta di umanità che aiuterebbe a migliorare la vita in carcere. Il disegno di legge porta anche le firme della senatrice Riccardi, che era con me a quell’incontro, e dei senatori Cucca e Grasso, ma, in realtà nasce da una proposta che viene dai ragazzi della Nave e a loro va dato atto”. Lo fa sapere il senatore Franco Mirabelli, Vicepresidente del Gruppo PD al Senato e Capogruppo PD in Commissione Giustizia. Disegno di Legge A.S. 1697 “Modifiche all’articolo 39 del regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, in materia di corrispondenza telefonica delle persone detenute”. Relazione: L’articolo 39 del regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, prevede che i condannati e gli internati possano essere autorizzati, una volta alla settimana, dalle autorità competenti, alla corrispondenza telefonica con i congiunti e conviventi, ovvero, allorché ricorrano ragionevoli e verificati motivi, con persone diverse dai congiunti e conviventi. La durata massima di ciascuna conversazione telefonica è di dieci minuti. Le suddette disposizioni si applicano anche agli imputati. Il presente disegno di legge si inserisce in un quadro di proposte normative che, da molti anni, mirano a dare adeguato riconoscimento al diritto della persona detenuta a mantenere relazioni affettive. Secondo quanto stabilito da numerosa giurisprudenza costituzionale, infatti, eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti possono essere imposti solo se risultano essere strettamente necessari all’esigenze di ordine e sicurezza correlate allo stato detentivo. In caso contrario acquisterebbero “unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale”, come tale incompatibile con la finalità rieducativa sancita dall’articolo 27 della Costituzione (sentenza n. 135 del 2013 e sentenza n. 301 del 2012). La sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 1999 - successivamente richiamata dalla sentenza n. 301 del 2012 sul diritto dei detenuti all’affettività e alla sessualità - stabilisce che “(...) L’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzialmente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria é estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti. I diritti inviolabili dell’uomo, il riconoscimento e la garanzia dei quali l’articolo 2 della Costituzione pone tra i principi fondamentali dell’ordine giuridico, trovano nella condizione di coloro i quali sono sottoposti a una restrizione della libertà personale i limiti a essa inerenti, connessi alle finalità che sono proprie di tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione. (...).” Inoltre, nel documento finale degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale elaborato dal Ministero della giustizia nel 2016, si legge: “Uno dei bisogni maggiormente avvertiti dalla popolazione detenuta (...) è quello di migliorare la qualità e la quantità dei contatti con i familiari.” Nel documento si propone “una maggiore liberalizzazione dei colloqui telefonici. In tale prospettiva, che presupporrebbe l’utilizzo generalizzato dei telefoni “a scheda”, andrebbe congruamente aumentato sia il numero sia la durata dei colloqui attualmente consentiti. (...)”. Nel riconoscere l’importanza del diritto soggettivo all’affettività delle persone detenute, il presente disegno di legge modifica l’articolo 39 del citato regolamento e prevede che le stesse possano essere autorizzate alla corrispondenza telefonica una volta al giorno per una durata massima di venti minuti, superando così quelle che appaiono ingiustificate restrizioni alla possibilità di mantenere relazioni affettive. Testo del Disegno di Legge: Art. 1 1. All’articolo 39 del regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 2, primo periodo, le parole “una volta alla settimana” sono sostituite dalle seguenti “una volta al giorno”; b) il comma 3 è abrogato; c) ai commi 4 e 5, le parole “ai commi 2 e 3” sono sostituite dalle seguenti “al comma 2”; d) al comma 6, le parole “dieci minuti” sono sostituite dalle seguenti “venti minuti”. Spazza-corrotti e benefìci penitenziari, la legge alla Consulta di Angela Pederiva Il Gazzettino, 11 febbraio 2020 Retroattività del testo voluto dal M5S: oggi l’udienza alla Corte Costituzionale. Parte dal Veneto la richiesta alla Consulta di dichiarare l’incostituzionalità della legge Spazza-corrotti. È stato infatti il Tribunale di Sorveglianza di Venezia il primo a formulare dubbi sulla legittimità di una disposizione-chiave del testo fortemente voluto dal Movimento 5 Stelle, quella che introduce la retroattività della stretta sui benefìci penitenziari per i condannati per i reati più gravi contro la pubblica amministrazione, tra cui la corruzione e l’induzione indebita a dare o promettere utilità. Per questi illeciti il geometra Antonio Bertoncello, protagonista della “cricca” che in laguna chiedeva tangenti in cambio di pratiche, deve ancora scontare 2 anni, 3 mesi e 12 giorni di reclusione: l’avvocato Tommaso Bortoluzzi aveva presentato istanza di affidamento in prova ai servizi sociali, ma l’alternativa al carcere è preclusa dalla nuova normativa, che oggi finirà così sotto la lente della Corte. Secondo la sentenza di condanna a 3 anni, ormai definitiva, fra il 2002 e il 2011 il professionista consegnò somme di denaro a funzionari pubblici per agevolare e accelerare alcune procedure edilizie, trattenendo per sé una percentuale degli importi versati dai clienti. Dopo aver trascorso quasi nove mesi in prigione e ai domiciliari, “mantenendo sempre un comportamento regolare ed osservante delle prescrizioni” stando alla sottolineatura della difesa, Bertoncello avrebbe voluto espiare il resto della pena svolgendo attività sociali. Al riguardo l’avvocato Bortoluzzi aveva fatto presente che il 53enne ha risarcito gli enti territoriali a cui appartenevano i colletti bianchi coinvolti (100.000 euro al Comune di Venezia e 25.000 alla Regione) e ha donato 3.000 euro all’associazione Libera. Il suo ravvedimento sarebbe inoltre dimostrato dal fatto che il geometra adesso lavora a Venezia come coordinatore di cantiere in uno studio di architettura, aiuta la moglie nella gestione di alcune strutture ricettive in città e abita con la famiglia, “i cui componenti sono esenti da pregiudizi penali”, in una casa di proprietà al Lido di Venezia. Infine era stato sottolineato che il professionista “ha tenuto una condotta collaborativa con gli inquirenti”. La domanda di affidamento in prova era stata avanzata il 10 maggio 2018. Ma il 9 gennaio 2019 era stata approvata la legge Spazza-corrotti, che esclude la misura alternativa per quel tipo di reati, salva la collaborazione con la giustizia. Su questo punto, la Sorveglianza ritiene che Bertoncello “non abbia collaborato con l’autorità giudiziaria in termini di efficacia tale da soddisfare i requisiti” prescritti dalla normativa. Al riguardo l’ordinanza firmata dal presidente Giovanni Maria Pavarin, con estensore Fabio Fiorentin, cita stralci della sentenza di condanna della Corte d’Appello del 12 novembre 2015, poi confermata dalla Cassazione il 12 ottobre 2017, secondo cui i ristori a Comune e Regione sono stati “poca cosa rispetto ai profitti conseguiti dai reati, se si tengono presenti i beni immobili acquistati e i redditi dichiarati” e il geometra “non avrebbe ammesso gli addebiti se non fossero state sequestrate rubriche e agende”. Lo stesso Tribunale, però, nutre dubbi sul fatto che una norma del 2019 possa disciplinare fatti commessi fino al 2011 e passati in giudicato nel 2017. Per il collegio, “cambiando le carte in tavola” la Spazza-corrotti “ha trasformato radicalmente la risposta sanzionatoria, prevedendo quale soluzione ordinaria l’esecuzione della pena in carcere”. In questo senso la disciplina retroattiva produce “una irragionevole disparità di trattamento tra soggetti che giudicati colpevoli dei medesimi delitti, abbiano visto decisa dal giudice di sorveglianza la propria istanza di misura alternativa” prima della nuova legge, o magari pure dopo, “per mera casualità o per il difforme carico dei tribunali di sorveglianza sul territorio nazionale”. Tradotto: se Venezia fosse meno oberata, forse avrebbe valutato la richiesta di Bertoncello prima del varo della Spazza-corrotti. Dunque ora dovrà occuparsene la Corte Costituzionale. Prap Triveneto e Ucai insieme per i rimpatri volontari e “assistiti” dei detenuti africani di Marina Caneva* gnewsonline.it, 11 febbraio 2020 È stata avviata nei giorni scorsi la valutazione congiunta tra il Provveditorato per il Triveneto, i rappresentanti dell’Unione Comunità Africane d’Italia (Ucai) e il sodalizio Diritti in Movimento Toscana sulla fattibilità del progetto Exodus, che si propone di ricondurre in Africa le persone detenute nelle carceri italiane intenzionate a fare ritorno nelle comunità di origine. All’incontro, che è stato seguito dalla visita agli istituti di Padova, hanno partecipato Enrico Sbriglia, provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Armando Reho, direttore dell’Ufficio Detenuti e Trattamento, Hassan Abdul, membro del coordinamento nazionale Ucai, Soglo Godefrois, collaboratore di Ucai per il Veneto e lo psichiatra Mario Iannucci insieme alla collega Gemma Brandi, coordinatrice di Diritti in Movimento Toscana e membro del tavolo istituito dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a tutela dei fragili il 9 gennaio scorso. Si è dibattuto su come il sistema penitenziario italiano potrebbe contribuire a favorire il percorso di rimpatrio sfruttando meglio l’esperienza della detenzione: l’acquisizione di capacità professionali dei detenuti necessarie a svolgere attività nei settori strategici dell’agricoltura, nell’artigianato e in tutti i lavori che richiedano competenze di base, potrebbe contribuire al rilancio della vocazione agricola e artigianale dei Paesi africani coinvolti e consentire obiettivi miglioramenti della vita in quelle società. Tali Paesi potranno avvalersi di un’opportunità importante che attribuirà senso alla pena e concilierà i detenuti con i loro luoghi di origine, trasformando così il tempo detentivo in vera occasione di cambiamento e valorizzazione di capacità non ancora pienamente emerse. Grazie alla visita effettuata nelle carceri padovane, i dirigenti Ucai hanno apprezzato le numerose iniziative trattamentali indirizzate al lavoro. Attività che, attraverso percorsi di formazione, si vorrebbero “esportare” in Africa, in particolare per la realizzazione di call center governativi, imprese cooperative per la panificazione e produzione di prodotti da forno, per la trasformazione di semilavorati industriali e soprattutto per attività di carpenteria in ambito edilizio, muratori, piastrellisti, idraulici ed elettricisti, particolarmente carenti in quei Paesi. Per la predisposizione di interventi mirati per favorire il rientro nei Paesi di origine dei detenuti africani, Prap Triveneto e Ucai hanno ipotizzato la sottoscrizione di un protocollo d’intesa per la ricerca dei profili di competenze manuali e tecniche richieste negli Stati di provenienza. Tornare in patria con la speranza concreta di migliorare la propria esistenza e addirittura la possibilità di essere risorsa importante per famiglie e comunità d’appartenenza, può infatti trasformare un momento drammatico della vita in opportunità concreta. Per queste ragioni i percorsi di rientro nel contesto d’origine individuati in tal modo costituiscono la soluzione vincente. Ucai indicherà quali competenze e abilità vengono richieste dai Paesi africani in modo da chiedere all’Amministrazione Penitenziaria di orientare i percorsi professionali delle persone detenute africane. Nel frattempo il Prap di Padova elaborerà i dati relativi alle nazioni di provenienza delle persone detenute di origine africana in generale e, in particolare, dei detenuti definitivi ristretti nel Triveneto. A fronte dei numeri che emergeranno, si valuterà l’opportunità di realizzare classi omogenee di formazione professionale per consentire i necessari trasferimenti e le aggregazioni presso quegli istituti dove verranno realizzati i corsi, in particolare presso la Casa di Reclusione di Padova, la Casa Reclusione femminile di Venezia e le sezioni di Reclusione degli istituti di Verona, Treviso e Udine. Per ottenere l’indispensabile collaborazione, nel progetto saranno coinvolte le regioni del Triveneto e la Cassa delle Ammende. *Referente per la comunicazione del Prap Triveneto Prescrizione, da Renzi annuncio di rottura o bluff? A rischio c’è il governo di Massimo Franco Corriere della Sera, 11 febbraio 2020 La minaccia di una mozione di sfiducia contro il Guardasigilli grillino Alfonso Bonafede agita il governo e rafforza il partito del voto anticipato. Ma potrebbe anche finire nel nulla. La domanda è se si assista all’ultima sceneggiata, o a un annuncio di suicidio politico. Non si può escludere che la prima ipotesi porti, al di là delle intenzioni, al secondo. L’impressione è che sulla riforma della prescrizione il Movimento Cinque Stelle e Italia viva si siano infilati in un vicolo cieco dal quale sarà difficile uscire indenni: almeno per uno dei due. Il problema è se, per marcare il proprio ruolo nel governo, insisteranno fino a tirare giù la maggioranza, o accetteranno l’ennesimo compromesso. Di certo, la minaccia renziana di presentare una mozione di sfiducia contro il solo Guardasigilli, il grillino Alfonso Bonafede, è il tentativo disperato di piegare il ministro senza destabilizzare Palazzo Chigi. E l’appello al premier Giuseppe Conte perché trovi una sintesi sottolinea una debolezza trasversale. Può darsi che Iv voglia questo: certificare un governo in debito di ossigeno politico, e magari creare le premesse per un appoggio esterno. Ma si tratta di un gioco estremamente pericoloso. Promette di rafforzare il partito del voto anticipato, che a Matteo Renzi e ai suoi fa paura quanto al M5S. L’insistenza di Iv nel giurare che non vuole la crisi ma non è neanche disposta a arretrare in cambio di qualche poltrona al tavolo delle nomine, lascia aperte molte domande. E la prima è se il problema, in realtà, non sia quello. Contrapporre “poltrone” e “valori” suscita, come minimo, qualche diffidenza. Il modo in cui Iv tiene fermo il “no” alla mediazione raggiunta sulla prescrizione tradisce un narcisismo del potere che si cerca di sublimare come partita a scacchi. È l’esito della frustrazione di due forze, M5S e Iv, che per mostrarsi forti esasperano le rispettive posizioni. Ma l’odore della polvere da sparo e quello del bluff si mescolano. E non solo perché dentro Iv si avvertono differenze di tono che fanno pensare a un blitz improvvisato e molto tattico. Viene da pensare che l’ennesimo scarto renziano sia figlio della voglia di non apparire perdente nella trattativa con Conte e col Pd. Dire che “se davvero presenteranno un decreto o un emendamento sulla prescrizione voteremo contro”, in teoria significa prepararsi a rompere; in pratica potrebbe essere un modo per costruirsi una via d’uscita nel tentativo di salvare la faccia, sapendo già che le due ipotesi non esistono. Il Quirinale osserva queste convulsioni con distacco, sconcertato dal prezzo alto che si fa pagare al Paese. Aspetta di vedere dove approderanno, senza escludere che possano mettere in moto le dinamiche di una crisi. Giustizia, Renzi minaccia il governo. Pd e 5S rilanciano di Carlo Bertini La Stampa, 11 febbraio 2020 Prescrizione, ultima offerta a Italia viva: la nuova normativa finirà nel ddl Costa. Ma Zingaretti non crede al “bluff”. Malgrado Teresa Bellanova dica “noi non vogliamo far cadere il governo”, la minaccia lanciata ieri da Matteo Renzi di presentare una mozione di sfiducia al Senato contro il ministro Alfonso Bonafede per il “caso prescrizione”, suona come una campana a morto per l’esecutivo. Almeno così la pensa Dario Franceschini, capofila di una schiera di pezzi grossi Dem, convinti che a questo punto Renzi faccia sul serio. Per Franceschini, vuole le urne - “Se vuole sfiduciare un ministro, sfiducia l’intero esecutivo”, chiarisce il capo delegazione Pd. Il quale, ben conoscendo l’ex premier, con i suoi vari interlocutori solleva il dubbio che possa aver deciso che sia meglio andare al voto con la legge elettorale in vigore. Perché garantisce porte aperte ai partiti che superano il 3%: anche se si andasse alle urne a giugno dopo il referendum di marzo, con un terzo di seggi in meno, Italia Viva non rischierebbe di restare fuori. Ma al di là del fatto che il leader Pd non crede al bluff, Pd e 5 stelle vogliono vedere se Renzi fa sul serio: e lo aspettano al varco per vedere se depositerà la mozione di sfiducia dopo che verrà bocciata la proposta di Italia Viva (emendamento Annibali al milleproroghe) di sospendere per un anno la riforma del ministro che abolisce la prescrizione. L’ultima mediazione - Per sminare il terreno e offrire un appiglio a Renzi, il governo non presenterà più un emendamento al decreto mille proroghe: che avrebbe obbligato Italia Viva a votare la fiducia obtorto collo; e che comporterebbe un doppio profilo di incostituzionalità. E non sarà varato un decreto legge ad hoc, per non scaricare su Mattarella la responsabilità di firmare un atto controverso. L’ultima decisione è che verrà “parlamentarizzata” la questione, come si fa quando si vuole mettere al riparo il governo: trasferendo il contenuto del “lodo Conte bis”, che attenua l’abolizione secca della prescrizione, nel disegno di legge Costa in votazione il 24 febbraio. Un ddl che abroga la riforma Bonafede, gradito a Italia Viva. Sarà riscritto, con un emendamento che contiene l’abolizione della prescrizione dopo la seconda condanna in appello e il suo permanere per gli assolti in secondo grado. L’ex premier: non mi fermano - “Se davvero chiedono di sfiduciare Bonafede, è crisi”, avverte Zingaretti, sicuro però che “non lo faranno”. Il leader Pd cita Shakespeare del “Tanto rumore per nulla”, per dare idea di quanto poco consideri la minaccia renziana, bollata come un bluff. Renzi scommette tutte le sue carte su una battaglia fortemente identitaria e se tirasse dritto, il timore dei Dem è che non ci sarebbe una maggioranza blindata grazie ai voti di delusi di Forza Italia. L’ex premier è infatti sicuro di avere “tutti i voti di IV, tutti quelli delle opposizioni - perché è difficile ipotizzare il soccorso azzurro proprio sulla giustizia - e qualcuno anche del Pd. Noi non molliamo di un centimetro”, dice Renzi ai suoi riuniti ieri sera a Palazzo Giustiniani. “Dicono che io mi fermo per aspettare le nomine. Si vede che non mi conoscono”. Il Pd: così fa un favore a Salvini - “Come volevasi dimostrare, dicevano di voler allargare il campo ai moderati per sconfiggere Salvini e invece gli fanno un favore”, è lo sfogo del segretario Pd. “Della sconfitta della destra, del lavoro, della crescita non si parla più. Solo polemiche ad arte per nascondere la loro crisi. Salvini e Meloni brindano. Complimenti”. Ecco lo stato dei rapporti tra l’attuale e l’ex segretario Pd. Il quale, stando ai veleni che piovono copiosi dal Nazareno, non avrà però il seguito che spera al suo atto di ostilità al governo. “Vediamo quanti dei suoi lo seguono...”. Quel che è certo è che dopo questa giornata, cresce l’insofferenza del Pd verso Renzi, “che cala pure nei sondaggi, mentre noi cresciamo di un punto”. “Stavolta sta davvero esagerando”, lo rimprovera l’ex renziana di ferro,oggi sottosegretario, Alessia Morani. Prescrizione, Renzi: “Mozione di sfiducia su Bonafede” di Errico Novi Il Dubbio, 11 febbraio 2020 Il leader di Italia Viva: “Se per bloccare il nostro lodo Annibali il governo pone la fiducia sul Mille Proroghe, noi sfiduciamo il ministro”. Crimi, capo reggente m5s: “Dite che volete la crisi”. Franceschini: “Vuol dire che sfiduciate l’intero governo”. L’idea è: non siete voi che ci cacciate dal governo, siamo noi a chiedere che Bonafede non ne faccia più parte. Ecco la logica con cui Matteo Renzi alza ancora la posta in gioco sulla prescrizione, fino ad annunciare “la mozione di sfiducia” nei confronti del guardasigilli. L’impennata arriva di sera, alla riunione dei parlamentari di Italia Viva. Dopo che il renziano Roberto Giachetti aveva sfoderato per primo l’ipotesi: “Se continuano con le forzature sulla prescrizione, il ministro della Giustizia si troverà con una bella mozione contro, questo è pacifico…”. Rilancio che il Movimento 5 Stelle tratta fin dall’inizio senza trascurarlo come un bluff qualunque: il capo politico reggente Vito Crimi replica che “gli attacchi e le costanti minacce sono inaccettabili: se intendono aprire la crisi lo si dica chiaramente, si faccia secondo modi e procedure istituzionali. A quel punto”, è la sfida, “gli italiani sapranno chiaramente chi vuole fare il loro interesse e chi no”. Il muro grillino è puntellato da Dario Franceschini, ministro dei Beni culturali e capo delegazione dem nel governo: “Se un partito di maggioranza minaccia di sfiduciare un ministro, sta minacciando di sfiduciare l’intero governo”. Parole che danno la misura della tensione. Il clou arriva con la riunione dei gruppi parlamentari di Italia Viva. Renzi dà ai suoi la seguente linea: “Se per impedirci di emendare il Mille Proroghe col lodo Annibali ponessero la fiducia, noi rilanceremmo con la mozione su Bonafede. Si fa sul serio”. Campo di battaglia definito: primo round sul lodo Annibali, già presentato da Italia Viva a Montecitorio, dov’è destinato a non passare. Proposta come emendamento al Mille Proroghe, la modifica congela per un anno l’efficacia della norma Bonafede sulla prescrizione, in vigore dal 1° gennaio. Il “lodo” porta la firma della deputata Lucia Annibali, capogruppo di Italia Viva nella commissione Giustizia della Camera. Renzi (che è senatore) lo riproporrebbe a Palazzo Madama, dove ha i numeri dalla sua. A quel punto il governo presenterebbe un maxiemendamento depurato dal lodo Annibali e blindato con la fiducia. Italia viva non la farebbe venir meno. Ma presenterebbe appunto la mozione anti guardasigilli. Convinta che sarebbe sostenuta dall’intera opposizione. E forse da qualche franco tiratore dem. Chiosa di Renzi alla pre-riunione di mezza sera: “Non si molla neppure di un centimetro. Dicono che mi fermo per aspettare le nomine. Si vede che non mi conoscono”. Concetto sdoganato, nel giro di pochi minuti, dal limbo dei retroscena: l’ex premier lo mette per iscritto anche sui social network. Mentre lui affila le armi, il resto della maggioranza ha le polveri bagnate. Almeno sul lodo Conte bis. Resta problematica l’idea di proporlo come emendamento al solito Mille Proroghe. Parte anche la contraerea di Forza Italia: “Tutti i costituzionalisti ritengono illegittimo inserire nel decretone una norma di quel tipo sulla prescrizione”, dice Mariastella Gelmini, “se il presidente della Camera Fico desse via libera, ci rivolgeremmo al Capo dello Stato Mattarella affinché preservi le prerogative del Parlamento”. Sempre nel pre-mach della riunione di Italia Viva, la ministra renziana Teresa Bellanova conferma che “se la prescrizione resta com’è il governo rischia”. Tanto per chi non l’avesse capito. Prescrizione e impunità non sono la stessa cosa, anche i fascisti lo capirono ma Bonafede no di Catello Vitiello Il Riformista, 11 febbraio 2020 Il tema sembra impopolare, ma difendere la prescrizione non significa difendere l’impunità: in un sistema liberale che voglia tutelare il patto sociale tra l’individuo, la comunità e lo Stato, le tutele all’interno del processo penale non sono mai troppe, come confermato dallo straordinario lavoro dei Padri costituenti. Per sostenere la cancellazione della prescrizione alcuni commentatori - anche illustri - indebitamente si riferiscono a un argomento squisitamente territoriale, dimenticando che l’Italia è l’unico Paese al mondo che fonda - ancora oggi - il proprio sistema penale su un codice pre-repubblicano, voluto nel 1930 dal regime fascista, un codice penale Stato-centrico, che parte infatti dalla difesa della personalità dello Stato e che tutela il bene “vita” dopo oltre 300 articoli. Nonostante le numerose modifiche additive e modificative che hanno garantito la sopravvivenza di questo codice, restano le sue specificità stridenti rispetto all’attuale ordinamento costituzionale e agli odierni orientamenti di politica criminale. Pur tuttavia, la prescrizione fu inserita già nel codice fascista perché sin da allora si comprese la necessità di bilanciare la pretesa punitiva dello Stato e l’effettività dell’allarme sociale causato dal fatto di reato. La prescrizione è dunque una garanzia indefettibile per una società democratica e per uno Stato di diritto, scolpita fra i capisaldi della nostra Costituzione. Andando con ordine e partendo dalla fine: la prescrizione è servente alla funzione pubblica ai sensi dell’articolo 111 della Costituzione. Cancellarla in ragione di una - solo presunta - maggiore efficienza dei processi penali comporterà un innegabile “prolasso” processuale in netta antitesi rispetto alle coordinate volute dal legislatore costituzionale del 1999, allorquando ha elevato a principi inderogabili di rango costituzionale sia il giusto processo, fondato sull’effettiva capacità dimostrativa della pretesa accusatoria del pm, sia la ragionevole durata, senza la quale si allenterà la tensione sociale sul disvalore penale della condotta. La prescrizione è, poi, servente all’individuo, stanti il secondo e il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione. Mentre dalla considerazione di non colpevolezza discendono numerosissimi corollari relativi al rapporto verità storica/verità processuale, al rapporto pm/giudice e al “sacrificio del giudicare” (come lo definì Leonardo Sciascia), così implicando l’illegittimità di congelare sine die la prescrizione e, di conseguenza, di mantenere un presunto innocente “eternamente giudicabile”; dal principio di rieducazione della pena discende la necessità costituzionale che la sanzione penale punti al recupero e alla risocializzazione del condannato: è tipico di uno Stato illiberale punire una persona dopo tanti anni dalla commissione del fatto di reato. È giusto che la potestà punitiva dello Stato abbia un tempo, un limite, eccettuati i casi di crimini gravissimi per i quali si prevede un tempo più ampio o, addirittura, la imprescrittibilità, in modo che siano perseguibili in ogni tempo. Uno Stato liberale punisce i colpevoli per risocializzarli e non per vendetta. Il diritto di difesa previsto dall’articolo 24 della Costituzione rappresenta, inoltre, l’architrave del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza perché, vista la sua inviolabilità, prelude il rispetto di tutte le garanzie e destina il doveroso equilibrio in quel patto sociale fra individuo e collettività messo in crisi dal processo penale. E, per questo, una difesa che possa dirsi efficace ed effettiva se, da un lato, non può essere compressa dal tempo, dall’altro deve esplicarsi in modo da verificare il rispetto dell’onere della prova e fronteggiare le distorsioni di un sistema che, gestito dagli uomini e non da superuomini o esseri superiori, è fallibile. E allora, non esistono “cavilli” tirati fuori da un cilindro come fossero conigli, bensì eccezioni che, se fondate, possono comportare sì una dilatazione dei tempi del processo, ma a causa di errori commessi da chi ha l’esclusiva dell’azione penale o della verifica della stessa. Se a tanto si aggiunge, poi, che ogni rinvio delle udienze, richiesto per impedimenti riconducibili agli imputati o ai difensori, comporta per legge la sospensione del termine prescrizionale, si comprenderà agevolmente come gli avvocati non abbiano alcuna possibilità di procrastinare i processi per arrivare alla prescrizione e come i magistrati debbano essere diligenti e non commettere errori, rispettando le regole processuali poste a base dello Stato di diritto. Del resto, il 60% delle prescrizioni matura nel corso delle indagini preliminari, laddove il difensore non ha poteri di sorta e i tempi dipendono solo ed esclusivamente dai magistrati del pubblico ministero. In questa disamina di principi costituzionali, l’inviolabilità della libertà personale di cui all’articolo 13 della Costituzione assegna un peso specifico all’individuo, la cui libertà non può essere violata se non in forza di una doppia riserva, di legge e di giurisdizione. La prescrizione avvalora questa inviolabilità rappresentando, in concreto, la cifra della deroga prevista: in tanto potrà violarsi la libertà di un uomo, in quanto la giustizia faccia il suo corso in tempi certi! Infine, l’articolo 3 sempre della Carta consente di comprendere in che modo può definirsi incostituzionale sia l’assimilazione fra condannati e assolti sia l’esclusione dei soli assolti proposta dal presidente del Consiglio. Mentre la sospensione sine die (recte, cancellazione) della prescrizione dopo la sentenza di primo grado - di assoluzione o di condanna che sia - vìola il principio di uguaglianza formale di cui al primo comma dell’art. 3, perché assolti e condannati non rappresentano un medesimo punto di partenza. Al contempo, l’abolizione della prescrizione per il solo condannato vìola l’uguaglianza sostanziale indicata dal suo secondo comma, dal momento che in situazioni diverse lo Stato deve predisporre le medesime garanzie per ottenere eguali risultati (in pratica, dinanzi a diversi punti di partenza, occorrono mezzi e strumenti per raggiungere gli stessi obiettivi). In definitiva, pur salvando l’assolto resta l’incostituzionalità per il condannato ed è, quindi, certamente illegittima una prescrizione a due velocità, per la mancanza di equità nella differenziata sorte processuale (con termini certi per il primo e senza alcun termine per il secondo), in assenza di un fondamento giustificativo della disparità di trattamento. In realtà, o non si conosce il problema o non si vogliono vedere le soluzioni, visto che in un sistema accusatorio: si dovrebbe, innanzitutto, fare i conti con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, posto che un potere di selezione dei fascicoli cui dare priorità già esiste e determina un peso specifico nella statistica delle prescrizioni; in secondo luogo, sarebbe opportuno modificare il regime delle notificazioni e responsabilizzare, così, di più il ruolo dell’avvocato difensore; ancora, sarebbe necessario rivisitare la pianta organica dei tribunali, affinché il rinvio di un processo non superi un tempo compatibile con i principi di oralità e immediatezza della prova; infine, bisognerebbe iniziare a discutere seriamente di separazione delle carriere e di responsabilità dei magistrati prima ancora di immaginare una responsabilità in solido dei difensori in caso di ricorsi inammissibili. Occorre, infatti, ridisegnare i confini del potere giudiziario come non è stato fatto nel 1988, prima dell’entrata in vigore del nuovo codice, ristabilendo un equilibrio fra indagini e processo, fra magistratura requirente e giudicante, e ricostituendo un sistema processuale democratico che sia presidio dello Stato di diritto senza dimenticare una verità ineludibile: la giustizia è gestita dagli uomini e la sua fallacia sta nella sua necessaria umanità. Proprio per questo il giudizio degli uomini deve essere legato a regole ferree e stringenti, perché non diventi giudizio morale, giudizio etico, giudizio politico o, più semplicemente, pregiudizio. Riforma Bonafede, diciamo addio al Lodo e facciamola finita con queste follie di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 11 febbraio 2020 Tra il lusco e il brusco, siamo in attesa di questo ormai leggendario lodo sulla prescrizione da almeno un mese. Con tutto il garbo possibile, e con l’autentico rispetto che nutriamo per chi ha il difficile compito di governare un Paese dovendo fare i conti con maggioranze politiche disomogenee, dicemmo subito - allora la riforma Bonafede non era ancora entrata in vigore- che dubitavamo vi fosse una soluzione praticabile all’infuori di un ulteriore rinvio. Le ragioni che avevano convinto il Ministro e la sua parte politica ad accettarlo nel 2019 erano perfettamente immutate nel 2020. Lo chiedemmo anche al Guardasigilli: perché cambiare idea? Niente da fare, qui la ragione non detta legge. La partita è quella di chi vuole piantare la bandierina ideologica, demagogica, irresponsabile. La legge entra in vigore: chi la votò (ottenendo però almeno quel rinvio condizionato, diamone lealmente atto alla Lega) grida allo scandalo; chi la avversò (il Partito Democratico) inizia un’opera di mediazione, in nome della responsabilità di governo. Ma mediazione tra cosa e cosa? Questo è il punto. Lo abbiamo ripetuto fino alla nausea: il disegno di legge del PD, che ripropone la “Orlando” leggermente rivisitata, è perciò stesso abrogativo della Bonafede. Non stiamo parlando del prezzo di una merce, ma di principi tra di loro irriducibili, l’uno alternativo all’altro. L’unica dichiarata intenzione comune - e non è poco se ci pensate - è l’obiettivo di ridurre drasticamente i tempi del processo: si lavori a quello, rimuovendo nel frattempo la materia del contendere, anche solo con una sospensione temporanea della sua efficacia. Invece, impazza il lodo. Ed alla fine, impazzisce. Si annuncia oggi con squilli di tromba che la vituperata abolizione della prescrizione viene confermata per chi è condannato in primo grado, ma non per chi è assolto. Cioè ciò che il PD aveva giudicato insufficiente già due settimane fa. Quale è la novità? Che se il condannato (se e quando vedrà finalmente celebrato l’appello, anche dieci anni dopo per esempio, tanto non c’è più fretta) dovesse essere assolto (succede), recupera la prescrizione perduta. Avete presente la tessera-punti che danno al supermercato? Ecco, una cosa del genere. Domanda, così, solo per curiosità: ma se sono stato assolto, cosa dovrei farmene del recupero della prescrizione? Complimenti, lei ha vinto una prescrizione! Eventualmente utilizzabile - intuiamo - laddove mai il Procuratore generale (ipotesi invero percentualmente marginale), non pago di averti tenuto prigioniero del processo per molti lustri, volesse ricorrere per Cassazione. Dovrebbe in tal caso calcolare se nel frattempo non fosse maturata la prescrizione dalla data della ingiusta sentenza di condanna di primo grado, tale da rendere inammissibile il suo ricorso. O dovrebbe comunque calcolarla poi la Cassazione al momento del giudizio. A questo punto si impone una seconda domanda: siamo su “Scherzi a parte”, o qualche burlone versa nei caffè del Consiglio dei ministri sostanze allucinogene all’insaputa dei partecipanti? Tu tieni un povero cristo, ingiustamente imputato e che doveva essere assolto, prigioniero di un processo ingiusto per un tempo indefinito, e quando infine ti decidi ad assolverlo, gli regali la prescrizione che avrebbe maturato se fosse stato assolto in primo grado? E deve dirti anche grazie? Ma lui prende un bastone, e ti insegue fino a quando non ti raggiunge (sto parlando al lucido inventore di questo capolavoro), e noi francamente non sapremmo dargli torto. Anzi, faremmo il tifo. Diciamo lodo addio (nell’alto dei cieli), e facciamola finita con queste follie, prima che la neurodeliri si porti via tutti. Il limite della decenza lo abbiamo da tempo superato, cerchiamo almeno di non smarrire il senso del ridicolo. Prescrizione, la cinquina incostituzionale. E prima di decidere servono dati certi di Beniamino Caravita Il Dubbio, 11 febbraio 2020 La Costituzione non può essere sacrificata. Ma quel che lascia perplessi è che la discussione sia tutta ideologica e senza approfondimenti. Se si vuole giocare a tombola (una tombola un po’ più lunga, perché tarata sui 139 articoli della nostra Costituzione) con le violazioni della Costituzione compiute dalla nuova disciplina della prescrizione, anche secondo quanto sembra di capire dal cosiddetto lodo Conte2, la cinquina è presto trovata: il primo numero sorteggiato è sicuramente il 27: nel nostro ordinamento vigono i principî della presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva di condanna, principio messo in pericolo dal rischio di “fine processo mai”, innescato da una prescrizione infinita, e della finalità rieducativa della pena, finalità che viene messa nel nulla dall’esercizio della pretesa punitiva statale che arriva dopo decenni dalla commissione del fatto). Il secondo numero estratto è il 111, vale a dire l’articolo in cui viene sancita una riserva rinforzata di legge, con cui la Costituzione chiede al legislatore di intervenire per garantire la ragionevole durata del processo, nella sua connessione con il 117, che richiama il rispetto degli obblighi internazionali, tra cui la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, alla cui stregua siamo stati più volte condannati. Sul tabellone poi compaiono il 3, che tutela l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, messa invece a rischio dallo strampalato meccanismo secondo il quale la prescrizione continua a decorrere in caso di assoluzione in primo grado, mentre è sospesa nel caso di condanna, salvo un retroattivo recupero in caso di assoluzione in secondo grado; il 24, che sancisce il diritto di difesa, quale principio supremo e inviolabile della nostra Costituzione, in grado di resistere anche alle norme di derivazione europea, diritto di difesa il cui esercizio non distingue tra eccezioni sostanziali e eccezioni procedurali (potrebbe mai un avvocato rinunziare ad eccepire un errore di notifica o una erronea composizione del collegio?); il 97, che fissa il principio di buon andamento e imparzialità, che per giurisprudenza consolidata si applica anche all’attività giurisdizionale, che viene messo a rischio da riforme non pensate e non tarate sulla realtà degli uffici giudiziari, senza tener conto dei numeri reali dell’impatto della prescrizione e della fase in cui l’istituto interviene. E, in un sistema processuale dominato da un perverso e sregolato collegamento tra mezzi di comunicazione di massa e uffici giudiziari, il “fine processo mai” lede in modo irreparabile la dignità dell’uomo, quale diritto inviolabile, garantito dall’art. 2, senza dare nessuna garanzia alle vittime dei reati, assoggettate anch’esse alla infinita lunghezza dei processi. Due cose stupiscono infine in questo dibattito infinito, stucchevole e poco tecnico. Da un lato, l’oblio in cui è caduta la recente, memorabile e vittoriosa, battaglia della Corte costituzionale per affermare, davanti alla Corte di giustizia europea, il carattere sostanziale - e non meramente processuale - della disciplina italiana della prescrizione, che impedisce la retroattività e la indeterminatezza, facendo delle caratteristiche costituzionali un profilo di identità nazionale da tutelare (le famose sentenze Taricco). Dall’altro, la mancanza di dati. Ma non bastano i dati sulle prescrizioni (che intervengono in realtà già davanti al Pm o in primo grado, a testimonianza di un cattivo funzionamento processuale sin dall’inizio); occorrono anche i dati sulle assoluzioni nei differenti gradi dei processi: se, come è possibile, le assoluzioni attingono cifre del 40% - 50% dell’input in ogni grado processuale, al netto delle prescrizioni, forse il tema è la lunghezza dei processi per inutile sovraccarico di lavoro al giudice, (in particolare quello monocratico), come sottolineato nelle relazioni di apertura dell’anno giudiziario di Presidenti di Corti d’appello. I principi costituzionali non possono in alcun modo essere sacrificati. Ma quel che lascia perplessi è che questa discussione, che tocca nodi cruciali della civiltà giuridica e della vita delle persone, sia tutta ideologica e avvenga senza mettere a disposizione i dati completi e organici della attività giudiziaria nel settore penale. Solo alla luce di questi dati, nel rispetto dei principi costituzionali, può essere elaborata e organizzata una seria riforma del processo penale. Intercettazioni come il manganello. Riforma Orlando addio di Piero Sansonetti Il Riformista, 11 febbraio 2020 Il Pd che l’aveva voluta oggi è tra le principali forze della maggioranza di governo: che paradosso. Ritorno alla gogna mediatica e utilizzazione del processo penale come strumento di lotta politica? C’è da scommettere che da qui a breve il dibattito sulla giustizia tornerà ad infiammarsi su un altro tema delicato: il futuro della riforma Orlando e delle nuove normative relative all’utilizzo delle intercettazioni, la cui definitiva approvazione potrebbe definitivamente segnare il ritorno alle storture del processo mediatico. Infatti, entro il prossimo 29 febbraio dovrà essere convertito il decreto legge n. 161 del 2019, voluto con forza dal Ministro Bonafede, che ha decisamente sconfessato la legge Orlando nella parte in cui prevede la sostanziale pubblicazione di tutte le informazioni e le notizie raccolte in occasione delle operazioni di intercettazione in un processo penale, senza alcun filtro. 1. Come nel caso della prescrizione, anche in questa occasione il rischio è che possano nuovamente infiammarsi i due fronti contrapposti rappresentati: da un lato da chi ritiene che le intercettazioni siano uno strumento per conoscere gli arcana imperi (con la conseguenza di non prevedere alcun limite alla pubblicazione sui giornali degli atti e delle notizie, anche non rilevanti, raccolte nel processo penale (c.d. fronte giustizialista); dall’altro da chi ritiene necessario operare una selezione a monte del materiale intercettato per evitare la gogna mediatica e tutelare il diritto alla riservatezza, tenendo fuori dal processo fatti privi di rilevanza penale per evitare che le intercettazioni stesse possano diventare l’occasione per raccogliere informazioni e notizie da utilizzare per altri fini (c.d. fronte garantista). Ma come e perché si è arrivati al d.l. Bonafede? 2. La selezione del materiale intercettato ante riforma Orlando Già dal 1973, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 34 aveva sottolineato la necessità di predisporre un sistema a garanzia di tutte le parti in causa per l’eliminazione del materiale non pertinente in base al principio secondo cui non può essere acquisito agli atti se non il materiale probatorio rilevante per il giudizio. L’articolo 268 del nuovo codice di procedura penale non prevedeva nessun divieto di trascrivere comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini limitandosi a stabilire che “nel verbale è trascritto, anche sommariamente, il contenuto delle comunicazioni intercettate”. L’avvento del processo mediatico e la pubblicazione di intercettazioni clamorosamente irrilevanti (si pensi ai numeri di telefono degli indagati, alle abitudini sessuali, opinioni politiche etc. etc.) da parte degli organi di stampa ha fatto accendere il dibattito sin dai tempi del d.d.l. Mastella del 2007, senza tuttavia arrivare a nessun esito a causa dell’ostracismo delle categorie interessate. Un revirement interno alla magistratura è iniziato il 17 aprile del 2015, quando gli allora Procuratori della Repubblica di Roma e di Milano, durante una audizione alla commissione giustizia della Camera dei deputati, si pronunciavano contro la indebita diffusione di intercettazioni irrilevanti acquisiti nell’ambito di un processo penale. In senso analogo a questa posizione si è espresso anche il Consiglio superiore della magistratura che il 29 luglio del 2016, approvando una delibera, affermava il dovere del pubblico ministero titolare delle indagini di compiere il primo delicato compito di filtro nella selezione delle intercettazioni inutilizzabili e irrilevanti per evitarne l’ingiustificata diffusione. 3. La selezione del materiale intercettato nella riforma Orlando In questo contesto si è inserita la riforma Orlando che, con il nobile e dichiarato intento di meglio tutelare la riservatezza delle persone coinvolte senza in alcun modo pregiudicare le indagini, ha introdotto il divieto di trascrivere comunicazioni o conversazioni irrilevanti ai fini delle indagini, inserendo un comma 2 bis al citato articolo 268 del codice di procedura penale. Tale riforma ha trovato però un inaspettato dietro front dei magistrati, evidentemente spaventati dal punto di forza della riforma, che richiedeva al pubblico ministero un maggior impegno professionale e una costante attenzione selettiva, al fine di realizzare una puntuale azione di separazione dell’utile dall’irrilevante. A tale coro di insoddisfazione della magistratura si è unito anche il mondo dell’informazione, che dal suo lato prospettico ha temuto di non poter più attingere a un patrimonio di notizie potenzialmente di interesse, in ragione della previsione di segretezza sull’irrilevante. 4. La selezione del materiale intercettato nel d.l. Bonafede 161 del 2019 Il mutato contesto politico e la nuova maggioranza giallorossa hanno portato a una drastica inversione di rotta rispetto ai principi introdotti nella riforma Orlando. Infatti, il 30 dicembre del 2019, per volontà del ministro Bonafede è stato approvato il decreto legge n.161 che interviene in modifica della riforma della disciplina delle intercettazioni con cui si era chiusa la precedente legislatura e, tra le altre disposizioni in materia, abolisce il divieto di trascrizione del materiale irrilevante. Il paradosso è che tale disciplina, come visto, era stata fortemente voluta dal Partito democratico, oggi una delle principali forze politiche della attuale maggioranza di governo. Insomma una specie di gioco dell’oca che fa ritornare tutti al punto di partenza e consentirà, dunque, alla stampa di pubblicare qualsiasi notizia senza alcun limite, con buona pace del diritto alla riservatezza. 5. Dopo la prescrizione addio anche alla riservatezza? In conclusione, l’eventuale approvazione del decreto legge n. 161 del 2019 determinerà inevitabilmente il rischio che le indagini penali e le intercettazioni possano trasformarsi in una occasione per raccogliere informazioni e notizie per finalità estranee al processo penale, strumentalizzando ulteriormente il ruolo della magistratura anche nei confronti degli altri poteri dello Stato. Per queste ragioni, è quanto mai necessario che le informazioni e il sapere prodotti per il processo debbano servire solo ed esclusivamente al processo, consentendo all’informazione di svolgere correttamente il suo compito in questo ambito. L’ultima grana per Bonafede: “Le toghe chiedono un limite ai fascicoli” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 11 febbraio 2020 I pm chiedono di determinare il numero di procedimenti che può essere trattato dal singolo giudice in un anno. I tempi previsti nella riforma della giustizia voluta da Alfonso Bonafede, “un processo completo in quattro anni”, sono destinati a rimanere nel libro dei sogni di via Arenula. E con essi lo spauracchio delle sanzioni disciplinari per le toghe che non abbiano rispettato tale cronoprogramma. Un aggettivo, “esigibile”, incombe sugli ambiziosi progetti del ministro pentastellato. La richiesta di determinare il carico esigibile, cioè il numero di procedimenti che può essere trattato dal singolo giudice in un anno, sta rimbalzando in questi giorni con sempre maggiore insistenza nei congressi dei gruppi della magistratura associata in vista delle elezioni, previste fra un mese, per il rinnovo del Comitato direttivo centrale dell’Anm. A favore del carico esigibile si è schierata anche Unicost, la corrente di centro delle toghe. Nel suo congresso straordinario, in cui sono state rinnovate le cariche, presidente Mariano Sciacca, segretario Francesco Cananzi, la fissazione di carichi esigibili è stata inserita nella risoluzione finale. Il tema, va ricordato, non è nuovo essendo da anni fra i cavalli di battaglia di Magistratura indipendente, il gruppo moderato. Mi, criticata in passato dagli altri gruppi per la sua visione “burocratica” dell’attività del magistrato, è ora però in buona compagnia: sembra che pure i davighiani di Autonomia & Indipendenza non siano pregiudizialmente contrari alla proposta. L’unica incognita riguarda chi dovrà determinare il numero di fascicoli per singolo magistrato: il Csm o il Ministero della giustizia. Se dovesse andare in porto la proposta dei carichi esigibili, diventerebbe dunque irrealizzabile il rispetto delle tempistiche volute da Bonafede: come conciliare i tempi certi per i processi sei i magistrati ne possono trattare solo un numero prefissato? Che fine faranno quelli che “splafonano” tale numero? I fautori dei carichi esigibili affermano che sono indispensabili per garantire un prodotto finale di qualità: un giudice non può scrivere più di tante sentenze in un anno. La proposta, che sta creando qualche imbarazzo agli attuali vertici dell’Anm dopo il loro endorsement al blocco della prescrizione, ha raccolto invece il consenso della stragrande maggioranza dei neo magistrati. A differenza dei colleghi anziani, le giovani toghe sono molto sensibili ai temi delle condizioni di lavoro. Alle elezioni di marzo saranno oltre mille i magistrati che voteranno per la prima volta: un voto che è destinato a modificare i futuri equilibri nell’Anm. Toscana. Garante regionale dei detenuti, le associazioni chiedono competenze stamptoscana.it, 11 febbraio 2020 Le Associazione di tutela dei diritti dei detenuti (Arci Toscana, Associazione Progetto Firenze, Associazione volontariato penitenziario, Diaconia Valdese Fiorentina, Società della Ragione, L’altro diritto), i rappresentanti delle Camere penali di Firenze e di Prato, i Garanti comunali di Firenze e di San Gimignano hanno inviato oggi alla Consigliera Serena Spinelli una lettera che chiede attenzione alla procedura di nomina del nuovo Garante regionale dei diritti dei detenuti e la invita a chiedere un confronto aperto sulle candidature nell’ambito della Prima Commissione. Che la decisione sul nome del nuovo Garante sia fatta a partire dalle competenze e dal programma di lavoro presentato, non concordata nelle riunioni di partito. I medesimi soggetti avevano già scritto al Presidente del Consiglio, al Presidente della Prima Commissione e ai Presidenti dei Gruppi politici, con lettera inviata lo scorso 17 gennaio, per porre la questione urgente della nomina del nuovo Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, sottolineando l’opportunità, oltre che di una celere presa in carico della questione da parte della Prima Commissione, anche di considerare gli indirizzi contenuti nelle Linea d’indirizzo sugli Organi di Garanzia prima di procedere alla nomina. Ma, purtroppo nessuna risposta è seguita e la Prima Commissione si è già riunita due volte senza esaminare nel merito le candidature e senza invitare i candidati a presentarsi. Il Consiglio della Regione Toscana aveva all’unanimità una mozione, il 23 ottobre 2019 scorso, presentata dalla Consigliera Spinelli, in cui si impegnava a valutare le Linee di indirizzo in merito alla disciplina degli Organi di Garanzia prima della nomina del nuovo Garante, esaminando in particolare le nuove Linee d’indirizzo delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e Bolzano, già adottate dalla Conferenza dei Presidenti dei Consigli Regionali, tese a rafforzare le prerogative e le condizioni operative del ruolo del Garante. Ma la mozione non ha avuto seguito, nonostante ci fossero i tempi necessari per esaminare il testo. Ora i tempi sono strettissimi per esaminare quella proposta, siamo oramai in una condizione di vacatio della figura del Garante, che ha concluso anche il periodo di prorogatio previsto dalla Legge il 24 gennaio scorso. Le Associazioni, considerando che i tempi per la nomina si stanno allungando a causa di rinvii senza discussione nel merito, hanno chiesto alla Consigliera di sostenere la sua mozione, approvata all’unanimità dal Consiglio, e di portare nella Prima Commissione la discussione in merito alle Linee d’indirizzo, e in ogni caso di invitare alla sua seduta del prossimo 18 febbraio le persone che hanno presentato le autocandidature e procedere alla loro audizione, in modo che possano esporre il proprio programma di lavoro come eventuali Garanti. Sardegna. Garanti dei detenuti, Paolo Mocci nuovo coordinatore regionale di Elia Sanna L’Unione sarda, 11 febbraio 2020 L’oristanese Paolo Mocci è il coordinatore regionale dei garanti dei detenuti. La sua nomina è stata formalizzata nel corso del primo incontro avvenuto a Oristano tra i garanti comunali delle altre province dell’Isola: Antonello Unida (Sassari), Edvige Baldino (Tempio), Giovanna Serra (Nuoro). All’incontro erano presenti anche Grazia Maria De Matteis, la garante dei diritti dell’infanzia della Regione, l’assessore comunale Angelo Angioi, i consiglieri comunali Carmen Murru, Lorenzo Pusceddu, Peppi Puddu e la presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, Maria Grazia Caligaris. Nell’incontro si è parlato delle numerose criticità che i garanti hanno riscontrato nel corso delle visite effettuate nelle carceri isolane, in occasione dei colloqui con i detenuti. “Per la prima volta ci siamo riuniti a livello regionale e con la mia nomina abbiamo ufficializzato il coordinamento - dice Mocci - le criticità emerse negli istituti penitenziari isolani sono tante e comuni. In primo luogo la necessità di avere un direttore stabile in ogni carcere, e la mancanza delle figure dei responsabili che si occupino, ad esempio, dei casi di suicidio e di autolesionismo. Infine, due problemi ben noti che riguardano L’affollamento dei detenuti e la carenza degli agenti della polizia penitenziaria”. Mocci ha inoltre annunciato che a Massama sarà realizzata un’area di accoglienza per i figli dei detenuti grazie al progetto presentato dal garante dei diritti dell’infanzia della Regione Sardegna, favorendo l’accesso per i minori secondo quanto prevede il protocollo sottoscritto dal ministero della Giustizia e dell’Autorità garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza. Napoli. Sos personale al Tribunale di Sorveglianza: “Situazione grave” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 febbraio 2020 I numeri non lasciano dubbi sul dissesto del Tribunale di Sorveglianza di Napoli: su 57 unità previste, sono in servizio 34 persone. A Napoli ed Avellino manca il 42 per cento del personale e a Santa Maria Capua Vetere il 37 per cento; contemporaneamente, però, è in aumento il carico di lavoro, pari a 39mila procedure in più, con 50mila procedimenti pendenti. I dati sono stati resi nota in una conferenza stampa presso il Tribunale partenopeo indetta dalla Camera Penale di Napoli, dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli e dall’associazione ‘“Carcere Possibile Onlus”. “Si tratta di una situazione gravissima - ha commentato, durante l’incontro con i giornalisti, la Presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, Adriana Pangia - che non consente un accettabile esercizio delle funzioni proprie della magistratura di sorveglianza”. Il ministero della Giustizia è stato allertato più volte ma “non sono state adottate misure adeguate” ; addirittura Pangia si è recata a gennaio a via Arenula, previo appuntamento per illustrare la situazione, ma poi non è stata ricevuta dai funzionari ministeriali. Un viaggio a vuoto a cui si è deciso di reagire unendo avvocati e magistrati per alzare l’attenzione. L’avvocato Ermanno Carnevale, presidente dei penalisti napoletani, al Dubbio dice che “appena ci è giunta la missiva della presidente Pangia che denunciava questa grave carenza dell’organico amministrativo, ci è sembrato doveroso accogliere questo grido di dolore che è anche il nostro e, coinvolgendo la stampa, renderlo pubblico. La situazione è ormai insostenibile, per questo la conferenza stampa è stata solo la prima di una serie di iniziative”. Come si legge in una nota del Carcere Possibile Onlus, “la carenza di organico del personale, soprattutto amministrativo, ha inginocchiato il funzionamento di un settore strategico della giustizia penale, quello deputato all’esecuzione della pena, quella tanto bistrattata esecuzione della pena che non interessa a nessuno, se non a parole ed esclusivamente in funzione di slogan usati per invocare la famosa certezza della pena che, in conseguenza della predetta carenza di mezzi, non può veramente essere assicurata”. In particolare, per l’avvocato Elena Cimmino “l’assenza di risorse umane, illustrate dalla dottoressa Pangia, nei fatti si traduce in un’assenza di diritti poiché gli avvocati che li tutelano, e che sono chiamati ad assicurare che la pena sia espiata nel modo più utile al condannato in funzione della sua rieducazione, hanno una difficoltà enorme a trovare l’indispensabile personale amministrativo a cui rivolgere solleciti o evidenziare criticità particolari” e denuncia anche “che se al Tribunale viene inviata dalla direzione sanitaria di un carcere una nota che segnala un’emergenza, può succedere che questa nota non trovi nessuno a riceverla prontamente, con conseguenze anche fatali per il detenuto”. Udine. La denuncia: “Detenuto con disagio psichico vittima di stupro” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 febbraio 2020 Il Radicale Quintieri: “abusato da quattro persone mentre era sotto psicofarmaci”. Alla Casa circondariale di Udine si sarebbe verificato uno stupro nei confronti di un giovane detenuto da parte di alcuni reclusi. A denunciarlo è Emilio Quintieri, già consigliere nazionale dei Radicali Italiani. La vittima, giovanissima, alla sua prima esperienza detentiva, da tempo affetto da problemi psichici ed in cura presso il Centro di Salute Mentale di Udine. “Lo stupro - denuncia Quintieri - stando a quanto riferitomi, sarebbe avvenuto all’interno della camera di pernottamento ad opera di quattro detenuti che avrebbero approfittato di lui mentre era sotto l’effetto di psicofarmaci”. Ma non sarebbe finita qui. Sempre secondo la ricostruzione di Quintieri, dopo un breve periodo di degenza nel Reparto Infermeria dell’Istituto ove gli sarebbero stati applicati alcuni punti di sutura al retto, pare che il giovane sia stato riportato nella stessa camera ove precedentemente è stato oggetto di violenza sessuale. “Secondo quanto mi è stato riferito - continua Quintieri - dopo aver subito lo stupro non parlerebbe più e avrebbe l’intenzione di suicidarsi, cosa che, peraltro, ha già più volte tentato di fare nel recente passato”. Dopo aver appreso questa storia agghiacciante, tutta ancora da verificare, Emilio Quintieri ha prontamente segnalato il caso al garante locale del Comune di Udine, della Regione Friuli Venezia Giulia e all’autorità del garante nazionale delle persone private della libertà. Ha chiesto alle Autorità Garanti di attivarsi, con la massima urgenza, “per verificare di persona quanto accaduto, sollecitando l’immediato trasferimento di questo ragazzo presso una struttura sanitaria esterna attrezzata per il trattamento delle problematiche di cui è portatore verificando, altresì, se i responsabili del reato di violenza sessuale siano stati deferiti all’Autorità Giudiziaria competente”. Ma è possibile che un giovane ragazzo, appena maggiorenne, con problemi mentali sia stato messo in una cella con quattro detenuti adulti? Se è così, possibile che non ci sia stata una maggiore attenzione? Restano sullo sfondo due grandi problemi. Uno il discorso della salute mentale in carcere, l’altro è quello degli stupri che avvengono nelle case circondariali. Quest’ultimo problema è un vero e proprio tabù. Ai dati sul sovraffollamento e i trattamenti inumani e degradanti che inducono molti detenuti a togliersi la vita, devono essere aggiunti quelli legati agli abusi sessuali. Violenze sessuali che vengono taciute, alcune volte, persino dalle associazioni umanitarie per un incomprensibile senso del pudore. Gli attivisti di EveryOne - un’associazione che si occupa dei diritti umani - tramite una non recente ricerca stimarono, considerando anche la mancanza di strumenti atti a tutelare gli internati dagli abusi, che si verificano nelle case circondariali italiane almeno 3mila casi di stupro ogni anno. È un dato che corrisponde al 40% degli stupri totali che avvengono in Italia. “Quando entri in carcere - rivelarono alcuni ex - detenuti a EveryOne - se sei giovane o comunque hai un aspetto gradevole, c’è il rischio di essere violentato dai reclusi che hanno più potere e considerazione nella gerarchia che esiste dietro le sbarre”. Ma non solo, gli ex detenuti raccontarono all’associazione che “molti ragazzi si tagliano le braccia, le gambe, il petto, il viso e compiono altri atti di autolesionismo per sottrarsi a tali pratiche, mentre altri tentano il suicidio”. La violenza su un giovane in carcere non è considerata un atto omosessuale, ma una manifestazione di forza virile e di potere. La questione della salute mentale è una criticità notoria nel sistema penitenziario. Si tratta di un disagio che non trova sufficienti strumenti di trattamento nell’istituzione penitenziaria: ad oggi sono soltanto 44 le articolazioni di salute mentale attive nei quasi 200 istituti penitenziari e soltanto due sono i reparti psichiatrici. È un fenomeno che ogni giorno mette alla prova il personale di polizia penitenziaria chiamato a gestire situazioni di natura patologica che non sono comprese nella sua formazione professionale e nei suoi compiti. Ivrea (To). Violenze in carcere, Antigone: “Si vada avanti con le indagini” di Ottavia Giustetti La Repubblica, 11 febbraio 2020 Il Garante dei detenuti chiede che sia Torino a indagare sui maltrattamenti del 2016. L’associazione: “Si vada avanti perché non restino nel silenzio gli episodi denunciati”. I maltrattamenti dei detenuti dentro la “cella liscia” del carcere di Ivrea, o in quello che veniva chiamato “l’acquario”: una stanza al piano terra che avrebbe dovuto essere la sala d’attesa dell’infermeria, dove invece le persone venivano chiuse anche per ore, senza che nessuno potesse vedere all’interno mentre erano sottoposte a trattamenti “di contenimento”. Restano avvolti dal silenzio, ormai da quattro anni, gli episodi di violenze sui detenuti denunciate a Ivrea: fascicoli di indagine rimasti senza responsabili, perché la procura ne ha chiesto l’archiviazione in due casi, oppure non ha trovato spunti sufficienti per chiedere il processo e li ha tenuti aperti ma contro ignoti. La Garante dei detenuti della città, Paola Perinetto, assieme all’associazione Antigone, ha depositato nei giorni scorsi in procura generale, a Torino, una richiesta di avocazione di due dei quattro fascicoli ancora aperti sulle violenze in carcere, chiedendo che si vada avanti con gli approfondimenti mai fatti fino a ora, come aveva chiesto anche la gip, Stefania Cugge, che a giugno scorso ha respinto due richieste di archiviazione. Le denunce venivano direttamente dal penitenziario e riportavano fatti avvenuti nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2016. Testimonianze molto dure nelle quali si raccontava di almeno due detenuti vittime delle guardie carcerarie, trattenuti prima in una delle celle del penitenziario e poi nel cosiddetto “acquario”, la stanza che veniva usata, illecitamente, come “cella di contenimento”. Il Garante nazionale, Emilia Rossi, confermò il loro racconto: “Gli agenti fecero ingresso nella stanza di uno di loro lanciando il getto dell’idrante sul pavimento interno e lo presero violentemente a schiaffi e pugni sul viso e sulla testa e, quando era scivolato a terra, a colpi di manganello sul costato”. Il racconto riportato anche dall’associazione Antigone e dalla pagina web infout.org sulla quale gli altri detenuti scrissero: “Noi qui stiamo testimoniando tutto quello che è accaduto, poteva esserci un altro caso Cucchi, addirittura più accentuato e che avrebbe coinvolto altre persone”. “Sappiamo per gli atti di cui siamo in possesso che le indagini si sono fermate al 2016 - dice l’avvocata che rappresenta Antigone, Simona Filippi - ma di alcuni episodi si conoscono anche nomi e ruoli dei presunti responsabili, per questo chiediamo che si vada avanti perché non restino nel silenzio le violenze denunciate in carcere”. La richiesta di avocazione dell’associazione e della garante sono state depositate nell’ufficio del procuratore generale Francesco Saluzzo, appena un piano sopra alla procura dove per la prima volta l’estate scorsa è stata avviata una inchiesta con l’accusa di tortura per fatti analoghi, ma recenti, denunciati nel penitenziario delle Vallette. Foggia. Ad Accadia l’ex carcere diventa residenza per detenuti psichiatrici foggiatoday.it, 11 febbraio 2020 Ex carcere sui Monti Dauni diventa residenza per detenuti psichiatrici: ospiterà 20 pazienti, investimento di 4,7 milioni. Sarà la terza Rems, ovvero struttura ricettiva a carattere sanitario per pazienti psichiatrici autori di reati. Dall’Asl Foggia un nuovo passo in avanti del programma per il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Il programma per il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.) promosso dalla Regione Puglia fa un ulteriore passo in avanti. Il progetto ha previsto la realizzazione delle cosiddette REMS, strutture ricettive a carattere sanitario per pazienti psichiatrici autori di reati. Scopo principale delle REMS è l’avviamento di un percorso terapeutico-riabilitativo che permette, alla fine della pena, il reinserimento familiare e sociale dei detenuti. Le REMS consentono di dare una collocazione dignitosa a persone affette da disagio psichico e che, troppo spesso, vengono collocate in strutture non sempre idonee ai casi specifici, anche da un punto di vista organizzativo. Le REMS, infatti, permettono una gestione più appropriata e organizzata grazie alla specifica finalità e al personale appositamente formato. “Si tratta anche di opportunità professionali per il territorio provinciale - afferma il Direttore Generale Vito Piazzolla - e di una occasione di crescita e di arricchimento per coloro che già operano all’intero del Dipartimento di Salute Mentale o che si aggiungeranno ai fini di una gestione più consona”. Obiettivo generale è, infatti, è quello di inserire un altro punto nella rete della presa in carico dei pazienti che, comprendendo anche le CRAP dedicate (Comunità Riabilitative Assistenziali Psichiatriche) e le attività ambulatoriali del CSM, si arricchisce sempre di più dal punto di vista della riabilitazione psichiatrica. In Puglia, inizialmente, era prevista la realizzazione di due REMS, attivate rispettivamente a Spinazzola e a Carovigno. Le due strutture sono oggi perfettamente integrate nel contesto sociale e cittadino e registrano ottimi risultati. Il 2 maggio scorso la Regione Puglia, in considerazione delle necessità rilevate, ha deliberato la realizzazione di una terza struttura da 20 posti in provincia di Foggia. La nuova REMS avrà sede ad Accadia. L’area individuata per la realizzazione della struttura è quella dell’ex carcere mandamentale. Al termine delle procedure autorizzative, l’Amministrazione comunale ne ha appena ceduto la proprietà, a titolo gratuito, alla ASL Foggia. Alla presenza del notaio, il Direttore Generale Vito Piazzolla e il sindaco Pasquale Murgante hanno firmato l’atto notarile presso la sede della ASL Foggia. Il progetto per la realizzazione della REMS di Accadia, per un importo complessivo di 4,7 milioni di euro, offrirà anche un’importante opportunità di riqualificazione urbana. La struttura dell’ex carcere mandamentale attualmente, infatti, versa in uno stato di deterioramento che ne esclude la possibilità di recupero e di conversione. Lo studio di fattibilità già realizzato ha evidenziato la necessità di rilevanti interventi di ristrutturazione strutturale, dal punto di vista sismico e della riqualificazione energetica, con costi altamente onerosi. L’ex carcere, pertanto, sarà demolito. Al suo posto sarà realizzato un nuovo complesso edilizio in grado di sfruttare appieno le potenzialità dei nuovi materiali e delle attuali tecniche di costruzione. La nuova struttura, sviluppata su due livelli, sarà dotata di un’area abitativa, ambienti comuni, locali dedicati alle visite dei familiari e spazi verdi esterni. Secondo il modello pugliese, la REMS sarà gestita dal Dipartimento di Salute Mentale, a garanzia dell’assistenza e dell’attivazione di adeguati programmi terapeutici. Ascoli Piceno. Corso di formazione professionale sulla ristorazione per i detenuti picenonews24.it, 11 febbraio 2020 Potrebbe già partire ad aprile il corso di formazione professionale sulla ristorazione per i detenuti del carcere di Marino del Tronto, finanziato dalla Regione Marche con i fondi del Fse. Intesa raggiunta con il Provveditorato regionale Emilia Romagna e Marche del ministero della Giustizia che ha auspicato l’avvio di un’attività formativa “per agevolare il reinserimento sociale dei reclusi, una volta scarcerati”. Regione e Provveditorato si sono già incontrati con l’obiettivo di definire le modalità attuative. L’organizzazione del corso sarà affidata a un ente di formazione accreditato: la Giunta regionale ha già emanato un avviso pubblico (scadenza marzo 2020) per promuovere diverse attività formative, da cui attingere anche l’ente che seguirà il progetto destinato alla Casa Circondariale di Ascoli. “Scelta comune della Regione, del Provveditorato e della direzione del carcere è quella di qualificare la struttura penitenziaria con attività di formazione professionale - riferisce la vice presidente Anna Casini - Il corso formerà figure professionali della ristorazione, come l’aiuto cuoco, da spendere poi sul mercato del lavoro, al termine della pena”. L’ambito della ristorazione, chiarisce Casini, “è il più idoneo per Marino del Tronto: considerando la vocazione gastronomica dell’Ascolano e del territorio nazionale, offre opportunità concrete di collocazione lavorativa. Le attività già promosse dalla Regione, in questo settore, nella struttura penitenziaria - come l’Orto in carcere e l’incontro con i chef dell’Unione regionale cuochi Marche - hanno riscosso l’interesse dei detenuti, confermando che puntare sulla ristorazione possa avere un riscontro positivo”. Trapani. Prendere in casa propria chi esce di prigione: la storia di don Francesco mauroleonardi.it, 11 febbraio 2020 Don Francesco, parroco di Valderice e cappellano della casa circondariale di Trapani, è un caro amico sacerdote. Ha aperto le porte di casa sua ai ragazzi che, finito il periodo di detenzione, escono di prigione e non sanno dove andare. Da circa due anni le porte della casa di don Francesco sono aperte alle persone che, uscite dal carcere dopo aver scontato una pena, non hanno piani per il proprio futuro e nessuno che le accolga. Per don Francesco, parroco di Valderice (paese in provincia di Trapani), l’esperienza della pastorale per i detenuti non è una novità, come lui stesso racconta: “Già da seminarista il Signore aveva messo nel mio cuore questo seme, perché in alcuni periodi dell’anno ospitavamo in parrocchia dei detenuti per mezza giornata, e quando ero diacono ho predicato un triduo pasquale proprio in un carcere. Già allora mi resi conto che le persone che si trovano in carcere sono persone che hanno un grande bisogno di essere ben volute”. Una scelta scomoda - La vita da parroco di don Francesco è proseguita in maniera ordinaria sino a due anni fa. Il vescovo stava cercando un cappellano per il carcere. “Io credevo che il Signore me lo stesse chiedendo - ricorda don Francesco - per mezzo del vescovo, ma non mi soffermavo troppo su questa sensazione. Dopo l’incontro con un amico sacerdote sentii come una voce interiore che mi diceva: Ti devi scomodare, dì di sì al vescovo! Telefonai al vescovo che mi disse che ci saremmo visti tra qualche giorno, ma io insistetti di vederlo quanto prima per non perdere lo slancio interiore”. Oggi per don Francesco, che è un Sacerdote della Società Sacerdotale della Santa Croce, accogliere in casa propria chi esce dal carcere e non ha dove andare è la normalità, ma tutto è nato gradualmente, passo dopo passo. “Un giorno il responsabile dell’area educativa del carcere mi ha chiesto di accogliere un ragazzo che usciva. Poi si sono aggiunti altri ragazzi che godevano di permessi premio. Si trattava di passare con loro una giornata: vedevamo insieme qualcosa della città, facevamo delle piccole escursioni nei dintorni”. Qualcosa però è scattato quando don Francesco è entrato in contatto, a Trapani, con un Centro di permanenza per il rimpatrio, comunemente detto Centro di espulsione. “Vidi un giovane appoggiato a un pilastro. Non stava facendo niente, e gli ho chiesto che cosa stesse aspettando. Si trattava di un ragazzo del Gambia che non sapeva dove sarebbe andato a dormire. Decisi di lasciargli il mio numero di telefono. Giusto il tempo di tornare in parrocchia e lui mi aveva già chiamato”. Una nuova famiglia - Dopo il primo nuovo “ospite” ne sono arrivati tanti altri. Alcuni trovano lavoro, altri se ne vanno in cerca di nuove opportunità, “a volte con troppa fretta perché manca la pazienza”, osserva don Francesco, con un po’ di rammarico. Ognuno ha un piccolo incarico domestico - La vita in casa diventa per i nuovi arrivati una vita di famiglia: “a pranzo e cena ci ritroviamo insieme, - spiega don Francesco - e ognuno ha un piccolo incarico domestico. Chi apre le finestre, chi chiude, chi controlla le luci, chi prepara da cucinare. Parallelamente alla vita di casa continua la ricerca, molto difficile, di un lavoro regolare. Quando mi sembra di avere fretta, di voler cambiare tutto e subito, ritorno a quello che diceva san Josemaría: Non dimenticare che sulla terra tutto ciò che è grande è cominciato piccolo. Ciò che nasce grande è mostruoso e muore (Cammino, 821)”. La cena di Natale - “Può sembrare che papa Francesco esageri quando parla di poveri, immigrati e carcerati. - aggiunge don Francesco - Ma chi vive in mezzo agli altri, senza isolarsi, capisce quanto sia giusto che il Papa dia voce a questi nostri fratelli meno fortunati. Io penso di avere appena iniziato a capire”. “Il vescovo Pietro Fragnelli - conclude don Francesco - al quale devo tutto questo, non mi ha mai lasciato senza sostegno e ha voluto passare la notte di Natale con noi. Ha voluto ricordare quella sera con delle parole molto toccanti: è stata una serata ricca di emozioni: abbiamo avuto video-telefonate per augurare buon Natale ai loro bambini e familiari lontani. Quattro persone che stanno cambiando vita e hanno bisogno dell’aiuto e della fiducia di tutta la Chiesa e di tutta la società per redimersi da un passato che ha meritato la detenzione. Una fiducia che comincia anche da te”. Roma. “Gli ultimi saranno”. L’arte contro i pregiudizi nev.it, 11 febbraio 2020 È stata presentata oggi pomeriggio alla Camera dei deputati l’iniziativa del deputato e artista protestante Raffaele Bruno che unisce attori, detenuti, musicisti, in diverse carceri italiane, per costruire comunità, a partire dai luoghi più difficili, le carceri. “Quando torno dalle visite nelle carceri e mi chiedono chi ho incontrato: io dico un cantante, una poetessa, non un ladro, un assassino. Le etichette sono pericolose. E non dobbiamo permettere a nessuno di mettere un bollino sulle persone”, ha detto così il deputato protestante Raffaele Bruno, presentando oggi pomeriggio nell’aula dei gruppi parlamentari della Camera dei deputati: “Gli ultimi saranno”, la performance teatrale ideata dal parlamentare del Movimento Cinque Stelle, la quale mette insieme artisti e detenuti, e che finora è stata messa in scena in quindici diversi penitenziari italiani. “Diamoci una mano, costruiamo una comunità, noi per riuscirci siamo partiti proprio dalle carceri, da quei luoghi dove sarebbe più difficile farlo”. Ha detto Bruno: “Perché anche chi viene messo ai margini deve avere la libertà di poter sognare”. E i protagonisti della scena, oggi pomeriggio, sono stati proprio loro, i detenuti-artisti. Come Vincenzo, cantante attualmente detenuto presso il carcere di Ariano Arpino, in provincia di Avellino, il quale appena arrivato alla Camera per l’esibizione ha esclamato: “Da quanto tempo è che non vedevo un cavo”. “Passare dal carcere al Parlamento è un qualcosa che ha dello psichedelico”, ha detto dal palco improvvisato Maurizio Capone, l’anima del gruppo de “Gli ultimi saranno”. Capone ha spiegato che l’obiettivo dell’iniziativa è “trasmettere l’arte senza pregiudizi”. Di più. L’artista ha mostrato al pubblico la maniera in cui cerca di diffonderla, usando cioè solo strumenti fatti con materiali riciclabili, tra gli altri: “la scopa elettrica”, e quello da lui stesso definito “bidet”, ovvero un grosso bidone di plastica usato come djembe, un oggetto che sta a simboleggiare la vergogna di Bagnoli, ha ricordato l’artista: “il bidet è perfino salito sul palco di Sanremo nel 2007, accompagnando Daniele Silvestri nella canzone “La paranza”. Oltre che i detenuti artisti, oggi pomeriggio, protagoniste sono state le storie contro i pregiudizi. Quella di Lucia Montanino, del coordinamento familiari vittime innocenti della criminalità, è una di queste. “Una storia cominciata dieci anni fa, a Napoli, in piazza Carmine, quando mio marito, guardia giurata, viene ammazzato da quattro ragazzi”, ha raccontato la donna: “Proseguita poi otto anni dopo, quando su suggerimento del direttore del carcere minorile dove uno degli assassini di mio marito era rinchiuso, ho incontrato e perdonato quello che oggi mi appare una vittima di una ingiustizia come lo è stato mio marito. Inoltre, tra i protagonisti di questo pomeriggio in cui alla Camera dei deputati è andata in scena l’arte contro i pregiudizi, troviamo le buone prassi messe in campo da alcune piccole istituzioni carcerarie italiane. “Perché noi gestiamo persone, non documenti. Ed è dunque necessaria una chiamata alla responsabilità”, hanno ribadito quasi in coro, raccontando le buone prassi istituite, le cinque donne responsabili dei penitenziari di Ariano Irpino, Carinola, Pozzuoli, Salerno, Secondigliano. Buone prassi istituzionali, senza dubbio, sono anche l’iniziativa: “Dona un libro” nata su proposta del presidente della Camera, Roberto Fico, la raccolta e distribuzione di libri con dedica destinati alle biblioteche delle carceri. E la circolare di recente emanata dal Ministro dell’Istruzione che ha concesso la deroga per le assenze a scuola dei figli di detenuti in visita ai genitori. Testimonianza di una sensibilità e di un impegno, dunque, che hanno portato le due cariche istituzionali, la ministra Lucia Azzolina e il presidente della Camera, Roberto Fico, a presenziare all’incontro di oggi pomeriggio per un breve saluto. Morire e vivere sotto le bombe di Aleppo: in Italia il documentario “For Sama” di Riccardo Noury Corriere della Sera, 11 febbraio 2020 Anche se non ha vinto l’Oscar, “For Sama” resta il documentario più premiato nella storia del cinema. Preceduta da affollatissime anteprime in molte città, questa opera straordinaria esce nelle sale italiane, col titolo “Alla mia piccola Sama”, il 13 febbraio, distribuito da Wanted Cinema e col patrocinio di Amnesty International Italia. “Alla mia piccola Sama” è il racconto autobiografico di cinque anni di vita ad Aleppo, dalle speranze della rivoluzione alla disperazione dell’assedio. È il racconto dell’attaccamento alla vita, della ricerca ostinata della bellezza, e, soprattutto, delle sofferenze della popolazione civile, intrappolata fra le parti in conflitto. Waad al-Kateab, giornalista siriana che ora vive a Londra, racconta la nascita della sua bambina e le difficili scelte che in Siria devono essere fatte ogni giorno e che possono valere la vita o la morte. Questa è la motivazione con cui Amnesty International Italia ha premiato il documentario al MedFilm Festival del 2019: “Questo intenso documentario ci ricorda che, mentre tutti già parlano del dopoguerra, la guerra in Siria non è affatto terminata. ‘Alla mia piccola Sama’ descrive nel modo più drammatico possibile l’efficacia della principale tattica usata dalle forze siriane durante il conflitto: assedio, bombe e fame fino alla resa. Una tattica che ha causato sofferenze infinite ai civili, alla quale anche la nascita di una figlia, lungi dall’essere un atto irresponsabile, diventa un atto di resistenza”. Lo spaventoso conflitto siriano, iniziato nel 2012 dopo il primo anno di rivolta popolare, è stato caratterizzato da crimini di guerra di massa: torture, sparizioni, sfollamento forzato, punizioni collettive sotto forma di assedio e riduzione alla fame di intere città, attacchi diretti e indiscriminati contro i centri abitati e attacchi contro le infrastrutture civili: scuole, sistemi fognari, centrali elettriche, magazzini di scorte alimentari, mercati, ponti e strade. E soprattutto le strutture sanitarie. Secondo l’organizzazione non governativa Physicians for human rights, da marzo 2011 ad agosto 2019 in Siria vi sono stati almeno 583 attacchi contro 350 diverse strutture ospedaliere e 890 morti nel personale medico. Nel 91 per cento dei casi gli attacchi sono stati condotti da forze siriane e russe. Nella provincia di Idlib (dove si concentra ora l’offensiva delle forze russo-siriane contro i ribelli), da aprile a luglio 2019 vi sono stati almeno 16 attacchi. Ad Aleppo, la città dov’è ambientato il film, vi sono stati 161 attacchi, un terzo dei quali (54) solo nel 2016. Cittadinanza ai migranti: capire chi sono i veri deboli di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 11 febbraio 2020 Molti italiani quando sentono parlare di immigrati dicono di provare paura: è questa la sensazione di doversela vedere da soli con il proprio disagio. Giacciono oggi in Parlamento, e molto probabilmente torneranno in discussione nelle prossime settimane, almeno tre proposte di legge volte a consentire agli immigrati di acquisire la cittadinanza italiana in misura più larga di quanto sia possibile oggi. Personalmente penso che sia un obiettivo giusto. Proprio chi è convinto dell’importanza della nostra identità storica e civile, della sua capacità di incarnare ed esprimere valori di carattere universale, non può non credere anche nella sua capacità di accogliere e alla fine d’integrare nella propria visione del mondo e della vita pure coloro che provengono da altre culture e i loro figli. Senza contare che se domani l’Italia sarà rappresentata da cittadini di un colore dalla pelle diversa dal bianco o con ascendenze e retaggi culturali estranei alla sua storia, ciò assai probabilmente accrescerà le possibilità d’irradiamento nel mondo del nostro Paese, di diffusione dei suoi commerci e della sua influenza. Da un punto di vista storico che però guardi anche all’avvenire, una nuova legge sulla cittadinanza corrisponde insomma a un vero e proprio interesse nazionale. Ma dire questo non basta. Come non basta invocare motivazioni di carattere etico del tipo che sarebbe immorale discriminare gli immigrati privandoli di quello che molti considerano un diritto. Nel momento di prendere una decisione così importante come l’allargamento del diritto di cittadinanza, accanto al criterio dell’obbedienza ai principi ne dovrebbe essere sempre preso in considerazione anche un altro: quello di commisurare i principi alle conseguenze più o meno prevedibili della loro applicazione. Il “si deve” è certo importante, ma in politica come nella vita è perlomeno altrettanto importante chiedersi “si può?”. Cioè: quali saranno gli effetti? Non a caso solo poche settimane fa mezzo mondo politico nostrano - vasti settori della sinistra inclusi - si è rivoltato contro una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale - in nome per l’appunto di un sommo principio etico, il carattere non afflittivo della pena - ha dichiarato illegittimo il cosiddetto ergastolo ostativo, quello cioè previsto dal nostro ordinamento che impedisce ai condannati per reati di mafia di usufruire di qualsiasi sconto o alleviamento della pena se si rifiutano di collaborare con la giustizia. Se è opportuno una volta non obbedire ai principi, perché un’altra volta bisogna obbedire? Dunque, prima di pensare ad approvare una nuova legge sulla cittadinanza sembrerebbe meglio pensare all’atmosfera sociale del Paese in cui una legge del genere dovrebbe essere applicata. Come è ampiamente noto se si parla d’immigrazione una parte molto grande d’italiani dice di non sentirsi in generale “sicura”, di avere “paura” (parola sicuramente eccessiva che adopero perché è quella entrata ormai nell’uso del dibattito politico). Certo, inevitabilmente vi sono anche esponenti e forze politiche che si fanno “imprenditori” di tale paura, cioè che la cavalcano a fini elettorali. Ho detto inevitabilmente perché è un carattere proprio della politica cavalcare le paure della gente, motivate o meno che siano. Da che mondo è mondo è così, e non si vede per quale ragione, ad esempio, cavalcare la paura della “guerra” e additare come un pericoloso guerrafondaio questo o quell’avversario politico - come si fece molto spregiudicatamente a suo tempo da parte del Partito comunista - sarebbe stato una cosa tanto diversa da quella a cui assistiamo oggi. Per sua natura, infatti, la politica si alimenta delle paure e delle speranze: e spessissimo perciò anche delle più rovinose illusioni. Chi pensa che dovrebbe invece ispirarsi esclusivamente a razionalità e bon ton è meglio che si occupi d’altro. Dunque molti italiani, forse la maggioranza, quando sentono parlare d’immigrazione dicono di provare qualcosa di abbastanza simile alla “paura”. Coloro che amano passare per perfetti democratici attribuiscono perlopiù tale sentimento a un puro pregiudizio e/o alla perversa manipolazione degli “imprenditori della paura” di cui sopra. Sbagliano. Il razzismo e Salvini non c’entrano per niente. Converrebbe piuttosto chiedersi, invece, di che cosa in realtà quegli italiani abbiano paura. Principalmente di una cosa, io penso, di una cosa, che tenendo conto della loro età in genere avanzata e della loro condizione economica in genere non floridissima non è certo da poco: di essere lasciati soli. Soli a vedersela con l’immigrazione. Che per loro, a differenza della fascia benestante della popolazione, significa volti, cose, abitudini, situazioni, radicalmente diversi da quelli a cui sono abituati e che essi sentono come minacciosi, non fosse altro perché minacciano di cambiare significativamente il loro habitat. E di fatto lo cambiano, mettiamocelo in testa. Solo una somma ipocrisia può far credere, infatti, che non faccia alcuna differenza avere o non avere nel proprio palazzo tre o quattro famiglie di immigrati ovvero abitare o non abitare nei pressi di un campo nomadi. È una paura che deriva dalla sensazione, di non poter contare - fatte salve condizioni di assoluta emergenza - su alcun aiuto o salvaguardia reali da parte dello Stato. Dalla consapevolezza che ognuno sarà chiamato a vedersela con il proprio disagio, con le proprie difficoltà, con la difesa del proprio buon diritto dovendo contare unicamente sulle proprie forze. L’esperienza insegna: nel caso dell’Italia l’immigrazione ha rappresentato una gravissima occasione di esercizio dell’illegalità, un’illegalità diffusa e capillare, di cui la gente non ha potuto non prendere atto. Per anni decine e decine di migliaia di persone sono entrate nel Paese contravvenendo a qualsiasi regola, si sono stabilite dove e come hanno voluto o potuto sostanzialmente indisturbate: spesso occupando abitazioni in modo abusivo, lavorando spessissimo fuori dalla legge, spesso dedicandosi alla malavita. Senza che lo Stato facesse valere il peso delle leggi (che finché esistono si fanno osservare, se no si cambiano). Che a tutt’oggi, per dirne una, questori e prefetti di molte province meridionali non ricevano dal Ministero degli interni disposizioni stringenti per spazzare via la vergogna di un mercato del lavoro agricolo che impiega in condizione di sostanziale semi-schiavitù legioni di immigrati, è solo una delle mille prove dell’ormai congenita propensione dello Stato italiano a venire largamente a patti con l’illegalità, a lasciare che le cose vadano per conto loro quando si tratta di questioni che riguardano il fenomeno migratorio (e che insieme, magari, riguardano anche gli interessi di un buon numero di agrari negrieri...). La gente ha visto tutto ciò e ha tratto le sue conclusioni. Si è convinta sulla base dell’esperienza che lo Stato e la politica non abbiano né la volontà né la capacità di governare realmente il flusso degli immigrati. Se dunque si vuole che una legge sulla cittadinanza non sia percepita come l’ennesimo allentamento dei freni, come l’ennesima prova di una sgangherataggine permissiva che ha già fatto molti danni, il Parlamento farà bene ad accompagnarla ad altre norme che rafforzino la tutela degli italiani deboli, li garantiscano dai molti inconvenienti, spesso dai veri e propri piccoli e grandi soprusi quotidiani che per loro l’immigrazione ha fin qui significato. Solo 1 euro su 10 speso per i migranti. La falsa emergenza costa 4 miliardi di Roberto Scafuri Il Dubbio, 11 febbraio 2020 Lo spreco dei Decreti sicurezza nelle cifre della Corte dei conti: il buco dei costi in deroga. Quella crisi strisciante e definitiva della terza Repubblica denominata “governo giallo-rosso” mostra un paio di punti di caduta che ne svelano lo stato catatonico. Uno di portata nazionale, la giustizia; l’altro più ampio e complesso, l’immigrazione. E sarebbe giunta anche l’ora che su quest’ultimo tema il Pd riuscisse a prendere il timone e sovvertire la devastante fake news che è stata (è ancora, purtroppo) la narrazione salviniana. Perché dell’immigrazione andrebbero anzitutto chiarite alcune evidenze, prima delle quali che è inalienabile e non criminalizzabile il diritto dell’uomo a migrare, a cercare le migliori condizioni di vita o solo la sopravvivenza. Diritto valido a qualsiasi latitudine, in qualsiasi epoca e quale che sia la motivazione: guerra, carestia, clima. Seconda certezza: si tratta di un fenomeno ricorrente nella storia dell’umanità, è risibile (o tragico) provare ad arginarlo con ricette infantili, tipo il respingimento. In tempi brevi - ebbe a dire Umberto Eco - l’Europa sarà un continente multirazziale o se preferite “colorito”. Se vi piace sarà così. Se non vi piace, sarà così lo stesso. Se ne deduce che si parla di un problema organizzativo, non di un’emergenza. Bisognerebbe imparare a gestirlo, soprattutto per questioni di sicurezza: dei migranti e di chi se li vede sulla porta di casa. Da dove partire, se non con la ragione dei fatti? Primo fatto: non è lecito parlare, anzi legiferare, sull’immigrazione cosiddetta “clandestina”, se non esiste una maniera legale di arrivare e lavorare in Italia. Secondo dato incontrovertibile: enormi sono le colpe e le ipocrisie della Ue. Dalla malafede dei Paesi che rifiutano quote di migranti ai vertici nei quali si stabiliscono regole poi non rispettate; dai finanziamenti “irrisori” a Italia e Grecia (è la stessa Corte dei Conti europea a definirli così) all’incapacità dei governanti che partecipano al Consiglio Europeo smentendo intese e maggioranze raggiunte nell’Europarlamento. Non è il caso qui di rammentare i circuiti perversi innescati dai Paesi occidentali all’origine di tanta disperazione, specie in area sub- sahariana (primo fra tutti il cd. engraving, ovvero l’accaparramento di terreni agricoli che provoca l’inurbamento forzato nelle bidonville di gigantesche masse di diseredati). Ma può essere utile invece sottolineare i dati ufficiali che dimostrano come non si tratti di invasione: nell’anno di maggior numero di richieste d’asilo in Europa, si trattava infatti di circa lo 0,25 per cento della popolazione europea, ovvero dello stesso numero di profughi accolti dall’Uganda (paese poverissimo). Se non si tratta di invasione - ma così fa comodo presentarla, non solo a Salvini - il continuo allarme “emergenziale” con il quale viene trattata la materia migratoria fa venire più d’un sospetto. Si gestisce “in emergenza” per avere qualche “mancetta” in più da un’Europa che così si tacita la coscienza di “accordi” sempre disattesi, rinviati, ignorati. Ma l’”emergenza” continua poi in Italia, perché aiuta ad aggirare controlli e ad alimentare illegalità. La Corte dei conti ci fornisce il dimensionamento del fenomeno: dal 2011 all’anno scorso, i costi nel settore dell’accoglienza sono saliti da 840 milioni di euro a 4,4 miliardi, in un “disordine contabile” inutilmente denunciato dalla Corte. Molte strutture disseminate lungo il territorio italiano assumono, ormai regolarmente, costi “in deroga” (c’è una legge del 1995, usata come grimaldello, che lo consente). Debiti “fuori bilancio” che finiscono nei documenti contabili di numerose amministrazioni locali e nei ministeri interessati, solo e sempre giustificati dall’emergenza. “Emergenza” che serve dunque a tutti, in questo valzer folle nel quale il coefficiente stimato di perdita, nella gestione dei costi- standard per immigrato, si aggira sul 90%: cioè solo il 1 euro su 10 viene realmente utilizzato per il migrante. Ecco perché, per sovvertire la narrazione salviniana, da subito e senza spese, sarebbe opportuno cancellare non solo i “decreti sicurezza” - dai quali traspare l’aberrante logica salvinian- dimaiesca delle Ong “taxi del mare” e di un’ignoranza brandita come arma -, ma anche e soprattutto la legge Bossi- Fini che di fatto non consente una gestione “ordinaria” dei flussi migratori. Cosa che consentirebbe di contrastare anche le deviazioni emergenziali, con i loro interessi occulti, nonché la cultura arretrata e pavida che non riesce a vedere la luna dietro il dito. Ovvero che, in un territorio idrogeologicamente dissestato e in molte parti disabitato, l’immissione di forza-lavoro giovane e motivata potrebbe far rispuntare fiori dalle pietre. E alimentare le future pensioni degli italiani: si è calcolato che ci servirebbero 320mila immigrati regolari l’anno per determinare un incremento di 10miliardi netti di contributi. Ma chi ha davvero voglia di smetterla di gridare “al lupo, al lupo Matteo” e metterlo a tacere, piuttosto, con una politica degna di questo nome? Zaky e Regeni. Una luce brutale sul regime egiziano di Luigi Manconi La Repubblica, 11 febbraio 2020 È stato come se il destino o, piuttosto, “menti raffinatissime”, dubitando della nostra capacità di interpretare correttamente fatti tanto evidenti, avessero deciso di caricare la vicenda del giovane egiziano Patrick George Zaky di una esorbitante simbologia. Patrick ha pressoché la stessa età di Giulio Regeni quando quest’ultimo venne torturato e ucciso; svolge un’attività di ricerca simile a quella del nostro connazionale; frequenta una prestigiosa istituzione accademica (l’Università di Bologna), così come Regeni faceva un dottorato a Cambridge. Sono connotati comuni a quei “giovani contemporanei” (Paola Deffendi Regeni) che si muovono con curiosità e intelligenza tra gli Stati Uniti, l’Europa e la sponda sud del Mediterraneo, scavalcano con agilità confini e barriere, imparano le lingue e scambiano stili di vita e culture, esperienze e costumi. Rappresentano, cioè, quelle nuove generazioni che in Occidente e nel Nord Africa manifestano un bisogno irresistibile di autodeterminazione e di diritti civili e politici. Nella tetra concezione di al-Sisi e delle leadership che dopo le Primavere arabe sono ritornate al potere, quei giovani rappresentano il nemico: perché credono nella democrazia e perché - colpa inammissibile - sono colti, cosmopoliti e insofferenti ai pregiudizi, che siano nati a Fiumicello o a Mansura. E così, per un tragico paradosso, la vicenda di Giulio Regeni, assassinato quattro anni fa, oggi ci viene restituita, illuminata di una luce brutale. Proprio come nel processo chimico che porta a stampare una fotografia, rendendo visibile l’immagine latente impressa nel supporto fotosensibile, la storia di Patrick ci fa “vedere” nitidamente i dispositivi di esercizio del potere da parte del governo di al-Sisi. Ciò che, di quel regime, prima potevamo conoscere grazie ad Amnesty International, a testimonianze individuali, a movimenti per i diritti civili e, in particolare, grazie a Paola Deffendi e Claudio Regeni, ora può essere ricostruito attraverso una documentazione parziale, ma incontestabile. Alle 4 del mattino di venerdì 7 febbraio, all’aeroporto internazionale del Cairo, il giovane viene fermato perché risulta a suo carico un mandato di arresto emesso nel 2019. Prima viene condotto, bendato, in una sede segreta, dove sarà sottoposto a tortura con cavi elettrici. Poi il trasferimento presso una stazione di polizia di Mansura e, infine, presenti i suoi legali, l’udienza davanti a un collegio di giudici per cinque capi d’imputazione, dal tentativo di rovesciare il sistema all’uso dei social media per danneggiare la sicurezza nazionale, fino all’uso della violenza. Al momento si trova in stato di custodia cautelare per due settimane: un periodo che, per quelle imputazioni, può protrarsi fino ai due anni. È questa la ragione fondamentale che, oltre le impressionanti affinità biografiche, rende così intimamente connesse la mobilitazione per raggiungere la verità sulla morte di Giulio Regeni e quella per la libertà di Patrick George Zaky. Il primo a mostrarsi convinto di questo profondo legame sembra essere proprio il regime di al-Sisi, assai sensibile, come tutti i totalitarismi, alle rappresentazioni simboliche e alle costruzioni allegoriche, capaci di inviare messaggi tanto elementari quanto efficaci: i nemici dell’Egitto sono coloro che vivono all’estero, intrattengono rapporti con gli occidentali, ne assumono idee e valori, influenzando gli strati popolari egiziani. Ciò rende essenziale la battaglia per Patrick George Zaky, ma non la si può combattere, certo, a mani nude. L’Italia in quattro anni non è stata in grado di esercitare una concreta azione di pressione nei confronti del regime di al-Sisi; l’unica misura adottata (il richiamo nel nostro Paese dell’ambasciatore italiano al Cairo) è durata 16 mesi ed è stata interrotta senza che alcun risultato fosse conseguito. E senza che un piano di iniziative capaci di premere sul governo di al-Sisi venisse realizzato (a livello economico, commerciale, militare, culturale, turistico e sportivo...). Nel frattempo, i quattro governi italiani succedutisi hanno ribadito, a ogni piè sospinto, “l’amicizia” verso al-Sisi e la considerazione dell’insostituibilità del suo ruolo geo-politico. O questa impostazione viene totalmente ribaltata o si finisce per accettare che, come ha detto il ministro dell’Interno egiziano, “Patrick George Zaki non è cittadino italiano”: e dunque - è il sottinteso - che andate cercando? Più che una precisazione burocratica o la rivendicazione di una competenza giuridica, quella frase sembra rappresentare né più né meno che una minaccia: per un regime tirannico, quale è quello di al-Sisi, non è la cittadinanza a fare la differenza e, tantomeno, a garantire l’immunità. La tortura va per le spicce. Egitto. “Il rapporto sull’arresto di Patrick falsificato, così l’Egitto nasconde le torture” di Pino Dragoni Il Manifesto, 11 febbraio 2020 Parla un attivista egiziano, amico dello studente arrestato: “Il Cairo non si aspettava la reazione italiana. Per questo fate più rumore possibile”. Il regime ha già scatenato i media: lo accusano di “diffondere l’omosessualità”. “La situazione dei diritti umani in Egitto ha raggiunto probabilmente il punto più basso nella storia moderna del paese in questi ultimi sette anni. A parte gli egiziani, nessuno conosce questa realtà meglio degli italiani, colpiti dalla tragica morte di Giulio Regeni”. A parlare è un amico egiziano di Patrick, anche lui attivista per i diritti umani, che chiede di restare anonimo per questioni di sicurezza. “Le persone coraggiose che lavorano in questo campo sanno che quanto più il loro lavoro diventa pericoloso tanto più si fa necessario. I loro sforzi instancabili sono ciò che indebolisce l’oppressione. Patrick ne è un esempio”. Il suo trascorso con l’Egyptian Initiative for personal rights (Eipr) è bastato a renderlo un obiettivo del regime. In particolare sarebbe finito nel mirino degli apparati di sicurezza durante il giro di vite seguito alle proteste anti-corruzione del settembre scorso. “Gli uffici dell’Eipr si trovano proprio nei pressi di piazza Tahrir (dove le forze di sicurezza in quel periodo hanno condotto una campagna serrata di fermi e perquisizioni, ndr) ma dato che Patrick si trovava già all’estero e non era ancora mai tornato in Egitto hanno solo potuto inserirlo nella ‘lista nera’ degli aeroporti”, ci spiega l’amico. Ma che bisogno c’era di torturarlo? “Secondo il suo avvocato non credevano che Patrick fosse in Italia solo per studiare e volevano pressarlo per sapere cosa stesse davvero facendo”, continua l’attivista, che ben conosce la paranoica fobia del complotto degli apparati egiziani. “Hanno anche voluto umiliarlo per il suo lavoro sulle questioni di genere. Hanno minacciato di violentarlo ma fortunatamente non l’hanno fatto. Ma in fin dei conti lo hanno torturato perché in realtà è questo che fanno, non c’è da cercare spiegazioni”. “Non è del tutto chiaro - continua l’amico - perché il rapporto sul suo arresto sia stato falsificato, ma è probabile che servirà a rendere più difficile dimostrare le torture. Così facendo loro negano l’esistenza di quelle 20 ore di interrogatorio”. Rispetto alla forte reazione dell’opinione pubblica italiana l’attivista dice: “Sono ancora meravigliato di come il mio caro amico stia diventando famoso e del livello di copertura mediatica”. Il fatto che il regime abbia reagito semplicemente dichiarando che Patrick non è italiano (anche se nessuno ha mai affermato niente del genere), “sembra un modo di dire agli italiani che non devono intromettersi e che qualunque cosa gli accadrà non sarà un altro Regeni”. Tradotto: non vi permetteremo di sollevare un caso su un prigioniero egiziano. L’altra reazione del regime è stata quella di scatenare i media legati ai servizi con i soliti attacchi denigratori contro lo studente dell’università di Bologna, accusandolo di voler “diffondere l’omosessualità” nel paese. Protagonista della surreale trasmissione è stato Nesh’at al-Deihy, lo stesso conduttore che alcuni mesi fa aveva preso di mira lo storico attivista in esilio Bahey el-din Hassan per una sua intervista al manifesto. “Non credo che le autorità egiziane si aspettassero una reazione del genere”, spiega la fonte. “A parte queste uscite sono rimasti per lo più in silenzio, può darsi non abbiano ancora elaborato una strategia. Una situazione molto simile al caso Regeni, in cui la gestione fu molto improvvisata e maldestra. Non ci fu affatto una strategia”. E alla domanda su cosa si possa fare da qui per sostenere la richiesta di liberare Patrick la risposta è secca: “Fare quanto più rumore possibile”. Siria. Reportage dalla prigione dei terroristi dell’Isis Di Daniele Raineri Il Foglio, 11 febbraio 2020 Siamo entrati nel carcere in Siria dove i curdi tengono gli islamisti dello Stato islamico catturati, anche europei, che sono isolati e non possono sapere cosa succede fuori dalle celle. Dal nostro inviato in Siria. “Zero diritti umani! Qui non ci sono diritti umani! Guarda come siamo stretti, guarda come siamo ammassati l’uno sull’altro, abbiamo a disposizione una striscia di pavimento di venti centimetri a testa per dormire. In Europa non avete idea di come ci trattano. È come se Hitler fosse tornato in vita e avesse riaperto le sue prigioni!”, dice Junaid Khan attraverso l’apertura rettangolare nella porta della prigione. Khan è un uomo dello Stato islamico, i curdi siriani l’hanno catturato undici mesi fa a Baghouz, che fu l’ultimo pezzo di territorio dello Stato islamico a capitolare. Dopo anni di battaglie perse e di ritirate gli irriducibili del gruppo terroristico si trovarono circondati da tutti i lati, molti morirono sotto le bombe e tutti gli altri furono messi in fila, identificati dall’intelligence americana, caricati su camion e lasciati ai curdi perché in qualche modo trovassero una soluzione. Gli parlo in piedi dall’altro lato della porta nella luce relativa del corridoio e di lui vedo soltanto il volto e il cranio senza capelli nel riquadro di metallo, il resto è nel buio della cella. “Va bene adesso parli di diritti umani e capisco perché lo fai, ma ti rendi conto com’è ascoltare i combattenti dello Stato islamico che parlano oggi di diritti umani? Avete ucciso migliaia di persone, avete bruciato vivi degli ostaggi, avete fatto decapitazioni davanti alle telecamere. Eppure adesso tirate fuori altro come se queste cose non fossero successe”. - “E gli americani? Ci hanno bombardato con gli aerei. Hanno ucciso migliaia di persone. Hanno bombardato tantissimi posti, quello invece andava bene? Loro non sono colpevoli?”. - “Anche voi facevate i bombardamenti”. - “Noi? Ma cosa dici? Lo Stato islamico non aveva gli aerei”. - “Quando mandavate un camion bomba dentro un mercato con sopra un attentatore suicida a farsi esplodere e facevate decine di morti in un colpo solo, quelli non erano bombardamenti? Gli unici motivi per cui non avete lanciato bombe con gli aerei è che non avevate gli aerei o che non li sapete pilotare. Altrimenti avreste fatto molto peggio”. - “…”. - “Ma come pensavate che sarebbe finita questa guerra contro tutti? Ma come avete fatto a credere che avrebbe funzionato davvero? Lo Stato islamico proclamava che avrebbe conquistato prima Istanbul in Turchia e poi Roma in Italia. Credevate che i paesi occidentali non avrebbero reagito, che non sarebbe nata una Coalizione internazionale, che non ci sarebbero stati i bombardamenti? Dicevate di voler venire in Europa a massacrare e però vi stupite che ci sia stata una guerra e di averla persa”. - “Lo Stato islamico non voleva uccidere gli occidentali…” comincia Khan, ma lo interrompo. Si riferisce al fatto che secondo la dottrina del gruppo terroristico la conquista di un nuovo territorio non implica automaticamente lo sterminio della sua popolazione ma piuttosto il suo asservimento. Sono sofismi scadenti. - “Dicevate che avreste conquistato prima Istanbul e poi Roma. Che avreste sottomesso la gente, che avreste convertito tutti all’islam con la forza, che avreste schiavizzato le donne come bottino di guerra, che avreste distrutto le nostre statue da idolatri (perché la rappresentazione della figura umana è vietata dalla sharia) e sfasciato gli strumenti musicali, che avreste proibito di fumare… e che chi si fosse opposto sarebbe stato ammazzato. Davvero, cosa credevate che sarebbe successo? Che il resto del mondo vi avrebbe detto ‘ah ok, allora aspettiamo il vostro arrivo a braccia aperte?’”. Questo è l’unico istante in cui Junaid rientra nel buio e tace per poco. Viene dal Bangladesh, lavorava come contabile in Arabia Saudita, parla un inglese ottimo. Poco fa ha raccontato di essersi unito allo Stato islamico soltanto per amore della sharia, la legge islamica. Voleva soltanto vivere in un posto dove fosse praticata. È una cosa molto comune tra i detenuti, trovare una spiegazione a ritroso, raccontare la loro adesione al gruppo terroristico più pericoloso del mondo come una scelta soltanto ideologica che non implicava ruoli attivi - come la guerra, gli stupri di massa e le esecuzioni. A sentire molti prigionieri, in particolare gli europei, lo Stato islamico era fatto di cuochi che non hanno mai toccato un’arma. “Ma tu non abitavi in Arabia Saudita? Pensi che non fosse un posto abbastanza musulmano?”. “Sì lo era - risponde - ma poi mi hanno cacciato di nuovo in Bangladesh e allora sono andato nello Stato islamico. Guarda ora come siamo messi. Abbiamo tutti i pidocchi. Stiamo morendo”. Dall’apertura nella porta della cella esce aria calda anche se è inverno, è il calore dei corpi, dietro di lui ci sono sagome di persone in piedi e altre di persone sdraiate, è così sovraffollata che il pavimento non si vedrebbe nemmeno se fosse illuminata. A volte i detenuti hanno lo sguardo spento e non fanno nulla, in altri casi sfruttano lo spazio ridottissimo. Uno si fa tenere i piedi da un altro e va su e giù con il busto, sta facendo un esercizio per gli addominali. Questo edificio non era un carcere prima, era una scuola, è stato riadattato a contenere i cinquemila uomini dello Stato islamico sopravvissuti all’assedio di Baghouz. Se sei rimasto nel gruppo fino alle settimane di quell’assedio vuol dire che facevi parte del nucleo più duro, quello che ha continuato a combattere anche quando ormai la guerra era andata oltre la sconfitta certa e si trascinava avanti per fanatismo. “I curdi e gli americani ci avevano detto che se ci fossimo arresi ci avrebbero tenuti per un paio di mesi e poi ci avrebbero lasciati andare, invece siamo ancora qui!”, dice Khan. A Baghouz dentro l’ultimo campo assediato c’erano decine di migliaia di donne e bambini, erano le famiglie dei combattenti dello Stato islamico che li avevano seguiti come una carovana di nomadi, i curdi hanno tentato di patteggiare una capitolazione per evitare di dover prendere quel pezzetto di terra palmo a palmo, che vuol dire usare molto i bombardamenti - e quindi fare molte vittime. Ma rimettere in libertà i detenuti oggi sarebbe una follia, si metterebbero a sparare e a piazzare trappole esplosive la notte dopo. Questa contraddizione per ora è stata risolta così dai curdi siriani: si sono presi in carico migliaia di uomini dello Stato islamico, non possono farli uscire, li hanno ammassati in un luogo stretto che però aprono ai giornalisti. Dicono che è un’operazione “umanitaria”, la loro dottrina rifiuta la pena di morte, c’è da chiedersi se non sia stato per questo che lo Stato islamico ha deciso di combattere la sua ultima battaglia - quella della capitolazione - nel territorio curdo e non in Iraq oppure in altre zone della Siria. A partire da marzo cominceranno i processi e i curdi sperano che almeno durante quelli saranno assistiti dai governi occidentali che non si sono venuti a prendere i loro terroristi. La scuola trasformata in carcere è a un paio di chilometri a sud di al Hasake, che è il capoluogo di questa regione della Siria orientale ed è rimasto fuori per miracolo dalla marea nera degli islamisti. In pratica l’onda si è fermata a metà strada tra dov’è oggi la prigione e la città, mentre quasi tutto il resto del territorio cadeva. L’edificio stesso è finito in mano allo Stato islamico ed è stato usato come base. Ora ha cambiato uso ed è diventato il luogo con la più alta concentrazione al mondo di terroristi che hanno militato nello Stato islamico. Ed è nel mezzo di una regione che è infestata da cellule clandestine che sono ancora molto attive e che potrebbero organizzare un grande attacco per liberare gli ex “fratelli”. Le guardie dicono che le cellule a volte si avvicinano il più possibile alla prigione e poi sparano in aria un caricatore di fucile Kalashnikov in modo che i detenuti sentano il rumore e sappiano che non sono stati dimenticati. L’ultima volta è successo tre settimane fa. Il direttore del carcere, un militare in mimetica delle Ypg (unità di difesa popolare curde) che si fa fotografare soltanto se ha addosso un passamontagna, ha acconsentito alla visita ma in cambio ha stabilito due regole. La prima è che non si può dire ai prigionieri che il loro capo, Abu Bakr al Baghadi, è morto, che c’è stata un’offensiva dell’esercito turco contro i curdi poco a nord della città, che gli americani si sono ritirati dalla Siria e poi sono rientrati per andare a presidiare i pozzi di petrolio in un settore più a sud e in generale non si può dare loro alcuna notizia. Sono rimasti aggiornati al giorno in cui sono stati catturati. Non gli si può dire nulla perché c’è il timore che le notizie potrebbero scatenare una rivolta o un tentativo di evasione di massa e quindi si preferisce lasciare che si cullino nell’incertezza. Devono restare isolati non soltanto dal punto di vista materiale, ma anche da quello della conoscenza del mondo. La seconda regola è che non si possono fare fotografie fuori dai corridoi delle celle perché sarebbe come rivelare informazioni a chi sta organizzando l’attacco per liberare i detenuti. Quanto sono alti i muri. Quante guardie stanno agli angoli. Peccato perché ci sarebbero da fare foto molto belle, uomini in passamontagna e fucili a pompa che aspettano seduti su sedie di plastica, ma non è possibile. Il direttore spiega che oltre alle guardie c’è un contingente di intervento rapido poco lontano, pronto ad arrivare in caso di problemi. Gli chiediamo se in caso di evasione quelli dello Stato islamico riceverebbero aiuto dalla popolazione, dice di no ma che alcuni simpatizzanti si nascondono dappertutto. Di certo per gli evasi allontanarsi sarebbe un problema logistico enorme, al Hasake è in mezzo a una pianura senza ripari, non ci sono colli o pieghe del terreno e gli alberi sono rarissimi, è probabile che per le squadre curde e per i droni diverrebbe il terreno di una caccia facile. Chiediamo di parlare con un detenuto saudita, perché i racconti dei combattenti europei tendono ad assomigliarsi tutti. Saleh Abdallah al Aqil ha 26 anni, è andato in Siria nel 2013, ammette senza problemi che era un combattente, fa i nomi dei suoi emiri-comandanti, ha il volto scavato e gli manca mezzo piede sinistro, cammina con le stampelle. Gli chiediamo perché è partito volontario, dice che è successo perché ha ascoltato un sermone del predicatore saudita Mohammed al Arefi che avvertiva che il Califfato stava arrivando. C’è da sobbalzare, al Arefi è un imam ufficiale, va in tv, nel 2013 fece scalpore un suo sermone in cui disse: “Il Califfato sta arrivando, è come se lo vedessi con i miei occhi”. Poi l’imam saudita prese una piega molto più moderata, ma intanto eccole qui le conseguenze di quelle parole, sette anni dopo. Saleh ha preso una pallottola nello stomaco, poi è tornato a combattere e poi negli ultimi mesi di assedio ha perso il piede perché andò in un magazzino a prendere della farina per mangiare ma c’era una trappola esplosiva piazzata dallo Stato islamico. Dice che ha cominciato a perdere fiducia nel gruppo prima della battaglia per Raqqa, in Siria. Se è vero, è stato verso la fine del 2017. Si è reso conto che era tutto un gioco politico internazionale fra grandi nazioni, sostiene, e che lo Stato islamico era usato come una pedina in questo gioco. Di che cosa aveva più paura, gli chiediamo: dei soldati del regime di Assad, “perché stuprano”. Quando si alza dalla sedia e prende le stampelle chiede: cosa succede là fuori? Dopo di lui intervistiamo Skandar Jammali, di 34 anni, britannico di origini tunisine, ma è come prendere un test di controllo a campione per verificare risultati già ottenuti da altri. Non dice nulla. È andato in Siria nel 2013 per lavorare come “operatore umanitario”, del resto “c’erano le pubblicità nella metropolitana di Londra, dona soldi per i bambini siriani”, perché lui ora dovrebbe essere criminalizzato per un comportamento che era così approvato? Poi si è unito allo Stato islamico perché è musulmano ed era in Siria, ma ha visto subito che era una cosa cattiva e ha tentato di scappare tre volte, ma per tre volte è stato catturato e messo in cella per un mese. “Gli stranieri sono considerati delle spie, fanno una vita dura e piena di sospetti. Entrare nello Stato islamico è facile, andarsene è molto difficile”. Non ha mai combattuto, aveva soltanto un fucile per autodifesa, non ha mai incontrato gli altri inglesi anzi tendeva a evitarli. Tutti in blocco, compreso Jihadi John, il boia degli ostaggi occidentali. Non sa se nelle celle ci sono prigionieri più carismatici che fanno da leader, o shawish, e dettano agli altri cosa fare, o se ancora predicano l’ideologia dello Stato islamico. “Io mi faccio i fatti miei”. Di cosa aveva più paura? Dei raid aerei americani. Quelli dell’intelligence inglese vengono mai a interrogarlo? Una volta si è presentata una ricercatrice universitaria, ma le sue domande non suonavano proprio da ricercatrice. Skandar è un muro, non dice nulla che potrebbe essere usato contro di lui. Li senti quando fuori dal carcere sparano in aria per farvi coraggio? Non so cosa sia, forse spari o forse un detenuto senza una gamba che cammina e fa rumore, chi è lui per sostenere con precisione una cosa o l’altra. Soltanto alla fine guizza mentre si alza: cosa succede fuori? Come va la guerra?