Un ergastolo più umano. Isolamento diurno e 41bis da ridiscutere di Marzia Paolucci Italia Oggi, 10 febbraio 2020 Italia bacchettata dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Abolire l’isolamento diurno per gli ergastolani e rivedere il regime del “41bis” offrendo ai detenuti un minimo di attività utili e sottoponendolo a verifiche periodiche. È la richiesta del Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura (Cpt) che il 21 gennaio scorso ha pubblicato sulla base delle visite effettuate nelle carceri di Milano Opera, Biella, Saluzzo e Viterbo dal 12 al 22 marzo 2019, un rapporto in cui analizza le varie forme di isolamento e di separazione dal resto della popolazione carceraria imposte ai detenuti condannati alla pena dell’ergastolo e sottoposti al carcere duro ex “41bis”. In particolare il Comitato definisce l’isolamento e la separazione dal resto dei detenuti, “anacronistici e da abolire per gli effetti dannosi nonché contrario al principio di risocializzazione soprattutto se arriva diversi anni dopo la sentenza di condanna”. Docce e mobilio fatiscenti, scarsa qualità del cibo, cortili austeri, accesso insufficiente alla luce naturale, ventilazione inadeguata nelle celle e illuminazione artificiale non funzionante. Il tutto caratterizzato da un frainteso concetto di sorveglianza dinamica da parte della polizia penitenziaria più incline al ruolo sorpassato di secondino che a quello di corpo specializzato coinvolto nel recupero sociale dei detenuti impostole dall’Europa e dalla Corte internazionale dei diritti umani. È il resoconto del ciclo di visite nelle carceri italiane fatte dal Comitato che ci invita a garantire almeno 4 m2 di spazio personale vitale nelle celle collettive e a un maggiore ricorso alle misure alternative. Quindi passa in rassegna i risultati specifici emersi: condizioni materiali pessime e attività molto limitate per i 28 internati di Biella e condizioni dure per i detenuti in alta sicurezza di Saluzzo e Milano Opera senza una procedura chiara per l’assegnazione e il riesame dell’assegnazione al tipo di circuito penitenziario. Altri rilievi per il regime del “41bis” riservato ai detenuti del carcere di Milano Opera e Viterbo dove il Comitato ritiene che fattori quali la sospensione delle regole del trattamento, le persistenti carenze materiali, la mancanza di privacy, i gruppi di socialità binari e il prolungamento automatico di tale misura impongano di “avviare una seria riflessione sul bilanciamento tra le esigenze di lotta alla criminalità organizzata e il rispetto del concetto della funzione rieducativa della pena, alla luce dell’articolo 27 della Costituzione italiana”. Alla richiesta di abolire l’isolamento diurno da parte del Cpt, fa eco la reazione di Antigone che per bocca del presidente Patrizio Gonnella, sottolinea l’importanza di risposte coerenti da parte di chi ha responsabilità politiche. E sul regime di carcere duro imposto a detenuti per reati di criminalità organizzata, terrorismo ed eversione, interviene Mauro Palma, Garante delle persone private della libertà: “Il 41bis è accettabile e necessario nella misura in cui risponde alle finalità dell’istituto: interrompere le comunicazioni tra gruppi criminali. Non lo è se va oltre”. Critico Giuseppe Moretti, presidente dell’Unione sindacati di Polizia penitenziaria: “La tortura di cui parla l’Europa testimonia la lontananza degli organismi internazionali dalle vere emergenze che si registrano nelle carceri italiane. Se è giusto prevenire e reagire agli abusi, non bisogna sottovalutare la strumentalità della quasi totalità delle denunce dei detenuti perché siamo convinti che nella maggior parte dei casi non si accerteranno infrazioni al regolamento di servizio né tanto meno alle norme penali, con particolare riferimento alla legge sulla tortura”. Parole, le sue, in difesa del corpo di appartenenza: “La Polizia Penitenziaria è una forza sana del paese che opera per garantire legalità, sicurezza e recupero del reo con enormi difficoltà legate alla carenza endemica dell’organico e all’abnorme sovraffollamento degli istituti. Funzioni rese difficili da attuare anche a causa di norme che hanno nel tempo consentito ai detenuti di assumere atteggiamenti prevaricatori testimoniati dalle continue aggressioni tra loro e nei confronti degli agenti”. Dietro le sbarre ma senza un reato. Il caso dei 350 “internati” italiani di Luca Fazzo Il Giornale, 10 febbraio 2020 Non sono colpevoli, non sono innocenti. Sono una via di mezzo, in una categoria dai confini vaghi, aleatori, soggettivi: quella dei pericolosi. E per questo, solo per questo, stanno in carcere. A volte per un anno, a volte per più, e in alcuni casi all’infinito, vittime di quello che un avvocato ha definito efficacemente come “ergastolo bianco”. É il lato meno raccontato della realtà carceraria italiana: il mondo degli “internati”, uomini e donne che la giustizia ha deciso di considerare pericolosi. Non sempre hanno subito un processo. D’altronde un processo può accertare, o tentare di accertare, se un tal reato è avvenuto, e chi lo ha commesso, e si basa per questo su elementi oggettivi: un tabulato, un video, un dna, una testimonianza. Ma quale prova o indizio potrà mai accertare se un uomo è pericoloso o innocuo? Il suo passato è sufficiente a predire il suo futuro? Eppure ci sono incensurati che compiono delitti terribili, e vecchi criminali che non farebbero più male ad una mosca. Così, inevitabilmente, le liste degli internati vengono stilate in base a impressioni del giudice di turno. L’intero, poco noto, capitolo del codice penale che prevede queste misure stupisce, prima ancora che per le conseguenze, per il suo linguaggio. Del codice del 1930, firmato da Vittorio Emanuele III, da Mussolini e dal ministro Alfredo Rocco - tuttora in vigore - questa dedicata alle “misure di sicurezza detentiva” è la parte che racconta maggiormente il clima autoritario in cui è nato, figlio di culture giuridiche in cui si puniva non il reato ma la persona. Così gli articoli pretendono che il giudice si spinga nei meandri dell’animo umano, scrutando “una speciale inclinazione al delitto, che trovi una sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole” (articolo 108). Roba in cui si sente l’eco ottocentesco delle teorie di Cesare Lombroso, quello che misurava crani e sezionava cervelli alla ricerca delle malformazioni che rendono criminali “per inclinazione”. Eppure è tutto ancora in vigore. Curiosamente la Corte Costituzionale, che tanti aggiustamenti ha imposto al codice Rocco, qui ha modificato solo piccoli dettagli. Di queste misure si è fatto grande uso fino al 2000, quando il numero degli internati in Italia raggiungeva i mille e cinquecento; poi è iniziata una lenta, costante discesa fino all’ultimo dato disponibile, quello del dicembre scorso: 349 persone. Tante, comunque. Un piccolo esercito di presunti pericolosi, distribuiti in sei “case di lavoro”. Si chiamano così, e questo è l’altro grande equivoco della faccenda. Dietro il nome di “casa di lavoro” è facile immaginarsi un posto dove si lavora, dove i presunti pericolosi possono svolgere una qualche attività, con l’auspicio che si redimano e si creino così le condizioni per un loro reinserimento pieno nella società. Ebbene, niente - o quasi - di tutto questo. Le sei case di lavoro attualmente in funzione in Italia sono carceri, indistinguibili dalle prigioni dove si finisce per avere commesso un delitto, e non per il timore che se ne possano compiere. Come le carceri, non sono tutte uguali. In alcuna si sta meglio, in altre si sta peggio. Ma sono posti fatti di celle, sbarre e secondini. Nell’elenco c’è una settima struttura, perché il codice prevede che i pericolosi possano essere destinati indistintamente a case di lavoro o colonie agricole. Di colonie agricole in realtà ne esiste una sola: a Isili, nel cuore della Sardegna. Qui, almeno, gli internati lavorano davvero, fianco a fianco con i detenuti, ad allevare, macellare, coltivare: “la mattina - ha raccontato un ex ospite a Radio radicale - ci caricano su un cassone attaccato a un carro e ci portano nei campi”. Chi muore qui e non ha nessuno a reclamarlo viene sepolto nel cimitero annesso, dove si dice che in una delle tante fosse senza nome ci siano anche i resti di Erich Priebke. Poi ci sono le sei case di lavoro vere e proprie. Che non si distinguono dai carceri perché sono semplicemente sezioni di prigioni, raggi speciali per innocenti dove si fa la vita dei colpevoli del raggio accanto. É così a Biella, a Venezia, a Castelfranco Emilia (una delle sei case di lavoro, quella di Trani, è riservata alle donne: e risulta attualmente vuota, o occupata sporadicamente). Ed è così soprattutto a Vasto, in Abruzzo, dove c’è la più alta concentrazione italiana di internati: un carcere a tutti gli effetti, e talmente malandato che per una settimana è rimasto senz’acqua corrente, con le conseguenze che si possono immaginare sullo stato dei bagni, e con gli ospiti riforniti di una bottiglia al giorno per tutte le loro necessità. Qualcuno ci approda direttamente dal carcere, perché quando è stato condannato il giudice al periodo in carcere ha aggiunto, ad abundantiam, la casa di lavoro: e qui la pena aggiuntiva è almeno passata per un processo. Ma c’è chi ha scontato la sua pena, è tornato libero, e dopo qualche tempo si è visto per un motivo o per l’altro dichiarare pericoloso dal tribunale di sorveglianza: ed è stato portato qui, in teoria per uno o due anni. In teoria: perché l’aspetto sconcertante è la elasticità della condanna, che può allungarsi praticamente senza limite. “Al termine del periodo di internamento - racconta l’avvocato Fabiana Gubitoso, che da anni segue la situazione di Vasto - viene valutata la possibilità per il soggetto di trovare all’esterno un domicilio, un lavoro, una vita di relazione. Se, come spesso accade soprattutto per i detenuti delle fase più disagiate, questa possibilità non c’è, il giudice proroga l’internamento. La casa di lavoro non solo è una pena mascherata ma una pena a tempo indeterminato”. A rendere tutto ancora più grottesco, c’è il caso di Tolmezzo. Nel cuore della Carnia, a una ventina di chilometri dal confine, c’è uno dei carceri più sicuri d’Italia. Ci abitano oltre duecento detenuti con pedigree criminali di alto livello, come il boss dei casalesi Michele Zagaria. Sono quasi tutti al 41bis, il regime di alta sorveglianza; alcuni sono nella cosiddetta “area riservata”, la sezione dove viene applicato un 41bis ancora più duro. Ebbene, anche a Tolmezzo c’è una sezione casa di lavoro. Dentro ci sono sette o otto internati, condannati che hanno ormai scontato la loro pena. Ma siccome quando erano in carcere erano sottoposti al 41bis, continuano a essere al 41bis anche adesso. Come si possa conciliare il fine di reinserimento della casa di lavoro con la asprezza del 41bis è un mistero tutto italiano. Il risultato è che, di proroga in proroga, sia la casa di lavoro che il 41bis possano venire prorogati all’infinito. Tutto questo in nome di un concetto, quello di “pericolosità”, basato - come riconosce recentemente lo stesso ministero della Giustizia replicando ai dubbi del Garante dei detenuti, Mauro Palma - su “giudizi presuntivi”. Il reato è stato punito, la condanna scontata: ma entra in ballo la “presunzione” di pericolosità. E gli internati si trovano inghiottiti da un vortice di norme: “Gli internati - spiega l’avvocato Piera Farina - non sono in grado di dimostrare la cessata pericolosità in quanto non possono accedere alle licenze che servirebbero a valutarne l’evoluzione: ma essendo al 41bis non possono uscire dalla cella ed avere contatti con persone diverse dal compagno di socialità. Così il giudice di sorveglianza rinnova di volta in volta. Quella degli internati al 41bis è una situazione assurda che si trasforma in una pena detentiva senza un fine pena”. “Ma quale Casa di lavoro? Questa è una galera a discrezione della Procura” di Luca Fazzo Il Giornale, 10 febbraio 2020 Franco Mazzone ha 54 anni e, giudiziariamente parlando, un passato pesante. L’ultima condanna è stata per armi e droga, scontata girando per una lunga serie di carceri: Ancona, Opera, Fermo, Fossombrone. Sette anni. L’ha smaltita senza fare storie o piangersi addosso. Al momento di liberarlo, non lo hanno liberato. Lo hanno portato nella “Casa di lavoro” di Vasto, e ce lo hanno tenuto un altro anno. Com’è stato? “Peggio del carcere”. Perché? “Partiamo dalle cose semplici. Vasto è un carcere, è sempre stato un carcere. Quando hanno chiuso la Casa di lavoro di Sulmona, hanno trasformato Vasto in Casa di lavoro. Ma è cambiato solo il nome. Mi hanno preso, immatricolato, portato in cella. Una cella a due posti, appena più grande dei cellini di San Vittore”. In una Casa di lavoro si dovrebbe lavorare, lo dice il nome… “E invece no. Dentro non si fa nessuna attività, gli unici lavori possibili sono quelli classici del carcere: lo spesino, il portavitto. Io ho potuto fare il mof, la manutenzione, perché so fare l’elettricista. Ma i posti sono così pochi che ti fanno lavorare a turno, un mese per volta. Per il resto del tempo te ne stai in cella, come dappertutto: ti aprono la mattina, ti chiudono per pranzo, ti riaprono il pomeriggio. Dico che è peggio del carcere perché ti mandano lontanissimo da casa, io vivo a Milano, venire a trovarmi a Vasto per i miei era quasi impossibile. Ma c’è gente che è stata spedita fino in Sicilia. Quando chiedevo “perché mi hanno portato qua” mi dicevano di non saperlo neanche loro. Però intanto io ero a mille chilometri dai miei”. Potrebbero impiegarvi in lavori socialmente utili... “Io per qualche tempo l’ho fatto, andavo a pulire una fattoria del prete, qualcuno andava a sistemare la spiaggia. Ma su trecento internati eravamo una piccola parte. Per andarci ho dovuto accettare di andare come volontario, cioè gratis, mentre per i lavoretti all’interno qualche euro si riesce ad averlo”. Chi ha deciso di mandarla in casa di lavoro? “La Procura, sono loro a decidere se sei pericoloso o no”. Chi è il tipo classico di internato? “A Vasto c’era un po’ di tutto, la maggior parte erano napoletani, c’era anche gente con reati ostativi (quelli che non danno accesso ai benefici penitenziari; ndr)”. È servito a qualcosa questo anno per il suo reinserimento sociale? “Assolutamente niente, è stato solo un anno in più, in cui oltretutto mi hanno distrutto psicologicamente impedendomi, di fatto, di vedere la mia famiglia”. Gratteri: “il lavoro in carcere dovrebbe diventare una terapia” agi.it, 10 febbraio 2020 Il procuratore di Catanzaro ospite a “Mezz’ora in Più”, condotta da Lucia Annunziata su Rai Tre. “Introdurre il lavoro carcerario ai fini della rieducazione dei condannati”: è la proposta del procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, per favorire il reinserimento nella società. Dopo aver dribblato facilmente le domande della giornalista sul tema del giorno, la prescrizione (“la questione non è quella di allungare la prescrizione, ma è accelerare i processi”) i temi di cui parla il magistrato si allargano, fino alle riforme della giustizia, dove Gratteri sfodera il cavallo di battaglia dell’innovazione tecnologica, che non compromette le garanzie ma anzi le accresce, perché ogni attività è tracciata in partenza e diventa possibile prevenire gli abusi. Il procuratore è deciso anche sullo spinoso argomento della corruzione del sistema giudiziario, e a proposito dei magistrati che prendono mazzette affonda affermando: “È ingordigia”. Poi ricorda l’assoluta necessità di applicare la costituzione e le leggi, sempre “lavorando con il codice in mano”, nel pieno rispetto della legalità secondo le norme esistenti, per non dare ai mafiosi un’arma di attacco e farli diventare vittime, perché “se io vado oltre la legge, il mafioso cerca solidarietà dagli sporcaccioni”. Gratteri chiede poi riforme che combattano la convenienza a delinquere (“non è una questione di morale e di etica, si tratta di convenienza che bisogna spezzare”, dice), ma è disincantato e scettico sulle proposte politiche quando afferma che i governi “le cose dirompenti le fanno nei primi sei mesi di legislatura, poi con il tempo si perde potere e si fanno mediazioni al ribasso”. Ma la novità arriva alla fine della trasmissione, quando Gratteri parla del sovraffollamento carcerario e della necessità di reinserimento dei detenuti, affermando: le carceri oggi sono dei contenitori, non si fa né rieducazione né trattamento. Perché un detenuto deve stare otto ore al giorno davanti al televisore? Come si potrebbe cambiare? Ma se noi diciamo il lavoro come terapia, rieducazione e trattamento, allora le cose potrebbero cambiare”. Però - ammette Gratteri - per fare questo “non ci sono i soldi per pagare questi circa 50mila detenuti”, per retribuire il lavoro svolto (a parte l’assicurazione obbligatoria). Ma appunto per questo, e per superare il problema economico, il lavoro carcerario dovrebbe diventare una terapia. Da svolgersi in forma gratuita, per educarli insegnando loro concretamente l’importanza del lavoro. Infine aggira la provocazione della conduttrice (“Il lavoro rende liberi?”, lo pungola la Annunziata, con una chiara reminiscenza dei lager nazisti come Auschwitz) e risponde così: “certo che il lavoro rende liberi, ma dalle mafie e dalla ‘ndrangheta, perché ridà dignità alle persone”. Sistema giustizia, riforme ogni sei anni. Con micro risultati di Antonio Ciccia Messina Italia Oggi, 10 febbraio 2020 I dati sui processi nella relazione ministeriale per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020. Giustizia senza pace. Novelle periodiche (in media ogni sei anni) continuano a modificare le leggi vigenti, ma i numeri sull’amministrazione della giustizia non riescono a dare, neppure quest’anno, grandi soddisfazioni, ma solo piccoli risultati. La durata media dei processi civili nei tribunali è diminuita di dieci giorni nel 2019 rispetto all’anno precedente e di 26 giorni rispetto a due anni prima. La durata media è aumentata leggermente per i procedimenti in Corte di cassazione e sensibilmente per i tribunali per i minorenni. Inoltre, se diminuisce il carico complessivo è perché calano i processi in entrata, mentre i processi definiti anno per anno sono in diminuzione. È quanto risulta da una lettura dei dati presentati dalla Relazione sulla amministrazione della giustizia nell’anno 2019, redatta dal ministero della giustizia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020. Il totale dei procedimenti civili in tribunale vede diminuire i procedimenti definiti (da 2,179 milioni a 2,078 milioni) e, in contemporanea, calano i nuovi procedimenti iscritti, con la conseguente diminuzione dei procedimenti residui finali. Il risultato complessivo è confermato dai dati parziali, riferiti a singole materie. Ad esempio, i procedimenti ordinari di cognizione espongono una lieve diminuzione dei procedimenti definiti. Nella relazione si mette in evidenza un proseguimento del calo dei procedimenti civili pendenti, salvo che per la Corte di cassazione e si sottolinea che il calo è addirittura a due cifre percentuali. Si legge, a quest’ultimo proposito che al 30 settembre 2019 pendevano dinanzi agli uffici giudiziari italiani 3.324.250 fascicoli civili, cioè il 42% in meno rispetto al picco della fi ne del 2009; il 28% in meno rispetto alla fi ne del 2003. La conclusione della relazione, a tale riguardo, è che “la giustizia civile non solo ha superato il momento di maggiore difficoltà, occorso all’inizio del decennio, ma ha raggiunto e consolidato uno stato di maggiore funzionalità anche rispetto al 2003”. I numeri relativi alla quantità di fascicoli pendenti, tuttavia, non sono da considerare in maniera isolata, ma da valutare sistematicamente anche con riguardo ai processi sopravvenuti. Anche la relazione del primo presidente della Corte di cassazione, Giovanni Mammone, sull’amministrazione della giustizia per il 2019, mette in risalto, da un lato, una tendenziale flessione delle pendenze dinanzi a tutte le magistrature di merito, ma, dall’altro lato, che per i tribunali vi è stata anche una significativa riduzione delle nuove iscrizioni. Per una lettura dei dati a tutto tondo, gli analisti dovranno interrogarsi sul fatto se possa valutarsi in termini di efficacia e di effettività del “servizio” giustizia il fatto che ci sia un calo di domanda del servizio stesso. Si consideri anche che non necessariamente il dato della diminuzione delle pendenze risulta sintomatico di una minore litigiosità. Non va trascurato, infatti, che un flusso rilevante di controversie si è spostato verso le procedure di mediazione e di negoziazione assistita dagli avvocati. La relazione del ministero della giustizia, in proposito, conta, in totale, nell’anno 2018, 106.863 mediazioni iscritte, molte delle quali obbligatorie in quanto condizione di procedibilità ai sensi di legge (73,9%). Quanto a separazioni e divorzi, nel 2019 sono 49.792 i procedimenti che sono stati definiti con accordi di fronte all’ufficiale dello stato civile o con negoziazioni assistite. Questi numeri sono fuori dalle statistiche dei tribunali e, quindi, confermano un alleggerimento del carico, poiché queste vicende sono trattate e definite fuori dai tribunali stessi. D’altra parte che una diminuzione di domanda del servizio giustizia sia rilevante lo si legge nella stessa relazione ministeriale, nella parte in cui ammette che è “il costante decremento delle iscrizioni” a consentire “il raggiungimento di valori del clearance rate superiori all’unità e quindi l’erosione delle pendenze”. Aggiunge la relazione del ministero che solo “in prospettiva, l’intervento di ampliamento degli organici di magistratura, in corso di attuazione, e il previsto programma assunzionale di personale amministrativo, unitamente all’ulteriore potenziamento della digitalizzazione del processo civile, potranno favorire una crescita della produttività degli uffici”. Durata dei processi. In tribunale i processi civili ordinari durano in media 839 giorni, cioè abbondantemente oltre due anni. I dati della relazione del ministero della giustizia relativi al 2019 analizzano il tempo di durata del processo, che viene descritto con più sfaccettature. I procedimenti di cognizione ordinaria (contenzioso ordinario e commerciale) hanno avuto un’incidenza del 18,6% e una durata media prospettica di 839 giorni; quelli in materia di lavoro e previdenza un’incidenza del 16% e una durata di 399 giorni. Nell’ambito delle esecuzioni, il peso maggiore lo hanno avuto le esecuzioni mobiliari (16,8%) con una durata media prospettica di 215 giorni. Le esecuzioni immobiliari hanno inciso per il 2,6% con una durata di 894 giorni; i fallimenti rappresentavano lo 0,7%, con una durata prospettica di 2021 giorni, in diminuzione del 4,7% rispetto al 2018, del 18,0% rispetto al 2016. La stessa Relazione espone la durata del contenzioso avvalendosi di un diverso computo e cioè la formula adottata dalla commissione per l’efficienza della giustizia in seno al Consiglio d’Europa (Cepej): è un indice che rappresenta il tempo necessario per smaltire i procedimenti pendenti alla fi ne di un dato anno. Secondo questo indice utilizzato a livello europeo (disposition time), dunque, nel 2019, la durata media prospettica dei procedimenti civili era di 358 giorni nei tribunali ordinari (-0,3% rispetto al 2018); 643 nelle Corti d’appello (-5,3% rispetto al 2018), 1289 in Corte di cassazione (+2,9% rispetto al 2018). Nel 2009 le medesime durate erano pari, rispettivamente, a 437, 1091 e 1.124 giorni. Ad altri il compito di valutare il reale ed effettivo significato di questi numeri In termini di percezione generalizzata dell’efficienza del servizio giustizia, può essere che riduzioni di questo tipo non siano ancora in grado di incidere positivamente e di dimostrare un’inversione di tendenza. Tanto è vero che siamo alle soglie di una complessa e radicale novella del processo civile, ciò che rappresenta la conferma che i precedenti interventi normativi non hanno avuto successo. Restyling continuo per il processo. Sono almeno 11 le novelle di più ampio respiro che negli ultimi 70 anni hanno modificato e rinnovato il codice di procedura civile. E la dodicesima è già in cantiere. Al ritmo medio di una ogni poco più di sei anni, le riforme maggiori hanno modificato il volto dei processi civili; talvolta sono state un ritorno al passato e tal altra sono state un accavallarsi di procedimenti, con modifiche di termini e di competenze che costringono giudici, cancellerie e avvocati a un lavoro supplementare per individuare quali regole si applicano al singolo fascicolo. Alcuni degli ultimi ritocchi, poi, sono dichiaratamente finalizzati alla “degiurisdizionalizzazione”, cioè a tenere lontano dai tribunali o, come molto spesso si legge, a deflazionare il contenzioso. In sostanza la domanda del servizio giustizia deve essere soddisfatta da enti diversi dall’organismo giudiziario e quindi largo a mediazioni, conciliazioni, arbitrati, negoziazioni assistite e così via. Ma se questo è l’obiettivo (pure opinabile, se si considera che la funzione giustizia è una funzione dello Stato), risulta un po’ in controtendenza, almeno a prima lettura, l’indirizzo espresso nella Relazione del ministero della giustizia sul 2019, nella parte in cui riferisce dell’obiettivo della “giustizia diffusa sul territorio” e cioè della realizzazione “del principio di prossimità ed accessibilità del sistema giustizia per raggiungere un innalzamento progressivo del livello di qualità del servizio giustizia”. La relazione citata aggiunge che si tratta di un progetto finanziato denominato “Uffici di prossimità”, per cui sono stati stanziati oltre 34 milioni di euro, euro ripartiti tra le varie Regioni. Sono attesi, dunque, enti territoriali ed uffici giudiziari, in modo da garantire l’apertura di un numero di Uffici di prossimità per ogni distretto, in grado di offrire una serie di servizi: a) orientare e informare gli utenti tutele, curatele, amministrazioni di sostegno; b) distribuire la modulistica adottata dagli uffici giudiziari; c) dare supporto alla predisposizione degli atti che le parti (e gli ausiliari del giudice) possono redigere senza avvocato; d) inviare atti telematici agli uffici giudiziari; e) fornire consulenza sugli istituti di protezione giuridica. Prescrizione, qualcosa è cambiato di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 10 febbraio 2020 La legge Bonafede, espressione di una concezione illiberale, ha messo in moto una imprevedibile dinamica. La vera novità è che l’apparente (solo apparente) compattezza della magistratura è saltata: il disaccordo è alla luce del sole. Conseguenze inattese. Dal male, talvolta, può nascere un po’ di bene. La legge Bonafede sulla prescrizione, espressione di una concezione illiberale dei rapporti fra i cittadini e lo Stato, ha messo in moto un’imprevedibile dinamica, sia fra i magistrati che fra le forze politiche. Fino a ieri e per tanti anni, in materia di giustizia si recitava sempre il medesimo copione. Sia gli attori che gli spettatori conoscevano ogni battuta a memoria. C’era di qua un gruppo di magistrati, più o meno compatto, e più o meno sempre gli stessi, che pretendeva di parlare a nome dell’intero ordine giudiziario e che recitava sempre lo stesso mantra: guai a voi se “delegittimate” la magistratura. Non c’erano (o per lo meno non c’erano pubblicamente) voci togate dissenzienti. Apparentemente, la magistratura sembrava muoversi come un solo uomo (pronta certo a dividersi, e anche a dilaniarsi, nelle lotte fra le correnti ma compatta e unita contro il “nemico esterno”, ossia la politica). C’era poi la politica, appunto: anche qui sempre lo stesso copione. La divisione era (rigidamente) per schieramenti. Da un lato quelli che, di volta in volta, entravano nel mirino delle procure e che cercavano di difendersi (da Craxi a Berlusconi, da Renzi a Salvini); dall’altro, i difensori tutti d’un pezzo dello “Stato di diritto” e della “indipendenza della magistratura” ma solo quando la botta giudiziaria colpiva l’avversario politico. Quando toccava a loro o ai loro amici la musica cambiava. In ossequio al famoso detto di Giovanni Giolitti “In Italia le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici”. Grazie al ministro Bonafede e alla sua legge ci sono novità. Non dico che il vecchio copione sia stato buttato via. Questo no. Ma per lo meno qualcosa è cambiato, soprattutto si sentono battute mai udite in precedenza. La cosa certamente più importante, la vera novità, è che l’apparente (solo apparente, ovviamente) compattezza della magistratura è saltata: sulla prescrizione il disaccordo fra i magistrati è ora alla luce del sole. È come se un ambiente chiuso si fosse aperto improvvisamente al mondo. Pur con la necessaria cautela, possiamo dire che si tratta di un passo avanti, una buona cosa per la nostra vita democratica. Non più un gioco “noi contro loro” ma un pubblico dibattito in cui diventa possibile portare le proprie idee ed esperienze senza preclusioni e senza farsi scudo con le appartenenze professionali. Si era sempre saputo naturalmente che ci sono tanti magistrati - per lo più sconosciuti, poco propensi a pavoneggiarsi in pubblico e ad accumulare “capitale politico” usando le inchieste giudiziarie - che cercano di fare il loro difficile mestiere al meglio delle capacità, che non si credono gli “unti del Signore”, che sono consapevoli dei propri limiti e delle proprie imperfezioni (che condividono con tutti gli altri esseri umani), consapevoli anche dei limiti dei loro strumenti professionali, nonché attenti alle sofferenze che la macchina giudiziaria può provocare. Diversi alti e illustri magistrati, credo anche a nome di quei loro colleghi, sono venuti allo scoperto sul tema della prescrizione manifestando il loro dissenso nei confronti della legge Bonafede e dell’opinione di altri magistrati. Con interventi e interviste dalle quali i non addetti ai lavori, e anche i politici, possono apprendere molto. Questa vicenda della prescrizione, per giunta, sta dando maggiore peso anche agli argomenti degli avvocati penalisti, per lungo tempo ridotti al silenzio dal circo mediatico-giudiziario, trattati più meno come complici dei delinquenti da magistrati che all’Università erano distratti o assenti quando il professore trattava il tema delle garanzie costituzionali. Queste novità in seno alla magistratura hanno effetti sulla sfera politica. Perché, almeno sul caso della prescrizione, la classe politica non ha l’impressione di trovarsi di fronte a una corporazione giudiziaria compatta e pronta alla guerra. Per conseguenza, essa diventa meno propensa a rinserrarsi entro i vari schieramenti, è più fluida, più libera di dividersi lungo linee trasversali. Certamente in questo momento è Matteo Renzi che, nell’area di governo, guida il fronte degli oppositori alla legge Bonafede. Ma è anche interessante la posizione del Pd. Ci fu un tempo in cui il Pd (al pari dei suoi predecessori, dal Pci al Pds ai Ds) cavalcò ogni giustizialismo, per colpire gli avversari ma anche per “tenersi buoni” i magistrati. Ora le cose sono diverse. Sicuramente, dopo tanti anni di propaganda giustizialista e di conseguente “diseducazione civica”, una parte dei militanti e degli elettori di quel partito continua ad essere attratta dalle sirene dell’autoritarismo giudiziario. Ma sembra proprio che la maggioranza dei parlamentari del Pd sia su altre posizioni. Il loro problema ha ora a che fare prevalentemente con gli equilibri di governo: come neutralizzare la legge Bonafede senza provocare la caduta dell’esecutivo e nuove elezioni? Tutt’altra cosa rispetto ai furori giustizialisti del passato. Certamente le vecchie cattive usanze non verranno abbandonate. Né da certi settori della magistratura né dalla politica. Non cesserà l’epidemia di inchieste giudiziarie in grande stile che, dopo tanti clamori, furori, e sofferenze, finiscono qualche anno dopo senza nemmeno una condanna. Con gravi danni per la vita collettiva e anche per la democrazia. Non solo fanno vittime innocenti. Continuano anche ad alimentare certe false convinzioni dell’opinione pubblica: per esempio, la convinzione secondo cui la corruzione in Italia sia molto più diffusa di quanto in realtà non risulti alla luce delle conoscenze disponibili. Né cesserà la cattiva abitudine di certi magistrati di usare le inchieste come trampolino per carriere politiche. Nemmeno la politica si libererà dei propri vizi. I vari raggruppamenti continueranno a fare tutto ciò che possono al fine di ottenere che venga eliminato per via giudiziaria l’avversario che essi si sentono incapaci di battere politicamente. Né scompariranno quelle propensioni illiberali (figlie di un’antica storia e di un’antica tradizione) che sono proprie di molti nostri connazionali, coloro che hanno fin qui avallato con il loro consenso diverse patologie giudiziarie. Però è arrivato, improvviso, un raggio di sole. Finalmente. Prescrizione, ecco il testo salva-maggioranza. E Renzi prepara la “guerriglia” Corriere della Sera, 10 febbraio 2020 L’emendamento limato fino all’ultimo: Consiglio dei ministri sulla riforma verso il rinvio. Montecitorio, domenica sera. I corridoi del Transatlantico sono deserti, ma nel chiuso degli uffici i tecnici della maggioranza sono chini sul dossier che da settimane agita il governo. Il testo ha ancora bisogno di limature, ma salvo altri colpi di scena il destino della prescrizione è deciso. Niente decreto legge. Lo strumento parlamentare individuato è un emendamento al Milleproroghe, per quanto i renziani ritengano “uno scandalo” modificare con queste procedure il diritto penale. Il via libera sull’ammissibilità della materia dovrà darlo Roberto Fico e i 5 Stelle si aspettano che il presidente non ponga ostacoli.Per rendere accettabile l’escamotage occorrerà una proroga. Si parla di “un paio di mesi al massimo”, che scatterebbero retroattivamente dall’inizio dell’anno. Il che vuol dire che ai primi di marzo l’efficacia della riforma Bonafede cesserà ed entrerà in vigore il lodo “Conte bis”: l’intesa di merito raggiunta dalla maggioranza (senza i renziani), che prevede il blocco della prescrizione in via definitiva solo per i condannati in primo e secondo grado. Su questa delicatissima e complessa materia, la tensione non sembra destinata al allentarsi. Renzi darà battaglia in commissione e in Aula, cercando con tutte le possibili tecniche parlamentari di “tornare allo stato di diritto”. E anche se Ettore Rosato parla di “battaglia civile, trasparente e senza trappole”, Pd, M5S e Leu si stanno attrezzando per parare i colpi del fuoco amico. “Conoscendo Matteo - prevede un esponente dem del governo - cercherà in Parlamento ogni occasione di scontro sul tema della giustizia, che gli è congeniale”. Se l’iter sarà confermato, il Consiglio dei ministri che era in agenda oggi si terrà domani. E mentre ai piani alti di Palazzo Chigi il ministro Bonafede illustrerà ai colleghi la riforma del processo penale, nelle commissioni Bilancio e Affari costituzionali della Camera si voteranno gli emendamenti al Milleproroghe. E qui il primo iceberg da superare per la maggioranza di Conte sono i subemendamenti dell’opposizione, per quanto i voti di Italia Viva non siano determinanti e la possibilità che il governo vada sotto è assai remota. Se non ci saranno slittamenti, mercoledì il decreto arriverà nell’aula di Montecitorio, dove l’approvazione con il voto di fiducia può dirsi scontata. Dopodiché, sarà corsa contro il tempo. Il decreto Milleproroghe deve essere convertito entro il 28 febbraio e al Senato arriverà blindato, anche qui con la fiducia. I renziani hanno indossato l’elmetto. “Ogni soluzione che non sia il prudente rinvio previsto dal lodo Annibali ci vedrà votare contro”, ha promesso il coordinatore di Italia Viva, Ettore Rosato. E se Renzi decidesse di fare sua la proposta dell’azzurro Enrico Costa? L’antidoto del governo è un emendamento che riproponga il lodo “Conte bis”. La tensione della vigilia è altissima, anche se alla Camera in Commissione i numeri sono favorevoli all’alleanza giallorossa. I tecnici governativi stanno limando anche le virgole. L’obiettivo è fare in modo che l’emendamento del governo precluda quello dell’azzurro Enrico Costa e l’insidioso “lodo Annibali”, con cui l’avvocatessa di IV chiede la sospensione di un anno della riforma Bonafede. Ma Renzi ha pronta la contromossa: ripresentarlo al Senato, dove senza i suoi voti il governo non ha i numeri. Nel Pd nessuno scommette un euro sull’ipotesi che Italia Viva voglia strappare, non votando la fiducia e mettendosi fuori dal governo. Eppure i capigruppo fanno di conto: al Senato la maggioranza senza i 17 di Renzi ha 158 voti, tre sotto la soglia. Cifre da brivido. I parlamentari di Italia Viva sospettano che Conte stia tramando per sostituirli con un drappello di venti “responsabili”, pescati dentro al gruppo Misto e tra le file di Forza Italia ed ex 5 Stelle. E per quanto sembri difficile che possano muoversi verso Conte in chiave anti-renziana senatori come Romani, Causin e Mallegni, nel grande caos di questi giorni i loro nomi hanno ripreso a girare, assieme a quelli di De Falco, Nugnes, Fattori e altri ex 5 stelle. Prescrizione, i renziani contro l’emendamento. Ma il Pd: partita chiusa di Diotato Pirone Il Messaggero, 10 febbraio 2020 Italia Viva: scandaloso inserire la modifica nel Mille proroghe. Zingaretti: buon punto di arrivo. Rinviato a domani il Consiglio dei ministri con la riforma Bonafede del processo penale. Matteo Renzi annuncia di voler proseguire la battaglia sulla prescrizione in Parlamento. Minaccia spuntata, secondo gli alleati, se è vero che Italia Viva al dunque voterà la fiducia al governo. Tanto che Nicola Zingaretti già volta pagina e dice che sulla prescrizione si è raggiunto un “buon punto di arrivo”: ora il governo deve avviare una nuova fase senza “picconate”, ripete. Lo schema concordato dal ministro Alfonso Bonafede con i Dem prevede la presentazione, probabilmente oggi, di un emendamento al decreto Milleproroghe per sospendere per circa un mese la legge Bonafede e intanto modificarla con il cosiddetto “lodo Conte bis”, che rende definitivo il blocco della prescrizione solo dopo una doppia condanna. Non appena la norma sarà votata in Commissione, probabilmente domani, si riunirà il Consiglio dei ministri per approvare la riforma del processo penale, che mira a ridurre i tempi dei processi. Attendere l’approvazione dell’emendamento serve ad accertarsi che il percorso per “blindare” il lodo sulla prescrizione funzioni. E non è scontato. Anzi, secondo Italia Viva il piano salterà. Perché, come denuncia Forza Italia con Enrico Costa, l’emendamento rischia di non essere ammissibile: il decreto Milleproroghe dovrebbe contenere solo proroghe e non la modifica di una norma penale. “Sarebbe uno scandalo”, denuncia da IV Ettore Rosato, secondo il quale Italia Viva “contrasterà qualsiasi forzatura istituzionale”. Cinque stelle e Dem si mostrano ottimisti: gli uffici legislativi di via Arenula stanno limando la norma perché passi ogni vaglio. Ma le opposizioni già si preparano a protestare, facendo appello innanzitutto ai presidenti delle Camere perché blocchino il “blitz”. A quel punto, se l’emendamento non passasse, il “lodo Conte bis” potrebbe essere inserito nella riforma del processo penale o affidato a un percorso del tutto parlamentare (in commissione alla Camera si stanno discutendo le proposte di FI e Leu sulla prescrizione). Ma i tempi si allungherebbero, prolungando uno scontro politico che anche il premier Conte auspicherebbe di archiviare al più presto. Anche i Dem spingono per chiudere la partita al più presto: la norma nel Milleproroghe sarebbe blindata con la fiducia alla Camera e al Senato. Iv protesterebbe, magari diserterebbe il Consiglio dei ministri sulla riforma del processo penale, ma poi si andrebbe avanti. In maggioranza c’è però chi cerca ancora di mediare. E spera in un percorso - ma Bonafede resta contrario - che includa un rinvio di sei mesi e poi il confronto in Parlamento. Il Dem Michele Bordo, in mattinata, vede una “marcia indietro” di IV nella scelta di confermare la fiducia al governo. Ma i renziani si affrettano a smentire: non faranno cadere l’esecutivo (“Sono gli altri a volerci cacciare”) ma potrebbero non partecipare al voto sulla fiducia per manifestare il loro dissenso. Perché, dice Rosato, “l’unica soluzione è il prudente rinvio” di un anno “previsto dal lodo Annibali”. “Non accetteremo mai di diventare grillini. Meno che mai sulla giustizia”, sottolinea Renzi, punzecchiando i Dem. E preannuncia che tornerà alla carica al Senato, dove Iv è determinante, con una sua proposta di legge sulla prescrizione. I renziani fanno notare che anche Nicola Gratteri definisce il “lodo Conte bis” sulla prescrizione “una mediazione al ribasso”. E non depongono le armi: “M5s e Pd se sono furbi dovrebbero cambiare schema subito, l’emendamento al Milleproroghe non funzionerà e se glielo ammettono protesteremo in ogni sede”, annunciano. Il peggior rimedio al processo senza fine di Carlo Nordio Il Messaggero, 10 febbraio 2020 Non sappiamo quale sarà l’epilogo delle attuali convulsioni della maggioranza governativa sulla prescrizione. L’incertezza maggiore riguarda l’atteggiamento di Italia Viva che forse voterà la fiducia, o forse insisterà per una sospensione lunga, cioè un rinvio della riforma Bonafede, che nel frattempo è stata imbastardita dal cosiddetto Lodo Conte bis. Il grottesco spettacolo cui stiamo assistendo è così umiliante per chi abbia a cuore quel che resta della nostra civiltà giuridica che possiamo solo attendere gemendo, con fatalistica rassegnazione. Quando, su queste colonne, definimmo l’originario progetto un mostro giuridico, intendevamo usare questo termine nel suo significato originario coniato dai latini, cioè di monstrum, vel portentum vel prodigium: una strana creatura che nella sua singolarità ha qualcosa di terrificante. E in effetti la mostruosa proposta del ministro Bonafede vaporizzava, come poi autorevoli giuristi hanno confermato, i principi elementari del diritto. Tuttavia un monstrum possiede un connotato di potente identità, per quanto negativa: esso ispira appunto terrore e sgomento, non disgusto. Peggio del mostro c’è invece il mostriciattolo. Il quale senza tenere la valenza dirompente del fratello maggiore, suscita solo un sentimento di ripugnanza. Il lodo Conte bis, che dovrebbe, nell’accordo compromissorio del governo, sostituire la proposta del guardasigilli, è proprio un mostriciattolo, una copia deforme del parto originario. Essa infatti introduce una bizzarra distinzione: per chi è assolto in primo grado, la prescrizione continua a correre; per chi è condannato, si sospende. Se poi quest’ultimo è assolto in appello, la prescrizione riprende, recuperando anche il tempo della precedente sospensione. Un tortuoso marchingegno che non considera l’attuale complessa disciplina delle impugnazioni, e crea un’incredibile confusione. Mentre infatti l’originario progetto aveva il pregio di una chiara immutabilità parmenidea (dopo la prima sentenza la prescrizione si blocca sempre, e il processo può non finire mai) ora subentra l’opposta filosofia di Eraclito dove il processo, come tutte le cose, scorre con dinamismo indeterminato e mutevole. Facciamo alcuni esempi che chiariranno il concetto. Tizio viene assolto in primo grado: la prescrizione continua. Il Pubblico Ministero impugna, si va in Appello, e Tizio viene condannato. La prescrizione (a quanto pare) si sospende. Ma Tizio ricorre in Cassazione, che annulla la condanna e rinvia a un’altra Corte. Quest’ultima assolve. Che fine farà al prescrizione? Mah! E mica è finita. Perché se contro questa assoluzione ricorre il Procuratore Generale, e la Cassazione accoglie il ricorso, si fa un nuovo processo. Se stavolta la Corte d’Appello condanna, la prescrizione si sospende (pare) di nuovo. Ma se Tizio ricorre a sua volta, e la Cassazione annulla la condanna, la nuova Corte può assolvere, con la conseguenza di una nuova impugnazione del Procuratore Generale. E così via senza tregua, perché nel nostro sgangherato sistema il processo può effettivamente andare avanti all’infinito, con corsi e ricorsi che ricordano, tanto per restar nella filosofia greca, la dialettica degli stoici. E badate che questo è solo un aspetto del problema. Perché può esservi il caso opposto e simmetrico a quello di Tizio: Caio è condannato in primo grado (la prescrizione si ferma) ma assolto in Appello (la prescrizione riprende); poi un annullamento della Cassazione e condanna nel giudizio di rinvio. Altro ricorso, eccetera eccetera. Nel frattempo, come l’omino di Cartesio, la prescrizione si è perduta nella foresta normativa. L’esausto e allibito lettore si domanderà se abbiamo scherzato. No, non abbiamo scherzato affatto. Questa interminabile tiritera si è realizzata molte volte, coinvolgendo centinaia di disgraziati finiti nelle maglie inestricabili della nostra (si fa per dire) Giustizia, e soltanto la prescrizione ha posto fine al loro estenuante calvario. Talvolta, pietosa, è intervenuta la morte, che risolve ogni cosa. Con il lodo Conte bis, essa sarebbe l’unica speranza di un accertamento definitivo, naturalmente nell’Altro Mondo Caso Gregoretti, Salvini ci ripensa. La Lega diserterà il voto in Senato di Carmelo Lopapa La Repubblica, 10 febbraio 2020 Questa volta l’ha spuntata Giulia Bongiorno. È riuscita quantomeno a far ragionare Matteo Salvini, raccontano nella Lega, convincendolo a non fare altri colpi di testa sul caso Gregoretti, dopo quello di venti giorni fa in giunta per le autorizzazioni. L’avvocato e senatrice che allora aveva perso le staffe per le bizze del capo, sembra sia riuscita a far capire nelle ultime ore che un voto favorevole dei leghisti anche in aula per il processo per sequestro di persona chiesto dal Tribunale dei ministri di Catania - nella seduta decisiva di mercoledì a Palazzo Madama - equivarrebbe a un’ammissione di responsabilità o quasi. E così, il segretario ha già comunicato il dietrofront al capogruppo Massimiliano Romeo: i loro 60 parlamentari lasceranno l’emiciclo (più improbabile l’astensione): ai colleghi di Pd, Italia Viva, M5S e Leu la responsabilità del disco verde al giudizio a carico dell’ex ministro dell’Interno. Non usciranno subito, tuttavia, i leghisti. Ad apertura dei lavori, alle 9,30, spetterà a Erika Stefani il compito di riferire all’aula sull’esito del voto in giunta del 20 gennaio. Allora i senatori del gruppo avevano votato a favore, adeguandosi al diktat del capo che - in piena campagna elettorale in Emilia Romagna - voleva immolarsi mediaticamente da “vittima” della giustizia per la difesa dei confini nazionali. Il giochetto poi non ha funzionato, quando sei giorni dopo si sono aperte le urne a Bologna e nel resto della regione. Adesso “meglio non rischiare”, anche perché - è stato il ragionamento dell’ex ministra Bongiorno al suo segretario - il voto favorevole anche della Lega, in aggiunta a quello già decisivo e sufficiente della maggioranza, finirebbe col vanificare o quasi l’intera strategia difensiva. Insomma, l’impuntatura potrebbe costare caro quando dinanzi al Tribunale dei ministri si aprirà un processo dall’esito già imprevedibile. Il primo di una serie, per altro, stando alla sequenza di richieste che stanno piovendo dalle procure. Nella discussione che mercoledì si aprirà subito dopo la relazione in aula, Matteo Salvini quasi certamente prenderà la parola, come ha fatto il 20 marzo dell’anno scorso in occasione del voto sul caso Diciotti. Allora, la richiesta di processo era stata respinta grazie ai senatori del M5S che lui subito ringraziò pubblicamente: “Le cose si fanno in due”. Questa volta si ritroverà da solo. Si difenderà cercando di dimostrare, mail e messaggi alla mano, il coinvolgimento del governo e del premier nella decisione di tenere per quattro giorni al largo di Augusta i 131 migranti a bordo della nave Gregoretti della Guardia Costiera, nel luglio scorso. Gli alleati di Forza Italia e Fratelli d’Italia stanno preparando un ordine del giorno con cui si oppongono alla richiesta di processo, al fine di consentire un voto (non i leghisti perché usciranno dall’aula, appunto). Diversamente, se non ci fosse alcuna proposta, non si voterebbe nemmeno: si darebbe per acquisito il pronunciamento della giunta per le autorizzazioni. In ogni caso, il responso è scontato (si voterà a scrutinio palese fino alle 19), Salvini andrà a processo. Storia destinata a ripetersi: già il 27 la stessa giunta dovrà pronunciarsi sull’analogo caso Open Arms. Tanti divieti di sbarco, altrettanti processi che incombono. L’incubo che si sta facendo largo in casa leghista è quello di una serie di condanne che potrebbero far scattare la mannaia della Severino sul leader che sogna Palazzo Chigi. E che intanto dovrà indossare la felpa da imputato. Bongiorno: “Salvini non spinga per il sì al processo sulla Gregoretti” di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 10 febbraio 2020 “Non sarà breve né prevedibile”. La senatrice leghista e avvocato consiglia il leader: “Il cortocircuito istituzionale fa sì che il ministro dell’Interno non possa esercitare uno dei suoi compiti principali, la difesa dei confini nazionali”. “Io spero davvero che Matteo Salvini decida di non avallare la linea dell’autorizzazione a procedere nei suoi confronti”. Giulia Bongiorno, a due giorni dal voto in Senato sul processo all’ex ministro dell’Interno per i fatti della nave Gregoretti, dà voce al sentimento che nella Lega è diffuso: “È sbagliato che da molti anni a questa parte la politica abbia rinunciato a molte delle sue funzioni”. Perché avrebbe rinunciato? “È evidente che il Parlamento abbia abdicato al potere di legiferare in alcune materie sensibili e che per una sorta di pudore abbia rinunciato a tutelare la sua indipendenza. Basta guardare ai molti via libera alle autorizzazioni degli ultimi anni, che nasce anche dal timore dei parlamentari di essere considerati dei privilegiati. I poteri dello Stato devono essere separati e indipendenti, ma se uno dei poteri viene meno, il vuoto è riempito dal potere giudiziario che è proprio quello che invece dovrebbe controbilanciare”. Nel caso specifico cosa accade? “Il cortocircuito istituzionale fa sì che il ministro dell’Interno non possa esercitare uno dei suoi compiti principali, la difesa dei confini nazionali”. In parecchi, in questi giorni, la mettono giù piatta: Salvini scappa dal processo... “Tutti non fanno che chiedere se salveremo o non salveremo Salvini. Non è questo il punto. Il Senato deve verificare se ha agito nell’interesse pubblico. E quel che vale oggi per Salvini tutelerà in futuro chi svolge questa funzione”. Non è normale che un ministro possa essere processato se la magistratura ritiene che abbia commesso reati? “Non ha commesso alcun reato: rallentare lo sbarco in attesa della redistribuzione dei migranti non è sequestro di persona. Ma la legge prevede che il Senato sia giudice su un tema cruciale. E cioé, se il ministro abbia agito nell’interesse pubblico. E il Senato su questo aspetto fondamentale è l’unico giudice altrimenti da domani sarà la magistratura a stabilire se un atto politico è di interesse pubblico”. Salvini ha chiesto alla giunta delle Immunità di votare a favore del processo. Dovrebbe dire ai senatori di comportarsi in modo opposto? “Io ribadirò a Salvini che deve essere orgoglioso di quello che ha fatto e capisco che lui voglia dimostrare che non scappa dal processo. Ma deve tutelare il dovere del ministro di difendere i confini. La strada giusta non è rinunciare alla valutazione sull’interesse pubblico: compete solo al Senato”. Salvini rischia comunque il processo. La preoccupa? “Io parlo di principi costituzionali e non di tifoserie. E posso assicurarle che il mio timore non è l’esito del processo ma i tempi. L’idea che un uomo possa rimanere per anni e anni a processo non dovrebbe piacere a nessuno. E questo certamente lo farò presente a Matteo Salvini. Lui pensa di andare in aula e dimostrare davanti a tutti in tempi brevi che ha ragione. Però, questo rischia di non succedere. I tempi potrebbero essere lunghissimi e c’è il problema di restare bloccati per anni, ostaggi del processo”. C’è anche chi sostiene che, al contrario, ci potrebbe essere l’interesse che il processo venga definito quanto prima in modo da far scattare per Salvini l’incandidabilità prevista dalla legge Severino... “Resto convinta dell’insussistenza del sequestro di persona. Non significa che si tratterà di un processo che si risolverà in breve né è possibile prevederne l’esito. Il mio maestro, il professor Coppi, mi ha insegnato che la legge è uguale per tutti, ma i giudici no”. Giudici sotto tiro per i processi lunghi di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2020 Se ritardi, ti sanziono. È il mantra ripetuto nello schema di disegno di legge delega che riforma il processo penale e l’ordinamento della magistratura e che dovrebbe essere esaminato oggi dal Consiglio dei ministri. Il testo introduce infatti nuove ipotesi di illeciti disciplinari per spingere i magistrati ad accelerare i tempi dei processi. Oggi i ritardi procedurali rappresentano circa un sesto delle contestazioni disciplinari mosse ai magistrati: nel 2019, sono stati 43 gli illeciti contestati per lungaggini su 254 totali, come emerge dalla relazione del Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, presentata in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, lo scorso 30 gennaio. La situazione - Nel 2019 le denunce di illeciti disciplinari a carico dei magistrati arrivate alla Procura generale della Cassazione (l’organo competente a riceverle) sono aumentate, seguendo il trend avviato l’anno prima. Fino al 2017 sono infatti rimaste stabili intorno alle 1.350 l’anno, nel 2018 sono salite a 1.637 e nel 2019 a 1.898: il 44% in più rispetto al 2012. Un aumento dovuto, secondo la relazione del Procuratore generale, soprattutto a “un’erronea concezione della responsabilità disciplinare”: perché i denuncianti, quasi tutti privati, anziché attenersi agli illeciti individuati dal decreto legislativo 109 del 2006, utilizzano la responsabilità disciplinare per rimediare agli errori del processo, chiedere il risarcimento di danni o riversare sui magistrati il malfunzionamento del servizio giustizia. Tanto che la stragrande maggioranza delle notizie di illecito (il 90% l’anno scorso) viene archiviato dalla Procura generale della Cassazione. Dei 254 illeciti contestati nel 2019, 37 sono relativi a fatti oggetto di procedimento penale: lo scorso anno è stato segnato dallo scandalo delle nomine pilotate nelle Procure, ma la relazione del Pg della Cassazione precisa che molti processi penali hanno per oggetto errori nello svolgimento dell’attività giudiziaria e si sono conclusi con l’archiviazione. Sono invece 22 gli illeciti contestati relativi a ritardi nel deposito dei provvedimenti e 21 a tardiva o mancata scarcerazione. Sono contestazioni mosse soprattutto nei confronti dei giudici di tribunale (17 incolpati di ritardi nel deposito e 8 per tardiva o mancata scarcerazione). Quanto alla distribuzione territoriale, il ritardo nel deposito dei provvedimenti è diffuso in modo sostanzialmente uniforme (9 giudici accusati al nord, 7 al centro e 6 al sud), mentre le tardive o mancate scarcerazioni sono concentrate al sud (11 giudici incolpati) e al centro (6 giudici). Le ipotesi di riforma - Lo schema di Ddl delega atteso oggi in Consiglio dei ministri punta sulla revisione degli illeciti disciplinari per sveltire i procedimenti. A partire dalle indagini preliminari: il Pm che non rispetta i nuovi tempi (di sei mesi per i reati meno gravi, un anno e mezzo per i più gravi e un anno per tutti gli altri, con una sola possibile proroga di sei mesi) commette illecito disciplinare se il fatto è dovuto a dolo o negligenza. Il Ddl delega fissa poi i termini di durata massima dei processi civili e penali e prevede l’illecito disciplinare a carico dei magistrati che non adottano misure organizzative per rispettarli. Nuove ipotesi di illeciti disciplinari sono anche previste per i capi degli uffici che, in caso di difficoltà nel definire i processi, non predispongono piani di smaltimento e non redistribuiscono i carichi di lavoro. Novità che hanno scatenato le proteste dei magistrati: il presidente dell’Anm, Luca Poniz, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha definito un “messaggio devastante” quello della “correlazione stretta” tra “inefficienza del sistema e responsabilità del magistrato, come se l’efficienza del processo si potesse governare con lo strumento disciplinare”. Se l’algoritmo scrive la sentenza, che almeno rispetti la logica di Marco Versiglioni Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2020 Negli Stati Uniti la decisione penale assunta da una macchina dotata di un software è diventata realtà. Anche nel Regno Unito analoghi sistemi algoritmici sono usati per risolvere controversie relative a violazioni alle norme sulla circolazione stradale. Nel web si trovano app destinate a individuare punti di equilibrio sui quali comporre controversie relative a diritti disponibili (Adr). Da noi il Consiglio di Stato si è occupato espressamente di algoritmi e, soprattutto, l’amministrazione finanziaria, che da tempo produce software sia per la selezione dei casi da controllare sia per la stima della credibilità dei dati dichiarati, si accinge a fare un uso moderno dei big data di cui dispone e disporrà. I temi antichissimi collegati alla relazione diritto-macchina e al rapporto uomo-macchina assumono nell’era digitale, e ancor più nella prospettiva dell’intelligenza artificiale, una dimensione prima impensabile e coinvolgono tutti i rami del diritto: dal civile al penale, dall’amministrativo al lavoro, dal bancario al tributario, dal nazionale all’internazionale e così via. Ne è dimostrazione il fatto che negli ultimi tempi un numero crescente di convegni è dedicato a questo fenomeno. E assistendo alla dialettica che ne deriva - riguarda molti campi come difesa, sanità, finanza, etica - si ha la sensazione che non sia il digitale in sé, ma siano piuttosto i modi americani dell’uso del digitale a destare preoccupazione in Europa, almeno con riguardo al diritto. Il modo applicato oltre oceano - Ciò che più si teme è forse l’idea, in parte diventata realtà, che il diritto possa essere applicato al caso singolo con il “modo della correlazione”, che dovrebbe porsi come sostituivo del “modo logico” che tutti conosciamo, e che verrebbe applicato a milioni o miliardi o bilioni di casi giudiziari oggetto di sentenze e altri provvedimenti presenti nei big data. Esemplificando e prendendo a riferimento quanto già avviene nella sanità, la correlazione tra casi giudiziari nel modello Usa sembra simile a quella che potenti computer creano tra immagini o voci digitalizzate presenti nei big data per identificare la presenza di un tumore in una persona. Ma questo modo non sembra compatibile con l’universo giuridico perché il grado di scambiabilità dei casi giudiziari è ben diverso da quello dei casi clinici. Nella sanità, dove l’uomo-medico vince ancora la sfida contro la macchina-medico, è possibile pensare che, con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, forse presto non sarà più così, proprio perché i casi, avendo a oggetto corpi umani, hanno un elevato grado di scambiabilità e il margine di errore dei computer è destinato a ridursi. Altra cosa pare invece il diritto. I casi delle vite delle persone, delle quali il diritto si occupa, non sono e non saranno mai scambiabili, perché destinati a rimanere singoli, unici. Parimenti, ciascuna norma giuridica è un caso a sé, singolo, unico, non scambiabile. Se il fine del diritto è “dare a ciascuno il suo e ricevere da ciascuno il suo”, cioè garantire l’uguaglianza dei rapporti tra ciascuno e il suo caso e tra ciascuno e la sua norma, allora il modo della correlazione non può essere applicato, a meno che non si voglia rinunciare al principio fondamentale di uguaglianza (ossia di scambiabilità) che caratterizza i moderni ordinamenti a base costituzionale (ad esempio l’articolo 3 della Costituzione italiana). La proposta alternativa - Esiste però un modo diverso di affrontare il tema giuridico dell’innovazione digitale. Si chiama “diritto matematico”. In estrema sintesi è un diverso algoritmo, softwarizzabile ma al tempo stesso naturale, reale, semplice, antico. Un algoritmo “estratto” dal diritto che c’è e animato dalla consueta logica aristotelica, applicata però - e questa è l’innovazione - a quattro esaustivi tipi di verità, nessi, nomi, concetti e segni (non numeri) ricavati analogicamente dalla matematica. Metodi a confronto - Cerchiamo allora di capire come funziona e come si confronta con il modo correlativo. Prendiamo ad esempio una decisione giuridica (da testare) e cerchiamo di capire se essa possa avere un’efficacia dichiarativa (accertamento di rapporti giuridici) o un’efficacia costituiva (modifica di situazioni e rapporti giuridici). Il modo correlativo d’oltreoceano prende spunto da un infinito numero di sentenze disponibili nei big data e arriva alla soluzione univoca del caso in due fasi, una analogica e una digitale: il percorso seguito dal robot non è però spiegabile, né in senso diretto, né in senso inverso, e il perché della decisione rimane imperscrutabile, insindacabile. Il “diritto matematico”, invece, fornisce solo la “norma d’uso” della disposizione da applicare al caso, mentre la decisione di merito, come la sua premessa, resta all’uomo. Il percorso, logico, deduttivo, trasparente e sindacabile, si articola in tre fasi consecutive: analogica, digitale e analogica. Insomma, in questa versione europea l’uomo mantiene il primato e il “diritto matematico” costituisce solo un vincolo di metodo (e non di merito), e può tornar utile, in una prospettiva digitalizzata, sia a fini legistici (drafting legislativo, contrattuale o provvedimentale), sia a fini applicativi quali prova, interpretazione, motivazione e così via (per approfondimenti sulla metodologia giuridico-matematica: dirittomatematico.it Sezioni unite chiamate sui casi di non punibilità estesi anche alle convivenze di fatto di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2020 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 17 gennaio 2020 n. 1825. Va rimessa alle sezioni Unite, sussistendo contrasto interpretativo, la questione se la causa di non punibilità di cui all’articolo 384, comma 1, del Cp sia applicabile o no al convivente more uxorio. Lo ha stabilito la sezione VI penale della Cassazione con la sentenza n. 1825 del 17 gennaio 2020. La Corte ha preso atto della sussistenza di un contrasto interpretativo, meritevole di essere devoluto alle sezioni Unite. Infatti, a un orientamento prevalente, secondo cui non può essere applicata al convivente more uxorio, resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto degli articoli 384, comma 1, e 307, comma 4, del Cp,i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente more uxorio (cfr. tra le altre sezione V, 22 ottobre 2010, Migliaccio), se ne contrappone altro, minoritario, ma più recente, che adotta l’opposta interpretazione, onde, pur dopo la legge 20 maggio 2016 n. 76, contenente regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze (cosiddetta legge Cirinnà), che sembrerebbe avere limitato l’estensione degli effetti penalistici alle sole unioni civili (cfr., del resto, il decreto legislativo 19 gennaio 2017 n. 6, con cui è stata modificata la definizione legale di “prossimi congiunti”, dettata agli effetti penali dall’articolo 307, comma 4, del Cp, inserendo nel relativo novero “la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso”), dovrebbe adottarsi una interpretazione estensiva in linea con la Costituzione e con le indicazioni dettate dall’articolo 8 della Cedu in forza della quale ai fini delle cause di non punibilità assume rilievo anche la convivenza di fatto o more uxorio, anche se non regolata sul piano normativo (sezione VI, 19 settembre 2018, Cavassa, che, da tali premesse, ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna per il reato di favoreggiamento, sul rilievo della sussistenza dei presupposti della causa di non punibilità, perché il fatto era stato commesso in favore del fratello della convivente di fatto dell’imputato; cfr. anche sezione II, 30 aprile 2015, Agostino e altri). Le condizioni legittimanti la rimessione in termini prevista dall’articolo 175 del Cpp Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2020 Termini processuali - Restituzione nel termine - Caso fortuito o forza maggiore - Nozione - Fattispecie. L’istituto della rimessione in termini disciplinato dall’art. 175 c.p.p. prevede la restituzione nel termine stabilito a pena di decadenza a condizione che il richiedente provi di non averlo potuto osservare per motivi di forza maggiore o per caso fortuito, laddove per forza maggiore si intende una situazione caratterizzata da “irresistibilità”, mentre invece per caso fortuito si intende una situazione caratterizzata da imprevedibilità. Nel caso di specie, i giudici della Cassazione hanno escluso che l’astensione di categoria dalle udienze, alla quale il difensore aveva aderito, possa essere caratterizzata da imprevedibilità, essendo proclamata per legge con dovuto anticipo, né che potesse ascriversi ad un impedimento “irresistibile” dato che l’adesione è rimessa alla libera scelta del difensore. • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 24 gennaio 2020 n. 2909. Termini processuali - Restituzione nel termine - Decreto di condanna - Grave incidente d’auto subito dall’unico difensore di fiducia dell’imputato prima del deposito di nomina ed opposizione - Causa di forza maggiore - Sussistenza - Ragioni. Ricorre una situazione di fatto riconducibile ad una causa di forza maggiore, legittimante la restituzione nel termine per presentare opposizione a decreto penale di condanna ai sensi dell’art. 175 del Cpp, nel caso di grave incidente d’auto subito dall’unico difensore di fiducia dell’imputato che, ricevuta la nomina in proprio favore il giorno stesso dell’incidente, si sia trovato, in conseguenza di esso, nella materiale impossibilità di depositare detta nomina con l’atto di opposizione. (In motivazione, la Corte ha aggiunto che, la brevità del termine per proporre l’opposizione rende inesigibile sia una costante verifica, da parte dell’imputato, dell’effettiva capacità del difensore di portare a compimento il mandato conferitogli, sia il dovere, da parte di questi, qualora affetto da grave patologia, di informare direttamente od indirettamente il primo dell’impossibilità di adempiere). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 17 maggio 2019 n. 21726. Termini processuali - Restituzione nel termine - In genere - Nullità procedimentale - Restituzione in termine per impugnare - Ammissibilità - Esclusione - Fondamento - Fattispecie. La restituzione in termini - attenendo alla perenzione di un termine stabilito a pena di decadenza che si assume non osservato per caso fortuito o forza maggiore - non è ammessa allorché venga dedotta una nullità procedimentale, non verificandosi in presenza di quest’ultima la decadenza dal termine. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che l’omesso avviso al difensore del rinvio fuori udienza, con successiva mancata partecipazione dello stesso e dell’imputato all’udienza di decisione, comporti la nullità della sentenza e impedisca la decorrenza del termine per l’impugnazione, con conseguente ammissibilità dell’impugnazione tardiva). • Corte di cassazione, sezione IV, sentenza 3 dicembre 2018 n. 54036. Termini processuali - Restituzione nel termine - Caso fortuito o forza maggiore - Nozione - Fattispecie. In materia di restituzione nel termine, la condotta del difensore d’ufficio che, in violazione degli obblighi di diligenza, abbia omesso di informare il difensore di fiducia circa il mancato accoglimento dell’istanza di rinvio dell’udienza e non abbia presentato tempestiva impugnazione in qualità di sostituto ex art. 102 cod. proc. pen., non può essere considerata, per gli effetti dell’art. 175, comma primo, cod. proc. pen., ipotesi di caso fortuito, né di forza maggiore. (Nella specie, la Corte ha ritenuto che il difensore di fiducia, con un comportamento improntato a normale diligenza, come quello di recarsi presso la cancelleria del giudice per chiedere informazioni, avrebbe potuto conoscere per tempo che era stata pronunciata sentenza di condanna e presentare impugnazione). • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 28 aprile 2006 n. 14991. Sardegna. Appello a Solinas: “Un Garante regionale per i diritti dei detenuti” di Gianni Bazzoni La Nuova sardegna, 10 febbraio 2020 I responsabili provinciali chiedono un impegno al presidente della Regione. “Il sistema carcerario è in equilibrio precario, con forti carenze di personale” La Sardegna è l’unica regione italiana a non avere un garante dei detenuti, per questo motivo, i garanti di Oristano, Sassari, Tempio e Nuoro chiederanno al presidente della Regione di intervenire e colmare la lacuna. Non è certo questo l’unica emergenza del sistema carcerario sardo messo in luce ieri mattina nel corso dell’ incontro fra i quattro garanti delle persone private della libertà della Sardegna, che per la prima volta si sono incontrati dopo l’apertura dei nuovi istituti di detenzione per l’alta sicurezza. A fare gli onori di casa, l’assessora comunale ai Servizi sociali Carmen Murru. Il garante di Oristano, Paolo Mocci, ha ricordato che i problemi delle carceri non riguardano solo l’amministrazione penitenziaria ma anche quella del Comune dove ha sede la struttura. “Spesso si parla di sovraffollamento, ma questo non è l’unico problema delle carceri”, ha detto Mocci che ha rappresentato la realtà di Massama “dove ad esempio l’assenza di un reparto per detenuti con disabilità e menomazioni psichiche, sta creando grossi problemi, assieme all’assenza, di recente denunciata dagli agenti di polizia penitenziaria, di un reparto per detenuti all’interno del San Martino”. La sanità nelle carceri è quasi un’emergenza, considerando anche che il maggior numero dei detenuti nelle strutture isolane sono anziani, dunque, con tutte le problematiche legate all’età. “La politica deve occuparsi della questione detentiva - ha detto Antonello Unida, garante di Sassari - ci sono situazioni al limite dell’anticostituzionalità come a Bancali, dove 95 detenuti in regime di 41bis sono in una sezione costruita appositamente sotto il livello del terreno, tanto da comportare la riduzione della luce e dell’aria”. Un problema noto e denunciato in più occasioni dallo stesso garante nazionale, Mauro Palma. Ci sono poi situazioni legate alle carenze strutturali. A Tempio, ad esempio, le tubazioni idriche sono ancora di ferro “di conseguenza - ha detto la garante Edvige Baldino - l’acqua è non potabile. Il problema è che da mesi l’amministrazione penitenziaria non distribuisce più i due litri di acqua in bottiglia che erano garantiti per ogni detenuto. Dunque, chi non ha soldi per comprarsi l’acqua minerale, non beve”. La rieducazione del detenuto che, pur fondamentale per il suo reinserimento nella società, in troppe occasioni viene a mancare. “A Badu e Carros i detenuti sono costretti a trascorrere troppo tempo in cella” ha denunciato la garante Giovanna Serra, che sollecitando il potenziamento delle misure alternative ha riferito del caso di un detenuto che, rimasto in carcere per 25 anni senza mai un permesso premio: “La prima volta che è uscito ha chiesto subito di rientrare in istituto perché non sapeva come fare”. Maria Grazia Caligaris, di “Socialismo, diritti e riforme” ha evidenziato come esistano seri problemi di personale: ci sono appena 4 direttori per 10 carceri mentre mancano 500 agenti di polizia penitenziaria, tantissimo personale amministrativo ed educatori. Velletri (Rm). La verità sulla morte in cella di Marco Prato: “Nessuno lo spinse al suicidio” di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 10 febbraio 2020 Per il tribunale “la sua morte non si può addebitare ad alcuna persona”. Alla mamma e al papà, al primo tentativo, aveva lasciato scritto di fare festa il giorno del suo funerale. Di mettere musica di Dalida. Di ricordare i suoi sorrisi più belli. Di accantonare i ricordi più brutti. Di lasciargli sulle unghie lo smalto rosso. Mentre al secondo tentativo, quello che in carcere non è stato evitato, aveva usato parole ancora più accorate: “Il suicidio non è un atto di coraggio, né di codardia. Il suicidio è una malattia. E questa vita mi è insopportabile. Le menzogne su di me e su quella notte mi sono insopportabili”. Era stata una morta voluta, ostinata, ricercata quella di Marco Prato, e solo per un soffio già scampata. E proprio al momento dell’arresto che lo ha portato dalla stanza d’albergo in cui si era imbottito di barbiturici al carcere per l’omicidio di Luca Varani. Ora sul suicidio del pierre dei vip, del trentenne che parlava in francese, amava la letteratura e si è ritrovato assieme all’amico Manuel Foffo protagonista di uno dei delitti più efferati della capitale, cala l’ultimo sipario. Non ha trovato sviluppi giudiziari l’ipotesi che la sua morte potesse essere scongiurata. La procura di Velletri, competente per territorio, aveva aperto un fascicolo per istigazione al suicidio. Gli inquirenti volevano capire se Prato, detenuto ad alto rischio nel carcere locale considerato il suicidio appena scampato, fosse seguito e assistito adeguatamente, anche da uno psichiatra. Se fosse monitorato o meno. Specie nei momenti più delicati. Insomma se fosse stato protetto. Così come aveva sollecitato la famiglia, da subito contraria anche del trasferimento da Regina Coeli. Ora il caso è stato chiuso, per sempre. Il tribunale di Velletri ha avallato le conclusioni della procura: nessuna colpa, nessun reato da addebitare a nessuno. Né alla direzione del carcere, dove nel giugno 2017 Marco Prato si era infilato la testa in un sacchetto collegato a una bomboletta di gas usate per la cucina nei campeggi, né ai secondini addetti alla sorveglianza, tantomeno a chi lo avrebbe avuto in cura. Eppure per Marco Prato erano giorni particolari. Specie l’ultima notte. L’indomani si sarebbe dovuto presentare in aula per rispondere dell’omicidio di Varani. Avrebbe dovuto affrontare un processo sicuramente travagliato, considerato che a differenza del coimputato non aveva voluto evitare le scorciatoie del rito abbreviato (che poi hanno portato Foffo alla condanna definitiva a 30 anni) e affrontare la Corte di Assise. L’intenzione era quella. Voler spiegare che il giorno della mattanza di Luca, lui c’era in casa di Foffo, ma non aveva usato armi. Che lui non avrebbe mai ucciso. La sua colpa, chissà, forse per lui sarebbe stata quella di non essere riuscito né a fuggire, né a chiedere aiuto, di restare là fino all’ultimo momento fino a quando l’indomani ha salutato l’amico per cercare la morte nell’albergo. Una morte evitata dai carabinieri e da una lavanda gastrica. Per Marco Prato poi col tempo il processo si è trasformato solo in una montagna troppo alta da scalare. La sua fragilità così lo ha portato a fare un passo indietro, un passo definitivo. La sua difesa è stata trovata appallottolata nel cestino del bagno del carcere, non lontano dal corpo. “Non ho partecipato quella notte. Non ho usato le armi”. Una lettera accantonata però, per lasciare spazio invece a una seconda lasciata su un comodino e indirizzata alla famiglia. Una paginetta in cui Prato parla del suicidio come una scelta obbligata per chi sta male (“Non una scappatoia o gesto egoistico, è solo una malattia”, aveva scritto), ma anche come ultima strada per superare il tormento interiore: “La pressione dei media è insopportabile, le menzogne su quella notte e sul mio conto sono insopportabili. Questa vita mi è insopportabile. Perdonatemi”. Milano. Incontro e Presenza, la cooperativa che “restaura” i detenuti di Marco Tedesco ilsussidiario.net, 10 febbraio 2020 Tra i capannoni della zona industriale di Bresso si trova la cooperativa sociale Incontro e Presenza, una realtà nata nel 2018 partendo dalla trentennale esperienza dell’omonima associazione. La cooperativa svolge principalmente attività di sgombero, traslochi e trasporti, nonché di restauro di mobili in legno, ma il vero scopo è quello di sostenere moralmente e materialmente soggetti svantaggiati, in particolare chi ha vissuto o vive l’esperienza detentiva. “È proprio per questo scopo che è partita l’attività di restauro - racconta Pierluigi, l’”anima” della cooperativa, che oggi conta tre soci lavoratori e una decina di volontari: le persone che arrivano in cooperativa ci dicono di aver bisogno di un lavoro, di cibo, di vestiti, di un letto e molto altro, ma conoscendole abbiamo capito che, come tutti, hanno anzitutto bisogno di essere restaurate. Proprio come si fa con un vecchio mobile rugoso e pieno di schegge, che molti butterebbero via, mentre noi lo levighiamo, lo lucidiamo, lo valorizziamo al punto da concedergli nuova vita. E la modalità migliore per sentirsi degni di una seconda possibilità è attraverso la dignità che possono dare solo il lavoro e un’amicizia vera”. Passeggiando per il capannone, ci si imbatte, infatti, in numerosi mobili, sedie, vecchi dischi, soprammobili e tantissimi altri oggetti che per molti hanno rappresentato solo un ricordo di un’età passata, solo una nostalgia ormai da buttare, ma che grazie al lavoro di restauro, oggi si trasformano in strumenti per costruire un futuro migliore. Il furgone bianco, arrivato in luglio grazie all’aiuto di alcuni benefattori, gira per tutta Milano e la Lombardia (ma fa anche puntate in altre regioni) per recuperare, spostare o ritirare letti, quadri, armadi. Il lavoro, svolto sempre in modo professionale, è faticoso, tiene impegnate la testa e le braccia, si arriva a sera che ti manda a letto stanco. “Proprio perché siamo una cooperativa sociale, proprio perché ci interessa principalmente aiutare chi ha bisogno - spiega Pierluigi -, dobbiamo lavorare bene. Se lavori bene, allora impari; se lavori senza passione, esci di qui che sei esattamente povero come prima. Qui siamo come in una famiglia e nessuno deve fare il furbo, perché stiamo facendo una cosa più grande di tutti noi”. La cooperativa non esprime la sua “vocazione per gli ultimi” solo attraverso il lavoro, ma sostiene anche veri e propri progetti sociali. Grazie, infatti, alla convenzione con il Banco Alimentare, Incontro e Presenza è diventata un Banco di solidarietà, attraverso il quale rifornisce di cibo circa 14 famiglie indigenti e consegna presso il carcere di San Vittore - in collaborazione con la Direzione e i volontari dell’omonima associazione - generi alimentari destinati al reparto giovani adulti del carcere. Sempre in San Vittore, poi, la cooperativa consegna periodicamente vestiti usati e prodotti di igiene personale, che vengono raccolti sul territorio e riassettati nel capannone di via Galilei. Ma non si possono dimenticare anche le innumerevoli donazioni di mobili e arredi offerti a famiglie bisognose oppure container riempiti di mobili destinati a comunità e villaggi in altri continenti, appoggiandosi a una rete di rapporti tessuti con altre realtà sociali. Per lo svolgimento di queste attività caritatevoli la cooperativa Presenza e Incontro utilizza i propri dipendenti, pagandoli esattamente come per il lavoro di sgombero o di restauro. “Per noi - sottolinea Pierluigi - non c’è differenza: vogliamo che i nostri dipendenti investano la stessa passione che mettono nel lavoro anche nelle attività di volontariato e che imparino sempre più a lavorare con la stessa carità con cui vestono i carcerati o danno il cibo agli affamati”. La cooperativa Incontro e Presenza non è quindi solo un’occasione di lavoro o un buon fornitore dai prezzi modici, ma una vera e propria risorsa sociale, perché tutto ciò che si guadagna viene poi utilizzato per sostenere chi ha più bisogno. Ferrara. Gli studenti entrano in carcere, faccia a faccia con i detenuti di Giorgio Carnaroli La Nuova Ferrara, 10 febbraio 2020 Dopo aver svolto a scuola l’Unità di apprendimento (Uda) dal titolo “Oltre le sbarre”, gli alunni della 4ª e 5ª A indirizzo sociosanitario del Montalcini di Argenta, hanno visitato la Casa circondariale di Ravenna. Accompagnati dai propri docenti e dalla Presidente Avis Argenta Annamaria Toschi, che ha finanziato in parte tale uscita didattica, i giovani sono stati accolti dalla direttrice Carmela De Lorenzo, dal comandante della polizia penitenziaria il Commissario capo Stefano Cesari e dall’educatrice Daniela Bevilacqua. Un carcere con una settantina di detenuti che scontano la pena in un sistema di celle aperte. Una visita che nasce dopo aver studiato il diritto penitenziario italiano secondo un approccio storico-giuridico, le condizioni igieniche e di vita all’interno delle carceri, gli aspetti psicologici della detenzione ed hanno anche analizzato attraverso il film “Il profeta” di Jaques Audiard, le dinamiche di potere e il nonnismo che sovente si esplicano all’interno delle carceri. Con la visita di venerdì mattina, i giovani hanno potuto constatare con i loro occhi quanto studiato sui banchi di scuola entrando nelle celle dei detenuti, visitando gli spazi sia esterni sia interni del carcere ed hanno concluso la loro giornata con un colloquio con otto di loro, che hanno ricordato il percorso di vita e cosa li ha portati a commettere reati che adesso stanno scontando. Un percorso di responsabilizzazione intrapreso all’interno di un pezzo di società che non dimentica che i detenuti hanno dei diritti e rappresentano il cambiamento che hanno scelto di intraprendere e non l’errore commesso. “I nostri studenti dell’Ipsia - si legge in una nota dei docenti - hanno compreso che esiste una linea di confine chiamata rieducazione, speranza dalla quale ripartire, garantendo ai detenuti un percorso riabilitativo attraverso un progetto educativo individualizzato che stimoli i detenuti a rivedere criticamente le proprie azioni, a capire come possono ricucire gli “strappi” che i loro comportamenti devianti hanno prodotto”. “L’incontro finale con i detenuti - concludono - è stato per gli studenti del Montalcini emozionante e toccante perché hanno scoperto che il tempo della detenzione può essere molto utile per ripartire, riprendere percorsi interrotti, scoprire attitudini e talenti che si erano dimenticati”. - Milano. Carcere e salute mentale. Detenuti e volontari, insieme per capire Il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2020 Detenuti e liberi cittadini, intorno allo stesso tavolo, dentro le mura del carcere per riflettere sulla trasgressione e cercare ciò che ci rende uguali nelle differenze. E il lavoro che da 23 anni fa il Gruppo della trasgressione nella Casa circondariale di San Vittore e nei due Istituti penitenziari di Opera e Bollate, a Milano. In tutto una sessantina di carcerati e una quindicina tra studenti universitari e altri ospiti esterni, guidati dallo psicoterapeuta Angelo Aparo. Al centro del confronto i temi dell’autorità, dei limiti e dell’arroganza: a seconda dell’ambiente in cui si cresce possono diventare una spinta allo sconfinamento verso la crescita personale; o, al contrario, un’illusione di onnipotenza distruttiva. Cos’ha in comune la ragazza che soffre di disturbi alimentari con chi ha rapinato banche? Il bullo con il criminale? Il timido con lo spacciatore? Il Gruppo lo spiega nelle scuole con una serie di progetti di prevenzione alla tossicodipendenza e al bullismo. La pena senza la riabilitazione mentale serve a poco, molto poco. L’intuizione di Aparo andrebbe esportata in tutte le realtà carcerarie italiane. Padova. L’autista che salvò i bimbi: “Io arrestato e poi riabilitato ma nessuno mi dà lavoro” di Enrico Ferro La Repubblica, 10 febbraio 2020 Un anno fa Deniss Panduru, romeno, ebbe un incidente con lo scuolabus e scappò per paura del linciaggio. Ora le indagini lo scagionano, ma la sua vita è rovinata. “Un anno fa la storia viene raccontata così: “Autista romeno dello scuolabus causa un incidente ubriaco e scappa”. È il 17 maggio 2019 quando, due mesi dopo il dirottamento di San Donato Milanese, sui colli padovani di Arquà Petrarca scatta la caccia all’uomo. Deniss Panduru, 51 anni, viene arrestato poco dopo con l’accusa di fuga, lesioni personali colpose plurime e guida in stato di ebbrezza. L’allora ministro Danilo Toninelli ne chiede il licenziamento immediato e viene accontentato dalla Seaf di Este. Nemmeno un anno dopo tutto l’architrave accusatorio cade: nessuna fuga, nessun abbandono di minori, patente restituita e guida in stato di ebbrezza ridimensionata. Le indagini dimostrano che l’autista, dopo l’incidente, fece uscire i dodici bambini dal pulmino ribaltato su un fianco. Nonostante questo la caccia all’uomo, cioè a Deniss Panduru, non si è mai conclusa. “Mi hanno sbattuto in galera per tre giorni senza colpa. E adesso, nonostante l’archiviazione, nessuno più mi dà lavoro”, Deniss Panduru spalanca le braccia e maledice quel giorno. Capelli rasati ai lati e lunghi dietro, orecchino, catena d’oro in mostra sul petto villoso: la sua faccia fece il giro d’Italia. Panduru, archiviata ogni accusa. Davvero non trova un lavoro? “Porto il curriculum con la mia esperienza ventennale ma poi mettono il nome su Google e nessuno richiama. Io non sono un bandito, vi prego: datemi un lavoro”. Secondo lei è per l’incidente? “Per tutti io resto l’autista ubriaco del pulmino ribaltato. Nessuno più mi vuole a lavorare e io ho il mutuo per la casa da pagare”. Cosa successe quel giorno? “Sa qual è il mio unico senso di colpa oggi? Non essermi opposto a chi mi faceva lavorare con un pulmino ridotto in quello stato”. Cosa intende? “Era vecchio e malridotto, più volte mi sono lamentato con il titolare dell’azienda. Perdeva olio dello sterzo, io stesso facevo il rabbocco alla fine di ogni turno”. Dunque l’incidente successe a causa dello sterzo? “Si bloccò all’improvviso, affrontando un tornante”. Lei cosa fece dopo il ribaltamento? “C’erano vetri ovunque, i bambini gridavano spaventati. Chiesi loro se stavano tutti bene. Si fermò un automobilista e mi aiutò a fare uscire tutti, uno a uno, con relativi zaini”. Come le è venuto in mente di scappare? “Abbiamo chiamato i soccorsi e messo tutti in sicurezza. Poi hanno iniziato ad arrivare alcuni genitori. Io ero un po’ in disparte, sentivo frasi irripetibili sul mio conto che si moltiplicavano mano a mano che passavano i minuti. A quel punto decisi che era meglio andar via”. Così però è sembrata una fuga, un’ammissione di colpa. “I bambini erano in salvo. Per questo hanno archiviato il procedimento”. Come sono arrivati all’arresto? “Sono stato fermato due ore dopo, portato in ospedale per le analisi. Pensavo fossero accertamenti normali. Poi, a un certo punto, un carabiniere mi dice: mi dispiace Panduru dobbiamo arrestarti”. L’alcoltest rivelò un tasso alcolico di 0,30. “Prendevo un farmaco per la gola che aveva una base alcolica ma io non ho toccato nemmeno un goccio quel giorno. E comunque, anche se fosse, è prevista una multa, non il carcere”. Come fa ora a mantenersi? “Cerco di arrangiarmi con piccole mansioni di giardinaggio ma nulla di sicuro. Ho due figli da crescere. Vorrei che la gente mi vedesse per quello che sono, non per il mostro che non sono mai stato”. Sotto attacco i difensori dei diritti digitali in tutto il mondo di Arturo Di Corinto La Repubblica, 10 febbraio 2020 Mentre i casi di Assange, Manning e Snowden sono ancora alla ribalta della cronaca, le persecuzioni giudiziarie e gli arresti indiscriminati colpiscono nel silenzio tanti altri attivisti per la privacy e la libertà d’espressione. Eccone alcune storie. Chi si batte in loro difesa. I paladini dei diritti digitali sono sotto attacco. Ad ogni latitudine. Mentre aumentano i casi di persecuzione giudiziaria nei confronti di difensori della privacy e ricercatori di cybersecurity, decine di ONG, attivisti, accademici ed esperti lanciano l’allarme. È lunga la lista delle minacce e degli attacchi di questi ultimi mesi, sia a livello giudiziario che informatico. Adesso le associazioni dicono basta ai lunghi processi nei confronti di Ola Bini in Ecuador, alle indagini e alle misure arbitrarie adottate contro Javier Smaldone in Argentina, a casi come quello di Alaa Abd El-Fattah in Egitto, Ahmed Mansoor negli Emirati Arabi Uniti e di molti altri attivisti digitali, che sono pericolosamente in crescita. Senza contare casi famosi come quelli dei whistleblower Julian Assange, Chelsea Manning, Edward Snowden e Jeremy Hammond che hanno già pagato a caro prezzo le loro denunce. Gli stessi relatori speciali sul diritto alla libertà di opinione e di espressione dell’organizzazione degli Stati americani e delle Nazioni Unite, tra i quali David Kaye, hanno manifestato preoccupazione per la detenzione e il perseguimento di difensori dei diritti digitali fino al caso più recente, quello di Ola Bini. Ola Bini, considerato vicino ad Assange, è stato arrestato lo stesso giorno in cui il fondatore di WikiLeaks ha perduto lo status di rifugiato politico concessogli dall’Ecuador, e non ha ancora avuto un processo. Prima accusato di evasione fiscale, poi di intrusione informatica non autorizzata, ma senza prove, l’udienza, fissata per il 17 febbraio 2020 è slittata al 7 marzo perché, spiega a Repubblica il suo avvocato, Carlos Soria, “il tribunale dice di aver perso il fascicolo che lo riguarda”. Ma la sua vera colpa secondo Amnesty International è di essere un difensore dei diritti umani impegnato a tutelare la privacy dei cittadini. Javier Smaldone, specialista di sicurezza informatica e portavoce della campagna #noalvotoelectrónico è stato indagato per un dataleak relativo alle forze di sicurezza argentine nell’agosto 2019, caso legato a uno precedente del 2017, frutto di “phishing” e noto come “La Gorra Leaks 2.0”. Smaldone è indicato come uno dei “possibili responsabili” della fuga di dati. Sospettato in quanto esperto di cybersecurity ma anche per essersi espresso criticamente sulla vicenda sui social, è stato sottoposto a geolocalizzazione dai suoi fornitori di telefonia, intercettato, spiato da telecamere di sorveglianza piazzate intorno a casa, e ha subito il sequestro dei suoi dispositivi personali e strumenti di lavoro. Non esistono prove a suo carico. Anche il blogger egiziano Alaa Abd El-Fattah, icona della primavera araba del 2011, arrestato, torturato e rilasciato solo dopo cinque anni, è di nuovo sparito. Sarebbe in mano ai servizi segreti egiziani dal 29 settembre con l’accusa di diffondere fake news. Trasferito nel carcere egiziano di massima sicurezza Tora 2, lo avrebbero stato bendato, denudato, picchiato e preso a calci ripetutamente e sottoposto a minacce e abusi verbali. Stessa sorte per Ahmed Mansoor, arbitrariamente detenuto nella prigione di Al Sadir per aver osato twittare contro la violazione dei diritti umani del governo degli Emirati Arabi Uniti. Membro del comitato consultivo di Human Rights Watch, arrestato il 20 marzo 2017 è ancora detenuto senza poter parlare con i suoi avvocati. Il lavoro svolto da questi difensori dei diritti digitali in difesa della privacy e della libertà d’informazione è fondamentale per la protezione dei diritti umani. Il motivo è facile da capire: oggi le informazioni viaggiano in digitale da un capo all’altro del mondo e la sicurezza di dati e informazioni dipende sia dai sistemi informatici che li trattano sia dagli attivisti che sensibilizzano le persone sull’esistenza di vulnerabilità nei sistemi. Azione socialmente utile: quelli che denunciano app, siti e social insicuri consentono sia ai governi che alle imprese private di trovare soluzioni che migliorano la sicurezza delle infrastrutture e del software a beneficio di tutti. Per questo la Electronic Frontier Foundation, Access Now, APC, Human Rights Watch, e altre trenta organizzazioni, in una dichiarazione congiunta nel dicembre scorso all’Internet Governance Forum di Berlino a Berlino hanno voluto rimarcare che il lavoro dei consulenti per la sicurezza di giornalisti, come quello dei programmatori e degli attivisti digitali va considerato di vitale importanza anche per la sicurezza dei giornalisti e degli altri difensori dei diritti umani. Hanno chiesto ufficialmente il riconoscimento del loro lavoro a livello legale, sociale e politico: “I difensori dei diritti digitali dovrebbero anche essere riconosciuti come difensori dei diritti umani. Il loro lavoro e i loro diritti devono essere protetti per garantire lo sviluppo sicuro, trasparente, democratico e sicuro di Internet e delle tecnologie digitali ovunque nel mondo”. Senza il timore di molestie giudiziarie o qualsiasi forma di danno proveniente da stati o governi. E ancora: “Il lavoro dei difensori dei diritti digitali è un esercizio legittimo del diritto alla libertà di espressione e, come tale, deve essere protetto. Respingiamo insieme qualsiasi persecuzione dei difensori dei diritti digitali”. Assange, ammalato e in procinto di essere estradato in America non può che essere d’accordo. Massimo Moratti, vicedirettore di Amnesty International per l’Europa aveva dichiarato che “Le autorità britanniche devono tenere in considerazione il rischio concreto che Assange, una volta estradato, possa subire gravi violazioni dei suoi diritti umani e rispettare l’impegno già assunto di non trasferire Assange in un paese dove potrebbe essere sottoposto a maltrattamenti e torture”. Migranti. Sull’accoglienza i ministri abbiano più coraggio di Mario Morcone Il Riformista, 10 febbraio 2020 Forse incautamente ci eravamo troppo entusiasmati alla notizia di una circolare del Ministero dell’Interno relativa al nuovo schema per la fornitura di beni e servizi per i centri di prima accoglienza dei richiedenti asilo. Ingenuamente avevamo pensato che fosse un modo, magari non formale, per fare un passo in avanti sulla strada del contrasto ai danni, ogni giorno più evidenti, determinati dai cosiddetti decreti Salvini, che decreti sicurezza non sono. Purtroppo, una lettura più meditata ridimensiona la portata dell’intervento e soprattutto delinea spazi possibili di miglioramento che i singoli prefetti sul territorio dovranno avere la capacità e il coraggio di individuare. Offrire maggiori opportunità per un servizio sanitario integrativo era per lo meno doveroso per le tante situazioni di sofferenza vera e bisogno delle persone che arrivano da noi dopo un percorso infernale. Solo chi ha assistito ad uno sbarco, ha visitato un centro di prima accoglienza e ha avuto la generosità di fermarsi un attimo per incontrare i tanti che si muovono tra di noi inseguiti dal pregiudizio e dall’indifferenza, è in grado di valutare e percepire il bisogno. Non credo che la solita cabina di regia messa in piedi per condividere, o meglio per attenuare, le proprie scelte politiche possa essere la strada giusta. Certo, l’aumento dei servizi di sanità complementare, lo stesso aumento del personale di vigilanza e una diversa articolazione dei posti in accoglienza su strutture più a dimensione umana, possono essere strade da percorrere con generosa intraprendenza. Così come la Circolare sembra lasciare aperta la possibilità per i prefetti di variare, in modo positivo, i servizi attualmente previsti nei centri. Ma non tutti, e non lo si può chiedere, sono cavalieri sul cavallo bianco pronti a sfidare il clima plumbeo che ci opprime ormai dal mese di maggio del 2018. E i cani già latrano sui social media e sulla stampa loro amica per intimidire, condizionare, usare ancora una volta gli argomenti dell’egoismo e della paura cercando di farli riemergere in un’ampia fascia di loro elettori. Noi abbiamo definito quest’intervento una vittoria della ragionevolezza perché questo è, a fronte di situazioni che manifestavano ogni giorno problemi di sostenibilità. Ma non saranno soluzioni puntiforme a dare una svolta ad una questione non più rinviabile e che è propria e fondante nei valori di una sinistra riformista. Nessuno chiede avventure o fughe in avanti; nessuno ne fa una questione ideologica nei confronti di tizio, caio o sempronio. Si chiede solo di assumersi la responsabilità di essere fedeli ai propri impegni con un progetto più organico e di lungo respiro. Ampliare la platea di coloro che legittimamente possono far parte della nostra comunità, ripristinare percorsi di integrazione e di inclusione puntando sull’apprendimento della lingua e sulla formazione al lavoro già dalla prima accoglienza, rilanciare i percorsi SPRAR e i rapporti con i Sindaci come best practice di riferimento, sono scelte politiche essenziali che cominciamo ad attendere da troppo tempo. Non ci impicchiamo sulle modalità per cogliere questi obiettivi, mentre iniziano ad emergere segnali di delusione all’interno della nostra collettività che spero il Governo sappia cogliere e interpretare. Un permesso di soggiorno temporaneo da poter concedere, manifestando fiducia verso chi non ha commesso reati e si è inserito positivamente tra di noi ottenendo anche spesso un contratto di lavoro, è una strada che tanti altri paesi - Francia e Germania in testa - hanno da tempo intrapreso. Mettere in campo strumenti perché i minori stranieri possano essere effettivamente una leva di sviluppo in un paese che vede un calo demografico così importante da farne preconizzare un ineluttabile declino, è solo una scelta di buon senso. Si tratta con sapienza di avere un po’ di coraggio intercettando i tanti sentimenti positivi che, nonostante tutto, sono vivi e pulsanti tra i nostri cittadini senza arretrare di fronte al timore di non saper interpretare l’umore profondo della nostra comunità. Speriamo che prima o poi piova. Egitto. Il ricercatore dell’università di Bologna picchiato con i cavi elettrici di Francesco Battistini Corriere della Sera, 10 febbraio 2020 Patrick George Zaki arrestato al Cairo mentre andava a trovare la famiglia. Sette ore di interrogatorio. Oggi l’incontro con avvocati e familiari. La Farnesina segue il caso. “L’agente ha guardato il passaporto e ha informato il superiore. È arrivato l’ufficiale e i due hanno parlato per qualche minuto. Poi Patrick è stato tolto dalla fila e portato in una stanza dell’aeroporto del Cairo”. È entrato in quella saletta, venerdì mattina alle 4, e per ventisette ore Patrick George Zaki, 27 anni, è quasi sparito agli occhi del mondo. Per riapparire sabato pomeriggio a Mansura, 120 chilometri dalla capitale, in un’aula della Procura generale. “Pieno di segni delle botte ricevute”, dice l’avvocato Wael Ghally che l’ha preso in carico: “Ma sono stati attenti. Professionali. Hanno usato cavi elettrici “volanti”, nessuno strumento che lasciasse intravvedere l’utilizzo dell’elettrochoc. Si tratta di vere torture. Cose che in Egitto sono diventate normali, se uno si occupa di diritti e libertà”. Occhi bendati - Quindici giorni in attesa di processo, poi un probabile prolungamento della custodia cautelare, che in Egitto può durare anche due anni. Quel che attende il ricercatore arrestato è solo all’inizio. Il trattamento Regeni era già cominciato e solo il clamore scatenato, forse, ha evitato che la fine fosse la stessa: a dare l’allarme è stato il papà di Patrick, chiamato appena in tempo, poco prima che al fermato venisse sequestrato anche il cellulare. Il ricercatore egiziano, alla sua prima vacanza da quando segue un master all’Alma Mater, partito da Bologna e atterrato per una breve visita alla famiglia che vive a Mansura, “ha mantenuto lucidità e sembra reagire alla situazione - dice l’avvocato - ma la faccenda è molto complicata”. Gli hanno bendato gli occhi, l’hanno portato in macchina in una caserma dei servizi di sicurezza, nella capitale, l’hanno interrogato più volte. Sette ore nelle mani di poliziotti che non fanno sconti, senza poter vedere un avvocato, senza altri contatti. Molte botte. Le accuse - Solo sabato mattina, l’avvocato Ghally e un collega che si occupa di diritti umani hanno potuto incontrare il ragazzo e capire di che cosa fosse accusato. È stato mostrato loro un plico di post Facebook stampati, dove Zaki nei mesi scorsi esprimeva dall’Italia le sue idee sul regime del Faraone, e sono state elencate le violazioni di legge contestate: “1) Incitamento a sovvertire il sistema politico promuovendo pensieri che mirano a cambiare i principi costituzionali; 2) diffondere false notizie intese a minare l’ordine sociale e promuovere il caos, incitando le proteste non autorizzate con l’obbiettivo di indebolire il prestigio dello Stato; 3) gestire e utilizzare un account Facebook con lo scopo di disturbare l’ordine pubblico, mettendo in pericolo la sicurezza della società e dei cittadini…”. Semplici manifestazioni d’opinione: Patrick non ha mai nascosto la sua adesione al think tank dell’Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr) e la sua battaglia per fare chiarezza sul caso Regeni: “Nel 2014 - ricorda un altro legale che si occupa di libertà civili, Khaled Ali - abbiamo collaborato alla campagna elettorale, a sostegno dei candidati dell’opposizione”. In particolare, lo scorso settembre, Zaki sarebbe finito sotto osservazione per alcuni commenti durante le proteste contro Al Sisi. L’udienza - L’aspetto positivo è che il ricercatore non sia stato messo in isolamento, ma condivida la cella con altri, e che abbia potuto ricevere poche ore dopo una prima visita dei familiari, con cibo e vestiti. Le imputazioni non paiono essere ricondotte al terrorismo, almeno al momento. Lo dimostra il fatto che Zaki non sia dovuto comparire davanti a un tribunale speciale, come accade da quando il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi ha introdotto la legge marziale. Ed è testimoniato anche dalla circostanza che il procuratore abbia ammesso i funzionari dell’ambasciata italiana al Cairo ad assistere alle udienze: la prima è fissata per il 22 febbraio. La Farnesina - Il ricercatore dell’università di Bologna “non è un cittadino italiano”, ci tiene a ripetere il ministero dell’Interno egiziano, ma la Farnesina promette che il caso sarà inserito in un “costante monitoraggio processuale” assieme alla delegazione dell’Unione europea: un modo per rendere il più possibile “politica” l’attenzione su quello che l’Egitto vuole liquidare solo come un caso criminale. “Il fatto che sia egiziano permette alle autorità del Cairo di fare quel che vogliono? - si chiede retoricamente il responsabile italiano di Amnesty, Riccardo Noury - Significa che, chi si occupa di diritti, debba ignorare la storia di Patrick?”.