Le sue prigioni di Maurizio Tortorella Panorama, 9 dicembre 2020 Dalle cifre sospette sui contagi da Covid ai silenzi sulle tragiche rivolte di marzo. Così il ministro Giustizia Alfonso Bonafede (non) affronta il problema carceri. Se il titolo non fosse già stato gloriosamente usato 184 anni fa da Silvio Pellico, prima o poi anche il ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, dovrebbe scrivere un libro intitolato “Le mie prigioni”. Quel che da dieci mesi va accadendo al sistema carcerario, del resto, supera ogni immaginazione: è realtà romanzesca. È vero, il ministro grillino ha dovuto gestire la pandemia da Covid-19, un problema inedito e difficile. Ma in Italia non s’era mai visto un caos capace di scatenare rivolte in 50 prigioni, con addirittura 13 morti e danni per decine di milioni. Né s’era vista un’ondata di scarcerazioni scandalosa come quella avvenuta la scorsa primavera, per di più seguita da una contro-ondata di ricarcerazioni così precipitosa e imbarazzante da portare, in maggio, quasi alle dimissioni del ministro. Ora, poi, con il secondo tsunami del virus, il disastro sta assumendo i contorni di un contagio che monta, impetuoso, e torna l’incubo di rivolte e stragi. Il romanzo delle prigioni di Bonafede comincia proprio dagli ultimi dati sui contagi, che sono allarmanti e misteriosi. Dai numeri pubblicati online dal ministero della Giustizia, e aggiornati al 29 novembre, non si sa nemmeno quanti siano i reclusi morti nella seconda ondata: cinque, secondo quanto sostengono le agenzie di stampa. Il ministero scrive solo che su 53.489 detenuti avrebbero contratto il Covid in 897, cioè 1’1,7 per cento, e giura che in 826, cioè il 92 per cento, sarebbero “asintomatici”: 40 starebbero male e verrebbero “gestiti all’interno degli istituti”, mentre 31 sarebbero gravi e ricoverati in ospedale. Dei cosiddetti 826 “asintomatici”, non si sa dove siano stati collocati. Quel che suona più anomalo, però, è proprio che quasi tutti i detenuti positivi siano asintomatici, come se il virus perdesse la sua carica nel momento esatto in cui attraversa le sbarre di un carcere italiano. Gli studi scientifici affermano che l’assenza di febbre, tosse e altri sintomi tipici del Covid riguarda circa un quinto dei contagiati. Possibile che soltanto nelle nostre prigioni la quota balzi al 92 per cento? Il mistero cresce se si guarda al dato dei positivi nella Polizia penitenziaria. Perché su 37.153 agenti, sempre in base ai dati ufficiali, i contagiati sarebbero 932. Sarebbero quindi il 2,5 per cento, una media doppia rispetto ai detenuti. Degli agenti, però, il ministero non specifica quanti siano gli asintomatici: un’omissione strana, visto l’accurato dettaglio riservato invece ai detenuti. Si limita a dire che 898 poliziotti positivi sono “in degenza a casa”, mentre 22 sono “in caserma” e altri 12 sono ricoverati in ospedale. Nessuno osa mettere in dubbio i dati di Bonafede, ci mancherebbe. Così torna alla mente l’improvviso “salto di numeri” già compiuto dal ministro sulla scarcerazione di massa dei detenuti pericolosi. In primavera, quando era emerso che tra gli scarcerati c’erano quattro boss mafiosi, lo scandalo aveva spinto l’opposizione a chiedere le dimissioni del guardasigilli. Il 14 maggio, nella sacralità del Parlamento, Bonafede era stato costretto ad ammettere che l’emergenza Covid aveva spedito a casa ben 498 reclusi. In particolare, aveva dichiarato il ministro, avevano ottenuto la detenzione domiciliare 195 condannati e 303 carcerati in attesa di giudizio. Tre mesi dopo, a fine agosto, Bonafede ha però rettificato quei dati: in primavera la pandemia aveva riportato a casa “solo” 223 reclusi pericolosi, ha spiegato, mentre gli altri 275 erano usciti dalle celle “per cause diverse dal coronavirus”. È stata una sconcertante ammissione di confusione statistica che i giornali hanno generosamente perdonato al ministro. C’è solo da sperare che la stessa confusione non stia contagiando i nuovi dati sul Covid in carcere. In cella, comunque, la situazione resta esplosiva. Né più né meno di quanto lo fosse tra 1’8 e il 9 marzo, quando le scelte sbagliate del ministero avevano scatenato la più violenta rivolta del secolo. Di fronte al crescente numero dei positivi, infatti, a fine febbraio il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria s’era limitato a bloccare permessi, lavoro esterno e visite dei parenti. Compressa nelle celle, dove da troppi anni i detenuti vivono stipati come sardine, la paura inevitabilmente era esplosa. In una cinquantina di penitenziari seimila detenuti erano saliti sulle barricate e nei disordini erano morti in 13, nove dei quali nel devastato carcere di Modena. Oltre 40 agenti erano stati feriti, mentre gli istituti avevano subìto danni per 30-40 milioni di euro. Costretto a parlare in Senato di quei 13 morti, un numero mai visto e sconvolgente che avrebbe costretto alle dimissioni qualsiasi ministro della Giustizia, Bonafede in quei giorni aveva descritto l’accaduto aggrappandosi all’avverbio “perlopiù”: i morti erano perlopiù stranieri, aveva dichiarato, perlopiù tossicodipendenti e perlopiù deceduti per overdose da metadone o da psicofarmaci saccheggiati nelle infermerie. Da allora, sul mistero ministeriale di quei morti (due dei quali italiani) pare stiano indagando cinque procure, ma non se n’è saputo più nulla. Il 24 novembre, invece, la Procura di Roma ha chiesto e ottenuto l’arresto di nove presunti ispiratori della sommossa a Rebibbia: erano già tutti in carcere, ovviamente, e ora ci restano con in più l’accusa di devastazione, saccheggio, sequestro di persona, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Bonafede ha comunque superato un disastro anche peggiore di quello delle rivolte e dei 13 morti. Con la stessa generosità mostrata sui numeri delle scarcerazioni corretti in agosto, i giornali hanno cancellato la ruvida polemica accesa da Nino Di Matteo, il magistrato antimafia palermitano e membro del Consiglio superiore della magistratura, che aveva rimproverato il ministro di non averlo nominato al vertice delle carceri, nel 2018, e di essersi piegato a oscure pressioni. Di Matteo ha anche ventilato una regia mafiosa dietro alle rivolte carcerarie, scatenate per ottenere le scarcerazioni facili. Pronunciata dal pubblico ministero che ha guidato l’inchiesta sulla presunta trattativa fra Stato e Cosa nostra, la sola ipotesi avrebbe dovuto terrorizzare. Invece, nulla è accaduto. Del resto, Bonafede è immune alle critiche. Oggi un altro notissimo magistrato antimafia, il napoletano Catello Maresca, segnala che il decreto Ristori del 28 ottobre potrebbe riaprire la strada alle scarcerazioni. Ma Bonafede e il governo fanno spallucce. Per alleggerire le carceri, il decreto spedisce alla detenzione domiciliare i reclusi meno pericolosi cui restino da scontare meno di 18 mesi: questo vale solo per i reati meno gravi e con l’obbligo del braccialetto elettronico per il controllo a distanza. Per evitare i disastri della scorsa primavera, il decreto vieta che i domiciliari si applichino a detenuti di mafia e indica come calcolare la durata della pena residua, in base ai vari reati. Maresca sostiene però che la norma sia oscura e “farraginosa”, tanto da creare “difficoltà operative e significativi intoppi”. Il magistrato dice che “il divieto dei domiciliari rischia di diventare fittizio, nella pratica quasi mai applicabile”. Per non parlare dei braccialetti elettronici, una delle storiche vergogne dell’amministrazione penitenziaria, visto che dal 2001 a oggi sono costati 200 milioni di euro, eppure non ce ne sono. Maresca segnala che ne siano disponibili 1.200 al mese e segnala, allarmato, che le risorse finanziarie “risulterebbero nulle già alla data del 23 ottobre”. Davvero: per le carceri italiane questi ultimi dieci mesi sono stati un disastro. Non l’avesse già detto il barone di Metternich del diario di Pellico dallo Spielberg, se potrebbe dire siano stati peggio di una battaglia perduta. Domiciliari anti-Covid fino al 31 gennaio, ma resta obbligatorio il braccialetto di Errico Novi Il Dubbio, 9 dicembre 2020 Applicazione del dispositivo di controllo sopra i 6 mesi di pena, anche residua, Cambia qualcosa. Non tutto quanto sarebbe stato auspicabile. In ogni caso i giochi sul Dl Ristori bis, in materia di giustizia e carcere, sembrano fatti. Si consumerà oggi e domani al Senato la maratona in commissione (nella “congiunta” Bilancio e Finanze, per l’esattezza) sugli emendamenti relativi al decreto più “in avanzamento”, tra i vari emanati dal governo. Ci sono notizie interessanti sul processo da remoto che - secondo le modifiche destinate a ottenere l’ok dell’esecutivo - viene esplicitamente escluso in campo penale per la discussione in appello e per l’incidente probatorio. Meno rassicuranti sono le scelte definite dalla maggioranza sulle carceri: c’è, sì, la proroga al 31 gennaio delle misure già in vigore per i domiciliari e i permessi, però manca l’atto di coraggio contro il sovraffollamento atteso non solo da Rita Bernardini, in sciopero della fame, ma anche dagli opinion leader che, guidati da Roberto Saviano, avevano parzialmente aderito alla mobilitazione del Partito radicale: non ci sarà dunque una modifica effettiva delle condizioni per ottenere la detenzione a casa. Neppure l’innalzamento da 6 a 12 mesi del limite di pena anche residua, per il quale è possibile concedere i domiciliari senza l’applicazione del braccialetto. Si trattava di una precisa richiesta del Pd, preoccupato dalle difficoltà nel reperire i dispositivi. Si voleva porre rimedio a un paradosso fra norme e realtà che il Dubbio segnala da settimane. Ma il punto di caduta trovato nella maggioranza è il seguente: per adesso si procede solo con alcuni chiarimenti in materia di permessi e liberazione anticipata, misure che - come specificato da un ulteriore emendamento - potranno essere concesse o per lavoro o per studio; ma riguardo ai domiciliari si è deciso di rivalutare il tutto nelle prossime settimane, alla luce dell’effettiva disponibilità dei dispositivi elettronici. Ecco perché l’avvocatura, e la società civile finalmente sensibile alle garanzie, non potranno che leggere in chiaroscuro le modifiche in arrivo fra oggi e domani per il Ristori bis. L’esame nelle commissioni congiunte di Palazzo Madama prevede priorità assoluta, com’è ovvio, per gli emendamenti relativi agli aiuti economici, core business del decreto. Poi si arriverà agli articoli che vanno dal 23 al 30, in cui ci si occupa di processi e carcere. Materia sulla quale sarà il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis a comunicare il parere definito dal governo. Sull’articolo 23, in materia di processo penale, viene chiarito appunto che non può mai esserci udienza da remoto per l’incidente probatorio e la discussione in appello. Aspetto che secondo l’esecutivo sarebbe in realtà deducibile già dalla formulazione originaria del quinto comma. Il ricorso alla videoconferenza resterà escluso nei casi in cui si deve esaminare una parte, un testimone, un perito, insomma nella formazione della prova. Così come resta rimessa alla volontà delle parti la modalità da remoto nelle udienze preliminari e dibattimentali. Gli emendamenti sul carcere destinati a ottenere il via libera (del governo e dunque della maggioranza) sono a prima firma del capogruppo dem in commissione Giustizia Franco Mirabelli. Quello sulla proroga consentirà ai giudici di sorveglianza di far partire domiciliari e permessi fino al 31 gennaio (in altre parole, dopo quella data le misure non saranno più concesse ma quelle decise, ovviamente, non saranno revocate). Viene inoltre chiarito che ai permessi premio e alla liberazione anticipata si può accedere, come detto, sia per lavoro che per studio. Ma per ora resta in freezer la possibilità di affrancare i domiciliari dall’araba fenice dei braccialetti elettronici. Liberiamo le sbarre dal virus di Annamaria D’Onghia ermesverona.it, 9 dicembre 2020 L’associazione “Nessuno tocchi Caino” è in prima linea contro il sovraffollamento delle carceri durante la pandemia. Il sovraffollamento nelle carceri è un problema che ci portiamo dietro da decenni: non è mai stata presa in seria considerazione una riforma di queste strutture, che si renderebbe invece necessaria per conferire loro dignità e soprattutto per garantire ai carcerati determinati servizi, come ad esempio percorsi riabilitativi per la reintegrazione sociale una volta scontata la pena. In questo momento di pandemia, il sovraffollamento diventa una vera e propria emergenza, perché, in un ambiente così promiscuo, il virus dilaga senza controllo e senza che nessuno lo sappia, visto il silenzio e l’omertà che avvolge il sistema penitenziario. Cosa fare quindi? L’Associazione “Nessuno tocchi Caino”, diretta da Rita Bernardini, propone di ridurre momentaneamente il numero di persone nelle carceri attraverso tre accorgimenti concreti e semplici da applicare. Come prima misura si propone di posticipare l’esecuzione delle sentenze “passate in giudicato”, ovvero già confutate e decise. Questo consentirebbe a chi viene condannato al carcere ora di non essere incarcerato subito, ma al termine dell’emergenza Covid. Questa possibilità viene contemplata solo per i colpevoli di reati che non mettano a rischio la vita di altre persone: un violento verrebbe subito sottoposto a pena detentiva, mentre la carcerazione di un evasore fiscale verrebbe messa in standby fino alla fine della pandemia. In secondo luogo l’associazione propone la liberazione anticipata speciale per quei carcerati che hanno dimostrato buona condotta: per queste persone la possibilità di libertà anticipata passerebbe da 45 a 75 giorni prima della data stabilita dal tribunale. Infine l’associazione sollecita a preferire la detenzione domiciliare per alcune categorie di detenuti che devono espiare una pena non superiore a 24 mesi. Dal 10 novembre, “Nessuno tocchi Caino” è impegnata in un’azione non-violenta di digiuno di 48 ore per denunciare le condizioni di sofferenza determinate dalla problematica del sovraffollamento carcerario in epoca Covid. A questa protesta sono chiamati a partecipare sia cittadini comuni sia carcerati. Come riportato da “La Stampa” ad oggi stanno digiunando per protesta circa 700 carcerati e molti giornalisti e persone importanti si sono fatti portavoce di tale iniziativa, come Sandro Veronesi de Il Corriere della Sera, Roberto Saviano di Repubblica e Luigi Manconi de La Stampa. La presidente Rita Bernardini è in sciopero della fame ormai da 25 giorni. Attenzione però, quella proposta dall’associazione non è una riforma delle carceri permanente, bensì una misura provvisoria per proteggere i carcerati e le guardie carcerarie dal Covid. L’Associazione “Nessuno tocchi Caino” da noi contattata ci ha fornito del materiale sui provvedimenti proposti al Governo al fine di alleggerire le carceri in questo momento di pandemia. Oltre alle informazioni precedentemente riportate, l’associazione ci ha parlato in particolare di un’iniziativa che è stata intrapresa in primavera attraverso una class action carceri, rivolta al carcere di Bari, con proposte e provvedimenti concreti per attuare il distanziamento e la sicurezza dei carcerati. Per quanto riguarda lo sciopero della fame, ci hanno inviato il link per aderire nominalmente a questa protesta non violenta: https://www.partitoradicale.it/carceri-no-al-dilagare-del-covid-19-nelle-carceri-iniziativa-nonviolenta-per-un-intervento-immediato Malati di mente in cella: nelle Rems non c’è posto di Andrea Ossino Il Tempo, 9 dicembre 2020 I numeri delle Rems. Insufficienti le 28 residenze italiane che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Un ragazzo tedesco che ruba una borsa facendo cadere per terra la vittima. E un trentacinquenne libico che a Ostia minaccia e picchia le forze dell’ordine intervenute per calmarlo. Rapina e resistenza. Reati odiosi per cui i due protagonisti delle differenti vicende sarebbero stati condannati, se il Tribunale non li avesse assolti per “vizio totale di mente”. La Corte tra febbraio e aprile 2020 ha infatti disposto che i due imputati venissero trasferiti in una Rems per due anni, uno dei centri nati per garantire alle persone con malattie di mentali l’esecuzione della misura di sicurezza e al tempo stesso l’attivazione di percorsi terapeutico-riabilitativi. Peccato però che i due siano ancora in carcere. Il motivo? Le Rems non hanno abbastanza posti disponibili. E così gli indagati trascorrono le loro giornate in un penitenziario dal momento del loro arresto: ottobre 2018 e aprile 2019. Praticamente stanno finendo di scontare la loro pena in un carcere nonostante siano stati assolti. “La legge 81 stabilisce un limite per la permanenza nelle Rems e i Dipartimenti di salute mentale devono elaborare piani terapeutici ad hoc per ogni recluso”, spiega l’avvocato che li assiste, il penalista Dario Candeloro, sottolineando anche la preoccupazione degli agenti penitenziari che devono prendersi cura dei due “pazienti-detenuti”. I due casi non sono una rarità. Quello della carenza di posti nelle Rems è un fenomeno. Le 28 residenze italiane, i 624 posti, non bastano per ospitare tutte le persone che secondo i Tribunali dovrebbero essere presi in cura da queste strutture. “Voglio ricordare che il Lazio è stata la prima Regione a superare gli ospedali psichiatrici giudiziari aprendo nell’aprile del 2015 la prima Rems femminile a Pontecorvo”, ha da poco affermato l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, ricordando che la Regione ha recentemente aumentato i posti letto arrivando a 111 unità, di cui 95 maschili e 16 femminili. Inizialmente nel Lazio c’erano 91 posti letto nelle Rems, tra Ceccano, Subiaco, Palombara I e Palombara II e gli 11 posti letto di Pontecorvo. I casi avvenuti recentemente a Roma dimostrano che c’è ancora tanta strada da fare. E la problematica si riflette anche sul sovraffollamento e la sicurezza nei penitenziari. Gli effetti del “decreto Ristori” risultano infatti modesti. Se alla fine dello scorso ottobre i detenuti nei penitenziari erano 5.839, al 30 novembre risultano essere 5.810. Tra questi ci sono anche il ragazzo tedesco e il trentacinquenne libico. Persone pericolose che hanno necessitano di cure e che non dovrebbero stare in carcere, ma che trascorrono la loro vita dietro le sbarre. Mai più bambini in carcere, è ora di cambiare tutto di Paolo Siani* immagina.eu, 9 dicembre 2020 Secondo i dati pubblicati dal Ministero della Giustizia, aggiornati al 31 ottobre 2020, nel circuito penitenziario risultano presenti 31 detenute madri con 33 figli al seguito. Di questi, sono 16 le madri e 17 i bambini ristretti nelle sezioni nido delle case circondariali, mentre gli altri risultano collocati all’interno degli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). La presenza di bambini nelle strutture detentive costituisce un gravissimo paradosso del nostro sistema, che compromette la salute psico-fisica degli stessi in un’età decisiva per il loro sviluppo. Da un lato si cerca di riabilitare le mamme e dall’altro si costringono bambini innocenti a vivere i primi anni della loro vita, quelli decisivi per il loro sviluppo, in un carcere. È quindi indispensabile individuare misure volte a consentire la collocazione dei genitori detenuti assieme ai loro bambini al di fuori degli istituti penitenziari, anche quelli a custodia attenuata. Per questo motivo, ho presentato, insieme a molti colleghi della maggioranza e con il sostegno delle associazioni Cittadinanzattiva, A Roma Insieme-Leda Colombini e Terre des Hommes, un emendamento alla legge di bilancio che prevede l’istituzione di un fondo per l’inserimento dei nuclei mamma-bambino all’interno di case famiglia e comunità alloggio mamma-bambino, idonei ad ospitarli. Si tratta di un piccolo fondo nell’ambito della legge di bilancio dello Stato, che non sottrae risorse a nessun’altra attività ma che garantirebbe una vita più adeguata a 33 bambini innocenti. Gli Icam sono stati istituiti nel 2011 grazie alla legge n. 62 per evitare di separare la mamma condannata per un reato non grave dal suo bambino con una età da 0 a 6 anni. Attualmente in Italia sono 5: Torino “Lorusso e Cutugno”, Milano “San Vittore”, Venezia “Giudecca”, Cagliari e Lauro. L’anno scorso, insieme a una delegazione della Commissione Infanzia e Adolescenza sono stato all’Icam di Lauro (Av), che seppur organizzato con dei veri e propri mini appartamenti, con bagno e angolo cottura, sala biblioteca, un soggiorno con la tv e un grande spazio all’aperto con giochi per bambini, resta sempre un luogo molto diverso da un ambiente familiare dove è necessario che cresca un bambino. Molto diversa è la Casa di Leda a Roma, una casa protetta per donne detenute con figli minori che esiste dal 2017 e che pure ho avuto modo di visitare. La Casa di Leda è un elegante villino all’EUR, confiscato a un boss mafioso, con un bel giardino intorno, un grande salone, una stanza con i giochi dei bambini e 5 stanze, tutte dotate di bagno per le mamme recluse. I bambini vanno tutti al nido o alla scuola materna e le mamme si alternano nei lavori di casa. Certamente non sembra un carcere, e i bambini non hanno la sensazione di vivere una vita “strana”: possono giocare in giardino, hanno ampi spazi nella casa per poter giocare e leggere, possono andare a scuola accompagnati dalle loro mamme, non ci sono sorveglianti ma solo educatori e volontari (il commissariato di zona controlla la casa con visite giornaliere). Certo non possono frequentare altri bambini fuori dagli orari di scuola, ma la loro è una vita molto simile a quella di una famiglia normale, non dà la sensazione di essere in un carcere. E tutte le mamme sono ben contente di poter pagare la loro pena in questo tipo di istituto. Ma soprattutto, i bambini sono contenti, equilibrati, molto coccolati dagli operatori e pieni di giochi, libri, pupazzi. Le case famiglia protette rappresentano una misura alternativa alla pena detentiva. Ecco perché un anno ho presentato insieme a tanti colleghi della maggioranza una proposta di legge, che prova a mettere ordine in questo sistema e punta al superamento degli Icam e alla creazione di nuove case famiglia come quella di Leda a Roma. È infatti contraddittorio provare da un lato a recuperare le mamme che hanno commesso un reato e dall’altro condannare i loro bambini a un inizio della vita tutt’altro che favorevole e felice. L’ambiente accogliente e allegro che ho visto nella Casa di Leda deve essere il parametro che deve guidare la rieducazione di queste donne, con uno sguardo attento e premuroso ai loro figli. Ci auguriamo che l’istituzione di un fondo per l’inserimento dei nuclei mamma-bambino all’interno di case famiglia e comunità alloggio sia finalmente l’occasione per restituire la necessaria centralità alla tutela della salute dei piccoli finora detenuti in carcere assieme alle loro madri. *Pediatra e parlamentare italiano “È una detenuta modello: resti dentro fino alla fine” di Stefano Anastasia* Il Riformista, 9 dicembre 2020 Anna ha 28 anni, due bambine di cui si prende cura nella Casa famiglia protetta. Il suo comportamento è ineccepibile. I suoi reati? Roba da poco. Ma il Tribunale le nega l’affidamento in prova ai servizi sociali. Che dire? In fondo alle linee di azione sulla giustizia del Recovery Plan messo a punto dal Governo, buon ultimo (come si conviene al parente povero, che non si può fare a meno di invitare alla cerimonia familiare), compare il classico “favorire l’effettività del sistema penale attraverso il reinserimento sociale dei soggetti in esecuzione penale per il contrasto alla recidiva e la diffusione della cultura della legalità”, espressione buona per tutte le stagioni, che un po’ ammicca alla “buonista” finalità costituzionale della pena, un po’ alla intangibile certezza della pena. Noi che siamo buoni, oltre che “buonisti”, la prendiamo dal verso che più ci aggrada e speriamo che sotto il titolo ci sia dell’altro, tipo progetti per l’adeguamento igienico-sanitario e la digitalizzazione degli istituti di pena o per la realizzazione di luoghi di dimora sociale necessari a ospitare imputati o condannati privi di un domicilio idoneo e solo per ciò costretti ad aspettare in carcere il giudizio o la fine della loro pena. Vedremo. Intanto il sistema penitenziario continua a non funzionare a modo suo. È del 23 ottobre l’ordinanza con cui il Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato l’istanza di affidamento in prova al servizio sociale di una giovane donna di 28 anni (la chiameremo Anna per convenzione), da quasi tre anni in detenzione domiciliare presso la Casa famiglia protetta di Roma (con lei, sono ospiti di Casa di Leda le sue due figlie di 2 e 5 anni), a cui (al momento della decisione e sulla base della liberazione anticipata ancora da riconoscere) restavano da scontare poco più di quattro mesi. Già queste sommarie informazioni dovrebbero scandalizzare chi abbia qualche cognizione del diritto penitenziario e dei principi costituzionali che lo governano. Dunque non è vero che il carcere è una extrema rado e che i condannati meritevoli possono accedere a misure alternative alla detenzione sempre maggiori fino alla definitiva libertà. Se l’affidamento in prova al servizio sociale non si può avere neanche negli ultimi quattro mesi di detenzione dopo un ottimo percorso, è evidente che non si può avere mai. Non a caso l’avvocato che rappresenta Anna non farà ricorso in Cassazione: non ci sarebbe il tempo perché possa essere discusso, verrebbe prima la libertà. I tenebrosi custodi della certezza della pena già staranno storcendo il naso, di fronte a questo mio argomentare chissà che reati ha commesso, questa criminale? Soccorre l’ordinanza di cui sopra: “varie condanne per furto”, cumulate per un totale di anni 4, mesi 1, giorni 8 di reclusione. Non un reato di criminalità organizzata, dunque, né un reato violento: tanti piccoli reati da niente. Dunque l’inflessibilità dell’autorevole collegio non sembra determinata dalla gravità della condanna. C’è da chiedersi, allora, se in questi anni nella Casa famiglia questa donna non ne abbia combinate di tutti i colori, sì da non meritarsi un ulteriore beneficio. Ma naturalmente no (anche perché, sia detto incidentalmente, le sarebbe costato la permanenza in detenzione domiciliare e l’immediato rientro in carcere). Già due anni fa il Commissariato di Polizia competente riferiva “il buon andamento della misura, la positiva partecipazione alle attività all’interno della struttura e la prestazione di adeguate cure materne” alle figlie. Due armi dopo, non ne parliamo: è la stessa ordinanza del Tribunale di sorveglianza a riconoscere che Anna “durante il periodo trascorso in comunità ha avuto un ottimo comportamento, occupandosi assiduamente delle due figlie piccole, rispettando le prescrizioni comunitarie e delle misure alternative concesse”. Non solo: “il suo comportamento è stato vagliato anche durante i numerosi permessi di uscita concessi per poter accompagnare e riprendere le figlie da scuola, nonché per svolgere saltuariamente il lavoro di cameriera” presso un ristorante cittadino. Dunque siamo in presenza di una giovane donna, condannata per reati minori, ospite di una casa famiglia protetta da più di due anni insieme alle sue bambine, con un comportamento encomiabile e una, seppur saltuaria, attività lavorativa, a cui mancano pochi mesi di pena. Ma tutto questo non basta all’inflessibile Tribunale. Tanto per cominciare, l’istanza “non è minimamente supportata da una proposta lavorativa stabile, avendo il titolare del ristorante riferito di aver intenzione di continuare a valersi solo occasionalmente delle prestazioni lavorative” della donna, “e di potersi attivare a farle ottenere in futuro una borsa di lavoro” (che non si capisce se, nell’argomentazione del giudice, questa sia un’aggravante o meno). Non staremo qui a citare la giurisprudenza della Cassazione che considera anche l’impegno nel volontariato sufficiente a supportare un’istanza di affidamento in prova al servizio sociale, ma vien da chiedersi: il giudice relatore ha qualche cognizione di come funzioni il mercato del lavoro nel mondo contemporaneo? Con quante probabilità una “proposta lavorativa stabile” può aspettare una donna in esecuzione penale e con due figlie piccole a carico? Ma nonostante quel denigratorio “minimamente” (l’istanza non è “minimamente supportata da una proposta lavorativa stabile”), il giudice sentiva la gracilità della motivazione perfezionista (ah, se tutti i carcerati avessero una casa dignitosa, una famiglia affettuosa, un lavoro stabile, che bel mondo sarebbe, il nostro!) e non poteva non far ricorso al knock down argument del giudizio prognostico sull’autore di reato: “per quanto evidenziato in merito ai precedenti, tra cui spiccano due condanne per evasione, e alle pendenze, la prevenuta (scrivono cosi, scusate, non è colpa mia, ndr) non appare meritevole della misura dell’affidamento in prova, non potendosi dirsi completamente neutralizzata la sua pericolosità”, invece la detenzione domiciliare “nell’apprezzamento comparativo delle esigenze di retribuzione e risocializzazione” può costituire “misura proporzionata all’entità dell’occorso (sic!) e capace di prevenire i pericoli di recidiva e di fuga”. Che dire? Se la situazione è questa, se l’argomentare è questo, se la migliore esecuzione penale della persona più meritevole (una giovane madre di due bambine) non può dar luogo a un affidamento in prova al servizio sociale per gli ultimi mesi di pena non vi stupite se le timide misure deflattive del Governo per fronteggiare la pandemia in carcere non producono sostanzialmente nulla: 500 detenuti in meno nel primo di due mesi di vigenza; 500 detenuti sui 54mila presenti, sui 50mila posti regolamentari sulla carta, sui 46-47mila posti effettivamente disponibili. “Io speriamo che me la cavo”, come scriveva - tanti anni fa - un alunno del maestro D’Orta, sembra essere la stella polare del sistema penitenziario italiano, e dei malcapitati a cui tocca viverci o lavorarci. *Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria Recovery Giustizia, scivolone sui processi: “Più riti alternativi, ciao furbetti della prescrizione” di Simona Musco Il Dubbio, 9 dicembre 2020 Incredibile stoccata nel documento dell’esecutivo sull’uso delle risorse Ue: “Prima la rinuncia al dibattimento era scoraggiata dalla prospettiva dell’estinzione del reato”. L’obiettivo è ambizioso: accorciare del 40 per cento la durata dei processi civili, del 26 per cento quella dei processi penali, con picchi, rispettivamente, del 49 e del 52 per cento in appello. Tutto con pochi semplici passaggi, contenuti in 11 pagine allegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza, ovvero la bozza dei progetti da presentare all’Europa per ottenere i fondi del Recovery Fund. La giustizia costituisce un capitolo fondamentale. Perché è proprio a causa delle lentezze del sistema che gli investitori decidono di virare altrove. E, soprattutto, perché quello stesso sistema, più volte, è finito nel mirino dell’Europa per le sue storture. Dalla lentezza alla incapacità di rispettare principi che rappresentano un cardine per la nostra stessa giurisdizione, non solo a livello fattuale, ma anche a livello filosofico. Ma la teoria si discosta molto - troppo - dalla pratica. E allora tocca mettere mano alle norme e rivederle. Leggendo il piano presentato dal governo italiano, ciò che emerge è la volontà di smaltire i processi penali non solo con una revisione del codice di procedura e dell’ordinamento, ma anche con un ricorso più efficace ai riti alternativi. Con un giudizio - implicito e molto tra le righe - agli avvocati: se in molti decidono di affrontare un processo e i tempi connessi all’onere della prova è perché hanno fatto affidamento - spessa a buona ragione - sulla prescrizione. La cui cancellazione, dunque, viene rivendicata dal governo come un primo, importante, passo verso l’adeguamento agli standard europei. Il passaggio è delicato quanto chiaro: “Nel nostro sistema - si legge - la scelta di queste forme più rapide di definizione del processo era scoraggiata - soprattutto per i reati sanzionati con pene detentive meno gravi e perciò assoggettati a più brevi termini di prescrizione - dalla prospettiva concreta di fruire “gratuitamente” dell’estinzione del reato per effetto della prescrizione, una prospettiva evidentemente più appetibile degli “sconti di pena” collegati alla scelta dei riti alternativi”. Parole che non necessitano di ulteriori commenti. Partiamo dai dati: i tempi medi di un processo, in Italia, sono di 527 giorni per il civile e di 361 giorni per il penale, contro i rispettivi 233 e 144 giorni di media europea. Numeri che rendono l’idea delle caratteristiche elefantiache del sistema giustizia in Italia. Da qui la necessità di mettere mano alla macchina. Perché la tempestività delle decisioni giudiziarie, scrive il governo, “è elemento essenziale per le imprese, per gli investitori e per i consumatori”. Servono informazioni certe sulle regole, sui rischi, sui tempi. Le cui dilatazioni, secondo uno studio condotto da Cer-Eures, costano all’Italia 2,5 punti Pil, pari a circa 40 miliardi di euro. Ridurre la durata dei processi civili del 50 per cento, dunque, porterebbe ad un accrescimento delle dimensioni medie delle imprese manifatturiere di circa il 10 per cento, 130mila posti di lavoro in più e circa mille euro all’anno di reddito pro- capite. Insomma, quanto una manovra finanziaria. Il piano di riforma si articola in quattro linee, che prevedono una riduzione della durata del processo, la digitalizzazione del sistema, un potenziamento delle strutture materiali e della logistica e il favorimento del reinserimento sociale dei soggetti in esecuzione penale per il contrasto alla recidiva e la diffusione della cultura della legalità. Un punto, questo, fondamentale per l’effettiva coerenza del sistema penale con i dettami della Costituzione. Riforma del processo civile - In campo civile, le parole d’ordine sono semplificazione e razionalizzazione, attraverso la riduzione dei riti e il potenziamento degli strumenti di risoluzione alternativa. Si prevede così il passaggio ad un unico rito, con discussione conclusiva orale e semplificazione anche dell’appello, riducendo i casi in cui la competenza è attribuita al tribunale collegiale. Si punta sull’implementazione del processo telematico, con la previsione che in tutti i procedimenti civili il deposito dei documenti e degli atti avvenga solo con modalità telematiche. Inoltre viene previsto il riconoscimento dell’amministrazione della giustizia quale soggetto danneggiato nei casi di responsabilità aggravata per lite temeraria. Per quanto riguarda la Cassazione, il piano prevede che possano essere assegnati fino a un massimo di 50 magistrati onorari ausiliari, in via temporanea e contingente, alle sezioni tributarie della Corte, “al fine di abbattere l’arretrato endemico”. Riforma dell’ordinamento giudiziario - Le modifiche prevedono l’obbligo di organizzare l’ufficio prevedendo “l’accurata programmazione della trattazione dei giudizi”. Sarà il capo dell’ufficio a controllare il bilanciamento degli incarichi e a “punire” chi non segue le regole. Le Procure saranno organizzate sulla base di criteri di efficienza e di valorizzazione delle competenze, con un periodo minimo di cinque anni di permanenza del magistrato nel ruolo direttivo ricoperto, la razionalizzazione dei meccanismi di avanzamento nella carriera, la riduzione dei tempi di accesso alla professione di magistrato e la riforma del Csm. Riforma del processo penale - Il disegno di legge prevede una progressiva digitalizzazione del processo penale, con il deposito telematico degli atti e dei documenti. Lo scopo della riforma è, però, ridurre il numero di dibattimenti, puntando sui riti alternativi e sul potenziamento dei filtri. Per quanto riguarda il patteggiamento, l’idea è di renderlo accessibile quando la pena detentiva non superi gli otto anni (attualmente sono cinque), mentre si pensa di estendere l’abbreviato a tutti i casi in cui, pur essendo necessaria un’attività di integrazione probatoria, il rito alternativo produce comunque effetti di economia processuale rispetto al giudizio dibattimentale. La riforma prevede anche un aumento dei giudici ausiliari in appello, consentendo il loro impiego anche nei procedimenti penali, l’introduzione di un giudizio monocratico d’appello, per i reati giudicati in primo grado dal giudice monocratico e l’estensione delle ipotesi di inappellabilità delle sentenze. Il difensore potrà appellare la sentenza di primo grado solo se munito di uno specifico mandato ad impugnare, mentre vengono introdotti termini di durata massima delle diverse fasi e dei diversi gradi del processo penale. Risorse umane e materiali per il servizio giustizia - Il disegno di riforma prevede anche investimenti in risorse umane e materiali, con il reclutamento straordinario di personale per la gestione e lo smaltimento dell’arretrato. In campo civile, tra primo, secondo e terzo grado, le pendenze sono pari a 2.348.611 processi, 1.439.138 nel penale. L’idea è rafforzare l’ufficio del processo, con tirocinanti e magistrati onorari, l’innesto di 11mila addetti all’ufficio del processo negli uffici giudiziari, mille magistrati onorari aggregati, negli uffici più in difficoltà, l’assunzione a tempo pieno e per tre anni di personale amministrativo in grado di rispondere al considerevole (e straordinario) carico di lavoro che grava sugli uffici giudiziari. Ma non solo: è previsto anche “un importante consolidamento dell’infrastruttura informatica” e la digitalizzare tutti gli atti dei procedimenti civili e dei procedimenti per l’equa riparazione. La giustizia nel Recovery Plan. L’arretrato verrà smaltito da pensionati e precari di Giulia Merlo Il Domani, 9 dicembre 2020 La bozza di piano per le riforme da finanziare con il Recovery fund prevede anche un capitolo sulla giustizia. Considerata una “riforma di sistema” - come indicata anche tra le raccomandazioni specifiche per l’Italia dell’Unione europea, che vigilerà sui risultati - il piano prende in considerazione soprattutto la questione della tempestività delle decisioni. Per tamponare il problema dell’eccessiva durata dei processi però, il governo ha scelto una strada tutt’altro che di sistema: puntare sui precari della giustizia. Secondo lo European judicial systems Cepej evaluation report, i tempi medi dei processi civili di primo grado in Italia sono di 527 giorni contro una media europea di 233; i tempi medi dei processi penali di primo grado sono di 361 giorni contro 144. Questo gap si traduce, secondo uno studio del Cer-Eures, in 2,5 punti di Pil: circa 40 miliardi di euro. Per provare a colmarlo, vengono indicati i provvedimenti già in esame del parlamento e che secondo la bozza dovrebbero essere approvati entro giugno 2021 (con approvazione dei decreti delegati entro il 2022): riforma del processo civile e relativa semplificazione delle fasi del processo; riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm; riforma del processo penale con potenziamento dei filtri e nuova disciplina dei riti alternativi. Nulla di nuovo, dunque. Il capitolo veramente nuovo riguarda le risorse umane e materiali per la giustizia, che dovrebbero servire ad azzerare le pendenze, che a dicembre 2019 erano di 2 milioni e 400 mila procedimenti civili e 1 milione e 400 mila procedimenti penali. Secondo il disegno del governo, per sgravare il carico dei magistrati ordinari dovranno intervenire le cosiddette “figure di supporto all’attività giurisdizionale”. Tradotto: “Addetti, tirocinanti e magistrati onorari aggregati all’ufficio del processo”. A loro si aggiungerà un aumento del numero dei giudici ausiliari in appello, che potranno essere impiegati anche nei procedimenti penali. I precari della giustizia In sostanza, il personale che dovrebbe intervenire sulle pendenze sarà composto dai precari della giustizia e in particolare dai magistrati onorari, gli stessi che in questi giorni sono in stato di agitazione contro il ministero. La bozza, infatti, parla di un “innesto straordinario” di mille magistrati onorari per la durata di tre anni, prorogabile per altri tre, che dovrebbero andare a lavorare nell’ufficio del processo dei soli uffici giudiziari maggiormente gravati da arretrati significativi nel settore civile. Il loro compito dovrebbe essere quello di collaborare con il magistrato togato nella adozione della decisione e nella stesura della sentenza. I magistrati onorari, tuttavia, hanno proclamato uno sciopero ad oltranza sia a Milano che a Palermo, perché di fatto considerati lavoratori autonomi a cottimo: vengono pagati a sentenza e a udienza, senza alcuna garanzia previdenziale e pensionistica, nonostante sentenza della Corte di giustizia dell’unione europea gli riconosca lo status di giudici europei e quindi con il diritto ad essere considerati dipendenti. Proprio a loro, precari da oltre vent’anni - quando la magistratura onoraria venne istituita proprio come strumento straordinario per smaltire l’arretrato e poi rinnovata di proroga in proroga - dovrebbero diventare ancora una volta l’innesto temporaneo per alleggerire il sistema. Accanto a loro, dovrebbe aumentare anche il numero di tirocinanti, ovvero laureati che affiancano i magistrati a fini formativi senza alcuna retribuzione (salvo, a determinate condizioni, un rimborso spese massimo di 400 euro). Nel settore penale, invece, è previsto il reclutamento di altri giudici ausiliari in appello. Questa figura, individuata per concorso, è stata istituita nel 2013: si tratta di magistrati ordinari, contabili ed amministrativi e gli avvocati dello Stato, a riposo da non più di tre anni, i magistrati onorari che non esercitino più; professori di materie giuridiche, avvocati e notai anche se cancellati dall’albo da non più di tre anni. Anche l’istituzione di questa figura, tuttavia, ha mostrato lacune legislative e dubbi di legittimità, soprattutto relativi all’inquadramento contrattuale e al ruolo rispetto ai togati. Nonostante i fondi del Recovery, il governo punta a rimettere in sesto la giustizia con interventi di sistema come digitalizzazione e riforma del processo, ma sulle spalle soprattutto dei precari della giustizia assunti a tempo determinato. Nasce l’Alleanza di Bonafede contro la corruzione. Una task-force con il gotha della giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 9 dicembre 2020 “L’emergenza della pandemia sarà accompagnata da un ingente sostegno finanziario dello Stato e delle istituzioni dell’Unione europea” e va perciò impedita “la dispersione e l’accaparramento criminale di queste risorse”. È l’obiettivo con cui il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha presentato ieri in un video postato su Facebook la “Alleanza contro la corruzione”. Il guardasigilli la propone come “una grande consultazione pubblica di esperti di diversa provenienza” istituita per “fare il punto sull’assetto messo in campo dal nostro Paese nella prevenzione e nel contrasto alla corruzione”. L’iniziativa è assunta in coincidenza con la “Giornata per la lotta alla corruzione” proclamata per oggi a livello internazionale. A far parte dell’”Alleanza” ci sono alcuni tra i nomi di più alto rilievo della giustizia, tutti coinvolti nel Comitato scientifico dell’iniziativa: dai massimi vertici della Cassazione Pietro Curzio e Giovanni Salvi al presidente della Scuola superiore della magistratura Giorgio Lattanzi, dal vicepresidente del Csm David Ermini al capo di Gabinetto del ministero di via Arenula Raffaele Piccirillo, dalla presidente del Cnf Maria Masi fino a figure dal grande impatto simbolico, quando si parla di contrasto della corruzione, come Piercamillo Davigo, oltre al procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho e naturalmente al nuovo capo dell’Anac Giuseppe Busia. Bonafede ha firmato lunedì il decreto costitutivo della Alleanza. Peraltro non mancano obiezioni dall’interno della stessa coalizione di governo. “Anche il ministro Bonafede crea una task force” ma “il compito che dovrebbe assolvere è già svolto dall’Autorità nazionale anticorruzione creata da Renzi”, dicono la capogruppo di Italia viva nella commissione Giustizia di Montecitorio Lucia Annibali e il vicepresidente dei senatori renziani Giuseppe Cucca. È evidente che sono giorni in cui la sintonia nella maggioranza latita alquanto e non può certo fare eccezione una materia sensibile qual è la giustizia. Nella “Giornata internazionale contro la corruzione”, peraltro, molte delle figure coinvolte nella task force di Bonafede interverranno al convegno intitolato “Il virus della legalità”, organizzato dalla Fondazione De Sanctis e in programma via streaming dalle 11 alle 15 di oggi, con l’introduzione affidata al presidente dell’Autorità garante dei detenuti Mauro Palma. Bonafede: task-force anti corruzione sui fondi del Recovery. Ma Italia Viva protesta di Liana Milella La Repubblica, 9 dicembre 2020 Mentre il governo è nella tempesta sulla governance per l’uso dei soldi in arrivo dall’Europa, il ministro della Giustizia lancia una maxi commissione che battezza “Alleanza contro la corruzione” in cui figurano nomi noti come Visco, Davigo, Cafiero De Raho, Patroni Griffi, i vertici della Cassazione Curzio e Savi, Ermini, l’ex ministro Severino. Lui, il Guardasigilli Alfonso Bonafede, la battezza “Alleanza contro la corruzione”. Una mega commissione di esperti al lavoro sui fondi del Recovery fund. Ma la sola idea fa protestare subito Italia viva che con Gennaro Migliore boccia l’iniziativa e dice: “C’è già l’Anac, non serve altro”. Anche se proprio il presidente dell’Anac Giuseppe Busia fa parte del gruppo. Sale sulle ferite, insomma. Nel governo c’è il terremoto sui 196 miliardi di euro del Recovery al punto da far saltare il consiglio dei ministri previsto per oggi e Bonafede già si preoccupa dei possibili utilizzi distorti e soprattutto delle mafie in agguato. Tant’è che “per impedire la dispersione e l’accaparramento criminale” già firma un decreto per lanciare quella che battezza come “una grande consultazione pubblica di esperti di diversa provenienza professionale e di varia estrazione disciplinare, con l’intento di fare il punto sull’assetto messo in campo dal nostro Paese nei settori della prevenzione e del contrasto alla corruzione”. Insomma, Bonafede vuole verificare se, rispetto all’iniezione di fondi così cospicui nella nostra economia, ai quali si potrebbero aggiungere anche quelli del Mes, ci sono già gli strumenti legislativi adeguati per individuare e colpire le eventuali e future distorsioni. Bonafede è sempre il ministro della legge Spazza-corrotti che, nel dicembre del 2018, ha introdotto il Daspo, cioè il divieto a vita di contrattare con la pubblica amministrazione e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per chi si macchia dei reati di peculato, concussione, corruzione propria e impropria, l’induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione degli incaricati di pubblico servizio. Ma con la Spazza-corrotti entrano in vigore anche le intercettazioni tramite la microspia Trojan inoculata nei cellulari, gli agenti sotto copertura, nonché le norme sulla trasparenza dei fondi ai partiti. Quindi parliamo di un ministro che ha una particolare sensibilità sul tema. Per cui se arrivano molti soldi pubblici le sue antenne si drizzano e vede subito la necessità di alzare la guardia dei controlli preventivi. Ma la sua maggioranza, evidentemente, non ha la sua stessa sensibilità o non condivide i suoi metodi. Tant’è che Migliore di Iv, appena esce la notizia, entra subito in polemica e dice che è sufficiente l’azione dell’Anac, l’Autorità Anticorruzione rilanciata nel 2014 dall’ex premier Matteo Renzi, per 5 anni presieduta da Raffaele Cantone con indubbi risultati positivi e di immagine anche all’estero, dove si diffonde il “modello Italia”, oggi presieduta, con molte polemiche al momento della scelta, da Giuseppe Busia, ex direttore del Garante della privacy. E tuttora con un componente in meno perché il Csm non ha ancora dato il via libera al fuori ruolo di Luca Forteleoni, ex componente dello stesso Csm, finito nel mirino delle polemiche perché al momento dell’elezione al Consiglio nel 2014 fu sponsorizzato con degli sms da Cosimo Maria Ferri, guru di Magistratura indipendente che era ed è la sua corrente. Nei fatti oggi l’Anac gode complessivamente di un minore appeal, quantomeno mediatico. E comunque, secondo Bonafede, quella struttura evidentemente non basta. Nel momento in cui si immettono nell’economia italiana fondi così consistenti, serve un parterre di pareri e di sensibilità più ampio. Tant’è che al tavolo di questa nuova “Alleanza contro la corruzione” si dovranno raccogliere figure note del mondo politico, accademico, della magistratura, dell’Avvocatura, dell’economia. Ecco il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, il vice presidente del Csm David Ermini, lo stesso Busia dell’Anac, il presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, che proprio da ministro della Pubblica amministrazione nel 2012, con l’ex Guardasigilli Paola Severino, anche lei nell’elenco di Bonafede, ha lavorato al varo della legge Severino contro la corruzione. Ma l’elenco di Bonafede è molto lungo. Al primo posto figura l’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, oggi presidente della Scuola superiore della magistratura, ma soprattutto fine giurista ed ex presidente della prima sezione penale della Cassazione, al vertice delle Sezioni unite, da cui arrivano le più importanti pronunce che orientano il diritto italiano soprattutto nell’applicazione delle nuove leggi. Sempre dalla Suprema corte vengono coinvolti l’attuale presidente Pietro Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi. Poi il presidente della Corte dei Conti Guido Carlino, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Federico Cafiero De Raho, l’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo, il capo di gabinetto di via Arenula Raffaele Piccirillo, che per anni è stato il capo della delegazione italiana presso il Greco, il Gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa. Nell’elenco di Bonafede figurano anche Maria Masi, la presidente in carica del Consiglio Nazionale Forense, Marco D’Alberti, professore ordinario di diritto amministrativo alla Sapienza, Francesco Palazzo e Gabrio Forti, docenti rispettivamente a Firenze e Milano. L’obiettivo è nelle parole stesse di Bonafede quando dice che vuole lanciare “una grande consultazione per fare il punto sull’assetto messo in campo dal nostro Paese nei settori della prevenzione e del contrasto alla corruzione dalla legge Severino in poi, nella consapevolezza che partiamo da una normativa validissima riconosciuta anche a livello internazionale”. Aggiunge che nessuno sarà pagato per questo, ma la consultazione è del tutto gratuita. “Chi fa il giudice deve essere irreprensibile anche nel privato” di Giulia Merlo Il Domani, 9 dicembre 2020 Intervista al neoeletto presidente dell’Associazione nazionale magistrati, la toga progressista di Area Giuseppe Santalucia. Dopo settimane di stallo e veti tra le correnti, soprattutto sul nome del presidente, l’Associazione nazionale magistrati ha eletto al suo vertice Giuseppe Santalucia. Storica toga del gruppo progressista di Area, ha avuto la fiducia di quattro correnti - Area, Magistratura indipendente, Autonomia e Indipendenza e Unicost - su cinque e dovrà guidare il sindacato delle toghe all’indomani della tempesta del caso Palamara. Sono serviti 50 giorni per dare un presidente all’Associazione nazionale magistrati: un segnale che mostra come la crisi di sistema non è ancora alle spalle. Come mai questo travaglio? Non si può prescindere dal fatto che il rinnovo dell’associazione e degli organismi è arrivato all’indomani di un periodo difficile, interessato da azioni disciplinari come quella nei confronti di Luca Palamara, ma anche da scontri e dissensi interni. Nessuno di noi ha dimenticato cosa è successo, per questo trovare l’unità, perché questo è stato l’obiettivo di tutti, e una giunta più unitaria possibile ha richiesto del tempo. Però posso dirle che il risultato era ambizioso ed è stato raggiunto: trovare un’unità effettiva e non di facciata. La crisi ha prodotto unità? In un certo senso. La crisi ha agito su due piani: da un alto ha reso più accidentato il percorso della stesura di un programma unitario, ma dall’altro ha reso tutti più determinati in questo proposito. Si è agito nella ricerca di un comune obiettivo di unità sulle cose da fare presto e bene, e poi sul nome del Presidente la scelta, per me in modo inaspettato, è caduta su di me, fatto che mi lusinga. L’unica corrente che le ha votato contro, Articolo 101, ha scritto che con la sua nomina “le correnti sono unite, i magistrati no”... Con rispetto per i colleghi, la trovo una semplificazione sbagliata, perché traspone nel nostro mondo, con superficialità di approccio, modelli che non ci appartengono. La giunta non gestisce né denaro né potere, non ci sono accordi di gruppi a danno della magistratura ed esiste piena identificazione tra magistratura e associazione. Pensare ad accordi di gruppi dirigenti che non rispecchino le sensibilità della magistratura mi sembra, oltre che fuori fuoco, anche poco rispettoso del lavoro di chi si è messo al servizio dell’associazione. Il tema centrale per questa Anm è la “questione morale”. Cosa significa? La “questione morale” si individua nella perdita di credibilità che la magistratura soffre ogni qualvolta emergono comportamenti non in linea con ciò che ci si attende dai magistrati. Un magistrato, che deve essere espressione di autonomia e indipendenza quando è sul suo scranno, se si lascia andare a comportamenti discutibili crea un problema, perché rende tutta la magistratura non credibile agli occhi della comunità. Far sentenze e comportamenti extra ufficio non possono essere scissi. L’Anm come agirà? Il giudice penale e il giudice disciplinare si occupano delle condotte più gravi, appunto illecite. Ma al di sotto di quelle soglie molto alte esistono comportamenti che ugualmente appannano l’immagine della categoria, anche se non sono sanzionabili. In questo spazio, che è quello della deontologia, l’attore principale è l’Anm, il cui codice etico è parametro a cui tutti gli associati devono conformarsi. L’idea quasi ascetica della magistratura cozza con l’immagine che ne è uscita negli ultimi mesi... Si sbaglia, non c’è alcun accento sacrale in quello che sto dicendo. I magistrati non sono sacerdoti ma esseri umani e, laicamente, l’Anm agirà per far rispettare un principio: i magistrati, per esercitare i loro alti compiti, non possono tenere comportamenti poco commendevoli. Il tutto è emerso a causa del processo Palamara, che ha svelato il cosiddetto sistema delle correnti. Le correnti sono un problema? Le correnti in magistratura avranno vita fino a quando avranno e sapranno dimostrare la loro ragion d’essere, quindi fino a quando saranno espressione di punti di vista sul modo di essere magistrato e sui rapporti con la politica e la società. Alcune teorizzano un magistrato silenzioso e votato all’aspetto tecnico, altre vedono nella tecnica una cifra politica che non può essere compressa. In quest’ottica, le correnti sono la nostra ricchezza, su cui si fonda la mediazione forza culturale dell’Anm. Le correnti, però hanno mostrato anche il loro volto più deteriore... Tutti noi ne conosciamo le degenerazioni. Il punto, però, non è non buttare a mare anche la ricchezza del loro apporto, ma evitare che le correnti degenerino in altro: in gruppi di interesse che tentano di influenzare la gestione del potere. Questo volto è emerso anche a causa delle intercettazioni attraverso il Trojan installato nel cellulare di Palamara. Lei, che è stato il padre tecnico della riforma delle intercettazioni quando lavorava nell’Ufficio legislativo del ministro Orlando, che giudizio dà dell’utilizzo dello strumento? Prescindendo totalmente dalla vicenda giudiziaria in corso, in generale io credo che sia necessario stare molto attenti quando si usano strumenti particolarmente invasivi. Le intercettazioni lo sono e vanno usate solo quando sono indispensabili; i Trojan, essendo ancora più invasivi, hanno bisogno di una indispensabilità ancora più rafforzata. Il legislatore ha esso mette in mano alla magistratura strumenti di particolare incidenza per fare efficacemente indagini, ma vanno usati con sapienza. Come il bisturi in mano al medico: è un ottimo ausilio, ma va usato con cautela. Quella cautela per me è la proiezione della professionalità dei magistrati, i quali devono sempre tener presente che stanno usando strumenti potenzialmente offensivi di diritti fondamentali che possono offendere i diritti, anche quando fanno giustizia. Si riferisce alla pubblicazione delle intercettazioni? Non va mai trascurata la tutela delle persone coinvolte nei procedimenti giudiziari. La riforma ha avuto come obiettivo la tutela del diritto alla riservatezza anche degli indagati, su cui non vanno caricate ulteriori afflizioni dovute a pubblicazione indebite. Attenzione: io sono convinto che la stampa debba sapere, perché è una forma di controllo sull’operato dei poteri, ma non valicando il limite del lecito. Il processo è una macchina che costruisce sapere, che deve essere messo a disposizione della società: ma va veicolato il sapere elaborato nel processo, non quello grezzo della fase precedente. Tornando ai temi su cui l’Anm dovrà esprimersi, il più divisivo e meno trattato nel suo programma è la riforma del Csm e all’ipotesi del sorteggio per sceglierne i membri... Si sbaglia, il programma non è vago ma prevede, come chiesto anche dagli eletti di Articolo 101, l’apertura a una discussione senza pregiudiziali. Io credo che non ci siano argomenti indiscutibili e creare tabù sia un modo per ingigantire i problemi. Lei, però, è contrario al sorteggio, anche temperato... Io sono fortemente contrario ed è la mia posizione personale e anche quella di Area. Però non mi sottraggo alla discussione e anzi l’Anm offrirà a breve un suo contributo al dibattito, perché la riforma intanto sta proseguendo in commissione Giustizia. Cosa non la convince? Sarebbe il modo per evitare dinamiche elettorali distorte... Io vorrei un Csm attrezzato a svolgere il suo ruolo di governo autonomo della magistratura e non capisco come il caso, a cui si affida col sorteggio, possa venire in aiuto. I magistrati hanno a volte l’idea sbagliata di saper fare tutto e non è così: un magistrato può essere eccezionalmente bravo nel suo lavoro, ma l’amministrazione della giurisdizione è altra cosa. Anche il rapporto tra l’Anm e il Csm andrà regolato, in particolare la pratica di passare da un ruolo all’altro? L’assemblea si è già espressa per la modifica allo statuto e per il regime delle incompatibilità. Io la ritengo una cosa utile: l’associazione è un servizio che sottrae tempo e fatica, che va fatto con generosità anche perché deve essere libero dalla ricerca di vantaggi personali. L’Anm non può essere usata per acquisire crediti personali in vista di vantaggiosi incarichi per i singoli. Se questo spirito di servizio si è perso per strada, credo che una norma sia utile a richiamarlo alla mente. Lei rimarrà in carica per i prossimi 4 anni oppure ci sarà un rinnovamento delle cariche come è stato per la giunta precedente? Non ci sono stati accordi in merito. Data però la pesantezza del compito che sto assumendo, non vedo con sfavore una rotazione. Anzi, visto che l’impegno è gravoso, credo sia una cosa positiva se qualcuno per strada riceverà il testimone. Allargando lo sguardo al resto della giurisdizione, ora i rapporti con l’avvocatura e soprattutto coi penalisti sono tesi. È un dialogo che cercherà, quello con gli avvocati? Io credo che sia indispensabile farlo, perché è impensabile ragionare sul processo senza gli avvocati. Questo momento di crisi deve coinvolgere tutti nel dibattito: avvocati, magistrati e accademia. Se io ho un obiettivo, è quello di coinvolgere tutte le intelligenze e all’avvocatura io ho da chiedere non solo un dialogo, ma un aiuto concreto. Su cosa in particolare? Il problema più impellente è la gestione dei processi in fase di pandemia. Appena mi insedierò organizzativamente, è mia intenzione cercare di avere un dialogo stretto con l’avvocatura, in modo da cercare posizioni comuni da portare al ministro. Il Guardasigilli non deve avere il problema di temere di accontentare gli uni e scontentare gli altri: la volontà di rendere efficiente il processo e tutelare le garanzie è comune. Non viviamo su fronti contrapposti e sarà mio impegno dimostrarlo. Intanto in parlamento procedono le riforme della giustizia sia civile che penale. È fiducioso? L’Anm rafforzerà le sue commissioni di studio che hanno già attenzionato i disegni di legge. Forniremo alla politica il nostro punto di osservazione che è di eccezionale importanza, senza invasioni di campo ma con la volontà di dare un contributo di idee ed esperienze. Vigileremo sui lavori, interverremo anche in modo critico, ma sempre con la volontà di costruire. Eppure questo sembra il periodo peggiore per le grandi riforme di sistema... I tempi delle grandi riforme monumentali non sono i nostri, non mi aspetto dalla politica di questo periodo la riscrittura dei codici in termini rivoluzionari, per cui occorrerebbero altre condizioni politiche. Il processo penale è un cantiere aperto da anni, ma non è detto che sia un male: noi magistrati in quel cantiere lavoriamo e lavoreremo, con l’obiettivo di risolvere più criticità possibili. Dovremo accontentarci dei piccoli passi, ma con l’obiettivo di arrivare lontano. “Alzare un muro contro tutte le degenerazioni: la vera prova per l’Anm” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 9 dicembre 2020 “Il ruolo dell’Anm? Credo sia quello di intervenire fornendo un contributo tecnico nella elaborazione delle riforme legislative, con particolare riguardo a quelle che investono direttamente l’ordinamento giudiziario. Inutile negare, però, che all’interno della magistratura ci sono sensibilità diverse sul suo ruolo e sul suo possibile raggio d’azione. È mia opinione che ci si debba attenere ai compiti che lo statuto attribuisce all’associazione, dando forte impulso all’azione di tutela degli interessi morali ed economici dei magistrati. Aggiungo che la sintesi programmatica tra i gruppi associativi è stata, per preciso impegno comune, proprio in tal senso”. Salvatore Casciaro, consigliere presso la sezione lavoro della Corte d’appello di Roma ed esponente di Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, è il nuovo segretario generale dell’Anm. Questa è la sua prima intervista. Consigliere, perché è stato così difficile trovare un accordo fra i vari gruppi? Un problema di nomi o di programma? Un problema di programma: occorreva intendersi su come declinare un progetto di rinnovamento reale per restituire all’associazionismo giudiziario il suo senso più autentico. Ed è quello che abbiamo fatto. Era ragionevole, una volta delineato un progetto di cambiamento, che se ne facesse poi interprete una nuova giunta esecutiva. Perché avete deciso di non ripetere l’esperienza della “rotazione” dei vertici associativi? L’argomento non è stato affrontato perché ci si è concentrati nello sforzo di sintesi delle diverse linee programmatiche. Ciò non significa, comunque, che nel suo percorso l’esecutivo dell’Anm, che riflette le diverse sensibilità associative, debba restare immutato nell’attuale assetto. Articolo 101, il gruppo “anti-correnti”, ha deciso di rimanere fuori. Cosa pensa? Ho grande rispetto per la lista 101, che ha deciso autonomamente di restare fuori dall’esecutivo dell’Anm. Auspicherei che le loro istanze fossero veicolate nel segno non della contrapposizione frontale, ma del dialogo costruttivo. I gruppi associativi restano, al di là dei fenomeni di degenerazione su cui occorre drasticamente intervenire, una grande risorsa con il loro contributo di storia, di idee e valori. Il caso “Palamara” ha rappresentato un colpo severo all’immagine della magistratura. Il pg della Cassazione ha escluso profili disciplinari per i magistrati che si “autopromuovevano”. Come vi comporterete per quanto concerne gli aspetti deontologici? La perdita di immagine non è stata solo esterna e nei riguardi dei cittadini, ma anche interna. Mi spiego: molti colleghi si sono allontanati dalla vita associativa, che invece è un ambito di confronto e una forma di crescita umana e professionale di grande significato. Oltre all’attività di analisi dei profili deontologici di competenza dei probiviri, sarà fondamentale la capacità di dimostrare, in tempi brevi, la reattività dell’associazione nell’individuare le linee di contrasto affinché il fenomeno del correntismo possa essere efficacemente avversato. Questo sarà il primo “banco di prova” per l’Anm: il rinnovamento dovrà essere percepito all’esterno fin dalle prime iniziative. Covid e giustizia: la pandemia ha messo in luce tutte le criticità del sistema. Si pensi all’iniziale impossibilità per il personale amministrativo di lavorare da remoto. Da giudice che opinione ha? Abbiamo scontato in questi lunghi mesi di emergenza sanitaria difficoltà organizzative in parte inevitabili. La capacità di adattamento delle amministrazioni pubbliche sconta lentezze, talvolta originate da assetti regolamentari o procedimentali che meriterebbero di essere semplificati. Uno dei paradossi è consistito, con l’ingresso del “lavoro agile” per il personale amministrativo, nell’impossibilità a cui lei accennava di accedere “da remoto” ai servizi di cancelleria. Ma le cose stanno cambiando, almeno su tale aspetto. Grande impegno è stato profuso dai dirigenti degli uffici giudiziari che hanno stilato protocolli con enti e aziende sanitarie locali, costituendo “unità di crisi” per fronteggiare le situazioni di emergenza, riducendo le ricadute sull’amministrazione della giustizia. Servirebbe un protocollo nazionale per assicurare un omogeneo grado minimo di protezione dal rischio epidemico ed evitare differenti tutele. Al guardasigilli, che ha mostrato disponibilità, abbiamo presentato una serie di richieste per rendere più sicura la celebrazione dei processi, e ciò a salvaguardia della salute degli operatori della giustizia e dell’utenza. Può fare un esempio? Mi sembra francamente poco coerente con le esigenze di funzionalità del processo e di tutela della salute pubblica prevedere, nel penale, il compimento di attività processuali”da remoto” nella fase di indagine e non consentirlo in termini altrettanto ampi, nonostante il consenso del difensore dell’imputato, nella fase del giudizio. Come vede la possibilità di sanzioni disciplinari per giudici e pm che non rispettano la durata preordinata delle fasi processuali? Sono “norme manifesto” inutili se non controproducenti, vengono percepite come vessatorie per coloro, e sono tanti, che lavorano senza risparmiarsi per dare un servizio di qualità ai cittadini. I tempi del processo sono all’evidenza legati ai carichi di lavoro. Se non si incide sui carichi, non ha senso fissare aprioristicamente i tempi che potrebbero andare bene in un contesto geografico in cui la mole di lavoro è inferiore, ma sarebbero improponibili ad altre latitudini con carichi ben più pesanti. I processi, comunque, in Italia durano tanto... Il potere politico è chiamato a una profonda riflessione sulla durata ragionevole del processo e sulle doverose iniziative di riforma per velocizzare la macchina della giustizia. C’è ad esempio un disegno di legge delega per la riforma del processo civile, presentato nel lontano 2014 dall’ex ministro Andrea Orlando con la finalità di contenere i tempi dei giudizi, che non ha mai visto concludere il proprio percorso parlamentare. Finora non si è fatto abbastanza su questo fronte. Un cattivo pagatore potrebbe avere convenienza ad affrontare il processo, all’esito del quale sarà costretto a saldare il debito scaduto anni prima, ma con interessi ben inferiori a quelli praticati dal sistema creditizio. Occorre riflettere sulla funzionalità del processo e individuare i giusti rimedi, specie ai fenomeni di abuso del processo. L’Anm non farà mancare, su tale versante, il proprio contributo propositivo. Nella riforma del processo penale all’esame della Camera per la riduzione del carico processuale è previsto l’innalzamento da 5 a 8 anni del limite di pena massimo per il patteggiamento. Contestualmente, però, si vuole allargare il numero dei reati per i quali l’acceso al patteggiamento è precluso. C’è spazio per un’azione congiunta di magistratura e avvocatura in modo che si recuperi l’impostazione condivisa da Anm e Ucpi al tavolo di Bonafede, impostazione decisamente più coraggiosa, sui riti speciali? Sarebbe importante un’azione congiunta di magistratura e avvocatura. Nel campo delle riforme del processo penale, e non solo con riferimento alle misure alternative al dibattimento, la magistratura associata e l’avvocatura devono dialogare fra loro e fornire ogni contributo tecnico e di esperienza all’azione del governo; è importante ricercare un dialogo costruttivo che, nel rispetto dei diversi ruoli, miri a restituire piena funzionalità al processo penale. Sulla giustizia, però, la maggioranza oscilla fra la linea “restrittiva” del M5s e quella “garantista” di Italia viva. Ciò determina ritardi in tema di riforme. Il ruolo della magistratura e dell’avvocatura diventa a questo punto quanto mai fondamentale... Come ho già detto, l’ascolto del punto di vista dell’altro, l’attenzione per le opinioni diverse dalla propria e la disponibilità a cambiare prospettiva, sono i presupposti ineliminabili, unitamente a un sano pragmatismo, per costruire buone riforme nell’interesse del Paese. Dall’immunità alla sottomissione: la politica sotto scacco del potere giudiziario di Alberto Cisterna Il Riformista, 9 dicembre 2020 Mai come in questi giorni la sanità calabra e quella lombarda sono apparse così vicine e tanto simili. Due pezzi d’Italia, per decenni collocati all’opposto, hanno alzato bandiera bianca rispetto alla paura di inchieste. La lettera del presidente Fontana alla Procura della Repubblica di Milano ha suscitato un certo scalpore. Il capo del vecchio Pirellone ha preso carta e penna e ha riferito ai Pm la situazione di stallo che si sarebbe creata nella macchina burocratica regionale che si deve occupare dell’acquisto dei vaccini antiinfluenzali da distribuire alla popolazione. Una decisione che, a seconda della sensibilità di ciascuno, è stata stigmatizzata con sarcasmo oppure cestinata come patetica. Una lettera che, invero, potrebbe anche essere intesa come l’estremo gesto di resa di un uomo politico finito al centro di un grave marasma mediatico e giudiziario che ne ha, obiettivamente, compromesso l’immagine e gli ha creato intorno un certo vuoto di cui si avvertono le grevi avvisaglie. L’avesse scritta Fontana di suo pugno quella lettera in un momento di sconforto ci sarebbe stato poco da discutere. Il fatto che rechi, stando ai resoconti, la mano del suo staff legale la colloca in una prospettiva che merita qualche parola in più. Che avveduti professionisti abbiano potuto sollecitare il proprio assistito a questo gesto, impone un’attenzione che non può essere affondata nello sberleffo o nella derisione. Il presidente di una delle più importanti regioni d’Italia - messo alle strette dai grand commis che occupano i suoi assessorati sulla legittimità di un acquisto a trattativa privata di considerevoli quantità di vaccini dall’unico fornitore disponibile - non ha alzato la scure e non ha rimosso i riottosi dalle loro scrivanie, né li ha mandati sotto processo per omissione di atti d’ufficio, ma ha chiesto alla Procura della Repubblica come comportarsi e quali iniziative adottare. Sia chiaro, se quanto è trapelato corrisponde a verità, è del tutto probabile che i Pm lombardi procedano a carico di qualcuno o per aver illecitamente istigato un dirigente a commettere un reato o per aver questo dirigente rifiutato di compiere un’attività imposta da impellenti ragioni di sanità pubblica. In mezzo, a dire la verità e a occhio e croce, non c’è altro. O quasi. Perché in mezzo c’è che si è consumata un’altra puntata della storia istituzionale e politica di questo nazione. Senza troppe forzature, ma si deve pur dire che mai come in questi giorni la sanità calabra e quella lombarda sono apparse così vicine e tanto simili. Mai due pezzi d’Italia così diversi, per decenni collocati all’opposto di una ideale scala delle virtù amministrative e civiche, hanno alzato insieme bandiera bianca di fronte alla minaccia di indagini e denunce. In Calabria un generale dei carabinieri, dimessosi a furor di popolo, aveva fatto vanto delle proprie interlocuzioni con i pubblici ministeri e aveva eretto questa relazione a tratto distintivo e qualificante del suo approccio allo sfascio sanitario della regione. In Lombardia, collocata dalla catastrofe pandemica al primo posto al mondo nel rapporto morti/popolazione, la macchina della prevenzione vaccinale si ferma di fronte allo sbriciolarsi delle responsabilità gestionali e invoca l’ombrello protettivo della magistratura. In Calabria, dopo giorni imbarazzanti alla ricerca di un commissario straordinario, un poliziotto di grande esperienza è tornato a riprendere le rime di un discorso interrotto dalla defenestrazione di Cotticelli. In Lombardia un sospetto immobilismo amministrativo, alimentato dalla paura di inchieste, fa chinare il capo al presidente della Regione che, cappello in mano, invoca chiarimenti dal palazzo di giustizia. In entrambi i casi la preoccupazione che agita la politica di questa fine di decennio sembra quella di avere una magistratura non ostile, se non addirittura amica, di guadagnarne l’assenso per non restare impelagata in avvisi di garanzia e perquisizioni. Una condizione che, onestamente, non ha eguali al mondo. L’esposizione del corpo infermo del potere politico e amministrativo, con le sue mutilazioni e le sue purulenze, è alla fine plateale, senza pudori. Non si cercano più canali paralleli e riservati di interlocuzione - quelli che sono sempre esistiti al coperto di incontri, cene, cooptazioni, frequentazioni - tra pezzi delle toghe e settori della politica, ma ci si consegna interamente alla ritenuta sovranità giudiziaria con gesti di sottomissione che, a ben guardare, hanno imbarazzato persino chi li ha ricevuti. Situazione complessa e da cui è difficile venir fuori, soprattutto quando si tocca con mano l’esasperazione sociale di quanti pagano il prezzo doloroso del contagio e quando spira sempre più forte un vento di rancore che si tenta invano di placare con promesse di denaro a pioggia. La falce giudiziaria rischia, così, di essere percepita come una rude scorciatoia. Se non si va alle urne, se non ci si può sbarazzare degli incompetenti, poco importa, tanto il popolo esprime il proprio volere per mano dei suoi giudici, irrogando pene mediatiche, se possibile, molto più efficaci e disonorevoli del carcere. Ecco che ai potenti urge avere un salvacondotto che la mera legittimazione democratica, il solo voto apposto sulle schede non può più dare. L’indagine penale si atteggia - e non per colpa delle toghe il più delle volte - come la nuova urna, come il nuovo registro discorsivo che - senza fastidiose scadenze prefissate e senza che sia convocato alcun comizio elettorale - esprime e concretizza, ora e subito, la sfiducia popolare, la sua reale e immediata volontà, purtroppo irretita dai tempi troppo lunghi e ormai insufficienti dei cicli di elezione. Ciò che conta è che trovi sfogo l’urgenza del risentimento e la brama del contrappasso. Ecco che si profila il pericolo di costruire una oclocrazia mediatica in cui la potestà politica, democraticamente scelta, viene continuamente messa all’angolo dalla propria paura di indagini e perquisizioni e finisce per abdicare alle proprie prerogative a vantaggio di un incontrollato sacerdozio delle manette che possa dispensarle protezione. Così dopo circa 30 anni all’immunità parlamentare, allo scudo processuale dalla Costituzione del 1947 e piegato dai colpi di Tangentopoli, si viene a sostituire lo schermo della sottomissione. La captatio benevolentiae della casta egemone per mitigare il pericolo delle inchieste. Anche quando si discute della salute dei cittadini in Lombardia o della irrinunciabile metamorfosi della sanità nel malato pianeta di Calabria. Occhio, però, che “non si porta la libertà sulla punta delle baionette”. Parole celebrate ovunque, ma foriere di inganni, non fosse altro perché a pronunciarle è stato Maximilien Robespierre che ai fucili, da uomo di legge, preferiva la ghigliottina. Campania. Iniziativa AIB: donare libri ai reparti pediatrici, alle carceri e alle case-famiglia comunicocaserta.it, 9 dicembre 2020 Le mille difficoltà registrate a causa del momento di emergenza sanitaria hanno segnato lo stop del comparto della produzione e della promozione in ambito culturale. Gli operatori del settore, soprattutto il Natale alle porte, non vogliono far mancare la loro presenza attraverso iniziative di solidarietà. L’AIB Associazione Italiana Biblioteche - sezione Campania perseguendo la sua mission a favore della promozione e valorizzazione della lettura, lancia l’iniziativa “Parole in circolazione. LiberiAmo la cultura”, promossa in collaborazione con AIE (Associazione Italiana Editori), ALI (Associazione Librai Italiani), Mezzocannone8 - Polo della Cultura di Napoli e con il sostegno del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Campania, nella persona del dott. Samuele Ciambriello. L’iniziativa culturale vuole evidenziare il valore sociale ed inclusivo della lettura, grazie ad una gara di solidarietà a cui partecipano non solo i booklovers, ma anche le biblioteche, gli editori, i librai e gli autori con lo scopo di regalare libri ai reparti pediatrici degli ospedali campani, alle biblioteche carcerarie, alle case-famiglia e ai centri sociali. Sarà possibile sostenere l’iniziativa a partire dal giorno 10 dicembre 2020 fino al 10 febbraio 2021 acquistando presso i punti vendita delle librerie aderenti uno o più libri da lasciare in donazione al rivenditore. Chi sceglierà di mettere le “parole in circolazione” avrà inoltre l’occasione di scrivere una propria dedica sul libro scelto da destinare ad un “lettore sospeso”. AIB Campania attiverà anche percorsi di animazione alla lettura nei centri beneficiari delle donazioni. L’idea è di mettere in campo una politica rivolta alle biblioteche sociali azionando strategie per ottimizzare i servizi all’inclusione e promuovere la cultura come bene comune. Cuore del progetto è la rete di solidarietà e collaborazione tra istituzioni pubbliche e private. Infatti, “Parole in circolazione. LiberiAmo la cultura” è un’iniziativa aperta anche alle aziende e alle scuole di ogni ordine e grado, che potranno richiedere la propria adesione scrivendo all’indirizzo di posta elettronica: campania@aib.it Caltanissetta. Isolato in una cella sporca perché positivo. “Sputava sangue” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 dicembre 2020 È l’unico positivo al Covid 19 nel carcere di Caltanissetta, classificato dal recente report del Dap come asintomatico, mentre in realtà - secondo la testimonianza dei familiari che l’hanno visto in videochiamata - presenterebbe problemi respiratori e sputerebbe addirittura sangue. È in isolamento sanitario dentro una cella che presenta scarse condizioni igieniche, un vero e proprio tugurio come Il Dubbio ha potuto visionare tramite gli screenshot allegati alla denuncia che i familiari hanno presentato ai carabinieri. Si chiama Francesco Faranda, 41enne, in attesa di giudizio definitivo. È risultato affetto da covid 19 dal 2 dicembre scorso e, da allora - come si legge nell’istanza per i domiciliari ospedalieri presentata dal suo avvocato Ernesto Pino - “posto in isolamento in cella igienicamente inadeguata e - a detta dei familiari che lo sentono quasi giornalmente in video chiamata - non munito dei necessari conforti sanitari”. Non solo. Come detto, dopo averlo visto tramite un video colloquio svolto lunedì scorso, i familiari riferiscono - si legge sempre nell’istanza - “che presentava manifesti problemi respiratori e che perdeva sangue”. L’avvocato Ernesto Pino, contattato da Il Dubbio, denuncia di aver inviato ben due pec alla direzione del carcere nisseno per essere notiziato in maniera particolareggiata sulle condizioni di salute del recluso, una il 3 e l’altra il 4 dicembre. Ma senza alcuna risposta. La moglie di Faranda, a quel punto, si è recata al comando locale dei carabinieri e ha fatto denuncia, evidenziando il fatto che, nonostante i sintomi, il comandante della struttura penitenziaria le avrebbe detto che il marito, a suo parere, poteva permanere all’interno della cella di isolamento sanitario. Tutto tace, nessuna risposta alle pec dell’avvocato. “A quel punto - spiega il legale a Il Dubbio -, si è recato in carcere un mio collega assieme ai parenti del detenuto. Dopo una ritrosia iniziale e solo dopo aver fatto il nome del detenuto e detto che le pec sono rimaste inevase, è uscito fuori un agente penitenziario, spiegando che il medico ha fatto da poco una visita constatando che il detenuto sta bene”. L’avvocato prosegue nel racconto: “L’agente ha mostrato una certificazione medica, senza però rilasciare una copia, facendo vedere nero su bianco che non ha febbre e che ha la saturazione del 95%. Ma tale valore - sottolinea sempre l’avvocato - indica comunque una condizione di parziale assenza di ossigeno, quindi è al limite”. Da una parte c’è la testimonianza dei familiari che in videochiamata hanno visto il proprio caro apparire sofferente e con grossa difficoltà a respirare, tanto da sputare sangue; mentre dall’altra c’è un certificato medico che attesterebbe che il recluso si trova in discrete condizioni. Resta sullo sfondo una cella di isolamento con un evidente degrado igienico, dove secondo i familiari sarebbe tenuto al freddo e senza i suoi effetti personali. Reggio Emilia. Spazi inadeguati e difficoltà per i detenuti con patologie psichiche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 dicembre 2020 La visita del collegio del Garante. Problemi nell’articolazione psichiatrica dell’istituto penitenziario di Reggio Emilia. Assenza di spazi adeguati e con un difficoltoso percorso trattamentale nei confronti dei detenuti con patologie psichiche. Dopo aver parlato dell’Istituto di Parma - che ha una sua evidente complessità non solo perché comprende una Casa di reclusione e una circondariale, ma anche perché la stessa reclusione si articola in una pluralità di circuiti diversi, con spesso situazioni di incompatibilità tra di loro e la complessità sanitaria del centro clinico interno -, ora è la volta dell’istituto di Reggio Emilia. Parliamo sempre della visita del Garante nazionale in Emilia- Romagna che ha riguardato la parte occidentale della regione. La delegazione - composta dall’intero collegio del Garante (Mauro Palma, presidente, e Daniela de Robert ed Emilia Rossi, componenti) e da sei membri dell’Ufficio - ha visitato diversi luoghi di privazione della libertà: dagli Istituti penitenziari, alla Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), alle camere di sicurezza delle varie forze di Polizia, inclusi i cosiddetti “locali idonei” introdotti dal “Decreto Sicurezza 2018” delle Questure, alle Residenze sanitarie assistenziali per persone anziane o con disabilità (Rsa e Rsd). Una visita senza dubbio complessa e articolata del territorio di Parma, Reggio Emilia e, parzialmente, Piacenza. Come ha descritto il Garante, anche il penitenziario di Reggio Emilia è caratterizzato da un numero elevato di circuiti detentivi che rende molto complessa la sua gestione. Difficile la situazione della Articolazione per la tutela della salute mentale (Atsm), un reparto con un numero molto elevato di posti (46) in assenza di spazi adeguati. “A rendere ancora più critica la situazione - scrive l’autorità del Garante Nazionale - è la forte presenza di persone provenienti da fuori regione (16 attualmente) per le quali diventa molto problematica la presa in carico da parte del territorio di appartenenza”. Il Garante osserva che parliamo di un percorso di contenimento e armonizzazione del disagio mentale svincolato da una effettiva presa in carico territoriale centrata su una possibile connessione con la realtà esterna. Tale percorso rischia, infatti, di essere “del tutto teorico e di configurarsi come forma di internamento: la provenienza da diversi contesti regionali e la conseguente rescissione di ogni relazione con essi evidenzia tale rischio”. Complessivamente, tuttavia, l’Istituto sembra indirizzato verso un nuovo inizio, attento alle esigenze trattamentali, lavorative e di connessione forte con il territorio, come da tempo si sentiva l’esigenza. Altra visita riguarda la Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Casale di Mezzani, la quale è una struttura provvisoria, operante dal 2015, con dieci posti, tutti attualmente occupati. “L’attenzione all’inserimento dei pazienti in un percorso terapeutico continuativo è senz’altro uno degli aspetti positivi e certamente dovrà essere conservato anche quando la Rems sarà realizzata, come previsto da tempo, nella sua nuova sede regionale, più ampia e meno omogenea territorialmente”, osserva sempre il Garante. Molta attenzione è stata rivolta anche alle camere di sicurezza delle diverse forze di Polizia: dei Carabinieri, della Polizia di Stato e, nel caso di Reggio Emilia, della Polizia locale. In questo contesto il Garante ha visitato, tra l’altro, anche il Comando provinciale dei Carabinieri di Piacenza e la stazione Levante, in fase di ristrutturazione e attualmente appoggiata presso la caserma dei Carabinieri della Forestale. Per i particolari toccherà aspettare quando la relazione completa sarà pubblicata sul sito del Garante Nazionale delle persone private della libertà. Nel frattempo, come da prassi, sarà Il Dap a chiarire e prendere in considerazioni le osservazioni del Garante. Cuneo. Emergenza Covid in carcere, arriva “Medici senza frontiere” di Lorenzo Boratto La Stampa, 9 dicembre 2020 L’associazione internazionale su invito del Garante dei detenuti monitorerà la situazione nella casa circondariale di Saluzzo dove 23 agenti e 4 reclusi sono risultati positivi. Nel carcere di Saluzzo ci sono 23 agenti e 4 detenuti positivi al Covid: circa la metà di tutti i casi registrati in questa seconda ondata nei 4 penitenziari della Granda, che ospitano 788 detenuti. I dati risalgono a fine novembre, quando vennero eseguiti 2.645 tamponi nelle 12 carceri del Piemonte. Una larga parte è stata fatta proprio in provincia: 1.118 in tutto, scoprendo altri due detenuti positivi al Covid al Cerialdo di Cuneo, mentre i positivi tra i dipendenti sono in tutto 45, su 449 addetti del Cuneese. Oltre ai 23 agenti del “Morandi” ci sono anche colleghi positivi a Cuneo (12), Alba (5) e Fossano (4 agenti e un operatore). Il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, ha analizzato la situazione Covid nelle carceri cuneesi. Spiega: “Negli istituti penali della provincia si è fatto il 42% dei tamponi di tutto il Piemonte, ma i detenuti positivi sono solo 6 su 788. Le scelte fatte dalle Asl Cn1 e Cn2 e dalle direzioni di carcere sono state lungimiranti”. E ha elogiato lo screening fatto a tappeto. Le carceri cuneesi sono occupate in media all’85%, mentre l’unico che supera la capienza è Alba, che è anche il più piccolo: ha riaperto solo in parte dopo un caso di legionella alcuni anni fa e ospita 43 detenuti, non i 33 previsti come capienza massima. Per Mellano la situazione tra gli operatori è “meno felice: nel Cuneese è stato effettuato il 24% dei test messi in campo a livello regionale, con una percentuale di esiti positivi del 10%: 45 positivi, di cui 44 agenti di polizia penitenziaria. La lezione impartita dalla prima ondata, che aveva fatto registrare un significativo numero di contagi soprattutto a Saluzzo (con Torino e Alessandria), ha lasciato in eredità una certa prudenza, che ora non deve lasciare spazio al rilassamento. Proprio per questa esperienza, su richiesta dei garanti, il carcere di Saluzzo è rientrato in un progetto di monitoraggio dell’associazione internazionale Medici senza frontiere: ha elaborato un documento di analisi e di procedure di gestione dell’emergenza Covid in carcere”. Il garante ha poi voluto ricordate che nelle carceri sono fondamentali “adeguati spazi di quarantena e isolamento, possibili solo in istituti non sovraffollati”. Nei giorni scorsi inoltre Mellano aveva voluto lanciare un allarme, dopo che Giorgio Leggieri era stato promosso da direttore di Cuneo (e reggente ad Aosta) alla casa di reclusione Bollate di Milano. “Per il Piemonte si tratta di una perdita che va ad aggravare una situazione già difficile, con 7 direttori operativi per 14 Istituti piemontesi (più Aosta)” dice Mellano. In provincia Giuseppina Piscioneri gestisce Alba e Saluzzo, mentre Assuntina Di Rienzo è direttore a Fossano e vice a Torino. L’ultimo concorso per dirigenti risale al ‘97 e per avere nuovi direttori passeranno altri due anni. “Situazione obiettivamente insostenibile” conclude il garante che ha segnalato il problema anche al presidente della Regione Alberto Cirio. Tempio Pausania. Covid, tribunale chiuso per quarantena di Tiziana Simula La Nuova Sardegna, 9 dicembre 2020 Giudici e personale in isolamento dopo la positività del presidente Magliulo. Le urgenze garantite da magistrati di Sassari. Tutti in quarantena, magistrati e personale amministrativo, nessuno può uscire di casa. Men che meno presentarsi negli uffici giudiziari. Il Covid blocca il tribunale e congela l’attività giudiziaria in Gallura, di fatto sospesa per una settimana. Saranno garantite solo le urgenze - convalide di arresti e direttissime - attraverso l’applicazione di cinque giudici e relativo personale amministrativo in servizio nel tribunale di Sassari. La quarantena per tutto il personale che opera nel palazzo di giustizia di Tempio è scattata dopo la positività al Covid 19 del presidente Giuseppe Magliulo. Era stato lui stesso a far sapere di essere risultato positivo in un lungo post pubblicato sul suo profilo Facebook nella tarda serata di sabato. Il servizio igiene e sanità pubblica dell’Ats domenica sera ha comunicato che tutto il personale di magistratura e quello amministrativo veniva messo in quarantena e tutti, ovviamente, saranno sottoposti al tampone naso-faringeo molecolare. Il tampone verrà fatto venerdì prossimo. I risultati dovrebbero arrivare entro domenica. Per l’intera settimana, quindi, l’attività giudiziaria programmata, ovvero i processi già fissati, anche con imputati detenuti, salterà, non essendoci al lavoro né giudici, né cancellieri, né personale. Saranno garantite solo le urgenze grazie all’applicazione di giudici del tribunale di Sassari, così come disposto dalla presidente della Corte d’appello di Cagliari facente funzioni Maria Mura su richiesta di Magliulo. Scattata la quarantena per tutto il personale, il presidente ha immediatamente informato la procura generale e la Corte d’appello della situazione di stallo del tribunale tempiese. “Ho comunicato l’impossibilità a celebrare le udienze - spiega Magliulo che, benché in congedo per Covid e sotto terapia, sta continuando a occuparsi dell’ufficio - Ci sono servizi essenziali che devono essere garantiti come le direttissime e le convalide degli arresti”. La risposta è arrivata presto. Dal 7 al 12 dicembre convalide e direttissime si terranno nel tribunale di Sassari e saranno celebrate da cinque giudici in servizio in quel tribunale. I processi già fissati e quelli con detenuti saranno rinviati non appena sarà possibile accedere nel tribunale di Tempio. Le urgenze del settore civile saranno gestite da remoto dai giudici in quarantena. Ovviamente il tribunale dovrà essere sottoposto a sanificazione. E anche qui, spunta un problema. Quello dei soldi. Il tribunale non li ha e neppure il Comune di Tempio, interessato dallo stesso Magliulo. Per tre volte la sanificazione è stata fatta e pagata dalla Provincia. Chi si accollerà le spese questa volta? Torino. Per la febbre del gioco assaltò 7 banche: è vittima della ludopatia e torna in libertà di Massimiliano Nerozzi Corriere della Sera, 9 dicembre 2020 Ha 57 anni e il Tribunale di Sorveglianza gli ha concesso l’opportunità di smetterla con le scommesse e di riprendersi in mano la vita dopo un anno di prigione. Diventato rapinatore di banche per dare la caccia ai soldi che poi si divorava con il gioco d’azzardo, a 57 anni si trova davanti all’ultima puntata della vita, quella che pochi giorni fa gli è stata offerta dal tribunale di sorveglianza di Torino: smetterla con le slot e le sale scommesse - guarire dalla ludopatia, insomma - e riprendersi in mano l’esistenza, e la famiglia, dopo un anno di prigione. “Sono pentito di quel che ho fatto, ora voglio solo curarmi e riscattarmi”, si limita a dire lui, nato e cresciuto in città. Accogliendo la richiesta del suo difensore, l’avvocato Pasqualino Ciricosta, i giudici gli hanno infatti concesso la misura alternativa della detenzione domiciliare per esigenze sanitarie. Abiterà con compagna e figlio, lavorerà nel suo banchetto di generi alimentari e seguirà le cure del dipartimento dipendenze dell’Asl. Les jeux sont faits, rien ne va plus: altri giochetti non saranno tollerati. Tutto ha inizio con il gioco d’azzardo, mica con il crimine, perché il protagonista di questa storia non ha “l’educazione di una canaglia”, come direbbe Edward Bunker, e neppure i precedenti. Coltiva però la passione del giocatore, con quell’ossessione che la fa presto sconfinare nel vizio e, poi, nella patologia. Slot, videolottery, sale scommesse, ogni puntata è buona per buttar via quattrini. Che, come spesso capita in tante famiglie, all’improvviso non bastano più. Se poi incroci le compagnie sbagliate, è un attimo diventare rapinatore, ma di quelli seri: che vanno in trasferta con la banda, si camuffano con berretto da baseball e occhiali da sole, saltano il bancone e si portano via migliaia di euro. Tra il novembre 2014 e l’aprile 2015 succede sei volte, in sei istituti di credito diversi, tutti sulla riviera toscana. La settima, invece, finisce male, come nei film di Hollywood: un poliziotto sveglio sorprende il palo, indossa la sua parrucca, e quando i complici saltano in macchina, li arresta. Morale: condanna a 4 anni di reclusione, per rapina, tentata e consumata, contraffazione di targhe e violazione della legge sulle armi. E va pure di lusso, per il rito abbreviato e perché, alla fine, la corte d’Appello di Genova riconosce la radice del problema e concede, appunto, un’ulteriore riduzione di pena: “Essendo egli affetto da una severa forma di ludopatia all’epoca di commissione dei reati”. Osservazione che viene ripresa anche dal tribunale di sorveglianza: “Sotto il profilo sanitario, il soggetto ha sofferto di una grave forma di ludopatia, che lo ha indotto a commettere i reati” la cui pena sta espiando. Sulla diagnosi, fatta dall’Asl già nel dicembre 2012, non ci sono dubbi: “Gioco d’azzardo patologico, alcol sporadico e depressione”. L’uomo era rimasto in cura fino al marzo successivo, quando “aveva interrotto sua sponte il percorso”. Imboccando la strada sbagliata: “Aveva assunto un atteggiamento di chiusura e di negazione”, annotò il medico curante. Si può però riprovare, argomentano i giudici: “Ricorrono i presupposti per l’accoglimento della domanda, vista l’assoluta necessità di prescrivere al condannato di riprendere quanto prima il programma riabilitativo interrotto”. Va da sé, lasciando perdere il gioco d’azzardo. Per il quale, viene in mente la battuta del cervellone elettronico di un film cult dei primi anni Ottanta, Wargames, messo di fronte all’infantile giochino del tris: “L’unica mossa vincente, è quella di non giocare”. Milano. Manifestazione fuori da San Vittore: “Manca la sanità, liberare i carcerati” milanotoday.it, 9 dicembre 2020 Sabato presidio fuori da San Vittore a Milano. Riesplode il caso coronavirus per le carceri. Come nove mesi fa, con gli stessi problemi, con le stesse richieste. Si torna a fare bollente la situazione in carcere a Milano, con San Vittore e gli altri istituti penitenziari che continuano a fare i conti con l’emergenza Covid, riesplosa in tutta la sua forza anche all’esterno, nel resto della città. A marzo scorso, un lunedì mattina, nella struttura di piazza Filangieri si era verificata una vera e propria rivolta, con materassi dati alle fiamme, detenuti a lungo sul tetto e sit-in in strada degli antagonisti, immediatamente intervenuti in solidarietà dei manifestanti. Adesso la tensione sembra essere tornata alta e ad accendere i riflettori sulla vita in cella ci hanno pensato dall’esterno. Per sabato 12 dicembre, dalle ore 14, è stata infatti annunciata una protesta fuori da San Vittore per chiedere “liberà, indulto e amnistia”, proprio le stesse richieste fatte a marzo. Sul volantino che chiama a raccolta per la protesta non ci sono sigle, ma un generico appello: “Manifestazioni sotto tutte le carceri”. “Vogliamo la liberazione dei carcerati, rivogliamo i nostri cari liberi - si legge. Il coronavirus si diffonde sempre di più, la situazione dentro le carceri è sempre peggio, aumentano gli abusi di potere, le celle sono sovraffollate e manca la sanità. Proteste e scioperi della fame continuano dentro le carceri, anche noi fuori - concludono gli organizzatori - dobbiamo farci sentire”. Pochi giorni fa a lanciare l’allarme erano stati gli avvocati. “Tra la popolazione detenuta vi sono ormai quasi 900 persone positive, mentre quasi 1000 sono i positivi tra gli operatori del settore penitenziario”, avevano fatto sapere in una nota il direttivo e la commissione carcere della Camera Penale di Milano, che avevano così annunciato di aver aderito “allo sciopero della fame di Rita Bernardini”, esponente dei Radicali e presidente di Nessuno tocchi Caino, per chiedere a Governo e Parlamento di ridurre drasticamente il numero di detenuti intervenendo nel segno dell’adesione alla Costituzione e alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo. “Questa volta - avevano spiegato gli avvocati penalisti - il virus non solo è entrato in carcere, ma si sta pure diffondendo in modo spaventoso”. Purtroppo però la situazione di “sovraffollamento di per sé grave non consente ovviamente di disporre di spazi adeguati per tutti gli isolamenti necessari soprattutto in Lombardia, che è la regione maggiormente colpita dal virus”. Il quadro descritto è drammatico e, come avevano messo in luce i legali, rende “necessaria l’introduzione di misure urgenti per alleggerire le condizioni di sovraffollamento all’interno degli istituti penitenziari”. Al momento invece, avevano aggiunto dalla Camera penale, resta costante “il flusso in ingresso di persone provenienti dalla libertà a seguito di arresti sul territorio, ma anche troppo spesso a seguito dell’emissione di ordini di carcerazione per condanne diventate definitive per reati commessi nella maggior parte dei casi anni prima”. Livorno. Natale 2020, i detenuti organizzano una colletta alimentare livornotoday.it, 9 dicembre 2020 L’emergenza sanitaria, che quest’anno costringerà tutti a un Natale diverso, fa scattare la solidarietà anche dietro le sbarre. Grazie alla collaborazione della direzione della Casa Circondariale di Livorno - in particolare l’Area Trattamentale -, degli educatori e del garante delle persone private delle libertà personali di Livorno, Marco Solimano, i detenuti del carcere di Livorno, con entusiasmo e generosità hanno raccolto e donato ai volontari del Banco Alimentare Onlus prodotti alimentari raccolti nel corso della ventiduesima Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, che si è conclusa ieri, 8 dicembre. Il gesto realizzato dai detenuti rappresenta un importante momento di solidarietà, in considerazione delle difficoltà nelle quali queste persone si trovano a vivere, in condizione di privazione della libertà personale, aggravata anche dal particolare momento storico. I detenuti hanno però saputo lo stesso guardarsi indietro volgendo lo sguardo a chi, forse, si potrebbe trovare in una condizione ancora più difficile della loro e non hanno voluto far mancare la loro solidarietà. “Con questo esemplare gesto - dichiarano Stefano Fatighenti e Carlo Bertucci, del Banco Alimentare di Livorno - riteniamo che i detenuti della casa Circondariale di Livorno abbiano fatto proprie le parole di Papa Francesco: da una crisi si esce o migliori o peggiori, dobbiamo scegliere. E la solidarietà è una strada per uscire dalla crisi migliori”. Viterbo. Detenuti del Carcere Mammagialla offrono alla Caritas gli alimenti a loro destinati agensir.it, 9 dicembre 2020 Sono molte le proteste da parte dei detenuti nelle carceri di tutta Italia, che in questo tempo di pandemia non hanno la possibilità di ricevere visite dall’esterno e che, internamente, temono il rischio del contagio. A Viterbo, nell’istituto di reclusione Mammagialla, nelle ultime settimane, le persone recluse hanno scelto di manifestare il proprio dissenso rispetto alla situazione attuale rifiutando il vitto e riducendo la spesa per il proprio sostentamento solo ad acqua, caffè, zucchero e tabacchi. I detenuti hanno però scelto di donare gli alimenti a loro destinati alla Caritas diocesana di Viterbo, per distribuirli alle persone bisognose presenti sul territorio. A rendere nota l’iniziativa è la stessa Caritas diocesana, i cui responsabili evidenziamo come “nel corso di questa pandemia, abbiamo continuato nel nostro impegno attraverso opere e servizio di ascolto, distribuzioni di alimenti, progettualità a favore delle persone e delle piccole e medie imprese locali”. La Casa circondariale di Viterbo ospita attualmente 530 detenuti, a fronte di una capienza di 400 (dati diffusi dall’Associazione Antigone). “Ringraziamo le persone detenute per il loro benevolo gesto di generosità, il direttore dell’istituto penitenziario, Anna Maria Dello Preite, e il personale di polizia per la propria disponibilità. Il ringraziamento non è solo della Caritas diocesana ma di tutto il territorio e delle persone che hanno potuto godere per il generoso contributo”, concludono dalla Caritas. Cari italiani, di fronte all’emergenza Covid siamo meglio del nostro nichilismo di Dacia Maraini Corriere della Sera, 9 dicembre 2020 Tanti, soprattutto fra i giovani, si sono rimboccati le maniche e si danno da fare per gli altri. I volontari oggi in Italia ammontano a 5 milioni. una cifra straordinaria. Ho fatto un sogno. Ho sognato che gli italiani si svegliavano diversi, consapevoli e orgogliosi della bellezza e della creatività del loro paese, che decidevano di smetterla con le risse, le accuse, gli odi e gli insulti. Ho sognato che lasciavano morire di stenti i furbetti del tornaconto personale e decidevano di riferirsi alla bella e limpida Costituzione; si rimboccavano le maniche per lavorare insieme, con spirito comunitario, per il bene per paese e per il futuro dei figli. Un sogno irreale, diranno alcuni, soprattutto quelli che ce l’hanno con tutto e con tutti e sbandierano la propria opinione come se fosse il Verbo, dando per scontato che tutto il resto fa schifo. Quelli che non credono a nulla e si divertono a sputare sulle Istituzioni per amore della libertà di critica. Ma siamo sicuri che la libertà di critica non sia semplicemente libertà di egoismo? La responsabilità, unico antidoto all’egoismo cieco e pretenzioso, non è legata a filo doppio con la consapevolezza delle conseguenze che causano le proprie azioni? Il che comporta un pensiero, questo sì libero, un pensiero che riesce a uscire dalla perversa abitudine di identificare la propria opinione con la Verità universale. A questo punto io direi che se i giovani se ne vanno all’estero non è soltanto per ragioni di lavoro, ma perché in altri Paesi si sentono coinvolti da una immaginazione costruttiva e da una fiducia nei talenti e nelle innovazioni, mentre a casa trovano soprattutto annunciatori di sciagure, denigratori di tutte le istituzioni, e invettive contro ogni nuova utopia. Insomma sembra che siamo presi da una specie di euforia mortuaria e autodistruttiva che spegne ogni entusiasmo, ogni volontà di affrontare con coraggio e passione il futuro collettivo. Eppure ci sono tanti, soprattutto fra i giovani, che si sono in effetti rimboccate le maniche e si danno da fare per aiutare i più deboli, i più disperati. Parlo dei volontari che oggi in Italia ammontano a cinque milioni. Una cifra davvero straordinaria. Ma non se ne parla. E che dire di coloro, sempre soprattutto fra i giovani, che stanno puntando a proprie spese su una produttività diversa, che tenga conto delle scoperte scientifiche e tecnologiche; ragazzi che tornano a coltivare la terra con rispetto verso l’equilibrio ecologico, con attenzione nuova verso l’ambiente, rifiutando le grandi coltivazioni basate sull’uso famigerato della chimica? Un mondo civile e purtroppo invisibile, eccetto qualche rara presenza su Rai3, canale poco frequentato e poco visibile in molte zone montagnose. Ma non costituiscono un valore esemplare a cui riferirsi quando si parla delle qualità preziose e gratificanti del Paese. Perché tanto nichilismo? Un poco più di orgoglio e di passione, cari connazionali, per tirare fuori la nostra amata Italia, piena di risorse eccellenti, dalla stagnazione della immaginazione produttiva. Il lockdown permanente di anziani e detenuti di Grazia Zuffa* dirittiglobali.it, 9 dicembre 2020 Nella consueta litania mediatica circa la pandemia, poco ci si sofferma su due fenomeni importanti: la ripresa delle infezioni nelle residenze per anziani, così come nelle carceri. Nella consueta litania mediatica circa la pandemia (dati, commenti di esperti e meno esperti, evoluzioni attese, ricadute sulle nostre vite quotidiane), poco ci si sofferma su due fenomeni importanti: la ripresa delle infezioni nelle residenze per anziani, così come nelle carceri. Negli istituti di pena, poi, la nuova ondata si rileva assai più pericolosa della prima, anche se dei detenuti si parla ancora meno che degli anziani in Rsa: non si sa se sia un bene o un male, stante la confusione del dibattito pubblico (fra le contraddizioni della comunicazione istituzionale e la scarsa chiarezza delle voci “scientifiche”), in ogni modo è sintomo di scarsa sensibilità sociale nei confronti di soggetti ambedue (diversamente) fragili e istituzionalizzati. Vale dunque la pena di ragionarci un po’, notando per prima cosa ciò che accomuna i contagi in carcere e nelle Rsa. Sia gli anziani/anziane, sia i detenuti/detenute, vivono in lockdown permanente, senza mai poter uscire. E tuttavia possono, a certe condizioni, ricevere visite. Con la pandemia, il lockdown “costitutivo” - diciamo così - della loro vita quotidiana si è trasformato in isolamento dal contatto con l’esterno. Per i detenuti, l’isolamento richiama il confinamento “disciplinare”; per gli anziani, evoca lo spettro (già incombente) della morte, il momento dell’addio definitivo al mondo delle relazioni umane (come ha scritto Alberto Asor Rosa). Poco spazio ha avuto nel dibattito pubblico la sofferenza dell’isolamento, tacitata dall’epica della lotta alla pandemia al grido - oggi parecchio affievolito - del “andrà tutto bene”. Eppure, ci sono anziani e anziane che non vedono figli e nipoti dai tempi della prima ondata. Recentemente, un programma televisivo mostrava un dispositivo di protezione “all’avanguardia” (sic!), che permette il contatto delle mani guantate di parenti e ricoverati. Un’immagine agghiacciante presentata come segno di speranza. È andata perfino peggio - com’era da aspettarsi - ai detenuti: lo sgomento e la rabbia per la sospensione delle visite e delle attività, alla base delle rivolte di primavera, sono stati letti in chiave puramente criminale. Torniamo ora alla loro condizione di vita, in lockdown obbligato e isolato. Per anziani e detenuti non valgono i continui appelli alla responsabilità individuale dei comportamenti corretti, la loro salute è nelle mani di altri - enti, istituzioni, operatori preposti alla loro cura e/o custodia. È perciò questione di responsabilità sociale, di cura e attenzione nel predisporre misure e programmi per difendere coloro che non possono difendersi da sé, perché privati della libertà (i detenuti) o largamente limitati nella libertà (gli anziani ricoverati). E allora, come è possibile accettare con tanto fatalismo (nei giorni del mantra della scienza) che il virus sia di nuovo nelle Rsa e nelle carceri? È comprensibile che la prima ondata abbia colto di sorpresa: non si aveva ben chiara la mappa di tutte le situazioni e i comportamenti a rischio per il contagio, mancavano le mascherine, addirittura si discuteva della loro utilità. Oggi non è più così. In più, non sembra che la fonte del nuovo contagio sia da mettere in relazione con l’allentamento dell’isolamento. Per gli anziani, si è appena detto. Anche nelle carceri si è imposta la comunicazione telematica con l’esterno, i (pochi) colloqui in presenza avvengono con schermi di plastica. Insomma, non vale prendersela col bengodi di Ferragosto, con l’untore dal “comportamento irresponsabile”. Proprio per questa scarsa trasparenza, la questione del contagio nei luoghi “chiusi” rimane, in tutta la sua gravità. Un fatto è certo: questi luoghi si rivelano come i più pericolosi, in primis perché le persone, private della loro autonomia, non sono in grado di tutelarsi da sé. Nemmeno sono in grado di far sentire la loro voce. Sono fragili e deboli, soprattutto socialmente. E questa fragilità sembra affievolire la responsabilità sociale, invece di incrementarla. Tanto che neppure ci si domanda come e perché non siamo stati ieri, e non siamo oggi, in grado di tutelarli a dovere. Per la verità, il dibattito dei giorni scorsi su come limitare la pandemia e proteggere i più deboli (gli anziani) qualche risposta l’ha data. Si sono udite voci che chiedono di rinchiuderli (in casa), perché non si contagino e mettano in crisi gli ospedali: dimenticando che il maggior numero di vittime anziane si è registrato proprio nei ricoveri chiusi; e sorvolando sul fatto che in Italia molti vivono coi familiari, persone che escono e vanno a lavorare, e dunque possono importare il virus nelle mura domestiche. Sono considerazioni così banali che la “dimenticanza” non può non insospettire. Forse semplicemente, questi sedicenti difensori degli anziani la “protezione” la intendono così: come esclusione - alla lettera - dalle città, dalle strade, dagli affetti dei deboli; degli “scarti”, biologici e sociali. *Presidente Società della Ragione Cannabis, la novità della Corte di Giustizia dell’Unione europea di Sofia Ciuffoletti Il Manifesto, 9 dicembre 2020 La sentenza ha già prodotto un effetto politico concreto: ossia la revisione espressa della valutazione preliminare da parte della Commissione Europea di considerare il cannabidiolo come sostanza psicotropa. La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 19 novembre 2020, nella causa 663/18, riguardava la commercializzazione in Francia del Kanavape, una sigaretta elettronica il cui liquido contiene cannabidiolo (Cbd), estratto dalla “Cannabis sativa” o “canapa”. Tale varietà di pianta, infatti, contiene naturalmente un tasso elevato di CBD a fronte di modesti livelli di tetradidrocannabinolo (Thc). La questione riguarda insomma la conformità al diritto dell’Unione di una normativa nazionale (in questo caso quella francese) che vieti la commercializzazione del Cbd, qualora quest’ultimo sia estratto dalla pianta di Cannabis sativa nella sua interezza e non soltanto dalle sue fibre e dai suoi semi. La sentenza rifiuta espressamente di attestarsi su una interpretazione meramente letterale (che d’altra parte, contiene al proprio interno un ulteriore problema, dato che la Convenzione unica non cita mai “letteralmente” il Cbd), per andare a indagare gli obiettivi perseguiti dalla normativa (la cosiddetta interpretazione teleologica) e legare l’analisi sul Cannabidiolo (il Cbd, ossia uno dei tanti metaboliti secondari propri della Cannabis) alla ratio specifica che dovrebbe guidare ogni norma in merito di sostanze stupefacenti: la tutela della “salute fisica e psichica” dell’umanità. Così ragionando, i giudici europei legano l’analisi relativa alla tutela della salute con un altro concetto centrale del tema che qui interessa: la conoscenza scientifica, rigettando, anche per questo concetto, una visione statica e valorizzandone il carattere dinamico, falsificabile, direbbe Popper e quindi la necessaria valutazione del cosiddetto “stato attuale delle conoscenze scientifiche” in materia di effetti nocivi del Cbd. La svolta della Corte di Giustizia consiste nel passaggio da un’interpretazione statica a una dinamica, tipica del ruolo delle Corti come garanti dei diritti delle persone. La concretizzazione rispetto “allo stato attuale delle conoscenze” che la Corte di Giustizia compie, valorizza la relazione del 2017 dell’Oms che ha raccomandato di togliere il Cbd dall’elenco dei prodotti dopanti, così come le analisi degli esperti nominati nell’ambito del procedimento interno francese che concludevano per la mancanza di dati sufficienti al fine di classificarlo come “nocivo” e per la valutazione dell’”effetto debole o nullo sul sistema nervoso centrale”. A questo punto la Corte procede a discutere del principio di precauzione in ambito giuridico e di come sia necessario ridurre il “margine di apprezzamento”, il potere discrezionale degli stati membri dell’Unione, quanto più vi sia incertezza scientifica sugli effetti nocivi di una sostanza. Se il principio di precauzione, invocato dallo Stato francese, può giustificare dunque l’adozione di misure restrittive, queste devono tuttavia essere non meramente ipotetiche. La Corte chiarisce in modo tranchant che qualunque Stato membro intenda limitare la circolazione del Cbd, dovrà dimostrare che “l’asserito rischio reale per la salute non risulti fondato su considerazioni puramente ipotetiche” e questo alla luce di una valutazione complessiva del rischio per la salute basata “sui dati scientifici disponibili più affidabili e sui risultati più recenti della ricerca internazionale”. La sentenza (vincolante come fonte del diritto dell’Ue in tutti i Paesi membri) ha già prodotto un effetto politico concreto: ossia la revisione espressa della valutazione preliminare da parte della Commissione Europea di considerare il cannabidiolo come sostanza psicotropa. Di conseguenza, oggi e grazie alla decisione dei giudici di Lussemburgo, il cannabidiolo può essere qualificato come alimento. Attendiamo che anche gli Stati membri dell’Unione Europea (Italia in primis) traggano le conseguenze giuridiche e politiche dall’importante dictum della Corte di Giustizia. Repressione e condanne arbitrarie in Algeria, anche l’Europa se n’è accorta di Stefano Mauro Il Manifesto, 9 dicembre 2020 Giornalisti e movimento Hirak sotto tiro. Condannato anche Karim Tabbou, uno dei leader della protesta. Dalla risoluzione Ue critiche anche alla nuova Costituzione algerina, che accentra troppo potere nelle mani del presidente della Repubblica. Karim Tabbou, uno dei principali leader del movimento di protesta Hirak in Algeria, è stato condannato lunedì “a un anno di prigione con sospensione della pena e a una multa di 100mila dinari”, dal tribunale di Koléa (Tipaza). Le accuse contro il portavoce del partito dell’Unione democratica e sociale (Uds) sono state riclassificate come “incitamento alla violenza”. Già lo scorso marzo, Tabbou era stato condannato a un anno di reclusione, per “aver minato l’unità del territorio nazionale” ed era stato liberato, in regime di libertà condizionata lo scorso 2 luglio, dopo 9 mesi di detenzione. L’impianto accusatorio, come spesso è avvenuto e avviene tuttora, riguarda le critiche di Tabbou nei confronti dell’establishment politico algerino e in particolare nei confronti del generale Ahmed Gaid Salah (deceduto lo scorso dicembre 2019), vero uomo forte del regime prima dell’elezione del presidente della repubblica Abdelmajid Tebboune. La sentenza è in continuità con quella di tre giorni fa nei confronti di Nour El-Houda Oggadi, studente e altra figura chiave dell’Hirak, condannato a sei mesi di detenzione per “assemblea disarmata, istigazione, disprezzo e violenza contro la nazione”. Proprio riguardo al costante regime di repressione in Algeria, lo scorso 26 novembre si è espresso il Parlamento Europeo con una risoluzione di emergenza per denunciare le violazioni dei diritti umani e nello specifico: “intimidazioni, aumento degli arresti politici e detenzioni arbitrarie, mancanza di indipendenza giudiziaria, accuse di tortura, attacchi alla libertà di espressione e associazione, restrizioni illegittime con il pretesto della crisi sanitaria”. Il documento richiede “l’immediata liberazione dei circa 100 detenuti di opinione ancora attualmente in carcere”, facendo riferimento ai leader delle proteste dell’Hirak e ai numerosi giornalisti arrestati, primo fra tutti Khaled Drareni condannato ingiustamente “a 2 anni di reclusione per aver informato il mondo riguardo alle proteste in atto in Algeria”. Un ultimo riferimento della risoluzione riguarda i nuovi emendamenti al codice penale algerino e la nuova costituzione, approvata con una scarsissima adesione nel referendum dello scorso 1 novembre, in particolare “per il fatto di attribuire ancora troppo potere al presidente della Repubblica, a discapito dell’autonomia del potere giudiziario e di quello politico”. Le reazioni di indignazione non si sono fatte attendere da parte di Algeri, dove il governo e i partiti della maggioranza hanno denunciato questa risoluzione come “ingerenze straniere negli affari interni della nazione”. Reazioni in contrasto con quelle delle ong internazionali - Amnesty International, Human Rights Watch, Reporters Sans Frontières - e locali - Lega Algerina per i Diritti Umani (Laddh) e il Comitato nazionale per la liberazione dei detenuti (Cnld) - che denunciano “un costante clima di repressione nel paese per ostacolare qualsiasi protesta che richieda un cambiamento del regime”. Secondo il presidente della Laddh, M. Benissad “questo clima di repressione del dissenso è innegabile come lo sono alcune riforme della costituzione che sono liberticide (…) la risoluzione europea ci ricorda che l’Algeria, come Stato di diritto, ha assunto impegni internazionali che deve onorare riguardo il rispetto dei diritti umani e la libertà di espressione e di stampa”. Etiopia. Guerra di “verità” e aiuti impossibili nel Tigray di Fabrizio Floris Il Manifesto, 9 dicembre 2020 Il premier Abiy Ahmed: “La cricca criminale del Tplf è allo sbando, offensiva finita”. Ma per le Nazioni unite “la regione resta troppo pericolosa per inviare convogli umanitari”. Ogni guerra, si potrebbe dire parafrasando Hannah Arendt, non restituisce verità ma ricompone poteri. Oltre che militare quella del Tigray è una battaglia a colpi di “verità”. La più significativa ripresa da tutti i media internazionali è la dimensione delle forze militari del Tigray Peoplès Liberation Front (Tplf): 250mila combattenti secondo la Bbc (27 novembre) sull base forse di un report dell’International Crisis Group dove si parla di 250 mila “troops combined”. Ma “truppe miste” fa pensare, oltre a militari di professione e forze di polizia, anche alle cosiddette milizie di comunità che per dirla con le parole di una reporter della Reuters “sono contadini in ciabatte con un kalashnikov”. Diversamente verrebbe da chiedersi dove sono questi 250.000 combattenti? Se fossero stati ad effettiva protezione di Makallè la città non avrebbe ceduto all’esercito federale etiope senza colpo ferire. La Reuters riporta un’intervista a un medico secondo il quale sarebbero morte 27 persone a Makallè nei combattimenti tra truppe federali e il Tplf. Ma per il primo ministro Abiy Ahmed non sarebbe morto nessun civile. D’altra parte può essere presa in considerazione la versione di Getachew Reda del Tplf che sempre alla Bbc ha detto che le forze tigrine “si sono intenzionalmente ritirate” dalla città. Quindi nessuno scontro? I leader del Tplf sostengono di combattere ancora su vari fronti intorno alla città, ma il governo etiope nega e ripete che “l’offensiva è finita”. Il premier ha sostenuto in una nota che “la cricca criminale ha portato avanti una narrazione palesemente falsa secondo la quale il Tplf ha combattenti temprati e ben armati in grado di portare avanti un’offensiva prolungata nel Tigray che si sono ritirati in senso strategico. La realtà è che la cricca è completamente sconfitta e allo sbando, senza nessuna capacità di organizzare un’insurrezione prolungata”. Resta il fatto che nella regione permane una condizione di insicurezza e i funzionari dell’Onu hanno spiegato alla Reuters che “la regione è ancora troppo pericolosa per inviare convogli umanitari”. Per il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres è “essenziale ripristinare rapidamente lo stato di diritto e i diritti umani, promuovere la coesione sociale e una riconciliazione inclusiva, nonché fornire i servizi pubblici e garantire un accesso umanitario senza restrizioni”. Il governo etiope afferma che, con il ripristino della pace, le sue priorità sono il benessere dei Tigray e il ritorno dei rifugiati. Si potrebbe affermare che la verità è una bugia che non è stata ancora raccontata, ma per i 50 mila che sono fuggiti in Sudan, i 600 mila che facevano affidamento (prima della guerra) sugli aiuti alimentari e per i due milioni che hanno oggi bisogno di assistenza fa poca differenza, quando il primo e l’ultimo istinto dei viventi bussano alla pancia dei tuoi figli. Hong Kong. Perché la battaglia di Joshua Wong è anche la nostra La Repubblica, 9 dicembre 2020 L’attivista è stato condannato a tredici mesi e mezzo di carcere con una sentenza puramente politica. Die Welt, con cui il giovane collabora, avverte: lo stesso schema potrebbe replicarsi in mezzo mondo. Ci sono sentenze che condannano il colpevole per un reato. Così dovrebbe essere in uno Stato di diritto. E ci sono sentenze che hanno poco a che vedere con il reato e il suo autore. Gli attivisti di Hong Kong Agnes Chow, Ivan Lam e Joshua Wong sono stati tutti condannati nella loro patria. Chow a dieci mesi, Lam a sette mesi e Wong a tredici mesi e mezzo. La sentenza è palesemente più dura di quel che avrebbe dovuto essere in ragione dei reati - tra i quali figura, ad esempio, “l’organizzazione di una riunione non autorizzata”. In questo caso, il tribunale non ha condannato il reato e i suoi autori, ma piuttosto gli attivisti e la loro lotta. Si tratta di una sentenza politica. L’intento è quello di tacitare tre voci importanti a favore della libertà a Hong Kong. E la corte, in quanto parte di una magistratura politicizzata e strumentalizzata, ha voluto trasmettere questo messaggio: possiamo mettere gli attivisti dietro le sbarre in qualsiasi momento; la pena non è commisurata all’entità del reato, ma unicamente a quanto a lungo la Cina vuole restare tranquilla. Joshua Wong è un editorialista di Welt am Sonntag. La nostra redazione chiede che la sentenza che riguarda lui e gli altri due attivisti venga rivista e attenuata in misura consona all’effettiva consistenza dei reati. Chiede inoltre che Wong e i suoi due compagni ricevano un trattamento equo, sicuro e umano in prigione. Il nostro editorialista è un giovane che ha dedicato la sua vita alla democrazia e alla libertà della sua patria. Ma non ha ambizioni da leader, non cerca deliberatamente un confronto radicale e incauto con la Cina. Lui, Chow e Lam non sono i primi, e non saranno gli ultimi, ad affrontare un processo politico inscenato dalla Cina. Il mondo dovrebbe guardare a Hong Kong. Perché quello che accade nella nazione insulare è uno schema che rischia di essere applicato a mezzo mondo. La Cina sempre più potente esce allo scoperto, dissimula sempre meno le azioni dirette contro la separazione dei poteri, la democrazia e la libertà. Il governo di Pechino non ha remore a mandare gli Uiguri nei campi di lavoro, a sottoporre la sua popolazione a una completa sorveglianza, a soggiogare Hong Kong e a indirizzare velate minacce a Taiwan. L’interesse cinese per gli altri continenti, Europa compresa, sta crescendo. Agnes Chow, Ivan Lam e Joshua Wong meritano la nostra solidarietà, per considerazioni di principio, perché difendono la libertà, la giustizia e il diritto. Ma anche perché stanno conducendo una battaglia con la Cina che potremmo ben presto dover affrontare anche noi.