Piccola posta di Adriano Sofri Il Foglio, 8 dicembre 2020 Queste poche righe per dire che partecipo al digiuno promosso da Rita Bernardini e seguito da tante e tanti, detenuti e liberi. Partecipo perché so immaginare, e lo immagino tutti i santi giorni, tutte le chiare notti, che cosa sia stare in galera sempre e in un tempo come questo. Anche starci da guardiani. Si muoiono dirimpetto, guardiani e guardati. Non credo, naturalmente, che misure ovvie come un’amnistia o un indulto siano alla portata degli sciagurati che hanno qualche porzione di potere, e questa coscienza di una causa persa per l’oggi e per il domani - per dopodomani, chissà - è un’altra ragione per partecipare. La ripugnanza per i piccoli Franti compiaciuti di infierire su uomini legati mani e piedi non è una ragione per fare o per non fare niente, solo della ripugnanza. Un digiuno solitario, in una casa solitaria, in un dicembre solitario, è niente, quasi solo un ricordo. Oppure una allegra fantasia. Passa Rita B.: “Dove vai?”, le dico, lei mi risponde e aggiunge: “Che fai, non vieni?”. Che faccio, non vengo? Nelle celle digiuno e cibo per i poveri. Il pane giusto che fa liberi di Giorgio Paolucci Avvenire, 8 dicembre 2020 Nel cuore dell’uomo, di ogni uomo, abita un desiderio di bene e di positività. Rischiamo di dimenticarcene, specialmente in una stagione come quella che stiamo vivendo, dove la tentazione di ‘salvarsi da soli’ anche a scapito di chi se la passa peggio di noi è più che mai in agguato. Ma ci sono gesti e persone che testimoniano quanto il desiderio di bene sia così radicato da sfidare le circostanze più avverse. È quanto sta accadendo in questi giorni, mentre è in corso la Colletta promossa come ogni anno dal Banco Alimentare che stavolta, anziché concentrarsi in un una sola giornata, è stata dilatata tra il 21 novembre e oggi, 8 dicembre. Cambiano le modalità rispetto al passato: per rispettare le norme di sicurezza legate all’emergenza Covid, stavolta non c’è passaggio di cibo dai donatori ai volontari, ma è possibile acquistare delle gift card di vari importi alle casse dei supermercati, che vengono ‘convertitè in prodotti consegnati al Banco Alimentare e veicolati a milioni di persone tramite ottomila enti caritativi. Cambiano le modalità, ma non la sostanza: un gigantesco gesto di solidarietà popolare, ancora più significativo in questo tempo che ha visto aumentare vertiginosamente il numero delle persone bisognose. E ancora più significativo è sapere che a questo gesto stanno partecipando tante persone detenute nelle carceri, offrendo cibo o piccole somme di denaro poi utilizzate per l’acquisto di alimenti. Donazioni, queste, che spesso comportano sacrifici e privazioni, ma che nascono da un moto dell’anima, da una sorta di istinto primordiale che neppure una condizione avversa come la detenzione riesce a reprimere. “Fare del bene ci fa bene”, ha scritto uno di loro. Vengono in mente le parole di don Giussani - che insieme all’imprenditore Danilo Fossati è all’origine del Banco Alimentare in Italia - in un libretto intitolato ‘Il senso della caritativa’: “Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti, e noi la chiamiamo giustamente legge dell’esistenza”. Basterebbe pensare al valore e al significato ‘redentivo’ di gesti come la Colletta fatta in carcere per capire quanto sia ingiustificata la posizione di chi - nel mondo politico, ma anche tra tanta gente comune - ritiene che basti mettere in galera chi ha sbagliato e ‘buttare via le chiavi’, come se i reclusi fossero rifiuti da smaltire. In questi giorni nelle prigioni del nostro Paese c’è stato chi ha donato cibo e chi al cibo ha rinunciato, chi ha spezzato il proprio povero pane per ‘liberarè altri poveri e chi continua a digiunare per dolore e umanità. Settecento detenuti stanno facendo lo sciopero della fame, aderendo a un’iniziativa promossa da Rita Bernardini e dall’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’ per chiedere al governo di adottare provvedimenti che riducano in misura significativa il sovraffollamento nelle carceri, una piaga che ha portato l’Italia a reiterati moniti da parte della Corte europea per i diritti umani e che si dimostra ancora più devastante nell’epoca del Covid: è di pochi giorni fa un rapporto del Garante delle persone private della libertà che denuncia 882 detenuti positivi al coronavirus in 86 istituti penitenziari, ai quali vanno aggiunti centinaia di agenti di polizia penitenziaria e del personale amministrativo. Un disastro annunciato, anche sulle pagine di ‘Avvenirè, sin dalla primavera scorsa. Tanti sono gli strumenti per combattere questa piaga, da quelli più ‘politici’, come l’indulto e l’amnistia, a soluzioni tecniche, ma comunque efficaci per una riduzione significativa delle presenze in tempi relativamente brevi: il blocco temporaneo dell’esecutività delle sentenze passate in giudicato, l’allargamento della platea di chi può beneficiare della detenzione domiciliare, la liberazione anticipata di quanti hanno un piccolo residuo di pena. Dal mondo carcerario, un mondo che troppi e troppo sbrigativamente etichettano come ‘il regno del malè, arrivano segnali che sfidano i luoghi comuni e chiedono a chi ha potere di fare scelte giuste. E a tutti chiede di rendere vera la giustizia e di cambiare sguardo, diventando capaci di vedere l’umanità che ci accomuna. Per essere, come scrive papa Francesco, fratelli tutti. “Sì alle riviste pornografiche al 41bis: la sessualità è un diritto” di Simona Musco Il Dubbio, 8 dicembre 2020 La decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma per un detenuto che sconta l’ergastolo. Per i giudici va inquadrata tra le garanzie inviolabili della persona umana che l’articolo 2 della Costituzione impone di assicurare e tutelare. Condannato all’ergastolo, ma non a rinunciare del tutto alla propria sessualità, per quanto in maniera effimera. A stabilirlo è il Tribunale di Sorveglianza di Roma, che ha accolto il ricorso presentato da un detenuto al carcere duro, condannato per reati di criminalità organizzata, al quale era stato negato il diritto di abbonarsi ad una rivista a luci rosse. na decisione contro la quale il Dap, come riportato nei giorni scorsi da “Il Tempo”, ha presentato ricorso per Cassazione, ma che in attesa di una pronuncia definitiva introduce il principio di un diritto alla sessualità, anche per chi si trova in regime a diritti limitati. “La sessualità è “uno degli essenziali modi di espressione della persona umana” e “il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’articolo 2 della Costituzione impone di garantire”, si legge nella sentenza. Ed è per questo motivo che anche se si trova al 41bis un detenuto ha diritto a ricevere riviste pornografiche. La richiesta avanzata dall’avvocato Lorenzo Tardella era stata rigettata con una prima ordinanza del 30 settembre 2019 dal magistrato di sorveglianza, rigetto contro il quale è stato presentato ricorso davanti al Tribunale di Sorveglianza. La direzione del carcere si era infatti opposta all’acquisto di riviste per adulti, incontrando parere favorevole da parte del magistrato di sorveglianza, secondo cui non si sarebbe trattato di un diritto, ma di “un mero interesse alla visione delle immagini ritenuta non essenziale per l’equilibrio psico-fisico nella sfera sessuale della persona, condividendo, inoltre, quanto esposto dall’autorità penitenziaria in merito alla possibilità di veicolare, attraverso le riviste erotiche, messaggi ed annunci criptici provenienti dall’esterno”. Una motivazione censurata dalla difesa, che paventava “la lesione del diritto alla salute del detenuto in relazione alla limitazione della possibilità di vivere appieno ancorché in modo effimero - la propria sessualità all’infuori di restrizioni non giustificabili a cagione della sottoposizione al particolare detentivo differenziato”. Di fronte a tali argomenti, la direzione del carcere aveva replicato lamentando, da un lato, la difficoltà a trovare in edicola giornali pornografici, spazzati via dall’avvento di internet, ma, soprattutto, la possibilità che all’interno delle riviste possano essere contenuti messaggi criptici veicolati dall’esterno, pregiudizievoli, dunque, per l’ordine e la sicurezza pubblica. Pericolo contro il quale la difesa ha proposto di eliminare ogni parte scritta, consegnando al detenuto le sole immagini. Per il Tribunale di Sorveglianza il reclamo è fondato: la disciplina del 41bis, infatti, non può essere né “allentata” né resa ulteriormente restrittiva, salvo nei casi di assoluta incompatibilità della norma di volta in volta considerata “con i contenuti normativi tipici del regime differenziato”. E come evidenziato dalla Corte costituzionale con la sentenza 186 del 2018, è “possibile sospendere solo l’applicazione di regole ed istituti dell’ordinamento penitenziario che risultino in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza” e “non potersi disporre misure che, a causa del loro contenuto, a quelle concrete esigenze non siano riconducibili perché risulterebbero palesemente inidonee o incongrue rispetto alle finalità del provvedimento che assegna il detenuto al regime differenziato”. Senza il rispetto di tale principio di congruità, infatti, “le misure in questione non risponderebbero più al fine per il quale la legge consente che esse siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale”. La richiesta del detenuto, in questo caso, non è da ricondurre alla tutela del diritto all’informazione, ma alla tutela dell’affettività in carcere, per la quale più volte la Cedu ha riconosciuto il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare sancito dall’articolo 8 della Convenzione. La richiesta di acquistare riviste per soli uomini ha come fine, dunque, quello “di migliorare la vita sessuale del detenuto sottoposto al regime differenziato per il quale l’orizzonte espressivo della sfera sessuale si riduce ad una dimensione effimera e sublimata”. Per i giudici, i diritti inviolabili dell’uomo, pur trovando una limitazione nella detenzione, non sono affatto annullati dalla stessa, in quanto “la dignità della persona è dalla Costituzione protetta attraverso “il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell’esecuzione penale”. In tale cornice, “il rifiuto opposto dalla direzione dell’Istituto è illegittimo perché non supera il test di congruità e proporzionalità tra limitazione all’esercizio del diritto del detenuto e finalità della restrizione non cogliendosi - in assenza di una previsione di legge - alcun nesso logico e teleologico tra il contenimento del diritto alla sessualità del detenuto da esercitarsi acquistando e trattenendo la stampa (pubblicazione o rivista) di genere e la finalità di tutela dell’ordine interno e della sicurezza esterna ili base alla ratio dell’articolo 41bis”. Carceri e stanze dell’amore: il disegno di legge di cui si sentirà parlare di Alba Dalu liberopensiero.eu, 8 dicembre 2020 Una giornata quasi normale. Una donna abbraccia i propri figli. Un uomo incontra la famiglia. Si pranza insieme. C’è modo e tempo per avere un rapporto intimo. In uno spazio ristretto, chiuso, controllato, fatto di muri ma non di telecamere, sembra di essere a casa anche se casa non è. Una volta al mese, al massimo per 24 ore. Le chiamano stanze dell’amore. Sono camere pensate per le carceri italiane: spazi abitativi appositamente attrezzati, chiusi e intimi per far vivere momenti di normalità, per garantire gli affetti nonostante la reclusione. Le stanze dell’amore sono contemplate nel disegno di legge presentato in Commissione Giustizia del Senato e rientrano nella “tutela delle relazioni affettive intime”. La proposta, che prevede modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, è stata depositata in Senato lo scorso luglio, pochi giorni fa la prima discussione. Presentata su iniziativa del Consiglio Regionale della Toscana, ha come relatrice Monica Cirinnà, senatrice del Partito Democratico. Riconoscere il diritto all’affettività e alla sessualità dei detenuti non è un tema nuovo: in passato se n’è già parlato e ha fatto discutere. Non sarà diverso questa volta. Non solo stanze dell’amore: cosa prevede il decreto legge - A essere contemplate non sono soltanto le stanze dell’amore anche se sono queste a fare parlare: il disegno di legge si articola in quattro punti. L’articolo 1 contempla il “diritto all’affettività”. I detenuti hanno il diritto di ricevere una visita una volta al mese per un tempo che va da un minimo di 6 ore a un massimo di 24. Gli incontri tra detenuti e persone autorizzate hanno luogo “in apposite unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi”. l’articolo 2 fa riferimento ai permessi speciali che, attualmente, sono concessi ai detenuti come premio o per motivi di necessità (gli eventi gravi familiari o pericolo di vita). Il disegno di legge estenderebbe le ipotesi di concessione dei permessi, che potrebbero essere ottenuti per “eventi familiari di particolare rilevanza”. L’articolo 3 modifica la disciplina sulle telefonate dei detenuti. Non più una volta alla settimana ma quotidianamente con familiari e conviventi. Il disegno di legge punta a modificare anche la durata: da 10 a 20 minuti. L’articolo 4, dedicato alle disposizioni finali, prevede un adeguamento delle strutture penitenziare sul territorio in modo che venga garantita l’applicabilità della legge in almeno un istituto per regione. Se si volge lo sguardo oltre i confini - Monica Cirinnà su La Repubblica battezza la proposta come “una legge di grande civiltà”, mentre dall’opposizione piovono duri attacchi e perplessità provengono dal M5S. “Lascio immaginare quali problemi di sicurezza si porranno, a cominciare dal rischio che venga introdotta in carcere droga nascosta negli orifizi corporei o addirittura ingerita”; parole riportate su un comunicato stampa del senatore di FI Alberto Balboni, vicepresidente della commissione Giustizia. Al di là delle opinioni politiche e delle strumentalizzazioni che simili leggi possono veicolare, bisogna osservare i dati. La relazione di accompagnamento del disegno di legge, in tal senso, viene in soccorso. Perché basta guardare al di là dei confini nazionali per capire quanto nelle carceri “il tema del diritto all’affettività e alla sessualità diventi ambito effettivo, disciplinato in un numero sempre crescente di Stati riconosciuto come vero e proprio diritto soggettivo in numerosi atti sovranazionali”. In Paesi come Albania, Belgio, Croazia, Germania, Spagna, Svezia la vita affettiva e sessuale in carcere è garantita. Nel nostro paese se ne parla da vent’anni senza arrivare a una conclusione. Visione troppo audace? Anche in carcere esistono i diritti - Affrontare un simile tema significa confrontarsi con un mondo talvolta ignorato. Di detenuti si parla quando accade qualcosa di terribile: quando ci sono rivolte, fughe o morti. La retorica spesso diffusa del chiudere la chiave e far marcire i detenuti nelle carceri, sottovaluta una verità trascurata. La detenzione è un percorso riabilitativo e rieducativo non punitivo. La giustizia impartisce le pene - che naturalmente sono diverse in base ai reati - ma fino a dove può spingersi? Ciò che serve ai detenuti è mantenere costantemente il legame con quella società in cui dovranno reinserirsi. L’affettività e la sessualità rappresentano un filo che, seppur invisibile, riconnette i ristretti alle relazioni col mondo esterno. Se pensare al domani può essere la chiave per prevenire i reati resta un’incognita. Ma di certo adeguarsi alle normative sovranazionali e pensare a chi è spesso indicato come ultimo può essere un atto di grande civiltà. Il diritto è il legame che fa di carcere e affettività binomi conciliabili. E alla fine lo dicevano anche i latini: Ius est ars boni et aequi (Diritto è l’arte di ciò che è buono ed equo, Celso). E loro si sa, avevano quasi sempre ragione. Processo penale, mini-riforma per puntare alla “ragionevole durata” di Vincenzo Maria Siniscalchi Il Mattino, 8 dicembre 2020 Il processo penale ad onta delle regole fissate in Costituzione con la introduzione dell’art. 111, soffre una sorta di paradossale contrappasso. La anomalia può così riassumersi: le norme scritte dal legislatore costituzionale hanno il pregio indiscutibile della chiarezza sulla terzietà del giudice, sulla formazione della prova nel contraddittorio tra le parti, sulla ragionevole durata, e tuttavia non riescono ad ottenere il risultato sperato per realizzare il processo “celere e giusto”. Non è solo la “ragionevole durata” dei tempi processuali che contrasta con la irragionevolezza della lungaggine media del processo penale in Italia ma anche il bilancio fallimentare che toglie credibilità alla stessa istituzione giudiziaria. Indici di questa situazione allarmante e purtuttavia ormai consolidatasi negli anni si colgono negli studi recenti dei processual-penalisti e nei rilevamenti statistici (significativo quello commentato sulle colonne de “Il Mattino” tempo fa da Leandro Del Gaudio con la segnalazione precisa delle quote di risarcimenti raggiunti dalla Corte di Appello di Napoli in applicazione della Legge 24.3.2011 n. 89 “equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo”). Il nostro sistema costituzionale prevede all’art. 24 specifico rinvio al codice di procedura penale per altra importante normativa in tema di “riparazione degli errori giudiziari” (casi di revisione) oltre alla riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione. Tuttavia è lesione inconcepibile dei diritti della persona che la pretesa riparatrice dell’imputato riconosciuto innocente o ingiustamente detenuto non abbia percorsi preferenziali e debba scontare tempi lunghissimi delle procedure. Ora sembra che timidi tentativi del legislatore siano diretti a rimuovere almeno le più gravi cause dei ritardi. Gli interventi in sede legislativa sono contenuti nel disegno di legge in Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Si sono svolte le prime audizioni di giuristi, avvocati, magistrati sulla possibile adozione di interventi diretti alla accelerazione di alcune fasi processuali. Ha assunto un ruolo rilevante il recupero della idea del processo penale “telematico”. È però troppo ottimistica la ipotesi della trasformazione dell’intero processo con il ricorso al sistema telematico. Appare difficile una riforma in tal senso proprio perché la principale caratteristica del processo penale a tendenza accusatoria privilegia la oralità, la pubblicità ed il contraddittorio tra le parti. La fonte sta nella norma europea (“Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo ed imparziale”). La Costituzione fissa anche il principio seguente: “La legge ne assicura la ragionevole durata”. È provvido il principio normativo ma per la sua violazione l’Italia è incappata, come è noto, in reiterate condanne ad opera dei giudici di Strasburgo. La regola consente di inserirsi utilmente nei tentativi di semplificazione di alcune norme processuali così cominciando a profilarsi uno snellimento del processo mediante il recupero di “tempi morti” e “stati inerziali” nel rispetto dei diritti delle parti. Una prima razionalizzazione si ravvisa nella previsione di un deposito di atti e documenti mediante il sistema di trasmissione telematica. Sarebbe notevole il risparmio di tempi con l’abbattimento delle esasperanti complicazioni temporali di queste attività. Rilevante appare il tentativo dell’utilizzo dell’informatica nella particolare disciplina delle notificazioni. Per le notificazioni non può parlarsi di una accelerazione indiscriminata in quanto vanno rispettate le garanzie, in particolare quella dell’accertato raggiungimento di una effettiva conoscenza degli atti da parte dell’indagato, dell’imputato, del condannato. Verrebbero così evitate nullità “assolute” con accelerazioni che provocano annullamenti anche in Cassazione dei precedenti gradi di giudizio. Importanti modifiche vengono proposte sui tempi relativi alle richieste del Pm per la chiusura delle indagini preliminari. Sul punto manca una attenta analisi dei tempi consentiti per le deleghe di indagini che il Pm generalmente rivolge alla Polizia giudiziaria. Ad avviso di chi scrive occorre una volta per tutte impedire che la delega, (ad esempio, alla effettuazione di intercettazioni) contenga commenti, ipotesi, suggerimenti della Pg al Pm. Ciò comporta inevitabile dilatazione dei tempi di delega con inopportuna intrusione nelle valutazioni degli atti che spettano solo al Pm. Ed inoltre: alle lettere c) e d) art. 3 dell’articolato si affronta il problema dei termini di durata delle indagini preliminari. La riforma nella stessa norma - alle lettere f) e g) - prevede di sanzionare disciplinarmente le “lungaggini ingiustificate”. L’articolo 3 si occupa, sempre in tema di dilatazioni temporali, del momento di inizio della attività di indagine e, in particolare, della iscrizione nel registro delle notizie di reato ai fini della previsione contenuta nell’art. 335 c.p.p. La norma in questione richiede la immediatezza della iscrizione nel registro concernente le notizie di reato, ad iniziativa del PM procedente, “del nome della persona alla quale il reato è attribuito”. Una dilatazione discrezionale contrasterebbe con il dovere del Pm della iscrizione della “notitia criminis” senza ritardi. Se si pone mente alla situazione in atto si può riscontrare che la legge di riforma 103/2017 ha già attribuito al Procuratore della Repubblica il compito di fare osservare le disposizioni relative al delicato momento della iscrizione delle notizie di reato al fine di evitare “fughe di notizie” che rappresentano danno incalcolabile per la segretezza delle indagini e per la sostanziale mancanza di garanzie del cittadino arbitrariamente iscritto. Va ricordato che le sopraesposte questioni andrebbero verificate per contenere le prassi di automatismi delle iscrizioni. Di particolare rilievo è la lettera h) dell’art. 3 dell’atto parlamentare. Vi si prevede, infatti, “che gli uffici del Pm, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica”. Questo problema delle “scelte” delle priorità da parte dell’ufficio del Pm non può risolversi nell’ambito degli uffici di Procura ma investe, come è noto, Parlamento e Governo. Meglio immaginare un organo di controllo semplificativo che abbia carattere collegiale, con avvocati e magistrati, trattandosi di scelte che investono l’esercizio del diritto di difesa. L’art. 6 prevede “le udienze filtro”. L’istituto può certamente favorire la speditezza dei procedimenti. Le medesime osservazioni possono farsi sulla istituzione del Giudice Monocratico di appello. È certo che una figura del genere appare incompatibile con la “collegialità necessaria” che nel pensiero dei processual-penalisti è fondamentale proprio per le finalità dell’appello che si debbono realizzare con il controllo collegiale. Qualcosa, dunque, si muove e dobbiamo augurarci che, pur nei suoi limiti, questo tentativo di riordino non si disperda nelle secche del lavoro parlamentare. L’Anm di Santalucia, pacificata anche grazie al lavoro di Unicost di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 8 dicembre 2020 Dopo giorni di forte tensione, in cui non era del tutto esclusa la possibilità di un ritorno alle urne, i magistrati hanno dunque eletto i nuovi vertici dell’Anm. Il presidente è Giuseppe Santalucia, Salvatore Casciaro il segretario generale. Il primo esponente di Area, il cartello progressista, il secondo invece di Magistratura indipendente, il gruppo moderato delle toghe. La votazione è avvenuta con il sistema telematico. Dopo anni di pm a capo dell’Anm, due giudici: Santalucia è alla prima sezione penale della Cassazione, Casciaro è alla sezione Lavoro della Corte d’appello di Roma. Per superare l’impasse è stata determinante, prima del voto finale, la ventilata astensione di Unicost, la corrente di centro, sul nome di Luca Poniz, il presidente uscente che aveva deciso di ricandidarsi. Il nome del pm milanese era “indigeribile” per le toghe di “Mi” e di Movimento per la Costituzione, che avevano chiesto “discontinuità”: avevano indicato come criticabili alcuni atteggiamenti assunti da Poniz dopo lo scoppio dell’affaire Palamara, quando lo scorso anno vi erano rimasti coinvolti tre esponenti del gruppo moderato al Csm. Senza i voti di Unicost, per le toghe di Area la strada si era fatta in salita e sarebbe diventata inevitabile una nuova fumata nera. Da qui la scelta di puntare su Santalucia e dar così vita a una giunta largamente condivisa con i rappresentanti di quattro gruppi associativi: vale a dire tutti quelli rappresentati nel “parlamentino” tranne Articolo 101. Di Unicost sono la nuova vicepresidente Alessandra Maddalena e il segretario Italo Federici. Aldo Morgigni (Autonomia & indipendenza), ex togato del Csm, sarà il coordinatore dell’ufficio sindacale. Della nuova giunta fanno parte anche Lilli Arbore ed Elisabetta Canevini di Area, Emilia Di Palma di “A& I” e Maria Cristina Ribera di “Mi”, oltre a Cecilia Bernardo, anche lei del gruppo moderato, che dirigerò la rivista dell’Anm. A differenza della volta scorsa, il mandato sarà quadriennale, senza rotazione dei vertici fra i gruppi. Santalucia, nato 56 anni fa a Catania, è in magistratura dal 1989: è stato pm a Patti e a Messina, poi gip a Reggio Calabria. Ha trascorso anche dei periodi fuori ruolo, prima come magistrato dell’Ufficio studi del Csm e, dall’agosto 2013 al febbraio 2018, come vice capo e poi come capo dell’Ufficio legislativo di via Arenula. Nella sua prima dichiarazione ha detto di sentire “il peso della responsabilità, assumendo la presidenza in un momento difficile per la magistratura per le recenti vicende e per la pandemia in atto”. Ha ribadito la necessità del “pluralismo” e della “unità di intenti”. Il programma che intende seguire, ha spiegato, è quello messo a punto due settimane fa nel tavolo tecnico costituito appositamente. “Non è un programma al ribasso - ha ricordato - ma di mediazione. Termine che non ha un’accezione negativa: mediazione e compromesso sono ciò che consente di camminare insieme”. Forti critiche sulla nuova giunta e sul nuovo presidente da parte, invece, delle toghe di Articolo 101, il gruppo nato per essere “contro le correnti” e che ha eletto quattro rappresentanti al comitato direttivo centrale. “Tanto tuonò che piovve - ha affermato Andrea Mirenda, giudice a Verona e tra i fondatori della nuova compagine - la restaurazione si è completata: dopo due mesi trascorsi a cercare disperati equilibri spartitori, a suggello della pax correntizia giunge a capo del sindacato delle toghe un magistrato già capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia ai tempi del ministro Andrea Orlando”. Il primo atto della rinnovata giunta, dal punto di vista della comunicazione, è stato ieri pomeriggio un comunicato sulla decisione del Tribunale di Francoforte di respingere il ricorso volto ad inibire l’uso del nome “Falcone& Borsellino” nell’insegna di un ristorante, ritenendo che la tutela della reputazione di Giovanni Falcone “a causa del passare del tempo e dello sbiadimento della memoria del defunto (...) non può più essere garantita”, dovendosi “anche tener conto del fatto che l’opera di Giovanni Falcone si svolse principalmente in Italia”. Ebbene, per l’Anm si tratta di “affermazioni che disorientano e offendono la memoria di Giovanni Falcone, svilendo il senso esemplare di un impegno impareggiabile per l’affermazione dei valori fondamentali di ogni società democratica. Falcone e Borsellino”, ricorda la nota dell’Anm, “sono un capitolo della storia comune del nostro tempo, che oltrepassa i confini nazionali e che non tollera considerazioni, specie di organi giudiziari, non sostenute da questa necessaria consapevolezza: la memoria è dovere civico e impegno culturale di tutte le Istituzioni dell’Unione”, fa notare l’associazione magistrati, “per l’affermazione, senza cedimenti, dei valori comuni in cui crediamo”. La protesta delle toghe onorarie: “Non siamo volontari, ora dateci quello che ci spetta” di Simona Musco Il Dubbio, 8 dicembre 2020 “Non siamo volontari, né stampelle. Vogliamo solo ciò che ci spetta”. La protesta della magistratura onoraria continua. Con flash mob da Palermo a Milano e lo sciopero della fame, da otto giorni, di Vincenza Gagliardotto e Sabrina Argiolas, giudici del capoluogo siciliano. Gagliardotto pesa ormai 45 kg. Ma nonostante questo, assieme ad Argiolas, ogni giorno va in Tribunale, come i circa 5mila colleghi sparsi in tutta Italia. La pretesa è una sola: “il riconoscimento di elementari diritti”, tuona la Consulta della magistratura onoraria rivolgendosi direttamente al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Martedì lo sciopero della fame si allargherà: alle due colleghe si unirà Giulia Bentley, vice procuratore a Palermo, “con un’esperienza oncologica non ancora terminata”. Un gesto estremo, con il solo scopo di rivendicare un trattamento equo e dignitoso. Sabato una delegazione di toghe ha deciso di sospendersi dalla funzione per protestare contro “il totale abbandono” in cui si sono ritrovati in periodo Covid. “Senza tutela alcuna per la salute, senza supporto alcuno dal punto di vista economico per chi si trovi, per malattia o quarantena, a non poter prestare servizio e dunque non percepisca il già misero gettone di udienza”, denuncia in una lettera Assogot I magistrati onorari si sono presentati vestiti di nero, con in mano una rosa rossa, ispirandosi allo sciopero del pane e delle rose del primo ‘900. “Retribuzione e tutele, questo chiediamo - scrivono. Le richieste non vengono prese in considerazione, le minacce di procedura di infrazione da parte della Commissione Europea vengono ignorate, le sentenze a noi favorevoli vengono interpretate in senso contrario dal Governo”. Basti pensare a quella pronunciata il 26 novembre dalla Sezione lavoro del Tribunale di Napoli, che accogliendo i ricorsi dei Giudici di Pace li ha ricondotti sotto la nozione di “lavoratori”, riconoscendo loro il diritto ad un “trattamento economico e normativo equivalente a quello assicurato ai lavoratori comparabili che svolgono funzioni analoghe alle dipendenze del ministero”, con condanna di via Arenula al pagamento delle differenze retributive. La Corte di Giustizia Ue, invece, a luglio aveva sancito il carattere di “lavoratore a tempo determinato” per i magistrati onorari, riconoscendo così il diritto a ferie retribuite come i colleghi togati. Ai quali sabato è stato chiesto di unirsi alla protesta. Nei giorni scorsi Bonafede aveva ribadito la sua attenzione alla causa, sottolineando la propria consapevolezza “del fondamentale contributo fornito dalla magistratura onoraria”, dopo essere stato pesantemente criticato per aver detto, nel corso di un’interrogazione, che l’esistenza della stessa “è legata alla finalità di contenere il numero dei togati, pena la perdita di prestigio e la riduzione della retribuzione della magistratura professionale”. Il ddl presentato dal Guardasigilli per riformare la legge Orlando è attualmente fermo. Quella norma, che entrerà in vigore ad agosto 2021, prevede un tetto massimo di due giorni di attività a settimana e una riduzione dei compensi, mentre le tutele previdenziali e assistenziali rimangono una chimera. La proposta di Bonafede prevede “un miglioramento” di tali condizioni, con un meccanismo retributivo commisurato all’attività svolta. L’indennità non si comporrà più delle due parti (fissa e variabile), ma verrà rideterminata in misura globale, comprensiva degli oneri previdenziali ed assistenziali, e sarà pari a 31.473 euro per i magistrati onorari che esercitano funzioni giudiziarie e inseriti nell’ufficio del processo, e 25.178 euro per quelli nell’ufficio di collaborazione del procuratore della Repubblica. Nel caso in cui il magistrato onorario opti per l’indennità fissa resta fermo il limite dei tre impegni settimanali. Per la relatrice Valeria Valente, del Pd, “va preservata l’impostazione della Orlando che prevede incarichi temporanei”, ma per salvaguardare la professionalità acquisita della magistratura onoraria “si è previsto che i giudici di pace possano mantenere cottimo e fisso”, con un raddoppio delle cifre a cottimo che consente di arrivare a 38mila euro l’anno. Rimane il nodo di previdenza e maternità, “temi da affrontare, ma nella prossima legge di Bilancio”. L’atteggiamento, sul punto, al momento è cauto. Ma allo studio ci sono dei testi migliorativi per andare incontro alle esigenze della magistratura onoraria. Al momento, l’ufficio di presidenza del Senato ha bloccato ogni provvedimento che non riguardi l’emergenza Covid, creando, dunque, uno stallo. L’intenzione di via Arenula, in primis del sottosegretario Vittorio Ferraresi, che segue in prima persona il dossier, è quello di velocizzare l’iter. Per tale motivo, dunque, il ministero sta sollecitando la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati affinché ci sia una deroga che consenta di lavorarci a gennaio. L’abuso d’ufficio non esiste più: ha vinto “l’impunità di gregge” di Saverio Francesco Regasto* Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2020 Quel che sembrava impossibile un anno e mezzo fa oggi è triste realtà ed è avvenuto utilizzando, come intelligente grimaldello, la pandemia e la necessità di procedere speditamente (e anche “arbitrariamente”) nella cantierizzazione dei lavori pubblici. Tuonava, nel maggio del 2019, il ministro dell’Interno: “Io abolirei l’abuso d’ufficio” - il reato previsto e punito dall’art. 323 del codice penale, ndr - “Lo abolirei perché non posso bloccare 8.000 sindaci per la paura di essere indagati. Ci sono sindaci che non firmano niente per paura di essere indagati”. Allora, nonostante le pressioni dal basso di amministratori locali e regionali, spesso indagati e talvolta condannati proprio per l’abuso d’ufficio (che si sostanzia nel procurare a sé o ad altri un vantaggio o un danno in violazione di una legge o di un regolamento), ci fu una levata di scudi tanto per l’ipotesi di una sua abrogazione, quanto per prendere in considerazione proposte di modifica che, di fatto, ne svuotassero la portata. Disse il partito alleato di governo per bocca di Luigi Di Maio: “Chi vuole proporre l’abolizione dell’abuso d’ufficio troverà un muro nel M5S... Io non voglio tornare indietro ai podestà che facevano quello che volevano”. Come talvolta capita a questo Paese, applicando la legge del contrappasso, quel che era impossibile e indicibile per un governo gialloverde è diventato realtà per l’esecutivo giallorosa: l’abolizione, di fatto, del reato, avvenuta, come vuole tradizione, in una calda giornata estiva, con il dl cosiddetto “Semplificazioni”. Non si è trattato di una mera “svista”, ma di una scelta volontaria volta a rendere impuniti i comportamenti di decine e decine di amministratori locali che potranno violare i Regolamenti comunali (basti pensare a quelli edilizie urbanistici), rispettando ogni disposizione di legge. È infine giunta, benvenuta da coloro i quali erano imputati, una sentenza della Cassazione che ha messo una pietra tombale in senso tecnico sulla vicenda, statuendo che la modifica apportata al codice ha efficacia retroattiva. Mi domando, francamente, se in nome di una presunta semplificazione e, soprattutto, dell’esigenza di “accelerare” i procedimenti amministrativi giacenti, valesse la pena di creare una sorta di “impunità di gregge” per l’unica fattispecie che consentiva ai pubblici ministeri di aprire un fascicolo d’indagini. C’è, infine, il capitolo relativo alla portata devastante della norma sul sistema universitario, questione sollevata da Giambattista Scirè, dell’Associazione Trasparenza e Merito. Come è noto, alle Università è riconosciuta una particolare forma di autonomia in virtù della quale le norme di organizzazione e di funzionamento, le procedure per l’assunzione di docenti e ricercatori, i concorsi per gli assegni di ricerca, per il dottorato, ecc. sono riservati allo Statuto di ciascuna università e ai regolamenti d’Ateneo, fonti che sfuggono dalla novella dell’art. 323 del codice penale. In buona sostanza, nel reclutamento del personale docente e ricercatore e in ogni altra procedura, non è più contestabile l’abuso d’ufficio. Certo è che la Pubblica amministrazione si ritrova oggi in una diarchia: quella “governata” esclusivamente dalla legge e quella, al contrario, in cui la normazione regolamentare prevale sulle fonti primarie. Per i funzionari della prima è ipotizzabile il reato di abuso d’ufficio, per quelli della seconda è del tutto escluso. Si impone, credo, una riflessione anche in termini di violazione del principio d’uguaglianza e di compatibilità del nuovo abuso d’ufficio con la Costituzione. Si deve dunque sperare, ancora una volta, in un intervento demolitorio della Corte. *Ordinario di Diritto pubblico comparato, Università degli Studi di Brescia Il procuratore contro il reato di clandestinità di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 8 dicembre 2020 Per il magistrato che guida la Procura di Trieste si tratta di una norma del tutto inutile. “Io non ho ancora capito perché, se non per questioni di bandiera politica, non riusciamo a liberarci del reato di clandestinità e cioè di dire che ogni persona che troviamo in Italia, per il solo fatto di esserci entrata, commette reato”. Stanno facendo discutere le parole del Procuratore Capo di Trieste, Antonio De Nicolo, pronunciate durante un’intervista nel salotto della trasmissione Ring sull’emittente locale Telequattro. È una delle rare volte in cui un esponente della magistratura si schiera così apertamente contro una norma che è stata introdotta nel 2009 con la legge 94 che istituiva appunto il reato di clandestinità. Ben presto gli esperti delle tematiche legate all’immigrazione denotarono l’inefficacia e l’inapplicabilità di tale legislazione. Sebbene fin dall’inizio l’illecito avesse natura penale, non era previsto l’arresto o il fermo di polizia, misure ammesse nell’ordinamento italiano solo in caso di reati che abbiano come conseguenza la detenzione. La pena dunque consiste in una sanzione pecuniaria per ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato con multe da 5 a 10mila euro. Nel frattempo la persona raggiunta da questo provvedimento viene denunciata a piede libero e nell’intervallo di tempo che intercorre fra l’avvio dell’iter giuridico e la sua conclusione può muoversi tranquillamente senza restrizioni. Per questo il Procuratore De Nicolo fa presente che si tratta di una condanna che è “platonica, non verrà mai eseguita perché (gli incriminati ndr.) non sarebbero mai in grado di pagare e, nel contempo, si tratta di procedimenti che intasano gli uffici dei tribunali. È una norma penale totalmente inutile, se la cancellassero farei un brindisi” “Già quando dirigevo Udine me ne rendevo conto - ha spiegato il Procuratore triestino ora che sono a Trieste dove il numero di denunce è molto più elevato ci troviamo subissati da queste denunce di reato per un sacco di persone pakistani, afghani, siriani che vengono portati a giudizio per un reato che prevede la sola pena pecuniaria, perciò anche quando la condanna verrà emessa non verrà mai eseguita perché non li troviamo più sul territorio”. A tutto ciò si aggiunge il fatto che anche la possibilità di convertire l’ammenda in un provvedimento di espulsione è puramente teorica. Il costo elevato dell’esecuzione e i pochi patti bilaterali con i paesi di provenienza chiudono infatti la strada ai rimpatri. Anche i tentativi di depenalizzazione che nel 2016 sembravano indirizzati su una strada favorevole sono caduti nel vuoto. Già all’epoca l’allora procuratore nazionale antimafia Franco Roberti definì il reato di clandestinità un “ostacolo per le indagini sui trafficanti di esseri umani”. Un aspetto sul quale si è soffermato anche De Nicolo durante l’intervista rilevando l’impossibilità per “l’immigrato illegale” di testimoniare contro il trafficante a “cui ha pagato il viaggio per farlo giungere fin qui”. Infatti - ha spiegato il Procuratore - “quando riusciamo a far dire chi è il destinatario delle somme pagate non possiamo usare questa testimonianza perché lo stesso testimone è indagato del suo reato di clandestinità e il difensore dell’indagato può tranquillamente dire che questa audizione non è utilizzabile”. Giornata contro la corruzione, “Il virus della legalità” La Repubblica, 8 dicembre 2020 L’evento con magistrati, prefetti, personalità della politica. In diretta streaming mercoledì 9 dicembre, alle 11, sul sito dedicato, su quello della Corte dei Conti, The Post Internazionale e Rai Cultura. Moderatori Pietro Del Soldà, Marco Filoni e Giulio Gambino. In occasione della Giornata Internazionale contro la Corruzione promossa dall’Unesco, venti tra magistrati, prefetti, personalità del mondo della politica e dalla giustizia parteciperanno a Il virus della legalità, evento online ideato dalla Fondazione De Sanctis e moderato da tre firme del giornalismo italiano: Pietro Del Soldà, Marco Filoni e Giulio Gambino. La maratona verrà trasmessa in diretta streaming mercoledì 9 dicembre, alle 11, sul sito dedicato, su quello della Corte dei Conti, The Post Internazionale e Rai Cultura. “La corruzione - scrive l’Unesco, che patrocina l’iniziativa - prospera in tempi di crisi e la pandemia globale in corso non fa eccezione. Durante la crisi sanitaria, combattere la corruzione può fare la differenza tra la vita e la morte”. Le collaborazioni. L’iniziativa è ideata in collaborazione con Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che dichiara: “La tutela dei diritti delle persone private della libertà è un compito innanzitutto preventivo: occorre prevenire qualsiasi diminuzione dei diritti delle persone, in particolare di quelle più vulnerabili. In questa prospettiva la prima prevenzione riguarda la lotta a ogni forma di corruzione: quella che porta le persone socialmente fragili a divenire vittima di chi falsamente si presenta come possibile risolutore di problemi, quella che porta alle discriminazioni anche in quei luoghi dove l’uguaglianza dovrebbe essere elemento costitutivo, quella che porta a defraudare le risorse delle istituzioni riducendo la loro capacità di rispondere ai bisogni della collettività, a totale vantaggio di quelle realtà criminali che nella corruzione trovano il proprio terreno di espansione”. Il dramma di Ottaviano Del Turco, tolta la pensione e in fin di vita: è tortura di Piero Sansonetti Il Riformista, 8 dicembre 2020 È un provvedimento illegale, perché attua retroattivamente una norma che molto probabilmente è comunque anticostituzionale. Ed è una decisione ispirata a due sole tendenze: quella al sadismo e quella all’ignoranza. L’ufficio di presidenza del Senato ha tolto la pensione da parlamentare a Ottaviano Del Turco. Perché? Perché ha una condanna a tre anni per “induzione indebita”. La condanna si riferisce a un fatto del 2006. La legge che toglie la pensione ai condannati è del 2015. La decisione del Senato viola in modo clamoroso la Costituzione che esclude la retroattività delle pene. Del Turco è stata una delle figure più importanti del sindacalismo italiano dalla fine degli anni Sessanta fino al 1992. Protagonista dell’autunno caldo, delle grandi lotte degli anni 70, della battaglia contro il terrorismo, poi della stagione del taglio alla scala mobile e della divisione e poi della ricucitura dei sindacati. È un personaggio molto importante della prima Repubblica. Un socialista. L’Italia gli deve molto. Del Turco è una bravissima persona, la condanna che ha subìto è ingiusta e senza prove. Pende in Cassazione la richiesta di revisione del processo. Del Turco dopo la persecuzione giudiziaria si è ammalato molto seriamente. Prima il tumore, poi l’Alzheimer ora anche il Parkinson. È chiuso in casa. Non parla, non riconosce neanche i parenti stretti. La decisione contro di lui è illegale e sadica. L’unica possibilità di ristabilire il diritto è che intervenga Mattarella concedendo la grazia. L’ufficio di presidenza del Senato ha tolto la pensione ad Ottaviano Del Turco. Quello che chiamano il vitalizio. Credo che abbia votato all’unanimità questo provvedimento indecente. Come hanno potuto, mi chiedo. Molti senatori si saranno semplicemente accodati, a capo chino, alla morale prevalente nella politica italiana degli anni venti: il più rozzo grillismo. Qualcuno lo avrà fatto per paura di essere poi indicato dai giornali reazionari come l’amico dei corrotti. Il terrore degli anatemi del “Fatto”. Qualcun altro, magari, per semplice ignoranza. Probabilmente solo pochi tra i senatori che hanno deciso questa misura odiosa sanno chi è Del Turco, e cioè conoscono nel dettaglio la sua biografia. Del Turco è stato uno degli esponenti di maggior valore della prima repubblica, uno di quelli che hanno portato l’Italia ad un grado molto alto di civiltà e di giustizia sociale, e poi l’hanno sistemata al quarto posto tra le potenze mondiali. Prima del crollo politico, e del crollo morale, e del crollo economico che sono venuti dopo il ‘92. Immagino anche che pochi, in quel gruppetto di senatori che si sono macchiati di questo atto vile, sappiano che Del Turco oggi è gravemente malato. E suppongo che molti, tra loro, invece, ignorino - per distrazione, per mancanza di studi, per giovinezza politica che l’articolo 25 della Costituzione (secondo comma) recita così: “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.” Fu scritto, questo articolo della Costituzione, da esponenti della politica e della cultura italiana di livello molto alto, e che avevano speso un pezzo importante della propria vita nella battaglia contro la dittatura, il fascismo, e l’invasione militare nazista. Molti tra loro avevano trascorso anni e anni in prigione, o al confino. Se chiedi i loro nomi al drappello di coraggiosi che ha avuto l’animo di sottoscrivere questo provvedimento di condanna per Del Turco, probabilmente solo qualcuno di loro saprà balbettare due o tre di questi nomi. Chissà chi conosce Fausto Gullo, o Tristano Codignola, o Teresa Mattei, o Costantino Mortati, o Giuseppe Romita… Questi uomini e queste donne della Costituente, tennero fermo un punto comune a tutti: ripristinare lo Stato di diritto. Quello che è successo l’altro giorno all’ufficio di Presidenza del Senato è una cosa indegna. Che getta vergogna sulle istituzioni del nostro paese. È un atto vigliacco, feroce e illegale. Illegale perché il presunto reato del quale è ingiustamente accusato del Turco risale comunque al 2006 e la norma sul ritiro della pensione è del 2015. Non esiste nessun costituzionalista al mondo che potrà sostenere che restare senza pensione non sia una pena accessoria, per qualunque cittadino, parlamentare o no che sia. E non esiste nessun costituzionalista che potrà mai spiegare a qualcuno che conosce l’italiano, e che ha letto la Costituzione (che è scritta in semplice italiano) che una pena retroattiva è legittima. La punizione decretata dal Senato per Del Turco è infame ma anche illegale. Spero che molti di quelli che l’hanno sottoscritta lo abbiano fatto inconsapevolmente, per distrazione. Ora c’è un solo modo per riparare. Cioè, c’è una sola persona che può intervenire per sanare questo orrore. È il Presidente della Repubblica. Che per fortuna appartiene ad un’altra generazione politica, rispetto a quella dei fucilieri di Del Turco. Sergio Mattarella conosce la storia della politica italiana, conosce i princìpi della Costituzione (e in generale quelli del diritto), conosce le debolezze della magistratura da prima ancora che ce le descrivesse Luca Palamara. Solo lui può intervenire e risolvere questo problema concedendo la grazia a Ottaviano Del Turco. Del Turco è un ragazzo abruzzese, nato negli ultimi giorni dell’occupazione tedesca, nel 44: credo che fosse un ragazzo povero, da adolescente scappò a Roma e si mise a fare il sindacalista. A venticinque anni era già un dirigente nazionale della Fiom. Del Turco era socialista ed era impegnato nella Cgil dei metallurgici, insieme ai comunisti. Ha avuto un ruolo di grande rilievo nel sindacato e nelle battaglie furiose di quegli anni: con Trentin, Carniti, Benvenuto, Marianetti, Macario, Marini, Bertinotti, Storti e col suo grande amico che fu Luciano Lama. Ha partecipato all’autunno caldo, era sul palco di Piazza del Popolo nel dicembre del 1969, quando una marea di metalmeccanici invase Roma e cambiò la stagione politica, e anche la stagione sociale, avviando la riconquista di diritti e salari da parte della classe operaia. E poi è restato al vertice del sindacato in quegli anni di grande riforme, di lotte, di paura, e anche di divisioni. Allora fare politica non era un grande affare: guadagnavi due lire e rischiavi pure di beccarti una pallottola dai brigatisti o dai terroristi neri. Nel 1984, quando Craxi decise di tagliare la scala mobile, il sindacato si spaccò in due: Del Turco stava con Carniti e con Craxi, contro Lama e Trentin. Vinse quella battaglia, e poi si diede da fare per ricucire, per evitare una disfatta sindacale. Nel 92, quando scoppiò Tangentopoli, entrò in politica, fece il parlamentare, il ministro, il Presidente dell’antimafia, aderì al Pd. Fino al giorno nel quale cadde in una piccola congiura abruzzese della quale fecero parte imprenditori della sanità e qualche magistrato. Del Turco fu messo in trappola, accusato addirittura di associazione a delinquere. Gettato in carcere per mesi. Le prove non c’erano, per questo lo tenevano in cella. Speravano che confessasse. ma non aveva niente da confessare. Le poche prove sbandierate dagli accusatori si rivelarono false. Alla fine le accuse caddero quasi tutte, la Cassazione le cancellò, la teoria del grande imbroglio si sbriciolò, e Del Turco, che era stato abbandonato da quasi tutti, soprattutto - come succede spesso - dal suo partito, e cioè dal Pd, finì condannato solo per il reato di induzione indebita. È stata una condanna ingiusta, fondata su un teorema, non sulle prove. Ora pende in Cassazione una richiesta di revisione del processo. Del Turco però non saprà mai se il nuovo processo ci sarà davvero e se finalmente potrà ottenere l’assoluzione. Perché la lunga vicenda giudiziaria lo ha logorato, ha annientato il suo fisico. Oggi è chiuso in casa, è malato di cancro, di parkinson e di alzheimer. Non ragiona più. Non riconosce nemmeno i suoi familiari. Ha pagato in modo terrificante una colpa che non ha commesso. È contro quest’uomo, cioè contro uno dei protagonisti della storia della repubblica e contro una persona malatissima, che si sono accaniti i senatori che hanno deciso di togliergli la pensione. Ci sarà una rivolta di politici, di intellettuali, di giornalisti, di persone normali, di fronte a questo atto di puro sadismo? Temo di no. Confido molto invece in Mattarella. Lui ha conosciuto la prima repubblica. Sa chi erano i politici allora, e soprattutto i sindacalisti. Sa anche che se l’Italia oggi è un paese civile grande parte del merito va proprio a quella generazione di sindacalisti che hanno combattuto per anni, e rischiando molto, sulle barricate. Mattarella conosce la questione morale, quella vera: sa che nel più corrotto esponente della prima repubblica c’era molta più moralità che in un politico dilettante di oggi. Ha il potere di sanare questa ingiustizia e io penso che lo farà. Parma. Assistenza intensiva al collasso, più di 100 detenuti in attesa di cure di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 dicembre 2020 La denuncia del Garante nazionale Mauro Palma: “Serve maggiore attenzione”. Il carcere di Parma ci sono più di cento detenuti bisognosi di cure, ma sono in attesa di entrare nel centro clinico interno (Sai) perché tutti i posti sono occupati. Parliamo di una delle tante criticità che il Garante nazionale delle persone private della libertà ha riscontrato durante la visita negli istituti dell’Emilia- Romagna. La delegazione - composta dall’intero collegio del Garante (Mauro Palma, presidente, e Daniela de Robert ed Emilia Rossi, componenti) e da sei membri dell’Ufficio - ha visitato diversi luoghi di privazione della libertà: dagli Istituti penitenziari, alla Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), alle camere di sicurezza delle varie forze di Polizia, inclusi i cosiddetti “locali idonei” introdotti dal “Decreto Sicurezza 2018” delle Questure, alle Residenze sanitarie assistenziali per persone anziane o con disabilità (Rsa e Rsd). Parliamo di una prima visita che ha riguardato la parte occidentale della regione. Per quanto riguarda l’area penale, il Garante nazionale ha osservato che nei due Istituti la diffusione del Covid-19 in questa fase è estremamente limitata, con uno e due casi tra i detenuti e altrettanto ridotta tra gli operatori. In entrambi, al momento della visita, sia il personale che le persone detenute dotati di mascherine e i tamponi vengono effettuati in maniera sistematica a chi entra in carcere. Questo elemento, secondo il Garante, va valutato positivamente anche se l’alto numero di persone detenute anziane o con più patologie presenti nell’Istituto di Parma induce a molta attenzione e cautela. “L’Istituto di Parma - rende noto il Garante - ha, infatti, una sua evidente complessità non solo perché comprende una Casa di reclusione e una circondariale, ma anche perché la stessa reclusione si articola in una pluralità di circuiti diversi, con spesso situazioni di incompatibilità tra di loro”. Particolarmente critica è la presenza di un gran numero di persone assegnate all’Istituto da altre regioni per motivi di salute in vista del ricovero nel Servizio di assistenza intensiva (Sai) e in quello per disabili, sezione paraplegici (Crupi); persone che frequentemente vengono assegnate all’Istituto indipendentemente dall’effettiva disponibilità di posti nei rispettivi reparti sanitari. Il risultato, denuncia il Garante, è che attualmente più di cento persone bisognose di specifiche cure attendono nei reparti comuni senza quell’assistenza sanitaria di cui necessitano; oltretutto, ingolfando l’Istituto. “Si tratta di una situazione che richiede una diversa attenzione da parte dell’Amministrazione, ribadendo che ogni ipotesi di assegnazione richiesta dalla Magistratura di sorveglianza di altri distretti, spesso in risposta a richieste di sospensione facoltativa della pena o di detenzione domiciliare per motivi di salute, deve essere valutata sulla base della effettiva possibilità di presa in carico sanitario della persona una volta giunta a Parma”, osserva sempre il Garante Nazionale. Vasto (Ch). Morto in carcere, il pm ordina l’autopsia Il Centro, 8 dicembre 2020 Scatta l’inchiesta sulla morte di un detenuto avvenuta nel carcere di Torre Sinello. Il sostituto procuratore della Repubblica di Vasto, Michele Pecoraro, ha aperto un fascicolo a carico di ignoti. Il pubblico ministero ritiene necessario a questo punto disporre accertamenti medico legali sulla salma dell’uomo per stabilire le cause del cesso. Per questo motivo il 9 dicembre, negli uffici della procura, il pm Pecoraro conferirà l’incarico al professor Cristian D’Ovidio. A richiedere l’autopsia è stata anche la compagna del detenuto milanese di 39 anni, protagonista della triste vicenda. La donna è assistita dall’avvocato Raffaele Giacomucci, che ha presentato in procura un’istanza in cui chiede di accertare le modalità della morte del suo cliente, dove sarebbe avvenuta e cosa avrebbe spinto il detenuto a compiere il presunto gesto estremo. “Il mio cliente potrebbe anche essere morto d’infarto”, ipotizza l’avvocato Giacomucci. Il corpo dell’uomo è stato trovato nella tarda mattinata di martedì dagli agenti della polizia penitenziaria. Il 39enne era nella sua cella da solo. Pare che avesse accanto un sacchetto di plastica e una bomboletta di gas. È probabile che l’autopsia legale venga eseguita giovedì a Chieti. L’avvocato Giacomucci si era occupato del trasferimento del detenuto in una comunità. “Presto ci sarebbe stata l’udienza e, subito dopo, il mio cliente sarebbe uscito da Torre Sinello”, ricorda il legale. Milano. Contagi in aumento, la Caritas Ambrosiana porta fuori 30 detenuti di Luca Cereda vita.it, 8 dicembre 2020 Le persone sono state ospitate in strutture della diocesi di Milano. Si tratta di reclusi che possono scontare gli ultimi 24 mesi all’esterno ma non hanno un domicilio. Così si riduce il sovraffollamento e si rende rieducativa la pena, anche e soprattutto al tempo del Covid-19. Carceri sovraffollate: un problema storico, in Italia. Un problema che il Coronavirus ha reso ancora più drammatico di quanto non fosse prima di marzo 2020. Un problema che rischia di “diventare una tragedia”, come ha denunciato lo stesso papa Francesco, chiedendo alle autorità italiane di “prendere le misure necessarie per evitare tragedie umane e sanitarie”. Tragedie umane che continuano ininterrottamente da primavera con i parenti e i volontari lasciati fuori dalle carceri, come ha ribadito più volte a gran voce anche Ornella Favero, guida della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Nel frattempo, nelle carceri lombarde sono almeno 900 i detenuti positivi al virus, mentre sono più di 1000 i casi tra gli operatori del settore penitenziario. Eppure una speranza, tangibile, qualcuno in carcere l’ha portata. In carcere gli spazi sono ridotti non solo dall’annoso problema del sovraffollamento, ma anche dalla necessità di creare zone per la cura dei positivi al virus e per la quarantena di chi presenta sintomi. In questo scenario, far uscire in modo controllato e costruttivo - una possibilità data dalla Legge - i detenuti dalle carceri era fondamentale già da marzo non solo per dare sostanza alla rieducazione della pena, ma anche per alleggerire le carceri sovraffollate e a rischio contagio. In Lombardia il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il Tribunale di sorveglianza, il mondo del volontariato e la curia stavano studiando con la Regione, ancora a marzo, un piano per accompagnare e facilitare le uscite dei detenuti dalle carceri regionali e l’accompagnamento sul territorio in modo controllato. “Tutto è però saltato perché la Regione ha rifiutato 900 mila euro della Cassa delle ammende che può finanziare programmi di reinserimento per i detenuti”, spiega Guido Chiaretti, presidente di Sesta Opera San Fedele. E non è finita qui: a frenare in parte alcune scarcerazioni previste c’è, ancora a distanza di mesi, la carenza di braccialetti elettronici. In questo scenario trenta reclusi, che possono scontare gli ultimi 24 mesi all’esterno ma non hanno un domicilio, hanno trovato un’occasione per farlo grazie all’iniziativa di Caritas Ambrosiana e della diocesi di Milano. “La nostra è una risposta certo non risolutiva, ma concreta e, nel contempo, di grande valore simbolico al problema del sovraffollamento in questa stagione di emergenza sanitaria”, testimonia il direttore di Caritas Ambrosiana Luciano Gualzetti. È un segno di speranza che qualcosa si può fare. Ebbene trenta persone recluse in istituti di pena lombardi, milanesi ma anche da Lecco, Varese e Busto Arsizio, da marzo stanno scontato il resto della detenzione in strutture della diocesi sparse in tutta la regione. “I beneficiari, indicati dal magistrato di sorveglianza, stanno scontando il residuo di pena nelle strutture individuate e saranno sottoposti alle misure di tutela previste dall’Uepe [l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna]. Insomma, continueranno, dunque, a essere a tutti gli effetti dei detenuti, soggetti a restrizioni della loro libertà personale e ai controlli di polizia. Ma godranno della possibilità rieducativa, parte della stessa pena, di tornare a vivere ed occuparsi di uno spazio, di una casa”, spiega Ileana Montagnini, responsabile dell’area carcere di Caritas Ambrosiana. “L’emergenza Coronavirus sta facendo venire al pettine tanti nodi irrisolti del “sistema-carcere” del Belpaese. Tra questi, quello del sovraffollamento che, a causa della pandemia in corso, potrebbe assumere caratteristiche tragiche”, insiste Gualzetti. “Con questa nostra iniziativa - della quale Caritas sostiene i costi mentre la diocesi di Milano mette a disposizione le strutture - vogliamo garantire ai detenuti la possibilità di scontare la pena al di fuori dei penitenziari” investendo sul lato rieducativo e non so quello punitivo. Si tratta di una misura già prevista dal nostro ordinamento: “Tuttavia ancora troppo poco praticata nonostante la sua efficacia sulla riduzione della recidiva - ricorda Montagnini -, vale a dire la probabilità che il detenuto commetta nuovamente il reato”. Quale sia la situazione delle carceri al tempo dell’emergenza coronavirus, quali le sofferenze, quali le cause di preoccupazione, lo abbiamo raccontato negli ultimi mesi con analisi sulle implicazioni umane e sociali della pandemia dentro gli istituti di pena. Il contagio del virus che avanza, spazi ancora più stretti e il deserto umano dovuto all’assenza di contatti con i famigliari, con i volontari. E poi il ricorso ai dispositivi tecnologici per i contatti con l’esterno avvenuto con il contagocce. “Hanno sospeso i colloqui con i familiari, le attività e la presenza dei volontari, le misure alternative come il lavoro esterno. Questa situazione aumenta il senso di isolamento e di solitudine. È come se il carcere tornasse indietro a quando era il luogo dove punire e isolare. Il cronico sovraffollamento degli istituti, l’emergenza sanitaria e l’isolamento dall’esterno imposto per prevenire i contagi, e lo stop a quasi tutte le attività formative promosse in gran parte dal mondo dell’associazionismo stanno creando grandi difficoltà e sofferenze”, testimonia inoltre la responsabile dell’area carcere della Caritas Ambrosiana. “Sarebbe opportuno che progetti come il nostro, che mirano alla rieducazione del reo, non restassero casi isolati ma fossero sistematici e frutto della collaborazione tra il Terzo settore, il volontariato e le istituzioni. Il nostro progetto non mira solo all’autonomia abitativa dei 30 detenuti di cui ci occupiamo, ma lavoriamo con loro anche per costruire un’educazione digitale, quanto mai fondamentale in quest’epoca di pandemia”, continua Montagnini. È necessario che le autorità trovino modalità che consentano, anche in questo momento molto difficile a livello sanitario, lo svolgimento dell’attività di risocializzazione dei detenuti, a cominciare dalla scuola dentro e fuori dal carcere, valutando la possibilità di offrire la didattica a distanza. “Bisogna puntare ad avere sempre più provvedimenti che accelerino l’accesso alle misure alternative dei detenuti, e anticipino le scarcerazioni quando ve ne sono le condizioni, in modo da limitare anche l’aumento della popolazione carceraria”, ha auspicato infine il direttore di Caritas Ambrosiana. Con la speranza che altre realtà del Terzo settore possano offrire soluzioni simili ad altri reclusi. Il Terzo settore e il mondo del volontariato in carcere, perché questa chance le istituzioni sono lontane dal garantirla. Modena. Carceri sovraffollate, penalisti in sciopero della fame di Giulia Parmiggiani Tagliati modenatoday.it, 8 dicembre 2020 Tra i promotori della mobilitazione “Per un carcere più umano” anche Massimo Donini, professore ordinario di Diritto Penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza di Unimore. Massimo Donini, professore ordinario di Diritto Penale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia, si è fatto promotore, insieme al noto giurista palermitano Giovanni Fiandaca, della mobilitazione pacifica “Per un carcere più umano”, volta ad accendere i riflettori sull’attualissima problematica del sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani, aggravata ulteriormente dall’emergenza sanitaria. L’iniziativa, che vede protagonisti i professori di Diritto Penale e di Diritto Processuale Penale delle università di tutto lo stivale; e che ad oggi conta oltre 200 adesioni, spalleggia idealmente lo sciopero della fame che Rita Bernardini, membro del Partito Radicale e Presidente dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”, porta avanti da 27 giorni; e con lei Irene Testa, Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano e quasi tremila detenuti. Anche i docenti infatti hanno organizzato uno sciopero della fame a staffetta, calendariato fino al 17 dicembre. Questa proposta, prestando il fianco a critiche giustizialiste, ha l’obiettivo di chiedere al governo e alle autorità competenti di adottare provvedimenti idonei a ridurre il più possibile il sovraffollamento delle carceri italiane: problema che, lungi dall’essere nato in seno alla pandemia, trova in essa un punto di partenza. Guardando alla realtà locale infatti, una statistica dall’Associazione Antigone risalente al dicembre 2019, fotografava un tasso di affollamento del 142% alla Casa Circondariale Sant’Anna. “Questa emergenza sanitaria [...] - si legge nella presentazione dell’iniziativa - può rappresentare un’importante occasione per riaccendere le luci sul pianeta-carcere e sollecitare il potere politico a riprendere il cammino delle riforme necessarie per ridare vitalità e concretezza ai principi enunciati nel terzo comma dell’art. 27 della Costituzione”, che vieta le pene disumane, che tutto fanno fuorché perseguire l’obiettivo principale del diritto penale, ossia la rieducazione del condannato. Santa Maria C.V. (Ce). Rubò energia elettrica nel 2009, è molto malata ma la tengono in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 dicembre 2020 È una detenuta gravemente malata, si trova ristretta al carcere di Santa Maria Capua Vetere per scontare un residuo di pena per un furto di energia elettrica. Reato commesso nel lontano 2009. Ha tutti i requisiti per stare in detenzione domiciliare avendo una pena da espiare ampiamente inferiore ai 18 mesi, ma il magistrato di sorveglianza ha rigettato l’istanza. Perché? Oltre al fatto che la donna sarebbe priva di domicilio e sanzionata per le infrazioni disciplinari, ha la colpa di aver finito di espiare un’altra condanna: quella che rientra tra i reati ostativi. Attenzione, parliamo di una pena di due anni e 6 mesi che ha già finito di scontare, mentre quella relativa al furto di energia è di un anno e due mesi. Da ciò si evince che non parliamo di una pericolosa criminale. Infatti, ricordiamo, i reati ostativi (4 bis dell’ordinamento penitenziario) non contemplano soltanto coloro che appartengono al terrorismo o criminalità organizzata. Lei ha partecipato ha una rapina pluriaggravata. Tant’è vero che nel 2019, nel corso della detenzione per questo reato ostativo, fu posta ai domiciliari dalla stessa corte di appello di Napoli, dopo che il carcere attestò l’esistenza di patologie tumorali. L’avvocato difensore Salvatore Barbuto, sottolinea al Dubbo che, rispetto a queste gravi patologie, da tre mesi hanno richiesto accertamenti. Ma non vengono tuttora effettuati. Lei si chiama Arca Baldassarre, classe 1973, ma è piena di patologie che di solito si riscontrano in persone con età avanzata. Oltre alla patologia tumorale, dalla relazione sanitaria emerge che è affetta da “broncopatia cronica con dispnea riferita dopo lievi sforzi, noduli tiroidei n.d.d, cervicalgia persistente, fibromima uterino, ipertensione arteriosa, obesità, carie dentarie e disturbi del visus”. Come detto, nonostante il reato ostativo e quando nemmeno c’era l’emergenza covid (virus che potrebbe essere compromettente visto le sue patologie), la corte d’Appello ha concesso la sostituzione della custodia cautelare con gli arresti domiciliari. Non solo. “Unitamente alla condotta collaborativa della predetta nell’ambito del recente giudizio d’appello - ha scritto la Corte - fanno ritenere, le pur ancora esistenti esigenze cautelari debitamente evidenziate nell’ordinanza inflittiva, fronteggiabili adeguatamente anche con la chiesta misura custodiale domiciliare senza necessità di dispositivi elettronici di controllo; ciò anche per rendere più agevole il trattamento sanitario delle gravi patologie riscontrate nella relazione sanitaria e nel diario clinico”. Il giudice della Corte, quindi, non solo ha concesso i domiciliari nel 2019, ma ha addirittura evitato di porre misure restrittive. Questo per garantirle il diritto alla cura che il carcere non può dare. Per il reato ostativo, quindi, la misura domiciliare è stata concessa. Invece, per il residuo di una pena per un furtarello, c’è il magistrato di sorveglianza che ha rigettato la richiesta. In carcere senza se e senza ma, proprio nel periodo dell’emergenza Covid dove si richiede la carcerarizzazione come estrema ratio. Parliamo, nel caso della donna, della richiesta di una misura introdotta dal decreto Ristori. Misura, secondo giuristi e il garante nazionale, ritenuta perfino insufficiente per alleviare la condizione di sovraffollamento carcerario nella quale sono ricadute le carceri dopo la tregua segnata dai provvedimenti seguiti alla nota vicenda “Torreggiani” nel 2013. Eppure, non solo è insufficiente, ma in tanti casi nemmeno verrebbe applicata. Ricordiamo ancora una volta che c’è Rita Bernardini del Partito Radicale al 28esimo giorno dello sciopero della fame per chiedere al Governo e parlamento di inserire misure deflattive più efficaci. La vicenda della detenuta Arca Baldassarre è emblematica per questo motivo. È gravemente malata, reclusa nel carcere campano per un piccolo furto, ma per la magistratura deve restare dentro. Brindisi. Covid e istituti penitenziari, le misure di prevenzione della Asl brindisireport.it, 8 dicembre 2020 Dal mese di febbraio a oggi sono più di 2.100 i tamponi molecolari effettuati nella casa circondariale di Brindisi a detenuti, agenti di polizia penitenziaria, educatori e personale sanitario. Il dipartimento di prevenzione della Asl, di concerto con la direzione medica dell’istituto penitenziario, programma in maniera sistematica l’attività di screening per evitare la diffusione del contagio nella struttura. “Dalla prima fase della pandemia - sottolinea il direttore del servizio di Igiene e Sanità pubblica della Asl, Stefano Termite - con il nostro screening abbiamo registrato soltanto tre casi positivi di detenuti in transito nell’Istituto. Per questo è fondamentale il triage, la valutazione iniziale del rischio di infezione per ogni ingresso nella casa circondariale. Ai primi di novembre - prosegue - il dipartimento per la promozione della salute della Regione Puglia ha diramato le linee guida per prevenire la diffusione del Covid negli istituti penitenziari, con indicazioni ulteriori rispetto a quelle già previste, e la creazione di ‘aree cuscinetto’, dove ospitare i ‘nuovi giunti’ che devono restare isolati per un periodo precauzionale di sette giorni”. “All’arrivo - spiega il responsabile sanitario della casa circondariale, Giovanni Indini - il detenuto asintomatico viene ospitato nella cosiddetta zona gialla e sottoposto a un primo tampone dopo 72 ore. Se è negativo passa in un’area verde per ulteriori quattro giorni, al termine dei quali viene effettuato un nuovo tampone. Se è negativo anche questo può entrare in comunità. Una zona rossa, invece, è riservata ai casi sospetti sintomatici o accertati di infezione da Covid-19. Quando un detenuto già presente in carcere ha sintomi che possono suggerire un’infezione da Covid - continua Indini - la visita medica si svolge in una zona dedicata che viene poi accuratamente sottoposta a sanificazione”. I detenuti che arrivano da altri istituti penitenziari e sono in possesso di risultato negativo al tampone eseguito nel luogo di provenienza vengono sottoposti a un secondo test a 72 ore dall’ingresso: se la negatività viene confermata possono essere ospitati negli spazi comuni. Se invece sono sprovvisti di certificazione del tampone saranno trattati come “nuovi giunti”, così come i detenuti che rientrano dall’esecuzione di permessi. I ristretti in regime di semilibertà, infine, sono ospitati in zone separate dalla restante popolazione detenuta e al rientro serale in Istituto devono compilare la scheda di autocertificazione ed essere sottoposti a rilevazione della temperatura corporea. Viterbo. “Sul Garante dei detenuti votazione regolare e c’è pure un precedente” di Giuseppe Ferlicca tusciaweb.eu, 8 dicembre 2020 La maggioranza contesta l’approvazione, ma Massimo Erbetti (M5S) non molla e promette battaglia. Il consiglio comunale ha dato il via libera alla figura del Garante dei detenuti in una seduta infuocata. L’opposizione è riuscita a far passare la delibera, nonostante in maggioranza FdI e Lega fossero contrari, ma complice l’assenza al momento del voto di Forza Italia e mezza Fondazione, è finita con 13 sì e 12 no. Un ok a sorpresa, con una sorpresa ancora più grossa il giorno dopo. Votazione ritenuta non valida. Perché, regolamento alla mano, per il regolamento serve la maggioranza qualificata dei votanti. Ovvero, almeno 17. L’opposizione ha già fatto sapere il proprio punto di vista. Al voto è stata messa la delibera e non il regolamento, quindi è tutto valido. Ma qualora ci fossero altri dubbi, Erbetti ha trovato un precedente. “A ottobre del 2017 - ricorda Erbetti - è stato approvato un regolamento con 14 voti favorevoli e nessuno ha sollevato problemi. In quel caso, poi, si è fatto esplicitamente riferimento al regolamento, mentre stavolta il presidente ha portato in votazione la delibera”. Nella prossima seduta ordinaria di consiglio se ne dovrà discutere. Non sarà una passeggiata. Il caso trovato da Erbetti risale al 5 ottobre 2017, quando è passato il regolamento sul governo delle società partecipate, un adeguamento. “Ultimata la discussione - riporta il verbale di quella seduta - il presidente pone ai voti, per appello nominale, la proposta di deliberazione, che viene approvata all’unanimità da 14 consiglieri votanti su 24 presenti. Astenuti 10 (Insogna, Moltoni, Sberna, Ubertini, Galati, Grancini, Buzzi, Santucci, De Dominicis e Frontini). Assenti 9 (Serra, Frittelli, Minchella, Mongiardo, Taborri, Marini, Micci, Rossi e De Alexandris)”. In quell’occasione, si trattava di un consiglio comunale in seconda convocazione, quando sono sufficienti 12 consiglieri per rendere valida la seduta, anziché 17. Ma questo non sposta nulla nel ragionamento di Erbetti. “Perché il regolamento parla chiaro - ribadisce il consigliere M5s - serve la maggioranza dei consiglieri assegnati”. Non dei presenti, quindi. Il totale fa sempre 17. “Continuo a ribadire - sostiene Erbetti - che le ragioni che ho sentito non stanno né in cielo né in terra. È già accaduto nel 2017 che un regolamento passasse con un numero di sì inferiore. La debolezza della maggioranza non la possono coprire con un tecnicismo”. Ma per Erbetti, il precedente non servirebbe nemmeno. La votazione di giovedì scorso, per come è stata effettuata, è regolare. “Il presidente del consiglio - spiega Erbetti - non ha fatto riferimento al regolamento, noi abbiamo votato la delibera che istituisce il garante dei detenuti”. Ovvero, non una votazione speciale ma ordinaria. Non 17, di voti ne bastavano 13 voti. Numeri comunque da paura. Cassino (Rm). “Esco a lavorare”, prende il via il progetto per i detenuti ilpuntoamezzogiorno.it, 8 dicembre 2020 Dopo la firma del protocollo tra l’Amministrazione comunale, la società Autostrade e la casa circondariale di Cassino, è arrivato il momento di entrare in aula e formare i ragazzi che prenderanno parte al progetto “Esco a lavorare”. Il 9 dicembre, infatti, parte il corso di formazione organizzato dalla società Autostrade che formerà sui temi della sicurezza, segnaletica stradale, manutenzione e decoro urbano. A valle del corso, partirà la fase operativa, che vedrà impegnate sul territorio gli allievi che dall’aula “usciranno a lavorare”, tutti a titolo volontario e sempre coordinati da un referente del Comune per la manutenzione; sarà sempre la società Autostrade a fornire tutti i DPI necessari, così come mezzi e materiali utili alle attività che andranno a svolgere. Non nasconde l’entusiasmo l’assessore Barbara Alifuoco: “Siamo orgogliosi, come amministrazione, di replicare per la città di Cassino quanto svolto a Roma nel 2018, dapprima con un progetto sperimentale di manutenzione del verde, “Mi riscatto per Roma”, e poi aprendo anche ad altre attività più complesse, sempre svolte dai detenuti, come il ripristino delle buche e il tracciamento della segnaletica orizzontale. Ma a Cassino abbiamo voluto fare di più. Abbiamo esteso il progetto anche all’associazione “Ethica” coinvolgendo una squadra di ragazzi che, ospiti dell’associazione, metteranno a disposizione della nostra comunità il loro tempo e le loro capacità. Anche per loro è previsto il passaggio formativo in aula e, poi, l’operatività sul campo”. Le finalità della presente iniziativa sono tante: affiancare l’enorme lavoro dell’Amministrazione Comunale di manutenere la città, cercando di migliorare il decoro urbano, coinvolgere i detenuti del carcere di Cassino, selezionati dall’Amministrazione Penitenziaria, portandoli a rendersi utili e avviare un percorso di reinserimento nella società, nel pieno rispetto dell’art. 27 della Costituzione, che vede nella pena il fine altissimo della rieducazione, e da ultimo, ma non ultimo, dare concretezza al concetto di integrazione, la via maestra da praticare per una società meno brutale, con meno conflitti e con più dialogo. “Sull’integrazione ritengo si giochi una parte del presente e del futuro delle vite di tutti noi; il tema delle conflittualità presenti all’interno delle dinamiche sociali riguarda tutti, nessuno escluso. La violenza che nasce dal degrado, dalla mancanza di possibilità per chi si trova ai margini, la rabbia che viene coltivata, anziché risolta, non può portare positività e crescita all’interno delle nostre comunità; ecco perché, riteniamo che, tutte le volte che si può, vada sostenuta un’idea di integrazione che non si deve limitare a fornire sussistenza, ma deve essere costruita ed attuata attraverso percorsi di informazione e formazione, attraverso iniziative che portino ad un inserimento sociale vero, fatto di lavoro, e di contribuzione, come è per tutti i cittadini, al benessere della collettività, ed il lavoro è, da sempre, lo strumento principe perché questo accada”. Firenze. Orti urbani anche per i detenuti di Sollicciano dire.it, 8 dicembre 2020 Saranno realizzati nei terreni demaniali di fronte al penitenziario della città. L’iniziativa rientra nei 200 mila euro stanziati dal Comune per potenziare il sistema cittadino. Nuovi orti urbani anche per i detenuti di Sollicciano. Saranno realizzati nei terreni demaniali di fronte al carcere di Firenze (lungo via Minervini). La novità, che rientra nei 200.000 euro stanziati dal Comune per potenziare il sistema cittadino, la annuncia l’assessore all’Ambiente e all’Urbanistica, Cecilia Del Re, in Consiglio comunale. Nel piano, che andrà a creare nuovi orti migliorando quelli già esistenti, “si prevede di realizzare un nuovo sistema di orti nell’area demaniale antistante la casa circondariale Gozzini, attraverso un accordo tra il Comune e l’istituto penitenziario di Sollicciano, promosso dal garante per i detenuti”, spiega. “Gli orti saranno utilizzati sia dai cittadini che dai detenuti”, sarà quindi l’intesa a stabilire “le modalità di accesso e utilizzo, compatibili al regime restrittivo” dei reclusi. Napoli. “Quaderni di Ricerca”, il Garante dei detenuti presenta il report ottopagine.it, 8 dicembre 2020 Mercoledì 9 dicembre alle ore 11:00 il presidente del consiglio regionale della Campania, Gennaro Oliviero e il Garante campano delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, terranno una conferenza stampa presso la sala “Multimediale” al primo piano del consiglio regionale, isola F13, al Centro direzionale di Napoli, per la presentazione dell’opuscolo “Quaderni di Ricerca”, realizzato dall’ufficio del garante in collaborazione con l’osservatorio regionale sulla detenzione. Questo report nasce con lo scopo di informare, in modo approfondito, su una realtà da sempre oggetto di pregiudizi che rendono necessaria una riflessione, quanto più estesa possibile, per una crescita civile che avviene anche promuovendo il miglioramento del sistema detentivo. Per il garante regionale Ciambriello: “Quaderni di Ricerca, intende fornire spunti per sottolineare carenze e problematiche e aiutare la pianificazione, in sede politica, di proposte e leggi utili a garantire la tutela delle persone sottoposte a varie forme di privazione della libertà, sulla base di quanto ricercato e osservato. Uno strumento che rappresenta un momento di riflessione, che costringe a fare i conti con il carcere che viene quasi sempre rimosso”. Trento. La scrittrice Annalisa Graziano ospite del progetto “Liberi da dentro” immediato.net, 8 dicembre 2020 Il 10 dicembre la giornalista foggiana incontrerà studenti e cittadini trentini nel corso di due appuntamenti culturali dedicati al libro “Solo Mia”. Al centro, la visione rieducativa della pena, il volontariato penitenziario e un’idea di giustizia riparativa che alimenti il senso di responsabilità sociale collettiva “Creare un’occasione di scambio tra la cittadinanza e i ristretti, nell’ottica rieducativa della pena e di coinvolgimento attivo del territorio trentino”. Questo da sempre, secondo gli organizzatori, è l’obiettivo di “Liberi da dentro”, iniziativa realizzate da una rete di soggetti, coordinati dall’Apas, l’Associazione Provinciale di Aiuto Sociale di Trento. Realizzato con il finanziamento della Fondazione Caritro, il progetto si avvale della collaborazione della Casa circondariale e dell’Ufficio di esecuzione penale esterna di Trento. Giovedì 10 dicembre 2020, la scrittrice foggiana Annalisa Graziano sarà ospite di due eventi culturali organizzati proprio nell’ambito del progetto trentino, con la presentazione del suo ultimo libro “Solo Mia”: un primo incontro sarà dedicato alle scuole, nel corso della mattinata; nel pomeriggio, è in programma un appuntamento aperto alla cittadinanza. Al centro, la visione rieducativa della pena, il volontariato penitenziario e un’idea di giustizia riparativa che alimenti il senso di responsabilità sociale collettiva. Il volume della giornalista, esperta in criminologia e operatrice del Csv Foggia è stato selezionato, insieme con altri due libri per un percorso ricco e articolato. Gli studenti coinvolti nel progetto, nelle scorse settimane, hanno letto e si sono confrontati sulle pagine di “Solo Mia” nel corso di un laboratorio pensato ad hoc. Tra le iniziative che stanno interessando alunni e detenuti nell’ambito del “Liberi da Dentro”, infatti, vi è la realizzazione di un audiolibro, letto dagli studenti, che poi andrà a completare, assieme ad altri volumi presentati durante la rassegna, la biblioteca del carcere di Trento. “Solo Mia”, edizioni la Meridiana, raccoglie storie di donne dal carcere e non, racconti reali riportati all’interno di una cornice di fantasia che mettono al centro storie incredibili, fatte di violenza subita e a volte taciuta, attese tradite, affetti soffocati e speranze. Storie di dolore ma anche di svolte e di rinascita, che affrontano temi delicati come la maternità, il rapporto con i familiari, la detenzione, l’abuso: a trionfare, però, è l’importanza dei legami, del riconnettersi alla società e alle relazioni, nonostante i traumi vissuti. Le testimonianze di Annalisa Graziano, in modalità a distanza nel rispetto della normativa anti-covid, sono previste dalle ore 9.30 alle 11.00 per studenti e studentesse e dalle ore 17.30 alle 19.00 per la cittadinanza. Per seguire gli eventi, è necessario richiedere il link scrivendo a liberidadentro@gmail.com. Gorgona (Li). “Ulisse o i colori della mente” vince premio “Catarsi, Teatri delle diversità” La Nazione, 8 dicembre 2020 Lo spettacolo con i detenuti della colonia penale. È stato realizzato nell’ambito del laboratorio “Il teatro del mare” e messo in scena sull’isola. Con lo spettacolo “Ulisse o i colori della mente” il Teatro Popolare d’Arte di Firenze diretto da Gianfranco Pedullà si è aggiudicato il premio “Catarsi, Teatri delle diversità”. Ad annunciarlo è stato il Presidente dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, Giulio Baffi, nella diretta online in cui sono stati conferiti i Premi Anct 2020. “Ulisse o i colori della mente” è lo spettacolo che, lo scorso settembre, ha visto protagonisti gli attori detenuti della Casa di Reclusione dell’isola di Gorgona, andato in scena in strade e spazi dell’isola. È stato realizzato nell’ambito del laboratorio di teatro e musica “Il teatro del mare” condotto da Gianfranco Pedullà, Francesco Giorgi e Chiara Migliorini all’interno del progetto Teatro in Carcere della Regione Toscana in collaborazione con la Casa di Reclusione di Gorgona. “Un Premio che è da considerare in un tutt’uno - ha spiegato il presidente dell’Anct Giulio Baffi - per uno spettacolo, per i suoi protagonisti, per un tenace, prezioso, maestro guida e regista Gianfranco Pedullà, e per chi ha reso possibile questa attività di teatro in carcere e il suo superbo esito credendoci fermamente e agevolando il superamento di tante difficoltà il direttore Carlo Mazzerbo”. Catania. Grande successo per la mostra online con le opere d’arte dei ragazzi dell’Ipm Ristretti Orizzonti, 8 dicembre 2020 Dal 16 sarà possibile acquistarle. Si è conclusa con grande partecipazione la mostra espositiva online delle opere realizzate dai ragazzi ristretti dell’Istituto Penale per Minorenni Bicocca di Catania. La mostra, inserita sulle piattaforme Facebook e Instagram prende il nome di “Stop - arte e detenzione” ed è stata organizzata dall’associazione culturale La Poltrona Rossa in occasione della celebrazione della giornata internazionale contro la Violenza sulle Donne. Le opere sono tutte ispirate alla figura della donna nell’arte e nella mitologia. Tra queste è possibile riconoscere soggetti ispirati all’artista Frida Calo, ai soggetti femminili di Roy Lichtenstein, la Monnalisa di Leonardo e ancora omaggi all’arte informale dello scorso secolo. Tra i soggetti mitologici proposti dagli operatori e studiati durante le ore di laboratorio compaiono i nomi di Antigone, Persefone, Medea e Cassandra. Non sono trascurati i manufatti in foglia d’oro e d’argento, diventati ormai una specializzazione dei ragazzi dell’istituto. Un connubio dunque fra arte moderna e contemporanea e le tecniche ancora tradizionali dell’artigianato siciliano. I manufatti sono tutti stati realizzati durante i laboratori artigianali e creativi svolti in Istituto con il lavoro costante degli operatori artistici e creativi della stesa associazione: Vanila Privitera, Agata Squillaci e Ivana Parisi, presidente della Poltrona Rossa. Inoltre non manca la figura dell’esperto in restauro e doratura Giuseppe Parisi. Oltre ai manufatti realizzati dai ragazzi di Catania sono state esposte anche alcune delle opere prodotte delle ragazze ristrette nell’Istituto Penale per Minorenni di Pontremoli in provincia di Massa Carrara. Le opere delle ragazze nel mese di maggio 2020 sono state esposte durante l’evento virtuale “Polifemmes” che è stato omaggiato con un videomessaggio del Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico. Dal 2013 La Poltrona Rossa sviluppa progetti artistici e creativi sia per le ragazze ristrette di Pontremoli in Toscana che per i ragazzi ristretti di Catania in Sicilia. Le attività creative sono sostenute con i Fondi Otto per Mille della Tavola Valdese come appunto l’evento “Stop - arte e detenzione” che è la tappa finale del progetto Artificium svolto tra il 2019 e 2020. Ma non finisce qui, tra Catania e Pontremoli continuano, infatti, le attività per i detenuti e le detenute sviluppate dall’associazione La Poltrona Rossa, tra queste i laboratori di Restauro, di Teatro e ancora di Scrittura e Fumetti sostenuti dal Ministero della Giustizia. In fine dicembre sarà il mese delle sorprese poiché dal 16 sarà possibile acquistare i prodotti del carcere presso la sede operativa della Poltrona Rossa in via Plebiscito 881/A. L’iniziativa è promossa in collaborazione con il centro Cope di Catania. Per info: La poltrona rossa. Ivana Parisi info@lapoltronarossa.it. 3400760481. C’è il Covid ma il governo pensa di spendere sei miliardi in armi di Mario Pierro Il Manifesto, 8 dicembre 2020 Presentata la contro manovra finanziaria di Sbilanciamoci!: 111 proposte per una legge di bilancio alternativa da quasi 36 miliardi. Armi, cacciabombardieri, fregate, caccia-torpedinieri, carri armati, blindo, missili, sommergibili. È quanto il governo intende acquistare stanziando sei miliardi di euro nella prossima legge di bilancio. “Siamo in guerra” è stato detto anche in Italia. Tutti hanno pensato che la metafora fosse stata impropriamente usata per il contenimento del Covid che ha già fatto oltre 60 mila vittime nel 2020 e che le “armi” - per estendere la pessima e inappropriata metafora - fossero quelle dell’investimento nella sanità. Ciò che invece emerge dalle bozze del manovra in discussione in parlamento è che invece la “guerra” e le “armi” sono quelle militari. Lo stanziamento è stato definito “inaccettabile” dal Rapporto Sbilanciamoci! 2021 per uscire dall’emergenza Covid-19 che ieri ha presentato 111 proposte alternative in una “contro-finanziaria”. Sbilanciamoci! propone di diminuire in modo netto le spese militari, con un risparmio di 5 miliardi sulla base di quattro misure: la riduzione delle forze armate a 150 mila unità (1 miliardo); il taglio dei fondi per l’acquisizione di nuovi sistemi d’arma (2,8 miliardi); stop all’acquisto dell’ultima tranche di cacciabombardieri F-35 (500 milioni); il ritiro delle truppe dalle missioni militari all’estero con chiara proiezione armata in conflitti (700 milioni). Una parte delle risorse così risparmiate potrebbe finanziare le politiche di pace e cooperazione internazionale o le politiche sociali. “La sfida oggi è un’altra: quella alla pandemia, quella affrontata quotidianamente negli ospedali che non hanno abbastanza posti di terapia intensiva o medici ed infermieri a sufficienza - sostiene Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci! - Quella per un’istruzione di qualità per tutti, mentre invece più di 10 mila scuole hanno strutture che cadono a pezzi e non rispettano le normative di sicurezza”. Nella contro-manovra di quasi 36 miliardi di euro sono descritti anche i criteri principali che dovrebbe seguire la riforma fiscale annunciata dal governo: riduzione delle tasse per i due scaglioni più bassi di reddito, una rimodulazione dell’Irpef che riduca di un punto le aliquote sui redditi fino a 28 mila euro e introduca due nuovi scaglioni con un’aliquota del 55% per i redditi tra 100 mila e 300 mila euro e un’aliquota del 60% per quelli superiori a 300 mila euro. Ciò porterebbe a maggiori entrate per 2,1 miliardi. Anche le rendite finanziarie andrebbero assoggettate all’Irpef attraverso l’adozione di una “patrimoniale straordinaria” basata sulla riduzione della franchigia per la tassa di successione con aliquote crescenti rispetto alla ricchezza ereditata. Questo potrebbe portare nelle casse dello Stato quasi 10 miliardi di entrate in più. Sbilanciamoci! prevede anche una “vera tassa” sulle transazioni finanziarie su tutte le azioni e derivati e, nel caso azionario, su tutte le singole operazioni: da qui arriverebbero 3,7 miliardi. Previsto un piano per il contrasto dell’evasione e elusione fiscale e il rafforzamento dell’attuale Web Tax. La maggioranza delle risorse ricavate dal programma fiscale, 6,5 miliardi, andrebbe investita negli enti locali. L’anno scorso, in occasione della precedente manovra, si è molto parlato della progressiva cancellazione dei sussidi ambientalmente dannosi che ammontano a quasi 20 miliardi l’anno. Sbilianciamoci! Ricorda al governo, impegnato nell’attuazione del piano per il “Recovery Fund/Next generation EU” la strada perduta. Entro il 2025 questa somma potrebbe essere trasformata in sussidi ambientalmente favorevoli con un’entrata di 4 miliardi nel 2021. Sul versante delle migrazioni e dell’asilo, per far fronte alla carenza di personale medico-sanitario legata al Covid-19, la proposta è di rispettare la normativa in deroga del decreto Cura Italia per l’assunzione di personale straniero, insieme alla chiusura delle “navi quarantena” e alla garanzia dell’accesso dei cittadini stranieri a tutti i servizi sanitari ordinari e straordinari anti-Covid. Tra le altre misure la rete di associazioni chiede inoltre la chiusura dei Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas) entro la fine del 2021. I pescatori di Mazara da 100 giorni prigionieri (e il caso dai calciatori arrestati) Corriere della Sera, 8 dicembre 2020 “Aspettiamo il verdetto della Cassazione” dice l’avvocato dell’ambasciata di Tripoli in Italia, confermando l’intreccio tra la vicenda dei marittimi e quella degli scafisti-calciatori condannati dall’Italia. La vicenda dei pescatori di Mazara del Vallo, tenuti prigionieri in Libia si intreccia a doppio filo con quella di quattro libici a loro volta in carcere in Italia, perché accusati di essere degli scafisti. Il sospetto circolato fin dall’inizio è stato in qualche modo reso esplicito oggi dall’avvocato dell’ambasciata libica a Roma. “Aspettiamo che la Cassazione fissi l’udienza” ha detto il legale facendo riferimento a quest’ultimo caso giudiziario. Esattamente da 100 giorni i 18 marittimi che si trovavano sui pescherecci italiani “Medinea” e “Antartide”, sono trattenuti dai militari del generale Khalifa Haftar, capo della fazione che controlla la Cirenaica. “Aspettiamo la Cassazione” - “Stiamo facendo tutto il possibile per cercare di capire se c’è una strada” per il caso degli equipaggi dei pescherecci italiani bloccati in Libia. È “una situazione complessa” e “non di facile soluzione” dichiara all’agenzia Adnkronos l’avvocato Michele Andreano, incaricato dall’ambasciata libica a Roma di seguire il ricorso in Cassazione dei quattro libici partiti nel 2015 da Bengasi sognando il mondo del pallone e condannati in Italia come assassini e trafficanti di migranti. La loro storia si intreccia da settimane con quella degli equipaggi dei pescherecci italiani. Per i giovani libici, conferma il noto penalista romano, “aspettiamo che la Cassazione fissi l’udienza” e sono in molti a pensare che l’arresto dei pescatori italiani sia una ritorsione successiva alla condanna degli scafisti libici. Le accuse ai pescatori, lo sconcerto delle famiglie - Due giorni fa i familiari dei pescatori (di nazionalità italiana e tunisina) hanno manifestato davanti alla prefettura per reclamare ancora una volta la liberazione dei loro congiunti. “Non abbiamo notizie dal governo, se non che la trattativa va avanti sotto traccia” lamentano le famiglie, che ancora sperano di poter riabbracciare per Natale i loro cari. I libici accusano i marittimi italiani, bloccati il primo settembre a 38 miglia dalla costa nordafricana, di traffico di droga e hanno mostrato una foto di alcuni pacchi gialli che sostengono si trovassero a bordo di una delle due navi. Accusa totalmente smentita dal comandante di uno dei pescherecci nel corso di una conversazione telefonica con l’Italia. La vicenda dai calciatori-scafisti - La trattativa per la liberazione degli ostaggi è di certo complicata dal fatto che i 18 mazaresi sono nelle mani del generale Haftar, rivale del governo di Tripoli presieduto da Fayed Al Serraj e riconosciuto come legittimo dall’Italia. Ed è su questo punto che si innesta la vicenda dei quattro scafisti condannati dall’Italia. Questi ultimi vennero arrestati nel 2015 dalle autorità italiane dopo l’ennesimo sbarco di richiedenti asilo in Sicilia. La magistratura di Catania li identificò come trafficanti di migranti infliggendo loro in primo e secondo grado pene tra i 20 e i 30 anni di carcere. Per la loro condanna definitiva manca solo il verdetto della Cassazione. Haftar (ma ultimamente anche alcune fonti del rivale Al Serraj) sostengono che i quattro siano vittime di un errore giudiziario e che fossero in realtà quattro calciatori arrivati in Italia con mezzi di fortuna petr tentare l’avventura nel mondo del pallone. Già a metà settembre fonti delle milizie di Bengasi aveva suggerito l’ipotedsi di uno scambio di prigionieri: i 4 calciatori-scafisti in cambio dei 18 pescatori. Medio Oriente. No al terrorismo di stato Il Manifesto, 8 dicembre 2020 L’omicidio dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh, comunemente attribuito ai servizi segreti israeliani, segna un passaggio gravissimo nella violazione dei diritti che l’Italia e gli altri stati europei non posso trascurare. Vogliamo innanzi tutto manifestare il nostro sconcerto di fronte alla tiepidezza con cui i governi europei, a cominciare dal nostro, e i grandi media, a cominciare da quelli italiani, hanno reagito all’assassinio dello scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh. Con ogni evidenza - poiché da Israele e dagli Usa non è giunta alcuno smentita alla universale attribuzione dell’attentato al Mossad - si tratta di un atto terroristico di stato. È un fatto di inaudita gravità che non può in nessun caso lasciare indifferenti solo perché la vittima era un scienziato sospettato di lavorare a un progetto di armamento atomico. Ricordando che Israele già possiede un arsenale nucleare, che cosa dà diritto a questo paese di uccidere scienziati sospetti all’interno del proprio paese? Quale tribunale ha condannato quel libero cittadino? Perché taciamo al cospetto di questo ennesimo episodio di violazione di ogni diritto internazionale? Per il fatto di considerare Israele un paese democratico, amico dell’Occidente? È democratico un paese che concede libertà e diritti ai propri cittadini e tiene in umiliante schiavitù, in casa propria e in territori altrui, il popolo palestinese? È amico dell’Occidente e della pace Israele, che sin dai governi di Ariel Aharon persegue una strategia cinica e destabilizzante? Quella di mettere in difficoltà i settori più moderati e dialoganti del mondo palestinese, attraverso incursioni violente che aizzano il desiderio di vendetta dei settori massimalisti? Una tattica che induce a risposte armate disperate, da cui Israele ricava l’autorizzazione tacita dell’opinione pubblica mondiale per esercitare la sua schiacciante superiorità militare. Ma questo rivela la nessuna volontà di pace e un disegno di supremazia che prepara scenari inquietanti nel Medio Oriente. Di fronte a tale quadro noi donne e uomini liberi e amanti della pace non possiamo tacere. Israele ha costruito in tutti questi anni un diritto internazionale sostituivo di quello riconosciuto da tutti gli stati sovrani, retto dalla sopraffazione e dalla violenza, ispirato alla tutela dei propri interessi come unico criterio ispiratore nella condotta con il resto del mondo. La nostra coscienza ci induce a non tacere, non solo di fronte all’ingiustizia clamorosa di questa posizione, ma perché l’acquiescenza dell’opinione pubblica rappresenta un pericolo per la pace, una minaccia per il nostro futuro. Chiediamo al governo italiano di condannare ufficialmente l’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh, così come gli chiediamo una forte protesta contro il governo egiziano per l’ingiusta detenzione, insieme a tanti giornalisti, del giovane Patrik Zaky, ricercatore dell’Università di Bologna e di mobilitarsi per scongiurare l’esecuzione, da parte dell’Iran, del medico Ahmadreza Djalali. Chiamiamo tutti gli spiriti liberi, a far sentire la propria voce in tutti i modi e in tutte le sedi possibili. È in gioco anche la nostra sicurezza e la nostra libertà. Sottoscrivono: Piero Bevilacqua, Luigi Ferrajoli, Enzo Scandurra, Nichi Vendola, Luciana Castellina, Laura Marchetti, Lucinia Speciale, Tomaso Montanari, Tonino Perna, Ignazio Masulli, Vittorio Boarini, Maurizio Acerbo, Ilaria Agostini, Filippo Barbera, Battista Sangineto, Paolo Favilli, Vera Pegna, Vezio De Lucia, Ginevra Bompiani, Carmelo Buscema, Guido Viale, Velio Abati, Alfonso Gianni, Francesco Santopolo, Antonio Castronovo, Mario Fiorentini, Alfonso Gabardella, Massimo Baldacci, Rossano Pazzagli, Domenico Rizzuti, Giuseppe Saponaro, Piero Caprari, Franco Novelli, Giuseppe Aragno, Alberto Ziparo, Fabio Parascandolo, Marta Petrusewicz, Mimmo Cersosimo, Filippo Veltri, Giacomo Panizza, Franco Trane, Salvatore Romeo Bufalo, Piero Di Siena, Gaetano Lamanna, Gabriele Giannini, Fabio Marcelli, Angelo Broccolo, Angelo Marcucci, Leandra D’Antone, Vincenzo Vita, Moreno Biagioni, Mauro Beschi,Sergio Zampini, Roberto Budini Gattai, Armando Vitale, Luigi Vavalà, Lina Scalisi, Massimo Angrisano, Aldo Carra, Cristina Quintavalla, Marina Boscaino, Luciano Beolchi, Gialuigi Triani, Nuccio Barilla, Giuseppe, Musolino, Salvatore Bonadonna, Umberto Ursetta. Egitto. Il pugno duro di al-Sisi: Zaky rimane in prigione di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 8 dicembre 2020 Prolungata di altri 45 giorni la detenzione del giovane ricercatore. Per la legge del Cairo la custodia cautelare può durare due anni. La reazione di Amnesty International: “È un fatto sconcertante”. Patrick Zaky resterà in carcere. Le speranze per la fine dell’odissea del ricercatore egiziano di 28 anni, arrestato il 7 febbraio scorso, sono risultate vane. Il giudice della terza sezione del tribunale del Cairo ha infatti deciso ieri di non scarcerare il ragazzo e prolungarne la detenzione. La situazione si è così fatta preoccupante perché la custodia cautelare in Egitto può durare due anni. La vicenda giudiziaria ha vistouna prima fase di cinque mesi di rinnovi quindicinali, ritardati dall’emergenza Covid, ma ora il caso è in quella dei prolungamenti di 45 giorni. Eppure diversi segnali facevano presagire una liberazione. Sabato doveva tenersi un’udienza rimandata al giorno successivo, una circostanza che poteva far pensare alla preparazione per una sentenza favorevole a Zaky, inoltre i giudici avevano ascoltato le richieste di scarcerazione degli avvocati difensori, motivate dalle torture subite dall’imputato durante gli interrogatori tenuti da uomini dei servizi segreti. Alla fine però la doccia fredda, la notizia di un altro mese e mezzo di carcere è stata data dall’ Egyptian initiative for human rights (Eipr), l’organizzazione per la quale lavora Zacky. Il ricercatore viene accusato di “diffusione di notizie false, l’incitamento alla protesta e l’istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”. Reati per i quali in Egitto di rischiano fino a 25 anni di reclusione. Il tutto desunto da una decina di post social che i legali di Zacky considerano falsi. I motivi della persecuzione giudiziaria vanno ricercati per l’attività svolta dal ricercatore che fu arrestato mentre ritornava a casa dall’Italia dove si trovava per un master. Zacky infatti svolge il suo lavoro proprio per l’Eipr recentementeal centro di una forte repressione. Sono stati incarcerati, anche se poi liberati 2 giorni fa, suoi dirigenti Gasser Abdel Razek, Karim Ennarah eMohamed Basheer. Anche a loro viene contestata l’accusa di aver diffuso informazioni false e di aver complottato contro lo Stato. Lo stesso giudice che ha giudicato Zacky ha congelato i loro beni perché le accuse non sono state ritirate nonostante la scarcerazione. L’ong ha reso noto che il provvedimento è stato preso in assenza di difensori e non avendo potuto consultare gli atti. La sentenza è arrivata mentre il presidente egiziano al Sisi si trova in visita ufficiale a Parigi, all’Eliseo si discute di cooperazione nell’area mediorientale e le ong transalpine hanno già contestato questo viaggio per il mancato rispetto dei diritti umani. Anche l’Italia è interessata e non si è ancora spento lo scontro sulla vicenda Regeni. A questo proposito valgono le parole di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia che ha lanciato un appello: “Dopo ore di attesa questa decisione vergognosa e sconcertante di rinnovare di altri 45 giorni la detenzione di Patrick Zaky lascia senza fiato e sgomenti… È veramente il momento che ci sia un’azione internazionale guidata e promossa dall’Italia per salvare questo ragazzo, questa storia anche italiana, dall’orrore del carcere di Tora in Egitto”. Dalle proteste sta nascendo una nuova Bielorussia. Parla Markielau di Maurizio Stefanini Il Foglio, 8 dicembre 2020 Piotr Markielau è uno dei leader della protesta studentesca in Bielorussia, dove i cittadini di ogni categoria protestano contro il dittatore, Aljaksandr Lukashenka, dal 9 agosto. Per la sua attività Markielau ha già scontato 67 giorni di carcere. “La prima volta sono stato arrestato nel marzo del 2017, partecipavo, come osservatore, a una manifestazione di un gruppo di anarchici. Mi condannarono a 12 giorni di carcere. Devo dire che le condizioni in prigione a quel tempo erano molto migliori di adesso. Sono stato poi arrestato per una foto fake finita sul web, per un cartello sulla depenalizzazione, per una diretta streaming su Facebook in cui denunciavo i brogli alle elezioni locali, e all’inizio di quest’anno mentre seguivo il processo contro alcuni amici. I poliziotti mi presero di mira perché sapevano che ero un attivista. A luglio sono stato di nuovo arrestato come misura preventiva, prima delle elezioni. Ma confesso che adesso cerco di stare più attento: con i miei precedenti, rischio di non finire più davanti a un tribunale amministrativo, ma a un penale. In questo momento sono i miei genitori che stanno protestando di più. Sono stati tra i primi operatori sanitari a scendere in piazza dal 12 al 13 agosto, quando gli studenti di medicina sono stati espulsi per aver sostenuto il movimento di opposizione. Mio padre è stato arrestato e ha trascorso otto giorni in prigione. Mia madre è stata arrestata due volte. Lei se la è cavata con una multa (circa da 100 euro) perché mio fratello ha solo nove anni, e la legge risparmia il carcere alle madri di minori. Mio padre è un medico molto stimato, e quando è andato in tribunale i suoi colleghi hanno raccolto centinaia di firme in suo favore. Per questo ha avuto soli otto giorni di carcere invece di quindici”. Malgrado la repressione, spiega Markielau al Foglio, “le proteste della domenica sono ancora in corso. Negli ultimi mesi, il numero di attivisti arrestati è in aumento: quasi 500 persone ogni domenica e il 15 novembre, quando sono stato arrestato di nuovo, il numero è arrivato a mille. Anche la natura delle proteste sta cambiando. La gente evita le strade principali, si riunisce in piccoli gruppi, nelle piazze e nei cortili. In molti si aspettano che il regime verrà giù per il crollo del rublo. Nel frattempo, stiamo cercando di costruire una società civile. I cittadini creano nuove comunità, si aprono, condividono idee”. La prossima grande manifestazione, ci spiega Markieklau, “è stata organizzata per il 20 dicembre. Con il nuovo anno le proteste cresceranno, e un grande appuntamento è previsto per il 25 marzo, anniversario della dichiarazione di indipendenza del 1918”. E quali sono gli obiettivi? “Nuove elezioni eque senza Lukashenka, rilascio di tutti i prigionieri politici, responsabilità penale per i responsabili di abusi e torture ai civili”. Ma qual è il vero rapporto tra Lukashenka e Putin? A volte sembrano alleati, a volte avversari. “Non si piacciono, ma hanno sempre fatto affari assieme. La Bielorussia è sempre stata alleata della Russia, l’unica eccezione è stata l’integrità territoriale dell’Ucraina”. Sono quattro mesi che la protesta va avanti e stupisce quanto la sua natura sia sempre rimasta pacifica, nonostante la forte repressione da parte del regime. “Molte persone sono scese in piazza per la prima volta il 9 agosto, dopo aver creduto per tanto tempo in meccanismi legali come scrivere petizioni o fare richieste ufficiali. Ma quando tutti i metodi legali sono stati esauriti, la gente ha iniziato una protesta che in parte ha presentato anche delle forme più radicali. Per esempio le informazioni sugli agenti delle forze dell’ordine pubblicate sul web: una violazione della privacy. C’è molta paura. Si rischiano cinque anni di carcere per cose come proteggere una signora anziana da un agente di polizia che la picchia. Per 26 anni, questo regime è penetrato in ogni sfera della vita, pubblica e privata. Il popolo bielorusso sta imparando un po’per volta a credere in sé stesso, ma abbiamo bisogno di un grande appoggio internazionale”.