L’incidenza del Covid sulla popolazione carceraria: criticità e possibili soluzioni di Vincenzo Nicola Casulli Giornale di Puglia, 7 dicembre 2020 Le persone private della libertà, come i detenuti in carcere o in altri luoghi di detenzione e quelle che lavorano in queste strutture, sono certamente più vulnerabili all’epidemia di Coronavirus rispetto alla popolazione generale a causa dell’ambiente confinato in cui vivono. Infatti, gli istituti detentivi possono fungere sia da fonte d’infezione che di amplificazione e diffusione di malattie infettive. L’azione di Governo per ridurre il sovraffollamento carcerario e limitare il contagio presenta numerose criticità. La più evidente è di aver legato la detenzione domiciliare ai braccialetti elettronici che, di fatto, sono indisponibili, rendendo questo istituto inidoneo alle sue finalità. Va precisato, inoltre, che una parte significativa della popolazione detenuta non può avere accesso alla misura della detenzione domiciliare per l’indisponibilità o l’inutilizzo di un effettivo domicilio. È bene sempre ricordare che nel nostro sistema penale la pena detentiva è l’”extrema ratio” e, pertanto, le misure alternative, ancor più in questa situazione contingente, sono idonee ad alleggerire la pressione delle presenze non necessarie in carcere. Ovviamente, tali misure sono applicabili limitatamente ai delitti che non rientrano nel perimetro presuntivo di pericolosità sociale e con l’ulteriore necessaria eccezione legata ai reati di particolare gravità (criminalità organizzata, terrorismo, codice rosso, etc.). I braccialetti elettronici avrebbero potuto risolvere in parte le attuali criticità, sfortunatamente, a quanto è dato sapere, non sono previsti investimenti sulla dotazione degli strumenti elettronici di controllo, di conseguenza, nell’immediato, la misura della detenzione domiciliare in deroga sarà scarsamente applicabile per far fronte alle esigenze di contenimento del contagio nelle carceri sovraffollate, esigenze che lo stesso legislatore ha, di fatto, ritenuto indifferibili. Ad oggi tuttavia non si conosce ancora una soluzione idonea a risolvere il problema. Preoccupa e non poco l’inerzia del Governo di fronte a quanto sta accadendo negli istituti penitenziari del Paese. Una soluzione di buon senso sarebbe di introdurre un piano di scarcerazione che rilasci quei detenuti che scontano brevi condanne per reati non violenti; quelli vicino alla fine della loro pena; e quelli con condizioni di salute precarie. Con questa tipologia d’intervento potremmo raggiungere l’obiettivo di ridurre la popolazione carceraria di circa nove o diecimila detenuti, migliorando il decreto e ampliandone gli effetti, facendo in tal modo con proporzione, senza creare allarme sociale, una sintesi che miri ad accontentare un po’ tutti. Questo sarebbe giusto sia nell’interesse di chi sta in carcere, sia per chi in carcere ci lavora. Oggi occorre agire subito e fare ciò che è possibile. L’alternativa sarà sicuramente l’agitazione nelle nostre carceri e l’aumento di prigionieri malati, in competizione con cittadini per i ventilatori e i letti di terapia intensiva. Anm, il neo presidente Santalucia: “Correttezza e imparzialità i valori delle toghe” di Liana Milella La Repubblica, 7 dicembre 2020 Siciliano, 56 anni, da sabato alla guida dell’Associazione nazionale magistrati. Sulla questione morale: “La politica affaristica e clientelare è una dimensione da cancellare ma fuori dalla buona politica non esiste democrazia. Tant’è che l’assemblea costituente ha previsto la composizione mista del Csm”. “La politica affaristica e clientelare è una dimensione da cancellare, ma invece la “buona” politica, come espressione alta dell’interesse per i beni comuni e la vita collettiva, ci riguarda tutti”. E, in questa accezione, “non va demonizzata”. Il neo presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia dà a Repubblica la sua prima intervista. In cui descrive il futuro impegno dell’Anm sulla questione morale. E invita i colleghi a seguire le regole della Costituzione “nell’intera dimensione della vita professionale”. Appena eletto lei ha citato la Costituzione, di cui le toghe sarebbero “le interpreti”. Ma al contempo, dopo il caso Palamara, lei vede la questione morale esplosa nella magistratura, tant’è che bisogna “ricostruire un tessuto etico nei comportamenti dei giudici”. Non c’è contraddizione? “Invece il legame c’è, ed è evidente. Gli ultimi casi sulla questione morale - non mi piace riferirmi a singoli nomi - sono una deviazione rispetto ai valori che sono l’essenza della giurisdizione. Da quell’esperienza dobbiamo venir fuori con l’accertamento delle responsabilità individuali, e qui il compito è soprattutto dei processi, anche disciplinari. All’Anm spetta principalmente la responsabilità di costruire un nuovo contesto di relazioni tra l’associazionismo e il Csm. Liberando l’uno e l’altro dai condizionamenti reciproci, che hanno guastato quella stagione”. Quindi i giudici restano, a tutti gli effetti, “interpreti della Costituzione”? “I magistrati si confrontano ogni giorno con i principi della Carta. Li mettono in pratica con il loro lavoro e devono ricordarsi sempre che questo compito non si esaurisce nel fare i processi e nello scrivere le sentenze, ma riguarda il comportamento complessivo. Sono convinto - fermo restando il dovere di chiarezza sui gravi recenti episodi - che nella grande maggioranza dei casi non ci sia stato, per un collegamento automatico, un inquinamento della funzione. È però necessario che i magistrati si attengano ai doveri di assoluta correttezza in tutti i loro comportamenti”. Però il monito del presidente Mattarella, che risale addirittura al giugno 2019, era quello di spezzare definitivamente “le inammissibili commistioni tra politica e magistratura”. Su questo non è rimasto tutto com’era? “Quel monito conserva intatto il suo valore. Ma dobbiamo intenderci su che cos’è la politica. Senza far prevalere un’accezione negativa. La politica affaristica e clientelare è una dimensione da cancellare, ma invece la “buona” politica, come espressione alta dell’interesse per i beni comuni e la vita collettiva, ci riguarda tutti. Non avrebbe altrimenti senso la composizione mista del Csm. Se il Costituente avesse voluto metterci al riparo dalla politica avrebbe fatto la scelta opposta. Non l’ha fatta perché le prassi della cattiva politica possono insinuarsi anche più agevolmente quando una corporazione, come la magistratura, si chiude al suo interno e trasforma il suo profilo tecnico in uno schermo per coltivare logiche devianti”. Lei ha lavorato al ministero della Giustizia come direttore dell’ufficio legislativo con l’ex Guardasigilli Andrea Orlando. Per questo parla bene della politica? “Io vado fiero di quegli anni passati in via Arenula. Anni di grande arricchimento professionale. Ho ricoperto un incarico che, benché fuori ruolo, era pienamente immerso nei temi della giurisdizione. Con in più il vantaggio di poterne vedere la complessità da un osservatorio privilegiato. Sarebbe del tutto riduttivo e fuorviante attribuirmi un giudizio positivo sulla politica solo per questa esperienza. Fuori dalla buona politica non esiste democrazia. Dirò di più, si rischia la crisi dell’assetto dei valori su cui ogni magistrato presta il suo giuramento, cioè la Costituzione”. Lei ha lavorato anche al Csm come magistrato dell’ufficio studi, quindi conosce bene l’ambiente. Ammetterà che basta dare un’occhiata alle nomine per vedere che gli accordi sotto banco ci sono... “Sono consapevole che a volte le decisioni del Csm, organo composito e plurale, possano esser state, in materia di nomine a incarichi direttivi, il risultato di intese per così dire al ribasso, che hanno perso di vista il fine istituzionale di assicurare il miglior funzionamento degli uffici. Ma questo non mi porta a dire che il Csm, per come è strutturato, non conservi la necessaria autorevolezza per assicurare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Francamente non vedo un altro modello possibile, né mai è stato proposto”. E allora l’ipotesi del sorteggio sostenuta da quelli di Articolo Centouno? “Nel nostro programma di giunta ci siamo impegnati a studiare, senza pregiudiziali, ogni possibile soluzione di riforma da offrire al pubblico dibattito. Ma, se vuole il mio personale parere, allo stato il sorteggio sarebbe una resa al caso per una istituzione che, pur con i momenti di crisi, non merita una fine così triste. Con queste parole non chiudo gli occhi di fronte alle degenerazioni passate e al pericolo che possano ripetersi nel futuro. Ma sono altri i mezzi per contrastarle”. Appena qualche giorno fa il vice presidente del Csm David Ermini ha detto che con le chat bisogna fare tuttora i conti. Vanno lette, analizzate, individuate le storture nei comportamenti. Queste chat sono note da otto mesi. Non siamo in netto ritardo su questa analisi? “Non metto bocca sui tempi del Consiglio, anche perché non ne conosco i lavori. Per quanto ci riguarda, ricordo che la giunta Poniz aveva già avviato un serio accertamento, e l’attuale proseguirà in quella direzione”. Come giudica le parole del procuratore generale Salvi che, nei criteri per le azioni disciplinari, esclude che l’auto promozione possa essere una colpa? “Convengo sulla sua scelta di dover distinguere il livello della rilevanza disciplinare dei comportamenti da quello della inosservanza dei profili di deontologia professionale. Codice disciplinare e codice etico non si identificano. Questo è il nucleo centrale, da me condiviso, del programma di azione della procura generale. È compito dell’Anm vigilare e intervenire sulle violazioni del codice etico”. Le correnti. Non c’è alcun dubbio sul fatto che sono vive e vegete. Lo dimostra lo scontro durissimo di questi due mesi sulla presidenza. Ammetterà che la questione è molto delicata: Magistratura indipendente, coinvolta nel caso Palamara, ha posto un veto su una nuova presidenza di Luca Poniz che era stato troppo duro, secondo Mi, proprio sullo scandalo sollevato dalla procura di Perugia. Eppure adesso Mi è nella sua giunta. Questa non è una contraddizione? “Se si tratta di una contraddizione saranno loro a doverne dare conto. Io guardo avanti e vedo che, per quanto riguarda l’Anm, quella contraddizione è già stata sciolta da una decisione di altissimo profilo fatta da Luca Poniz, a cui si deve il merito di una giunta unitaria...”. Scusi, ma che c’entra il sacrifico di Poniz, che comunque si è fatto da parte perché lo ha preteso Mi? “Poniz ha colto che sul suo nome si era creato uno stallo, oggettivamente incomprensibile. Francamente non ho capito quale fosse il significato politico del no a Poniz, visto che anche la nuova giunta ripropone la centralità della questione morale, affrontata dalla precedente quando il caso è esploso”. Il gruppo di Articolo Centouno, con i suoi 4 eletti, non l’ha votata e scrive oggi nel suo blog che le correnti la fanno tuttora da padrone. Come gli risponde? “Se frequenteranno anche fisicamente, come sono certo che faranno quando sarà possibile, i lavori del Comitato direttivo, rivedranno le loro posizioni così fortemente critiche. Il mio impegno sarà quello di dialogare anche con loro”. C’era la possibilità di eleggere alla presidenza una donna, la sua collega di gruppo Silvia Albano, oppure Alessandra Maddalena di Unicost. Le donne sono oltre la metà della magistratura. Perché questa ipotesi è stata esclusa? “Innanzitutto parliamo di candidature diverse. Non ci sono state pregiudiziali di genere. Interpretazioni di questo tipo sarebbero del tutto sbagliate. È stato un confronto molto difficile in cui però non c’è stata un’esclusione pregiudiziale nei confronti delle donne”. Per eleggervi hanno votato 6mila magistrati su 10mila. Dopo oltre cento anni di vita non vede una crisi di rappresentatività della stessa Anm? “Vedo sicuramente una grande difficoltà dell’Anm, e proprio per questo sono convinto che se ne possa uscire solo con il contributo di tutti. Da qui è nata la necessità di una giunta ampia che raccogliesse tutte le sensibilità”. Il Covid. Tragedia italiana ma disastro anche per la giustizia. Lei su che posizione è? I decreti di Bonafede di maggio e quelli di oggi non lasciano maglie larghe ai processi da remoto nel primo grado di giudizio. Sarà questa la prima controversia da affrontare con il Guardasigilli? “Non parliamo di scontro. Il nostro sarà un confronto con il ministro della Giustizia perché siamo convinti che si possano fare i processi senza esporre al massimo rischio la salute di tutti quelli che li fanno. E questo obiettivo non può che essere condiviso da magistrati, avvocati e personale amministrativo”. La magistratura onoraria, giudici di pace, Vpo, giudici onorari di tribunale, oltre 5.500 professionisti nelle cui mani passa almeno il 60% del contenzioso. Una sentenza civile di Napoli dice adesso che vanno parificati economicamente a voi ordinari. Bonafede dice di no proprio sulla base di un vostro documento. Lei come la pensa? “La Costituzione prevede la figura dei magistrati onorari, ne traccia l’assetto, per cui è compito del legislatore garantire i loro diritti. Nessuno sfruttamento può essere tollerato, proprio in ragione dei principi costituzionali che ho premesso. La legge Orlando del 2016 aveva trovato una possibile soluzione, riconoscendo diritti e tutele in modo certamente migliorabile. Ma, parliamoci chiaro, è in gran parte una questione legata alle risorse finanziarie disponibili. L’Anm è consapevole che quelle risorse non erano adeguate e per questo la risposta di allora è stata insufficiente. Con le nuove risorse che arriveranno nell’ambito del Recovery Fund occorrerà metter mano alle scelte di allora”. L’Anm ha finalmente una giunta, ma senza unità e programma di Giulia Merlo Il Domani, 7 dicembre 2020 Dopo cinquanta giorni di stallo e tre sedute concluse con un nulla di fatto, l’Associazione nazionale magistrati è riuscita a eleggere il proprio presidente, Giuseppe Santalucia, e la sua giunta esecutiva. Per sbloccare la situazione è servito ciò che Area, la corrente progressista con la maggioranza relativa all’Anm, aveva cercato in tutti i modi di evitare: il passo indietro di Luca Poniz, presidente uscente e più votato della sua lista. Per Area la sua riconferma era inscindibile dal programma e ha portato avanti questa linea per due riunioni. Ma ha dovuto fare i conti con il veto netto di Magistratura indipendente, la corrente conservatrice che proprio da Poniz era stata messa all’angolo nella precedente giunta in seguito allo scandalo Palamara-Ferri. Il braccio di ferro avrebbe potuto andare avanti a oltranza, con conseguente perdita di credibilità di un comitato direttivo centrale appena eletto proprio con l’obiettivo dichiarato da tutte le correnti di superare la crisi in cui versa la magistratura. Per questo Poniz ha deciso di farsi da parte: “Non tollero di essere considerato un problema. Trovo che chi ha fatto questa operazione sia indecente e se ne assume la responsabilità”. Un passo indietro sì, ma in favore di un fedelissimo di Area. Dentro la corrente di sinistra, infatti, sono state settimane di scontro tra le componenti: una che sta investendo fortemente nel gruppo unitario di Area (nato nel 2010 dall’unione di Magistratura democratica e Movimento per la giustizia) e che fa capo a Poniz e al segretario, Eugenio Albamonte; l’altra invece, in attuale minoranza, che ha manifestato dubbi sulla tenuta del progetto. Per questo la candidatura alternativa a - quella di Poniz non è stata quella di Silvia Albano, seconda più votata nella lista di Area ma spesso non organica alle posizioni dello stesso presidente uscente, che non è stata inserita tra i membri della giunta (dove siederanno Lilli Arbore e Elisabetta Canevini, terzultima e ultima delle elette e componenti del gruppo di maggioranza di Area). Santalucia, un passato in Magistratura democratica ma è un sostenitore del progetto di Area, è un magistrato stimato da tutti ma anche una garanzia di sintonia coi vertici del suo gruppo. L’unità non c’è L’assemblea di sabato, tuttavia, è stata un successo a metà. Ha sbloccato una situazione che stava creando più di qualche imbarazzo al sindacato delle toghe, ma non ha prodotto il risultato sperato di una giunta unitaria, rappresentativa di tutti i gruppi e dunque più legittimata. Santalucia è stato eletto con 30 voti su 36: due le schede bianche, 4 i contrari del gruppo Articolo 101, lista appena nata e che si definisce “anti-correntista”. Proprio Articolo 101 rischia di diventare la spina nel fianco della nuova giunta. Il gruppo ha sintetizzato così il risultato del voto: “Le correnti sono unite, i magistrati no”. Articolo 101 ha contestato la presenza dei segretari dei gruppi all’assemblea, perché sabato avrebbero fatto i loro giochi fuori dalla riunione (che è pubblica e trasmessa da Radio Radicale, ma che ha subito alcune interruzioni). In questo modo le quattro correnti avrebbero orchestrata la composizione della giunta: Alessandra Maddalena di Unicost, vicepresidente; Salvatore Casciaro di Mi, segretario; vicesegretario è Italo Federici di Unicost, mentre Aldo Morgigni (AeI) è coordinatore dell’ufficio sindacale. Si è seguita la prassi di sempre: i gruppi si sono confrontati e hanno creato una squadra che garantisse rappresentanza a tutti (con probabile rotazione delle cariche tra un anno). A pesare nei prossimi mesi, tuttavia, sarà la mancanza di un programma chiaro: l’arroccamento intorno al passo indietro di Poniz, infatti, ha messo in secondo piano i temi. Se sulla gestione dei tribunali durante il Covid l’Anm anche senza giunta si è già fatta sentire al ministero della Giustizia, il vero nervo scoperto su cui non c’è una sintesi è la riforma del Csm: nel programma di mediazione è stato indicato solo come punto da discutere. Area e Unicost, però, sono esplicitamente contro il sorteggio anche temperato al Csm, a differenza di Mi e AeI. Un nodo che potrebbe incrinare i già fragili rapporti interni. Con Articolo 101 pronto a mettere in luce ogni contraddizione. Non lasciamoci sfuggire l’occasione di rendere moderni i tribunali italiani di Matteo De Luca Il Riformista, 7 dicembre 2020 In questo tempo di grande incertezza e fragilità, in una società civile esasperata e destabilizzata dal protrarsi dello stato di emergenza correlato alla diffusione della pandemia da Covid-19, la giustizia italiana, chiamata a infondere fiducia al cittadino comune dentro e fuori dalle aule dei tribunali, si presenta incapace di rispondere alle aspettative di tutela, evidenziando tutte le sue debolezze ormai da decenni denunciate con rassegnazione e sconforto dal mondo giuridico. Abbiamo visto gli avvocati protestare all’ingresso dei tribunali, sovrapporsi alle infinite code di utenti in attesa di accedere ai servizi, codici di procedura calpestati come segno di protesta e indignazione contro l’ennesima paralisi della macchina della giustizia. Chi frequenta le aule dei tribunali percepisce, oggi più che mai, un clima di abbandono, di disorientamento nel volto di avvocati, tirocinanti, magistrati, personale amministrativo e polizia giudiziaria. Ma questa non è solo la conseguenza di una società sconvolta dall’emergenza sanitaria. “I tempi biblici della legge”, “la lentezza della giustizia”, “rinvii” e “sospensioni”, sono queste le frasi che fotografano lo stato dei tribunali in Italia ormai da troppo tempo e che mal si conciliano con la richiesta di tutela dei diritti sanitari e civili di una società sempre più vulnerabile. La giustizia non può fermarsi ma è tempo di innovarsi. Le limitazioni derivanti dallo stato di emergenza rappresentano, infatti, una preziosa occasione per implementare l’efficienza (intesa come la capacità di raggiungere l’obiettivo evitando lo spreco di risorse) del sistema giudiziario e privilegiando strategie di informatizzazione dei servizi. L’auspicio è quello di raggiungere in maniera graduale e coordinata l’utilizzo di piattaforme digitali per la fruizione di tutti i servizi civili, penali e amministrativi non solo come risposta emergenziale ma come nuova modalità di lavoro ordinario. L’innovazione impone la semplificazione delle procedure a vantaggio della produttività e dell’efficienza: come, per esempio, l’utilizzo della posta elettronica certificata per lo scambio di informazioni tra uffici e avvocati, non solo per la prenotazione di appuntamenti nelle rispettive cancellerie, e ancora l’utilizzo di app per le prenotazioni delle udienze o per favorire le deleghe tra colleghi evitando assembramenti inutili, al pari di quanto già accade per molte pubbliche amministrazioni. In tal senso, il comitato di esperti in materia economica e sociale presieduto da Vittorio Colao ha presentato al Consiglio dei Ministri un rapporto in cui si evidenzia che la pandemia rappresenta “un’occasione irripetibile per trasformare profondamente il Paese. Nei prossimi due o tre anni possiamo trasformare l’Italia più di quanto si sia potuto fare negli ultimi decenni, se avremo il coraggio necessario per agire con decisione nella riforma del Pese e nell’investimento a favore delle prossime generazioni”. È tempo di superare la paura del cambiamento e le vecchie metodiche inattuali per far spazio alla digitalizzazione dei servizi, anche attraverso corsi di formazione e specializzazione organizzati dalle Camere Penali. Se non si investe adesso nella formazione dei giuristi del futuro con risorse economiche per il potenziamento delle infrastrutture il processo da remoto e anche il processo penale telematico rimarranno una chimera, un’illusione che rischia di paralizzare la giustizia in modo irreparabile. Appello cartolare solo su richiesta del legale - Il pressing di opposizioni e Upci di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2020 Slitta al 9 dicembre l’esame degli emendamenti, in programma nel fine settimana, da parte delle Commissioni congiunte Bilancio e Finanze del Senato, il testo dunque potrebbe andare in Aula il 14 o il 15 dicembre. Dopo la lettera di qualche giorno con cui le Camere penali invitavano il Ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, ad emendare “l’insensata e pericolosa norma” del Dl Ristori bis che, per il periodo di emergenza Covid-19, ha previsto come modalità ordinaria l’appello penale da remoto, arrivano gli emendamenti della Lega, prime firme Pillon e Ostellari, volti a ripristinare le udienze in presenza. Anche Forza Italia è sulla medesima linea. Una sponda nel corso dell’esame congiunto da parte delle Commissioni Bilancio e Finanze del Senato potrebbe trovare da Italia Viva. La seduta inizialmente in programma per questo fine settimana è però slittata al 9 dicembre, il testo dunque potrebbe andare in Aula il 14 o il 15 dicembre. Il testo che sostituisce l’articolo 23-bis del Dl 149/2020 prevede infatti un rovesciamento del paradigma per cui nella decisione sugli appelli proposti contro le sentenze di primo grado la Corte di appello procede sempre con la presenza del pubblico ministero e di tutte le parti private a meno che queste, unanimemente, o su richiesta di una di esse, e con il consenso delle altre parti prestato entro il settimo giorno precedente l’udienza, richiedono di procedere in modo cartolare. Si dispone quindi il contrario di quanto introdotto dal Ristori bis che prevede come base il procedimento cartolare. Nel caso invece in cui le parti sono concordi nel procedere in modo cartolare, entro il decimo giorno precedente l’udienza, il PM formula le sue conclusioni con atto trasmesso in cancelleria per via telematica. La cancelleria poi invia l’atto immediatamente, sempre per via telematica, ai difensori delle altre parti che, entro il quinto giorno antecedente l’udienza, possono presentare le conclusioni con atto scritto. Ed alla deliberazione si procede con le modalità da remoto. La richiesta di procedura cartolare è formulata per iscritto dal PM o dal difensore entro il termine perentorio di quindici giorni liberi prima dell’udienza ed è trasmessa alla cancelleria della corte di appello. Entro lo stesso termine perentorio e con le medesime modalità l’imputato formula, a mezzo del difensore, la richiesta di procedere cartolarmente. Contro l’appello cartolare nei giorni scorsi si era mossa anche Forza Italia con la presentazione di una serie di emendamento che prevedono la soppressione della Camera di consiglio da remoto in appello, l’esclusione dell’incidente probatorio con modalità a distanza, ed il ricorso al portale telematico. Anche il Presidente Ucpi Caiazza qualche giorno fa si è rivolto direttamente al Ministro Bonafede per censurare la norma che consente ai giudici dei Collegi di Corte di Appello di celebrare le Camere di Consiglio da remoto quando il difensore scelga di non chiedere la trattazione del processo in aula. Per Caiazza infatti “la lontananza dalla Cancelleria della sezione farà sì che solo il relatore avrà la disponibilità degli atti (e nei casi di più impegnativa dimensione, nemmeno lui!)”. Inoltre, la previsione potrebbe essere controproducente proprio sul fronte contagi, spingendo il legale “appena coscienzioso” a chiedere la trattazione orale anche quando avrebbe potuto valutare di farne a meno. “Un classico caso di eterogenesi dei fini: si vuole ottenere la riduzione delle presenze fisiche nelle aule, raggiungendosi il risultato esattamente contrario”. Infine, l’Ucpi richiama l’esperienza dei Protocolli sottoscritti dalle Camere penali locali con le Corti di Appello, in particolare quella di Roma dove si è sancito che “mai, in ogni caso, le Camere di Consiglio saranno celebrate da remoto. Parliamo della più grande Corte di Appello d’Italia - concude Caiazza - e sono certo che presto seguiranno altre iniziative analoghe”. Maxiprocesso. “Cari giurati popolari, grazie di aver fatto la Storia, mentre altri fuggivano” di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 7 dicembre 2020 Che Dio le benedica. E il popolo italiano pure. Ecco qui i nomi: Teresa Cermiglia, Maddalena Cucchiara e Francesca Vitale. Sono le tre donne che accettarono di fare i giurati popolari al maxiprocesso di Palermo e che il bellissimo docu-film della Rai di giovedì scorso ci ha consentito di conoscere dal vivo. Con altre donne e altri uomini fecero una scelta di civiltà, intrisa di orgoglio e di coraggio, che consentì di giungere a una sentenza storica. Il docu-film ce ne ha raccontato i dubbi, gli stupori e poi la crescente determinazione a proseguire fino in fondo. La scoperta del pianeta mafioso attraverso le testimonianze giunte dall’interno, fino a inorridirne. Il duro confronto, fuori dalla famosa aula bunker, con un ambiente che si era abituato nei secoli a consegnare ai boss anima e cervello. E la vita sotto scorta, le tensioni familiari. Personalmente ho sempre sostenuto che il maxiprocesso sia stato prima ancora che un grandioso evento giudiziario un grandioso evento culturale. Un duro rovesciamento delle coscienze. E/o, una giudice popolare al maxiprocesso lo ha confermato. In fondo la storia del nostro Paese è passata ripetutamente per piccoli gruppi di giurati popolari. Non solo contro la mafia ma anche contro il terrorismo, quando al celebre processo alle Brigate rosse di Torino non si trovavano abbastanza cittadini disposti ad accettare e si fece avanti, volontaria, l’esponente del partito radicale Adelaide Aglietta. Donne e uomini anonimi che siamo abituati a vedere sedere accanto ai giudici di carriera come statuine, la fascia tricolore indossata con modestia e un accenno di fierezza. Abbiamo potuto capire meglio, la scorsa sera, che non sono statuine affatto, bensì cittadini che si caricano sulle spalle il peso della Storia nazionale e le consentono di andare avanti. E che quei giurati popolari palermitani fossero protagonisti, insieme con alcuni magistrati, di una rivoluzione culturale, lo abbiamo ben potuto misurare vedendo la scena reale in cui, con vibrante voce baritonale, un avvocato dei boss, giustamente voglioso di ben meritare davanti ai facoltosissimi clienti, prese a contestare il presidente della corte, Alfonso Giordano, indignato per le “vergogne” che costui stava perpetrando. Che spettacolo, quegli avvocati, che personaggi da trattato e da romanzo insieme. Con quel loro documento che chiedeva la ricusazione del presidente. Arie del ventesimo secolo ormai dimenticate e che per fortuna ci sono state restituite proprio a ricordare la grandiosità del passaggio che si consumò. E che divise la stessa magistratura, se è vero che prima della accettazione della presidenza da parte del giudice Giordano (il quale, non dimentichiamolo, veniva dal civile) vi furono almeno cinque magistrati che rifiutarono il peso della storia. Loro, prestigiosi rappresentanti di un potere della Repubblica; mentre semplici cittadini decidevano di rappresentare e di far vincere, come ha detto uno di loro, “la Sicilia degli onesti”. Ci riuscirono. Poi, arrivò la Corte d’appello a smontare tutto. Una beffa per quei pezzi di vita generosa. Ma fu fortunatamente sconfessata dalla Cassazione, liberata della “dottrina Carnevale” grazie a Giovanni Falcone nel frattempo arrivato ai vertici del ministero della Giustizia. Ebbene, fui chiamato a testimoniare a quel processo. Una testimonianza difficile (“non stiamo processando il generale dalla Chiesa” dovette urlare Giordano verso gli avvocati difensori) e ricordo bene quei giurati popolari, la loro attenzione rispettosa, che mi arrivava addosso muta, mentre sedevo davanti cloro cercando la giustizia che in buona parte mi sarebbe stata data. Non ho mai fissato i loro volti nella memoria, non ho mai chiesto i loro nomi nè li ho mai incontrati. Oggi, dopo 34 anni, voglio da questo giornale ringraziarli per quel che fecero. Napoli. Un altro morto a Poggioreale: arresto cardiocircolatorio per detenuto di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 7 dicembre 2020 Un altro detenuto deceduto nel carcere di Poggioreale: si tratta di Amodio Di Donato, 53 anni, napoletano, finito nel reparto di Medicina d’urgenza dell’ospedale Cardarelli per arresto cardiocircolatorio. Il suo fine pena era il 2024. Ne dà notizia il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. “Oltre al cancro del sovraffollamento - spiega - nelle carceri, suicidi, atti di lesionismo, morti per malattie, sono segnali e sintomi che dovrebbero mettere in allarme sia chi si occupa di carcere, sia la magistratura, sia la politica che l’opinione pubblica e il sistema dei mass-media”. “Le condizioni strutturali di non pochi Istituti penitenziari, in primis Poggioreale - sottolinea - non consentono una efficace attività di prevenzione. I detenuti con malattie croniche, quali i cardiopatici, diabetici, i malati oncologici, quelli che patiscono malattie respiratorie, coloro ai quali è stato diagnosticato l’Hiv o l’epatite C, necessitano con urgenza di misure alternative al carcere. La Cassazione è stata chiara: ogni detenuto ha diritto a morire con dignità, in particolare se anziano o malato. Perché molti magistrati non considerano il complessivo stato morboso del detenuto e le sue precarie condizioni di salute e di afflizione in pochi metri quadrati?”. Infine, il Garante su Poggioreale si rivolge al Provveditore campano delle opere pubbliche Giuseppe D’Addato: “Quando partirà la gara di 12 milioni di euro per ristrutturare i padiglioni fatiscenti di Poggioreale, nei quali vi sono stanze con pareti piene di muffa e umidità, fili elettrici scoperti, servizi igienici senza porte e senza docce? Quando questi fondi saranno usati per rendere vivibili spazi di socialità, di trattamento, di attività di recupero? Le omissioni e la noncuranza, in questo caso, sono reati gravi. Quanti altri decessi devono verificarsi tra i detenuti per far indignare anche l’opinione pubblica?”. Milano. Covid a San Vittore, morto viceispettore penitenziario di 59 anni di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 7 dicembre 2020 Mario De Michele aveva 59 anni: era a un mese dalla pensione. A San Vittore, dove per un periodo era anche stato di fatto il numero due della polizia penitenziaria, era una specie di “istituzione”, per i detenuti come per gli avvocati: uno di quegli agenti ai quali si deve (senza peraltro che venga loro riconosciuto pubblicamente) che le sovraffollate carceri italiane non esplodano, tanto più in epoca di Covid. E proprio il virus si è portato via Mario De Michele, viceispettore di appena 59 anni, ad un passo dalla pensione che avrebbe raggiunto tra un mese. Come in tutti i contagi è impossibile sapere se abbia contratto il virus dentro o fuori San Vittore, fatto sta che dopo alcuni giorni di infezione la situazione è precipitata per complicazioni cardiache innescate dal virus. E anche un altro detenuto è morto per Covid, dopo che pochi giorni fa era scomparso S.G. recluso in regime di 41bis a Opera. Della nuova vittima se ne è potuto conoscere solo l’identità, M.P., e il fatto che scontasse la propria pena nel carcere di Bollate. Da una settimana era ricoverato in ospedale, formalmente non più in detenzione appunto per motivi di salute, e forse per questo inizialmente la sua scomparsa è rimasta in un limbo di mancate conferme. È dunque il terzo detenuto morto in due settimane in Lombardia, dopo che già il 24 novembre era scomparso F.C., in carcere a Busto Arsizio. In questo istituto adesso è stato contenuto e posto sotto controllo un focolaio Covid che è arrivato a coinvolgere 60 reclusi, per fortuna (come nella grande maggioranza dei casi in Italia) per lo più asintomatici. La Lombardia, che è la regione maggiormente colpita dal virus, non fa eccezione nelle carceri regionali, dove già normalmente è arduo distribuire i 6.156 posti ufficialmente disponibili in sole 4.324 celle, e dove la quota lombarda è maggioritaria nel totale nazionale di 975 positivi tra i detenuti e 920 tra gli agenti penitenziari. I legali della Camera Penale di Milano si sono aggiunti allo sciopero della fame “di proposta” avviato da Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale e presidente di “Nessuno tocchi Caino”, e al quale hanno sinora aderito oltre 2.800 detenuti in Italia, per chiedere a governo e Parlamento di ridurre drasticamente il numero di detenuti. Milano. Cpr di Via Corelli, ospite tenta il suicidio. Scoppia la rivolta: danni e incendi di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 7 dicembre 2020 Un migrante ha cercato di impiccarsi e subito dopo si sono verificati incidenti nel centro per il rimpatrio. Materassi dati alle fiamme, intervenuti decine di agenti di polizia e carabinieri. Il bilancio è di due feriti lievi. Ma è l’ennesimo disordine nella struttura. A innescare i disordini stavolta è stato il tentativo di suicidio di un migrante di 36 anni. L’uomo, poco prima delle 22 di domenica 6 dicembre, ha cercato di impiccarsi ma è stato subito soccorso. Nel Cpr, Centro di permanenza per il rimpatrio, di via Corelli sono arrivate un’ambulanza e un’automedica in codice rosso. Durante le operazioni di soccorso, però, sono esplose le prime proteste da parte di un gruppo di ospiti. I migranti hanno dato fuoco ad alcuni materassi - come testimoniato da una densa nube di fumo che dalla struttura si è alzata verso il cielo - e si sono barricati nei settori del Cpr. Per questo è stato necessario l’intervento di diversi mezzi dei vigili del fuoco e l’arrivo in via Corelli di una decina di blindati di polizia e carabinieri. Il 36enne che ha tentato il suicidio è stato trasportato in codice giallo al Niguarda e non è in pericolo di vita. Un altro ospite, 22enne, è stato invece portato per un controllo al Fatebenefratelli dopo aver inalato molto fumo. Per riportare la calma è stato necessario l’intervento di poliziotti e carabinieri in tenuta anti sommossa. Non è la prima volta che gli ospiti del centro inscenano proteste e rivolte. O che si verificano tentativi di autolesionismo. I casi più gravi lo scorso 12 ottobre, con una cinquantina di coinvolti, perlopiù tunisini, e a fine novembre. In quel caso a provocare gli incidenti era stato l’imminente volo di rimpatrio organizzato dal Viminale. Quando si è sparsa la voce un gruppo di giovani tunisini ha cercato di fuggire dal centro dopo aver sfasciato vetri, porte, finestre e rubinetti. Anche in quella circostanza per riportare la calma era stato necessario l’intervento di diversi blindati. In questi tre mesi dopo la riapertura, la vita del Cpr è stata piuttosto turbolenta. Tanto che anche alcuni sindacati di polizia hanno chiesto al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, al prefetto Renato Saccone e al questore Sergio Bracco interventi per garantire la sicurezza del personale. A peggiorare la situazione anche l’emergenza Covid e la necessità di mantenere separati i casi sospetti. Sul fronte antagonista, invece, continuano iniziative e manifestazioni. Nei giorni scorsi la rete “No Cpr” ha denunciato che “otto minori sono stati illegittimamente trattenuti per tre settimane all’interno del centro”: “Il freddo si fa sentire e le coperte in dotazione sono troppo poche ed alcuni lamentano di essere rimasti senza; altri di dormire direttamente sulle brande senza neppure il materasso. Come se non bastasse - hanno scritto nella loro denuncia via social - è stato servito cibo scaduto. L’alternativa sono gli snack a peso d’oro nello spaccio della stessa cooperativa di gestione, che trattiene il corrispettivo sulla paga giornaliera di 2,5 euro con la quale i trattenuti devono scegliere se comprare da mangiare, da fumare o da telefonare”. Viterbo. Il Garante dei detenuti non è uno schiaffo alla Polizia penitenziaria di Giacomo Barelli* tusciaweb.eu, 7 dicembre 2020 Ma è una battaglia di civiltà. Dopo la battaglia consiliare di questi giorni apprendo da Tusciaweb due notizie arrivate quasi in contemporanea: una tragica, l’altra tragicomica. Le dichiarazioni del capogruppo di FdI sull’istituzione del garante comunale dei detenuti e il cavillo dell’annullamento della delibera comunale che lo aveva istituito sono le due facce di una politica che nella città di Viterbo, sede di un importante e discusso carcere di massima sicurezza, assume contorni a dir poco inquietanti. Per la seconda, di cui non parlerò, poiché non provo alcun interesse, posso solo dire che il cavillo è da sempre lo strumento utilizzato dal sistema per coprire le manchevolezze della politica. Sconcertante e grave è invece la “presa di distanze” “da questa figura dai contorni poco chiari”, per dirla con le sue stesse parole, è la posizione sull’istituzione del garante contenuta nella dichiarazione del capo gruppo di FdI al comune di Viterbo Luigi Buzzi. Infatti la “soluzione finale” affidata alla burocrazia per “salvare” la faccia di una certa destra viterbese altro non è che la “naturale “conseguenza di un’aberrante quand’anche” eversiva” concezione dello stato di diritto che sta alla base delle inaccettabili parole contenute in quel comunicato da cui sarebbe bene che tutte le forze politiche cittadine prendessero le distanze. L’istituzione di un garante comunale dei detenuti non è certo infatti uno “schiaffo alla polizia penitenziaria” come afferma Buzzi, ma bensì l’attuazione di uno strumento normativo previsto dalla legge ed è innanzitutto una battaglia di civiltà giuridica per l’affermazione dello stato di diritto che assicura la salvaguardia ed il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo. È certamente anche una battaglia politica patrimonio di tutte le forze democratiche per il rispetto e l’applicazione di alcuni dei principi fondamentali che costituiscono l’essenza del nostro ordinamento costituzionale e per i quali un imputato, e perfino solo un indagato (che tuttavia ben può essere privato della libertà personale in via preventiva… e cautelare) non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, con la conseguenza che le pene, tra cui non è ammessa la pena di morte, non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Con la frase “Fratelli d’Italia è da sempre contraria alla figura del garante dei detenuti” il leader comunale di FdI dimostra di non conoscere o forse di non ricordare la propria storia o meglio la “nostra” storia di italiani e viterbesi, quando a un certo punto strade così distanti come quella dell’estrema destra e quella dei radicali si sono incrociate. Per uno strano scherzo del destino questo dibattito cittadino cade proprio pochi giorni dopo il decennale della morte di Paolo Signorelli, la cui storia giudiziaria e carceraria sembra non aver insegnato nulla a coloro i quali invece vorrebbero essere i custodi di certi valori e certe tradizioni di destra le cui radici affondano anche in quel periodo buio della storia repubblicana quando, per dirla con le parole del “loro” Secolo d’Italia, “per un fascista non c’era garantismo”. Con Signorelli che si trovava in galera a Parma in un carcere di massima sicurezza senza una condanna definitiva e che in seguito venne assolto da tutte le accuse, morì a casa propria da libero e da innocente il primo dicembre del 2010, ci fu Marco Pannella con il Partito radicale di quei tempi, con Laura Terni ed Enzo Tortora, che con una battaglia durissima fatta di scioperi della fame e fiaccolate sotto il carcere di Parma riuscì a mettere fine a un isolamento carcerario che durava da sette anni. In quell’estate 1987 il guardasigilli era un certo Giuliano Vassalli, partigiano e socialista. L’Italia infatti non è sempre stata una nazione a vocazione forcaiola e manettara come oggi vorrebbero far credere Meloni e Salvini e in questo un ruolo fondamentale lo ha avuto proprio Forza Italia. Come non ricordare il compianto Alfredo Biondi e soprattutto la sua opera in qualità di ministro della Giustizia legata soprattutto alla cancellazione della custodia cautelare in carcere, il cosiddetto decreto Biondi, ruolo nel quale svolse coraggiose battaglie di matrice garantista. Biondi e quella Forza Italia sono stati un esempio unico di attaccamento ai valori della civiltà giuridica. Un insegnamento, quello, che ha superato anche le barriere politiche e che resta un’eredità preziosa per tutti, specie in questi tempi di giustizialismo senza controllo dove la politica deve riscoprire la difesa delle istituzioni e della democrazia. È grazie a queste storie e a persone come Marco Pannella, Alfredo Biondi e tanti altri che l’impegno per i diritti di tutti, in qualsiasi condizione si trovino, è divenuto oggi un patrimonio culturale del nostro Paese. Patrimonio nel quale si inserisce anche il lavoro dei garanti dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. La politica deve avere il coraggio di togliere dall’oblio la questione carceraria e le vite dei detenuti con l’obiettivo di assicurare dignità e diritti umani nei luoghi di privazione della libertà. Per questo oggi più di ieri nella nostra città di Viterbo l’istituzione del garante comunale dei detenuti non è più rinviabile poiché rappresenta un presidio di civiltà contro la barbarie di cui ancora sentiamo parlare. *Consigliere comunale Siracusa. “Fuori - La vita oltre il carcere”, nuovo progetto a Cavadonna siracusapress.it, 7 dicembre 2020 Il lavoro come seconda opportunità di vita dentro e fuori il carcere. Favorire il reinserimento sociale del detenuto attraverso il lavoro e l’acquisizione di una specializzazione, tenendo conto dei bisogni individuali e del suo sistema di relazioni e familiare, e nel contempo contribuire a strutturare un modello di welfare comunitario capace di garantire quei servizi, attualmente assenti o poco diffusi in Sicilia, necessari all’abbattimento di tutte le barriere che si presentano di fronte al detenuto che desidera reintegrarsi nella società. Questo l’obiettivo del progetto “Fuori - La vita oltre il carcere”, sostenuto dalla Fondazione con il Sud e avviato, insieme ad altri partner, dalla cooperativa sociale L’arcolaio, che da anni opera all’interno della Casa circondariale “Cavadonna” di Siracusa per il recupero e l’inserimento lavorativo dei detenuti. Il progetto, della durata di 24 mesi, prevede, oltre al inserimento nella filiera lavorativa del biscottificio, attiva ormai da anni, un nuovo impianto di pelatura della mandorla, che garantirà nuova occupazione e la formazione di 12 detenuti per l’acquisizione della qualifica di “Addetto panificatore pasticciere”. Tre di questi, infatti, verranno inseriti nell’attività produttiva del biscottificio, mentre per gli altri nove, con i requisiti della semi libertà, è previsto un percorso di inserimento lavorativo nel laboratorio esterno de L’Arcolaio a Canicattini Bagni e, attraverso appositi tirocini, all’interno di pasticcerie del territorio. Partner nel progetto sono: la casa circondariale di Siracusa; l’Ufficio locale di esecuzione penale esterna; la cooperativa sociale Passwork di Canicattini Bagni; il Gal Val d’Anapo - Agenzia di Sviluppo degli Iblei di Canicattini Bagni, a cui fanno capo 8 Comuni (Buccheri, Buscemi, Canicattini Bagni, Cassaro, Ferla, Palazzolo Acreide, Solarino, Sortino); il consorzio siciliano “Legallinefelici” di Camporotondo Etneo (CT); la fondazione di Comunità Val di Noto. Il progetto sarà presentato in videoconferenza oggi, lunedì 7 dicembre alle 16, sulla piattaforma Zoom con diretta sulla pagina Facebook della Coop. L’Arcolaio https://www.facebook.com/arcolaiocoop. La Spezia. Detenuti per il decoro, così la riabilitazione di Corrado Ricci La Nazione, 7 dicembre 2020 Felici dell’esperienza: “Sto ritrovando la mia dignità di uomo”. “Una grande gioia sentirsi apprezzare dalla gente per l’impegno profuso”. Un’esperienza educativa per i detenuti, sulla via della libertà da ritrovare, di cui intanto riassaporano il piacere. Un’occasione di recupero di decoro, a costo zero, di spazi verdi della città. Valori e opportunità di saldano nel programma di lavoro extra-murario di alcuni carcerati della casa circondariale spezzina. Ciò avviene sull’onda di un protocollo di intesa fra il sindaco del Comune Pierluigi Peracchini, la direttrice di Villa Andreino Anna Rita Gentile e il legale rappresentante dell’Ats (Isforcoop capofila) Sergio Pinazzi. La Stella polare è l’articolo 27 della Costituzione che fissa il principio della finalità educativa della pena per favorire il reinserimento dei detenuti nella comunità. Gli effetti indotti sono il prodigarsi per essa dei detenuti e la restituzione alla decenza e alla fruibilità di spicchi di territorio trascurati. Abbiamo incontrato in carcere i primi tre reclusi impegnati nel progetto, dal ritorno dal lavoro. Erano stanchi ma felici. Parole importanti, le loro. “Sto ritrovando la mia dignità di uomo. È un’esperienza molto bella, arricchente, soprattutto per la considerazione che percepiamo: da parte degli operatori che ci seguono e da parte della gente comune che ci ringrazia per quello che facciamo” dice Marco, un passato da contrabbandiere di sigarette. “Non ho mai visto così pulito il parco della Maggiola. Mi ha detto una signora apprezzando il mio lavoro. Beh, una bella soddisfazione. Ci sentiamo i cavalieri della città” dice Ettore finito in carcere per le gravi ferite arrecate ad un poliziotto spinto giù dalla tromba delle scale durante il suo intervento per sedare una rissa. “Fu un errore, nel parapiglia lo scambiai per un contenente. Mi piacerebbe, una volta uscito dal carcere, incontrarlo, stringergli la mano e raccontagli che sono migliorato. Mai reagire alla cieca, questo l’insegnamento maturato…” racconta, ravveduto e felice di aver concorso a tirare a lucido anche l’area di Pagliari, vicino ai Cantieri Sanlorenzo. A far parte del team dei cavalieri, anche un straniero, Kasemi, origini albanese. Lo Stato, al suo ritorno, gli ha presentato il conto di una vecchia condanna per immigrazione clandestina. “Mi sto impegnando molto sperando di tornare a fare il muratore” dice tesaurizzando la sua buona manualità di cui ha dato prova nel rimettere in sesto l’area di via Prosperi. Storie diverse, volontà comune: tornare a godere della libertà con ritrovata coscienza. Quella oggetto delle cure dei percorsi educativi interni che, coordinati dalla direttrice Gentile, vedono impegnate in prima linea Licia Vanni (capoarea Trattamento) e Simona Gallo (funzionario giuridico pedagogico). Entusiasta il sindaco Pierluigi Peracchini: “È un progetto che ci rende molto orgogliosi perché dà speranza e dignità a persone invisibili e che, come dice la nostra Costituzione, vanno reinserite gradualmente nella comunità con un percorso riabilitativo. Inoltre, è importante inserirle in un percorso che le aiuti a non ricadere più negli stessi errori, trovando una prospettiva nuova e diversa con un’occupazione che sia significativa per la collettività. Non è il primo progetto che stringeremo con la Casa Circondariale spezzina, che ringrazio per l’opportunità di realizzare concretamente il bene comune”. Quello dei lavori esterni è uno dei tasselli del mosaico creato per preparare i detenuti al ritorno in società, anche nell’auspicata prospettiva di poter trovare un lavoro”, dice la direttrice Gentile. Una ‘palestra’ è rappresentata dall’officina di carpenteria nella quale vari detenuti partecipano alla costruzione di manufatti, di pezzi di design ‘ordinati’ da committenti aziendali. “Come le sedie esposte anni fa alle Fiera di Milano: un orgoglio vederle e pensare che erano state realizzare dai nostri ragazzi” dice Licia Vanni che segue anche gli altri laboratori, di teatro e di musica. Lecco. Si raccolgono bigliettini di Natale per chi è in cella leccoonline.com, 7 dicembre 2020 Buon Natale ai reclusi, quelli veri. Quelli che contano i giorni della pena senza vederne la fine e davvero non possono uscire. Quelli soli tutti i giorni e non solo quest’anno a Natale perché fuori c’è il Covid. Don Marco Tenderini, cappellano della Casa Circondariale di Lecco racconta cosa si prova a vedere il giorno della venuta di Nostro Signore da dietro le sbarre. L’occasione è quella di un’iniziativa della Comunità Pastorale di Lecco Centro, “Uno sguardo verso chi ha sbagliato”, che invita per Natale a offrire un pensiero a chi è privo della libertà e soffre. La proposta rivolta a bambini e ragazzi è quella di “creare un semplice biglietto d’auguri”, usando la fantasia. I biglietti verranno raccolti insieme a dei biglietti in bianco e a dei francobolli, da dare ai detenuti che desiderano inviare un pensiero alle famiglie, magari molto lontane. La raccomandazione è quella di usare dei messaggi generici, per la diversa provenienza e appartenenza religiosa di chi vive nelle carceri. “Visitare i carcerati è un’opera di misericordia concreta - racconta don Marco. Ora le visite non sono possibili, ma questo gesto può essere un modo per manifestare la propria vicinanza a chi soffre la reclusione, perché si senta meno solo: Il Natale è un periodo molto critico in questo senso. Anche per chi non è cristiano è il momento dell’anno in cui più si sente la mancanza della famiglia. Mi rattristano molto i paragoni con la prigionia o la guerra di quelli che si lamentano delle restrizioni sanitarie: chi sta fuori ed è comunque libero di uscire quando vuole, di andare a lavorare, di stare con i propri cari, non può conoscere il reale significato della parola “galera”. La gente che arriva qui spesso ha addosso solo i vestiti che aveva al momento dell’arresto e nient’altro”. Quando si parla di “missione” si immaginano sempre posti lontanissimi, ai confini del mondo: il carcere invece è una terra di missione e di confine, ma è dietro l’angolo. I detenuti hanno bisogno più di tutte le cose di sapere che la comunità non li abbandona, anche se hanno sbagliato. “Di solito suggerisco a chi me lo chiede anche la raccolta di generi per l’igiene personale, perché tante volte chi viene qui non ha possibilità e risorse proprie per acquistarne. Anche per il vestiario ci appoggiamo alla Caritas. In questo periodo chiediamo i biglietti di Natale in bianco proprio per questo motivo: spesso loro non possono acquistarne e serve qualcuno che li doni. Inoltre, abbiamo pensato che sarebbe stata una cosa bellissima per loro poter ricevere un biglietto di auguri da parte di un bambino. L’idea nasce da una richiesta del Prevosto per il programma d’Avvento, per delle proposte che stimolassero l’attenzione verso situazioni di disagio, sofferenza, esclusione. Quella dei biglietti mi è sembrata la più adatta al periodo: ogni detenuto avrà quindi il suo bustone con i cartoncini da spedire e un biglietto di auguri tutto per sé”. Don Marco è cappellano da febbraio di quest’anno, ma ha preso la carica ufficialmente in agosto: anche prima però, per molti anni ha fatto da spalla al suo predecessore don Mario Proserpio, che ora vive a Castello. “Purtroppo in questo momento non possiamo contare sulla presenza dei volontari, che di solito sono molto numerosi e impegnati, nell’ascolto, nell’animazione della Messa, al guardaroba”. La Casa circondariale di Pescarenico ha anche un’educatrice, del personale sanitario e dei medici presenti 12 ore al giorno, oltre naturalmente al personale penitenziario. Nel corso dei mesi della pandemia, si è cercato di ridurre le presenze nella struttura, per quanto possibile, trasferendo alcune persone o ai domiciliari o in altre comunità. Al momento a Pescarenico sono presenti circa 60 detenuti. Chi desidera donare i biglietti può farlo entro l’8 dicembre consegnandoli ai catechisti o in segreteria parrocchiale, per dare la possibilità a chi li riceve di poterli spedire in tempo per le festività. Donne, stranieri, poveri i soggetti da proteggere di Marco Revelli La Stampa, 7 dicembre 2020 Definire un progetto di inclusione significa conoscere le mappe dell’esclusione. E le aree degli esclusi che costituiscono il grappolo di sofferenze su cui intervenire sono tante. Le povertà, in primo luogo: la terra “di sotto” di chi ha un reddito disponibile inferiore del 40 o del 50% a quello medio, ovvero i poveri in senso relativo (erano quasi 9 milioni nel 2019) e quelli in condizioni di “povertà assoluta” (chi non ha neppure i mezzi indispensabili per “una vita dignitosa”: erano quattro milioni e mezzo prima della pandemia, ora di più). Sono gli esclusi socialmente, tanto inferiori agli altri da apparire figli di un altro Paese. L’Istat parla di un 27% di popolazione “in condizioni di esclusione sociale”. Includerli sarebbe, di per sé solo, un impegnativo programma di governo. Vorrebbe dire affrontare una buona volta la questione meridionale: più della metà dei poveri assoluti vive tra meridione e isole, nonostante vi risieda appena un terzo della popolazione nazionale. Metter mano alla questione dei bassi salari (più del 10% delle famiglie operaie è in “povertà assoluta”, il 17,4% in “povertà relativa”). Curarsi della questione minorile e della quasi totale assenza di politiche a sostegno della famiglia: abbiamo il record europeo di minori poveri e gli indici di deprivazione per le famiglie numerose fanno spavento. E poi la questione femminile: l’ingiustificabile divario salariale, l’abbandono delle famiglie “mono-genitore”. E quella migratoria (il 27% degli individui stranieri è in povertà assoluta). Infine - last but not least - c’è l’esclusione territoriale: la solitudine delle aree interne, dei comuni polvere, dei piccoli paesi di montagna, dove le condizioni di vita sono più dure, la mobilità più difficile e le risorse pubbliche più scarse. Includerli vorrebbe dire invertire la scala di priorità finora seguita. Adolescenti arresi di Elena Stancanelli La Stampa, 7 dicembre 2020 Pare che Jasmine e Vittoria si fossero date appuntamento al Pincio per “menasse”. Non sappiamo quale fosse l’onta da lavare, sappiamo però, grazie a un vocale caricato sull’account Instagram gossipderomaa, che Justine non si è presentata. Stava arrivando in metro, o con l’autobus, ma è dovuta tornare indietro perché c’ha avuto un problema familiare grosso. Pare che la rissa sia stata scatenata dalla delusione per il mancato spettacolo. Di certo intorno alle sei del pomeriggio di un sabato non qualunque - sotto Natale, in piena epidemia, nell’esasperazione ormai incontenibile per la mancanza di contatto fisico - centinaia di adolescenti si sono buttati l’uno contro l’altro. “Volevo dire a tutte le persone che erano presenti oggi e che vanno fieri di aver menato qualcuno, fate schifo. Doveva esse ‘na rissa tra du pischelle, com’è finita, tutta Roma contro tutta Roma. Ci sta menarsi per dei torti, ma ci sono persone che hanno menato per togliersi lo sfizio o perché se stavano a mena’ tutti”. Riporto sempre dall’account citato, una specie di tazebao per notiziole piccanti, tipo “continue frecciatine tra Dennis, Marika e Aurora”. Chissà com’è andata finire tra quei tre. La terrazza del Pincio, sopra piazza del Popolo, è un luogo di ritrovo da moltissimi anni. Prima dei social, prima di internet e i telefonini, la notte, senza bisogno di dirselo, ci scendevano ragazzi e ragazze che arrivavano da lontano, da quello periferie abbondate di cui sappiamo. Venivano qui per far sentire la potenza degli stereo montati sulle automobili, quando gli stereo andavano di moda, per fare l’amore nei sedili di dietro, per farsi le canne. Adesso che quasi tutti si muovono in metro, o con gli autobus, ci fanno le gare coi monopattini, guardano i video sui telefonini, nel peggiore dei casi “se menano”. Preferiremmo che facessero qualcosa di più costruttivo, che leggessero per esempio, ma è abbastanza evidente che questo non accadrà. Che preferiscono tatuarsi e andare in palestra, piuttosto che praticare uno sport elegante e discutere di filosofia. E forse non è mai accaduto. Nonostante la nostalgia che abbellisce il passato, non è mai esistita una generazione in cui un numero consistente di adolescenti si comportasse come i genitori avrebbero desiderato. Anzi, certi nostri adolescenti sono in possesso di una specializzazione che non ha precedenti. Sanno che dovranno farsi largo tra una concorrenza gigantesca, che probabilmente non potranno rimanere in Italia, che dovranno esprimere le loro competenze in un’altra lingua. Pochi certo, pochissimi, ma quelli bravi sono bravissimi, più di noi. Poi ci sono gli altri. E sono una marea, una quantità impressionante di ragazzini e ragazzine che si sono arresi. Hanno una grande svantaggio, rispetto a noi: il mondo, o quello che loro immaginano sia il mondo, è continuamente e per intero davanti ai loro occhi. La presunta conoscenza capillare e istantanea messa a disposizione dalla rete ha ucciso le illusioni. Qualunque cosa ti venga in mente, c’è uno da qualche parte che l’ha già pensata e realizzata molto meglio di quanto tu avresti mai potuto fare. Ma non solo. Mentre raccontiamo che hanno tutto, intendendo con tutto un telefono una connessione internet e qualche vestito costoso, in verità gli stiamo togliendo tutto quello che possiamo. Basta fare due passi in una di quelle periferie di cui si è detto, per esempio in quella Piana del Sole, dalle parti di Fiumicino, dove è nato quel 1727wrldstar, il tizio diventato famoso perché si è schiantato in diretta con la macchina commentando “Ho preso il muro, fratelli”. Sono galere, schiere di palazzotti fatiscenti senza una biblioteca, un cinema, un centro di aggregazione di qualche tipo. A volte c’è un fast food, sullo sfondo un centro commerciale. Persino i campetti di calcio stanno sparendo, per far posto a chissà cosa. Lasciamogli almeno la scuola, o la pagheremo cara. La rabbia è pericolosa, ma è ancora più pericolosa la mancanza di rabbia, di senso, di tutto. Quello che è successo sulla terrazza del Pincio non è un’edizione moderna di West Side Story, non sono i bianchi contro i portoricani, ma “tutta Roma contro tutta Roma”: pazzia, autolesionismo, disperazione. Universitari prof a distanza per bambini e ragazzi, ecco “Volontari per l’educazione” di Gabriele De Stefani La Stampa, 7 dicembre 2020 Progetto di Save The Children per lottare contro la povertà educativa causata dal Covid-19: già 300 adesioni, si parte a gennaio. Studenti universitari prof a distanza per bambini e ragazzi dai 9 ai 16 anni colpiti dall’emergenza educativa figlia del Covid-19, tra scuole chiuse e difficoltà nella didattica a distanza. È il progetto “Volontari per l’educazione” lanciato da Save The Children, che nei suoi primi giorni ha raccolto l’adesione di 300 universitari (per l’86% donne) da 70 città italiane. Dopo una formazione specifica e con l’assistenza di educatori professionali, da gennaio i volontari seguiranno bambini e ragazzi online individualmente o a piccoli gruppi, sulla base delle loro competenze e delle esigenze specifiche di recupero individuate in collaborazione con le scuole. La sinergia tra volontari, istituti e famiglie sarà stretta: una rete supervisionata da un’equipe centrale di educatori professionali. È prevista la distribuzione di pc e tablet a bambini e ragazzi che ne siano sprovvisti e che parteciperanno al progetto. Per i volontari è anche un’occasione di migliorare le competenze nel settore educativo: per loro ci saranno prima una formazione di base sul significato del volontariato, la dispersione scolastica e l’apprendimento di qualità e poi una formazione specifica sulla salvaguardia dei minori online e sulle regole di condotta da mantenere nella attività di accompagnamento allo studio. In una fase più avanzata, i volontari impareranno strumenti e metodi didattici inclusivi e partecipativi e aspetti emotivi in questo periodo di precarietà. Ci sarà anche un approfondimento specifico sulla relazione educativa con minori e famiglie di origine straniera che non abbiano ancora padronanza della lingua italiana. “Volontari per l’educazione” nasce dopo il successo estivo del progetto Arcipelago Educativo realizzato da Save the Children e dalla Fondazione Agnelli, con il contributo della Fondazione Bolton Hope Onlus. Un progetto che prosegue in 47 scuole di cinque città, grazie al sostegno di Exor, e che ha mostrato l’efficacia della partecipazione qualificata di decine di studenti universitari volontari, che hanno svolto attività specifiche per il recupero del deficit di apprendimento dei bambini più svantaggiati. “Dai nostri centri sul territorio ci giungono segnalazioni di bambini e adolescenti che non stanno frequentando la scuola, in presenza e online, con gravi ricadute nell’apprendimento e nella motivazione allo studio - commenta Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the Children -. Siamo al fianco di tanti docenti ed educatori che cercano di riallacciare i legami con le famiglie e i ragazzi che la crisi lascia più indietro. La nuova community dei Volontari per l’Educazione sarà una risorsa preziosa per rafforzare questo impegno. Nessun bambino deve pagare il prezzo della crisi rinunciando ad apprendere, far fiorire i propri talenti e costruire liberamente il futuro. Le scuole e le famiglie non possono essere lasciate da sole davanti ad una sfida educativa senza precedenti. L’adesione al progetto da parte della Conferenza dei Rettori e della Rete delle Università per lo sviluppo sostenibile testimonia come le Università possono essere parte attiva per contrastare la povertà educativa. Speriamo che moltissimi studenti universitari accolgano questa chiamata all’impegno civico per il diritto all’educazione dei più piccoli”. Tutti gli studenti universitari possono candidarsi consultando la pagina dedicata sul sito di Save the Children, che è anche a disposizione di insegnanti, genitori, alunni o studenti per segnalare eventuali richieste di accesso al programma di accompagnamento allo studio. Una firma per cambiare cinque storie di violazioni dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 7 dicembre 2020 Khaled Drareni, tra i più noti giornalisti dell’Algeria, ha seguito sin dall’inizio le manifestazioni di “Hirak”, la protesta pacifica che ha riempito le strade del paese per oltre un anno a partire dal 2019. Per aver svolto il suo dovere professionale, è stato condannato a tre anni (ridotti a due in appello) per “istigazione a prendere parte a un raduno disarmato”. Amnesty International chiede che la sua condanna sia annullata e che sia rilasciato. Nassima al-Sada, attivista per i diritti umani dell’Arabia Saudita, è stata tra le protagoniste delle campagne per rivendicare il diritto delle donne a guidare e a svolgere le attività quotidiane senza il permesso di un “tutore” maschio. Per questo, nel luglio 2018, è stata arrestata. In carcere ha subito maltrattamenti ed è stata posta in isolamento dal febbraio 2019 al febbraio 2020. Ha il permesso di telefonare alla sua famiglia una volta a settimana, ma non può ricevere visite, nemmeno quella del suo avvocato. Amnesty International chiede che sia prosciolta da ogni accusa e scarcerata. Gustavo Gatica, uno studente di Psicologia dell’università di Santiago del Cile, ha perso la vista da entrambi gli occhi l’8 novembre 2019 dopo che è stato colpito da pallini da caccia esplosi dalla polizia durante una manifestazione. Amnesty International chiede alle autorità cilene di individuare e punire i responsabili. Jani Silva, difensora dei diritti ambientali della Colombia e rappresentante di centinaia di contadini del dipartimento di Putumayo, subisce minacce e tentativi di criminalizzazione come tanti altri difensori dei diritti umani, molti dei quali vengono assassinati ogni anno. Amnesty International chiede protezione per lei e per tutti i difensori dei diritti umani della Colombia. Il Gruppo di solidarietà per le persone Lgbti del Politecnico del Medio Oriente (Metu) di Ankara, la capitale della Turchia, ha organizzato per anni un Pride all’interno del campus. Nel 2019 la polizia è intervenuta durante la manifestazione, arrestando e picchiando alcuni partecipanti. Amnesty International chiede l’assoluzione di tutti coloro che, da allora, sono sotto processo e indagini sull’uso eccessivo della forza da parte della polizia. Sono queste le storie di violazioni dei diritti umani sulle quali milioni di persone si stanno attivando nel corso di Write for Rights, la maratona mondiale di firme organizzata ogni anno da Amnesty International. Gli appelli da firmare sono qui: https://www.amnesty.it/maratone/cambiamolastoria/ La vergogna dei sovranisti che chiudono gli occhi sugli orrori di Ungheria e Polonia di Claudio Cerasa Il Foglio, 7 dicembre 2020 Anche i populisti italiani dovrebbero capire che con l’opposizione del duo di Visegrád non è in gioco solo il futuro del Recovery plan ma il futuro dell’Europa e i valori non negoziabili della democrazia liberale. Donald Tusk è stato primo ministro della Polonia dal 2007 al 2014, è stato presidente del Consiglio europeo dal 2014 al 2019, ricopre dal 21 novembre del 2019 l’incarico di presidente del Partito popolare europeo e qualche giorno fa, in un tweet molto amareggiato, si è posto una domanda chiave per provare a ragionare intorno alle convulsioni della destra europea: “Cos’altro dovrebbe fare Fidesz - il partito di Viktor Orbán, iscritto al gruppo del Partito popolare europeo - per dimostrare a tutti voi che semplicemente non ha alcuna intenzione di adattarsi alla nostra famiglia?”. Il tema a cui fa riferimento Tusk è collegato non solo alla formidabile storia dell’orgia che ha coinvolto un europarlamentare del partito di Orbán ma anche al veto minacciato giorni fa sul Recovery fund dal governo ungherese e da quello polacco entrambi convinti che sia inaccettabile legare al rispetto dello stato di diritto (regalato dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea) l’erogazione dei fondi previsti dal piano Next Generation Eu. In molti, in Europa e in Italia, hanno osservato questa vicenda mostrando grande preoccupazione per il possibile rallentamento del piano sul Recovery, ma in pochi hanno invece mostrato preoccupazione sincera rispetto alla gravità rappresentata dalle affermazioni dei due governi europei. E il caso italiano è ancora più singolare, pensando al fatto che i due più importanti partiti del centrodestra (la Lega di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, anche se in realtà l’unico partito formalmente alleato con Orbán in Europa è Forza Italia) considerano il governo ungherese e quello polacco come degli splendidi modelli di buon governo europeo. È possibile che alla fine il veto di Ungheria e Polonia venga evitato ma non è possibile invece far finta di non aver visto lo spettacolo raccapricciante offerto in Europa dall’estrema destra di governo desiderosa così tanto di combattere l’Europa della solidarietà al punto da aver difeso due paesi che hanno scelto di fare della violazione sistematica dello stato di diritto europeo un proprio punto d’orgoglio. Già, ma di cosa stiamo parlando? Juan Fernando López Aguilar è un eurodeputato del Pse, è relatore sullo stato di diritto in Polonia per il Parlamento europeo e presidente della Commissione libertà civili, giustizia e affari interni e qualche settimana fa ha messo insieme i puntini per spiegare perché la presenza, all’interno del piano sul Recovery, di un’efficace condizionalità che protegga il bilancio Ue nel momento in cui lo stato di diritto viene violato non è solo una priorità, ma è una conditio sine qua non degli imminenti negoziati col Parlamento europeo. Il quadro offerto da López Aguilar è semplicemente devastante ed è un’istantanea dettagliata su come lo stato di diritto, la democrazia e i diritti fondamentali siano stati sistematicamente compromessi e feriti in Polonia a partire dal 2015. “Dopo essere riuscito a politicizzare la Corte costituzionale e il Consiglio nazionale della magistratura, il governo polacco ha proseguito nell’operazione di smantellamento della Corte suprema e ha portato avanti una campagna d’intimidazione a scapito dei giudici che hanno mosso critiche a questi cambiamenti del sistema giudiziario. Ciò di cui siamo stati testimoni in Polonia non è solo un episodio, ma una serie di diverse azioni e riforme legislative intraprese dalla maggioranza PiS che, viste nel complesso, rappresentano una grave, reiterata e sistemica violazione dello stato di diritto”. Diritti come la libertà di espressione. Diritti come il pluralismo. Diritti come la libertà di stampa, quella accademica, di associazione e manifestazione. López Aguilar aggiunge poi che questo non è l’unico aspetto preoccupante di una situazione purtroppo più articolata e ciò che “desta profonda preoccupazione è il rispetto dei diritti fondamentali, con particolare riferimento alla libertà dei mezzi d’informazione e alla protezione delle minoranze”. Vale per la Polonia ma vale anche per l’Ungheria. E i partiti desiderosi di rispettare la volontà del popolo dovrebbero ricordarsi ogni tanto che il popolo in Europa non si esprime solo quando vota nei paesi membri ma si esprime anche quando vota per scegliere i propri rappresentanti al Parlamento europeo. E per quanto possa essere difficile da credere per Giorgia Meloni e per Matteo Salvini, i rappresentanti del popolo al Parlamento europeo lo scorso 16 gennaio hanno votato a stragrande maggioranza - 446 voti favorevoli, 178 contrari e 41 astenuti - una risoluzione in cui viene sottolineato come, anche stando alle relazioni e alle dichiarazioni di Onu, Ocse e Consiglio d’Europa, “la situazione sia in Polonia che in Ungheria si è deteriorata sin dall’attivazione dell’articolo 7, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea”. E arrivare al punto di chiedere di valutare l’attivazione dell’articolo 7 significa arrivare a un passo da un punto di rottura non solo diplomatico, sintetizzato perfettamente dall’eurodeputata olandese (del gruppo macroniano Renew) Sophie in ‘t Veld: “Se non si rispettano le regole dell’Ue, non si vuole farne parte. In tal modo non è possibile rimanere membri dell’Ue con tutti i benefici, compresi i fondi Ue”. Stato di diritto, certo, ma in che senso? Ed esattamente, di cosa stiamo parlando? Lo scorso 30 settembre, la Commissione europea ha pubblicato il suo primo rapporto sullo stato di diritto nell’Unione europea, ed è sufficiente leggere i capitoli dedicati a Polonia e Ungheria per capire, con toni meno astratti, di cosa stiamo parlando. Per quanto riguarda la Polonia, i punti critici sono tendenzialmente tre. Riforme giudiziarie, “che hanno ripercussioni sul Tribunale costituzionale, sulla Corte suprema, sui tribunali ordinari, sul Consiglio nazionale della magistratura e sulla procura, e che hanno aumentato l’influenza del potere esecutivo e del potere legislativo sul sistema giudiziario e hanno quindi indebolito l’indipendenza della magistratura”. Queste riforme hanno indotto “la Commissione ad avviare nel 2017 la procedura di cui all’articolo 7, paragrafo 1”, hanno portato nel 2019 e nel 2020 la Commissione ad avviare “due nuove procedure di infrazione per salvaguardare l’indipendenza della magistratura” e hanno portato “la Corte di giustizia dell’Ue a emettere provvedimenti provvisori per sospendere i poteri della sezione disciplinare della Corte suprema per quanto riguarda i procedimenti disciplinari nei confronti dei giudici”. Il secondo punto riguarda la presenza, documentata, di “preoccupazioni circa l’indipendenza delle principali istituzioni responsabili della prevenzione e della lotta alla corruzione, in particolare se si considera che l’Ufficio centrale anticorruzione è subordinato all’esecutivo e che il ministro della Giustizia svolge contemporaneamente le funzioni di procuratore generale”. Il terzo punto riguarda invece, nello specifico, “il quadro giuridico polacco in materia di pluralismo dei media che si basa sia sulle garanzie costituzionali che sulla legislazione settoriale”, con un rilievo specifico relativo a una norma che rende possibile, per i giornalisti, “la criminalizzazione dell’oltraggio a pubblico ufficiale”. Quanto all’Ungheria, il quadro, se possibile, è ancora più fosco. “Nel corso degli ultimi anni - si legge nel dossier - le istituzioni dell’Ue hanno spesso sollevato con preoccupazione il problema dell’indipendenza della magistratura ungherese, anche nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7, paragrafo 1, avviata dal Parlamento europeo. L’invito a rafforzare tale indipendenza, formulato nel contesto del semestre europeo, è rimasto lettera morta”. In particolare, “il Consiglio nazionale della magistratura, organo indipendente, è in difficoltà nel controbilanciare i poteri del presidente dell’Ufficio giudiziario nazionale competente per l’amministrazione degli organi giurisdizionali. Preoccupano anche gli sviluppi relativi alla Corte suprema (Kúria) e in particolare la sua decisione di dichiarare illegittima una domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Alcune norme recentemente approvate, oltre a consentire la nomina alla Corte suprema di membri della Corte costituzionale, eletti dal Parlamento al di fuori della normale procedura, abbassano i criteri di eleggibilità del presidente della Corte suprema. Per quanto riguarda l’efficienza e la qualità, il sistema giudiziario è soddisfacente, in particolare in termini di durata dei procedimenti, e presenta un livello di digitalizzazione elevato”. Continua la Commissione: “Il quadro istituzionale anticorruzione è suddiviso tra vari organi. Le carenze dei meccanismi di controllo indipendenti e le strette interconnessioni tra il potere politico e alcune imprese nazionali favoriscono la corruzione. Mancano sistematicamente interventi decisi nelle indagini e nelle azioni penali in caso di accuse gravi di corruzione nei confronti di funzionari di alto livello o della loro cerchia immediata. Questo problema è stato sollevato nell’ambito del semestre europeo e dal Greco (il Group of States against Corruption), in considerazione della mancanza di impegno nel rispettare le raccomandazioni”. Infine, “la Corte di giustizia ha ritenuto non compatibile con il diritto dell’Ue la legislazione sulla trasparenza delle organizzazioni della società civile finanziate con fondi stranieri; le misure legislative necessarie per l’esecuzione della sentenza sono in fase di preparazione”. Lo scontro tra l’Europa e il duo di Visegrád formato da Polonia e Ungheria non è dunque solo uno scontro sul futuro del Recovery plan ma è prima di tutto uno scontro sul futuro dell’Europa e sui valori non negoziabili di una democrazia liberale. E se la scelta da prendere oggi dovesse essere quella tra avere un’Europa con più diritti o un’Europa con più paesi, la decisione, con buona pace di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini, potrebbe essere meno difficile rispetto a quello che sembra. Egitto. Zaki, nuova udienza: domani l’esito. Lo studente “Sono innocente” di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 dicembre 2020 Si è conclusa al Cairo la seduta per il rinnovo della custodia cautelare di Patrick. In aula anche gli ambasciatori di Italia, Germania, Olanda e Canada, più l’avvocato dell’Unione Europea. L’avvocato: non sono ottimista. Ancora ore di attesa al Cairo e un’altra “notte di angoscia”. Si è conclusa oggi pomeriggio alla terza sessione del Tribunale per l’antiterrorismo del Cairo l’udienza per decidere del rinnovo della detenzione di 45 giorni per Patrick Zaki, il verdetto non sarà reso nota prima di domani come conferma la stessa legale del giovane Hoda Nasrallah che ha spiegato di sperare nella scarcerazione dello studente ma al contempo ha avvisato che una frase pronunciata dal giudice nell’udienza odierna lascia prevedere un prolungamento della detenzione. “Spero che venga rilasciato domani ma non lo prevedo perché è stato sollevato il problema dei libri e il giudice ha risposto “mi presenti una domanda”. Questo significa che Patrick rimarrà in prigione”, ha spiega Nasrallah. “Come già successo in passato, sapremo domani cosa oggi ha deciso il giudice del tribunale per l’antiterrorismo del Cairo per Patrick Zaki. Sarà un’altra notte di angoscia per lui, i familiari, gli amici e le tantissime persone che da dieci mesi si battono per la sua scarcerazione. Purtroppo non c’è molto da prevedere: speriamo che questa detenzione, durata oltre 300 giorni, abbia fine e che possa essere rilasciato”, ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international. Zaki era presente in aula e ha dichiarato che le accuse contro di lui sono “infondate” denunciando di aver già trascorso dieci mesi in carcere. Presenti erano anche i suoi legali e, per la prima volta dall’inizio dell’emergenza coronavirus, i rappresentanti delle ambasciata di Italia, Germania, Olanda e Canada, più l’avvocato dell’Unione Europea. Alla vista del delegato italiano, Patrick lo ha riconosciuto, si è messo la mano sul cuore in segno di ringraziamento e alzato il pollice verso l’alto, come a dire di stare bene. Patrick, ex collaboratore dell’Eipr e studente dell’Università di Bologna, si trova da 305 giorni in detenzione cautelare nel Carcere di massima sicurezza di Tora, al Cairo. A far scattare le manette il 7 febbraio scorso, al suo rientro dall’Italia, l’accusa di diffusione di post su Facebook atti a “destabilizzare la sicurezza dello Stato”, un reato che ricade nella legge sull’antiterrorismo. Dopo quasi un anno però, ancora si attende l’inizio del processo. Lo stesso giudice della terza sessione del Tribunale per l’antiterrorismo del Cairo oggi ha stabilito il congelamento dei beni dei tre direttori dell’Eipr, Il provvedimento contro i beni di Mohamed Basheer, Karim Ennarah e Gasser Abdel Razek, è stato reso noto su twitter dalla stessa Egyptian initiative for personal rights. A quanto riferisce l’Eipr, l’ordine non dovrebbe riguardare i beni dell’Ong ma solo quelli dei direttori. “Hanno deciso senza ascoltare neanche una parola della difesa”, hanno commentato i dirigenti della Eipr. “Abbiamo chiesto di parlare e ci è stato negato. non è stata presentata nessuna prova e neanche una prova dell’ordine di congelamento dei beni. Abbiamo chiesto di leggerlo e non c’è stato consentito”. L’udienza di oggi è stata preceduta giovedì scorso dal rilascio di altri tre dirigenti dell’Eipr, arrestati a metà novembre sempre per reati connessi al terrorismo. Una decisione che ha suscitato forti speranze per un epilogo analogo anche per Zaki, con ulteriori appelli da parte della comunità internazionale - Ong, gruppi studenteschi, governi - che in questi mesi ha esercitato forti pressioni sulle autorità egiziane per la liberazione del giovane attivista e dei numerosi detenuti di coscienza in Egitto. Diritti umani, Libia, gas e Islam: tutti i nodi della visita di Al Sisi in Francia di Anais Ginori La Repubblica, 7 dicembre 2020 Nelle ore in cui si decide la sorte giudiziaria di Patrick Zaky, il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi è a Parigi per una visita di tre giorni che dovrebbe, secondo l’auspicio della diplomazia francese, rafforzare i rapporti bilaterali. Al Sisi ha un nutrito programma. Ieri sera ha cenato con il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian e stamattina incontrerà Emmanuel Macron. Il presidente egiziano vedrà anche il premier Jean Castex, e i presidenti di Senato e Assemblea nazionale. È la questione più delicata per Macron dopo lo scontro diplomatico provocato nel 2019 quando in una conferenza stampa al Cairo insieme al presidente egiziano aveva criticato apertamente il regime per “aver imprigionato giornalisti e blogger” e “non andare nella giusta direzione”. Quelle dichiarazioni avevano provocato un raffreddamento delle relazioni bilaterali. “La questione dei diritti umani, in particolare dei casi individuali, sarà evocata dai due Presidenti”, assicurano ora all’Eliseo senza fornire dettagli su quello che Macron dirà al riguardo. Il capo di Stato dovrà fare l’equilibrista: non vuole probabilmente urtare il “Faraone” invitato a Parigi ma è pressato dall’appello di diciassette ong, tra cui Amnesty, che lo hanno spronato a “non mostrare indulgenza nei confronti della brutale repressione di ogni forma di dissenso”. Macron deve anche tenere conto del prossimo arrivo di Biden alla Casa Bianca. Il leader democratico potrebbe esprimere un sostegno a Al Sisi più sfumato rispetto a Trump. Piuttosto che una condanna generica del regime, l’Eliseo insiste sui “casi individuali” da risolvere. E l’entourage di Macron si prende una parte del merito nel risultato ottenuto qualche giorno fa: il rilascio dei tre attivisti dell’Egyptian initiative for personal rights (Eipr) comunicato poche ore prima della conferma della visita di Al Sisi a Parigi. L’arresto degli attivisti dell’Eipr, raccontano all’Eliseo, è stato oggetto delle discussioni preparatorie alla visita del presidente egiziano. “Quindi siamo felici della liberazione dei tre militanti. È una buona notizia. Lo prendiamo come un segnale positivo inviato dall’Egitto”. Restano molti altri casi sul tavolo dell’incontro, a cominciare da Patrick Zaky e Ramy Shaath, sposato alla francese Cécile Lebrun. Arrestato un anno fa, Shaath è ancora in attesa di processo. È un dossier strettamente legato alla questione dei diritti umani. I gruppi di armamento francesi sostengono che la posizione di Macron nel 2019 abbia avuto un impatto negativo sui contratti con il Cairo, a vantaggio di altri partner europei, vedi l’Italia che ha venduto le sue fregate Fremm. D’altra parte, il partenariato con il regime egiziano provoca interrogativi nella stessa maggioranza. Un recente rapporto parlamentare sottolinea “il danno reputazionale e il crescente costo politico nella vendita di armi e tecnologia di sorveglianza all’Egitto”. Dal 2013 al 2017 la Francia è stata il principale esportatore di armi verso l’Egitto, superando persino gli Usa. Ma negli ultimi tempi le vendite sono diminuite. Per questa visita, dicono all’Eliseo, non ci saranno annunci “significativi” di nuovi contratti. Macron non ha comunque intenzione di rallentare la collaborazione. “La Francia e l’Egitto hanno una lunga storia di cooperazione strutturante nell’ambito della Difesa”, spiegano all’Eliseo. “Proseguiremo questa cooperazione”, aggiungono nell’entourage del leader francese sottolineando che l’Egitto ha relazioni con altri paesi che “come noi considerano sia utile alla stabilità nella regione”. Macron dovrebbe rinnovare oggi con Al Sisi un appello per la “partenza delle forze straniere, a cominciare dai russi, dai turchi e dei diversi mercenari presenti”. Il leader francese vuole insistere sul dialogo politico che si sta faticosamente allacciando. “Pensiamo che ci sia una vera opportunità e dobbiamo continuare perché non succedeva da molto tempo”, dicono all’Eliseo. La Francia ha cominciato a prendere le distanze dal maresciallo Haftar. “È un protagonista, ma non è il solo”, precisano una fonte diplomatica. “La Francia parla con la maggioranza dei protagonisti, quindi non solo con il maresciallo Haftar”. Secondo l’Eliseo, anche il regime di Al Sisi guarda altrove, in particolare al presidente del parlamento di Tobruk, Aguila Salah. Macron e Al Sisi sono alleati nella battaglia contro la Turchia anche nella contesa per i giacimenti di gas nel Mediterraneo. Qualche mese fa la Francia ha fatto domanda di adesione al Forum del gas lanciato dall’Egitto che si occuperà tra l’altro del gasdotto Eastmed, faraonico progetto che Ankara cerca di bloccare grazie all’accordo marittimo con la Libia. Le trivellazioni offshore hanno rappresentato un punto di svolta per l’Egitto. Il paese è passato nel giro di pochi anni da importatore a esportatore netto di gas naturale dopo la scoperta nel 2015 del blocco Zohr, gestito dall’Eni. Quest’estate Macron si è molto impegnato nella battaglia contro le ambizioni turche nel Mediterraneo orientale, anche con il dispiegamento della marina francese. E il governo di Parigi chiede sanzioni contro Ankara nel consiglio europeo questa settimana. La lotta al terrorismo, priorità assoluta per la diplomazia francese, è sempre stata al centro della relazione con l’Egitto. Il presidente egiziano si è pone come l’unico in grado di arginare i Fratelli musulmani e l’Islam politico contro cui Macron è ancora di più impegnato dopo gli ultimi attentati. Mercoledì il governo francese presenterà la legge contro il “separatismo” contestata dal presidente turco Erdogan. Macron cerca una sponda in Al Sisi per parlare al mondo musulmano dopo le proteste anti-francesi in diversi paesi arabi. “Anche il presidente egiziano combatte l’islamismo”, notano all’Eliseo. Il ministro degli Esteri Le Drian è andato al Cairo all’inizio di novembre e Macron ha rilasciato un’intervista su Al Jazeera per chiedere di rispettare il modello francese di laicità. Saahrawi. La mancata decolonizzazione spinge il Fronte Polisario a riprendere le armi di Rossella Urru Il Manifesto, 7 dicembre 2020 Dopo 45 anni di occupazione e 30 di promesse, il grido di disperazione di un popolo. Una settimana fa un filo in tensione sospeso da quasi 30 anni si è infine spezzato. Il cessate il fuoco firmato nel 1991 sotto l’egida delle Nazioni unite dal Fronte Polisario e dal Regno del Marocco, che metteva in pausa un conflitto esploso nel 1975, è saltato. Lo scorso 13 novembre 2020, l’esercito marocchino si apprestava a sgomberare militarmente dei civili saahrawi che bloccavano in protesta il passo di Guerguerat, illegalmente aperto sulla zona demilitarizzata alla frontiera fra Sahara e Mauritania: l’ennesima violazione dell’accordo di cessate il fuoco da parte del Marocco che ne ha provocato il ripudio da parte del Fronte Polisario. Il conflitto in questione è purtroppo una storia che rimuove troppi scheletri, vecchi e nuovi, che la comunità internazionale preferirebbe continuare a ignorare. Come una vecchia brutta storia di famiglia della quale preferiamo non parlare, che vorremmo dimenticare, che lasciamo marcire ma con cui sappiamo che dovremmo fare i conti, prima o poi: noi o i nostri figli. Sarà per questo l’assordante silenzio mediatico su questa importante questione di là dal mare. Parliamone, invece. Iniziamo dal principio, cosa non scontata nel nostro mondo tutto in live. Il conflitto in questione è figlio del colonialismo, quell’epoca che ci sembra così lontana in cui la sopraffazione di un popolo sull’altro era legalizzata e istituzionalizzata. Le Nazioni Unite e l’ordinamento legale internazionale attuale, nate nell’immediato secondo dopoguerra, sono state fondate sul rifiuto categorico e sul diritto inviolabile dell’autodeterminazione dei popoli che l’hanno subito. Il diritto di un popolo di esistere e fare quel che non ha potuto fare per buona parte dell’epoca contemporanea a causa del giogo coloniale: decidere per sè e il proprio destino. Nel 1945 un terzo della popolazione mondiale viveva sotto qualche forma di colonialismo. Fino ad oggi, 80 ex-colonie hanno potuto decidere il proprio futuro, nella maggioranza dei casi diventando Stati indipendenti. Tra di loro il Marocco, resosi indipendente dalla Francia, e poi dalla Spagna, nel 1956. Purtroppo, al giorno d’oggi, sempre secondo il Comitato Speciale per la Decolonizzazione delle Nazioni Unite, 17 ex-colonie attendono ancora che suoni per loro la campana della storia. Tra di loro, la più grande per estensione è il Sahara Occidentale, ex-colonia della Spagna franchista. Seguendo schemi tipici del processo di decolonizzazione, il popolo autoctono, i Saahrawi appunto, rimane in lista come titolare del diritto all’autodeterminazione di un territorio che mantiene invariate le frontiere coloniali, e che si esprime attraverso il proprio Movimento di Liberazione Nazionale (in questo caso il Fronte Polisario), riconosciuto come suo legittimo rappresentante dalle Nazioni Unite. Il momento per l’autodeterminazione atteso sin dal 1975 non è però ancora arrivato. Quella che si è susseguita è stata una storia di attese, rinvii, intervalli e stalli. Tanta pazienza, tanta fiducia nel sistema internazionale, stringere i denti e immaginare il futuro con ottimismo, nonostante tutto. Senza andare troppo in dettaglio ripassando fatti oltremodo noti e ripresi negli ultimi giorni da giornalisti e analisti competenti, negli ultimi 45 anni, il popolo sahrawi ha dovuto affrontare una panoplia di catastrofi: l’abbandono unilaterale da parte della Spagna negli ultimi anni del franchismo e la cessione vergognosa di un territorio che non le apparteneva agli Stati vicini di Marocco e Mauritania che, immemori del proprio passato coloniale, si lanciavano in una guerra di conquista. Una guerra lunga e devastante che ha lasciato ferite ancora aperte e sanguinanti, che ha costretto la maggior parte della popolazione autoctona all’esilio forzato nel deserto limitrofo, che si è consumata nell’indifferenza colpevole della nuova Spagna democratica vogliosa di progresso. Una guerra che si è conclusa nel 1979 con la Mauritania, e che è stata messa fra parentesi col Marocco nel 1991, con un cessate il fuoco firmato con la promessa che il processo di decolonizzazione a cui il popolo sahrawi ha internazionalmente diritto si sarebbe concluso a breve, attraverso un referendum nel quale gli aventi diritto avrebbero deciso se optare per l’indipendenza oppure accettare l’integrazione con il Marocco a cui gran parte del suo territorio è stato sottoposto con la forza. A sigillo, una Missione Onu per il Referendum nel Sahara Occidentale (Minurso) nacque in quello stesso anno per velare sul cessate il fuoco e, tautologicamente, organizzare il referendum. In attesa di questo momento storico mancato, il tempo però non si è fatto mettere fra parentesi. Sono ormai tre generazioni intere di saaharawi ad aver pazientemente atteso, sparse fra luoghi diversi in cui le circostanze li hanno costretti ormai 45 anni fa. C’è una minoranza che ancora vive nel Sahara Occidentale, sotto il controllo tutt’altro che benevolo del Marocco occupante che considera i Sahrawi autoctoni come pericolosi indipendentisti, reprimendoli a suon di violazioni dei diritti umani testimoniate sistematicamente anche da organismi indipendenti come Amnesty International, Human Rights Watch e il Centro Robert Kennedy per citare i più noti. Un’occupazione illegale iniziata con la Marcia Verde nel 1975 da un Marocco che, laboriosamente, fin dal primo giorno, ha fisicamente colonizzato gli spazi, favorendo gli insediamenti della propria popolazione, costruendo, cambiando i paesaggi, disponendo delle risorse naturali come fossero sue. Questo fino a tutt’oggi, ma sempre meno impunemente, come dimostra qualche timida sentenza della Corte di Giustizia Europea. Un’occupazione colpevole e tutt’altro che pacifica di oltre tre quarti del territorio originario del Sahara Occidentale, trincerata dietro il più lungo muro di guerra esistente, 2.700 km, e decorata da un’infinità di mine che rendono questo territorio uno dei più contaminati e pericolosi al mondo. Il magro quarto rimanente del Sahara storico, sotto controllo del Fronte Polisario (i cosiddetti Territori Liberati), è una striscia di sabbia, poco popolata, e usata per lo più a fini di controllo militare del cessate il fuoco. E poi c’è la maggioranza dei Sahrawi, costretta dalle vicende del 1975 all’esilio: chi vive nei campi rifugiati di Tindouf, nel sudovest dell’Algeria, e tanti altri sparsi per il resto del mondo. Tutti sospesi a un filo, tutti in attesa di tornare a casa. Una casa che spesso non hanno mai visto ma che conoscono e a cui appartengono, una radice intessuta da racconti, poesie, dialetti, piatti tradizionali, nomi e cognomi. Tanto vividi sono i ricordi, le descrizioni, lo sforzo di non dimenticare, che i campi rifugiati stessi riproducono lo spazio anelato del Sahara Occidentale: le tendopoli prendono così i nomi delle città, dei paesi, delle oasi, da cui sono dovuti fuggire. Una geografia dei ricordi, uno stare altrove testardo che non dimentica e non vuole dimenticare da dove è venuto e dove vuole tornare. Perché i campi, così come l’esilio altrove, sono vissute come situazioni temporanee, sono parentesi che prima o poi verranno chiuse. Sono parentesi però in cui si nasce, si vive, si invecchia e si muore. Vivendo nei campi rifugiati per qualche anno, ho potuto toccare con mano che cosa significhi questa vita in sospeso, in cui ogni cosa è fatta per richiedere pazienza, ogni cosa ricorda questa dipendenza forzata. L’aiuto umanitario prolungato per decenni diventa in sè un monito insopportabile, seppur indispensabile. Le derrate alimentari contingentate, poco adatte ad accompagnare una vita intera e che mal si prestano alla preparazione dei piatti tanto amati. Le tende, le taniche d’acqua, le cucine a gas, i kit igienici, le medicine, il minimo per la sussistenza come se la crisi fosse scoppiata ieri, un anno dopo l’altro. I rifugiati e l’aiuto umanitario lasciati soli a rattoppare ferite storiche. Non voglio però trasmettere l’immagine monolitica di centinaia di migliaia di persone sedute al sole in attesa che la legalità internazionale faccia il suo corso. Sarebbe quanto di più lontano dalla verità. Le diverse realtà in cui i Saahrawi si sono trovati ad attendere, in esilio così come nella propria terra, non si sono lasciate trasportare dal tempo, si sono mobilitate per mantenere vivo il loro desiderio e diritto a esistere come popolo indipendente, così come ogni singolo individuo ha riflettuto, digerito e scelto la propria identità. Infatti, in tutto questo, non va dimenticata la realtà storica e l’entità politica della Repubblica Araba Sahrawi Democratica, stato arabo, africano e laico, proclamato nel 1976, riconosciuto da 80 Stati fino agli Novanta e membro dell’Unità Africana. In un esercizio di immaginazione e volontà politica, questo stato in esilio, che amministra i campi rifugiati, ha creato un’amministrazione pubblica con le proprie scuole e ospedali. In questa dimensione di Stato, ha intessuto relazioni internazionali e rivestito un ruolo rilevante all’interno del movimento dei paesi non allineati, con importanti programmi di formazione per i propri giovani che hanno potuto beneficiare di studi superiori a Cuba, in Algeria, in Spagna, nell’ex Jugoslavia e nell’ex blocco sovietico, diventando uno dei popoli più istruiti di tutta l’Africa. A livello individuale, tale mosaico di esperienze e incontri diversi, ha forgiato una società intellettualmente ricca e variegata, difficilmente incasellabile in un quadro unico. Donne e uomini che hanno ritessuto le loro identità rendendo l’esilio, il rifugio, l’occupazione, fonte di resilienza e talvolta di ispirazione. Donne e uomini che, consapevolmente e con mille accezioni diverse, si definiscono saahrawi e si sentono accomunati da un progetto politico che reclama il diritto a richiedere il referendum tanto atteso per poter intraprendere finalmente una vita come società. Parafrasando quel che mi disse una ragazza nei campi, la vita non ha lo stesso sapore sapendo di essere, noi e i nostri figli, costretti a vivere in condizioni estreme in mezzo a un deserto ingrato, dipendenti dall’aiuto esterno per sopravvivere, mentre qualcun altro pesca nel mare che fu dei nostri padri. Ma l’amarezza di sapere che la legalità internazionale riconosce al popolo sahrawi dei diritti che continuano a essergli negati non si trasforma in rassegnazione, bensì rafforza quel tratto identitario. Nonostante la paziente attesa, già dieci anni fa, era evidente che le nuove generazioni non avrebbero aspettato sotto il sole rovente che la comunità internazionale condannasse con la sua inerzia a far crescere anche i loro figli e nipoti sotto le stesse tende logore. Un sentimento di disincanto e di voglia di rivalsa iniziava già a essere palpabile, soprattutto fra i più giovani. Qualche settimana fa, quel filo di pazienza lungo tre generazioni si è spezzato. Si è spezzato per padri e madri, figli e figlie, nipoti. In un grido di disperazione, dopo quasi trent’anni di linea pacifica e mediazione che sono stati ripagati con indifferenza e rimandi, il Fronte Polisario ha ripreso la via delle armi per riprendere il controllo del proprio territorio. Qualcosa che si poteva, si doveva e si deve evitare. Le Nazioni Unite hanno mancato un altro appuntamento con la Storia: la loro Missione per il Referendum nel Sahara Occidentale si aggira come un personaggio in cerca di autore davanti a un muro di sabbia che testimonia l’eruzione dell’ultimo conflitto coloniale d’Africa. Legittimare la visione per cui la comunità internazionale ascolta solo un discorso fatto di bombe e morti, mentre ignora chi per anni ha rivendicato pacificamente e negoziato in buona fede, non è solo deleterio e anacronistico, ma nutre il discorso e le fila di estremisti, al di qua e al di là del Mediterraneo. Liquidare tutta questa questione coloniale con un’etichetta di presunto terrorismo, come il Marocco e i suoi sostenitori spesso fanno, è un irresponsabile insulto alla Storia, che mal cela un ostruzionismo illegittimo al referendum accordato nel 1991, riflesso piuttosto di una politica dei fatti compiuti. Purtroppo, oggigiorno l’etichetta terrorista sembra essere il passe-partout per chiudere a chiave qualsiasi questione spinosa dietro un muro di paure e tabù. Il terrorismo è un fenomeno estremamente complesso, fra l’individuale e il collettivo, che si nutre dei cocci della nostra modernità in frantumi trasformandoli in schemi semplici quanto posticci. Chi stigmatizza come terrorista tutto un popolo, una religione, un movimento o una causa, spalanca le porte alla sua crescita, continua a gettare benzina sul fuoco e fumo in faccia all’opinione pubblica. È questo il momento di fare prova di un esercizio intellettuale e morale che sia all’altezza del momento storico. Facciamo le nostre scelte di campo come individui membri della società civile e come Stati membri della comunità internazionale. Dal punto di vista della legalità internazionale, la situazione non si presta a interpretazioni: siamo davanti all’ultima decolonizzazione d’Africa da terminare per poter chiudere un capitolo della storia mondiale vergognoso e con cui ancora facciamo i conti. Siamo davanti all’occupazione di una terra su cui il Regno del Marocco non ha alcun titolo, se non la forza di 45 anni di politica di fatti compiuti. Sul versante politico, molte altre considerazioni possono e sono entrate in gioco: giochi di forza fra le potenze regionali di Algeria e Marocco, la françafrique, gli equilibri precari fra Europa e Nordafrica, che usano la guerra al terrorismo e migrazione quali monete di scambio, come vediamo anche in questi giorni fra Spagna e Marocco. Presi fra diritto e politica, la domanda rimane, in ogni caso, semplice: l’Italia, l’Europa, la comunità internazionale con l’Onu in testa, appoggeranno la legalità internazionale, seguiranno calcoli politici di altro tipo, o semplicemente guarderanno altrove? In questo e in altri teatri recenti, tristemente, la risposta non è stata la prima. Con conseguenze a dir poco nefaste. Ci sono diversi Stati non europei e alcuni partiti europei che hanno recentemente manifestato il loro appoggio per una soluzione giusta di questo annoso caso di decolonizzazione fallita, che passi per un referendum, non per le armi. Posizione sostenuta anche da una parte sempre crescente di opinione pubblica in Italia, in Europa e in molti altri stati in tutti i continenti. Anche nello stesso Marocco esistono partiti politici, come la Voie Démocratique, che appoggiano la legalità internazionale e che chiedono la celebrazione del referendum, pur non appoggiando il Fronte Polisario. La posta in gioco è chiara. Se non vogliamo ritornare ad un ordinamento internazionale dove la violenza e l’uso della forza dettano legge, dove la politica dei fatti compiuti la fa da sovrana, dove tutto è negoziabile e la certezza del diritto non esiste se non per chi ha i mezzi di farlo valere, dovremmo difendere il sistema internazionale che abbiamo con sommo sforzo eretto dopo due guerre mondiali e la fine del colonialismo. Dovremmo esigere che la legalità internazionale stabilisca con i processi che le sono propri e che sono stati applicati in altri 80 casi di popoli ex-coloniali, portando lo stesso Marocco a diventare indipendente e sedere all’Onu, il futuro di una terra troppo lungamente disputata, fermando così una guerra che non può essere e non sarà indolore, ma soprattutto mandando un messaggio forte di rifiuto dell’uso della forza come metodo di risoluzione delle dispute e di acquisizione territoriale. Oppure stiamo a guardare esplodere l’ennesimo focolaio di instabilità alle porte d’Europa, sicuri nelle nostre tiepide case, accerchiati dal caos e dalla violenza, finché il fuoco della disperazione non lambirà il nostro giardino.