Carcere, non bastano i numeri. Per farsi un’idea serve vedere con i propri occhi di Alex Corlazzoli* Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2020 Vorrei intervenire anch’io sul dibattito aperto in questi giorni dal direttore Marco Travaglio sul nostro giornale, che ha il pregio di ospitare pareri diversi creando un confronto che può solo far bene alla società. Mi permetto di dire la mia avendo operato per dieci anni come volontario nei penitenziari di Cremona e di Lodi ma non solo. Nel 2009 ho visitato tutte le carceri della Lombardia e ho avuto modo di conoscere da vicino diverse realtà. Abbi pazienza, caro Marco, ma vorrei farti una domanda che spero non suoni come provocatoria: quando sei entrato in carcere l’ultima volta? Son convinto che per parlare di carcere non basti conoscere i numeri pubblicati sul sito del ministero della Giustizia ma sia utile aver trascorso qualche giornata accanto ai detenuti, vedendo dove dormono, dove cucinano, dove si lavano, dove pisciano, dove incontrano i loro famigliari. La sofferenza di queste persone va toccata con mano altrimenti non si può comprendere fino in fondo. Fatta questa premessa, a mio avviso preliminare a qualsiasi altro discorso, vorrei partire da un dato che finora non ho letto negli articoli pubblicati. Qual è il tasso di recidività in Italia? Il 70% dei carcerati, una volta scontata la pena, torna a delinquere. Cosa non funziona visto che lo scopo della pena è proprio quello di riabilitare? So già che mi dirai che quanto alla recidiva, dipende dal fatto che c’è gente delinquente di professione, che non vuole far altro che delinquere anziché lavorare. So che sei convinto che in galera è pieno di professionisti del crimine. E allora vediamo i dati 2019 del Dap sui reati per capire chi sta in galera: 34.050 detenuti hanno compiuto reati contro il patrimonio; 25.082 sono quelli che hanno fatto un reato contro la persona; 21.213 sono dentro per stupefacenti. Per associazione di stampo mafioso sono solo 7.481. Faccio fatica a pensare che un tossico che spaccia sia un professionista del crimine. Conosco drogati che vendono la “roba” che hanno alle spalle vite infernali sulla strada e arrivano ad assumere e spacciare per sopravvivere. Non so se la galera è il posto giusto per loro. In ogni caso condivido con te un pensiero: non possiamo abolire il carcere. In ogni società è presente e serve un luogo di reclusione per chi compie un reato. Serve, tuttavia, dire che le carceri italiane dovrebbero essere tutte Bollate o Volterra. E invece in 45 istituti visitati dall’associazione “Antigone”, in circa la metà, c’erano celle senza acqua calda per lavarsi e in 52, ben più del 50%, c’erano celle senza doccia, cosa che costringe i detenuti ad usare docce comuni. In 8 istituti tra quelli visitati c’erano celle in cui il wc stava a vista nella cella, anziché in un ambiente separato. Possiamo far vivere e rieducare la gente in queste situazioni? In attesa di nuove carceri come tu auspichi, non possiamo lasciarli in queste condizioni ma dove è possibile usare sempre più percorsi alternativi (Comunità, case famiglia, etc.). Il modello “pedagogico” attuato finora, visto che si parla di rieducazione del detenuto, non sta in piedi altrimenti non avremmo tutti questi recidivi e tutti questi suicidi. Nel 2019, infatti, sono stati 53 in totale i suicidi negli istituti penitenziari italiani (dato confermato sia dalla fonte del Dap che da Ristretti Orizzonti) a fronte di una presenza media di 60.610 detenuti ovvero un tasso di 8,7 su 10.000 detenuti mediamente presenti. Un altro dato da prendere in considerazione: quanto costa un detenuto? Tenendo conto del numero dei ristretti a fine febbraio, il costo giornaliero per detenuto è di 134,50 euro. Quanto ci costerebbe in una comunità o in una casa famiglia? Infine un numero che mi urta e che spero infastidisca anche te. Le detenute con prole presenti nel circuito penitenziario in Italia sono 34 al 30 aprile 2020 (40 i figli a carico), ma erano 54 (con 59 figli a carico) appena due mesi prima, il 29 febbraio. Vogliamo parlarne? È civile un Paese che trattiene dei bambini in cella? La presenza di minori nelle strutture detentive costituisce un gravissimo paradosso del nostro sistema, che ne compromette la salute psico-fisica in un’età centrale per il loro sviluppo, per di più l’attuale emergenza sanitaria li espone ad ulteriori rischi per la salute. È quindi indispensabile individuare misure volte a consentire la collocazione dei genitori detenuti assieme ai loro bambini al di fuori degli istituti penitenziari, anche quelli a custodia attenuata. Nei giorni scorsi è stato depositato un emendamento alla Legge di Bilancio, promosso da Cittadinanzattiva e Terre des Hommes, per il sostegno all’accoglienza al di fuori del circuito penitenziario di detenute madri con bambini al seguito. Speriamo possa andare in porto. Un dato positivo comunque va detto: a fine 2008 tra detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali e semilibertà erano coinvolte 7.530 persone; 10 anni dopo, a fine 2018, erano diventate 28.031: quasi il quadruplo. Il 15 aprile 2020 erano 30.416. Questo ci dimostra che la strada da seguire è fatta da un percorso di rieducazione e di pena che sia dignitoso e rispettoso dei diritti della persona, anche se si trova in un carcere. Buttare la chiave, non serve a nulla. *Maestro e giornalista 41bis, io con Woodcock di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2020 Due episodi mi inducono alla riflessione su un tipo estremo di reato detto “mafia” e sulla punizione imposta e automaticamente eseguita dallo Stato italiano. Il primo episodio è la definizione di “Roma mafiosa”, dopo certi arresti e reati, creando uno stato di emergenza morale ma anche giudiziario (il riferimento alla mafia cambia immediatamente il tipo di carcerazione). Ma dopo poco tempo è seguita, insieme con la conferma di tutti i reati contestati e delle ragioni di arresto, la cancellazione dal fascicolo della parola “mafia”. La città di Roma, luogo dei reati, e i suoi autori restavano colpevoli di tutto, ma uscivano da un pesantissimo tipo di carcerazione (il “41bis”) ed entravano in uno stato di detenzione “normale” cui poi seguiva una serie di liberazioni condizionali. Con la memoria di questa vicenda, ho letto l’articolo del magistrato Henry John Woodcock sul Fatto del 6 novembre: “Troppi al 41bis. È ancora una misura eccezionale?”. L’argomento è scottante e quasi intrattabile. Da una parte si schiera un Paese democratico e costituzionale che però esige pene adeguate agli orrendi delitti di mafia. Dall’altra, accampati su uno scoglio da cui si sente poco la voce, alcuni giuristi e politici che si interessano ancora di diritti civili: il partito radicale, piccoli gruppi di intellettuali e scrittori che continuano a vedere come una grave anomalia una pena speciale che non è in proporzione al reato ma è fondata sulla persuasione di efficacia punitiva contro tutta l’organizzazione mafiosa. Ma il 6 novembre abbiamo trovato sul Fatto l’intervento solitario e sorprendente di un magistrato tra i più laboriosi nella caccia alla criminalità organizzata. Si domanda se trovi posto nel nostro ordinamento giuridico l’idea di colpirne ogni volta uno, con il durissimo 41bis, per colpire tutti (l’interpretazione è mia, ma spero sia corretta). All’intervento del magistrato, il direttore Marco Travaglio ha fatto seguire una nota in cui prevede un dibattito e mette a disposizione il giornale. Woodcock percorre una strada che non è la disputa sulla gravità della pena (isolamento assoluto e per sempre), che viene inflitta con automatismo amministrativo non appena l’accusa è di mafia, e non riguarda quel particolare imputato, male vicende tragiche della guerra Stato-mafia. Dunque aggiungere il trattamento previsto dal 41bis a un imputato di mafia non è proporzionale al reato, ma risponde a una grave emergenza del Paese. Woodcock deve scegliere fra contrapposizione legge-persona, da un lato, e quella tra difesa dello Stato e lotta allo Stato del grande crimine organizzato, dall’altro. Sceglie la persona. Osserva che oggi nelle carceri italiane ci sono 600 detenuti soggetti al regime del 41bis, dunque non solo all’isolamento assoluto e perenne, ma anche a tutti i caratteri, difficilmente costituzionali, del carcere duro non legato al crimine ma al tipo di crimine. Woodcock evita la pietà per la persona colpita dal 41bis e si occupa della contrapposizione frale due organizzazioni, Stato e mafia. Dice che, se così tanti sono soggetti al 41bis e alla sua durezza, allora si tratta di una forma diffusa e, paradossalmente normale, di carcerazione che perde il suo carattere di eccezione e diventa semplicemente “il carcere”, sia pure in una versione estrema. Woodcock non vuole lasciarsi coinvolgere da questioni morali come quelle proposte da chi vuole interessarsi del destino di certe persone che, allo scatto della sentenza e all’inizio della vita in cella (il tutto accertato e deciso dai giudici), vedono aggiungersi una gravissima pena automatica che non riguarda il loro processo, ma intende colpire l’organizzazione anti-Stato detta “mafia”. Il pm vede un pericolo in più. Dice: con un numero così alto di detenuti raggiunti dalle due pene sovrapposte, quella del Codice e quella di mafia, si va verso una forma diffusa di detenzione durissima immutabile, ma anche accettata come normale, un rimedio ovvio e dovuto a un male grave che riguarda noi tutti. Il pm Woodcock non chiude la sua riflessione, la propone. Penso che intenda anche dire (ma non lo dice) questo: la pena durissima del 41bis non ha intaccato in nulla il tremendo fenomeno della mafia, ma tranquillizza coloro che la combattono. Però è un percorso che trasforma la figura del detenuto. È stato deciso che il condannato per mafia debba pagare di persona, da solo, ogni giorno, per sempre, il prezzo di tutto il crimine organizzato. Non c’è un vuoto pericoloso di diritto? A Rebibbia il Covid ha chiuso in cella la speranza di riscatto di Rachele Gonnelli Il Domani, 6 dicembre 2020 Le visite ai familiari sono bloccate da marzo, i contatti con il mondo esterno sono inesistenti e, soprattutto, sono state interrotte le attività che permettevano ai detenuti di ricostruirsi una vita. Ma la politica non fa niente. Plumbea. È la situazione dentro le alte mura di Rebibbia, carcere romano tra i più grandi d’Italia, quasi 1.800 ospiti. Plumbea perché, come dice il professor Edoardo Albinati che, oltre a scrivere romanzi da Premio Strega, da 26 anni insegna italiano dentro quelle mura, “lo scoramento e l’appiattimento emotivo che viviamo tutti in questo periodo lì è moltiplicato dal fattore carcere”. “Quasi ogni contatto con l’esterno è inibito da quando è scoppiato il Covid, l’atmosfera è tetra, la peggiore che io abbia mai respirato lì dentro”, ricostruisce l’autore di “La scuola cattolica”. La tensione sale. Il 17 novembre, alla notizia di due nuovi contagi, gli agenti della polizia penitenziaria hanno avuto il loro daffare per far tornare tutti in cella dopo l’ora d’aria. Poi il frastuono della più classica delle manifestazioni di protesta, il luogo comune cinematografico delle “battiture”, come si chiama in gergo il malcontento espresso sbattendo in modo ritmato oggetti di ferro contro le sbarre. Infine una semi devastazione della biblioteca interna del nuovo complesso. Le visite dei familiari sono bloccate da marzo. Pochissimi pacchi penetrano le maglie strette dei controlli anti contagio. Non entrano più neanche gli educatori e gli insegnanti, le scuole sono chiuse. I volontari che gestiscono da anni progetti culturali e di formazione-lavoro restano fuori. La socialità è ridotta ai minimi termini, solo cella e televisione per la paura di essere infettati da guardie e sanitari. Ecco alcuni detenuti chini sui tavoli sparsi nella cosiddetta “area verde”, che di verde non ha neppure un filo d’erba, un piazzale grigio come tutto il resto. Si danno il cambio ai telefonini forniti dalla direzione per scambiare poche parole con le famiglie. Venti minuti a settimana, questa è la dose. Niente visite, niente classi della scuola media inferiore e superiore, riaperte a fine settembre e subito richiuse il 18 novembre. Anche le abituali lezioni offerte dalle tre università romane sono state interrotte dall’oggi al domani su sollecitazione dell’autorità sanitaria. La didattica a distanza, che pure era stata predisposta, non parte perché la direzione non ha autorizzato la connessione a internet, come invece hanno trovato il modo di fare nei penitenziari di Padova e Catanzaro. Solo qualche giovane volontario della associazione Antigone passa ogni tanto, mentre la segretaria nazionale Susanna Marietti, che qui sarebbe di casa, ammette di aver paura di contagiarsi varcando i cancelli. È il mondo separato di Rebibbia: quattro complessi, dirigenza al femminile, compresa la responsabile degli agenti di custodia della sezione maschile. Scrutando dallo spioncino dei racconti, le vite dentro Rebibbia, non un penitenziario modello ma neanche uno dei più sovraffollati, si capisce meglio che cos’è per i 54mila ospiti delle 192 prigioni italiane questo Natale speciale - di solitudini, angosce e limitazioni agli spostamenti per tutti. Il giro di vite è arrivato proprio mentre partiva lo sciopero della fame a staffetta lanciato dalla presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini per denunciare le sempre più difficili condizioni di vita in carcere. Dal 10 novembre si sono uniti alla leader radicale 699 detenuti dislocati da Sulmona ad Avellino. A Roma la protesta non violenta non ha attecchito dentro le celle mentre fuori hanno aderito anche alcuni intellettuali come Luigi Manconi, Roberto Saviano e Sandro Veronesi. A Rebibbia non ci sono stati focolai come invece in penitenziari fortemente sovraffollati quali Tolmezzo, Milano-Opera, Poggioreale e Secondigliano a Napoli. Ed era stata meno violenta che altrove la partecipazione alla rivolta penitenziaria di marzo contro le restrizioni alle visite del primo lockdown: solo 9 arresti. La situazione dal punto di vista della pandemia non desta allarme, almeno per il momento. Tra i 1.454 reclusi censiti nella casa circondariale principale di Rebibbia a fine settembre, finora sono stati trovati solo 5 positivi, tutti asintomatici, subito isolati dagli altri, oltre a un sintomatico lieve mandato ai domiciliaci. Nell’edificio separato del carcere femminile tra le 304 detenute quelle positive al Covid sono 17, quasi tutte asintomatiche. Due i positivi nella Terza Casa, la casa circondariale più piccola dedicata alla custodia attenuata, dove chi è in semilibertà torna a dormire al termine del permesso lavorativo esterno. Qual è il modo più efficace di interrompere la catena dei contagi? Secondo il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, “la misura più importante tra quelle proposte con lo sciopero della fame è la sospensione degli ordini di esecuzione”, che fermerebbe l’ingresso in carcere dei cosiddetti “nuovi giunti”, coloro che devono consegnarsi per scontare un residuo di pena. In caso di condanne lievi - fino a due o tre anni - il provvedimento di custodia in carcere slitterebbe fino alla fine della pandemia. A Rebibbia tre “nuovi giunti” risultati positivi al Covid sono stati rispediti a casa in isolamento precauzionale almeno per quattordici giorni. Il giudice di sorveglianza del carcere femminile, Marco Patarnello, è d’accordo. Lo slittamento a fine pandemia sarebbe un modo per evitare il rischio che qualche asintomatico possa sfuggire alla procedura di quarantena iniziale. E liberare spazi che potrebbero rendersi improvvisamente necessari nell’eventualità di un focolaio. Ma serve una legge. “In effetti sarebbe utile sospendere i nuovi ingressi per qualche mese”, spiega Patarnello, “un provvedimento simile è stato già preso in passato per decongestionare le carceri. Ma questo differimento o moratoria dei titoli d’ingresso, naturalmente con un filtro ragionevole sulla consistenza e gravità della pena, può essere attuato solo attraverso una nuova iniziativa legislativa”. “Il Covid dentro le carceri - conferma Palma - preoccupa più in potenza che in atto, e quindi è più preoccupante per gli spazi mancanti in caso si verificassero cluster, piuttosto che dal punto di vista medico nella situazione attuale”. Il garante delle carceri ripete da giorni che il rischio maggiore per la vivibilità e il clima interno è che si nutrano false speranze di indulto e amnistia, per i quali non c’è nessuna possibilità politica. “Già sarebbe un notevole passo in avanti prolungare fino a fine emergenza i permessi premio e i provvedimenti di semi libertà. O consentire, come chiedono gli scioperanti della fame, la liberazione anticipata aumentando lo sconto pena per buona condotta dagli attuali 45 giorni a 75 giorni ogni sei mesi di carcerazione. Sarebbe un provvedimento limitato però si deve considerare che, esaminando la popolazione detenuta, la maggior parte non desta un vero allarme sociale”. Rebibbia conferma che il carcere, al pari del Covid, non livella ma anzi moltiplica le diseguaglianze socio-culturali. Dei 54mila carcerati italiani, oltre un quarto, circa 15mila, sono quelli che secondo Palma sono soggetti a una sorta di detenzione sociale, persone con problematiche che non dovrebbe gestire il carcere. Persone arrestate per reati minori, per lo più legati alla tossicodipendenza, stranieri che non parlano bene l’italiano e non sanno come muoversi all’interno del sistema giudiziario e scrivere lettere al giudice di sorveglianza per avere benefici di legge, senza soldi e contatti per assicurarsi un ottimo avvocato. A Rebibbia femminile un terzo delle recluse sono straniere. Raramente la detenzione obbedisce all’articolo 27 della Costituzione (“Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”). Ma con il Covid le opportunità di riscatto sono precluse, visto che vengono solo dal lavoro del volontariato e degli educatori come Albinati. Emblematico a Rebibbia il caso di Luigi Preiti, ex muratore disoccupato di Rosarno (Rc) che una domenica di fine aprile del 2013 arriva a Roma per attentare alla vita di, Enrico Letta, appena nominato capo del governo. I suoi spari in piazza Montecitorio colpiscono due carabinieri, uno dei quali in modo grave. Condannato a 16 anni, sconta la pena a Rebibbia dove incontra Giorgio Poidomani, manager di grandi aziende quotate in Borsa, poi amministratore delegato di quotidiani come l’Unità e il Fatto Quotidiano. “Ci sono storie bellissime dentro il carcere e questa è una delle più gratificanti per me”, racconta Poidomani che a 86 anni, gestisce da volontario una redazione di detenuti che, fino a marzo scorso produceva il programma radiofonico settimanale “Radio Rebibbia”, ospitato nel palinsesto “Jail House Rock” da vari network indipendenti. Poidomani, che ha partecipato allo sciopero della fame, selezionava anche libri-testimonianza scritti dai detenuti. Preiti ne ha scritto uno e nel frattempo si è diplomato e iscritto all’università. Ora, al termine di un percorso di autoanalisi e di riscatto culturale, attende la libertà condizionale. “Certo, non è da tutti ammettere di aver sbagliato e reimpostare la propria vita, la maggior parte dei detenuti è apatica e incattivita”, ammette Poidomani, “ma è gratificante dare una mano, adesso mi manca molto il rapporto coni detenuti”. Per Poidomani, se la percentuale di chi riesce a salvarsi è così bassa, è soprattutto “colpa del giustizialismo diffuso e della codardia della politica che accontenta chi chiede solo di buttare via la chiave senza avere la forza e il coraggio di provvedimenti liberali come depenalizzare reati sciocchi”. A Rebibbia le strade del riscatto sono chiuse dalla pandemia. Ma il carcere non è mai sigillato, come dimostra la sconfessione di chi credeva che sarebbe rimasto un luogo Covid free. E restituisce alla società, prima o poi, tutte le infezioni che dietro quella porta non si vogliono vedere. “Portare l’Università in carcere si può, ecco come”, parla il sociologo Matteo De Luca di Viviana Lanza Il Riformista, 6 dicembre 2020 Quanti tabù ci sono ancora in materia di carcere? Tanti, basti pensare che anche in un ambiente illuminato e intellettuale come quello delle università c’è ancora chi storce il naso al solo pensiero. “Insegni in carcere? Ma chi te lo fa fare”. Se l’è sentito dire anche il professor Giacomo Di Gennaro, docente di Sociologia all’università Federico II di Napoli e componente del Gruppo Terza Missione del Coordinamento nazionale dei poli penitenziari universitari. “Creare più condizioni nelle carceri affinché sempre più detenuti decidano di iscriversi e studiare è per noi la nuova sfida - spiega - È necessario che altre istituzioni e altre università si facciano carico di questa esperienza che non può essere imposta ma è qui che si gioca la differenza tra chi condivide un percorso, un significato, relativamente alla funzione della pena e all’esperienza di studio e chi non lo condivide. Anche fra di noi - dice a proposito del mondo accademico - ci sono persone che vedono quest’attività con un occhio non favorevole. Il problema è culturale, questo non ce lo dobbiamo nascondere così come non bisogna far finta che il mondo universitario sia sempre accogliente, aperto, solidale. Ma, lo ripeto, questa è la nuova sfida”. Un lavoro che richiede impegni e sforzi organizzativi per superare ostacoli strutturali e culturali. C’è, infatti, da superare la diffidenza di molti e c’è il problema dell’edilizia carceraria e quindi degli spazi, quelli dedicati allo studio mancano o sono troppo limitati. “Eppure portare lo studio nelle carceri altro che deterrenza, è un fattore che qualifica molto più di tante esperienze frantumate, che pure bisogna fare ma spesso non hanno la stessa incidenza sulla persona”, afferma Di Gennaro. “Io ne sono convinto - aggiunge - ma vedo che tra i responsabili degli istituti penitenziari c’è chi condivide e c’è chi non ci crede e parte da premesse molto più negative”. Attualmente sono 75 su 190, in Italia, gli istituti penitenziari dove sono attivi i poli penitenziari universitari e a livello nazionale si registra il più alto numeri di studenti iscritti a fronte, però, del più basso numero di laureati. Fra i detenuti della Campania si contano 106 iscritti ai corsi universitari attivati grazie al polo universitario penitenziario. Negli ultimi tre anni, da quando l’università di Napoli è entrata in carcere, gli iscritti sono aumentati da 77 a 106. Ci sono fra gli studenti anche detenuti reclusi al 41bis, il famigerato carcere duro. Ci sono anche 390 detenuti analfabeti, dato che spinge l’università a valutare una sinergia con il provveditorato degli studi per estendere ancor di più il diritto allo studio all’interno delle celle. “Se di tutto ciò avessimo parlato quattro o cinque anni fa nessuno ci avrebbe creduto. Di questo - sottolinea Di Gennaro - bisogna dare atto a Gaetano Manfredi, ex rettore e oggi ministro, che a mo’ di spin off lanciò questa esperienza”. “Ora - aggiunge - occorre sensibilizzare altri direttori di carceri e motivare tutti gli organismi istituzionali che convergono nel mondo penitenziario a cominciare dal Ministero della Giustizia che deve accelerare i processi di informatizzazione degli istituti penitenziari, Dap e garanti perché non tutti hanno la stessa efficacia operativa che ritroviamo nel garante campano Ciambriello e in qualcun altro come lui”. I tabù, dunque, sono ancora tanti ma la sfida si pone un obiettivo importante. “È il modo più coerente - spiega il professor Di Gennaro - per ridare dignità alla funzione della pena. I detenuti che seguono il percorso universitario stanno portando avanti un’esperienza positiva anche ai fini della ridefinizione dell’identità soggettiva, acquisendo pian piano la consapevolezza della funzione e del ruolo che lo studio sta avendo per loro, come strumento che aiuta a ridefinire l’identità soggettiva e aiuta a esibire una sorta di riconoscimento che probabilmente non si è mai avuto se non nei termini perversi che possono essere le affiliazioni a gruppi criminali oppure a qualche gang. Qui invece si tratta di avere un riconoscimento diverso. Entrare nella prospettiva che un giorno saranno chiamati dottori è una cosa di grande rilevanza, rimarca l’impegno profuso per cambiare vita”. Pensieri di un maratoneta al 41bis di Gioacchino Criaco Il Riformista, 6 dicembre 2020 Io non corro per essere il primo. Non corro come tanti per non arrivare ultimo. Io corro per lasciare dietro il rimpianto, il rimorso di non aver fatto molto per evitare tutto, di non aver avuto nessuno da ascoltare, un maestro mite da seguire, un sogno buono da realizzare. Rimpiango soprattutto gli anni buttati, portati al maceratoio dei giorni che ora mi tallonano, non mi danno respiro e mi afferrano per la maglia o i calzoncini. Gli anni, i giorni, le ore insistono per riavere un trofeo impossibile da immaginare e io più di loro. Accelero il passo, e freno perché ogni quattro passi c’è un muro del cubicolo da schivare, una curva strettissima da fare. Accelero e freno, do il massimo e sto davanti ai pensieri molesti. Accelero e freno e tengo nel mio petto a scrigno i ricordi e le fantasie, le favole che nessuno mi ha raccontato da bambino, tonici per i miei muscoli, doping per il mio morale. Ed ecco la fiaba che mi sono scritto da solo che appare, la tua testa crespa, inconfondibile. Corro più veloce possibile, non per fuggire ma per raggiungerti, per starti al fianco. Corriamo e freniamo e le sogniamo insieme le nostre spiagge, che in due il sogno è quasi realtà. L’ora finisce e tu corri lontano. Ritorni un compagno immaginario che un’ora al giorno si spartisce la mia pena. Io cammino, cammino piano per una nuova fuga. La faccio da fermo tra le pagine di un libro. Perché io i libri li so scegliere, ho “Il Maestro e Margherita” sul letto ad attendermi e la curiosità di sapere se i due se la intendano è forte. Sì, io sono furbo i libri li scelgo con cura, evito quelli che potrebbero amareggiarmi. Prendo quelli romantici per distruggere la maschera di un cinismo che ho regalato agli anni. Accelero e freno anche nella corsa sui libri, evito i muri dei sentimenti sui quali ho già sbattuto. E quando mi spengono la luce, che qua nemmeno di quella si è padroni, non mi fermo. Mi infilo in un sogno a passo svelto, e accelero e freno quando tutti dormono. Mi tengo pronto, mi esercito. Anche domani ci sarà l’aria, sfuggirò ai pensieri e agguanterò i ricordi. Ti acchiapperò come faccio ogni giorno, in questa corsa da eterni maratoneti. Anm, eletto il nuovo presidente: è Giuseppe Santalucia: “Toghe interpreti della Costituzione” di Liana Miella La Repubblica, 6 dicembre 2020 Magistrato di Cassazione, esponente della sinistra di Area, è stato il direttore dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia. L’uscente Luca Poniz si è fatto da parte dopo l’aut aut di Magistratura indipendente. L’Anm, dopo 50 giorni, esce dal tunnel e riesce ad eleggere un nuovo presidente. Si chiama Giuseppe Santalucia. La sua prima considerazione è questa: “I magistrati sono gli interpreti della Costituzione”. E la seconda riguarda il caso Palamara: “Non dobbiamo coprire ciò che è stato, ma ricostruire il tessuto etico”. Chi è Santalucia - Ha 56 anni. È siciliano di Messina. Ha ottenuto 30 voti su 36 votanti. È una toga della sinistra di Area, da sempre iscritto a Magistratura democratica, ma convinto sostenitore della fusione in Area di tutte le toghe comunque “rosse”. Per molti anni, in via Arenula, ha diretto l’ufficio legislativo con il Guardasigilli Andrea Orlando. Ma, sul campo, è stato pm a Patti e a Messina, e gip a Reggio Calabria. Ha lavorato al Csm come magistrato segretario. E in Cassazione, nell’ufficio del Massimario, ha diretto la sezione penale. Ma di lui si ricordano soprattutto studi sul diritto processuale penale e sull’ordinamento giudiziario. Insomma, è di quelle toghe che lavorano alle leggi e agli inghippi che possono nascondere. Appena eletto ha ricevuto la telefonata del Guardasigilli Alfonso Bonafede che gli ha fatto gli auguri di buon lavoro e gli ha manifestato piena disponibilità al confronto. Appena possibile Santalucia tornerà in via Arenula per incontrarlo. E, vista la sua esperienza, sarà un osso duro nel confronto sulle leggi. Le prime dichiarazioni del neo presidente - Appena eletto ha detto: “Sento fortemente il peso della responsabilità di assumere questa presidenza per le recenti vicende che hanno sconvolto l’ordine giudiziario e per la pandemia che incombe su tutti noi. Il programma che seguirò non è a ribasso, ma di mediazione. Per me la mediazione non ha un’eccezione negativa, ma mediazione e compromesso sono i mezzi che ci consentono di raggiungere risultati. L’Anm è un attore importante della vita politica e della vita pubblica”. E ancora: “Non siamo un soggetto politico a tutto campo, né siamo un soggetto partitico, siamo però interpreti attenti dei valori che la Costituzione assegna all’ordine giudiziario. Saremmo miopi se volessimo privare del nostro contributo il dibattito pubblico sui temi della giustizia e della giurisdizione”. Ineccepibile il riferimento alla questione morale dopo il caso Palamara: “Bisogna guardare in avanti e recuperare la credibilità. Non dobbiamo coprire ciò che è stato, ma ricostruire il tessuto etico”. La futura maggioranza dell’Anm - Santalucia sarà sostenuto da una giunta in cui ci sono tutti i gruppi - Area, Magistratura indipendente, Unicost, Autonomia e indipendenza - tranne Articolo Centouno, i quattro contestatori - Andrea Reale, Giuliano Castiglia, Maria Angioni e Ida Moretti - che in queste settimane hanno inondato di mail i colleghi e sono intervenuti decine di volte durante le riunioni del “parlamentino” contestando le correnti tradizionali. Hanno chiesto di bandire la presenza dei segretari di corrente e hanno subito attaccato la presidenza di Santalucia, un collega che, ha detto Castiglia, sarebbe stato troppo tempo fuori ruolo, mentre il loro plauso era per Poniz. Tant’è che lo hanno votato. Due invece le schede bianche. Il veto di Magistratura indipendente - La presidenza di Santalucia comincia in modo decisamente sofferto. Intanto è frutto del “sacrificio” del presidente uscente Luca Poniz, pm a Milano, che come candidato più votato con 739 consensi era l’aspirante naturale, sostenuto dai vertici di Area. La stessa Area ha spinto per lui fino all’ultimo, escludendo l’ipotesi di una donna come Silvia Albano per la presidenza. Ma Poniz ha deciso di fare un passo indietro perché di fatto la sua candidatura bloccava una nuova giunta. Il no, netto e irrevocabile, era quello di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, che vedeva in lui il presidente che aveva determinato la loro uscita dalla precedente giunta dopo i noti fatti del caso Palamara. Accusandoli di remare contro il rinnovamento e di non prendere le distanze, con la necessaria forza, dalle pratiche correntizie. Una Magistratura indipendente coinvolta nello scandalo con tre consiglieri del Csm presenti all’hotel Champagne per pilotare la scelta del procuratore di Roma, poi costretti alle dimissioni sia dal Csm che dal’Anm. Con loro i e con palamara e Luca Lotti del Pd anche Cosimo maria Ferri, ex potente capo di M, nonché super votato sia all’Anm che al Csm. La rinuncia di Luca Poniz - Fino all’ultimo i vertici di Magistratura indipendente si sono opposti a Poniz e a una giunta guidata da lui. Un aut aut che avrebbe alla fine costretto l’Anm ad andare a nuove elezioni. Il segretario di Area Eugenio Albamonte sarebbe anche stato disposto ad andare avanti nel braccio di ferro e a insistere a ogni costo su Poniz presidente, fino al punto di passare all’opposizione. Ma è stato Poniz, a questo punto, a farsi da parte. L’ex presidente ha avuto parole molto dure contro Magistratura indipendente: “Io sono innocente, spero che lo siano tutti, come disse Enzo Tortora. Ma non tollero di essere un problema per l’Anm. Gli elettori capiranno. Mi faccio da parte, ma resterò nel Comitato direttivo centrale perché questo mi hanno chiesto gli elettori. La magistratura è stanca di vedere che chi viene eletto nell’Anm ci va in vista di un’ulteriore carriera, per andare al Csm, o verso altre mete. Io invece non ho alcun bisogno di norme di incompatibilità”. Con Poniz - come lui stesso annuncia - si fanno da parte anche i colleghi di Area Silvia Albano e Giovanni Tedesco che hanno fatto parte del precedente “parlamentino”. Ma Poniz chiede, al contempo, in aperta polemica con Mi, che non facciano parete di una futura giunta anche i colleghi Antonio Sangermano e Pasquale Infante, ex Unicost, oggi eletti nelle liste di Mi come Movimento per la Costituzione, e Ugo Scavuzzo, anche loro della precedente Anm. Una donna vice presidente - Nel nuovo vertice del sindacato dei giudici entra una donna come vice presidente. È Alessandra Maddalena, giudice al tribunale di Napoli, la più votata di Unicost. Ha ottenuto 32 voti. Mentre il segretario dell’Anm sarà Salvatore Casciaro, consigliere della corte di appello di Roma, il più votato del suo gruppo e che ha avuto 28 voti. Segno evidente che questa giunta nasce sotto il cattivo auspicio delle preclusioni di Mi verso Poniz. L’Anm ce l’ha fatta, Santalucia presidente di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 6 dicembre 2020 A distanza di oltre quaranta giorni dalle elezioni che hanno rinnovato la rappresentanza dei magistrati, L’Anm ha un nuovo presidente. È Giuseppe Santalucia, 56enne toga di Area, il raggruppamento della sinistra che nelle urne ha prevalso di pochi voti sulla corrente di destra, Magistratura indipendente. Proprio la polarizzazione, esito delle prime elezioni seguite all’esplosione dello scandalo legato al nome di Luca Palamara, ha reso problematica la ricerca di un accordo per la formazione della nuova giunta. Sono servite cinque faticose riunioni del parlamentino (a metà tra presenza e teleconferenza), distanziate da settimane che avrebbero dovuto favorire l’intesa. Invece persino il confronto tra i leader delle correnti è risultato difficile, anche perché nel comitato direttivo centrale c’è adesso una nuova corrente (non si definisce così) Articolo 101, sempre pronta a imputare alle altre “biechi accordicchi. Dal vicolo cieco l’Anm è uscita solo quando Luca Poniz, presidente uscente, ha ritirato la sua candidatura, associando però al suo destino tutti gli altri magistrati già eletti nel precedente comitato direttivo centrale. “La discontinuità e il rinnovamento nei simboli devono valere per tutti, ha detto. La rinuncia ha riguardato altre due toghe della stessa Area e tre di Magistratura indipendente, la componente che ha più insistito sulla rottura con il passato. Insistenza comprensibile, visto che il passato prossimo dell’Anm è l’ultima giunta Poniz che - a ruota dell’inchiesta Palamara - ha dovuto rivolgere la sua azione moralizzatrice contro Mi e quella parte della corrente centrista di Unicost che è confluita in Mi. “Ancora una volta è toccato a noi fare lo sforzo maggiore per arrivare a una soluzione”, commenta a cose fatte il segretario di Area, Eugenio Albamonte, “la componente era pronta a sostenere Poniz a oltranza, ma è stato lui a decidere di dare una sterzata, altrimenti di fronte all’irragionevolezza di alcuni comportamenti ci sarebbe stato un altro rinvio”. Invece così i magistrati sono riusciti a darsi una gestione a quattro - Area, Mi, Unicost e la corrente orfana di Davigo, Autonomia e indipendenza, fuori solo i 101 - e un nuovo presidente che gode della stima generale. Ma in concreto a fare le spese del passo indietro di tutti gli uscenti è stata la candidatura di Silvia Albano, la più votata di Area dopo Poniz che però non è mai stata indicata dalla sua corrente per la presidenza. I passaggi seguiti al voto, infatti, hanno testimoniato una volta di più la difficile convivenza di Area e Magistratura democratica, la storica corrente di sinistra che dieci anni fa ha costituito Area (con i “verdi”) ma che da tempo ne denuncia il moderatismo. Se non una scissione (Md farà il congresso, Covid permettendo, nei primi mesi del prossimo anni) questa spaccatura interna complica i prossimi passaggi, a cominciare dalla ricerca di un candidato comune di Area per le prossime, ennesime elezioni suppletive del Csm. E così dalla nuova giunta esecutiva centrale guidata da Santalucia sono rimasti fuori oltre ad Albano proprio i magistrati di Md, Santoro e Celli, mentre Area ha ottenuto per sé tre posti: il presidente e Lilli Arbore ed Elisabetta Canevini, rispettivamente terzultima e ultima delle elette della corrente. Nel rispetto dei pesi tra le correnti e nelle correnti, invece, l’incarico di segretario della Gec è andato al primo degli eletti di Magistratura indipendente, Casciaro, mentre quello di vice presidente alla prima delle elette di Unicost, Maddalena e la guida dell’ufficio sindacale al primo degli eletti di AeI, Morgigni. Santalucia, catanese, è stato pm antimafia ed è adesso giudice di Cassazione. Di Md, è stato candidato al Csm proprio nelle elezioni del 2010 che videro il debutto di Area. Per cinque anni, dal 2013 al 2018, è stato prima vice e poi capo dell’ufficio legislativo dell’ex ministro della giustizia Orlando. Non sfuggendo alle critiche della sua corrente in occasione del decreto Minniti-Orlando, quello che secondo Md introduceva “forme di diritto speciale per gli stranieri”. Osservata speciale nella nuova giunta la componente di Autonomia e indipendenza, che soffre la concorrenza di Articolo 101 e si è probabilmente spaccata già nel voto al nuovo presidente. La giunta può restare in carica fino a nuove elezioni tra quattro anni, ma è più probabile che si andrà a una rotazione degli incarichi a metà mandato. Un rimpasto. Giletti, il Re dei processi mediatici di Giorgio Mannino Il Riformista, 6 dicembre 2020 Sindaco messo alla gogna da testimone incappucciato e ignoto senza alcuna prova. “Questa sera faremo vedere un documento fortissimo che riguarda l’ex sindaco di Mezzojuso, Salvatore Giardina. Che ha sempre detto di non essere mai andato al funerale di don Cola La Barbera, il capomafia del paese. L’uomo che proteggeva la latitanza di Bernardo Provenzano. Un documento che chiarirà la vicenda in modo definitivo”. Domenica scorsa, con un ingresso a effetto Massimo Giletti, durante la trasmissione Non è l’arena su La 7, ha aperto così l’ennesimo capitolo, il quattordicesimo, dedicato alla storia delle sorelle Napoli - vittime di danneggiamenti, dietro ai quali ci sarebbe la mano della mafia, alla recinzione dei loro campi con conseguenti invasioni da parte di bovini che ne hanno distrutto le colture - legato a doppio filo con lo scioglimento per mafia di Mezzojuso. L’attesa è trepidante. Il set montato è sempre lo stesso. Da un lato Rita Dalla Chiesa, dall’altro l’ex deputata Nunzia De Girolamo, in collegamento - alle spalle di Giletti - Irene, Marianna e Gioacchina Napoli. Le tre donne figlie di Salvatore “Totò” Napoli ritenuto, secondo fonti investigative, “capo indiscusso della famiglia mafiosa di Mezzojuso” già dalla fine degli anni Cinquanta e protettore, negli ultimi anni della sua latitanza, di Bernardo Provenzano nascosto proprio da Napoli in un monastero ortodosso del paese, e iscritto nel 1971 nello schedario degli indiziati per mafia, al numero 859, dall’allora capitano della stazione dei carabinieri di Corleone Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il grande assente è proprio l’ex sindaco Giardina, accusato nel tribunale mediatico allestito da Giletti, ma non invitato alla trasmissione, in barba al contraddittorio. Il programma va avanti. Monta la suspence. Giletti, più volte, ricorda di essere in possesso, mimando con la mano la presenza di una documentazione cartacea, di un “documento fondamentale per dimostrare la presenza di Giardina al funerale di don Cola La Barbera”. Gli addetti ai lavori si aspettano la famigerata relazione, redatta dai carabinieri e citata nel provvedimento prefettizio di scioglimento per mafia, secondo la quale Giardina era presente, il 29 ottobre 2004, al funerale del boss La Barbera: “Tra i presenti - è scritto nella relazione prefettizia - anche il sindaco Giardina, all’epoca assessore, come annotato in una relazione di servizio dei CC”. La presenza dell’ex sindaco a quelle esequie è stato uno degli elementi principali che hanno portato allo scioglimento per mafia del Comune. E che invece, la sezione civile del tribunale di Termini Imerese, pronunciandosi lo scorso agosto sull’incandidabilità di Giardina e di altri assessori della sua giunta, aveva definito “in questa sede non determinante, anche in considerazione dell’incertezza stessa della partecipazione”. Un cortocircuito che desta più di qualche dubbio sulle reali motivazioni che hanno portato allo scioglimento per mafia di Mezzojuso. Antonio Di Lorenzo e Filippo Liberto, legali di Giardina, hanno presentato diverse cartelle cliniche del centro di fisioterapia gestito dall’ex sindaco a Villafrati. Documenti firmati proprio dall’ex primo cittadino in un orario compreso tra le 15 e le 19 del 29 ottobre 2004, mentre si stavano svolgendo le esequie del boss. Giardina non poteva trovarsi a Mezzojuso. L’altro documento che potrebbe mettere un punto sulla vicenda sarebbe proprio la relazione dei carabinieri. La lunga attesa, però, viene delusa. Quello che doveva essere un “documento fortissimo” si riduce a una testimonianza anonima. Che Giletti presenta in pompa magna: “Forse quella carta (la relazione dei carabinieri, ndr) non servirà più dopo questa dichiarazione”. In realtà si tratta di una bolla di sapone che esplode poco dopo. Un soggetto incappucciato, di spalle, con la voce modificata, afferma di aver visto “con i suoi occhi, nel primo pomeriggio” Giardina al funerale di La Barbera. E di non potersi sbagliare perché “c’erano circa 20 persone”. L’uomo si dice, inoltre, “disposto a testimoniare davanti all’autorità giudiziaria”. Ma perché la magistratura dovrebbe avvalersi di questa testimonianza se la procura di Termini Imerese, come confermato dal comando dei carabinieri di Misilmeri che l’ha trasmessa, possiede già la relazione “corposa e dettagliata che accerta la presenza di Giardina” su quel funerale vietato dalla questura? Di quali ulteriori elementi avrebbe bisogno e per quali obiettivi? Nel racconto del testimone, però, incappucciato qualcosa non torna. Come confermato da più fonti a Il Riformista, alle esequie di La Barbera sarebbero state presenti più di 1.000 persone. Un dato che trova un’ulteriore sponda con le affermazioni del collaboratore dell’ex generale dei carabinieri Nicolò Sergio Gebbia, ex assessore della giunta Giardina: “Mi disse - ricorda Gebbia - che aveva rivisto le registrazioni dell’evento, cui avevano partecipato più di mille persone. E che gli amministratori comunali coinvolti erano 5, quattro presenti all’interno del cimitero e il quinto, al vertice dell’amministrazione, che aveva reso una visita di condoglianze alla famiglia del morto. Escluse che fra i presenti ci fosse Salvatore Giardina”. Dalla compagnia dei carabinieri di Misilmeri fanno sapere che “il testimone è attendibile”. Della relazione, intanto, non pare esserci traccia. Abbiamo fatto richiesta al comando dei carabinieri ma l’esito è stato negativo. Richiesta inoltrata anche alla prefettura, siamo in attesa di risposta. Gli avvocati di Giardina aspettavano di leggerla negli atti processuali, ma non è mai stata presentata: perché? A non averla è lo stesso Giletti, tra i maggiori sponsor dello scioglimento per mafia di Mezzojuso. La relazione, a detta di molti, conterrebbe il nome di Giardina tra i presenti al funerale. Perché finora non è saltata fuori? “Sono incensurato, non si è mai fatta un’indagine su di me. E sono stato crocifisso. Giletti ha buttato fango su un’intera comunità. La trasmissione è stata creata ad hoc per fare pressioni sull’udienza d’appello nella quale, a gennaio, si deciderà sulla mia riabilitazione. Quella testimonianza è un falso e temo che, a seguito delle grandi manovre che in queste ore si stanno profilando in paese, possano essere costruite altre falsità. Tuttavia sono fiducioso perché continuo a credere nella magistratura”, dice l’ex sindaco. Intanto i suoi legali ventilano “l’ipotesi di un’attività querelatoria”. Noemi Durini, uccisa a 16 anni. La lettera della madre: “Ha sepolto viva mia figlia, resti in cella” di Immacolata Rizzo Corriere della Sera, 6 dicembre 2020 L’assassino, il fidanzato Lucio Marzo, reo confesso e detenuto da tre anni, ha chiesto di lavorare fuori dal carcere. La madre della vittima: “Il suo killer mai pentito, sbagliato dargli un lavoro fuori”. L’assassino di mia figlia Noemi, Lucio Marzo, “vuole tornare a dare una mano anche fuori dalle celle per respirare aria di libertà. Omicida reo confesso di Noemi e detenuto da tre anni: Lucio Marzo chiede di poter lavorare fuori dal carcere”. Questo il titolo del giornale che ha pubblicato la notizia. Io da madre, leggendo queste notizie, ricevo l’ennesima pugnalata. Mi chiedo come sia possibile che dopo soli 3 anni dalla morte di mia figlia Noemi, si possa pensare e volere “evadere” da una pena, già ridotta di un terzo, che si è appena iniziato a scontare. Me l’ha portata via picchiandola, prendendola a sassate, e accoltellandola in testa. È stata tanta la crudeltà e la ferocia con la quale si è scagliato su di lei che durante l’esame autoptico le hanno trovato la punta del coltello nel cranio. E questa non è stata neppure la fine, non era sufficiente. Evidentemente, la sofferenza di mia figlia per lui in quel momento non contava. Così l’ha seppellita viva, sotto un cumulo di pietre. Sì, mia figlia quando fu sepolta, era ancora viva, respirava. A dimostrarlo, fu l’autopsia. Dopo abbandonò Noemi lì, in una campagna isolata, in fin di vita, ferita, sola, sotto dei massi gelidi e pesanti, che le hanno causato la morte da “asfissia per compressione toracica”. Lui solo dopo dieci giorni, infiniti, sentendosi col fiato sul collo, decise di confessare. L’autopsia durò più di 12 giorni e solo dopo potei finalmente andare a prendere mia figlia per riportarla a casa, non viva come avevo sperato e immaginato, ma all’interno di una bara bianca. Non ebbi nemmeno la possibilità di salutarla per l’ultima volta. È stata per dieci giorni sotto un cumulo di pietre, abbandonata e nascosta in modo tale da non essere né vista né ritrovata. Leggere i risultati di quell’esame autoptico è stato devastante. Apprendere del ritrovamento di mia figlia è stato straziante, un dolore immenso che non auguro mai a nessuno di provare. Quel giorno, insieme a mia figlia, sono morta anch’io. Noemi aveva 16 anni quando le è stato tolto il sorriso, aveva una vita davanti piena di sogni e progetti. Voleva danzare, studiare e fare la psicologa. Voleva aiutare i bambini in difficoltà, facendo sostegno nelle scuole. Voleva visitare tanti luoghi, vedere le montagne, il mare, la natura, le città. Voleva sposarsi, avere dei figli, indossare l’abito bianco e trasferirsi in un’altra città, dalla sorella, una volta finite le superiori. Una vita che lui ha spezzato e distrutto, insieme a quella della mia famiglia e mia, come madre. Senza neanche mai chiedere perdono. Trovo impensabile, da madre, che colui che ha tolto la vita a mia figlia in un modo barbaro e crudele possa avere diritto alla libertà, tramite permessi premio o ulteriori benefici. Voglio ricordare che ai tempi il ragazzo aveva 17 anni ma appena due mesi dopo il crimine ne ha compiuti 18, ha raggiunto la maggiore età, ed è proprio questo che deve farci riflettere sull’ulteriore gravità dell’atto. Era già grande eppure è stato giudicato come fosse un adolescente, un 14enne, con il procedimento minorile, dal Tribunale per i minorenni, ed è difficile da accettare se il crimine commesso è un omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dai futili motivi. Da madre non posso accettare, che questa persona possa essere libera anche solo per pochi istanti. Non voglio nemmeno credere che i giudici possano accettare una cosa del genere. Si tratta di una persona pericolosa socialmente e non è questo il messaggio che l’ordinamento giuridico deve far passare. Non voglio mettere in discussione il concetto del reinserimento sociale o del recupero di un detenuto, ma qui si parla di un assassino che ha agito con crudeltà e lucidità dal primo momento fino all’ultimo, creandosi alibi, distruggendo prove, pulendo l’auto, eliminando ogni traccia e cambiando versione attraverso strategie subdole per liberarsi da ogni responsabilità. In tre anni, non ha mai mostrato nessun segno di pentimento, di presa di coscienza del gesto, di sconforto o richiesta di perdono. Mai. Addirittura, in un’udienza, il giudice gli chiese se volesse scusarsi con noi, e lui rispose freddamente e svogliatamente con un grugnito di disapprovazione. Io ora mi rivolgo alle istituzioni, al carcere dove è detenuto. Io credo nella giustizia e nelle persone che portano avanti questi ideali, e voglio credere che anche in questo caso vengano fatte le giuste e accurate valutazioni, per far sì che un soggetto del genere sconti la sua pena all’interno della struttura detentiva e non al di fuori di essa. Cosa vogliamo fare? Vogliamo altre Noemi uccise? L’assassino di mia figlia è stato condannato a soli 18 anni e 8 mesi, nulla in confronto alla vita stroncata di Noemi. Spero che vengano scontati fino all’ultimo minuto all’interno di una struttura detentiva. Se vuole lavorare, lo faccia nella sua cella o tra le mura del carcere. Spero che questa lettera porti molte persone a riflettere, perché ora l’unica cosa che mi resta è dare giustizia a mia figlia e tutelarla con ogni strumento possibile. Terni. Morto con il Covid detenuto di 62 anni di Gianluca Prestia Gazzetta del Sud, 6 dicembre 2020 Nel pomeriggio di ieri è morto presso l’ospedale di Terni, Giovanni Battista Bartalotta, 62 anni, di Stefanaconi, condannato nell’operazione “Gringia-dietro le Quinte” a 8 anni e 4 mesi. Operazione avente ad oggetto la faida tra i Patania, del quale era ritenuto componente, e i piscopisani, avvenuta a cavallo tra l’autunno del 2011 e l’estate del 2012. L’uomo, dopo un periodo ai domiciliari era stato nuovamente arrestato una volta divenuta definitiva la sentenza per un residuo di pena. Ristretto a Terni, per come fa sapere il proprio legale, l’avvocato Francesco Sabatino, aveva “più volte chiesto invano gli arresti domiciliari per motivi di salute ma le sue condizioni si sono aggravate negli ultimi giorni con il suo ricovero in ospedale dopo avere contratto il Covid-19 in carcere”. Avuta la notizia del decesso i familiari (assistiti sempre da Sabatino) hanno immediatamente presentato un esposto alla procura di Terni che ha disposto per Bartalotta l’esame autoptico al fine di accertare le cause ed eventuali responsabilità del decesso. Genova. Arrestato per droga, 33enne muore dentro la cella di sicurezza Corriere della Sera, 6 dicembre 2020 Durante la notte era stato visitato due volte dalla guardia medica e dal pronto soccorso, perché aveva accusato dei malori. Un uomo di 33 anni, Emanuel Scalabrin, di Albenga arrestato venerdì sera dai carabinieri nel corso di un’operazione antidroga è deceduto nel sonno alle 11 di sabato mentre era nella camera di sicurezza della compagnia di Albenga, in attesa di essere portato nel carcere di Genova. Durante la notte era stato visitato due volte dalla guardia medica e dal pronto soccorso, perché aveva accusato dei malori, legati da quanto emerso all’astinenza da droga. Sul posto sono intervenuti la magistrata di turno, Chiara Venturi, e il medico legale. Un primo esame della salma ha escluso qualsiasi segno di violenza. È stato comunque aperto un fascicolo a carico di ignoti per omicidio colposo, come atto dovuto per effettuare l’autopsia, che dovrà stabilire le esatte cause della morte ed escludere omissioni nelle cure. L’arresto di venerdì, era emerso in precedenza, aveva riguardato due uomini e due donne e aveva portato al sequestro nel complesso di 143 grammi di droga, tra eroina e cocaina, oltre a quello di un fucile a canne mozze funzionante, rinvenuti tra la casa ad Albenga dell’uomo e della sua convivente di 37 anni, anch’essa arrestata, e un’altra abitazione nella loro disponibilità a Ceriale. Nel corso del blitz l’uomo aveva cercato di scappare tentando di colpire i militari con calci e pugni ma era stato subito bloccato. Sulmona (Aq). Coronavirus, tornano a salire i contagi in carcere Il Centro, 6 dicembre 2020 È ancora emergenza nel carcere di Sulmona con i contagi che si allargano e una situazione che si fa sempre più preoccupante. Si allarga il contagio nel carcere sulmonese. Mentre prosegue l’operazione di screening per scoprire altri possibili focolai e contenere la diffusione del virus. Ieri sono stati svolti 70 tamponi molecolari ad altrettanti detenuti dopo il test rapido eseguito nei giorni scorsi. E questo per avere dati più certi e inconfutabili. Nella giornata di lunedì si arriverà probabilmente alla piena stabilizzazione del quadro epidemiologico, con i medici e i responsabili della struttura carceraria che potranno intervenire con provvedimenti mirati per arrestare il contagio. Intanto, ieri sono arrivati gli esiti dei tamponi svolti nei giorni scorsi. All’elenco dei positivi si sono aggiunti altri cinque detenuti. In tutto sono sei i reclusi che hanno avuto conseguenze serie dopo essere stati contagiati tanto da dover far ricorso alle cure ospedaliere. Quattro di loro si trovano ancora nell’ospedale di Sulmona, altri due invece, sono stati trasferiti; il primo al San Salvatore dell’Aquila e l’altro nell’ospedale Covid di Pescara. Dopo giorni in cui i detenuti, quasi tutti di alta sorveglianza, hanno dovuto attendere in uno spazio angusto dell’ex pronto soccorso dell’ospedale di Sulmona per trovare un posto libero, gli ospedali Covid della regione cominciano a dare il primo supporto ma a detta della Uil si scontano alcune carenze, soprattutto nel San Salvatore, per quanto riguarda la formazione nel trattamento dei detenuti Covid. Il focolaio che conta al momento 78 positivi tra detenuti e agenti resta quindi molto preoccupante. Busto Arsizio. Coronavirus, altri 24 positivi dietro le sbarre di Sarah Crespi La Prealpina, 6 dicembre 2020 Emergenza in via per Cassano. Ieri l’addio al detenuto morto in cella il 24 novembre. Se fosse positivo lo dirà l’autopsia. Non si spegne il focolaio di Covid-19 scoppiato in carcere. Anzi, ieri gli esiti dei tamponi hanno segnalato ventiquattro nuovi detenuti positivi, tutti in quarta sezione. La buona notizia è che le sezioni prima e terza nel frattempo hanno debellato il virus, per quanto si possa debellare comunque gli ospiti sono tutti negativi. Le misure adottate una ventina di giorni fa, quando è scoppiato il contagio, non sono state sufficienti per contenerlo. La direzione aveva deciso di concentrare gli infettati in sesta, creando di fatto il primo vero reparto Covid 19 della casa circondariale di Busto. Fino al 15 novembre veniva utilizzata la seconda sezione come transito dei nuovi arrivati che dovevano essere sottoposti al test e che, in caso di positività, sarebbero stati trasferiti a San Vittore. Poi però spuntò un caso all’interno del penitenziario e quindi ci fu la corsa per mettere in sicurezza la popolazione di via per Cassano. Tamponi a raffica quindi, soprattutto al personale di polizia penitenziaria, agli amministrativi, al cappellano, agli educatori, a tutti quelli che dal cancello possono uscire e che dunque possono veicolare il virus dentro. A quanto pare un nuovo giro di test è previsto già settimana prossima. Nel frattempo chi è in quarantena deve accontentarsi di sette minuti d’aria al giorno. Sospese le funzioni religiose, che al di là della fede del singolo sono un’occasione di socializzazione, di riflessione comune e anche l’opportunità per scoprire il lato meno truce e più spirituale dell’esistenza. Niente lezioni e neppure attività ricreative. In compenso le videochiamate possono essere effettuate in sezione, grazie alla collaborazione tra gli agenti dell’ufficio colloqui e il cappellano don David, che ha donato i power bank, affinché i cellulari tengano la carica per una giornata intera. C’è un altro nodo da sciogliere per quanto riguarda il virus dietro le sbarre. Il 24 novembre è morto Fabio Citterio, un detenuto che stava scontando una pena definitiva per omicidio. Aveva plurime patologie così il giorno prima che spirasse venne sottoposto al tampone rapido, da cui risultò negativo, e collocato in isolamento. Traslato in ospedale, sul corpo del cinquantatreenne è stato eseguito un altro test che ha dato esito positivo. La famiglia di Citterio vuole capire se l’area sanitaria abbia tenuto in debito conto tutte le malattie di cui soffriva. Il pubblico ministero Stefania Brusa ha disposto l’autopsia, al deposito della quale l’avvocato Alessandro Fumagalli deciderà come procedere. Ieri pomeriggio gli amici e i familiari di Fabio gli hanno dato l’addio a Inverigo. C’era don David a celebrare, insieme a don Costante. E poi c’era don Silvano, per anni sacerdote di via per Cassano e molto legato a Citterio. E nonostante da otto anni fosse recluso, nessuno del mondo esterno si è dimenticato di lui, le presenze al funerale ne sono riprova. I detenuti nei giorni scorsi hanno fatto una colletta per omaggiare il suo cuore generoso con una corona di fiori che rappresentasse il loro lutto sincero. “Gli amici di via per Cassano”, si sono firmati. Don David ha riassunto in una frase l’essenza del cinquantatreenne, che a dispetto del reato, era un uomo considerato di bontà inarrivabile: “Aveva il dono di farti sentire a casa anche in galera”. Bergamo. Covid in carcere: appello per diminuire il sovraffollamento di Lucia Cappelluzzo bergamonews.it, 6 dicembre 2020 L’Associazione Carcere e Territorio di Bergamo chiede ai parlamentari bergamaschi di intervenire per l’adozione di provvedimenti che contengano gli enormi rischi di contagio all’interno degli istituti carcerari, riducendo le presenze. Dall’inizio della pandemia, in Italia è in atto un’importante iniziativa volta ad aprire una riflessione e a sottoporre concrete proposte al Parlamento ed al Governo sul tema del carcere in tempo di Covid, tanto da esserci casi di scioperi della fame da parte dei detenuti in numerosi carceri italiane. L’appello è portato avanti anche da Roberto Saviano, di Luigi Manconi e di Sandro Veronesi, che motivano ed approfondiscono le ragioni dell’iniziativa a favore non solo dei detenuti ma anche di tutto il personale che opera in carcere. Le proposte cercano di contenere gli enormi rischi di contagio all’interno degli istituti carcerari, riducendo le presenze. Se, infatti, in tempi normali il sovraffollamento è un problema ormai noto, al tempo del Covid diventa una situazione drammatica. Infatti la necessità di destinare alcune Sezioni alla gestione Covid, restringe ulteriormente gli spazi nelle celle residue determinando condizioni non rispettose della dignità umana. Le proposte avanzate al Governo e Parlamento sono: l’innalzamento della liberazione anticipata da 45 a 75 giorni al semestre per tutti i detenuti che abbiano buona condotta e partecipazione alle attività trattamentali; il blocco dell’esecutività delle sentenze passate in giudicato, salvo motivata pericolosità sociale da parte delle Procure e l’innalzamento dai 18 ai 24 mesi al fine pena per accedere alla detenzione domiciliare. Anche l’Associazione Carcere e Territorio di Bergamo aderisce convintamente all’appello, chiedendo ai parlamentari bergamaschi di farsi parte diligente per la loro adozione. Infatti anche nel carcere di Bergamo, nonostante l’attenta e professionale gestione dell’emergenza da parte della Direzione, della Polizia Penitenziaria, del Servizio sanitario interno, del lavoro dei dipendenti, dei volontari e delle Istituzioni, (partendo dal Comune e dall’Ospedale ecc.) le problematiche riguardo il sovraffollamento non mancano. “L’associazione da decenni si impegna a costruire con idee e progetti concreti una concezione della pena che declina la sua certezza con modalità più rispettose dei diritti delle persone detenute e più attente al loro reinserimento, convinti che ciò assicura anche una maggior sicurezza sociale - ha dichiarato il presidente Fausto Gritti - Perciò non ha potuto sottacere che la pandemia aggrava la condizione detentiva. Per contrastarlo sono necessari non solo interventi normativi, ma anche lo sviluppo, a tutti i livelli, di forti politiche sociali specie sul tema dell’abitare e del lavoro, senza le quali resterebbero in carcere persone non per la loro posizione giuridica, ma per la loro povertà sociale”. Perciò, facendo proprie le proposte già in atto, Carcere e Territorio vuole anche integrarle con altri provvedimenti per ridurre il sovraffollamento: innalzare il limite di pena al di sotto del quale è fatto divieto di applicare la custodia cautelare; allargare a tutte le patologie che costituiscono un rischio Covid (es. diabete patologie polmonari o cardiache) il differimento pena o la detenzione domiciliare per motivi di salute e fare opera di sensibilizzazione, anche con la Camera Penale, presso la magistratura di sorveglianza e presso il tribunale. Ivrea (To). Carcere senza riscaldamento, la Lega si rivolge al Ministro di Angela Garzone lagazzettatorinese.it, 6 dicembre 2020 È da diversi giorni che nel Carcere di Ivrea non è attivo il servizio di riscaldamento. Una situazione già denunciata il 26 novembre dal Segretario Generale del sindacato Osapp Leo Beneduci. A tal proposito, il 2 dicembre i Senatori della Lega Roberta Ferrero, Giorgio Maria Bergesio, Stefania Pucciarelli, Marzia Casolati, Cesare Pianasso, Enrico Montani, Maria Saponara, William De Vecchis, Michelina Lunesu, Francesco Urraro, Valeria Alessandrini, Cristiano Zuliani, Gianfranco Rufa, Sonia Fregolent, Maria Cristina Cantù e Tony Chike Iwobi hanno presentato un’interrogazione al Ministro della Giustizia. Nel testo dell’interrogazione presentata dai Senatori della Lega c’è scritto “Premesso che, a quanto risulta agli interroganti: da circa una settimana il carcere di Ivrea è privo del servizio di riscaldamento. A darne notizia l’Osapp, il sindacato autonomo della Polizia penitenziaria, che ha segnalato la situazione agli uffici competenti. Senza però ottenere, secondo il sindacato stesso, l’intervento dei tecnici. Secondo il segretario generale dell’Osapp, le condizioni del carcere di Ivrea dovrebbero essere oggetto di verifica da parte degli organi centrali dell’amministrazione penitenziaria. Considerato che ad oggi gli organi regionali sembrano completamente disinteressarsi al grave stato di abbandono e al completo caos organizzativo dell’istituto. Il sindacato segnala ancora una volta il mancato impiego delle figure che, in base alle regole e agli accordi vigenti, dovrebbero essere adibite alle funzioni di sorveglianza generale. La gravità della situazione ha indotto il sindacato a suggerire di valutare l’opportunità della chiusura della struttura, poiché il carcere versa in un caos senza precedenti, ovvero è privo del direttore generale, del comandante, dei vertici naturali, senza linee guida con gli agenti della Polizia penitenziaria abbandonati a loro stessi. Si chiede di sapere se il Ministro in indirizzo sia a conoscenza dei fatti descritti e se non ritenga opportuno inviare presso il carcere di Ivrea gli ispettori ministeriali per verificare lo stato dei luoghi e la mancanza di linee guida”. Gorgona (Li). La storia di Beatrice: “Io contadina, insegno ai detenuti l’arte dell’olio” confagricoltura.it, 6 dicembre 2020 Lavorano nei campi e al frantoio, ma si occupano anche del marketing e delle vendite: è il progetto dell’azienda agricola Santissima Annunziata di San Vincenzo (Livorno) per l’istituto penitenziario dell’isola. Un olio unico, reso ancora più speciale da chi lo fa: i detenuti del penitenziario dell’isola di Gorgona. In ogni bottiglia c’è molto più di un prodotto di qualità, nato da una varietà particolare di olive, ma ci sono percorsi di formazione per acquisire le conoscenze agronomiche biologiche, le competenze sul marketing e la comunicazione e soprattutto la possibilità di trovare in un lavoro il riscatto di una vita. È questo il cuore del progetto Recto Verso, vincitore del bando “Agro-Social: seminiamo valore”, realizzato da Confagricoltura e JTI Italia. Lo scorso 20 novembre l’annuncio del primo premio da 40mila euro per l’azienda agricola Santissima Annunziata di San Vincenzo (LI), alla presenza del presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, del presidente e amministratore delegato di JTI Italia, Gian Luigi Cervesato. All’appuntamento hanno preso parte anche il viceministro all’Economia e Finanze, Antonio Misiani e il sottosegretario Mipaaf, Giuseppe L’Abbate. Un’idea che è nata un anno fa e “che è cresciuta grazie all’entusiasmo di tutti e 85 i detenuti e soprattutto dei responsabili del penitenziario”, racconta Beatrice Massaza, titolare dell’azienda agricola vincitrice, da sempre impegnata nel sociale. “Non è beneficenza, ma uno scambio alla pari tra persone che cercano una strada nuova e aziende che hanno bisogno di lavoratori che sappiano fare un mestiere. Il nostro progetto è nato lì perché l’azienda agricola di Gorgona è il luogo ideale. Da qui è nato un percorso articolato, che diventerà entro due anni un modello di lavoro da esportare anche in altri istituti penitenziari. Grazie ad Apot-Associazione produttori olivicoli toscani abbiamo creato una rete di aziende, circa un centinaio, interessate a partecipare e attivare percorsi formativi e di inserimento lavorativo. Vogliamo che dal carcere non escano ex detenuti, ma potatori esperti o agricoltori”. La raccolta delle olive è in corso, come il lavoro al frantoio. Il passaggio successivo sarà la formazione sulla commercializzazione e la comunicazione, dalla creazione delle etichette fino alle campagne pubblicitarie e le strategie di vendita. Sono previsti anche corsi di degustazione. Verranno poi creati dei video tutorial che serviranno a far conoscere ed esportare il modello di lavoro di Gorgona ad altri istituti penitenziari italiani. “Stiamo pensando di creare anche una web tv - aggiunge Beatrice Massaza - Vogliamo sviluppare e divulgare il più possibile questo modello che si basa sul rispetto dell’ambiente, il rispetto del lavoratore, la qualità del prodotto e l’attenzione al consumatore, fino ad arrivare alla creazione di un ente certificatore con tecnologia blockchain”. Il bando “Agro-Social: seminiamo valore” ha ricevuto la candidatura di numerose idee progettuali di qualità provenienti dai territori coinvolti di Toscana, Umbria, Veneto e Campania ed è nato con l’idea di stimolare la creazione di opportunità e nuovi modelli di sviluppo per le comunità locali rurali del Paese, sostenendo progetti concreti di impresa, sostenibilità e solidarietà “Il nostro Paese - ha ricordato il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti - è leader in Europa per l’agricoltura sociale. Confagricoltura ha sempre creduto al ruolo determinante del settore nel contesto sociale ed economico. In questo momento storico poi, così delicato per l’Italia, siamo convinti della necessità di investire in questo modello di sviluppo virtuoso e competitivo, che permette di coniugare le politiche del welfare con la produttività e la salute”. Tutti i progetti finalisti hanno avuto a disposizione durante la precedente fase di tutoraggio un patrimonio di esperienze, suggerimenti e competenze per dimostrare come inclusione sociale, sostenibilità ambientale e visione imprenditoriale possono davvero coesistere. L’obiettivo, in linea con il Piano di Ripresa e Resilienza del Governo, è di contribuire alla riduzione del divario economico e sociale, creare occupazione, sostenere la transizione verde e migliorare la capacità di ripresa dell’Italia. “È arrivato il momento di prendere atto che non può esserci crescita se non si garantiscono sostenibilità economica, sociale e ambientale. In questa visione rientra il nostro impegno pluriennale per supportare un comparto strategico della produttività del Paese e stimolare le capacità innovative che il territorio stesso può esprimere - ha detto Gian Luigi Cervesato, presidente e amministratore delegato di JTI Italia. Per portare a casa la sfida alle disuguaglianze serve un dialogo costante tra tutti gli attori della società. Questo progetto realizzato con Confagricoltura ne è un esempio: solo insieme possiamo trovare le migliori soluzioni, a partire dal giusto equilibrio che consenta di sviluppare una visione di lungo periodo per ripensare i modelli produttivi e di consumo del futuro”, ha concluso. All’incontro hanno preso parte anche le istituzioni che hanno ribadito la rilevanza e il valore che il settore agricolo ha per il tessuto produttivo del Paese. “Oggi abbiamo avuto il piacere e l’onore di premiare progetti che hanno saputo dare concretezza alle potenzialità del welfare rurale su cui abbiamo creduto sin dal 2015 quando, in Parlamento, approvammo la tanto attesa norma sull’Agricoltura Sociale. I soggetti più vulnerabili della società, grazie ad iniziative come queste, divengono così protagonisti attivi della vita agricola e produttiva dei territori, coniugando innovazione e antichi saperi. Risultati ancor più determinanti alla luce del tragico momento storico che stiamo vivendo e che dobbiamo fronteggiare facendoci comunità. E in ciò l’agricoltura dimostra, ancora una volta, la sua importante funzione sociale” ha concluso Giuseppe L’Abbate, sottosegretario alle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Livorno. Un presepe dentro il carcere, appello dell’Arci per i detenuti di Lucia Aterini Il Tirreno, 6 dicembre 2020 L’associazione invita a donare i personaggi della Natività per realizzare la rappresentazione contro solitudine e paura. Lo hanno chiesto i detenuti ma anche gli operatori del carcere delle Sughere. Vorrebbero realizzare un presepe in un Natale particolare, forse per sconfiggere la solitudine e le paure collegate alla pandemia che amplifica la loro condizione di sofferenza. Da qui l’appello dell’Arci tramite il garante dei detenuti del Comune di Livorno, Marco Solimano, che invita a regalare i personaggi del presepe in modo tale che questo piccolo sogno prenda forma nell’agorà delle Sughere, la zona che si chiama di smistamento. “In effetti anche io che non sono credente rimango sempre affascinato dal presepe - spiega Solimano - e credo che la volontà di realizzare la Natività, che mi è stata espressa nell’ultima visita dentro il carcere, abbia un potere evocativo in un momento particolarmente difficile per i detenuti”. Infatti per il verificarsi di casi di positività nell’alta sicurezza sono state sospese tutte le attività. “Per fortuna da 23 casi che si sono registrati, in tre settimane - spiega Solimano - siamo riusciti a ritornare a zero. Per cui gradualmente potranno ripartire le varie attività”. Al momento, però, sono sospesi i colloqui e le associazioni di volontariato non entrano alle Sughere. La solitudine, l’ansia, la percezione della malattia sono elementi che hanno fatto scattare la volontà di prendersi qualcosa legato al Natale, a una luce anche se solo simbolica, che dia una sensazione di leggerezza in un momento dove le paure si amplificano. “Ecco perché facciamo appello a donare soprattutto dei personaggi del presepe - spiega ancora Solimano - figure più grande o più piccole che diano la possibilità di realizzare una rappresentazione della nascita di Gesù”. Il materiale potrà essere portato all’Arci, nella sede di via Terreni, al numero 4, con orario 9 - 12,30 tutti i giorni e il lunedì e il venerdì anche nel pomeriggio dalle 15,30 e fino alle 18,30. Milano. Silenzio e dolore all’Ipm “Beccaria”, sperando nel 2021 di Mariacristina Cavecchi* Il Giorno, 6 dicembre 2020 In questo strano dicembre 2020, segnato da divieti e teatri chiusi, sentiremo forte la mancanza di quella Prima Diffusa che ormai da anni, incurante di ogni barriera, dilagava tra foyer sfavillanti e musei, marciapiedi cittadini e luoghi di reclusione. In carcere il silenzio del 7 dicembre si percepirà in modo ancora più doloroso, perché quell’appuntamento con la lirica condiviso con tutta la città fa sentire i detenuti meno soli, parte di una collettività di cui, anche se solo per una sera, ritornano a far parte. Quando la Prima Diffusa esordì nel teatro all’interno dell’istituto penale minorile “Beccaria” nel 2016, l’impatto sui giovani detenuti fu di grande eccitazione. Poco avvezzi alla lirica, i ragazzi percepirono immediatamente la bellezza di quella Madame Butterfly e l’importanza di quello straordinario debutto nel teatro che molti di loro avevano contribuito a ristrutturare e dove molti di loro si cimentano come attori, rapper e tecnici di scena. Lisa Mazoni, che da 25 anni fa teatro con questi ragazzi, ricorda che due di loro, Fra e Tia, s’improvvisarono cantanti lirici e gorgheggiarono per tutta la sera. Incontenibili. Oltre che l’occasione per riabbracciare amici e famigliari seduti accanto a loro in platea, per qualcuno di loro la magia della Prima scaligera, che da allora si è ripetuta ogni anno, è stata anche l’occasione per lasciarsi trascinare dalla forza dirompente del teatro e immaginarsi a interpretare ruoli diversi da quello di criminale in cui sono stigmatizzati. Oggi come non mai questi ragazzi detenuti, ancora più limitati nei loro rapporti con il mondo esterno per l’emergenza sanitaria, sentiranno la nostalgia di un evento che è un ponte tra dentro e fuori. Appuntamento al 2021, allora, col rifiorire dei nostri teatri e delle nostre speranze. *Docente di Storia del teatro inglese alla Statale di Milano e artefice del progetto teatrale “La Statale al BeKKa” Fra pietas e giustizia. il confine di Manzini di Romano Montroni Corriere di Bologna, 6 dicembre 2020 Dove inizia la pietas e dove finisce la giustizia? Questo è uno dei dilemmi che attraversano il nuovo romanzo di Antonio Manzini, ispirato a un fatto realmente accaduto. Nora e Pasquale, proprietari di una tabaccheria, hanno subìto una rapina durante la quale il figlio Corrado è rimasto ucciso. La loro esistenza è distrutta da questa tragedia, che invece di unirli li ha allontanati. Una mattina, Nora incontra in treno l’assassino del figlio. Com’è possibile che dopo appena sei anni sia già in libertà? Nora non riesce ad accettare che Corrado sia morto e che a quel balordo invece sia stata data la possibilità - attraverso sconti di pena - di rifarsi una vita. Ma quale sarebbe il prezzo giusto da pagare per aver ucciso un innocente? Trent’anni di carcere all’assassino avrebbero forse reso meno amaro il dolore dei genitori? Manzini non prova a dare risposte, ma ci immerge nell’interiorità dei protagonisti per farci comprendere i loro tormenti. Antonio Manzini, “Gli ultimi giorni di quiete”, Sellerio pp. 240, 14.00. La pandemia dei numeri di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 6 dicembre 2020 Che cosa non funziona nei dati che ci stanno cambiando la vita. Dai dubbi sull’indice Rt ai posti letto negli ospedali. Dagli algoritmi sconosciuti ai trucchi per uscire dalla zona rossa. Tante cifre, ogni giorno. Ma sono quelle giuste? “Crescono i contagi, record di tamponi”. “Meno positivi, ma calano i tamponi”. “In calo i ricoveri ma sale il rapporto positivi/tamponi”. “La curva flette ma aumentano i morti”. E così via, ogni giorno da marzo. Numeri, grafici, percentuali, picchi e plateau ormai entrati nel nostro lessico famigliare, su cui si basa la strategia di sorveglianza e contenimento della pandemia. Gilberto Corbellini, docente di storia della medicina alla Sapienza, ha parlato di “entropia informativa”. La Società di statistica medica ed epidemiologia clinica di “infodemia”. Da questi numeri dipendono il nostro umore e le regole decise a livello nazionale e locale. A questi numeri abbiamo affidato le nostre vite, da ogni punto di vista: salute, lavoro, famiglia, rapporti sociali, libertà. Abbiamo fatto bene? Per capirlo, nell’ultimo mese abbiamo consultato documenti, interpellato esperti e partecipato a webinar. Cercando di capire se e quanto utili sono i dati; se sono credibili; se sono comunicati in modo trasparente e completo. Ogni giorno, intorno alle 18, decine di milioni di italiani consultano il bollettino della protezione civile. Una tabella con le regioni sull’asse verticale e i numeri su quello orizzontale. Durante il lockdown, venivano illustrati dal capo della protezione civile, Angelo Borrelli. Ora vengono diffusi via internet e rilanciati dalle televisioni. Secondo Giorgio Alleva e Alberto Zuliani, docenti universitari ed ex presidenti dell’Istat, l’istituto nazionale di statistica, “sono informazioni di tipo amministrativo per le quali non sono definite, o almeno conosciute compiutamente, le modalità di raccolta e di elaborazione”. Nel dettaglio, si tratta fondamentalmente di quattro dati. Il primo dato è il numero di tamponi effettuati: a febbraio si facevano solo a chi era stato in Cina o aveva avuto contatti con persone tornate dalla Cina; all’inizio di marzo essenzialmente ai sintomatici (febbre, tosse, mal di gola) a fini diagnostici; nella seconda metà di marzo e ad aprile per lo più ai pazienti ricoverati in ospedale; fino a ottobre soprattutto alle persone che avevano avuto contatti con positivi, a fini di tracciamento; da metà novembre non più agli asintomatici. Inoltre ogni Regione, ogni Asl, ogni medico di famiglia può decidere in autonomia. Tra il 20 e il 22 novembre, per esempio, la provincia di Bolzano ha effettuato uno screening di massa con test rapidi su 343.227 persone, il 61,9% della popolazione locale. Talvolta ci sono linee guida, ma non cogenti. Generalmente sulle disposizioni generali prevalgono le esigenze operative: capacità di effettuare e processare tamponi, disponibilità di personale, dotazione di reagenti, efficienza dei dipartimenti sanitari, difficoltà amministrative nella gestione delle richieste. Il secondo dato è il numero di soggetti risultati positivi al test. Talvolta però si tratta di secondi o terzi tamponi. La prassi, almeno fino a qualche settimana fa, era di fare un tampone “di uscita” dopo 14 giorni per certificare la guarigione e la fine dell’isolamento domiciliare. Per non dire delle categorie (medici, sportivi) che si sottopongono a tamponi periodici. L’ospedale Sacco di Milano, a ottobre, aveva stimato un 15% di casi di positività riferiti a persone che facevano tamponi di controllo. Parlando in Senato il 10 novembre, Nino Cartabellotta, presidente della fondazione indipendente Gimbe, ha detto che “nelle ultime settimane il 40% dei tamponi sono di conferma”. Inoltre gli esiti dei tamponi sono legati ai gruppi selezionati, cambiati nel corso dei mesi. Per esempio si decide di testare gli anziani nelle Rsa (residenze sanitarie) oppure no? Si testano a tappeto i medici di base oppure no? Cosicché confronti corretti del tasso di positività nel tempo e nello spazio risultano impossibili. Il terzo dato è il numero di ricoverati, divisi tra area medica e terapia intensiva. Il quarto dato è il numero di morti. Secondo Alleva e Zuliani, i dati giornalieri servono a poco. Sarebbe meglio, almeno per tamponi e positivi, riferirsi a intervalli di tempo più lunghi, “eliminando fluttuazioni che danno adito a letture di accelerazioni inattese o di rallentamenti agognati dei contagi”. C’è un altro problema. Tutti questi dati sono aggregati e “non più sufficienti per rendere trasparente il meccanismo decisionale del governo e la comprensione scientifica dell’evoluzione della pandemia”, scrive la Società italiana di statistica in una petizione al governo. Secondo Alfio Quarteroni, matematico del Politecnico di Milano, più i dati sono aggregati meno sono utili “per stabilire relazioni causali e prendere decisioni razionali”. Per esempio sulla scuola, chiusa o aperta senza sapere “quanti sono i contagiati e quale il tasso di contagiosità”. Piuttosto servirebbero i cosiddetti “dati elementari”, disaggregati, per ogni contagiato: età, genere, localizzazione, patologie pregresse, professione, data di primi sintomi, data di tampone, data di ricovero, evoluzione clinica, data di guarigione o morte. Un esempio di dato aggregato riguarda le terapie intensive. Il bollettino giornaliero ci dice il saldo di posti letto occupati, ma non quanti pazienti entrano e quanti escono, e perché. Il primo dato ci servirebbe per capire se i provvedimenti restrittivi funzionano, perché sappiamo che in media si va in terapia intensiva a dieci giorni dal contagio. I ricoveri possono diminuire perché si cura meglio sul territorio o perché non ci sono più letti disponibili e si lasciano i pazienti a casa (come a marzo); le uscite possono aumentare perché le terapie sono più efficaci o perché il sistema ospedaliero collassa, moltiplicando i decessi. Paradossalmente, più pazienti muoiono più i letti si svuotano e il saldo giornaliero sulle terapie intensive diventa positivo. Dal 30 aprile il monitoraggio dell’epidemia è affidato a 21 indicatori concordati da governo e Regioni, sulla cui base da novembre le regioni sono periodicamente classificate con tre colori - giallo, arancione, rosso - corrispondenti ad altrettanti scenari di rischio, con crescenti misure restrittive. Gli indicatori (tra cui contagi, focolai, ricoveri, posti letto, tamponi, terapie intensive e l’ormai famoso Rt, l’indice di trasmissione) servono a capire come e quanto circola il virus, come le Regioni riescono a diagnosticare e tracciare i casi, qual è la tenuta degli ospedali. Il governo non possiede numeri propri. Le Regioni censiscono i dati e li condividono con la cabina di regia, un organo misto con rappresentanti del ministero e delle Regioni. La cabina di regia li elabora sulla base di un algoritmo previsto dal decreto di fine aprile. Quindi li rimanda alle Regioni per un’ulteriore validazione. Poi l’Istituto superiore di sanità li elabora classificando le regioni su base cromatica e stabilendo il “livello di rischio e resilienza”. Il 4 novembre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte definisce il nuovo meccanismo “la bussola che ci indica dove intervenire”. Nei giorni successivi, non appena applicato, le Regioni lo contestano. Il 9 novembre gli esperti della cabina di regia ammettono la necessità di una “verifica”. Lo stesso giorno il comitato tecnico-scientifico, l’organo di consulenza del governo sull’epidemia, parla di “criticità” e chiede di “rivedere e riconsiderare alla luce dell’evoluzione epidemica attuale la valenza degli originali 21 indicatori”, focalizzandosi su posti letto disponibili, terapie intensive e indice di trasmissione Rt ed eliminando, per esempio, la situazione nelle residenze per anziani. Il 14 novembre Fabio Ciciliano, dirigente medico della polizia e membro del comitato tecnico-scientifico, dichiara: “La complessità dei dati che le Regioni trasmettono in tempi diversi rende articolata l’analisi dei parametri di monitoraggio. Alcuni dei 21 indicatori, concepiti in aprile in un periodo completamente diverso, rischiano di rallentare il processo di analisi e le conseguenti azioni da mettere in atto potrebbero risultare tardive”. Nei giorni successivi Regioni chiedono al governo di ridurre gli indicatori da 21 a 5. Il governo si rifiuta. Sin dai primi giorni di applicazione del meccanismo, è emersa la difficoltà di ottenere dati aggiornati, attendibili e confrontabili. Non esiste una piattaforma comune di raccolta e gestione dei dati. Ogni Regione utilizza formati e modalità differenti. A marzo si utilizzava il telefono, ora si è passati a fax, mail e fogli excel per passarsi i dati, che prima di essere inviati a Roma devono essere convogliati da medici di base, Asl e laboratori sia pubblici che privati. Quindi a Roma bisogna riversare tutti i numeri su un software unico. Il che spiega come mai, nei bollettini della protezione civile e nei report dell’Istituto superiore di sanità, talvolta manchino i dati di una regione o di alcune province. Oppure ci sono, ma non coincidenti. La prima suddivisione cromatica dell’Italia (regioni gialle, arancioni e rosse) è stata decisa il 3 novembre ed è entrata in vigore il 6 novembre sulla base dei dati relativi alla settimana 18-25 ottobre. Vecchi di almeno dodici giorni, nonché indifferenti agli effetti dei tre precedenti Dpcm. Quello del 13 ottobre, sulle mascherine obbligatorie; quello del 20 ottobre, su feste e movida; quello del 24 ottobre, su bar e ristoranti, piscine, palestre, cinema, teatri. Provvedimenti di cui non conosceremo mai l’effettiva utilità, perché prima che dispiegassero i loro effetti (secondo gli epidemiologi, almeno due settimane) sono stati superati dalle nuove regole, con la suddivisione cromatica delle regioni, stabilite su dati precedenti agli stessi Dpcm. Gli esperti hanno sottolineato subito le incongruenze del sistema a tre colori. Alcuni parametri sono apparsi sovrabbondanti e “molti sono avvolti nella nebbia più fitta. L’aspetto più sconcertante è che non conosciamo il peso di ciascun parametro rispetto al totale”, dice Francesco Broccolo, ricercatore di microbiologia all’università di Milano Bicocca. Il quale definisce “incomprensibile” il fatto che la Calabria sia zona rossa e la Campania gialla, dal momento che la saturazione delle terapie intensive è più drammatica in Campania (35% contro 30%). E nell’ultima settimana (26 ottobre-1 novembre) l’Rt medio era analogo. Ma la classificazione è basata sui dati della settimana precedente (19-25 ottobre), in cui l’Rt della Campania era a 1,29 e considerato “in diminuzione”, anche se già si conoscevano i dati della settimana successiva, in cui era risalito. Un sistema basato su 21 parametri funziona se il flusso di dati è tempestivo e qualitativamente omogeneo. Mentre divide le regioni secondo la scala cromatica di rischio, lo stesso Istituto superiore di sanità ne dubita, certificando che 5 Regioni su 20 non rispettano le regole. Dei dati della Campania, consegnati in ritardo, scrive che “non sono affidabili, perché è stato rilevato un forte ritardo di notifica dei casi che potrebbe rendere la valutazione meno efficace”. Il ministero della Salute manda gli ispettori in Campania, ma dell’esito degli accertamenti non ha dato notizia. “Falsificare i dati sarebbe un reato grave”, dice il ministro della Salute Roberto Speranza. Almeno quattro Procure aprono inchieste sulla correttezza dei dati regionali. “Incompletezza dei dati” anche in Provincia di Bolzano (che poi si autoproclamerà zona rossa) e in Liguria, dove il governatore Giovani Toti non esclude “un errore materiale”. In Veneto i principali parametri di rischio sono considerati “non valutabili” e “si rischia di sottostimare l’indice Rt per carenza di dati”, addebitata dai tecnici della Regione a “un blackout telematico di tre giorni” e dal governatore Luca Zaia a “un inghippo informatico, è sempre un casino con questi computer”. Nonostante ciò vanno tutte in fascia gialla, mentre la Valle d’Aosta in quella rossa perché per tre settimane non ha inviato dati completi. “Anche a noi ha lasciato un po’ perplessi la classificazione di alcune regioni”, scrive il collettivo di ricercatori StatGroup-19, nato spontaneamente per studiare l’epidemia. Sulle terapie intensive non esiste un protocollo comune, per cui la Calabria può scorporare i pazienti “ventilati” ma non “intubati” dal calcolo dei posti occupati in terapia intensiva, abbassando il dato da 14 a 2. “Abbiamo forti dubbi quando vediamo inseriti posti letto che vorrebbero rassomigliare a una terapia intensiva ma sono diversi gradini sotto. Mettere un ventilatore e un monitor accanto a un letto non basta”, dichiara il 23 novembre Alessandro Vergallo, presidente nazionale Aaroi-Emac, il sindacato dei medici di anestesia e rianimazione. In diverse regioni ci sono polemiche sul computo di posti letto “attivabili” ma non “attivati”, oppure pronti quanto a dotazione tecnica (letto, monitor…) ma inutilizzabili per mancanza di medici e infermieri. In Sicilia, catalogata zona arancione anziché rossa, ai manager degli ospedali è arrivato un messaggio audio da Mario La Rocca, dirigente generale dell’assessorato alla Salute: “Caricate i posti, non sento cazzi. Oggi faranno le valutazioni e in funzione dei posti letto in terapia intensiva decideranno in quale fascia la Sicilia risiede”. Secondo il Cimo, sindacato dei medici, i posti letto in terapia intensiva sarebbero 572 e non gli 817 “caricati” dalla Regione. Il ministero ha avviato un’ispezione affidata ai carabinieri dei Nas (Nuclei anti sofisticazioni). Nei giorni successivi alla classificazione, il balletto dei dati prosegue. La cabina di regia per valutare i 21 parametri regionali sui dati relativi alla settimana 26 ottobre-1 novembre viene convocata sabato 7 novembre. Sabato viene spostata a domenica alle 15. Domenica mattina viene posticipata alle 16. Alle 14 viene rinviata a lunedì perché nove regioni non hanno mandato i dati. Il report dell’Istituto superiore di sanità conferma che i dati continuano ad arrivare in ritardo. “Escludo il dolo. Quando il carico dei dati è pesante, ci possono essere difficoltà”, commenta il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro il 5 novembre, presentando il monitoraggio. In un webinar della Società italiana di statistica, ha ammesso che “la filiera Asl-Regioni-ministero-Istituto superiore di sanità funziona se la collazione dei dati è basata su standard omogenei, digitalizzata e completa”, ma in realtà avviene ancora “in modo cartaceo o semiautomatico”. E talvolta non avviene affatto. Per esempio i medici di famiglia sarebbero le più capillari e tempestive sentinelle dell’evoluzione dell’epidemia, perché sono i primi a riscontrare la diffusione dei sintomi e quindi dei contagi. Infatti le tendenze rilevate empiricamente e condivise nelle chat dai medici di base anticipano i dati ufficiali almeno di una settimana. Per questo la Società italiana di statistica aveva proposto di utilizzarli. Impossibile: i dati dei medici di base si fermano alle Asl e da lì non possono uscire per problemi di privacy. Da marzo si sarebbe potuta approvare una norma per superare l’ostacolo, ma non si è fatto. Quanto ai dati ospedalieri, sarebbero utilizzabili in tempo reale se fossero informatizzati. La cartella sanitaria elettronica, benché prevista tra i Lea (i livelli minimi di assistenza previsti per legge come obbligatori), in molte regioni è un miraggio. “Eterogeneo livello di informatizzazione” e “assenza di procedure che consentano l’armonizzazione dei dati clinici digitali tra reparti e Asl hanno reso difficoltosa la raccolta e arbitrario l’uso dei dati”, scrive la Società di statistica medica ed epidemiologia clinica. Secondo Corrado Crocetta, docente all’università di Foggia e presidente della Società italiana di statistica, “i dati sono potere” e così si spiega la ritrosia a condividerli, servendosi di “foglie di fico” come le difficoltà tecniche e la privacy. Allegoria del buco di dati sul Covid secondo il blog di scienziati scienzainrete.it, usando Linea di Osvaldo Cavandoli Dolo o no, il problema è l’affidabilità dei dati. A metà novembre, mentre ovunque i dipartimenti di prevenzione delle Asl sono in tilt, alcune Regioni sostengono di garantire il tracciamento del 90% dei positivi, il che abbassa il rischio e scongiura la classificazione come zona rossa. Anche i dati su tamponi e casi positivi non sono omogenei. Il tasso di positività (percentuale di positivi sui soggetti testati) dipende da molti fattori. Alcune regioni testano gli asintomatici, altre no. Alcune conteggiano, oltre ai tamponi molecolari, i test antigenici. Il che può far dimezzare il tasso di positività, come ha detto il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, definendo la classificazione in zone “una buffonata”. Peraltro non sappiamo a quando si riferiscono i dati dei tamponi. In Germania il sistema sanitario garantisce tre giorni tra richiesta e referto. In Italia la media è otto giorni ma ormai ogni Regione si arrangia come può. I social network grondano testimonianze di persone pur sintomatiche che hanno atteso invano il tampone per settimane. Quanti positivi del bollettino odierno sono già usciti dall’isolamento domiciliare? Impossibile dirlo. “I dati lasciati a loro stessi fanno danni, non fotografano la realtà ma l’efficienza dei nostri sistemi di monitoraggio”, hanno scritto il ricercatore del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche), Fabrizio Bianchi, e il direttore del blog scienzainrete.it, Luca Carra. Eppure così, all’inizio di novembre, siamo stati divisi in regioni gialle, arancioni e rosse. E sempre così alla fine di novembre abbiamo fatto il percorso inverso. Sebbene soltanto 2 regioni su 20 siano sotto la soglia di allerta del 30% di occupazione dei posti in terapia intensiva, le misure restrittive vengono allentate. La motivazione è che l’indice Rt è sceso ovunque. Ormai l’indice Rt lo conosciamo: ci dice quante persone infetta un infetto. Se superiore a 1, significa che il contagio aumenta. Se inferiore, che rallenta. Ma come viene calcolato e che valore ha l’indice Rt? Secondo Enrico Bucci, biologo della Temple University di Philadelphia, essendo “calcolato sui sintomatici, con ritardo di due settimane e senza tener conto dei ritardi di trasmissione, è una fandonia”. Anche il collettivo di ricercatori StatGroup-19 ha da ridire: “La Valle D’Aosta riporta un Rt che è compreso tra quasi zero e circa 4, il Molise tra meno di 1 e quasi 3,5”, scrive dopo il primo monitoraggio. Forchette troppo ampie, considerando che secondo l’Istituto superiore di sanità bastano un paio di decimali in più o in meno per cambiare colore. Consideriamo Lombardia e Piemonte, le regioni con i più alti tassi di saturazione ospedaliera e i più bassi tassi di identificazione delle catene di contagio. Il 6 novembre, sulla base dei dati rilevati nel periodo 19-25 ottobre, diventano zona rossa. Il 14 novembre, illustrando i dati del periodo 2-9 novembre, il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro annuncia che l’indice Rt, dopo aver sfiorato il valore 2, è sceso in Lombardia a 1,46 e in Piemonte a 1,31. Quindi potrebbero diventare arancioni, se non fosse che il Dpcm prevede una immutabilità cromatica, almeno al ribasso, di almeno due settimane. Nello stesso giorno in Lombardia le terapie intensive sono piene al 58% (soglia critica 30%) e i reparti di area medica al 48% (soglia critica il 40%). In Piemonte i dati sono 59% in terapia intensiva e addirittura 92% in area medica. Il 15 novembre la Toscana diventa zona rossa. Il governatore Eugenio Giani si dice “sorpreso e amareggiato, perché i dati sono migliorati rispetto a una settimana fa”. In effetti negli ultimi giorni i contagi sono passati da 2700 a 2000, il rapporto contagi-tamponi dal 16% al 13%. Tutto si spiega con il fatto che le decisioni di oggi vengono prese su dati comunicati 10 giorni fa relativi a tamponi effettuati 20 giorni fa su persone che hanno contratto l’infezione un mese fa. È il motivo per cui Cartabellotta paragona l’indice Rt “a uno specchietto retrovisore”, mentre servirebbe “un binocolo”. In un articolo pubblicato su scienzainrete.it e intitolato “La curiosa attrazione verso l’indice Rt”, Guido Sanguinetti, professore di fisica alla Scuola internazionale di studi superiori avanzati di Trieste, scrive che “l’Rt è certamente un indice molto importante: se maggiore di 1 ci troviamo di fronte a una crescita esponenziale, ed è doveroso intervenire per fermare l’epidemia. Ma non può essere il solo criterio adottato per rimuovere restrizioni: infatti, quale che sia l’indice Rt, se il numero di infezioni è troppo alto per permettere un’attività di tracciamento efficace, rimuovere le restrizioni condurrà inevitabilmente alla ripartenza dell’epidemia. In sintesi, l’Rt è un indice importante per decidere quando chiudere, ma è del tutto irrilevante per decidere quando riaprire”. Un dettaglio tecnico, ma decisivo, è che in Italia l’indice Rt si calcola solo sui pazienti sintomatici. Con effetti paradossali, che penalizzano le regioni più virtuose. Come ha rilevato Stefania Salmaso, ex direttrice del centro nazionale di epidemiologia dell’Istituto superiore di sanità, “alcune regioni hanno registrato l’inizio sintomi nel 40% dei casi e sono gialle, altre nel 90% e sono arancioni, perché il dato serve a calcolare l’Rt”. All’inizio di novembre, quando si valuta per la prima volta la classificazione delle regioni, la Campania resta gialla anche per l’alto tasso di asintomatici, che abbassa l’Rt come in Toscana. La Liguria riesce a indicare la data di inizio sintomi nel 49,4% dei casi, l’Umbria nel 18%. Per l’Istituto superiore di sanità scatta l’allerta sotto il 60%, con “rischio di sottostima dell’Rt”. Eppure tutte queste regioni vengono classificate gialle, salvo diventare arancioni dopo meno di una settimana. E tornare gialle a fine novembre. Il 27 novembre, sulla base dei dati riferiti al periodo 16-22- novembre, l’Istituto superiore di sanità scrive che ci sono ancora dieci regioni “classificate a rischio alto di trasmissione”: Abruzzo, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Provincia di Bolzano, Puglia, Sardegna, Toscana e Calabria. Quest’ultima giudicata “non valutabile” per l’inaffidabilità dei dati che fornisce e quindi equiparata automaticamente a rischio alto. Eppure la nuova ordinanza del ministero stabilisce il passaggio di Calabria, Lombardia e Piemonte da rosso a arancione; Liguria e Sicilia da arancione a giallo. Il 29 novembre In Lombardia e Piemonte riaprono i negozi e cessano le limitazioni di spostamento. Due giorni dopo l’Agenas (Agenzia per i servizi sanitari regionali) certifica che entrambe hanno un tasso di occupazione delle terapie intensive del 60%, doppio rispetto alla soglia di allarme; quanto agli altri reparti, la Lombardia è al 49%, il Piemonte all’80% (soglia di allarme 40%). Anche la Liguria ha ospedalizzazioni oltre la soglia di allarme, ma riapre bar e ristoranti a pranzo. All’Immacolata di rosso resterà solo l’Abruzzo e 32 milioni di italiani abiteranno in zona gialla. A metà dicembre saranno 50 milioni. A Natale, tutta l’Italia sarà zona gialla. È già tutto scritto, perché le decisioni si basano su dati vecchi. Anche se negli stessi giorni il ministro Speranza dice che non siamo ancora a una “gestione sostenibile dell’epidemia”. Secondo Stefano Merler, epidemiologo della fondazione Bruno Kessler, la sostenibilità dipende da un numero di casi non superiore a 10mila al giorno. Si è scelto di cambiare le regole con più del doppio di contagi e quasi mille morti al giorno. Secondo il fisico Sanguinetti, l’allentamento delle misure dovrebbe piuttosto dipendere da altri fattori, legati all’organizzazione e all’efficienza del sistema sanitario: adeguatezza dei servizi di tracciamento, tempestività diagnostica, capacità di cure sia domiciliari che ospedaliere. “L’indice Rt ha ricevuto un’attenzione spropositata negli ultimi tempi: è stato più volte criticato per le stime inaffidabili (certamente un problema, soprattutto quando i casi sono pochi), ma in ogni caso è stato seguito e monitorato come se fosse l’unico numero da cui dipende la nostra sorte. Questa ossessione è perniciosa”. Se si sceglie di gestire la pandemia affidandosi ai numeri, occorre che siano precisi, omogenei, aggiornati e condivisi. In Italia lo sono? Gli esperti sostengono di no. “Stiamo affrontando la pandemia con gli strumenti della peste del Manzoni” (Corrado Crocetta, statistico, università di Foggia), “con una benda sugli occhi” (Fabio Sabatini, economista, università La Sapienza), “come mosche accecate” (Enrico Bucci, biologo, Temple University di Philadelphia). Nella conferenza stampa del 4 novembre, il premier Conte aveva preso un impegno: “Ho chiesto al ministero della Salute e anche al direttore dell’Istituto superiore di sanità di condividere i dati del monitoraggio. Vogliamo che siano accessibili alla comunità scientifica e a tutti i cittadini”. Il 6 novembre, sul sito datibenecomune.it, 156 associazioni (tra cui Coscioni, Gimbe, Open Polis, Legambiente) hanno lanciato una petizione, firmata da 40 mila persone, per chiedere “dati pubblici, disaggregati, continuamente aggiornati, ben documentati e facilmente accessibili a ricercatori, decisori, media e cittadini”. Il 10 novembre il ministero della Salute ha pubblicato per la prima volta l’aggiornamento dei 21 indicatori, ma non disaggregati e in un formato elettronico chiuso, che ne impedisce un uso immediato da parte degli studiosi. Successivamente il governo si è impegnato a condividere tutti i dati con l’Accademia dei Lincei, il cui presidente, il fisico Giorgio Parisi, da giugno aveva promosso un appello in tal senso. L’impegno ha prodotto una convenzione ma, finora, nulla di concreto è accaduto. Fonti riservate spiegano che non è ancora noto come e quando i primi dati potrebbero essere condivisi. Per questo il 26 novembre l’associazione Luca Coscioni ha lanciato CovidLeaks, una piattaforma di segnalazioni che protegge l’identità del mittente, “finalizzata a portare alla luce i dati sul coronavirus”. Gli ex presidente dell’Istat Alleva e Zuliani pensano però che il dato più importante per controllare e gestire l’epidemia non lo conosciamo e non lo conosceremmo comunque. Si tratta del tasso di contagio sulla popolazione, rilevato con cadenza settimanale o bisettimanale. “Sembra incredibile, ma a otto mesi dai primi casi non si conosce e quindi non si può tenere sotto controllo”. Testare 60 milioni di italiani in un dato momento è impossibile. Ma grazie alla statistica sapere quanti italiani sono stati contagiati in un dato momento non è impossibile. Alleva e Zuliani hanno proposto, mesi fa, un sistema di monitoraggio su vari livelli: un campione generale di almeno 10mila italiani per conoscere con cadenza settimanale tasso di contagio ed evoluzione dell’epidemia quanto a sintomi, tipo di assistenza, eventuale ricovero, guarigione o morte, patologie pregresse, tutto diviso per età e genere; un altro campione di alunni e professori per verificare il contagio nel sistema scolastico; un database in tempo reale su terapie intensive e sub-intensive con tassi di saturazione, letalità, guarigioni, degenza media; un’analisi scorporata sulla tipologia di sintomi. Qualcosa si era cominciato a fare dopo il lockdown, con la rilevazione svolta da ministero e Istat fra giugno e agosto. Ma l’indagine si è basata solo su 64.660 rilevazioni, anziché sulle 150.000 programmate. Meno della metà delle persone selezionate nel campione, con conseguente aumento del margine di errore. Un altro elemento distorsivo è stato l’elevato rifiuto a partecipare all’indagine, che “sporca” il campione. “Ci sono state carenze organizzative”, spiegano i due ex presidenti dell’Istat. Primo errore: non coinvolgere i medici di base, perché “un conto è essere contattati dal proprio medico, altro telefonicamente da un ignoto incaricato della Croce Rossa”. Secondo: non imporre l’obbligo di risposta almeno al questionario e non sollecitare fortemente l’adesione al test, considerata la rilevanza dell’indagine per la salute della popolazione. Terzo: non prevedere le possibili resistenze, anche legittime. Un esempio per tutti: se positivi al test sierologico, si doveva fare anche il tampone e nell’attesa dell’esito astenersi dal lavoro. Sarebbe stato opportuno prevedere che i giorni di mancata attività fossero considerati assenza per malattia nel caso di lavoro dipendente. Quarto: non lanciare una massiccia campagna di comunicazione pubblica (spot, dichiarazioni istituzionali, testimonial) in modo da introiettare nell’opinione pubblica l’importanza del contributo individuale al contrasto dell’epidemia. Concludono Alleva a Zuliani: “Il coordinamento istituzionale è parso svogliato. L’indagine è sembrata più “sopportata” che voluta, sottovalutandone l’importanza”. Nonostante ciò, i risultati sono stati interessanti. Le persone che hanno sviluppato gli anticorpi prima di giugno-luglio sono state stimate in 1.482.000, il 2,5% della popolazione residente in famiglia. Sei volte più del totale dei casi intercettati ufficialmente con i tamponi. Se l’indagine fosse stata portata avanti, o se la proposta di Alleva e Zuliani fosse stata ascoltata, non avremmo azzerato le incertezze che il contenimento di un virus sconosciuto inevitabilmente comporta. Ma avremmo più informazioni, e più affidabili dei fax stropicciati e dei fogli excel incompleti, per fare quello che il professor Crocetta chiama “fine tuning”. Una sintonia fine delle regole, dei divieti, dei comportamenti. Invece siamo ancora prigionieri dell’alternativa del diavolo chiudere tutto/aprire tutto. Pandemia. La lotta di classe a colpi di virus di Marco Revelli Il Manifesto, 6 dicembre 2020 Che il virus, come la sfortuna, non fosse cieco, anzi ci vedesse benissimo - che fosse dotato di una solida coscienza di classe alla rovescia, colpendo molto più duro in basso che in alto -, l’avevamo capito. E fin dalla prima ondata. Ce lo dicevano le mappe più che non le tabelle dell’Iss, quelle (poche, purtroppo, ma eloquentissime) con la distribuzione dei contagi per quartieri nelle grandi città, con le Ztl (Parioli a Roma, Crocetta e Centro a Torino, Magenta e Sempione a Milano) quasi risparmiate dal morbo e quelle periferiche (l’oltre raccordo anulare, le barriere, l’aldilà del cerchio dei viali) flagellate. Ora lo certifica anche il Censis, rivelando che ne è consapevole il 90,2% degli italiani. L’epidemia ha scavato voragini negli strati popolari, sia sul piano del bios, nella nuda vita, considerata spesso vita di scarto, comandata al lavoro quando le fasce alte si difendevano col lockdown, costretta a elemosinare un posto sempre più raro in terapia intensiva mentre per gli altri c’era il reparto “Diamante” al San Raffaele; sia sul piano dell’oikos ovvero dell’”economia domestica” dove le misure anti-contagio (certo sacrosante) hanno operato con effetti inversamente proporzionali alla collocazione lungo la piramide sociale: tanto più duramente quanto più fragili erano le figure colpite. Fino ai penultimi, i lavoratori marginali, le categorie deboli della manifattura e soprattutto dei servizi, quelli a tempo determinato, delle imprese piccole e piccolissime, che temono ad ogni scadenza la “discesa agli inferi della disoccupazione” (è già toccato a 400.000 di loro). E gli ultimi, i precari, quelli della “gig economy”, del lavoro a giornata (“casuale” lo chiama il Censis), del sommerso e del nero, quelli che, appunto, se non lavorano non mangiano perché non hanno cuscinetti di grasso messi da parte per i tempi difficili per la semplice ragione che non hanno mai vissuto “tempi facili”. Se va bene ricorreranno al silver welfare offerto da nonni o genitori pensionati, altrimenti saranno soli a contendersi un reddito di cittadinanza benedetto ma avaro. Sono un esercito questi “ultimi”. 5 milioni, calcola il Censis, che aggiunge che “hanno finito per inabissarsi senza rumore” (e l’espressione mette i brividi). Ma accanto a questi “sommersi” ci sono anche, sia pur molto ma molto meno numerosi, i “salvati”. Quelli che dalle ricadute economiche della pandemia sono stati meno danneggiati. O che addirittura ne sono stati avvantaggiati. Quel 3% di italiani che guadagnano più di 1 milione di dollari (sic) l’anno e possiedono il 34% della ricchezza nazionale - compresi i 40 miliardari che da soli monopolizzano 165 miliardi - non hanno subito decurtazioni. Anzi, annota il Censis, “sono aumentati sia in numero che in patrimonio durante la prima ondata dell’epidemia”. È tutta qui la “questione italiana”: in questa spaccatura orizzontale tra una “una società sfibrata dallo spettro del declassamento sociale”, da una parte, e un ristretto ceto possidente irresponsabile e avaro, pronto ad alzare barricate alla sola parola “tassa patrimoniale” e a rivendicare per sé - pensiamo alle raffiche di esternazioni di Carlo Bonomi - tutto, comprese le briciole contese alle deprecate e “improduttive” misure “assistenziali”. Non la falsa contesa tra “garantiti” e “non garantiti” (a cui comunque pare credere l’85% degli intervistati) ma quella, ben più strutturale, e reale, tra ricchi e poveri. I primi, sempre più esclusivi e chiusi, i secondi sempre più numerosi e dimenticati. Per questo le raccomandazioni del Censis, secondo cui si imporrebbe “un ripensamento strutturale per la ricostruzione” e la messa in campo di un “progetto collettivo che spazzi via la soggettività egoistica e proterva in cui per decenni abbiamo creduto”, appaiono sacrosante. Ma poco suscettibili di ascolto da parte di un ceto di decisori pubblici che nella sua grande maggioranza, trasversalmente agli schieramenti politici, appare sordo e cieco (anche se purtroppo mai muto). Lo stesso Governo Conte, che a mio avviso aveva operato relativamente bene nel corso della prima ondata, tenendo ferma l’istanza prioritaria della salvaguardia sanitaria, nella transizione estiva si è arreso ai “vizi strutturali” del Paese - per paura delle voci grosse dei negazionisti, dei confindustriali, degli zangrilli e degli sgarbi quotidiani e dei briatori smargiassi - privilegiando la ricchezza sulla miseria, l’economia sulla salute, le discoteche sugli ospedali, i bonus vacanze sul reclutamento del personale medico e paramedico… Lo si sapeva da subito che la seconda ondata ci sarebbe stata e sarebbe stata peggiore. Lo dicevano scienziati e ministri. Eppure si è arrivati a ottobre con i trasporti immutati, la sanità territoriale scassata come prima, il personale ospedaliero insufficiente, un welfare allo sbando secondo i vecchi, devastanti dogmi neoliberisti. Potremmo concludere che questo è davvero, come diceva Norberto Bobbio, un paese “irredimibile”. O che comunque, a redimerlo, toccherà a ognuno di noi, con spirito ferocemente eretico. Droghe e ragazzi, Milano doppia la media: cannabis, spice, psicofarmaci per un 15enne su 5 di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 6 dicembre 2020 Giù l’età anche dei pusher. La micro criminalità li arruola per strada, i genitori non riescono a cogliere in tempo i segnali di devianza, la didattica da remoto. Episodi di violenza e di droga, protagonisti: i ragazzini. Paiono scenari lontani ma non lo sono: la micro criminalità li arruola per strada, i genitori non riescono a cogliere in tempo i segnali di devianza, la didattica da remoto - simulacro della scuola vera - allontana anche i professori. Davanti all’ultimo fatto estremo (due giovanissimi a Monza hanno ucciso il loro pusher), i dati Espad del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifc) offrono una chiave di lettura. “Per i consumi di sostanze lo scarto tra Milano e il resto d’Italia cresce man mano che scende l’età. Con i quindicenni arriviamo ad essere molto sopra la media regionale e nazionale”, avverte la studiosa Sabrina Molinaro. Si stima che su 31 mila quindicenni 5 mila facciano uso frequente di cannabis, 2.300 di psicofarmaci (Rivotril o Xanax), quasi mille di cannabinoidi sintetici (Spice) e oltre 400 di stimolanti (Speed, Smart drugs, Ketamina, Metamfetamine). “In altre periferie d’Europa la rabbia dei ragazzini è su larga scala e ormai è diventata grave problema di ordine pubblico. Milano spesso anticipa tendenze nel bene e nel male ma noi continuiamo a non vederli: ragazzi invisibili finché non esplode il fatto di cronaca - osserva Ciro Cascone, procuratore capo del Tribunale per i minorenni. Noi adulti dobbiamo insistere, cogliere ogni occasione per prevenire ed educare”. Secondo Mara Gonevi, responsabile dello Spazio Blu, servizio dell’Asst Santi Paolo e Carlo dedicato ai minori che consumano e hanno a carico un procedimento penale, “in questi mesi di lockdown è calato l’abuso di alcol mentre l’uso di sostanze, per forza non legato al contesto sociale, diventa curativo, colma ansie e senso di vuoto”. È una crisi di valori, anche: “Sempre più ragazzini spacciano, arruolati per strada da pusher appena più grandi. Abituati ad avere tutto e subito si sballano con più sostanze e davanti alla frustrazione, si trincerano dando la colpa a un altro. Ma quando apri loro la porta piangono come bambini piccoli”, sostiene Simone Feder, responsabile settore dipendenze della comunità Casa del giovane e in prima linea al boschetto di Rogoredo. Conferma Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento interaziendale Dipendenze dell’Asst Santi Paolo e Carlo: “Si parlava di bamboccioni, qui siamo di fronte a un fenomeno inverso. Ragazzini adultizzati, che crescono troppo in fretta e senza riuscire a validare modelli diversi da quelli di certe serie tv e certe canzoni trap”, ragiona. Interviene don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria che alla comunità Kayròs ospita tra l’altro i noti rapper Sacky e Baby Gang, raggiunti da denuncia per istigazione alla violenza legata a una canzone in cui si evocano armi e droga nel contesto di una periferia lombarda. “È chiaro che facendo musica vista da migliaia di ragazzini hanno una responsabilità nei confronti dei loro follower, ma sfogano la loro rabbia cantando invece che commettendo reati, è una forma di elaborazione - ragiona don Burgio -. Non credo che a suon di denunce riusciremo a calmare l’ira di questi ragazzi e ad aiutarli a strutturare percorsi più riconciliati con il mondo adulto. Nelle canzoni raccontano, come tanti altri, un contesto di forte devianza. Senza ipocrisie, è esattamente quello che loro hanno visto e vissuto e che anche noi dobbiamo imparare a guardare”. Egitto. Giulio Regeni, l’ora della speranza di Luigi Manconi La Repubblica, 6 dicembre 2020 Questa è una storia italiana, italianissima, ma così profondamente calata nella contemporaneità del mondo da far provare le vertigini. Ed è una storia, quella di Giulio Regeni, dai tratti tradizionali e talvolta remoti, che pure precipita in un cupo scenario post-moderno: quello delle infinite guerre regionali. Una storia che muovendo da un paese da presepe fin nel nome, Fiumicello, e dalle sue 4.715 anime, vola verso gli Usa poi in Inghilterra e infine in Nord Africa, senza mai staccarsi da quel “piccolo mondo antico”. Quel mondo è una sorta di “distretto del pattinaggio a rotelle”: e cosa c’è di più italiano? Arrivate in un borgo dell’Umbria o in una cittadina pugliese, o in un comune piemontese e scoprite che lì si producono i ricami più contesi dalle maison parigine; o “le castagne più buone del mondo”, ed è vero! O ancora le componenti dell’auto, destinate all’industria giapponese. A Fiumicello, per chissà quale vocazione antropologica o retaggio genetico, si trovano i campioni e le campionesse del pattinaggio a rotelle: il gruppo Diamante nel 2019 è stato campione nazionale. E in passato, per due volte, medaglia di bronzo ai Mondiali. Irene Regeni, sorella di Giulio, è campionessa di pattinaggio artistico e ora segue un brillante corso di studi all’estero. Chissà se quella disciplina sportiva, che unisce all’agilità e alla rapidità del corpo l’uso della prima tecnologia, la ruota, può dirci qualcosa di un paese e di una famiglia, quella di Paola Deffendi e Claudio Regeni, che sanno muoversi così intelligentemente tra comunità locale e dimensione globale. La comunità, l’ho vista più volte in questi anni, e sembrava che la retorica di circostanza (“tutto il paese è con loro”), per una volta fosse una realtà autentica, in quelle notti di fine gennaio trapuntate di fiaccole e la cittadinanza intorno ai familiari. Questa, infatti, è anche una storia dai contorni, oso dire, positivi, pur in un quadro di mero orrore. E con tante persone belle. Lo dico subito, è possibile che a me appaiano tali perché ne ho condiviso da non troppo lontano lo strazio. E perché anch’io ho visto in loro la possibilità di riscattare un oltraggio così ignominioso, al punto da farmele immaginare come tutori di un onore perduto davanti alla sopraffazione di un regime dispotico. Qui sta l’errore: loro sono e chiedono di essere semplicemente la madre, il padre, la sorella di Giulio e non i sostituti di una politica pusillanime. Tuttavia, continuiamo ad attribuire al loro dolore il senso generale di una lotta per la verità e la giustizia. È inevitabile per certi versi che sia così, perché quei familiari, come altri familiari di altre vittime, hanno rinunciato a vivere il lutto nell’intimità più profonda, affinché esso diventasse patrimonio collettivo e questione pubblica. Tra quelle persone l’avvocato genovese, Alessandra Ballerini, specializzata in diritti umani. È una di quelle figure di legali ricorrenti nella letteratura e nella filmografia statunitensi prima dei legai thriller di Turow e Grisham. Qui siamo in un’ambientazione anni 50 in uno stato del Sud, dove gli avvocati sono tanto in apparenza disordinati, quanto nei fatti meticolosi e acuti; e tanto sembrano identificare il proprio ruolo con l’emotività delle vicende criminali, quanto poi si dimostrano capaci nel districarne il groviglio e rintracciare la soluzione. Ballerini si è immedesimata nella sofferenza dei Regeni, al punto da intercambiare continuamente - e teneramente - un ruolo di figlia con quello di difensore dall’ostilità e dall’invadenza: oltre che da parte degli assassini di Giulio, da parte di quel mondo esterno che non conosce il rispetto perché non conosce il dolore. Poi ci sono altri, i cui nomi non compaiono nelle cronache: Beppe Giulietti, presidente della Federazione Nazionale della Stampa, che in una delle sue “reincarnazioni” si è fatto instancabile megafono di tutte le vicende in cui la questione dell’informazione si intreccia a quella della violazione dei diritti umani. E, infine, Riccardo Noury, appassionato cultore del cinema di Rainer, Fassbinder, da vent’anni portavoce di Amnesty International. È stato lui, con Ballerini, ad avere l’idea degli striscioni gialli “verità per Giulio” che hanno comunicato attraverso il più antico dei media, la scritta sul muro, la domanda di giustizia di una parte significativa degli italiani. Tutte queste persone, come si dice nel pattinaggio a rotelle, hanno fatto “carrello”, ovvero, secondo la lezione delle discipline orientali, si sono piegate non per cedere, ma per raccogliere le energie e rafforzare lo slancio. Ora siamo a un passaggio decisivo, quello della conclusione delle indagini. Nella Procura di Roma, c’è un’altra bella persona: il sostituto procuratore Sergio Colaiocco (non l’ho mai visto in vita mia, ma ho buone ragioni per crederlo). Il mio irreparabile pessimismo si prende una pausa. Spes contra spem, come diceva Marco Pannella sulla traccia di Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani. Isolati, soli e umiliati. I minori palestinesi interrogati nelle carceri israeliane di Michele Giorgio Il Manifesto, 6 dicembre 2020 Un rapporto di Defence for Children International denuncia le condizioni in cui i minori palestinesi arrestati da Israele sono tenuti in detenzione e sotto interrogatorio. Ieri i funerali di Ali Abu Aliya, il 14enne ucciso venerdì dall’esercito israeliano. Un compleanno si è trasformato in un funerale. “Ali è sceso in strada con me. I soldati israeliani sparavano con i fucili e lanciavano lacrimogeni ma noi due pensavamo alla torta di compleanno che stava preparando sua madre. Poi Ali è crollato a terra tenendosi l’addome e ha perso conoscenza”. Muhammad Abu Aliya, 16 anni, raccontava ieri ai giornalisti gli ultimi istanti di vita di suo cugino e amico Ali Abu Aliya. Ucciso nel giorno del 14esimo compleanno da un proiettile sparato dai soldati che gli ha spappolato l’intestino. “Non ha avuto scampo, l’emorragia interna è stata devastante”, spiegano i medici dell’ospedale di Ramallah che hanno tentato senza successo di rianimare il ragazzo. Proiettile che l’esercito israeliano smentisce di aver sparato contro i manifestanti del villaggio palestinese di Al Maghayer, ad est di Ramallah, che da tempo si battono contro un avamposto coloniale ebraico. Il portavoce militare afferma che i dimostranti sono stati dispersi con lacrimogeni, proiettili rivestiti di gomma e usando fucili Ruger che non sarebbero letali per il piccolo calibro. Certo non sparano confetti, soprattutto se esplosi da distanza ravvicinata. Dal 2015, spiega l’ong per i diritti umani B’Tselem, i fucili Ruger hanno ucciso almeno sette dimostranti. In ogni caso i palestinesi smentiscono seccamente la versione israeliana secondo la quale i soldati avrebbero risposto a un intenso lancio di pietre. I militari, denunciano gli abitanti del villaggio, hanno fatto fuoco subito ad altezza d’uomo e lanciato dozzine di candelotti lacrimogeni. Ad Al Maghayer ieri, incuranti della seconda ondata coronavirus che sta mietendo tante vittime in Cisgiordania, erano in centinaia a seguire la salma di Ali, avvolta nella bandiera nazionale, ricoperta di fiori, portata in spalla da amici e familiari. Di lato, a distanza, assieme ad altre donne, c’era la madre Rawan, sciolta in un pianto infinito. “Ali amava il calcio, a casa trovi ovunque palloni e magliette dei club internazionali. Sognava di diventare un campione”, ha raccontato Ayman, il padre del ragazzo. Due anni fa Ali era già stato ferito, in modo lieve, da un proiettile rivestito di gomma durante gli scontri con l’esercito seguiti all’uccisione di un altro ragazzino del villaggio, Laith Abu Ali. Dolore ma anche rabbia. Parla di “crimine di guerra” l’Autorità nazionale di Abu Mazen. Il portavoce del movimento Fatah, Osama al-Qawasmi, ha esortato i palestinesi a rispondere a queste uccisioni rafforzando l’unità nazionale. Stessa l’esortazione del movimento islamico Hamas che chiede “il ritorno al consenso nazionale per resistere all’occupazione”. Ed è scesa in campo anche l’Unione europea che attraverso il suo rappresentante locale ha chiesto un’indagine sull’incidente. “I bambini godono di una protezione speciale ai sensi del diritto internazionale” - sottolinea la delegazione dell’Ue - “Quanti altri bambini palestinesi saranno soggetti a un uso eccessivo della forza letale da parte delle forze di sicurezza israeliane? Questo incidente scioccante deve essere rapidamente indagato subito”. L’uccisione di Ali Abu Aliya giunge mentre l’attenzione dei centri per i diritti umani e la difesa dell’infanzia si concentra di nuovo su bambini e ragazzi palestinesi sotto occupazione militare. In un rapporto di 73 pagine - “Isolated and Alone: Palestinian children held in solitary confinement by Israeli authorities for interrogation - l’ong Defence for Children International-Palestine, denuncia che le autorità israeliane detengono i minori palestinesi in isolamento durante l’interrogatorio, che può durare anche alcuni giorni, ed esorta a considerare questa pratica una forma di tortura: “si tratta di una punizione crudele, inumana e degradante”. Il diritto internazionale - ricorda Khaled Quzmar, direttore di Dcip - “proibisce l’uso dell’isolamento e misure simili. Questa pratica causa danni psicologici sia immediati che a lungo termine”. Mentre sono in isolamento, scrive Dcip, i ragazzi detenuti non hanno contatti umani significativi, poiché le interazioni con gli altri sono spesso esclusivamente con chi li interroga. I pasti vengono passati attraverso uno sportello nella porta della cella. Alcuni dei minori detenuti riferiscono le celle di isolamento sono poco ventilate, l’illuminazione resta accesa 24 ore su 24 e mancano le finestre. Durante l’interrogatorio, aggiunge Dcip, la legge militare israeliana non assicura ai minori palestinesi il diritto alla presenza di un genitore o di un avvocato. Le tecniche, prosegue l’ong, sono coercitive, una combinazione di intimidazioni, minacce, abusi verbali e violenza fisica con un chiaro scopo di strappare una confessione. Dal primo gennaio 2016 al 31 dicembre 2019, 108 minori sono stati tenuti in isolamento, in qualche caso per due settimane. Stando all’inchiesta svolta dall’ong, Israele ogni anno persegue tra i 500 e i 700 minori nei tribunali militari. Si stima che dal 2000 le autorità israeliane abbiano detenuto, interrogato, perseguito e imprigionato circa 13.000 ragazzi palestinesi. Al momento 15 minori palestinesi sono in isolamento e 168 sono incarcerati per ragioni di sicurezza. Di questi abusi si è occupato nei giorni scorsi anche il quotidiano israeliano Yediot Ahronot. Tra il 2017 e il 2019, ha scritto, le forze militari in Cisgiordania e a Gerusalemme Est hanno arrestato 5.000 minori palestinesi di età compresa tra 12 e 18 anni, applicando metodi di detenzione simili a quelli utilizzati per l’arresto di sospetti adulti. Sono stati bendati e ammanettati e molti di essi riferiscono di colpi alla schiena con il calcio dei fucili. Altri raccontano di essere stati interrogati per tutta la notte, senza sosta. La legge civile israeliana protegge i minori arrestati. Tuttavia, a differenza degli israeliani, i ragazzi palestinesi in Cisgiordania sono processati dai militari e godono di poche tutele. Egitto. Torture, crudeltà, abusi: la vita nel carcere di Tora di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2020 Nel corso degli anni, con un crescendo esponenziale, le organizzazioni che si occupano di diritti umani hanno denunciato le terribili condizioni in cui versano i detenuti. Confermate da chi è potuto uscire-”High security prison 992”: benvenuti all’inferno del rettangolo della morte. I blocchi a forma di H del carcere di Tora, alla periferia meridionale del Cairo, rimandano alla famigerata prigione di Maze, più comunemente denominata Long Kesh, nella cittadina nordirlandese di Lisburn, dove tra il 1971 e il 2000 morirono decine di detenuti, tra cui Bobby Sands, leader dell’Ira stroncato dopo 64 giorni di sciopero della fame e della sete. I livelli di crudeltà non sono dissimili, tra condizioni generali pessime, violenze e torture, con una differenza: la struttura alle porte di Belfast è stata chiusa dopo gli Accordi di Pace del 1998 (Good Friday Agreement) e una serie di spettacolari evasioni, mentre l’inferno di Tora è attivo e non sembra per nulla destinato ad abdicare. Proprio nel settembre scorso il tentativo di fuga da parte di un gruppo di reclusi nel braccio ‘reati comuni’ è stato represso nel sangue dall’apparato di sicurezza: 8 i morti, di cui 4 poliziotti. Nel corso degli anni, con un crescendo esponenziale, le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani, a partire da Amnesty International, hanno denunciato le terribili condizioni in cui versano i detenuti di Tora. Al resto hanno pensato i racconti dei testimoni oculari, vittime loro stessi di abusi e di pratiche di tortura, una volta fuori da quell’incubo. Dalle origini ai cambiamenti per i Fratelli Musulmani - Inizialmente costruita nel lontano 1908 come ‘prigione agricola’, Tora ha subìto una serie di interventi di maquillage. Il primo nel 1928 quando l’allora Ministro dell’Interno, Mustafa al-Nahhas, sollecitò il suo potenziamento per alleviare il sovraffollamento dell’allora prigione principale di Abu Zaabal. Saltando in avanti di qualche decennio, nel 1993 la direzione del penitenziario decise di elevare le mura di cinta di quasi tre metri, modificando di fatto il volto dell’intero plesso. In realtà ognuno dei presidenti o dittatori, a seconda di come li si debba considerare, a modo suo ha messo le mani sulla prigione di Stato capace di risolvere tutti i problemi della rete carceraria maschile (a Tora non esiste un braccio femminile, per quel settore è in funzione da anni il penitenziario di al-Qanater, dalla parte opposta della capitale) dell’Egitto. Ad Anwar Sadat capitò di dover incidere dopo i Bread Riots, la Protesta del Pane del 1977, realizzando uno dei H blocks. Al massimo della sua capienza ufficiale la ‘992’ dovrebbe ospitare 1500 detenuti, in realtà, a seconda dei periodi, la popolazione supera le 2mila unità. Per aumentare la portata della struttura, una volta esaurita l’area di espansione esterna, Tora ha iniziato a svilupparsi verso l’alto. La conseguenza è stata un peggioramento della vita carceraria vissuta dalla maggior parte dei detenuti in condizioni davvero disumane e le cronache dei racconti in arrivo dall’interno confermano l’interfaccia repressiva di un regime spietato contro i suoi oppositori. Nel 1991 è toccato ad Hosni Mubarak (lui stesso ospite, oltre ai suoi due figli Gamal e Alaa, della prigione di Tora dal 2012 al 2013 e poi liberato da al-Sisi nonostante su di lui pendesse la condanna all’ergastolo) dare il via libera ai lavori, terminati due anni dopo, per arginare i rischi di evasioni ‘eccellenti’. Tre anni prima era successo qualcosa di eclatante: a darsi alla macchia erano stati i due membri della jihad islamica responsabili dello spettacolare assassinio dell’ex presidente Sadat il 6 ottobre del 1981 (data simbolica molto importante in Egitto che segna l’inizio della guerra del Kippur, il 6 ottobre del 1973). L’ultimo ritocco all’immagine della prigione in ordine di tempo è stato portato a termine nel 2014 su ordine dell’attuale presidente, Abdel Fattah al-Sisi: la realizzazione di una sezione speciale di massima sicurezza per i prigionieri politici, cioè per gli esponenti dei Fratelli Musulmani. In quella sezione, tra gli altri, hanno trascorso un periodo di detenzione il capo della Fratellanza, Mohamed Morsi, e il numero due, Essam el-Erian, morti in circostanze mai chiarite nel 2019 e nel 2020. I reclusi: da Zaki ai leader della Rivoluzione di Piazza Tahrir - Fino all’altra sera all’interno della sezione Liman Tora erano reclusi i vertici dell’Eipr, Gasser Abdel Razek, Karim Ennarah e Mohamed Bashir, rilasciati su cauzione e tornati a casa dalle rispettive famiglie dopo alcune settimane di detenzione. Nella vicina sezione Scorpion II, al contrario, Patrick Zaki è appena entrato nel decimo mese di reclusione. Con lui decine e decine di attivisti, tra cui Alaa Abdel Fattah, uno dei leader della Rivoluzione di piazza Tahrir del gennaio 2011. A causa dell’emergenza Coronavirus, le autorità egiziane da marzo hanno bloccato le visite dei familiari. Nel suo caso sono andate oltre. Il 21 giugno scorso la madre e le due sorelle di Alaa Abdel Fattah, dopo aver atteso per giorni davanti al cancello di Tora quanto meno per consegnare dei generi di prima necessità al loro caro, sono state aggredite all’esterno del carcere. È successo all’alba, quando un gruppo di donne le ha brutalmente assalite nella totale inerzia del personale penitenziario. Due giorni dopo, le tre donne hanno tentato di denunciare l’aggressione alla Procura generale, col risultato che la sorella minore, Sana, è finita ad al-Qanater dove si trova tuttora reclusa. Per raggiungere la prigione di Tora è sufficiente salire a bordo della linea 1 della metro dalla stazione di ‘Sadat’ a piazza Tahrir e dopo dieci fermate scendere a Tora el-Balad. Attraverso un sottopasso e un vivace mercato rionale, in pochi minuti a piedi si arriva davanti al cancello d’ingresso principale del penitenziario. Fuori alcuni bar a cui siedono esclusivamente agenti penitenziari, della polizia territoriale e agenti in borghese della State Security. Restare troppo a lungo in quella zona può essere pericoloso. Il muro di cinta perimetrale, rialzato fino a sfiorare i 10 metri, è puntellato dalle altane attraverso cui le guardie tengono sotto stretta sorveglianza l’interno e soprattutto l’esterno del carcere. Da fuori è impossibile immaginare la grandezza di una struttura edilizia andata lievitando col passare dei decenni. Ogni blocco a forma di H ospita una delle sezioni del carcere: quella di massima sicurezza, Tora Liman (dove sono stati reclusi Abdel Razek, Ennarah e Bashir), Tora Istiqbal, Tora el-Makhoum e la sezione di Tora Supermax, meglio conosciuta come Scorpion II (Aqrab). All’interno di questa sezione stanno cercando di sopravvivere tutti i cosiddetti prigionieri di coscienza, attivisti per i diritti umani, giornalisti, avvocati, personaggi dello spettacolo. Le celle e la luce regolata in una sala di controllo - Complessivamente il penitenziario più grande e temuto dell’Egitto è composto da 320 celle, equamente divise per i quattro blocchi ad H. La maggioranza di esse misura 2,5 metri per 3 e sono alte dai 3,5 metri a salire, ma ce ne sono anche di più grandi capaci di ospitare oltre 10 persone alla volta. Ogni cella ordinaria ha una finestra 90 per 80 centimetri e si affaccia o su altri edifici carcerari o sulle mura principali. Oltre alle brande, spesso senza materasso, e al gabinetto la cella dispone di una lampadina la cui accensione è regolata da una sala di controllo. Originariamente quelle più grandi erano state realizzate per ospitare due detenuti, ma l’aumento della popolazione carceraria ha costretto la dirigenza ad inserire più brande a castello. Ogni sezione dispone del suo refettorio e dello spazio esterno e i detenuti di un’area non si mescolano mai con quelli di un’altra. Nell’enorme città penitenziaria ci sono anche un campo da calcio e uno più piccolo multiuso nato originariamente come campo da tennis. Sulla parte retrostante dell’area di Tora è stata posta l’appendice per le celle di isolamento. Il cosiddetto “blocco disciplinare” ne comprende sette, tutte senza finestre, dunque senza luce naturale e ventilazione. Non manca certo una sezione medica, una sorta di punto di primo soccorso, in grado di risolvere diagnosi elementari. I detenuti vengono trasferiti in uno degli ospedali cittadini solo quando non è possibile fare altrimenti. Spesso le richieste d’aiuto rimangono inascoltate. È successo nel maggio scorso al giovane regista Shady Habash, morto dopo aver ingerito del detersivo, non curato adeguatamente e lasciato in agonia dentro la sua cella. Stati Uniti. Voto per la cannabis nell’America della “War On Drugs” di Leonardo Fiorentini e Marco Perduca Il Manifesto, 6 dicembre 2020 Via libera dalla Camera dei Rappresentanti di Washington alla depenalizzazione della marijuana a livello federale. Dopo i referendum e anche se il Senato non farà lo stesso, svolta di enorme valore simbolico. Il 2020 ha fatto anche cose buone, almeno per quanto riguarda la cannabis. Dai primi di novembre è stato un susseguirsi di decisioni politiche, giurisdizionali e istituzionali che hanno posto la pianta proibita al centro di provvedimenti di normalizzazione che lasciano ben sperare per il futuro. L’ultimo il 4 dicembre, quando la Camera dei Rappresentanti di Washington ha approvato - 228 favorevoli e 164 contrari - il More Act che depenalizza la cannabis a livello federale. Il provvedimento ne prevede la tassazione e abbatte le proibizioni che oggi complicano la vita ai 15 Stati Usa che l’hanno legalizzata e all’imprenditoria del settore. Anche se il Senato a maggioranza repubblicana non farà altrettanto, si tratta di un voto storico - per la prima volta una riforma del genere arrivava al voto in plenaria nella patria della “War On Drugs”. Solo un mese prima l’elezione di Joe Biden è stata accompagnata da vittorie referendarie che hanno legalizzato per tutti i fini la produzione, il consumo e commercio di cannabis in New Jersey, Arizona, Montana e South Dakota, mentre il Mississippi è diventato il 35esimo che che ne consente l’uso terapeutico. Il More act, che è stato proposto alla Camera da Jerry Nadler e al Senato dalla vice presidente eletta Kamala Harris, elimina la cannabis dall’elenco del Controlled Substances Act del 1971. Il provvedimento permetterebbe di rivedere le condanne pregresse e impone una tassa federale sulla vendita dei prodotti legati alla cannabis al fine di risarcire comunità e individui colpiti dalla War On Drugs, incentivando la nuova imprenditoria legale. Anche se questi ultimi obiettivi sono stati depotenziati durante il percorso parlamentare si tratta di un voto di valore simbolico enorme per tutto il movimento antiproibizionista mondiale. E in particolare per quello nordamericano che infatti ha accolto l’approvazione con grande soddisfazione, in particolare per le sue implicazioni sull’oppressione delle minoranze. L’applicazione delle leggi proibizioniste sulla marijuana è responsabile di oltre mezzo milione di arresti negli Stati uniti ogni anno. Le persone afroamericane e di origine asiatica o latina sono colpite in modo sproporzionato: i non bianchi hanno quattro volte più probabilità di essere arrestati per possesso di marijuana rispetto ai bianchi nonostante tassi di consumo uguali. Per Maritza Perez della Drug Policy Alliance, “la criminalizzazione della marijuana è una pietra angolare della guerra razzista alla droga. Anche dopo un decennio di vittorie nelle riforme, l’anno scorso una persona è stata arrestata quasi ogni minuto per il semplice possesso di marijuana”. Secondo il più recente sondaggio di opinione pubblica, il 68% degli americani sostiene la legalizzazione della marijuana. L’amministrazione Biden, pur timida sul tema, dovrà tenerne conto. Il 2 dicembre la Commissione droghe delle Nazioni unite ha votato per riconoscere il potere terapeutico della cannabis. Nel pomeriggio dello stesso giorno la Commissione europea, forte della sentenza della Corte del Lussemburgo del 19 novembre, ha chiarito che prodotti contenenti CBD frutto dall’intera pianta della cannabis, infiorescenze comprese, possono essere inseriti nella lista dei nuovi alimenti (novel food) su cui l’Ue sta lavorando, non essendo considerabili stupefacenti. Nel frattempo Messico, Macedonia e Israele stanno discutendo di legalizzazione tout court della cannabis, mentre in Africa e America latina aumentano i paesi che ne consentono la produzione per fini terapeutici. A casa nostra, invece la politica sembra impantanata, incapace di trovare una via che altrove sembra ormai segnata. Turchia. Il Consiglio d’Europa chiede la scarcerazione di Osman Kavala di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 dicembre 2020 A distanza di un anno dal giudizio vincolante della Corte europea dei diritti umani, che aveva ritenuto politicamente motivata la detenzione di Osman Kavala, il 3 dicembre il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha sollecitato la Turchia a rimettere immediatamente in libertà l’attivista della società civile. Nella sua risoluzione, il Comitato dei ministri ha sottolineato che la Turchia non ha mai replicato al fatto che l’attuale detenzione di Kavala sia in continuità con le violazioni dei diritti umani menzionate nel dicembre 2019 dalla Corte europea dei diritti umani e ha criticato il silenzio della Corte costituzionale di Ankara sul caso. Nato a Parigi nel 1957, Kavala è il co-fondatore di Iletisim Yayinlari, una delle più grandi case editrici turche e presiede l’istituto Anadolu Kültür, da lui fondato e divenuto un punto di riferimento prezioso per comprendere la società civile turca. Arrestato nel 2017 e inizialmente sotto inchiesta per tre accuse infondate relative al “tentativo di rovesciare il governo o l’ordine costituzionale con la violenza o con la forza” riguardo all’organizzazione delle manifestazioni al Gezi Park di Istanbul del 2013 e persino al suo coinvolgimento nel tentato colpo di stato del luglio 2016, nel febbraio 2020 Kavala è stato prosciolto da una di esse per essere accusato di “spionaggio” appena un mese dopo, con l’evidente scopo di aggirare la sentenza della Corte europea sull’illegalità della sua detenzione. La prima udienza per quest’ultima accusa è prevista il 18 dicembre. La ritirata di Trump: i soldati americani lasciano la Somalia di Francesco Semprini La Stampa, 6 dicembre 2020 Le truppe che contrastano gli jihadisti saranno spostate in Kenya. La decisione del Pentagono spiazza il Congresso: a rischio sicurezza e stabilità. Donald Trump ordina il ritiro di quasi tutti i militari di stanza in Somalia, dove gli Stati Uniti sono impegnati da 13 anni a combattere una guerra a bassa intensità contro i terroristi al-Shabaab. La manovra, esecutiva già all’inizio del 2021, trova l’appoggio di Chris Miller, segretario ad interim della Difesa, e rappresenta un cambio di passo rispetto al predecessore Mark Esper. Il quale aveva optato per un alleggerimento dell’impegno americano nella regione del Sahel pur di mantenere invariati gli sforzi operativi in Somalia. I circa 700 militari presenti nel Paese del Corno d’Africa, per lo più appartenenti alle forze speciali “Delta Mogadiscio”, sono impiegati in attività di addestramento, ma soprattutto in missioni antiterroristiche contro il braccio qaedista somalo e le centinaia di jihadisti dell’Isis arroccati sulle montagne di Possasso, nel Puntland. Operazioni che continueranno a svolgere, spiega Africom (il comando militare Usa in Africa) ma partendo da Kenya e soprattutto a Gibuti dove si trova Camp Lemon, la grande base dove saranno riposizionate le forze. “Gli Usa manterranno la capacità di condurre operazioni mirate e di raccogliere informazioni riguardanti minacce alla patria”, riferisce il Pentagono, secondo cui se “da un lato si tratta di un cambio nell’impostazione tattica della forza, dall’altro non rappresenta un cambio nella politica Usa”. Eppure la direttiva riflette il forte desiderio di Trump di ridurre l’impegno militare Usa di lungo periodo nella lotta contro il terrorismo in Stati fragili o falliti di Asia, Medio Oriente e Africa iniziato dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Impegno che secondo il 45° presidente Usa è costato troppe perdite di soldi e soldati. La direttiva sulla Somalia arriva dopo ulteriori alleggerimenti in Afghanistan e in Iraq, oltre all’uccisione di un veterano della Cia avvenuto in combattimento proprio nel Paese africano. La decisione incontra l’opposizione di un nutrito gruppo bipartisan al Congresso, secondo cui così facendo si mettono a rischio la vita dei soldati, la sicurezza nazionale e la stabilità dei partner africani. Anche il presidente somalo, Mohamed Abdullahi Mohamed, ha espresso preoccupazione per il rito Usa, specie per la sicurezza delle imminenti elezioni parlamentari a cui seguiranno le presidenziali. Oltre alla crisi che interessa la vicina Etiopia. Fattori cruciali per quello che è considerato da tempo uno Stato fallito, disintegrato da guerre e conflitti interni di cui si ricorda Black Hawk Down, l’abbattimento dell’elicottero americano, e l’attacco ai militari italiani del Check Point Pasta entrambi impegnati nel 1993 nella missione “Restore Hope” per fermare le violenze del signore della guerra Mohammed Farah Aidid. Lo Stato non Stato dove la logica dei clan prevale sul principio nazionale e istituzionale, mettendo il Paese alla mercé di trafficanti e terroristi. Come Al Shabaab, appunto, eredi delle Corti islamiche che parlano il linguaggio delle bombe e della mafia. E a contrastare i quali c’è anche l’Italia nell’ambito della missione europea Eutm-S, volta a fornire capacità ai somali e un sistema di addestramento che diventi il loro modello di riferimento per il futuro.