Covid in carcere, altri due morti in 24 ore. Uno era al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 dicembre 2020 Secondo il guardasigilli, nelle carceri è tutto sotto controllo per quanto riguarda l’emergenza Covid-19. Non ha nemmeno dimostrato alcun interesse nei confronti di Rita Bernardini del Partito Radicale, stremata da quasi un mese di sciopero della fame. Eppure, nella sola seconda ondata siamo arrivati a sette detenuti morti per Covid. Nel giro di 24 ore ne sono deceduti altri due. Uno, come già annunciato da Il Dubbio, è il 78enne Salvatore Genovese recluso al 41bis di Opera. Da settimane era in terapia intensiva, già gravemente malato ma compatibile con il carcere duro secondo il giudice di sorveglianza, quando ad un certo punto i medici hanno dovuto interrompere la terapia: non c’è stato nulla da fare, solo cure palliative per alleviare le atroci sofferenze. L’altro morto per Covid, sempre nella stessa giornata di mercoledì scorso, è il detenuto Filippo A., 63 anni, cardiopatico, ricoverato in ospedale dal 26 novembre all’ospedale Cardarelli. Il terzo in Campania tra i detenuti (due di Poggioreale e uno di Secondigliano) oltre alla morte sempre per Covid del direttore sanitario del carcere di Secondigliano Raffaele de Iasio. Nel frattempo arrivano nuovi aggiornamenti dal Dap. Alle ore 20 di giovedì risultano 975 detenuti positivi al Covid, tra i quali 37 sono ricoverati in ospedale. Tutti gli altri, secondo la classifica del Dap, risulterebbero asintomatici. Eppure, secondo le testimonianze di vari avvocati, risulta che ad alcuni loro assistiti reclusi in carcere viene somministrata la terapia. Se sono tutti asintomatici, a cosa servirebbero la tachipirina e l’eparina? I focolai più critici si trovano al carcere di Tolmezzo (153 detenuti positivi e 4 ricoverati), che ha il primato di avere tra 41bis e alta sicurezza la totalità dei detenuti contagiati. A seguire c’è il carcere di Secondigliano con 75 positivi, quello di Sulmona (69 positivi più 5 ricoverati), il carcere di Monza con 62 contagiati e il carcere di Poggioreale e quello di Trieste con 40 positivi ciascuno. Senza contare i reparti Covid del carcere di Bollate e San Vittore, che ospitano decine e decine di detenuti positivi provenienti da altre carceri. Ma c’è anche il personale penitenziario a dover fare i conti con il Covid: risultano infatti contagiati ben 920 agenti. Abbiamo raggiunto quindi quasi 2000 persone positive tra la popolazione penitenziaria. Il tasso dei contagi, come ha fatto notare Rita Bernardini intervistata da Il Dubbio, è molto più alto se paragonato al mondo “libero”. Per i detenuti il tasso del contagio è dell’1,76 %, mentre per coloro che vivono fuori le mura è dell’1,31%. Se invece consideriamo i positivi fra tutti coloro che frequentano quotidianamente il carcere, e quindi anche il personale, la percentuale schizza a oltre il 3,76%. Che fare? C’è un punto sul quale concordano tutti coloro che si occupano e conoscono alla perfezione il sistema penitenziario: le misure introdotte nel decreto Ristori non sono sufficienti per ridurre sensibilmente la popolazione detenuta. Lo ha ribadito, tramite i bollettini, più volte il Garante nazionale delle persone private della libertà. Secondo il Garante è da guardare “con evidente preoccupazione dal punto di vista della gestione, sia per la necessità di spazi e, quindi, di una minore “densità” delle persone ristrette e dunque di un numero di persone detenute sensibilmente minore, sia per l’incidenza che il contagio ha sugli operatori penitenziari, il cui numero di positivi è attorno al migliaio, e che si deve misurare con un organico sempre al di sotto di quanto formalmente previsto”. A partire da queste considerazioni, il Garante nazionale è tornato nuovamente a sollecitare maggiore capacità di elaborare proposte normative che sappiano tutelare la salute di tutti, assicurare una positiva gestione delle strutture e della vita interna relativamente a chi in esse opera e chi vi è ristretto, garantire la sicurezza. “Gli emendamenti proposti - scrive sempre il Garante nazionale - e che abbiamo illustrato nelle riflessioni de il punto delle ultime settimane vanno in questa direzione: le ribadiamo e continuiamo nella nostra interlocuzione con il Parlamento che in questi giorni lavora attorno alla riconversione in legge del decreto 137/2020”. Ma in Parlamento quali emendamenti sono stati presentati in merito alle nuove misure da introdurre? Sappiamo che il senatore del Pd Franco Mirabelli ha chiesto l’innalzamento da sei mesi a un anno del limite della pena da scontare al di sotto del quale sarà possibile andare agli arresti domiciliari senza braccialetto elettronico, escludendo i condannati ai reati del 4bis (mafia, terrorismo, reati in famiglia e stalking); l’aumento di 30 giorni dello sconto di pena per ogni semestre a chi ha già goduto della riduzione della pena per buona condotta per anticipare la fine della carcerazione; il rinvio dell’emissione degli ordini di esecuzione, a seguito di una condanna, delle pene detentive inferiori ai 4 anni. Ma già è stato detto che il M5s farà muro e potrebbe far passare solamente il discorso dei braccialetti. Nel frattempo mancano gli spazi nelle carceri per l’isolamento sanitario, il virus colpisce duramente i detenuti anziani e con patologie gravi entrando perfino nei luoghi considerati sicuri come il 41bis. L’emergenza Covid è in corso, ma per le autorità pare che sia un pericolo solamente per chi vive fuori dalle mura. Eppure gli esperti hanno più volte sottolineato che le probabilità di diffusione del Coronavirus aumentano nei luoghi chiusi e affollati. Così come hanno sempre detto che gli asintomatici, ad oggi, rappresentano il fattore di rischio maggiore nella divulgazione del virus. Ecco come sono le carceri: chiuse, affollate e con asintomatici che fanno da super-diffusori. Covid nelle carceri: aumento dei detenuti positivi, ora sono 975 ansa.it, 5 dicembre 2020 Si inverte il flusso del contagio da Covid-19 nelle carceri. Se sino a pochi giorni fa erano di più gli operatori positivi rispetto ai detenuti, adesso il rapporto si è invertito. I detenuti che hanno contratto il virus sono ancora aumentati e sono arrivati a quota 975, secondo gli ultimi dati del Dap aggiornati alle 20 del 3 dicembre scorso. Mentre è ancora calato il numero degli operatori ammalati: 920 rispetto ai 989 di tre giorni fa. Rispetto al dato del 30 novembre sono leggermente di più i detenuti in ospedale (37 e prima erano 34). In tutto i sintomatici sono 79, di cui 42 in carcere. Una minoranza, visto che la gran parte dei ristretti contagiati (896, pari al 92%) è asintomatico. Per quanto riguarda i singoli istituti l’allarme maggiore resta per il carcere di Tolmezzo: i positivi ora sono arrivati a 158, di cui 153 asintomatici, uno con sintomi e 4 in ospedale. E si è ancora più esteso il focolaio di Sulmona: i detenuti contagiati sono adesso 75, una ventina in più di tre giorni fa (69 asintomatici, uno solo con sintomi e cinque in ospedale). Lieve aumento anche nel carcere di Trieste: ora i positivi sono 40, tutti asintomatici. La Lombardia è la regione con più ammalati: 334, di cui 300 asintomatici,16 ricoverati in strutture esterne. Tra i penitenziari lombardi la situazione più critica è nel carcere di Bollate, con 89 detenuti positivi (79 asintomatici, 8 sintomatici e 2 in ospedale). Segue Monza con 62 contagiati, tutti senza sintomi. Calano i positivi a San Vittore (ora sono in tutto 58, compresi gli ospedalizzati), mentre salgono a Milano Opera (44 compresi quelli in ricovero esterno, 3 giorni fa erano 28). In Campania a i detenuti malati sono 123, di cui 3 in ospedale, gli altri asintomatici. Sono concentrati a Napoli tra Secondigliano (75 tutti asintomatici, più 1 in ospedale) e Poggioreale (41, di cui uno ricoverato all’esterno). Presidente Mattarella, è l’ora di alzare la voce per i detenuti di Valter Vecellio Il Riformista, 5 dicembre 2020 Il capo dello Stato è già a conoscenza della situazione negli istituti di pena e anche del digiuno intrapreso da Bernardini, Testa e tante altre persone. Non c’è bisogno di ricordarglielo, c’è solo da chiedere: quando un messaggio? Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella oltre che politico prudente, accorto, di esperienza, è giurista: quella speciale branca che è il Diritto costituzionale. Della Costituzione è, come s’usa dire, “geloso” custode e difensore. Il Presidente della Repubblica, per il suo “essere”, per quello che rappresenta e incarna, conosce perfettamente doveri, prerogative, limiti: i binari entro dove può condurre la sua azione. Sarebbe irrispettoso qualsivoglia tentativo, da parte di chiunque, cercare di “tirare la sua la giacchetta”. Il Presidente della Repubblica proprio in virtù del suo incarico e della sua sensibilità è a conoscenza di quello che si agita, da sempre, nei luoghi più critici del nostro Stato: le carceri; e massimamente in questi giorni di emergenza pandemia. Di sicuro il Presidente della Repubblica sa in che condizioni versano gli istituti quanto mai, letteralmente, di “pena”; come vivono i detenuti, e non solo loro: gli agenti della polizia penitenziaria e la comunità che ruota intorno alle carceri. Il Presidente della Repubblica è certamente a conoscenza, e indubbiamente segue l’evoluzione dello sciopero della fame “di dialogo e speranza”, intrapreso dalle esponenti radicali Rita Bernardini e Irene Testa, e a rotazione da decine di altre persone, iscritte e non al Partito Radicale, per sollecitare il Governo a intraprendere provvedimenti urgenti, necessari e doverosi se si vuole rispettare il dettato costituzionale. È certamente a conoscenza del fatto che analoghe iniziative, lodevolmente nonviolente, sono in corso in molte carceri da parte di detenuti. Il Presidente della Repubblica avrà certo letto con partecipata emozione l’appello che Luigi Manconi, Roberto Saviano, Sandro Veronesi, hanno rivolto alla classe politica, attraverso un unico testo, pubblicato simultaneamente su tre prestigiosi quotidiani: La Stampa; La Repubblica, Il Corriere della Sera. Il Presidente della Repubblica avrà preso nota che ufficialmente sono stati censiti come contagiati dal Covid 897 detenuti e più di un migliaio di operatori penitenziari; e che dunque lascia perplessa la risposta del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nel corso di un question time della Camera: tutto sotto controllo, il protocollo sanitario viene applicato e comunque la maggior parte dei contagiati sono asintomatici. Il Presidente della Repubblica sarà certamente stato avvertito delle criticità in carceri come quelle di Tolmezzo, di Opera-Milano, Sulmona e molti altri istituti di pena. Sa bene che i luoghi chiusi e affollati sono letteralmente bombe sanitarie; se mancano gli spazi per attuare i protocolli e fare quindi gli isolamenti necessari, il contagio fatalmente si diffonde. I reclusi anziani e con gravi patologie sono quelli più vulnerabili e le carceri, perfino i luoghi considerati sicuri come il 41bis, non sono in grado di proteggerli. Già si contano i primi morti. Proprio per questo oltre cento studiosi hanno deciso, in queste ore, di unirsi alla iniziativa di Rita Bernardini, e degli altri digiunatori. Sono personalità del mondo accademico, docenti e studiosi di diritto penale e penitenziario, hanno sottoscritto un documento (primi firmatari Giovanni Fiandaca dell’Università di Palermo e Massimo Donini dell’Università di Modena e Reggio Emilia), e chiedono al governo “provvedimenti idonei a ridurre il più possibile il sovraffollamento delle carceri italiane… Come studiosi siamo particolarmente sensibili a due principi: il primo è l’umanizzazione della pena, con un livello accettabile di protezione dei diritti dei detenuti, tra i quali prioritario il diritto alla salute”. Ecco: il Presidente della Repubblica Mattarella queste cose le sa, non c’è necessità alcuna di ricordargliele, di “tirarlo per la giacchetta”. Da cittadini c’è solo da chiedere, con rispetto e fiducia: “Fino a quando?”. “Perché non ora?”. “Un messaggio nelle forme ritenute le più idonee, non sarebbe opportuno, necessario, urgente?”. Se il Dpcm vi fa sentire in prigione, forse non siete mai stati in un carcere ai tempi del Covid di Giuliana Sias tpi.it, 5 dicembre 2020 Quasi 3mila detenute e detenuti italiani sono in sciopero della fame. Protestano perché si ammalano di Covid in carcere, perché il sovraffollamento è un problema antico ma soprattutto durante questa pandemia non può continuare ad essere ignorato, perché da marzo non hanno diritto a contatti con l’esterno e non ne avranno nemmeno durante le festività. Tra le storie del Natale 2020, il Natale “sospeso” in cui per la prima volta si dovrà rinunciare ai grandi pranzi di famiglia, ce ne sono alcune che passano del tutto inosservate. Nonostante i termini più abusati per descrivere questa nostra socialità limitata imposta dal Coronavirus peschino a piene mani dal vocabolario carcerario (zone rosse descritte come prigioni, la chiusura delle piste da sci vissuta come una condanna, richiami continui e spesso scomposti all’assenza di libertà), la questione carceri non riesce a sfondare nemmeno stavolta il muro dell’indifferenza. Eppure potrebbe essere un’occasione, per gli italiani, per sentirsi vicini, come mai prima, alla condizione di chi sconta una pena detentiva in una delle nostre prigioni. Prigioni nelle quali è impossibile rispettare le distanze di sicurezza e che per questo sono diventate “un focolaio spaventoso” del quale però nessuno vuole occuparsi. Da 24 giorni Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino, è in sciopero della fame per chiedere a Governo e Parlamento di ridurre drasticamente il numero di detenuti. Da ieri, giovedì 3 dicembre, si è unita al digiuno di proposta anche la Camera Penale di Milano che ha lanciato l’ennesimo allarme: con 900 condannati e quasi 1.000 agenti positivi, “il virus non è solo entrato in carcere ma si sta diffondendo in modo impressionante”. Raggiunta al telefono, Bernardini spiega a TPI che la battaglia prosegue e che il dato più interessante è che stanno arrivando molte adesioni dalle stesse carceri: “Ad oggi siamo già arrivati a 2.812 detenuti che fanno lo sciopero della fame come me”. La mobilitazione cresce dietro le sbarre e almeno in parte anche in Parlamento, ma non abbastanza: se dal ministero della Giustizia non arrivano novità, al Senato si discutono i decreti Ristori in cui, tra le altre cose, sono stati inseriti alcuni interventi per alleggerire il peso del Covid in cella. Potrebbe essere almeno un buon inizio, ma di questo passo i tempi di conversione rischiano di essere troppo lunghi. In attesa, comunque, che la politica batta un colpo, decine di famiglie vivono un doppio dramma, sottoposte come sono ad un doppio vincolo: l’impossibilità di poter trascorrere le feste natalizie con i propri cari si somma all’impossibilità di poterli incontrare con la quale fanno i conti fin dall’inizio della pandemia. Alla loro prigione dorata - “tutto sommato noi siamo stati a casa, sdraiati sui nostri divani” - si somma la ben più concreta mancanza di libertà dei loro parenti. “Mio figlio - racconta ad esempio Irene - è in carcere a Bollate, io vivo in Toscana. I colloqui per via del Covid sono sospesi da mesi e adesso con il nuovo Dpcm non ci sarà possibile neanche andare a Milano a trovarlo per Natale, come abbiamo fatto tutti gli anni”. “So che questo non riguarda solo i genitori dei carcerati - prosegue - riguarda anche tutti gli altri, ma ci sono delle differenze tra la famiglia di una persona libera e quella di una persona detenuta: in questo momento un figlio ha ancora la possibilità di tornare a casa, se si muove prima del 20 dicembre, mentre una persona sottoposta a detenzione non lo può fare, deve chiedere comunque l’autorizzazione ad un magistrato, che non arriverà. Per noi è molto più difficile anche perché tutti gli altri, sino ad ora, si sono potuti vedere. Noi no”. Irene ha visto l’ultima volta Matteo, 28 anni, quest’estate. Nel suo caso si sono potuti riabbracciare, dopo la prima ondata, fuori dal carcere perché il ragazzo è un cosiddetto Articolo 21: “ha dei permessi - spiega la madre -, può uscire per andare a lavoro. Però Natale è Natale - si sfoga - non c’è possibilità di andarlo a trovare, nessuna, e questa è una cosa ingiusta perché come sempre non vengono tenuti in considerazione quelli che sono gli affetti di una persona già privata della libertà. Loro sono persone private della libertà perché hanno commesso un reato però la pena non dovrebbe essere vendicativa”. Irene Sisi non parla solo a nome proprio ma anche di tanti tanti genitori e a nome dell’associazione Amicainoabele che ha creato assieme a Claudia Francardi, ovvero la vedova della persona che suo figlio ha ucciso: “Facciamo dei percorsi con i detenuti, andiamo nelle scuole, ci occupiamo di mediazione penale tra autore di reato e vittime. Non sono una che dice ‘il cocco di mamma’, no. Però l’affettività è un diritto per tutti e a maggior ragione per un detenuto, rientra nei piani e nei principi rieducativi del carcere, perché il fine ultimo di una pena è quello della rieducazione: non si possono abbandonare così i carcerati, anche perché noi familiari più di tanto non possiamo fare, per non rischiare di mettere in pericolo i nostri cari che stanno dentro”. Evidentemente siamo tutti chiamati a compiere dei sacrifici in questo momento storico così complicato, ma alcuni sacrifici sono più grandi di altri e, se non si riesce a ristabilire un equilibrio tra l’essenziale e il superfluo, finisce che il diritto all’affettività può essere barattato, al mercato nero del nostro infantilismo, con il diritto alla settimana bianca. In questo modo la necessità che lo Stato si faccia carico delle solitudini di chi è ai margini e non ha sufficienti mezzi si perde, viene inghiottita dal bisogno di ricchi quarantenni o ragazzini viziati o imprenditori senza scrupoli di continuare a divertirsi, oppure a guadagnare, come se niente fosse, a casa con altre trenta persone o in discoteca. “Mio figlio vive questa situazione molto male - conclude Irene - perché è da tanto che non ci vede ed è anche molto preoccupato per la nonna anziana. Senza contare che l’aria in carcere è tesa, irrespirabile, i detenuti gridano a gran voce che moriranno lì dentro come topi in trappola, perché ci sono detenuti che hanno malattie pregresse, che sono più esposti al Covid, e comunque tutti in un modo o nell’altro sono particolarmente fragili. Ma sono delle persone e lo Stato non si può girare dall’altra parte”. Anche se per il momento, spesso con la complicità di un’opinione pubblica poco attenta al tema o peggio giudicante, in maniera oltremodo distaccata e severa, il Governo non è ancora stato in grado di offrire soluzioni o almeno delle risposte. Del Covid e della Libertà di Franco Dal Mas* Il Foglio, 5 dicembre 2020 Troppo e purtroppo abituati a dare per scontato ciò che scontato non è, con le restrizioni conosciute causa Covid-19 abbiamo riscoperto il valore della libertà nei suoi aspetti minimali. Se riteniamo già un’ingerenza il divieto di uscire dal comune di residenza, il confinamento domestico è un’imposizione insopportabile. “Ci hanno messi ai domiciliari”, si sente dire. E per di più senza condanna. Ma cosa succede là dove la pena si sconta veramente? Come ha puntualmente evidenziato Il Foglio, si registra una inspiegabile reticenza nel conoscere la cifra esatta dei casi di positività al Covid nelle carceri italiane. Solo mercoledì scorso, sollecitato da un’interrogazione, il ministro Bonafede ha dato i numeri: 826 detenuti, 1.042 operatori penitenziari, 72 amministrativi. Ci stiamo pericolosamente avvicinando a quota duemila. La situazione è emergenziale in molti istituti, e non potrebbe essere altrimenti visto l’annoso fenomeno del sovraffollamento carcerario. Al 31 ottobre a fronte di una capienza di 50.533 posti i detenuti erano 54.868, tremila in meno rispetto al marzo scorso. Un sovraffollamento che, combinato con alcuni casi di positività in carcere, spinse allora il governo a varare provvedimenti finalizzati ad agevolare, a determinate condizioni, il ricorso ai domiciliari. Una norma timida ora reiterata, con alcune modifiche, ripetendo una strategia certo non risolutiva. Superata l’emergenza sanitaria rimarrà sul tavolo l’atavica emergenza carceraria. I numeri sopra citati, depurati degli effetti temporanei dei ripetuti decreti, ci dicono che poco o niente è stato fatto. Vale la pena ricordare che dei 50.533 detenuti sono solo 36.457 i condannati con sentenza definitiva. Per i restanti 14mila è applicata la carcerazione preventiva. E vale la pena anche ricordare che tra la popolazione carceraria ci sono 31 madri con 33 figli al seguito, di cui solo la metà negli Icam. Che fare, dunque? Due gli scenari prospettati, tra loro alternativi: realizzare nuove carceri o applicare più ampiamente misure alternative alla detenzione. Credo sia il momento di abbracciare il principio di non contraddizione con un tertium datur. Nuovi e più degni penitenziari, maggior ricorso alle misure alternative, non escludendo - perché no? - provvedimenti di amnistia o indulto. Da qualche parte bisogna pur partire. Purtroppo questo governo non ha visione, e lo si comprende dal pantano nel quale ristagnano le riforme del processo civile e penale e dell’ordinamento penitenziario, oltre alla mancata soluzione dell’obbrobrio della cancellazione della prescrizione, sublime prodotto del governo del cambiamento. Ancora oggi pare evidente che ci si muova ispirati da un populismo penale, un orientamento neo-retributivo che considera il carcere come unica risposta. Un orizzonte ben lontano dai principi sanciti dall’articolo 27 della Costituzione. *Senatore di Forza Italia “Una nuova idea di carcere, l’Europa insegna che si può”, parla l’architetto Burdese di Viviana Lanza Il Riformista, 5 dicembre 2020 Nelle nostre carceri i muri raccontano soprattutto storie di sofferenza, afflizione, privazioni. Eppure le condizioni perché raccontino altro, circondando in maniera più dignitosa la vita di chi deve scontare una pena, ci sono. Abbiamo le norme: Costituzione e ordinamento penitenziario. Abbiamo la linea dettata dall’Europa: basta con trattamenti inumani e degradanti nelle carceri. Abbiamo l’esempio di altri Paesi: Spagna, Francia, Austria, per citare i più vicini. Cosa ci manca? Innanzitutto l’input della politica, ancora troppo preoccupata a raccogliere consensi tra l’opinione pubblica che pensa di risolvere i problemi della sicurezza usando il carcere come unica risposta. E poi un salto di qualità a livello culturale. Non è un castello in aria. Le basi sono rappresentate dalle forze culturali che da tempo si impegnano per un carcere più umano e possibile. Tra queste c’è l’architetto Cesare Burdese, esperto in edilizia e architettura penitenziaria. Nella sua lunga carriera ha preso parte a Commissioni e tavoli tecnici, studi e dibattiti anche a livello internazionale. È stato tra gli esperti convocati dall’allora ministro Orlando per gli Stati generali dell’esecuzione penale per studiare progetti che la politica ha poi lasciato sulla carta. Un carcere diverso è ancora possibile? “Sì, ma bisogna superare l’idea del recinto e l’architetto ci può insegnare come. Abbiamo esempi all’estero che funzionano e abbiamo semi gettati in questi anni di studio e impegno”, sottolinea Burdese che due giorni fa ha tenuto una lezione agli studenti di Architettura della Federico II nell’ambito del laboratorio coordinato dalla professoressa Marella Santangelo, responsabile del polo universitario penitenziario in Campania. C’è però un nodo irrisolto su cui Burdese punta l’attenzione: in Italia gli architetti sono esclusi dalla progettazione carceraria e l’edilizia penitenziaria dovrebbe entrare nel normale percorso universitario. “È importante che il mondo culturale dell’architettura, insieme al mondo giuridico, all’università, alla società civile, faccia crescere il fronte culturale per collaborare a un rinnovamento architettonico anche nelle carceri. Che non vuol dire riempire l’Italia di recinti, ma vuol dire strutturare il territorio con delle risposte spaziali adeguate affinché la pena sia quella che dice la Costituzione, quella a cui si fa riferimento nell’ordinamento penitenziario, quella che ci indica l’Europa, dove il carcere inteso nel senso più tradizionale del recinto sia davvero l’extrema ratio”. Il carcere, dunque, dovrebbe essere un argomento che politici e burocrati dovrebbero affrontare confrontandosi con altri esperti, che siano architetti, psicologici, insomma figure impegnate per il reinserimento sociale di chi sconta la pena. “Insegniamo agli studenti a progettare carceri come si progettano chiese, ospedali, scuole. Il carcere - sottolinea Burdese - non è una struttura pubblica di secondo piano, non c’è una graduatoria, non è di serie B. Il carcere è abitato dai detenuti e da chi lavora all’interno delle strutture penitenziarie, quindi bisogna parlare di utenza a vario titolo”. E per questo, oltre che per quei principi di tutela della dignità umana e di funzione rieducativa della pena, il carcere dovrebbe diventare un luogo più vivibile. Un luogo dove i muri non circondano solo vite di privazione e sofferenza “ma di aspirazioni verso un futuro migliore per chi sconta la pena, di civiltà, organizzazione, qualità, cultura”. “Occorrerebbe creare - spiega Burdese - un sistema di architetture che progressivamente sono sempre più aperte”. Come quelle spagnole, dove la cella è il luogo dove il detenuto dorme non dove vive per tutto il tempo della pena, dove il carcere è una metafora della città con luoghi per il lavoro, per la socialità e per l’affettività, e dove la reclusione viene progressivamente abbandonata man mano che si prosegue nel percorso di reinserimento. O come le carceri francesi, rinnovate in tempi record e adeguate agli spazi di vita e reinserimento sociale del detenuto. O, infine, le carceri austriache dove persino l’arte contemporanea diventa parte integrante dell’architettura penitenziaria. Mamme e bambini in carcere: il cuore oltre le sbarre di Ilaria Tirelli leurispes.it, 5 dicembre 2020 Tutelare la salute è stato, ed è tutt’oggi, l’imperativo della pandemia. Una priorità che ha riguardato tutti, e in modo particolare alcune categorie come quella delle madri detenute con figli al seguito. A loro favore, si articola l’emendamento alla Legge di Bilancio promosso ieri dall’On. Paolo Siani, con il sostegno delle associazioni Cittadinanzattiva, A Roma Insieme-Leda Colombini e Terre des Hommes; l’emendamento prevede l’istituzione di un fondo dedicato in grado di garantire le risorse necessarie per sostenere l’accoglienza, al di fuori del circuito penitenziario, di detenute madri con figli al seguito. Come sostenuto dall’On. Siani, si tratta di un piccolo fondo che non sottrarrebbe risorse ad altre attività; tuttavia, una tale iniziativa assicurerebbe a quei 34 bambini reclusi nelle carceri del nostro Paese di avere un’infanzia come tutti gli altri. La presenza di minori all’interno delle carceri italiane costituisce un grave paradosso del nostro sistema legislativo, nonostante qualsiasi legge o protocollo d’intesa sia sempre stato finalizzato, in primis, alla tutela dei diritti di bambini e adolescenti che si trovano in condizioni di detenzione genitoriale. Madri recluse con bimbi: i numeri in Italia - Come si ricordava nel 32° Rapporto Italia dell’Eurispes, ad oggi esistono in Italia cinque Istituti carcerari femminili: Rebibbia Femminile, Pozzuoli, Empoli, Venezia Giudecca, Trani, per la fase di esecuzione della pena e vi sono 49 sezioni femminili all’interno di altri Istituti penitenziari. La presenza dei bambini in carcere ha registrato un aumento considerevole soprattutto nel biennio 1998-2000, quando il numero è quasi raddoppiato. Successivamente, si sono verificati incrementi e diminuzioni più o meno sistematici negli anni 2003-2010, e negli ultimi due, tre anni, si è manifestato un picco di presenze, riportando il dato più o meno alla situazione di partenza. Secondo gli ultimi aggiornamenti della sezione statistica del Dap (30 novembre 2020), nel circuito penitenziario risultano esserci 31 madri detenute con 34 figli al seguito, un numero notevolmente diminuito rispetto a quello che si registrava al 31 gennaio 2020, quando le madri presenti erano 52 e i figli al seguito 57. Tuttavia, i numeri continuano a preoccupare, anche perché è previsto che il bambino, finché rimane con la madre, debba restare nelle sezioni nido del carcere fino al compimento del terzo anno di età; dopo, deve andar via o con un parente, o tramite un affidamento temporaneo. Nelle case famiglia protette, invece, i bambini possono rimanere fino ai dieci anni di età. Ovviamente si cerca di favorire il più possibile l’uscita dal carcere dei minori, circostanza, tuttavia, impossibile se le madri devono scontare pene molto lunghe, con la conseguenza che i bambini sono costretti a continuare a vivere in questa realtà. Trovare un’alternativa al carcere - Quello che è successo durante il lockdown nel carcere femminile di Rebibbia ha dimostrato che è possibile adottare soluzioni alternative al fine di permettere a madri e figli di vivere in condizioni di sicurezza continuando, comunque, a scontare la propria pena. Il Dl. n. 18/2020 prevedeva, infatti, di estendere “fino al 30 giugno 2020, la disciplina già prevista a regime dalla legge n.199 del 2010, in base alla quale la pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche se parte residua di maggior pena, può essere eseguita presso il domicilio”, proprio perché gli Istituti penitenziari non erano ritenuti luoghi sicuri al livello sanitario per l’assenza di mascherine, gel disinfettante, nonché per il contagio che poteva essere potenzialmente veicolato dagli agenti di Polizia penitenziaria o da tutti coloro che avevano contatti con l’esterno. Il decreto ha avuto da subito effetti positivi, semplificando notevolmente le procedure di rilascio per reati meno gravi e facendo registrare, di conseguenza, una diminuzione delle presenze nelle carceri italiane. Prima della pandemia (31 gennaio 2020) erano 15 le madri e 15 i bambini reclusi nella sezione femminile di Rebibbia; successivamente, applicando le nuove direttive, alcune madri hanno potuto scontare la pena ai domiciliari, una è stata accolta in casa famiglia e altre sono uscite avendo concluso i termini di condanna. Al 31 novembre 2020, le madri in carcere erano 5 e i bambini 5, con un drastico calo delle presenze. Oltre alle difficoltà sanitarie, il Covid-19 - e il conseguente lockdown - ha significato per le carceri l’interruzione delle attività di volontariato, nonché dei contatti con parenti o amici esterni. Per i bambini tutto questo si è tradotto nella sospensione di laboratori didattici, attività ricreative, servizi di asilo nido, contatto con i propri cari. La prevenzione e la sicurezza sanitaria all’interno di un’entità chiusa e limitata come il carcere dovrebbe essere un obiettivo più facile da perseguire. Tuttavia, dal momento che inefficienze e carenze si sono manifestate in tutti i settori della società - scuola, sanità, trasporti per elencare solo quelli in cui le difficoltà si sono palesate in modo più eclatante - sia nella prima sia nella seconda ondata del virus, è bene adottare fin da subito soluzioni alternative, perché come sostenuto dall’On. Siani “esistono in Parlamento soluzioni di buon senso e percorribili anche nell’immediato perché nelle carceri italiane non ci siano più bambini innocenti con le loro mamme”. La presenza di bambini dietro le sbarre è un tema sul quale da tempo si invocano interventi e riforme e, forse, proprio per l’esigenza di agire prontamente, questa pandemia può rappresentare un punto di svolta. Pena di morte, il 43% degli italiani è a favore: l’odio è diventato quotidiano di Donatella Di Cesare La Stampa, 5 dicembre 2020 Miseria e brutalità nel Paese di Beccaria. Che la violenza, nelle sue forme subdole e in quelle più eclatanti, sia divenuta un’ovvia quotidianità non è sorprendente. Ciascuno potrebbe attingere alla propria esperienza per raccontare episodi di cui è stato vittima, o almeno testimone, nello spazio reale e in quello virtuale. Per non parlare di quel che si apprende dalla cronaca. Ma chi avrebbe potuto immaginare che nel paese di Beccaria, nell’Italia rinomata per l’indole mite, quasi la metà dei cittadini sarebbe stata favorevole alla pena di morte? La percentuale del 43,7% è già sconcertante. Sennonché lo sconcerto diventa un vero sbigottimento colmo d’angoscia di fronte alla percentuale che sale al 44,7% tra i giovani. Quando si parla di pena di morte vengono in mente le carceri americane della Georgia e del Texas, dove i condannati sono assassinati con iniezioni letali; oppure si pensa alla Corea del Nord, all’Iraq, all’Iran, insomma a quei regimi che nulla vogliono sapere dei diritti umani. Com’è possibile che così tanti cittadini italiani, se interrogati, si dichiarino propensi a far uccidere il colpevole? Brutalizzazione, degrado culturale, mancanza di prospettive, miseria materiale, vuoto esistenziale, aggressività divenuta cifra della sfera pubblica, diffusione di odio, acredine, livore: sono tutte concause che hanno contribuito a far cadere ogni barriera. D’altronde risuonano spesso le parole di vendetta: “deve restare in carcere e marcire”, “devono buttare via le chiavi”. Io sono vittima e l’altro è colpevole, anzi, è la causa di tutti i miei mali. Non si deve dimenticare infatti che la violenza richiede immaginazione. La catastrofe della pandemia spinge moltissimi al vittimismo esasperato che ha coloriture complottistiche. Sta qui la fonte di una terribile promessa di violenza articolata ormai senza reticenza. Troppa rabbia. Metà degli italiani vuole la pena di morte di Filippo Facci Libero, 5 dicembre 2020 Gli italiani si affacciano virtualmente dai balconi ma non cantano più l’inno di Mameli, e non rassicurano i passanti dicendo che finirà bene: ma invocano la pena di morte e poi rientrano in casa spaventati, anche perché fa freddo. È la più brutta Italia di sempre (dopoguerra permettendo) ed è quella che risulta fotografata dal 54° “Rapporto sulla realtà sociale del Paese” a cura del Censis, uno degli istituti più seri che ci restano. La parola chiave di questo Rapporto purtroppo è “morte”, intesa come sfondo e timore del Coronavirus ma anche come impennata dei favorevoli alla pena capitale (il 44 per cento degli italiani, quasi uno su due) con una morale finale che lo storico direttore del Censis, Giuseppe De Rita, ha cristallizzato in uno slogan che rispolvera un tratto storico della nostra psicologia collettiva: “Meglio sudditi che morti”. C’è pure, si diceva, il “meglio morti che in galera” rispolverato per chi compia dei reati ritenuti abietti: che non è una conseguenza legata al cinismo del Paese che invecchia, ma all’apparente ignoranza e maggior spavalderia “da social” nell’invocare la soppressione della vita altrui: lo dimostra che le percentuali più alte - spiega il Censis - sono tra i 18-34enni, forse i più ignari non tanto delle lezioni di Cesare Beccaria, quanto dei semplici dati sull’effettiva deterrenza della pena di morte nei vari Paesi del mondo: tra i Paesi che l’hanno abolita e quelli che la mantengono, i più pericolosi continuano a risultare quest’ ultimi, con tassi di omicidi addirittura in crescita. Ma l’improvvisa domanda di pena di morte, da noi, ha più l’aria di un riflesso che di una riflessione: “C’è un rimosso in cui pulsano risentimenti antichi e recentissimi di diversa origine, intensità, cause”, si legge nel Rapporto, “e non sorprende, quindi, che persino una misura assolutamente indicibile come la pena di morte torni nella sfera del praticabile”. Insomma, alla fine c’è un Paese impaurito e con un tessuto sociale sfilacciato. Nel 2017 c’era l’Italia del rancore, con la politica che già inseguiva i like; il 2018 era l’anno di un’Italia severa col migrante e con le sue colpe vere o non vere; il 2019 invece era un anno di incertezza e di sfiducia: così il 2020 è diventato l’anno del terrore di un virus (vero) che a sua volta ha innescato una malcelata paura del futuro. Da qui una società civile al lumicino. Il 38,5 per cento si dice pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, quindi accetta dei limiti al diritto di sciopero e alla libertà di opinione e soprattutto di circolazione. Il 77,1 per cento chiede pene severe per chi non indossa le mascherine di protezione o non rispetta il distanziamento o i divieti di assembramento. Il 76,9 per cento è convinto che chi ha commesso i principali errori, nell’emergenza, siano i politici o i dirigenti della sanità o altri, e pensa che debbano pagare per gli errori commessi: ma in concreto gli italiani non fanno nulla perché ciò accada, si tengono questo governo come ci si tiene un herpes. Il 56,6 per cento, poi, chiede il carcere per i contagiati che non rispettino le quarantene, e il 31,2 per cento addirittura non vuole che vengano curati o vuole che lo siano in coda agli altri. Insomma, la socialità è ai minimi storici, e la tensione “securizzatrice” non ha prodotto solo un crollo verticale del Pil per via di politici unanimemente riconosciuti come incapaci, ma ha imbolsito il già scarso orgoglio civico e democratico: il 57,8 per cento è evidentemente disposto a rinunciare alle libertà personali in nome della tutela della salute collettiva, delegando senza problemi le decisioni su quando e come uscire di casa, su che cosa è autorizzato o non lo è, sulle persone che si possono incontrare e sulle limitazioni alla mobilità. Borbottanti e incattiviti, ma sudditi, proni a un re che non c’è: “Privi di un Churchill a fare da guida nell’ora più buia, capace di essere il collante delle comunità”, si legge, “il nostro modello individualista è stato il migliore alleato del virus, unitamente ai problemi sociali di antica data, alla rissosità della politica e ai conflitti interistituzionali”. Non resta che accendere i riflettori, come fa il Censis, su problemi che già conoscevamo ma che si sono ora accentuati, al punto da apparire sottovalutati: mai così profonda si è manifestata la frattura tra i garantiti e i non garantiti, che in questa fase temono la discesa agli inferi della disoccupazione. Pagano il conto in particolare giovani e donne: per loro sono stati già persi quasi 500mila posti di lavoro. Anche nel giorno in cui il Covid fosse imbrigliato, solo il 13 per cento sarebbe disposto a rischiare per aprire un’impresa. Resta il luogo comune, ormai accettato come un fato immutabile: viviamo il momento peggiore possibile con il governo peggiore possibile, non sappiamo quanto doloso nel suo agire - perché il dolo implica intelligenza - e nel suo terrorizzare gli italiani ogni giorno di più. È questa la cosa che fa più paura: a comandare sono i peggiori ma neppure lo sanno, e fanno danni irrecuperabili, ma forse non lo fanno neanche apposta. Giustizia lumaca, l’Europa: “Estendere la legge Pinto anche alle indagini preliminari” di Simona Musco Il Dubbio, 5 dicembre 2020 Strasburgo bacchetta l’Italia per l’inerzia nell’applicazione della legge sui risarcimenti per l’irragionevole durata dei processi. La “legge Pinto”, che disciplina il diritto a un’equa riparazione per l’irragionevole durata di un processo, andrebbe esteso anche alle indagini preliminari, nel caso in cui la parte lesa abbia esercitato almeno uno dei diritti procedurali previsti dal codice di procedura penale in caso di durata eccessiva. È quanto contesta il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa all’Italia, bacchettata per l’inerzia nell’applicazione della legge Pinto. Insomma: il nostro Paese è lento anche quando si tratta di risarcire le lentezze del sistema giustizia. Lentezze che pesano sulla vita delle persone, a volte distruggendola per sempre. Il comitato ha chiesto così alle autorità italiane di agire con rapidità e fornire informazioni su quanto fatto non oltre il 31 marzo prossimo. Pur apprezzando “gli sforzi delle autorità italiane” per garantire una durata ragionevole delle indagini preliminari e dei procedimenti amministrativi, il comitato ne critica comunque l’effettiva capacità di affrontare le questioni sollevate dalle sentenze Cedu relative ai risarcimenti per irragionevole durata del processo. Esprimendo “profondo rammarico” per il fatto che non siano state fornite “informazioni pertinenti e complete sulle questioni evidenziate dal Comitato nella sua decisione del settembre 2019”, relativa alle restrizioni della normativa del 2012, ovvero l’esclusione di procedimenti di durata pari o inferiore a sei anni e il tetto al risarcimento, l’inefficacia della legge “Pinto” nell’ambito del procedimento giudiziario amministrativo e, appunto, l’impossibilità di applicarla alle indagini preliminari troppo lunghe. Un problema, questo, al quale il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha tentato di porre rimedio con un ddl di riforma del processo penale che prevede l’introduzione della valutazione del giudice in merito alla eventuale retrodatazione dell’iscrizione dell’indagato nell’apposito registro e la conseguente sanzione di inutilizzabilità degli atti di indagine realizzati a termini già scaduti. Se, per il comitato, è positivo il tentativo dell’Italia di ridurre la durata della fase delle indagini preliminari per mitigare gli effetti della prescrizione, dall’altro la legge “Pinto” non consente ancora a una parte lesa di essere risarcita in caso la giustizia lumaca riguardi la fase d’indagine. Una situazione in conflitto con la sentenza Arnoldi pronunciata dalla Cedu - che aveva valutato come irragionevole durata proprio quella relativa alle indagini preliminari, durate sette anni - e deve essere affrontata rapidamente. Che la nostra giustizia non piaccia agli osservatori esterni è un fatto noto: secondo il “Global competitiveness index”, infatti, l’Italia si colloca al 130esimo posto su 141 Paesi censiti per capacità di “risolvere le controversie” ed al 126esimo posto per “efficienza del sistema legale in caso di contestazioni sulla normativa”. Un altro studio, elaborato dalla commissione del Consiglio d’Europa specializzata nella valutazione dei sistemi giudiziari (Cepej), pone l’Italia al 35esimo su 42 paesi monitorati per efficienza del sistema giudiziario. Un rapporto dal quale si evince che In Italia il tempo medio per arrivare a una sentenza in primo grado in un processo penale, nel 2018, è stato il più elevato d’Europa: 361 giorni contro una media di 144 giorni. Il comitato ha dunque sottolineato l’importanza di garantire l’efficace funzionamento della legge “Pinto” e di impedire un nuovo flusso di ricorsi ripetitivi alla Corte derivanti da carenze interne al sistema giudiziario italiano, invitando ancora una volta le autorità ad affrontare rapidamente le questioni in sospeso. Anche in tal senso viene criticata la disposizione che esclude qualsiasi possibilità, a livello nazionale, di presentare reclamo per procedimenti della durata di sei anni o meno, in quanto ciò incoraggerebbe i ricorrenti a portare i loro casi direttamente alla Corte europea. Altrettanto problematica è la previsione secondo cui il risarcimento non può superare il valore in gioco nella causa principale, in quanto la Cedu considera la somma in gioco come uno degli elementi di valutazione del risarcimento per eccessiva durata del processo. Sono diverse le richieste formulate dall’Europa all’Italia in tema di eccessiva durata dei processi. In primo luogo, si chiede la riduzione della durata media dei procedimenti civili in primo grado e dell’arretrato di cause civili pendenti da più di tre anni prima di arrivare a giudizio. “I risultati devono essere consolidati nel contesto degli sforzi generali per affrontare l’eccessiva durata dei procedimenti dinanzi ai tribunali civili - afferma il comitato - e attraverso la risoluzione delle questioni in sospeso relative al rimedio compensativo introdotto dalla legge “Pinto” nel 2001”. Tra le quali una rimozione del limite di budget disponibile, che dunque renderebbe impraticabile l’applicazione della norma. Ma la durata eccessiva riguarda anche i processi penali e amministrativi. Le toghe onorarie, indispensabili e senza diritti da Consulta della Magistratura Onoraria Il Riformista, 5 dicembre 2020 Lavorano accanto alla magistratura professionale. Giudici e pm anch’essi, cui lo Stato ha devoluto oltre il 50% degli affari civili di primo grado, oltre l’80% nel penale, ma senza alcun giusto riconoscimento. Pagati a cottimo, privi di tutele. Non tutti i Magistrati sono uguali, non nei diritti almeno. Nell’immaginario collettivo il Magistrato gode di una condizione lavorativa stabile, quasi invidiabile, cui è sconosciuto lo svilimento proprio di altre categorie, anche nel settore pubblico. Ma non è così per tutti. Il Covid-19 ha scoperchiato il vaso di Pandora, ha liberato tutte le aberrazioni cui i 5000 magistrati onorari italiani sono soggetti nel quotidiano esercizio delle proprie funzioni, da oltre 20 anni. Costoro lavorano accanto alla Magistratura professionale, giudici e pubblici ministeri anch’essi, cui lo Stato ha devoluto oltre il 50% degli affari civili di primo grado di giudizio, oltre 1’80 % nel settore penale, ma senza alcun corrispondente riconoscimento. Per lo Stato italiano costoro, impiegati senza soluzione di continuità ed in misura sempre maggiore, pena il collasso del Sistema, non sono lavoratori, non spetta loro alcun diritto. Le Associazioni componenti la Consulta della Magistratura Onoraria, unitamente alle altre rappresentative della categoria, hanno cercato a più riprese, ad oggi senza esito, un dialogo col Ministro Bonafede per ricondurlo a considerare le incivili condizioni di lavoro - e non di filantropico esercizio - in cui operano. In una recente lettera al Ministro, le Associazioni hanno chiesto un incontro, in una fase drammatica, per ricordare come questi magistrati “non abbiano alcuna assistenza per la malattia alla quale sono esposti massivamente, presenziando in udienza per interminabili giornate, con un carico in perorartene crescita anche per via dei ritardi dovuti alla prima fase pandemica. Assenti - per loro - collaboratori di segreteria che li coadiuvino nelle attività propedeutiche e successive, i Magistrati Onorari accedono quotidianamente agli uffici giudiziari, ove non ci sono spazi sufficienti per garantire efficacemente il distanziamento sociale, con conseguente esposizione al rischio elevatissima. E, tutto questo, senza alcuna tutela della malattia”. Eppure costoro, come ogni magistrato, sono sottoposti a valutazioni di professionalità, efficienza e di produttività, il cui severo accertamento è devoluto al Csm, ma si ritiene equo compensarli a cottimo, con un misero gettone di presenza pari a 98 euro lordi, dal 2003 mai indicizzato, senza alcun ulteriore riconoscimento economico, neanche in caso d’incolpevole assenza, sia pure perché malati di Covid-19 o in isolamento fiduciario. Lo Stato Italiano, monitorato speciale della Commissione Europea, come recentemente ribadito, per il quale è prossima l’ennesima procedura d’infrazione per violazione dei loro diritti, mantiene questi lavoratori in una “condizione ripugnante”, locuzione usata proprio dalla coalizione al Governo per definire l’identica condizione in cui sono tenuti, da datori di lavoro privati. “Risulta ancor più ripugnante - hanno sottolineato i rappresentanti delle toghe onorarie al Ministro - laddove sia lo Stato a riservare un identico disumano trattamento a chi amministra Giustizia, uno dei settori portanti di qualsivoglia democrazia moderna, unitamente a Sanità e Istruzione”. Non si può tacere, poi, la gravità delle parole espresse sul tema dalle senatrici Valente ed Evangelista, relatrici per la maggioranza dell’ennesimo disegno a finanza invariata di riforma del settore: l’irricevibilità delle legittime richieste di questa categoria di lavoratori viene attribuita, dalle due esponenti parlamentari, a scelte operate dall’entourage ministeriale, ora come nel 2017, allora Guardasigilli Andrea Orlando, nello specifico dalla sua componente magistratuale (professionale). Verrebbe da dire che il lupo perde il pelo ma non il vizio, se non fosse che quanto emerso è ancora più allarmante: non solo, cambiando il protagonista di Via Arenula, appare immutata l’investitura meramente formale di un molo delegato ad altri, ma tale abiura pare un virus ad espansione rapida che porta a piegarsi al diktat dei tecnocrati anche i titolari di mandato parlamentare, investiti direttamente per elezione e tenuti esclusivamente ad operare, nel rispetto della Costituzione, per l’efficienza e il buon andamento della Pubblica Amministrazione e dei cittadini che, soggetti attivi o passivi, ne fanno parte. Pur di non dispiacere all’impianto imposto dalla componente, decisamente minoritaria, di magistrati prestati alla politica, invece, in spregio anche ai reiterati dell’Ue al ripristino dello stato di diritto, l’attuale Legislatore decide di mantenere questi lavoratori essenziali in una condizione che mina l’autonomia e indipendenza della funzione magistratuale stessa, persistendo, per il futuro come per il passato, in una dimensione da legislazione lavoristica di fine ‘800. Nessuna tutela della malattia, della maternità, nessun riconoscimento previdenziale, imponendo il versamento di contributi interamente a carico del lavoratore, nessun adeguamento dei riconoscimenti retributivi alla quantità e qualità del servizio reso. È certamente singolare che, mentre la Magistratura al Ministero insista per una politica soppressiva, la Magistratura negli Uffici giudiziari sottolinei invece l’imprescindibile apporto della consorella onoraria, avanzando al Ministro, in un recente documento sottoscritto dal nuovo Comitato Direttivo dell’Anm, richiesta di un maggior impiego di questa componente formata ed essenziale dell’Ordinamento. Evidentemente è assai diverso l’obiettivo perseguito, non di carattere politico a difesa della casta, ma di efficienza del Sistema e buon andamento della res publica che non può prescindere da una componente impiegata quotidianamente nelle medesime attività, tenuta ai medesimi doveri, ma privata dei più basilari diritti. Per sostenere la bontà di un simile impianto, poi, fedele alle direttive imposte per sua stessa ammissione, il nostro Legislatore ha deciso di puntare, nell’imbarazzo generale, al coup de diecine: qualificare quali lavoratori autonomi i magistrati onorari italiani Non è concepibile, né previsto in alcun Ordinamento dell’Ue, che un Legislatore nazionale ipotizzi di appaltare una quota considerevole di giurisdizione, nel settore sia civile che penale, a liberi professionisti del diritto, solo per giustificare a un distratto lettore che trattasi di escamotage meramente formale per violarne le prerogative giuslavoristiche. Non basterà ad evitare né la procedura d’infrazione, né il profluvio di cause davanti al giudice del lavoro, né le responsabilità dello Stato per i costi conseguenti, incidenti sulle proprie casse e sui cittadini. Dopo aver sfruttato per oltre 20 anni lavoratori a costi irrisori, con un capitolo di bilancio loro riservato pari a un decimo delle risorse stanziate per gli omologhi magistrati professionali, lo Stato, asseritamente garante dell’efficienza, del buon andamento e dell’imparzialità del Sistema Giustizia, ora pensa di adempiere a questo dovere non riconoscendo i legittimi diritti loro spettanti, che assicurino la doverosa indipendenza nell’espletamento delle funzioni ed il ritorno alla legalità, non rispettando il proprio mandato parlamentare e, di riflesso, la Carta Costituzionale, bensì creando una figura di business owner della Giustizia, con ricadute ancor più devastanti sull’azzoppato Sistema e le sue casse. Ma con buona pace dei collaboratori in toga del Ministro di turno. Orfani di femminicidio: fondi per sostenerne duemila, ma finora ne abbiamo aiutati solo due di Alessandra Ziniti La Repubblica, 5 dicembre 2020 Il bilancio del prefetto Raffaele Cannizzaro che lascia l’incarico di commissario per le vittime di mafia e dei reati intenzionali violenti. “Oggi quello che è successo ai figli di Marianna Manduca non potrebbe più accadere. Porteremo in teatro le storie di due donne-simbolo”. Se ne va lasciando il cuore a Crotone, a quella torta di compleanno che si continua a tagliare in memoria del piccolo Dodò, ucciso per sbaglio su un campo di calcetto a 11 anni. Ma anche con la consapevolezza che oggi un altro caso come quello dei figli di Marianna Manduca, chiamati a restituire allo Stato un risarcimento da 250.000 euro per la loro mamma uccisa dal marito, oggi non potrebbe più verificarsi e anche con la soddisfazione di aver finalmente liquidato i primi due assegni di sostegno alle famiglie affidatarie di minori orfani di femminicidio. Prefetto Raffaele Cannizzaro, lascia l’incarico di commissario per le vittime di mafia e dei reati intenzionali violenti con importanti passi avanti nel sostegno a questi ragazzi. Il premier Conte, dopo l’inchiesta di Repubblica, ha annunciato che lo Stato rinuncerà a quanto richiesto agli orfani di Marianna Manduca... “Non è un caso che dipendeva dal mio ufficio ma oggi, certamente, con le nuove norme una vicenda del genere non potrebbe più verificarsi. Abbiamo varato una norma importantissima che è un “unicum” nel panorama europeo e che ci consente di intervenire a sostegno degli orfani di femminicidio subito, senza attendere una sentenza del processo e neanche una richiesta di rinvio a giudizio. L’aiuto ai minori va dato tempestivamente. Possiamo operare direttamente sugli atti di indagine, se poi (anche dopo anni) dovesse venire fuori che non si trattava di un femminicidio ma di un delitto per altra causa, non chiederemo mai i soldi indietro. Abbiamo comunque assistito dei minori ed è interesse dello Stato crescere dei cittadini veri”. La legge c’è ma diverse famiglie che si sono fatte carico dei bambini rimasti soli lamentano che è molto difficile e farraginoso accedere a questi fondi che per loro invece sono vitali. E infatti avete liquidato i fondi di sostegno solo in due casi... “È vero siamo solo all’inizio, ci sono 2.000 persone oggi in questa situazione ma siamo riusciti a liquidare l’assegno di sostegno (300 euro al mese) alle famiglie affidatarie di due ragazzi che hanno vissuto un dramma terribile: la prima è una tredicenne rimasta solo con la sorella oggi diciannovenne, figlia di un carabiniere che nel 2012 a Palermo uccise la moglie e poi si tolse la vita; il secondo è un ragazzino di 15 anni, anche lui vittima di una tragedia identica, adesso affidato allo zio in una città del centro nord. Da luglio è in vigore il regolamento che ha semplificato in modo enorme le procedure, abbiamo pubblicato i moduli per le domande sul sito e tutti i documenti da produrre sono in autocertificazione. Saremo noi ad accertare i requisiti. Resta il fatto che purtroppo sono in pochi a conoscere questa opportunità”. E proprio per questo vi è venuto in mente di portare queste storie a teatro, ma anche nelle scuole e nelle università raccontando di Lia e Teresa? “Sì, è una iniziativa di cui sono molto orgoglioso, un’opera teatrale che abbiamo affidato a Isabel Russinova e da cui verrà tratto anche un cortometraggio per scuole e università. Sarà una libera interpretazione, una simbiosi di due storie che mettono insieme mafia e femminicidi. Quella di una donna siciliana, figlia di un boss uccisa con il consenso del padre per una sua presunta relazione extraconiugale, lasciando un bambino che 30 anni dopo ha rifiutato il lavoro offertogli dal nonno chiedendo e ottenendo da noi il risarcimento giudiziario, e quella di una donna di Napoli uccisa per aver denunciato l’uomo che aveva abusato di sua figlia”. In questi due anni di mandato avete portato a 60.000 euro il risarcimento per gli orfani, previsto borse di studio e rimborso delle rette di collegi e convitti, spese sanitarie e progetti per la formazione e l’occupazione di questi ragazzi. Norme e regolamenti, ma qual è il ricordo più emozionante che porterà con sé? “A Crotone, la “festa” di compleanno di Dodò, Domenico Gabriele, ucciso a 11 anni nel 2009. Ai suoi genitori abbiamo riconosciuto il risarcimento per quell’unico figlio che hanno perso, loro ne onorano la memoria nel giorno del compleanno con una torta con tanto di candeline a cui sono stato invitato. Hanno fondato un’associazione che lavora per la legalità per onorare la memoria di Dodò - dice il padre - facendo in modo che tutti i bambini oggi possano scegliere da che parte stare. E sono felice che i soldi del risarcimento siano spesi cosi”. Il problema dei rischi giudiziari per i medici in epoca Covid di Francesco Centonze* Corriere della Sera, 5 dicembre 2020 La prima ondata pandemica ha puntualmente generato molteplici indagini penali nei confronti di medici impegnati nella gestione dei pazienti affetti da Covid-19. La stampa ha da ultimo dato notizia di un procedimento aperto, per omicidio colposo plurimo ed epidemia colposa, in relazione ai contagi avvenuti nell’ospedale di Sassari. Si pone pertanto con tutta evidenza il problema del crescente rischio giudiziario del personale medico. Il contesto è dei più avversi per i sanitari: incertezza scientifica nell’affrontare problematiche inedite, scarsità delle risorse disponibili e, più in generale, condizioni di operatività perennemente emergenziali. I medici, nell’ambito di organizzazioni ospedaliere sottoposte a una continua tensione, sono chiamati a prendere decisioni difficili e a effettuare, caso per caso, un bilanciamento tra diversi interessi: la tempestività delle cure, le aspettative degli altri malati e l’opportunità di scelte terapeutiche “difensive”. Quali soluzioni dunque per contenere i rischi giudiziari dei medici? Le proposte volte a introdurre una causa di non punibilità per gli operatori sanitari non hanno - condivisibilmente - trovato il consenso del Parlamento. In realtà, piuttosto che cercare rimedi estemporanei, potrebbe essere sufficiente adoperare le regole esistenti in conformità ai principi costituzionali. In altre parole, è quanto mai indispensabile, nell’epoca della pandemia, un approccio giudiziario alla responsabilità sanitaria orientato al rigoroso accertamento della colpa medica e della causalità. L’”oltre ogni ragionevole dubbio” è una regola probatoria e di giudizio che consente una seria delimitazione delle condotte penalmente rilevanti. In questa prospettiva, la Procura Generale della Cassazione ha recentemente evidenziato “l’opportunità di identificare la regola cautelare di riferimento”, in modo da verificare “se fosse esigibile un comportamento organizzativo e terapeutico diverso”. *Ordinario di diritto penale Università Cattolica, Piacenza Viola obbligo di assistenza familiare il padre naturale che “sparisce” subito dopo il parto di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2020 Scatta il reato per mancato mantenimento dalla consapevolezza del proprio status di genitore. Stato di bisogno del minore è in re ipsa. La conoscenza del fatto di essere diventato padre - benché “naturale” - determina in sé l’obbligo di assistere e mantenere il figlio. Per cui il mancato sostentamento economico del minore fa scattare per il padre indifferente la responsabilità penale ex articolo 570 del Codice penale. e a nulla vale sostenere l’inesistenza di uno stato di bisogno materiale, cioè economico, in quanto lo stato di bisogno è in re ipsa determinato dalla minore età del figlio. Così la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 34643/2020, ha respinto il ricorso di un padre non coniugato che aveva pochi giorni dopo il parto della convivente fatto perdere le proprie tracce senza corrispondere alcunché a titolo di mantenimento del piccolo nato. La Corte respinge la lamentata violazione della norma penale (articolo 570 bis) che sanziona il coniuge che separato o divorziato manca di versare il mantenimento periodico. Il ricorrente non era stato infatti imputato per tale reato bensì per violazione degli obblighi di assistenza familiare. Il ricorrente aveva anche tentato di far rilevare che nel periodo di inadempimento preso in considerazione dai giudici di merito si erano per lui determinate cattive condizioni economiche e di salute. La Cassazione risponde che risulta la valutazione da parte del tribunale e della Corte di appello in merito a tali circostanze riferibili però a un periodo successivo alla già manifestata condotta di omissioni di cure e mezzi verso la figlia. Il reato si era comunque già prodotto. E, aggiunge la Cassazione, il disinteresse manifestato dal padre naturale sin dai primi giorni seguenti al parto è sufficiente a dimostrare che il mancato sostentamento della prole nei periodi successivi connotati da dissesto patrimoniale e malattia sono solo la conferma di quanto non avesse mai avuto intenzione di provvedere al mantenimento della propria bambina. Facebook, non è stalking il post pubblico che prende in giro qualcuno di identificabile di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 5 dicembre 2020 Viene meno l’elemento dell’invasività nella vita privata capace di generare il perdurante stato d’ansia. La pubblicazione di post “canzonatori” su un profilo Facebook pubblico non integra il reato di stalking. Così la Corte di cassazione penale con la sentenza n. 34512/2020 ha fatto rilevare che per integrare il reato ex articolo 612 bis del Codice penale deve scattare quello stato d’ansia ingenerato da comunicazioni invasive della sfera privata quali sono, invece, gli sms telefonici o i messaggi di Whatsapp indirizzati direttamente alla “vittima”. Nel caso specifico il profilo pubblico creato dall’imputato assolto metteva in berlina il comportamento dei proprietari dell’appartamento che lui deteneva in locazione. Il profilo faceva in modo ironico rilevare come i proprietari pur essendo evasori fiscali per avergli affittato la casa in nero avevano poi comportamenti moralistici come quelli di tutela attiva per la salute degli animali. I post pubblicati dall’imputato sul profilo pubblico facevano sì che i propri locatari potessero leggerli solo per scelta volontaria. Inoltre, le loro generalità non venivano esplicitate anche se erano individuabili. Il tono sfottente dei post era comunque ascrivibile al legittimo esercizio della libertà di manifestazione del pensiero, in particolare nella specie del diritto di critica. Triveneto. Il Covid circola pure dietro le sbarre, a Tolmezzo il carcere è un focolaio di Laura Berlinghieri Il Mattino di Padova, 5 dicembre 2020 La situazione, in Veneto, rimane ancora entro cifre relativamente contenute. Ma, ampliando lo sguardo all’intero Nordest, l’immagine è quella di una bomba che, almeno in due strutture, è già deflagrata. È la condizione delle carceri, già al limite per le questioni endemiche da tutti conosciute, ma sulle quali difficilmente si è messo mano. Una condizione che ora è esasperata dal Covid. Tra le otto case circondariali della regione, si contano attualmente 32 positivi, di cui 14 sintomatici, tutti appartenenti al personale penitenziario, compreso un amministrativo a Venezia. Nessun caso, ad oggi, tra i detenuti. Leggendo i dati dell’intero Nordest, l’impennata è spaventosa, con il conteggio di 296 casi: 212 tra i detenuti e 84 tra il personale (guardie e amministrativi). Con due situazioni, entrambe in Friuli, che spiccano sulle altre: quelle di Tolmezzo, nell’Udinese, con 170 positivi (151 tra i reclusi) e di Trieste, con 55 positivi (40 tra i carcerati). Uno scenario di fronte al quale avanza lo spettro del piano per trasformare le case circondariali di Rovigo e di Trento in “carceri Covid” di riferimento per tutte le strutture del Nordest. Un piano che trova forma e sostanza in una nota diramata il 23 novembre dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Triveneto, contro cui si scaglia Gianpietro Pegoraro della Fp Cgil Penitenziari, denunciando il mancato confronto con i sindacati. “Appena è scoppiata la pandemia, la prima circolare prevedeva la riconversione in luoghi adibiti alla quarantena delle stanze dedicate all’isolamento. Lì i detenuti venivano sottoposti al tampone per poi, una volta ottenuto l’esito negativo, essere riammessi alla sezione” spiega il sindacalista “Dato che non tutti gli istituti penitenziari hanno delle camere che possono garantire l’isolamento, come dimostra il drastico peggioramento della situazione del carcere di Tolmezzo, il provveditorato ha deciso di individuare due carceri, in cui prevedere una sezione con soli detenuti positivi. E quindi la casa circondariale ad alta sicurezza di Rovigo, che potrà avere fino a 34 detenuti anche ad alta sicurezza, e di Trento, anch’essa con 34 posti, per carcerati di media e bassa sicurezza. Ma noi temiamo una commistione, soprattutto tra il personale, visto che i due reparti “Covid” e “non Covid” che si formerebbero a Rovigo condividono una rotonda e le scale”. Altra questione riguarda la carenza endemica di personale, anche nel “settore” che dovrebbe riguardare proprio la lotta alla pandemia: “Nelle nostre carceri mancano medici e infermieri”. La preoccupazione per la struttura di Rovigo ben si inserisce all’interno del quadro dipinto da Sergio Steffenoni, garante dei detenuti di Venezia, in proroga fino al 15 gennaio, che traccia lo scenario delle sette province: “Il provveditore delle carceri del Triveneto, Enrico Sbriglia, è andato in pensione sei mesi fa. Il suo posto per ora rimane vacante, ma è in arrivo una persona da Verona. Le carceri di Padova, Vicenza, Rovigo e Trieste sono prive del direttore. E così pure le due di Venezia, seppur temporaneamente”. Campania. Il virus uccide in cella: terzo detenuto morto in un mese di Samuele Ciambriello* Il Riformista, 5 dicembre 2020 Mentre l’Italia s’avvia a diventare “gialla”, le carceri invece restano grigie, con contagiati, morti, sovraffollamento, malasanità e malagiustizia. Filippo, 63 anni, detenuto a Poggioreale, è morto ieri al Cardarelli per Covid. È il terzo in Campania, oltre il direttore sanitario del carcere di Secondigliano. Tutti con patologie cardiache o comunque croniche. Quindi era meglio prevenire. Si continua a morire di carcere e in carcere. I dati di oggi ci dicono che, per numeri e quantità di istituti colpiti, sarebbe utile fare altri passi avanti. Ma il ministro Bonafede, il governo Conte e i partiti latitano, dimostrandosi pavidi e cinici. Le criticità che il sistema-carcere sta rivelando ora che l’emergenza Covid lo ha investito in pieno sono sotto gli occhi di tutti. L’aumento esponenziale del numero dei contagi tra la popolazione carceraria e gli operatori penitenziari costituisce il dato più evidente dell’incapacità di contenere e reagire alla diffusione del virus all’interno degli istituti penitenziari. Gli interventi legislativi adottati finora per ridurre la popolazione carceraria - peraltro volgarmente strumentalizzati da gran parte dell’opinione pubblica come un tentativo di aprire le porte del carcere per “boss” e condannati al 41bis - si sono rivelati del tutto insufficienti a raggiungere gli obiettivi sperati. Anche le previsioni del decreto Ristori, delle quali si auspica un miglioramento in sede di conversione, sembrano muoversi lungo la medesima, insoddisfacente, direzione. Le piccole misure per alleggerire le carceri in tempi di Covid sono una chimera. Parlare di “clemenza” sarebbe fare dell’ironia. E tantomeno si può usare un’espressione, da sempre in voga, come norme “svuota-carceri”. Il “pacchettino” delle proposte - ecco, il pacchettino! - ha nella magistratura di Sorveglianza il luogo e le persone adatti a rendere il diritto alla salute, alla speranza, al trattamento e al reinserimento, concreti e aderenti alla Costituzione. In un simile scenario, è necessario che tutti gli attori che animano il sistema-carcere operino nella medesima direzione al fine di contenere il numero degli individui in entrata e di favorire forme di liberazione anticipata attraverso il ricorso ai vari strumenti previsti dalla legge. Tuttavia, i Garanti segnalano con rammarico come gli Uffici di Sorveglianza campani si rivelino, al momento, sordi alle esigenze dettate da questa situazione di drammatica emergenza. Pur riscontrando una certa sensibilità da parte di alcuni magistrati, inclini ad accogliere le istanze di avvocati e detenuti oltre che degli stessi Garanti, è evidente l’inerzia complessiva degli Uffici di Sorveglianza nel rispondere a tali istanze. Da giorni, infatti, i Garanti ricevono segnalazioni in tal senso, che arrivano dai detenuti e dalle loro famiglie, dai rappresentati di associazioni e cooperative che operano nel carcere e dagli stessi avvocati difensori. In particolare, le mancate risposte in materia di permessi premio, affidamento esterno al lavoro, liberazione anticipata e detenzione domiciliare con braccialetto finiscono per contribuire alla cronica situazione di sovraffollamento carcerario e all’aumento del senso di frustrazione dei reclusi. A ciò si aggiungono, inoltre, i continui ritardi mostrati dalle aree educative che finiscono per colpire soprattutto detenuti stranieri, senza fissa dimora o semplicemente poco seguiti dai rispettivi avvocati: così quelle persone diventano detenuti ignoti, dimenticati da quello stesso sistema che dovrebbe provvedere al loro reinserimento sociale. Nella consapevolezza dell’impatto che la pandemia ha avuto e ha tuttora sul carico di lavoro del comparto giustizia, il quale già soffre di un’endemica carenza di personale, i Garanti ribadiscono con forza la necessità di una relazione dinamica, continua e fluida con la magistratura di Sorveglianza e le aree educative, necessaria per garantire che il diritto alla vita e alla salute dei detenuti sia garantito. Mettere in sicurezza gli istituti e assicurare le buone condizioni di agenti, detenuti e operatori deve restare una priorità che ha bisogno di interventi coerenti, coraggiosi e tempestivi. *Garante dei diritti dei detenuti della Campania Genova. Detenuto muore suicida nel carcere di Pontedecimo dopo essersi tagliato le vene genovatoday.it, 5 dicembre 2020 Sembra che l’insano gesto sia dovuto alla notizia che lo stesso era in attesa di espulsione dal territorio italiano. Nel pomeriggio di giovedì 3 dicembre 2020, intorno alle ore 18, nel reparto detentivo maschile del primo piano del carcere di Genova Pontedecimo, un detenuto macedone arrestato per reati a sfondo sessuale, si è procurato dei tagli ai polsi con una lametta da barba trasformata in rasoio, chiudendosi in bagno sotto la doccia. Nonostante il tempestivo intervento del personale di polizia penitenziaria e del personale sanitario e dell’ambulanza già pronta per il trasporto presso il nosocomio cittadino, il detenuto non ce l’ha fatta. Sembra che l’insano gesto sia dovuto alla notizia che lo stesso era in attesa di espulsione dal territorio italiano. Nel carcere di Pontedecimo, il segretario regionale dell’Osapp dichiara che sono presenti 174 ristretti, di cui 84 donne, nonostante la capienza regolamentare totale sia di 96, ben oltre la soglia prevista. “Alla fine la polizia penitenziaria è sempre più sola a fronteggiare queste grave situazione, con grave carenze di uomini e mezzi”, dichiara Rocco Roberto Meli. Bologna. Carcere in emergenza sanitaria: “No ai trasferimenti di detenuti da altri istituti” bolognatoday.it, 5 dicembre 2020 Rilevati diversi casi di positività tra la popolazione detenuta e il personale. Anche il mondo accademico alza la voce per chiedere al Governo provvedimenti urgenti per limitare i contagi. Blocco dei trasferimenti di detenuti da altri istituti della Nazione e l’assegnazione dei detenuti nuovi giunti presso altre strutture della Regione. È quanto chiedono i sindacati Sappe, Osapp, Uil Pa, Sinappe, Fns Cisl, Fsa Cnpp, Fp Cgil e Uspp. In una nota congiunta inviata a Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, a Provveditorato Regionale, alla Direzione dell’Istituto, al Presidente della Regione, al Sindaco, al Prefetto, al Questore, all’Assessore Regionale alla Sanità ed all’Ausl di Bologna, rimarcano la situazione di emergenza legata al Covid all’interno del carcere della Dozza: “Giornalmente vengono rilevati diversi casi di positività tra la popolazione detenuta e il personale che vi presta servizio a vario titolo”. Il sovraffollamento dell’istituto “sta rischiando di mandare al collasso il sistema carcere, già in grande affanno per la necessità di trovare gli spazi idonei dove allocare i detenuti positivi, i nuovi giunti, quelli in arrivo da altri Istituti e i detenuti sintomatici dalla restante popolazione detenuta”, si legge, così le organizzazioni sindacali hanno chiesto interventi decisi e urgenti da parte delle Autorità competenti. Anche il mondo accademico e universitario italiano alza la voce per chiedere al Governo un provvedimento urgente che alleggerisca le presenze nelle carceri, anche per limitare i contagi da coronavirus al loro interno. A firmare l’appello sono 117 professori e studiosi di giurisprudenza di numerosi atenei di tutto il Paese. “La patologica situazione di sovraffollamento che caratterizza le nostre carceri - sottolinea Marcello Marighelli, garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna - contribuisce ad accrescere il rischio di diffusione del contagio. È quindi necessario incidere significativamente sul numero delle presenze in carcere, per la tutela del diritto alla salute di detenuti e operatori penitenziari”. Nel loro appello, i docenti universitari spiegano di voler aderire così, “in ideale staffetta, allo sciopero della fame di Rita Bernardini, Irene Testa, Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano e di oltre 500 detenuti, quale forma di mobilitazione per chiedere al Governo e alle autorità competenti di adottare provvedimenti idonei a ridurre il più possibile il sovraffollamento delle carceri italiane, così da prevenire il rischio di un’ulteriore diffusione del contagio da coronavirus al loro interno”. L’emergenza sanitaria, affermano gli accademici, “nel fare riaffiorare in maniera più amplificata la condizione molto problematica in cui non da ora versa il sistema penitenziario italiano, sotto il profilo delle condizioni di vita intramurarie, del livello di rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e di una effettiva idoneità della pena a conseguire l’obiettivo costituzionale della rieducazione e del reinserimento sociale, può rappresentare un’importante occasione per riaccendere le luci sul pianeta carcere e sollecitare il potere politico a riprendere il cammino delle riforme necessarie per ridare vitalità e concretezza ai principi enunciati nel terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione”. Firenze. Coronavirus: a Sollicciano 26 agenti e 5 detenuti positivi. Altri 66 in isolamento firenzetoday.it, 5 dicembre 2020 All’appello mancano complessivamente 60 agenti. La direttrice pro-tempore: “Situazione sotto controllo”. Nel carcere fiorentino di Sollicciano sono stati trovati 5 detenuti e 26 agenti di polizia penitenziaria positivi al Covid, mentre altri 38 agenti sono in quarantena in caserma o in isolamento fiduciario a casa. Lo scrive il Corriere Fiorentino, sottolineando anche come, complessivamente, nell’istituto di pena di via Minervini siano venuti a mancare all’appello oltre 60 agenti. Il tutto, a discapito della sicurezza interna al carcere. La situazione comunque, spiega la direttrice pro-tempore, è sotto controllo. In isolamento, sempre a Sollicciano, ci sono anche 28 detenuti appena arrestati o provenienti da altri penitenziaria. Il carcere è provvisto di un’area Covid da 11 posti, gestita come una zona a parte, con differenziazione di cibo, rifiuti e vestiti. Dal 20 marzo al 25 novembre, vi sono stati effettuati 1.026 tamponi. Resta però il problema del sovraffollamento, dato che a Sollicciano sono presenti 721 detenuti a fronte di una capienza massima di 494 persone”. Nuoro. Covid: agenti e detenuti positivi nel carcere di Mamone cagliaripad.it, 5 dicembre 2020 Due agenti di Polizia penitenziaria e un detenuto della casa di reclusione di Mamone positivi al coronavirus. Ne dà notizia Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” dopo aver ricevuto una lettera-appello da un gruppo di reclusi. “La situazione ci preoccupa e chiediamo che vengano effettuati i tamponi - scrivono - la tensione sta aumentando e riteniamo doveroso un intervento delle autorità per scongiurare la minaccia di un possibile focolaio”. La lettera non ha lasciato indifferente la direzione della casa di reclusione. “Comprendo l’ansia dei detenuti, tuttavia - precisa la direttrice Patrizia Incollu a Caligaris - la situazione sanitaria non desta alcuna preoccupazione, in quanto l’episodio che ha riguardato due agenti è stato immediatamente circoscritto con l’applicazione del protocollo anticovid. La direzione ha già richiesto il costante monitoraggio e la somministrazione aggiuntiva dei tamponi a tutta la popolazione ristretta e al personale”. Maria Grazia Caligaris auspica ora che “la Asl di Nuoro provveda con urgenza a effettuare i tamponi in modo che si ristabilisca la serenità”. Milano. Cosima Buccoliero: “Per tutti c’è una seconda possibilità” di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 5 dicembre 2020 Avrebbe potuto fare l’avvocato, magari penalista, per riscattare gli innocenti o risparmiare un po’ di galera ai colpevoli. Oppure il medico legale, per restituire verità e giustizia alle vittime. Invece ha scelto la strada meno glorificata dal cinema e dalla letteratura: dirigere una prigione e, possibilmente, ricondurre i condannati sulla retta via. Era quella la sua vocazione, ma Cosima Buccoliero non lo sapeva ancora quando si è iscritta alla facoltà di Legge “Conosco i detenuti come una preside i propri alunni”. Cosima Buccoliero, già alla guida della casa di reclusione di Bollate, sta per assumere la vicedirezione di Opera, il più grande carcere italiano. E il 7 dicembre riceverà l’ambrogino d’oro a Bologna negli anni 90. “Avevo seguito qualche seminario di diritto penitenziario in facoltà - racconta - e avevo visitato soltanto una volta il carcere. Però quando ho visto il bando di concorso per dirigenti penitenziari ho deciso di partecipare”. Ventitré anni dopo il primo incarico a Cagliari, alla vecchia casa circondariale di Buoncammino, e dopo 16 anni al vertice della II Casa di reclusione di Milano Bollate, con i suoi 1.300 inquilini, sta per assumere la vice-direzione di quella di Opera, la più grande in Italia, mantenendo anche la guida dell’istituto penale minorile di Milano Cesare Beccaria e dei suoi 35 reclusi. Il 7 dicembre riceverà l’ambrogino d’oro, la Medaglia di benemerenza civica del Comune di Milano cui è stata candidata da una sessantina di volontari e operatori sociali, citando il lungo elenco delle conquiste ottenute tra le sbarre: l’asilo aziendale aperto ai figli degli agenti e delle detenute ma anche ai bimbi della zona; il ristorante “Ingalera” (nato da un’idea di Silvia Polleri); la Cisco Networking Academy, sostenuta da Unicredit, per preparare informatici; le attività miste (liberi e reclusi) nei laboratori di falegnameria, sartoria, giardinaggio. Delle sue origini pugliesi Cosima Buccoliero conserva una garbata traccia nella voce che non tradisce però rimpianti per altre vite possibili: “Nessun altro lavoro mi avrebbe dato la possibilità di incontrare tanta umanità”. A che ora inizia una sua giornata tipo? Alle 7 e 30 entro in istituto per non uscirne quasi mai prima delle 17.30 o 18. Sono giornate piene, bisogna avere occhi dappertutto per capire, o meglio ancora prevenire problemi di convivenza nei reparti, malesseri, frizioni, prima che degenerino. Mi vanto spesso di conoscere tutti, come una preside i propri alunni, ma con la pandemia è diventato molto più difficile seguire i nuovi arrivati. Perché? Prima di tutto perché è necessario disporne l’isolamento fino all’esito del tampone. Abbiamo avuto sei casi positivi durante la prima ondata e una decina dopo l’estate, quasi tutti asintomatici. Abbiamo dovuto chiudere le porte, limitare gli ingressi dei familiari e dei volontari, fermando purtroppo anche molte delle attività estemporanee. Il ristorante è stato chiuso tutto novembre, la sartoria lavora soltanto su ordinazioni, mentre il call center è rimasto aperto. La scuola funziona un po’ in presenza e un po’ a distanza. Al Beccaria, invece, nove ragazzi frequentano le lezioni e gli altri lavorano alla manutenzione dei quadri elettrici o al laboratorio di panificazione, Buoni Dentro. Niente sport, salvo quelli individuali. Che cosa dice a chi entra in carcere magari per la prima volta? Mi accerto che stia bene, che possa ricevere indumenti di ricambio e telefonare alla famiglia. Spesso sono persone frastornate, ma già il fatto che qualcuno vada a chiedere loro se hanno bisogno di qualcosa ha un effetto calmante. Il coronavirus ha insegnato al mondo intero che cosa significhi essere privati della libertà: ce ne ricorderemo? All’inizio, durante il primo lockdown, lo pensavo. Invece durante l’estate mi sembra che ce ne siamo dimenticati in fretta. Non è così per chi ha conosciuto il carcere vero. I segni non si cancellano. Il primo periodo è il più traumatico. In prigione ci sono persone che conducevano una vita normale prima di commettere qualche grosso errore. Il nostro lavoro è far capire a tutti che esiste una prospettiva dopo la pena. E agli ergastolani che prospettiva può offrire? Con loro, una quarantina, non si può pensare all’uscita, ma a un percorso a tappe: l’iscrizione all’università, la laurea, qualche permesso premio, incontri con i docenti, la possibilità di seguire una lezione all’esterno. Insomma, una serie di obiettivi raggiungibili. Come si può cambiare invece la testa dei violenti contro le donne? Si lavora sulla loro mentalità. Non si può pensare: rinchiudiamoli, buttiamo la chiave e non pensiamoci più. Abbiamo avviato vari progetti per stimolare riflessioni in termini di giustizia riparativa, focalizzandosi sulle vittime. Come funziona? L’approccio è multidisciplinare: psicologico e con attività di gruppo, un po’ come nei gruppi di auto aiuto. Con il professor Paolo Giulini del Centro di Mediazione Penale, abbiamo un progetto biennale cui partecipano circa 40 detenuti per reati che riguardano crimini sessuali provenienti anche da altri istituti. L’inserimento è volontario e alcuni non ce la fanno. Si lavora sulla consapevolezza. La sua più grande vittoria? Ogni volta che incontro un ex recluso che mi riconosce e mi saluta: in autobus uno di loro mi ha abbracciato sotto gli occhi stupiti di mio figlio. Che cosa hanno capito i suoi figli del suo lavoro? Giacomo ha 13 anni e Chiara 10. Hanno capito quanto è importante superare i pregiudizi. Che il mondo non è diviso tra buoni e cattivi, o bianco o nero. Ma che esiste il grigio, e che il bianco può diventare nero e viceversa. Viterbo. Garante dei detenuti, voto annullato di Massimo Chiaravalli Il Messaggero, 5 dicembre 2020 L’opposizione: “Li portiamo fino al Consiglio di Stato”. Sul Garante dei detenuti va in scena la battaglia ideologica, che rischia di diventare anche legale. Non bastava il caos in aula, i colpi di scena sono proseguiti anche fuori. “La votazione è nulla”: lo sostiene il sindaco Giovanni Arena, lo ha scritto il dirigente Giancarlo Manetti. L’opposizione invece contesta tutto, dal merito alla modalità di comunicazione. E promette di andare al Tar, se necessario. Nel primo pomeriggio, la bomba. “È uscito fuori che la votazione è nulla - dice il sindaco - perché per il regolamento ci vuole la maggioranza qualificata, che è di 17 consiglieri”. Invece hanno votato sì in 13. “Quindi si deve ricominciare daccapo in consiglio. Così ci sarà anche modo di chiarire le posizioni”. Che però sono già molto chiare. Come quelle del capogruppo di Fratelli d’Italia, Luigi Maria Buzzi: “Sull’istituzione del garante dei detenuti abbiamo sempre votato no, in maniera compatta e perfettamente in linea con la posizione del partito a livello nazionale”. Non è d’accordo Massimo Erbetti (M5S), proponente dell’atto, che tira fuori i verbali della commissione, dove avevano votato tutti all’unanimità, “compresi Antonio Scardozzi e Gianluca Grancini”. Il pentastellato ha già infilato l’elmetto. “Loro fanno riferimento al regolamento ma ciò che abbiamo votato è una delibera”, con regolamento annesso. “Vadano avanti - continua Erbetti - se pensano di coprire le magagne della maggioranza con i cavilli li porto fino al Consiglio di Stato, ho già allertato i miei parlamentari”. Non è finita. “Ho già avvertito il presidente, devono venire in consiglio: qualcuno si prenderà la responsabilità. Loro si mettono in autotutela? Gli faccio un casino della Madonna. Il regolamento non è neanche previsto per legge, andremo al Tar, ci sono sentenze che ci danno ragione”. Buzzi rispetto a quanto dichiarato in aula, ovvero fermarsi a riflettere, ora alza l’asticella. “I contorni di questa figura sono poco chiari. Ribadiamo la nostra vicinanza alla polizia penitenziaria che, ogni giorno, si scontra con situazioni ad alto rischio molto spesso senza nessuna tutela. L’istituzione del garante dei detenuti, dalla quale prendiamo le distanze, è l’ultimo schiaffo nei loro confronti”. Sul fronte opposto Giacomo Barelli (Forza civica) lo contesta. “La Polizia penitenziaria non c’entra nulla, qui si parla dei diritti. Buzzi non conosce nemmeno la sua storia: dovrebbe ricordare gli anni 80 con Paolo Signorelli e le marce per garantire che la sua permanenza in carcere fosse all’insegna dei diritti umani. Rinnega la sua storia che lo invito a rileggere”. Nel merito? “La pezza di nascondersi dietro un cavillo è peggiore del buco: il deliberato è sicuramente valido. C’è stato un comportamento liberale di Forza Italia, siamo però interdetti dal fatto che ci si mandi una lettera: è in consiglio che se ne deve discutere”. A proposito di Fi, secondo Giulio Marini “nessuno ha capito che chiedendo di tornare in commissione gli stavo gettando una ciambella di salvataggio. Ora auspico di trovare un minimo di sintesi”. Auguri a tutti. Catanzaro. Un laboratorio di cucito e di speranza al carcere di Siano strill.it, 5 dicembre 2020 Nel carcere di Catanzaro si cuce. Borse, bambole, e, in tempi di Covid, per ovvie necessità, mascherine. Il laboratorio di sartoria è nato da un’attenta attività di ascolto dei desideri dei detenuti, con lo scopo di avviare un profondo percorso di rinnovamento interiore. Le pene, d’altronde, devono tendere alla rieducazione, secondo l’articolo 27 della Costituzione. La direttrice Angela Paravati racconta: “Ho sempre cercato di capire cosa queste persone sarebbero state liete di imparare, perché la rieducazione passa principalmente dallo studio e dalla formazione professionale, premesse indispensabili per svolgere un lavoro onesto una volta fuori dal carcere.È stato possibile cogliere un input dato da una persona che ha dimostrato di tenere davvero all’opportunità che gli è stata data e di meritare fiducia. Questo detenuto non sapeva cucire quando è entrato in istituto, ma desiderava tanto avere una macchina per imparare a farlo. E così, da autodidatta, è riuscito a creare lavori di sartoria gradualmente sempre più curati, suscitando l’interesse dei compagni e dei volontari”. In questi percorsi fondamentale è l’apporto dei volontari, il cui ingresso però nel 2020 è stato precluso, a tutela della salute dei detenuti, a causa dell’emergenza epidemiologica. Però per chi vuole dimostrare una presenza in altro modo la possibilità c’è. Così pochi giorni fa due volontarie calabresi della Crivop Italia, Vittoria Costantino e Rosaria Vona hanno consegnato al carcere di Catanzaro quaranta metri di stoffa, materia prima indispensabile per cucire le mascherine. “Un sentito ringraziamento va a Michele Recupero, presidente della Crivop Italia, che da oltre due anni collabora attivamente con il nostro istituto, dimostrando una grande sensibilità verso una realtà difficile” ha concluso la direttrice Paravati. Palermo. Allestita sala per i piccoli che aspettano le mamme detenute gnewsonline.it, 5 dicembre 2020 Quando entra in carcere per incontrare un genitore detenuto un bambino ha bisogno di uno spazio in cui sentirsi accolto e dove poter trascorrere momenti adeguati alla sua età. Per questo sono ormai molti gli istituti penitenziari che dispongono di ludoteche, sale d’attesa attrezzate e altri spazi per minori in visita. Da qualche giorno anche i figli delle detenute nel carcere Antonio Lorusso di Palermo possono aspettare l’arrivo delle loro mamme giocando in un’area attrezzata appositamente per loro grazie a un’iniziativa benefica promossa dall’Inner Wheel Club di Palermo. Il progetto, avviato lo scorso 5 marzo con un concerto di solidarietà dei maestri Giuseppe Milici e Antonio Zarcone nella Chiesa San Francesco di Paola, si è concluso mercoledì 2 dicembre con la consegna delle attrezzature ludiche alla casa circondariale. La direttrice Francesca Vezzana ha ringraziato la presidente dell’Inner Wheel Club di Palermo Mariuccia Pecoraro Brandaleone e tutte le socie “per l’attenzione e la sensibilità che da sempre hanno manifestato nei confronti delle detenute di questo Istituto Penitenziario e delle persone più fragili della società in genere”. Milano. Shakespeare riveduto e corretto al “Beccaria”, dopo il teatro anche il libro di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 5 dicembre 2020 “Scekspir al Bekka” diventa anche libro: raccoglie l’esperienza teatrale realizzata all’Istituto minorile. È diventato anche un libro Scekspir al Bekka (Clichy Firenze), il progetto teatrale che ha coinvolto studenti universitari della Statale e giovani detenuti dell’istituto Penale Minorile Cesare Beccaria di Milano. Scekspir al Bekka è la messa in accusa, in un fantomatico processo, a Romeo Montecchi accusato di aver ucciso Tebaldo Capuleti. Si tratta di un Romeo adolescente dei giorni nostri, giudicato secondo il Codice del processo minorile. Napoli. “La voce degli invisibili”: il fumetto nato in carcere che racconta della detenzione di Giusy Santella linkabile.it, 5 dicembre 2020 Gli invisibili sono i non visti dalla maggior parte della società, coloro le cui grida d’aiuto rimangono inascoltate, coloro che abitano non luoghi. Ne “La voce degli invisibili”, il fumetto che verrà presentato stasera, 4 dicembre, alle ore 18 e 30 dalla pagina fb dell’Ex Opg Occupato ‘Je so pazz, essi sono i detenuti, gli uomini che entrando in carcere si trasformano in mostri, da un lato perché hanno bisogno di creare una corazza che li protegga da ciò che vivono ogni giorno, dall’altro perché è questo l’aspetto che essi assumono agli occhi della società, che li ripudia in qualsiasi modo. La voce degli invisibili è lo strumento che le stesse persone recluse hanno scelto per raccontare la detenzione e i suoi effetti, per far sentire la propria voce fuori dalle mura del penitenziario. È il frutto del progetto di volontariato carcerario che la Rete di Solidarietà Popolare di Napoli - che nasce ed opera all’interno del centro sociale di Materdei sorto là dove funzionava un agghiacciante ospedale psichiatrico giudiziario - ha portato avanti all’interno della casa circondariale di Poggioreale dal marzo 2019. I volontari hanno incontrato un gruppo di detenuti una volta a settimana, fino allo scorso dicembre, e con essi hanno creato un gruppo che agisse in completa parità e fiducia reciproca, costruendo uno spazio di dibattito e confronto su tematiche di attualità e sociali. Alla base di questo progetto di volontariato carcerario c’è infatti la convinzione che l’istituzione carceraria non raggiunga nessuno dei fini che il nostro ordinamento le attribuisce, anzi essa è oramai diventata esclusivamente luogo di afflizioni e sofferenze, che produce alienazione e disumanizzazione. Lo scopo non è stato quello di intervenire a supporto dell’istituzione, bensì di abbandonare le logiche assistenzialistiche tipiche del volontariato e provare a ribaltare anche l’idea che si ha all’esterno dell’uomo detenuto, vittima di pregiudizi e di un pesante stigma sociale, che porta con sé anche una volta fuori dal carcere, dopo aver scontato la propria pena. Dunque, come conclusione della creazione di un ponte costante tra ciò che accade all’esterno e ciò che si cela all’interna delle mura penitenziarie, è nato La voce degli invisibili, disegnato da quattro artisti che hanno incontrato i detenuti e sono riusciti a mettere nero su bianco le emozioni di questi: Kevin Scauri, Maurizio Lacavalla, Gianluca (Jazz) Manciola, Nova. Ciascuno di loro ha disegnato un episodio del fumetto riguardante un momento e una particolare problematica della reclusione: l’ingresso in carcere, la sanità, l’affettività e il reinserimento post pena. L’opera è poi completata dagli inserti informativi di realtà e persone che si occupano quotidianamente di carcere e diritti delle persone private della libertà personale: Don Franco esposito, cappellano della C.C. di Poggioreale e fondatore dell’Associazione Liberi di Volare Onlus - che offre un’alternativa al carcere e al modo tipico di scontare la pena - ha approfondito il tema del pregiudizio e dello stigma sociale. Daniela Lourdes Falanga, presidentessa di Arcigay Antinoo Napoli, ha invece affrontato il tema della tutela dell’affettività in carcere, lei che per prima visita i detenuti e lotta per i loro diritti. Infine, l’Associazione Antigone Campania, ha dato il suo punto di vista sul problema del reinserimento post pena e del tasso altissimo di recidiva-che dimostrano l’incapacità del sistema penitenziario nell’assolvere alla propria funzione - e sulla sanità in carcere, definito “fabbrica di malattie”. Interverranno nel collegamento online - in collaborazione con Comicon - i volontari e tutti coloro che hanno portato a compimento il fumetto, artisti e rappresentanti delle associazioni. Sarà un’occasione non solo per raccontare l’esperienza vissuta, ma per approfondire il tema del carcere, in un momento in cui è più che necessario parlarne, perché la pandemia ne ha esasperato tutte le criticità. La normalità perduta dei cittadini di Alberto Mingardi Corriere della Sera, 5 dicembre 2020 Da uno Stato di diritto ci si aspetterebbe che provi a mitigare gli effetti della pandemia. L’impressione è che invece si consideri la vita delle persone come qualcosa nella piena disponibilità dei governanti. Nella pandemia, gli Stati godono di straordinaria legittimità: quella che conferisce loro l’eccezionalità delle circostanze. Le persone si aspettano che le autorità facciano “qualcosa” ed esse sono ben liete di farla. È in nome della necessità che si allarga il perimetro dei pubblici poteri. In momenti come questo, nel cordoglio e nella rabbia per la conta quotidiana dei morti, è difficile chiedersi: cosa succederà dopo? Ogni scelta presenta dei costi. Le iniziative di contrasto alla pandemia hanno avuto e hanno un pesante costo in termini di libertà. Con diversa intensità a seconda dei Paesi, abbiamo perso la nostra libertà di movimento, abbiamo perso la piena disponibilità dei diritti di proprietà, abbiamo perso ogni idea di vincolo di bilancio, abbiamo sospeso, per un certo periodo, persino la libertà di culto. In Italia, a fronte di tutto ciò, abbiamo un tasso di letalità da Covid 19 fra i più elevati al mondo. Da marzo ad oggi, il peso dello Stato sulla vita dei cittadini è aumentato enormemente e già si proietta su quella dei loro figli. Il nuovo decreto introduce ulteriori limitazioni alla libertà di movimento all’interno del territorio nazionale. L’impressione è che quest’ultima sia considerata alla stregua di un capriccio: a dire il vero, sarebbe un diritto costituzionale. Con sottile gusto del paradosso ci è stato detto che “in due settimane le regioni saranno tutte gialle”, ma dovranno comportarsi come fossero tutte rosse. Si impedirà agli italiani di muoversi perché il ritorno a casa di molti che lavorano o studiano in altre città potrebbe produrre, con le feste, un aumento dei contagi. Il timore è comprensibile. Meno comprensibile è la giustificazione moralistica, che si ammonisca a “non fare come quest’estate” (come se i contagi di ottobre avessero qualche legame con le gite di agosto) e si indichi in tutto ciò che è “superfluo” (lo scambio di doni, fare compere, vedere i parenti) un agente corruttore della salute della società. Sono norme che è difficile ricondurre a precise evidenze epidemiologiche. Per fare solo un esempio, a Natale e Santo Stefano saremo obbligati a non uscire dai confini municipali. Questo vuol dire che il 17% di italiani che vive in un piccolo comune non potrà festeggiare con la madre che magari abita nel borgo a cinque chilometri di distanza, mentre chi vive a Roma o Milano e ha lì i suoi parenti starà assieme senza problemi. Per capire quali siano le eccezioni ammesse dalla regola, dovremo leggere le faq, nuova fonte del diritto. La cavalleria della scienza e dei vaccini sta arrivando e questa crisi passerà. Ma che ne sarà delle misure che sono state prese? Avremo sulle spalle 194 miliardi in più di debito pubblico e precedenti pesanti, ai quali i governi del futuro potranno rifarsi, in occasione di nuove emergenze, che non mancano mai. Qualsiasi vincolo di bilancio è saltato. Conta poco che arrivino risorse “a fondo perduto” da Bruxelles: non è che debito europeo, al quale saremo chiamati a contribuire. È stato ampliato il campo d’applicazione del “golden power”: per “proteggere” le imprese italiane, si impedisce ai loro proprietari di disporne come desiderano. Nel mentre, la Cassa Depositi e Prestiti è diventata “il più importante investitore in Borsa in Italia”. Durante il primo lockdown, abbiamo sospeso il diritto di culto mentre ora diciamo ai preti qual è l’ora in cui possono dir messa. Governare è sempre difficile, in momenti come questo lo è ancora di più. Però bisognerebbe intendersi almeno sugli obiettivi. Da uno Stato di diritto ci si aspetterebbe che provi a mitigare gli effetti della pandemia provando a lasciare quanta più “normalità” possibile ai cittadini. L’impressione è che invece si consideri la vita delle persone come qualcosa nella piena disponibilità dei governanti. Non a caso in molti hanno guardato, sin da principio, all’esempio cinese. L’Italia spaccata in due dalla pandemia. Il Censis: “Cinque milioni di precari scomparsi” di Luca Monticelli La Stampa, 5 dicembre 2020 Crescono le diseguaglianze, uno su sei ha soldi solo per un mese ma ci sono 40 miliardari che si sono arricchiti. Sono 5 milioni gli italiani che per colpa della pandemia sono scomparsi dai radar del mondo del lavoro: precari, invisibili, sfruttati, addetti nel settore dei servizi. È l’area indefinita che ha pagato il conto della crisi ed è sparita senza far rumore. Vite trasformate dalla débâcle economica che si è diffusa con il virus, causando uno tsunami occupazionale nonostante il blocco dei licenziamenti e i 26 miliardi stanziati dal governo per gli ammortizzatori. Il rapporto annuale del Censis descrive l’Italia come “una ruota quadrata che non gira e avanza a fatica”, dove “la vera divisione sociale esistente tra i lavoratori è quella tra chi ha la sicurezza del reddito e chi no”. L’86% degli italiani pensa che il posto fisso degli statali sia la salvezza. Sono considerati garantiti anche i pensionati, impegnati in una sorta di “welfare informale” in aiuto di figli e nipoti. Giovani e donne i più vulnerabili: 457 mila tra aprile e giugno non hanno ottenuto il rinnovo del contratto a tempo determinato. Soffrono gli imprenditori dei settori schiantati dalla crisi, i commercianti, gli artigiani, i professionisti rimasti senza incassi e fatturati. Solo il 23% degli autonomi ha continuato a percepire gli stessi redditi di prima del Covid. Il gap tra ricchi e poveri continua a crescere. L’epidemia ha infatti ampliato le disuguaglianze sociali: da una parte sempre più famiglie con un sussidio di cittadinanza (+22,8%), e dall’altra pochi miliardari (40) aumentati sia in numero che nel volume del patrimonio. Vola la liquidità: chi può mette da parte i soldi sui conti correnti (il cash supera i mille miliardi), disinvestendo azioni e obbligazioni. Soffre invece il 17% della popolazione che dispone di risorse finanziarie per meno di un mese. “La metà degli italiani - sottolinea il Censis - dichiara di avere sperimentato un’improvvisa caduta delle proprie disponibilità economiche”. Con il Natale alle porte si riaccende lo shopping, ma prudenza e paura spengono il desiderio di fare acquisti. I consumi restano al palo: nel secondo trimestre la spesa media delle famiglie è stata del 19% in meno rispetto al 2019. Un gesto di solidarietà a favore dei “nuovi poveri” di Luigi Condorelli* e Nicoletta Maraschio** La Stampa, 5 dicembre 2020 Molto si riflette e si discute sulle persone e sulle categorie più direttamente colpite dalla crisi economica e sociale generata dalla pandemia del coronavirus e sulle misure adottate per combatterla, arginarla, circoscriverla, bloccarla. Ne ha scritto l’altro ieri su questo giornale Massimo Cacciari. Certo, è l’intero Paese a soffrire dei sacrifici imposti, delle difficoltà quotidiane anche psicologiche (che riguardano soprattutto i più giovani e i più vecchi), dell’incertezza sui tempi che, tra un’ondata e l’altra della pandemia, si allungano sempre di più. Ma è innegabile che il prezzo, in termini strettamente economici, sta attualmente gravando soprattutto, e in modo crescente, sul mondo del lavoro non dipendente, specie quello che opera nei settori maggiormente colpiti, come la ristorazione e il piccolo commercio (tanto ambulante che stanziale), lo spettacolo e la cultura, il turismo e lo sport (e le mille attività connesse). E come non pensare, più in particolare, a tutto l’universo del lavoro “fragile”, composto di lavoratrici e lavoratori precari, occasionali, stagionali, temporanei, autonomi, il cui “posto” di lavoro è travolto dalla crisi? Senza dimenticare, tra i tantissimi “invisibili”, quelli e quelle “in nero”, che circolano nelle nostre città e campagne e non vengono più chiamati a svolgere questo o quel “lavoretto”. Le misure di sostegno, che con lodevole sforzo si sono adottate o si stanno adottando a livello statale, regionale o comunale, appaiono in molti casi tardive e comunque insufficienti, perché incapaci di raggiungere davvero, capillarmente, l’intero mondo dei “nuovi poveri” da Covid-19. Se tanto si parla attualmente delle “categorie” (ma sarebbe meglio dire delle “persone”) direttamente colpite dalla crisi, l’attenzione viene meno centrata sulle “categorie non colpite”. Nessuno, per quanto se ne sa, si è preoccupato fin qui di censire con precisione le persone - o se si preferisce le categorie di persone - “privilegiate”, i cui redditi non sono in nessun modo toccati dalla crisi in corso: in altre parole, quelle i cui redditi sono costanti e per lo più garantiti, per così dire, vita natural durante. E viene fatto di pensare non solo all’impiego fisso, cioè ai lavoratori dipendenti e ai pensionati, quelli dell’impiego pubblico e privato (dirigenti, funzionari, impiegati, professori, ingegneri, architetti, magistrati), ma anche a chi gode ad altro titolo di entrate consistenti e regolari. Le diseguaglianze, che purtroppo caratterizzano da sempre il tessuto sociale del nostro Paese e alle quali i diversi governi che si sono succeduti dal dopoguerra in poi non sono riusciti finora a porre rimedi strutturali (ad esempio intervenendo in modo drastico sulla piaga dell’evasione fiscale), oggi appaiono drammaticamente in crescita. D’altro canto si sa che gli italiani sono grandi risparmiatori, e con la pandemia il risparmio di non pochi è addirittura aumentato proprio a causa del confinamento e quindi della drastica riduzione di ogni spesa per mobilità e attività sociali e culturali. Il tema di “garantiti e non garantiti” è ricorrente sui mezzi di comunicazione di massa e rischia di alimentare ulteriormente quella conflittualità sociale che riempie le strade e le piazze delle nostre città. Alcuni auspicano un intervento dall’alto. Noi ne proponiamo uno dal basso, volontario, individuale, come testimonianza di quella responsabilità civile diffusa e di quel sentimento di unità che il presidente Mattarella ancora di recente ha invocato. Non sentono i più fortunati l’imperativo morale di reagire subito in chiave solidaristica a questa situazione di straordinaria gravità? Senza attendere che la politica rifletta e discuta e che il legislatore eventualmente imponga appositi ed eccezionali prelievi patrimoniali? Chi è convinto che la risposta a questa domanda debba essere positiva, chi pensa che occorra entrare al più presto in azione, chi (tra i più anziani) è intenzionato a estendere ad altri la consueta e diffusa solidarietà familiare (soprattutto verso figli e nipoti) potrebbe compiere un preciso gesto di solidarietà, particolarmente appropriato in questa fine d’anno. Tutti coloro che questo imperativo condividono potrebbero associarsi in un’iniziativa comune, politicamente significativa, devolvendo a favore dei “nuovi poveri” una parte delle proprie entrate annuali (la “tredicesima”, o almeno una sua parte). Non è difficile compiere un gesto veloce, diretto e concreto: basta un bonifico destinato a una delle tante organizzazioni diffuse a livello nazionale o locale (oppure ai servizi sociali del proprio Comune di residenza) che garantiscono da sempre ascolto, vicinanza e assistenza quotidiana (cibo, casa, vestiti) agli emarginati e alle persone in difficoltà. Ciascuno potrà scegliere liberamente e indirizzare il proprio contributo all’ente che conosce meglio e del quale ha piena fiducia. *Professore di Diritto Internazionale **Professoressa di Storia della Lingua Italiana Con la pandemia più rischi per le vittime di tratta e sfruttamento di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 dicembre 2020 Il convegno organizzato dalla cooperativa Be Free fa il punto sul fenomeno. Mancano strumenti di contrasto nazionali, politiche sociali adeguate e canali d’ingresso legali in Europa. Le migranti rimaste senza protezione umanitaria a causa dei decreti Salvini, le ragazze in situazione di prostituzione forzata, le lavoratrici straniere sfruttate nel settore agricolo “sono particolarmente a rischio delle conseguenze più tragiche del Covid-19”. A lanciare l’allarme è Maria Grazia Giammarinaro, magistrata e già relatrice speciale dell’Onu sulla tratta degli esseri umani. È intervenuta ieri al convegno organizzato dalla cooperativa sociale Be Free con il titolo: “Qual è la situazione della tratta degli esseri umani in Italia?”. All’incontro, che si è svolto online al termine del progetto transnazionale Assist, hanno preso parte anche il pm Davide Mancini, impegnato nel contrasto del fenomeno sul piano giudiziario, l’assessora della regione Lazio Alessandra Troncarelli, Michele Lombardi dell’ufficio immigrazione della questura di Roma e diverse operatrici di Be Free. Sul tema non sono mancati i segnali di allarme anche nei mesi scorsi: le ridotte possibilità di movimento, l’aumento di disoccupazione e povertà, la maggiore invisibilità delle vittime stanno facendo crescere le violenze subite e lo sfruttamento di chi è intrappolato nelle maglie della moderna schiavitù. I numeri riportati nel Rapporto Immigrazione 2020 pubblicato a ottobre dalla Caritas parlano di 40 milioni di vittime di tratta a livello globale: il 60% a scopo sessuale. Un terzo sono minori e sette su dieci donne o bambine. “Il dipartimento di stato Usa stima che in Italia il numero di vittime sia tra le 25 e le 30 mila, provenienti soprattutto da Nigeria, Russia, Ucraina, Albania, Romania, Bulgaria e Moldavia”, si legge nel rapporto. E proprio a partire da questo osservatorio privilegiato il convegno di ieri ha “acceso una luce” sul fenomeno, ponendo l’accento sulla sua dimensione di genere. “L’Italia è il primo paese di destinazione della tratta degli esseri umani, che parte dall’Africa e arriva qui attraverso la Libia”, ha affermato la presidente di Be Free Oria Gargano. A fronte di questa collocazione strategica, però, mancano attenzione delle istituzioni e strategie di contrasto adeguate. “La lotta alla tratta non viene considerata una priorità”, hanno lamentato diversi interventi. Per prima cosa il Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento (Pna) è scaduto nel 2018 ed è ancora in fase di ridefinizione. Scarseggia poi la formazione degli operatori che entrano in contatto con le potenziali vittime e senza gli strumenti necessari non sono in grado di identificarle. Può capitare così che una donna nigeriana sbarchi in Italia, attraversi un hotspot, un centro di detenzione per il rimpatrio (Cpr), incontri la commissione per l’asilo, sia accolta in un centro d’accoglienza e poi finisca nuovamente nelle mani dei suoi sfruttatori perché nel frattempo nessun soggetto istituzionale ha avuto la capacità di riconoscerla come vittima di tratta. “È necessario estendere a livello nazionale le buone pratiche sviluppate sui territori”, ha affermato Carla Quinto (Be Free). Attraverso il lavoro sul campo e l’ascolto delle testimonianze di decine di donne, poi, le operatrici hanno ricostruito le trasformazioni avvenute negli ultimi anni lungo la rotta migratoria. Il “sistema Libia” è sempre più al centro della compravendita di donne e i maggiori rischi di “perdere corpi” lungo il tragitto spinge le organizzazioni criminali ad aumentare il reclutamento di ragazze in difficoltà. Anche per questo sono sempre più necessari canali d’ingresso legali in Europa. Tra i braccianti invisibili della Piana di Gioia Tauro che cercano di resistere al Covid di Alessia Candito La Repubblica, 5 dicembre 2020 Viaggio nella tendopoli di Polistena fra i migranti costretti a vivere assembrati. Adesso accanto alle tende del ministero dell’Interno ci sono le baracche. Sono identiche a quelle del vecchio ghetto, distrutto in fretta e furia per ordine dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini nel marzo del 2019, a stagione degli agrumi finita, popolazione dei braccianti dimezzata e senza un tetto alternativo neanche per i pochi che restavano. Da allora è passato più di un anno. È arrivata una pandemia che ha chiuso l’Italia per mesi dentro casa ma non i braccianti, costretti a vivere senz’acqua, né servizi, né possibilità di distanziamento sociale, ma “essenziali” perché tutti continuassero a mangiare. C’è stata una regolarizzazione monca, che ha lasciato senza diritti, né tutele un esercito di lavoratori. E ci sono ancora, nascosti fra l’erba diventata alta, i detriti del vecchio ghetto. Nella fretta di buttare giù tutto, al Viminale all’epoca guidato da Salvini, hanno dimenticato di stanziare i soldi per la bonifica. Stracci, pezzi di alluminio e vecchie e arrugginite lamiere sono rimasti a deteriorarsi fra l’erba diventata alta. È da lì che arriva il materiale con cui le nuove baracche vengono tirate su. Presente a Polistena, nella Piana di Gioia Tauro dal 2011, Emergency si è sempre occupata di dare assistenza a chi non ne ha. Per i braccianti africani, ancora costretti a vivere in tende, baracche o ripari di fortuna, per i lavoratori dell’Est Europa e per gli italiani indigenti spesso è l’unica speranza di cure mediche. Con la pandemia, le condizioni di vita e lavoro nell’area sono peggiorate. Nella tendopoli istituzionale, nata anni fa come soluzione “temporanea” allo sgombero della baraccopoli, ci sono ormai più di 600 braccianti africani. Alle tende istituzionali si stanno aggiungendo capanne realizzate con materiali di scarto. Chi ci vive è costretto a condividere tende e servizi igienici, in condizioni di promiscuità tali da rendere impossibile l’isolamento per i positivi. E solo organizzazioni umanitarie Emergency, Medu, Mediterranean hope e sindacati come Usb stanno fornendo assistenza, anche alimentare, agli abitanti del campo Sono blu, come le tende istituzionali su cui campeggia il logo “Ministero dell’Interno”, nate in file ordinate, oggi ridotte a cumulo di stracci rattoppati. È in una di queste che è tornato a vivere Foday dopo essere stato dimesso dagli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria. Gambiano, 39 anni, cardiopatico, è stato ricoverato d’urgenza dopo l’ennesimo infarto. Lì si è scoperto che era anche positivo al Covid19, anche se paucisintomatico. Ma questo non è bastato ad evitargli il ritorno in tendopoli dopo la dimissione dal reparto. Senza Covid hotel e con i posti letto ridotti all’osso negli ospedali, chi sta bene deve tornare a casa. Anche se la casa è una tenda, piantata insieme ad altre decine in un recinto in cui vivono centinaia di persone, costrette ad usare gli stessi dieci bagni. Anche se la promiscuità non è un’eccezione, ma la regola. Anche se l’isolamento è impossibile e per chi ci è costretto non c’è assistenza alcuna. Per cibo, medicine e beni di prima necessità, i positivi possono contare solo su organizzazioni come Medu e Mediterranean hope e sindacati come Usb. E per Foday, che da quarantenato non ha potuto neanche rinnovare le pratiche necessarie per il permesso di soggiorno e si è improvvisamente ritrovato senza tessera sanitaria, si tratta di farmaci salvavita. “Facciamo riunioni in Prefettura da mesi, nessuno - né la Regione, né i Comuni dell’area, né l’Asp competente - possono dire di non essere informati. Adesso informeremo anche la magistratura” dice Ruggero Marra di Usb, che con gli altri attivisti e i legali del sindacato sta lavorando ad un esposto. “E la storia di Foday è solo un esempio. Una campagna di informazione e prevenzione nella zona della tendopoli non c’è mai stata, controlli e screening zero, tracciamento dei contatti altrettanto. Centinaia di lavoratori sono costretti da mesi in assembramenti necessari perché non sono messi nelle condizioni di andare altrove. E della cosa - denunciano - si discute dal marzo scorso”. Ma sono rimaste parole vuote le promesse di alloggi per i braccianti che si sapeva sarebbero arrivati a migliaia per la stagione degli agrumi. Sulle carte dei protocolli e dei comunicati stampa con cui sono state annunciate, le campagne di controllo e prevenzione. Quando sono stati accertati i primi casi di positività al Covid alla tendopoli e nel ghetto poco distante di Contrada Russo, ci si è limitati a dichiararli zona rossa. Per chi è rimasto chiuso dentro un recinto senza alcun tipo di servizio, non è stata prevista alcuna tutela. Anche l’assistenza sanitaria per i positivi, “isolati” in una tenda o un container per nulla distante dagli altri, è stata praticamente nulla. Ed è scoppiata la protesta. Dura, arrabbiata, di chi diceva “meglio morire di Covid che di fame”. Sempre che all’esistenza dell’epidemia ci credano. Ignorati dalle campagne governative di informazione e prevenzione, in molti fra i braccianti hanno ceduto alla retorica - e alle velate minacce - di padroncini e caporali pronti a giurare che il coronavirus sia “malattia da bianchi” pur di avere braccia da mandare nei campi. Inutilmente sindacati e associazioni hanno provato a distribuire volantini, mascherine, guanti, igienizzante, a convincere tutti della necessità di sottoporsi a tampone. La fame, la necessità di lavorare morde di più. Nonostante la campagna di screening sia stata un fallimento, dopo qualche settimana tendopoli e campo container non erano più zona rossa. Da allora, nessuno ha più controllato. I pochi positivi accertati vengono individuati solo perché sintomatici o perché si rivolgono per altre forme di malessere ai medici volontari. Fra loro ci sono anche gli operatori di Emergency. Nella Piana ci stanno dal 2011. Prima con un ambulatorio mobile, dal 2013 con una vera e propria struttura nel centro di Polistena. È stata realizzata in un bene confiscato ai clan della zona e da allora è diventata un punto di riferimento per i lavoratori stranieri, ma anche per qualche italiano che non ha accesso alla medicina di base. C’è un servizio di assistenza medica e infermieristica e una navetta che consente a chi non ha mezzi per spostarsi di accedervi, uno sportello di supporto psicologico, ma anche operatori pronti a dare una mano a districarsi nella giungla burocratica che deve affrontare chi da straniero ha bisogno di cure. Sulle pareti azzurre dell’ambulatorio c’è l’articolo 12 della Costituzione. Afferma che la salute è un diritto per tutti e non una concessione fatta ai nativi di un determinato Stato. E poi il numero 11 che ricorda che l’Italia ripudia la guerra. In due librerie ordinate ci sono testi in tutte le lingue, ma adesso non si possono toccare. “Questione di igiene e prevenzione” spiegano. Negli ambulatori bianchi, ordinatissimi, l’odore di disinfettante la fa da padrone. Le procedure di sanificazione sono scrupolose, i controlli forse ancor di più. Ma comunque di fronte alla dottoressa Alessia Perrotti, cinque anni fa arrivata da L’Aquila alla Piana di Gioia Tauro, passano quotidianamente decine di pazienti. Per lo più, sono affetti da malattie da fatica, da sforzo sovrumano - lombosciatalgie, strappi, fratture, danni oculari - o da indigenza, mancanza di prevenzione e cure tardive. E sono loro oggi i più esposti al contagio e quelli che meno possono proteggersi. “Questa è una sindemia - dice il coordinatore del progetto, Mauro Destefano - Il termine, usato dalla rivista scientifica Lancet, significa che questa epidemia colpisce soprattutto le fasce più vulnerabili. Nei luoghi di precarietà socio-abitativa le persone si ammalano più facilmente e le loro condizioni si aggravano più facilmente”. E basta pensare alla tendopoli o ai ghetti per capire il perché. “Banalmente - dice Destefano - non ci sono le condizioni per stare isolati. I braccianti sono costretti a vivere in sei o otto nella stessa tenda, in un luogo in cui nessun isolamento è possibile”. Emergency potrebbe fare qualcosa? Certo, rispondano dall’ambulatorio, sempre che mezzi e regole di ingaggio lo consentano. Ma gli interventi non si improvvisano, si pianificano. Pena, aggiungere caos al caos. Al momento, qualora uno dei pazienti che a Emergency si rivolgono dovesse presentare una sintomatologia compatibile con il Covid, gli operatori non possono far altro che segnalare il caso all’Azienda sanitaria competente perché venga sottoposto a tampone. Loro no, in ambulatorio non ne possono fare. Non sono autorizzati e nessuno all’Asp ha pensato di coinvolgersi in campagne di screening. “Ma grazie al Comune di Polistena - spiega il coordinatore del progetto - stiamo fornendo assistenza logistica e medica ai controlli a tappeto e gratuiti della cittadinanza voluti dall’amministrazione”. Questione di volontà, di programmazione. “Emergency si è resa disponibile a collaborare a proposte di intervento, anche noi già da marzo abbiamo fatto le nostre” dice Destefano. Il problema di base però è un altro. Il Covid - spiega - ha messo in luce le fragilità e i guasti di un sistema. Quelli di una sanità pubblica zoppa, con gli ospedali in affanno e la medicina territoriale desertificata. Quelli di un’area in cui la presenza ormai strutturale dei braccianti viene regolarmente derubricata a emergenza. Quelli di sistema di un Paese in cui centinaia di lavoratori sono costretti a vivere nell’irregolarità. “Questa emergenza avrebbe potuto essere l’occasione per superare questa condizione socio-abitativa di centinaia di persone, per costruire soluzioni strutturali”. Ma non sono mai arrivate. E si continuano a rincorrere gli eventi. Emergency chiede di poter fare il suo, di dare un contributo. “Abbiamo fatto le nostre proposte. Rimaniamo in attesa di capire se potremo intervenire in qualche modo”. Ancora. Stati Uniti. Dal 1973 ad oggi 172 innocenti liberati dal braccio della morte di Sergio D’Elia* Il Riformista, 5 dicembre 2020 False prove dell’accusa, falsi informatori, pregiudizi razziali. Data la fallibilità del giudizio umano, c’è sempre stato il pericolo di condanna ed esecuzione di una persona innocente. Non esiste un sistema di giustizia perfetto che possa scongiurare un tale pericolo. Lo stesso sistema americano, forte di tutele, garanzie e ricorsi infiniti, non ha mai rappresentato l’antidoto agli errori giudiziari. La presunzione che quasi tutti nel braccio della morte fossero colpevoli è svanita quando agli imputati sono stati concessi avvocati più esperti, giurie non prevenute, test scientifici obbligatori. Da allora molti casi di innocenti sono emersi. Dal 1973, sono state liberate più di 170 persone ingiustamente condannate a morte, tra cui cinque nel 2020. Il 24 gennaio del 2020, la Corte Suprema del Nevada ha confermato il proscioglimento di Paul Browning che era stato condannato nel 1986 per la rapina e l’omicidio di un gioielliere di Las Vegas. Nel processo era stato difeso da un avvocato che praticava da meno di un anno. Un’indagine difensiva un po’ competente avrebbe rivelato i difetti nelle prove dell’accusa e la falsità di dichiarazioni di testimoni che l’accusa aveva presentato alla giuria. “Quando vedo una persona di colore penso che si assomiglino tutte”, aveva detto uno di loro che poi al processo avrebbe testimoniato senza esitazione che Browning era l’uomo visto sulla scena del delitto. Walter Ogrod è stato esonerato dal braccio della morte della Pennsylvania il 10 giugno 2020, ventotto anni dopo l’arresto per l’omicidio di una bambina di quattro anni. Il processo era viziato alla base da cattiva condotta della polizia e dell’accusa, da false prove forensi e testimonianze di informatori detenuti. Lo avevano “incastrato” due detective di Filadelfia con un curriculum di abusi e false confessioni. Privato del sonno nel corso di 14 ore di interrogatorio, Ogrod aveva alla fine confessato di aver picchiato la vittima con un bilanciere. La bimba invece era morta di asfissia e non era stata picchiata, ma i pubblici ministeri avevano nascosto alla giuria il referto del medico. Kareem Johnson è stato prosciolto il 1° luglio 2020. Era stato condannato nel 2007 sulla base di false prove del DNA che lo avevano collegato all’omicidio. La Corte Suprema della Pennsylvania aveva stigmatizzato la cattiva condotta del pubblico ministero che aveva mostrato “un disprezzo consapevole e sconsiderato per il diritto dell’imputato a un processo equo”. Il 4 settembre 2020, dopo sei processi segnati da cattiva condotta dell’accusa e pregiudizio razziale, Curtis Flowers è stato prosciolto dagli omicidi avvenuti nel luglio 1996 di quattro dipendenti di un negozio di mobili di proprietà di bianchi a Winona, Mississippi. Per il combinato disposto di un informatore detenuto testimone principale dell’accusa e giurie di soli bianchi o a stragrande maggioranza composte da bianchi, accuratamente selezionate dall’ufficio del procuratore distrettuale, Flowers, un afroamericano, era stato ripetutamente condannato a morte. Il 14 settembre 2020, un tribunale della contea di Hillsborough, in Florida, ha esonerato Robert DuBoise 37 anni dopo la condanna per stupro e omicidio di una ragazza di 19 anni basata su prove scientifiche spazzatura e false testimonianze di un informatore della prigione. DuBoise deve la vita agli avvocati dell’Innocence Project of Florida che hanno presentato al giudice le prove della sua innocenza. Sulla vittima non c’erano i segni di morsi evidenziati nelle perizie accusatorie, mentre le prove del DNA nascoste alla giuria scagionavano DuBoise e implicavano altri due uomini. Con Robert DuBoise, a oggi, sono 172 i detenuti del braccio della morte prosciolti da condanne ingiuste che li hanno portati a un passo dalla sedia elettrica, dalla camera a gas, dal plotone di esecuzione o dal lettino dell’iniezione letale, l’ultima invenzione, più “umana e civile”, di supplizio capitale. Il rischio di condannare un innocente è insito nel giudicare ma, a ben vedere, l’errore giudiziario di fondo sta nel peccato d’origine di una giustizia concepita come una catena di causa ed effetto, perpetua e indiscutibile, che va dal giudizio alla condanna e, quindi, alla pena. Da un tale pericolo, letteralmente mortale in caso di una pena capitale ma non meno letale in caso di “fine pena mai” o di pena carceraria, ci si può liberare una volta per tutte solo se si coltiva la visione di Aldo Moro, la sua invocazione non tanto di un diritto penale migliore, ma di qualcosa di meglio del diritto penale. La riforma radicale della giustizia è nella abolizione degli istituti di pena, nella conversione strutturale degli apparati di giudizio e punizione in forme più ecologiche, sociali e civili di riparazione e riconciliazione, in sistemi non di pene alternative ma di alternative alla pena. *Segretario di Nessuno tocchi Caino Stati Uniti. La Camera approva la depenalizzazione della marijuana La Repubblica, 5 dicembre 2020 La proposta di legge che eliminerebbe le sanzioni penali per la produzione, distribuzione e possesso della droga è passata con una larga maggioranza democratica ma ci sono scarsissime possibilità che sia votata al Senato a maggioranza repubblicana. La Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato un testo che decriminalizzerebbe la marijuana in tutta la nazione allo scopo di “affrontare le devastanti ingiustizie causate dalla Guerra alla Droga. La proposta di legge è passata con il sì di 222 Democratici, 5 Repubblicani e un indipendente mentre hanno votato contro 158 Repubblicani e 6 Democratici. Non sembrano però esserci molte possibilità che il testo passi l’esame del Senato, controllato dai Repubblicani. “Le vite di milioni di americani sono state stravolte in seguito a condanne per il possesso di piccoli quantitativi di marijuana e le disparità razziali nei tassi di condanna per questi reati sono scioccanti quanto ingiusti”, ha dichiarato Steny Hoyer, leader della maggioranza democratica alla Camera, “per questo abbiamo approvato oggi il Marijuana Opportunity Reinvestment and Expungement (More) Act”. Il testo rimuoverebbe la marijuana dal Controlled Substances Act ed eliminerebbe le sanzioni penali per la produzione, distribuzione e possesso della sostanza. Le condanne inflitte in precedenza per questi reati verrebbero annullate. Al momento in 15 Stati degli Usa la marijuana è legale a scopo ricreativo e ciò costituisce sulla carta un conflitto con la normativa federale, sebbene il governo centrale abbia lasciato correre. Il ‘Morè Act consentirebbe però di armonizzare gli ordinamenti statali con quello federale. Il presidente eletto, Joe Biden, non intende legalizzare la marijuana in tutto il Paese ma punta sulla decriminalizzazione per poi lasciare che ogni Stato faccia le sue scelte. I Repubblicani del Senato non sembrano però disposti a discutere il testo. Il leader della maggioranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell ha ironizzato sul fatto che la Camera abbia investito tempo su questo provvedimento invece che sul piano di aiuti per la pandemia. Egitto. Tre rilasci nell’Ong Eipr, oggi si spera per Patrick Zaki di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 dicembre 2020 Dopo le scarcerazioni, giovedì sera, di tre dirigenti dell’organizzazione, oggi si attende l’udienza (anticipata) per lo studente dell’università di Bologna. Ma per l’ong i rischi non sono finiti: domani una corte decide sul congelamento dei conti. Intanto Eni sigla un altro accordo al Cairo. Sono giorni intensi per l’Egyptian Initiative for Personal Rights, anche se non è una novità: nei suoi 18 anni di storia l’ong egiziana ha vissuto più di un periodo buio. A volte squarciato da un po’ di luce: giovedì sera sono stati rilasciati i suoi tre dirigenti arrestati uno dopo l’altro a metà novembre, a pochi giorni dall’incontro che avevano avuto con 14 rappresentanti diplomatici europei. Dopo 15 giorni di cella, l’accusa di terrorismo e diffusione di notizie false e la mobilitazione diplomatica italiana ed europea e pure di Hollywood con il videomessaggio di Scarlett Johansson, sono tornati liberi il direttore esecutivo Gasser Abdel Razek, il responsabile amministrativo Mohamed Basheer e quello per la giustizia penale Karim Ennarah. Gli arresti erano stati solo l’ultimo atto in ordine di tempo contro l’organizzazione, impegnata dal 2002 a proteggere le libertà fondamentali attraverso ricerche e cause legali. Il primo dicembre era toccato ai suoi asset: come riportato martedì nel sito, la Corte d’appello di Tora sta valutando la richiesta della procura di congelare i conti di Eipr come “misura precauzionale” nell’ambito del caso n. 885/2020, una delle più recenti maxi inchieste per terrorismo aperte con il solo fine - denunciano gli attivisti - di colpire le organizzazioni per i diritti umani attive nel paese. Sui conti di Eipr la corte si esprimerà domani. È prevista invece per oggi una nuova udienza - a sorpresa - per la scarcerazione di Patrick Zaki, ricercatore dell’ong, in carcere dal 7 febbraio scorso. Per il giovane studente dell’Università di Bologna l’ultimo rinnovo della detenzione preventiva era stato emesso il 22 novembre scorso, per 45 giorni: la successiva udienza era attesa per il prossimo gennaio. Eipr non si sbilancia, non è chiaro perché sia stata anticipata né se si tratti di un buon segno, alla luce del rilascio dei dirigenti dell’ong: “Si spera di completare la scarcerazione dei nostri colleghi con la sua rimessa in libertà”, si limita a scrivere in un post su Facebook. Una speranza che si riaccende a ogni udienza e che si tinge di rinnovata urgenza dopo la visita in cella della sua legale Huda Nasrallah, lo scorso mercoledì. Era la prima volta. Hanno parlato e Patrick le ha chiesto di poter ricevere una pomata per la schiena e una cintura di sostegno: dall’arresto dorme a terra e i dolori sono diventati insopportabili. Una denuncia che lo studente non aveva mai mosso e che ha preoccupato la famiglia, soprattutto in vista dell’inverno e delle temperature delle carceri egiziane, in cui i detenuti sono costretti in condizioni igieniche pessime, tra sovraffollamento e scarso ricircolo d’aria. Nelle stesse ore di mercoledì, 2 dicembre, l’Eni firmava nuovi accordi con l’Egitto, la società spagnola Naturgy e due compagnie petrolifere e di gas naturale egiziane (la Egpc e la Egas): al centro dell’intesa sta il riavvio dell’impianto di liquefazione di Damietta entro marzo 2021. L’impianto di Damietta - fermo dal 2012 - ha una capacità di 7,56 miliardi di metri cubi l’anno: “Gli accordi di oggi - si legge nel comunicato stampa della compagnia italiana - consentono di rafforzare gli obiettivi strategici di Eni in termini di crescita del portafoglio Gnl, in particolare in Egitto dove Eni è il principale produttore di gas”. Gli accordi tra Italia ed Egitto, dunque, non si fermano come non si sono fermati in passato, mentre ieri si concludevano i due anni di indagini preliminari della Procura di Roma sull’omicidio di Giulio Regeni. Come già annunciato, Piazzale Clodio chiederà il rinvio a giudizio di cinque membri dei servizi segreti egiziani. Nei giorni scorsi il procuratore capo Prestipino ne ha discusso in videoconferenza con il procuratore generale egiziano al-Sawi. Il Cairo non si muove e “avanza riserve sulla solidità del quadro probatorio”, definendo le prove “insufficienti” a individuare l’autore materiale dell’omicidio, si legge nella nota congiunta emessa al termine del vertice. E insiste con la stessa bugia di quattro anni fa, che costò la vita a quattro egiziani innocenti: per al-Sawi ci sono “prove sufficienti nei confronti di una banda criminale accusata di furto aggravato degli effetti di Regeni”. La prigione dei Rohingya. Il Bangladesh li rinchiude sull’isola nata dal nulla di Alessandro Ursic La Stampa, 5 dicembre 2020 Il governo avvia la deportazione dei profughi birmani nel Golfo del Bengala. A Bhasan Char, costruita sui detriti, vivranno in 100mila: “La nostra Alcatraz”. Mille e seicento pionieri sono partiti ieri mattina, stipati su barconi sotto il sole cocente del Golfo del Bengala. Destinazione: l’isola che non c’è. O meglio, che non c’era fino a quattordici anni fa, ma che adesso il governo del Bangladesh vuole far diventare la cittadella modello per una parte dei 700mila Rohingya fuggiti dai massacri dell’esercito birmano nel 2017 e da allora bloccati in squallidi campi profughi. Bhasan Char è diversa, così come lo sono le idee che si son fatti i pochi che l’hanno vista. Un paradiso, per chi l’ha architettata. Una gabbia dorata, per un profugo mandato in avanscoperta. O “l’Alcatraz dei Rohingya”, secondo Human Rights Watch. Tutto a Bhasan Char è talmente recente che su Google Maps l’isola di 53 chilometri quadrati è una macchia verde con una sola struttura: una moschea. Ma su questo accumulo di sedimenti che arrivano fin dall’Himalaya, portati dal fiume Meghna, in pochi anni il governo di Dacca ha piantato alberi, creato barriere anti-allagamenti in collaborazione con gli olandesi, spianato 43 chilometri di strade, installato pannelli solari e costruito e una griglia ordinata di abitazioni, spendendo 350 milioni di dollari. L’ambiente è a dir poco sterile, una specie di caserma ai Tropici senza vita. Ma la vita verrà, e in fretta: il progetto è di portarci centomila Rohingya da qui a maggio, prima che la stagione dei monsoni renda il mare impraticabile, e l’isola chissà: con l’alta marea va sott’acqua un’ampia fascia di costa. L’abitabilità se l’è data da solo il governo dell’autoritaria Sheikh Hasina, che si è felicemente appropriata del soprannome di “Madre dell’umanità” datole da un canale tv britannico per aver accolto i Rohingya in fuga dall’orrore. L’Onu non è stato consultato, e quindi non ha potuto fare nessun rilevamento sul campo. I giornalisti stranieri non sono ammessi, e i reporter locali portati sull’isola sono felici di compiacere il governo. Le Ong ci vedono una deportazione verso una prigione a cielo aperto camuffata da nobili intenti umanitari. E molti Rohingya lamentano di essere stati raggirati, se non proprio costretti al trasferimento. “Ci hanno portato di forza. Quando ho saputo che la mia famiglia era sulla lista sono scappato, ma mi hanno preso”, ha detto piangendo alla Reuters un profugo mentre montava sul bus che lo ha portato al barcone. Una giovane coppia ha messo la firma sulla lista del trasferimento pensando che fosse per le razioni di cibo, e da allora si è nascosta nel campo profughi. C’è chi ha ammesso di aver ricevuto incentivi in denaro. Ad altri è stato fatto credere che in futuro gli verrà data la precedenza per una nuova residenza in Birmania. La corruzione e le gang criminali nelle distese di baracche sulle colline attorno a Cox’s Bazaar hanno convinto alcuni a ricominciare daccapo lontano dalla costa. E poi ci sono le famiglie divise da maggio, quando i primi 300 Rohingya - naufraghi per settimane nel tentativo fallito di raggiungere la Malesia - sono stati portati a Bhasan Char. Ufficialmente era una quarantena di due settimane come precauzione contro il coronavirus: ma erano invece le cavie per il progetto di popolamento dell’isola. Ad Amnesty International hanno raccontato di essere stufi del solito cibo due volte al giorno e del vivere in mezzo al nulla, in abitazioni poco sicure. “È peggio che una prigione. Se arriva una macchina, le fondamenta tremano”. Ci sono anche già state accuse di molestie sessuali da parte di ufficiali governativi e membri della Marina bengalese, che ha in mano la gestione dell’isola. Il governo di Dacca si difende elencando la lista di strutture ben più moderne rispetto a quelle dei campi dove in tutto abitano un milione di profughi, alcuni fin dai primi anni Novanta. Una camera di 16 metri quadri per famiglia con letti a castello, acqua potabile, elettricità, due ospedali da venti letti, tre cliniche, parchi giochi, scuole, tre moschee, spazi per il mercato. Infrastrutture da pacifico sobborgo di periferia, se si trascurano le case costruite a quattro metri da terra in caso di allagamenti da ciclone, giusto a ricordare i rischi ambientali dell’abitare su un’isola piatta emersa dal nulla nel Golfo del Bengala. Il dramma per i Rohingya è che, pur essendo un punto in mezzo al mare, uno sterile appartamento a Bashan Char potrebbe essere davvero meglio delle baracche di lamiera dei campi profughi di Kutupalong - il più affollato al mondo - e Nayapara. Ma è anche l’emblema di una condizione di emergenza che sta diventando normalità per una delle minoranze più discriminate al mondo: senza cittadinanza in una Birmania buddista che li vede come corpi estranei, senza possibilità di lavori legali in Bangladesh. Un popolo alla deriva, né sbocchi né speranza, su un’isola che ancora non esiste sulle mappe cartacee. Canada. La libertà di Lady Huawei si gioca nel ring tra Pechino e Washington di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 5 dicembre 2020 Una donna molto potente e tre grandi nazioni. Conviene usare parole semplici per descrivere una vicenda che coinvolge Usa, Canada, Cina e il gigante delle telecomunicazioni Huawei. La donna è in realtà una dei massimi dirigenti (chief financial officer) dell’azienda, si chiama Meng Wanzhou, la figlia del fondatore di Huawei, Ren Zhengfei. Nel 2018 è stata arrestata in seguito a un mandato di estradizione statunitense mentre faceva scalo aereo in Canada. La signora Meng si trova attualmente agli arresti domiciliari a Vancouver, in un’abitazione di sua proprietà. La dirigente di Huawei è accusata dagli Stati Uniti di aver violato le sanzioni americane nei confronti dell’Iran per conto della multinazionale cinese. Come? Frodando la banca HSBC e altri istituti tramite una società di copertura, la Skycom, che operava in Iran. Il fine di questa operazione illecita sarebbe stato quello di acquisire beni, tecnologia e servizi statunitensi soggetti a embargo. Ora però il Dipartimento di Giustizia Usa starebbe negoziando un accordo che permetterebbe alla signora Meng di tornare in Cina. L’intesa sarebbe la stessa che di solito viene usata dalle aziende ma raramente è applicata ai singoli individui. In base all’accordo la dirigente ammetterebbe le sue colpe ma i pubblici ministeri accetterebbero potenzialmente di differire il procedimento e in seguito ritirare le accuse. Fino ad ora la Meng ha rifiutato questa soluzione ribadendo la sua estraneità. Né il Dipartimento di Giustizia, né l’azienda e neanche le autorità canadesi hanno commentato la notizia. Ottawa è stata coinvolta suo malgrado nell’intrigo: alcuni giorni dopo l’arresto della Meng, due cittadini canadesi, l’uomo d’affari Michael Spavor e Michael Kovrig, analista senior dell’International Crisis Group, sono stati arrestati in Cina. Detenuti senza accesso ad avvocati o familiari, la Cina ha confermato formalmente il loro arresto solo nel maggio 2019. L’accusa è di spionaggio. In ogni caso le fonti che hanno rivelato la trattativa non parlano di un accordo globale che riguarda altri punti. Huawei infatti è accusata da Washington anche di tramare per per rubare segreti commerciali da sei società tecnologiche statunitensi. L’amministrazione Trump ha preso di mira le attività della multinazionale in tutto il mondo nel tentativo di contrastare le sue ambizioni di fornire reti 5G di prossima generazione. Sembra essere questa la vera posta in palio nell’ambito di un confronto planetario giocato proprio sul predominio riguardo la tecnologia delle comunicazioni. Secondo gli Usa, Pechino userebbe le sue conoscenze per spiare l’America, per questo si tenta di impedire, facendo pressione anche su altri paesi, che Huawei possa avere accesso alle reti telefoniche. Il possibile accordo però potrebbe essere il segno di una nuova politica da parte della Casa Bianca, le trattative sono riprese proprio in concomitanza con l’elezione di Biden che in programma ha la distensione dei rapporti con l’avversario cinese.