Non è uno scandalo parlare di amnistia di Emilio di Somma* Ristretti Orizzonti, 4 dicembre 2020 La pandemia da Covid-19 ha colpito anche il carcere, e come non avrebbe potuto! Luogo affollato per eccellenza, sovraffollato per definizione. Per far diminuire le presenze che al momento della prima ondata erano superiori alle 60.000 persone, e dopo le prime scarcerazioni che, accolte con grande scandalo, avevano prodotto un inizio di deflazione, sono stati adottati dal Governo altri provvedimenti che hanno consentito una riduzione un po’ più consistente. Ma evidentemente anche questi provvedimenti si sono dimostrati insufficienti e la situazione va peggiorando di giorno in giorno. Eppure per sentir parlare di amnistia c’è voluto lo sciopero della fame ancora in atto di Rita Bernardini, gesto di sollecitazione e di protesta al quale si sono poi associati Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano per darvi forza e sostegno. Anche io plaudo all’iniziativa e sono sicuro che molti altri faranno altrettanto. Al momento i detenuti presenti nelle 190 carceri italiane sono circa 54.800 con un calo, dunque, di circa 6/7000 persone. Si tratta di soggetti già in semilibertà ai quali possono essere concesse licenze premio straordinarie, oppure di detenuti che hanno già goduto di permessi premio la cui durata può essere aumentata e poi ancora di soggetti in detenzione domiciliare e che abbiano meno di diciotto mesi di pena ancora da scontare che potranno restare a casa o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza per un periodo un po’ più lungo purché accettino di indossare il braccialetto elettronico, ammesso che ve ne sia la disponibilità. Una serie di limitazioni accompagnano la possibilità di usufruire di questi benefici che peraltro restano in vigore fino al 31 dicembre. Chi fosse interessato a saperne di più potrà dedicarsi alla lettura del decreto legge 137/2020. Di amnistia, mi sembra di capire, non si intende minimamente parlare. Eppure l’amnistia e l’indulto sono previsti dalla nostra Costituzione, all’art. 79, ed esprimono la volontà dello Stato di adottare un provvedimento di clemenza in occasione di particolari circostanze della vita del Paese in cui può essere importante compiere un gesto di pacificazione. Sono atti che danno il senso di una politica di elevato livello e della capacità di perdonare che è propria di uno Stato democratico consapevole della propria solidità. Questo è ciò che dovrebbe essere un’amnistia. È, però, vero che tra i venti provvedimenti di amnistia adottati dal 1948 al 1990 ve ne sono stati alcuni che hanno consentito che uscissero dal carcere categorie di autori di reati, in specie in materia finanziaria ed ambientale che sarebbe stato opportuno vi rimanessero. Erano, però, sapientemente legati ad eventi come la celebrazione del Concilio Vaticano II, al quarantennale di Vittorio Veneto, all’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Altra critica rivolta all’uso troppo frequente dell’amnistia era quella di scoraggiare i governi dall’adottare finalmente leggi che si muovessero nella direzione di evitare il ricadere nella situazione critica del sovraffollamento. E questo era giusto. Ed infatti, immediatamente dopo aver riportato le presenze in una condizione di normale e civile vivibilità, i governi, il Parlamento, la politica si sarebbero dovuti adoperare per una rapida approvazione di leggi tutte indirizzate a rendere stabile quella condizione. Ma questo purtroppo non accadeva. Sono stato quarant’anni nell’amministrazione penitenziaria. Ho lasciato il carcere di Poggioreale nel 1979 ed in quel momento ospitava 2200 detenuti, oggi ne ospita 2177. Tutto questo, e anche altro, fece sì che entrasse in vigore la legge costituzionale 6 marzo 1992, n.1, che modificò l’art.79 della Costituzione che si occupa dell’amnistia e dll’indulto. Ricordo per inciso che il 1992 fu l’anno di “Mani pulite”. Con questa modifica si è stabilita una procedura aggravata secondo la quale “l’amnistia e l’indulto sono concessi con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale”, prima della modifica era richiesta la maggioranza assoluta. Si badi bene, una simile maggioranza non è richiesta neanche per modificare la Costituzione il cui art.138 richiede, appunto, la sola maggioranza assoluta. Questa nuova procedura ha trovato sino ad oggi applicazione una sola volta per l’approvazione di un indulto - per carità, mai più parlare di amnistia! - varato nel 2006 quando la popolazione detenuta arrivò a sfiorare le 70.000 unità. Il che dimostra, però, che dal 1990, anno dell’ultima amnistia, non era sto fatto ugualmente nulla, anzi tra il 2001 e il 2006 erano state approvate leggi in materia di droga e di immigrazione, ulteriori tipi di reato e incrementi di pene che avevano prodotto il solo effetto di arrivare a quel pazzesco un aumento. Viene di pensare che forse si faceva meglio quando si diceva che l’Italia era il paese delle amnistie. Almeno quella classe politica, sia pure nell’incapacità di trovare soluzioni più organiche e strutturate, salvava la propria coscienza e regalava un po’ di respiro ai detenuti ed ai tribunali. Non sarà stato un comportamento nobile, anzi in essi aleggiava un pò di ipocrisia, ma era sicuramente più efficace del nulla che è venuto dopo e che ci ha visti subire l’ignominia di condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per aver inflitto ai nostri detenuti trattamenti inumani e degradanti. Ricordo lo sdegno dell’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che lanciò numerosi appelli e finanche un messaggio al Parlamento sulla situazione delle carceri tanto la situazione era divenuta drammatica. E devo dire, però, che quei forti stimoli fecero sì che arrivasse un momento che ci fece ben sperare. Andrea Orlando, Ministro della Giustizia dal 2014 al 2018 nei Governi Renzi e Gentiloni, riuscì, infatti, nel 2007 a varare una riforma, forse non perfetta, ma sicuramente più organica di tanti interventi parcellizzati, del processo e dell’ordinamento penitenziario come non si vedeva da tempo. Il sogno, però, durò poco. Il governo Lega-5S, appena insediato, secondo le migliori tradizioni del nostro Paese, provvide subito a smantellare quasi per intero quel progetto che dopo tanti anni ci mostrava una “visione” dell’esecuzione penale e, in generale, del mondo della giustizia più aderente alle indicazioni della nostra Costituzione. Siamo rapidamente ritornati in una situazione di grande incertezza e confusione. E d’altra parte, una classe politica incerta, litigiosa e in buona parte impreparata ed incompetente non può avere altra visione che quella del “buttiamo la chiave” invocando una “certezza della pena” di cui o non conosce o dolosamente tradisce il senso così ingannando una opinione pubblica impaurita. Certezza della pena vuol dire che la pena è determinata dalla legge, non dal capriccio di qualche capopopolo e ancora che la pena non deve consistere solo nel carcere che deve invece essere una “extrema ratio”. In conclusione, voglio dire che questo è il momento, nel rispetto dello spirito che anima la previsione costituzionale, che intervenga una amnistia per evitare danni, malattie e morti in misura intollerabile ma purtroppo inesorabilmente prevedibile se si va avanti senza dimostrare quella “pietas” che in questa situazione è doverosa. Stiamo vivendo in una situazione che per molti versi è anche peggiore di una guerra perché il nemico è infido e non riconoscibile, abbiamo un’arma di difesa, usiamola e dimostriamo che siamo uno Stato giusto e forte e per questo anche capace di perdonare. *Già Vice Capo DAP Giovanni Fiandaca: “Anche noi professori in sciopero con Rita Bernardini” di Angela Stella Il Riformista, 4 dicembre 2020 Il professore di diritto penale e Garante dei detenuti in Sicilia ha promosso un appello, sottoscritto fino a ora da 180 colleghi, per aderire allo sciopero della fame di Bernardini, Manconi, Veronesi. Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo e garante dei diritti dei detenuti della Sicilia, qualche giorno fa insieme al collega Massimo Donini, si è fatto promotore di un appello, sottoscritto al momento da 180 professori, per aderire in un’ideale staffetta allo sciopero della fame di Rita Bernardini e di quasi 2.800 detenuti. “Oltre a sollecitare alle forze politiche e al Governo misure idonee a ridurre il più possibile il sovraffollamento carcerario, auspichiamo che questa emergenza sanitaria possa far riaccendere i riflettori sul pianeta carcere”. Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo e garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, qualche giorno fa insieme al collega Massimo Donini, si è fatto promotore di un appello, sottoscritto al momento da 180 professori, per aderire “in ideale staffetta allo sciopero della fame di Rita Bernardini, Irene Testa, Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano” e di quasi 2800 detenuti. Professore da cosa nasce questo appello? L’adesione allo sciopero della fame di noi professori di discipline penalistiche di diverse università italiane ha due motivazioni: oltre a sollecitare alle forze politiche e al Governo misure idonee a ridurre il più possibile il sovraffollamento carcerario, auspichiamo che questa emergenza sanitaria possa far riaccendere i riflettori sul pianeta carcere così da indurre il mondo politico a riprendere il cammino delle riforme penitenziarie, soprattutto nel senso di ampliare il ventaglio delle sanzioni extra-carcerarie. Le misure fin qui adottate dal Governo mi sembrano abbastanza timide, inidonee a determinare un rilevante decremento dell’attuale popolazione carceraria. Occorrerebbe far uscire qualche migliaio di detenuti. In che modo? Per individuare le soluzioni tecniche non ci vuole soverchia fantasia. Ad esempio: bloccare l’esecuzione delle sentenze definitive di condanna a pena detentiva, a meno che il condannato possa mettere in pericolo la vita propria o altrui; bloccare i provvedimenti di custodia cautelare in carcere laddove non siano strettamente necessari; aumentare da 45 a 75 i giorni per la liberazione anticipata, sempre che il condannato abbia tenuto una buona condotta; aumentare fino a 24 mesi il periodo di pena detentiva in carcere che può essere permutata in detenzione domiciliare. Come si mette in evidenza in un altro appello che alcuni giorni fa abbiamo lanciato come Garanti territoriali, devono essere misure deflattive ma anche di agevole applicazione pratica, tali da non complicare il lavoro da parte dei magistrati di sorveglianza. Il Partito Radicale chiede provvedimenti di amnistia e indulto, il Garante Palma spinge a soluzione più fattibili. Qual è il suo pensiero? Anche io non posso che prendere atto che ora non ci sono le condizioni non solo politiche ma direi lato sensu culturali per votare un provvedimento di amnistia o indulto. Non ha torto il Garante nazionale a mettere in guardia dal proporre misure irrealistiche: occorre prevenire illusioni che provocherebbero scontento tra i detenuti. Ma tra il troppo e il troppo poco ci sono diverse vie di mezzo ragionevoli. Il Ministro Bonafede in una recente intervista ha detto che “il livello di attenzione sulle carceri è altissimo”... Non sono nelle condizioni di escludere che il ministro Bonafede mostri attenzione verso l’universo carcerario. Ma invece di autodefinire la sua attenzione altissima, sarebbe meglio che Bonafede spiegasse come in concreto questa attenzione si manifesta. Non ho peraltro motivo di dubitare che l’attuale capo del Dap, Dino Petralia, spenda tutto il suo impegno e la sua competenza per affrontare al meglio il problema del contagio nelle carceri. Ma purtroppo la mia esperienza di Garante siciliano mi fa toccare con mano come, al di là dell’impegno dei vertici dell’amministrazione penitenziaria o dei singoli direttori degli istituti di pena, persistono comunque molti e gravi ostacoli a una efficace attività di prevenzione, derivanti dalle condizioni strutturali di non pochi istituti e soprattutto dallo stesso modello organizzativo che presiede alla vita carceraria e impedisce un sufficiente distanziamento fisico tra i detenuti. Marco Travaglio ha scritto: “Solo una mente disturbata può pensare di difendere i detenuti dal Covid mandandoli a casa”. Come commenta? Per me Travaglio non è un interlocutore meritevole di particolare attenzione. Non gli riconosco una competenza adeguata ad affrontare questioni di giustizia penale. Del resto si può facilmente obiettare che lui è affetto da un disturbo mentale opposto, cioè da una ossessione punitivista e carcerocentrica. Ideologicamente è un insuperabile campione di populismo penale. Nell’ultimo mese la Corte costituzionale ha promosso leggi fortemente volute da Salvini e Bonafede: “decreto antiscarcerazioni”, retroattività del blocco della prescrizione, inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con l’ergastolo. Secondo Lei le valutazioni politiche possono interferire con le decisioni prese dai giudici della Consulta? Non posso in poche battute fare un esame critico della più recente giurisprudenza costituzionale. Una cosa però è certa già in partenza: il bilanciamento tra principi e valori in concorrenza, che la Corte effettua nel valutare la costituzionalità delle leggi sottoposte al suo vaglio, specie nei casi problematici o difficili, non può quasi mai essere del tutto esente da valutazioni politiche in senso sostanziale e lato. Per cui a volte può essere legittima l’impressione che i giudici costituzionali si preoccupino di avallare piuttosto che di contestare - scelte del potere politico governativo. La questione resta molto complessa e controversa. Giorni fa ha suscitato polemiche la rinuncia da parte dell’avvocata Rosanna Rovere di difendere un uomo accusato di femminicidio: “Il mio impegno per i diritti delle donne non mi avrebbe permesso di essere serena”, ha detto la legale. Alcuni dicono che non avrebbe dovuto rendere pubblica la sua decisione. Lei che ne pensa? Avanzerei anch’io delle riserve sul fatto che l’avvocato in questione abbia reso pubblica la sua rinuncia a difendere l’uomo accusato di femminicidio. Mi limito a ricordare in proposito che la nostra Costituzione non divide l’umanità, ed in particolare gli autori di reato, nelle due categorie contrapposte dei recuperabili e degli irrecuperabili; al contrario la nostra Costituzione è portatrice di una visione antropologica più ottimistica che pessimistica per la quale ogni uomo è potenzialmente rieducabile o recuperabile; insomma una visione vicina più ad un pensiero di Lev Tolstoj che a quello dell’avvocato citata. Infatti, come leggiamo nel suo celebre romanzo Resurrezione: “Una delle superstizioni più frequenti e diffuse è che ogni uomo abbia solo certe qualità già definite, che ci sia l’uomo buono, cattivo, intelligente, stupido, energico, apatico eccetera. Ma gli uomini non sono così. Possiamo dire di un uomo che è più spesso buono che cattivo, più spesso intelligente che stupido, e viceversa. Ma non sarebbe la verità se dicessimo di un uomo che è buono o intelligente e di un altro che è cattivo, o stupido. Gli uomini sono come fiumi: l’acqua è in tutti uguale e ovunque la stessa, ma ogni fiume è ora stretto, ora rapido, ora ampio, ora tranquillo, ora limpido, ora freddo, ora torbido, ora tiepido. Così anche gli uomini. Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre lo stesso”. L’allarmante criminalità non giustifica l’inciviltà delle carceri di Sergio Moccia Il Manifesto, 4 dicembre 2020 Uno Stato civile deve favorire l’idea del minor numero possibile di persone penalmente perseguite che debba essere carcerizzato. Al contrario assistiamo a un’esaltazione repressiva, tanto irrazionale sul piano degli effetti, quanto deleteria sul piano dei diritti. L’attuale situazione carceraria, com’è stato già più volte rilevato, rappresenta un fattore di grave rischio di contagio all’interno delle istituzioni penitenziarie. Di qui l’iniziativa di Giovanni Fiandaca, Emerito di diritto penale, e di Massimo Donini, vicepresidente dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, di aderire, in ideale staffetta, allo sciopero della fame di Rita Bernardini, Irene Testa, Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano e di oltre 500 detenuti; iniziativa condivisa, per la prima volta, da circa 200 docenti universitari di materie penalistiche. Tutto ciò implica che un discorso di più ampio respiro vada riservato alle ragioni dei detenuti, ridotti, per le condizioni in cui versano, ad ‘avanzi della giustizia’. da decenni, ormai, l’ispirazione al canone law and order ha fatto da supporto a prassi e legislazione, connotate in senso autoritario, per una sempre rinnovata esaltazione del carcere. Conseguenze immediate sono state il sovraffollamento e l’abuso della custodia cautelare o carcerazione preventiva, come viene più realisticamente definita in Costituzione la detenzione prima della condanna definitiva. Per il sovraffollamento siamo stati più volte bacchettati da Strasburgo. Una situazione di degrado, di malessere, testimoniata dai frequenti suicidi in carcere e dalla pratica impossibilità di realizzare progetti di rieducazione, così come di cura. Ed infatti uno Stato civile deve favorire l’idea del minor numero possibile di persone penalmente perseguite che debba essere carcerizzato. Al contrario assistiamo a un’esaltazione repressiva, tanto irrazionale sul piano degli effetti, quanto deleteria sul piano dei diritti, come viene confermato dall’assenza di un incremento dei delitti denunciati. Come da tradizione, la repressione finisce per orientarsi verso le fasce di marginalità via via emergenti: gli ‘oziosi’ e i ‘vagabondi’ attuali sono i tossicodipendenti e gli immigrati, preferibilmente di colore. Secondo il consueto, miope schema rigoristico-repressivo, con il ben noto bagaglio di intolleranza, illiberalità, sterile simbolicità, approssimazione, ad un contrasto legittimo, purché sempre rispettoso di regole di umanità, di pur allarmanti fenomeni criminali, si abbina una repressione di tipo carcerario ingiustificata e contraria ai principi costituzionali di riferimento. Paradossalmente, più il carcere fallisce, più ne aumenta la richiesta. Le ragioni possono essere le più diverse, ma essenzialmente ciò si verifica perché è ancora radicato l’equivoco - che un improvvido legislatore e parte dei giudici assecondano - dell’equazione carcere uguale giustizia, a cui si aggiunge quello insito nell’idea secondo cui più dura è la pena, maggiormente si realizza la giustizia. Dovremmo immediatamente far fronte al sovraffollamento, sperimentando pene principali diverse da quella detentiva, in maniera tale da consentire condizioni di vita civili a chi resta in carcere, ovviando anche alle gravi carenze igienico-sanitarie, ma non solo, bensì creando le condizioni per un effettivo esercizio dei diritti alla cura, al lavoro ed all’istruzione. Altrettanto immediatamente dovremmo inoltre sbarazzarci di tutti quegli arnesi rigoristici che affastellano il nostro ordinamento, a partire dalle varie “ostatività” diverse dalla valutazione del percorso di rieducazione del detenuto, dalla eliminazione di forme di carcere duro, pur nel rispetto di eventuali esigenze di controllo stretto per casi particolari; e ciò all’interno di una radicale revisione del sistema delle sanzioni, magari a binario unico, che finalmente si liberi dell’ergastolo, questo retaggio di inciviltà che sicuramente contrasta con il principio della rieducazione e non solo con esso. Contestualmente, si dovrebbe por mano ad una depenalizzazione ben più incisiva delle precedenti. Ma questo è unicamente il tracciato di una prima tappa. Successivamente, ma non troppo, si dovrà rimettere mano all’intero sistema penale, per renderlo vicino alle ragioni dell’uomo. Covid in carcere, Bonafede: “Adottate tutte le misure per la salute dei detenuti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 dicembre 2020 In carcere si continua a morire di Covid. Mercoledì è stata la volta il 78enne Salvatore Genovese, detenuto al 41bis a Opera e ricoverato in ospedale. Ieri all’ospedale Cardarelli di Napoli è morto un detenuto di Poggioreale, anche lui malato di Covid. Anche 117 professori e studiosi di numerosi atenei italiani hanno aderito, in “ideale staffetta”, allo “sciopero della fame di Rita Bernardini, Irene Testa, Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano e di oltre 500 detenuti, quale forma di mobilitazione per chiedere al governo e alle autorità competenti di adottare provvedimenti idonei a ridurre il più possibile il sovraffollamento delle carceri italiane, così da prevenire il rischio di un’ulteriore diffusione del contagio da coronavirus al loro interno”. Ieri il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ai microfoni di “24 mattino” su Radio 24 ha assicurato che “il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria “si sta muovendo adottando tutte le misure necessarie per tutelare la salute di chi vive e lavora in carcere”. Quanto ai dati, Bonafede ha ricordato che attualmente i detenuti presenti in carcere sono “poco più di 53mila” e, tra i positivi al Covid, “il 90% è asintomatico”. Il “problema c’è, non va minimizzato, ma no a semplificazioni - ha aggiunto il ministro - i dati sono online, tutti possono accedere a dati trasparenti”. Braccialetti elettronici, dubbi sul giallo della fornitura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 dicembre 2020 Venerdì 11 dicembre il governo dovrà chiarire dopo l’interpellanza urgente presentata da Roberto Giachetti sulla fornitura di braccialetti elettronici. Ma che fine hanno fatto le migliaia di braccialetti elettronici che dovevano essere stati già in circolazione? Questo è il giallo tuttora irrisolto e che venerdì prossimo 11 dicembre, il governo dovrà finalmente chiarire grazie a una interpellanza urgente presentata dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti e sottoscritta dalle parlamentari Lucia Annibale, Maria Elena Boschi e l’ex M5s Catello Vitiello. L’interpellanza è stata necessaria perché il ministro della Giustizia non ha risposto all’interrogazione parlamentare posta sempre da Giachetti su proposta del Partito Radicale, in particolar modo Rita Bernardini, che ha condiviso le inchieste de Il Dubbio sui braccialetti elettronici. Mancata risposta anche quando lo stesso Giachetti ha rinnovato l’interrogazione presentandola in commissione Giustizia. 23 milioni di euro per il contratto di fornitura con Fastweb - Ricordiamo che sono stati spesi circa 23 milioni di euro per il contratto di durata triennale con Fastweb per la produzione di 1000-1200 braccialetti elettronici al mese, per un totale di circa 43.200 dispositivi. Ma non solo. In più si sono aggiunti altri capitolati di spesa. Infatti, dalla relazione tecnica del decreto “Cura Italia” di marzo scorso compare lo stanziamento di 11.212.767 euro per l’anno 2020, più di 21mila euro per l’anno 2021 e altrettanto denaro per l’anno 2022. Sono i costi per il “noleggio, installazione, gestione e manutenzione di particolari strumenti tecnici di controllo delle persone sottoposte alle misure cautelari degli arresti domiciliari o dei condannati in stato di detenzione domiciliare”. Insomma tanti soldi, ma di tutti quei braccialetti non c’è n’è traccia. L’interpellanza urgente: perché ci sia stata l’esigenza di produrre ulteriori 4.700 braccialetti - Infatti, la domanda posta dall’interpellanza urgente è chiarissima. Si chiede il motivo per quale ci sia stata l’esigenza di produrre ulteriori 4.700 braccialetti elettronici se alla data di aprile 2020 Fastweb avrebbe già dovuto consegnarne e rendere operativi tra i 13.000 e i 16.000. Sì, perché inspiegabilmente pare che, ad aprile scorso, il Commissario straordinario Domenico Arcuri abbia affidato a Fastweb la fornitura di ulteriori 4.700 braccialetti. Non se ne comprende il motivo. Roberto Giachetti ha chiesto quindi di interpellare il ministro della Giustizia, facendo però alcune premesse. Sul sito della Polizia di Stato è possibile reperire le informazioni in merito alla procedura aperta per l’affidamento di un servizio di monitoraggio di soggetti con l’utilizzo di strumenti di sorveglianza elettronici - c.d. “Braccialetto elettronico”; da lì si ottengono tutti i documenti via via postati in ordine cronologico: gara d’appalto, ai sensi del D. Lgs.vo n.50 del 18 aprile 2016, con procedura aperta (art. 60, comma1), per l’affidamento di un servizio di monitoraggio di soggetti con l’utilizzo di strumenti di sorveglianza elettronici - c.d. “Braccialetto elettronico”; il bando Guue è stato trasmesso in data odierna con ID n. 2016-155063. (02/12/2016); sono state pubblicate le risposte ai chiarimenti. (11/01/2017); è stata pubblicata una precisazione alla risposta al chiarimento n. 147. (13/01/2017); è stato pubblicato il verbale della seduta pubblica per l’esame della documentazione amministrativa. (16/02/2017); è stato pubblicato il verbale relativo alla valutazione della documentazione integrativa prodotta dal Rti Engineering. (28/02/2017); è stato pubblicato il decreto di nomina della Commissione giudicatrice deputata alla valutazione tecnico/economica delle offerte pervenute. (03/04/2017); è stato pubblicato il decreto di aggiudicazione definitiva. (02/08/2017) a Fastweb S.p.A. - Vistrociset S.p.A. La procedura pubblicata sul sito però si interrompe il 17 dicembre del 2018 con l’annuncio che è stato pubblicato il decreto di approvazione del verbale di collaudo positivo relativo alla fase 1. L’aspetto singolare è che non risulta ancora pubblicato il decreto di approvazione del verbale di collaudo positivo relativo alla fase 2. Infatti, il “piano di collaudo della fase 2” rappresenta la base di tutte le attività di verifica di conformità della fornitura e deve essere sottoposto a valutazione e approvazione da parte dall’Amministrazione. Nell’interpellanza, Giachetti ricorda che si è già rivolto al ministro della Giustizia e al ministro dell’Interno con l’interrogazione a risposta scritta n. 4/04994 del 24 marzo 2020, richiamata, a causa della mancata risposta, in Commissione Giustizia il 2 novembre 2020 con il n. 5/04922, interrogazione quest’ultima che, pur essendo trascorsi i 20 giorni previsti, non ha ancora trovato risposta. Interrogazioni e interpellanza dopo il nostro articolo - “Secondo quanto riportato da un articolo de Il Dubbio pubblicato il 18 marzo 2020 - si legge nell’interpellanza urgente -, dalla relazione tecnica allegata al decreto-legge Cura Italia emerge che al momento e fino al 15 maggio siano disponibili solo 2.600 braccialetti, sebbene il contratto con Fastweb (che decorreva dal 31 dicembre 2018) prevedeva la fornitura di 1000-1200 braccialetti mensili per un totale, ad oggi, di 23 mila braccialetti”. Giachetti prosegue sottolineando il fatto che “in un articolo pubblicato da corrierecomunicazioni.it del 4 aprile 2020 si dà notizia che Domenico Arcuri, Commissario Straordinario per l’emergenza coronavirus, ha affidato la fornitura di ulteriori 4.700 braccialetti e la gestione del relativo servizio a Fastweb, la stessa società con cui il ministero dell’Interno ha già siglato un contratto per la fornitura dei dispositivi”. Nell’interpellanza si osserva che il braccialetto elettronico rappresenta uno strumento indispensabile per ridurre il sovraffollamento carcerario ed è previsto sia nel decreto Ristori che nella legislazione precedente. Viene sottolineato anche che notizie di stampa riferiscono costantemente dell’indisponibilità dei braccialetti elettronici, come denunciato dal Garante Regionale della Campania Samuele Ciambriello l’8 novembre scorso. Le domande poste dall’interpellanza sono chiare. Elenchiamole: se è stata effettuata, come previsto, la fase 2 del collaudo e, in caso affermativo, il motivo per il quale non è stato reso pubblico il relativo atto. Quanti sono, ad oggi, i braccialetti elettronici effettivamente prodotti, disponibili e operativi sul territorio nazionale. Se corrisponde al vero che il Commissario straordinario per l’emergenza coronavirus, abbia affidato a Fastweb la fornitura di ulteriori 4.700 braccialetti. Infine viene chiesto “il motivo per quale ci sia stata l’esigenza di produrre ulteriori 4.700 braccialetti se alla data di aprile 2020 Fastweb avrebbe già dovuto consegnarne e rendere operativi tra i 13.000 e i 16.000”. Ora ci si augura che venga chiarita la questione, nel momento in cui perfino la relazione del Senato relativa al decreto Ristori dà per assodato che da fine dicembre 2018 è partita la produzione di 1000-1200 braccialetti mensili. Una spiegazione dovrà essere fornita, anche perché non è stata di aiuto nemmeno l’ultima relazione della Corte dei Conti visto che non ha menzionato il discorso relativo ai costi dei braccialetti. Il giallo, forse, verrà svelato il prossimo venerdì. Ditemi qual è il carcere giusto per questo invalido al 100 per 100 di Rita Bernardini Il Riformista, 4 dicembre 2020 C’è un detenuto nel carcere di Busto Arsizio che staziona in una cella dell’infermeria perché gravemente malato, invalido al cento per cento e non in grado di compiere gli atti quotidiani della vita. Ha 42 anni ed è affetto dall’infanzia da una patologia degenerativa in forma grave, nota come sindrome di Charcot-Marie-Tooth. È in carrozzina con gli arti inferiori e superiori gravemente compromessi, sa che non potrà mai guarire ma sa (e lo sanno anche giudici e pm) che ha bisogno di riabilitazione continua per non peggiorare la sua condizione. Gli hanno messo un piantone, cioè un altro detenuto che lo aiuta (non un infermiere); da settembre non è in grado di farsi una doccia completa e si lava come può con la doccetta vicina al wc; in tutta la sua detenzione, che è iniziata il 4 luglio 2019, cioè 16 mesi fa, non ha mai potuto fare la fisioterapia che gli è indispensabile. La presa delle mani, già debolissima, si è ulteriormente deteriorata e le gambe, più piccole del normale, sono gelide. A Busto Arsizio, ove è allocato dal 25 settembre, i medici fanno il possibile per aiutarlo - afferma sua sorella - ma non hanno personale e strutture sanitarie adeguati per alleviare le sue sofferenze. Fatto sta che ho in mano la relazione della ASL regionale dell’Emilia Romagna, redatta quando il detenuto si trovava nel centro clinico del carcere di Parma quindi, non come accade oggi, nella cella dell’infermeria dell’istituto penitenziario di Busto Arsizio. Ebbene, in quella relazione medico legale, datata 4 aprile 2020, si certificava l’importanza per il paziente di una terapia che sia intensa e soprattutto continuativa, “condizione non applicabile nel carcere di Parma”, così come “non è eseguibile l’idro-chinesiterapia di grande utilità nella malattia da cui è affetto il paziente-detenuto”. Il detenuto in questione si chiama Enzo Misiano, un nome che brucia perché è stato consigliere comunale per Fratelli d’Italia a Ferno in provincia di Varese ed è coinvolto, assieme ad altri 33, nell’indagine della DDA di Milano “Krimisa”, accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Misiano ha ricevuto una condanna a 8 anni in primo grado ed è in attesa dell’appello, quindi è un detenuto in attesa della sentenza definitiva, quindi ancora “non colpevole” secondo l’art. 27 della Costituzione. Prima di quel 4 luglio 2019 Enzo Misiano era un cittadino incensurato. Da quel 4 luglio se lo sono rimpallato carcere dopo carcere perché nessun istituto era in grado di affrontare la sua patologia: prima Asti, poi Voghera e poi Parma. A Parma - a seguito della relazione medico legale di cui abbiamo sopra riferito succede il miracolo, il 28 aprile 2020 il Gip con il parere contrario del Pm gli concede la detenzione domiciliare, ma il tutto finisce il 25 settembre quando il Pm ottiene ragione in Cassazione e Misiano ritorna in galera a... Busto Arsizio. Ma non finisce qui. Lo stesso Gip il 27 novembre scorso respinge la richiesta di detenzione domiciliare con motivazioni che lasciano a dir poco perplessi. “Vero è - si legge - che all’interno della casa circondariale di Busto Arsizio non sono disponibili né le attrezzature né il personale specializzato per far fronte alle necessità di cura dettate dalle condizioni di Misiano Enzo, la cui patologia, stante la complessità del caso, non risulterebbe adeguatamente gestita all’interno della predetta struttura detentiva”. Le condizioni di salute del paziente-detenuto sono però incompatibili con la casa circondariale di Busto “non già con il regime detentivo in sé”; “È pertanto indicato il trasferimento dello stesso presso una struttura dell’amministrazione penitenziaria che preveda un centro clinico provvisto di palestra e soprattutto di personale dedicato o di strutture convenzionate specializzate”. Successivamente, nell’ordinanza che respinge l’istanza, si individua la Casa di Reclusione di Opera, “dotata di centro clinico e legata da apposita convenzione alla struttura esterna di cura Centro Don Gnocchi”. Non sono in grado di dirvi ora cosa risponderà - o abbia già risposto - il carcere di Opera in piena pandemia da coronavirus, quel che mi chiedo è: se esiste questa struttura così adeguata (lo vedremo), perché hanno fatto tribolare Enzo Misiano per più di un anno? Per lui - come purtroppo per migliaia di detenuti - sono sospesi gli articoli 27 e 32 della Costituzione? La giornata mondiale della disabilità (ricorreva ieri, con tanto di messaggio solenne del Presidente della Repubblica) vale anche per coloro che sono detenuti? Infine, una provocazione. Mi immedesimo, oggi mi viene più facile forse perché sono al 24° giorno di sciopero della fame. Mi immedesimo in un atto quotidiano della vita al quale sicuramente non pensano (pur compiendolo come tutti) i magistrati che hanno sballottato Enzo Misiano da un carcere all’altro. Come si pulisce il culo questo detenuto dopo aver defecato visto che è privo della funzionalità delle mani? Chiama il piantone-detenuto che è un estraneo e non è certo un operatore sanitario? “Alla funzione riabilitativa serve anche una comunità” di Irene Famà La Stampa, 4 dicembre 2020 Intervista a Davide Mosso, avvocato penalista. Come si può conciliare la funzione riabilitativa con il controllo dei detenuti? “Meglio ragionare non in termini di “detenuti” bensì di persone che hanno subito una condanna, alle quali si applica quella che fortunatamente è ormai l’extrema ratio e dunque il carcere, ognuna delle quali ha una sua storia di vita. E che se la funzione riabilitativa si è realizzata non occorrerà naturalmente più il controllo. Per raggiungere questo obbiettivo è necessario un percorso, può accadere vi siano incidenti lungo il cammino. Anche gravi. Un controllo totale certamente non è possibile e sovente fa molto più rumore l’albero che cade piuttosto che quello che cresce”. Quanti detenuti, dopo il carcere, riescono a rimettere in carreggiata la loro vita? “L’ultimo studio che è stato compiuto al proposito dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dava una media statistica di tre persone ogni dieci. Significa dunque che sette dopo un tempo più o meno breve, fanno ritorno in carcere. Prova evidente, mi pare, che il sistema ha fallito ed è fallito”. Cosa manca al sistema carcerario per migliorarsi? “D’istinto la risposta che mi viene è tutto. Ragionandoci credo che il vero miglioramento passi per una società civile che si fa comunità, che prediliga la giustizia che ripara a quella che punisce quando non addirittura si vendica. Se esco di strada perché i freni dell’auto si sono rotti è ben difficile che l’incidente non si ripeta se anziché portarla dall’elettrauto la chiuderò in garage per un certo tempo perché così impari. O che guarisca la pianta che ha perso le foglie se la metto nello sgabuzzino o in cantina. Una cosa ancora. Ritengo che l’informazione possa svolgere un ruolo assai importante nella sensibilizzazione delle coscienze”. Mamme e bambini in carcere: depositato l’emendamento per tutelarli vita.it, 4 dicembre 2020 Un emendamento alla legge di Bilancio, proposto da Cittadinanzattiva, A Roma Insieme-Leda Colombini e Terre des Hommes, sta raccogliendo sostegno trasversale tra le forze politiche. L’emendamento, sottoscritto dall’On.le Paolo Siani quale primo firmatario, prevede l’istituzione di un fondo dedicato che garantisca le risorse necessarie all’inserimento dei nuclei mamma-bambino all’interno di case famiglia e comunità alloggio mamma-bambino, idonei ad ospitarli. Secondo i dati pubblicati dal Ministero della Giustizia, ed aggiornati al 31 ottobre 2020, nel circuito penitenziario risultano essere presenti 31 detenute madri con 33 figli al seguito. Di questi, sono 16 le madri e 17 i bambini ristretti nelle sezioni nido delle case circondariali, mentre gli altri risultano collocati all’interno degli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). La presenza di bambini nelle strutture detentive costituisce un gravissimo paradosso del nostro sistema, che ne compromette la salute psico-fisica in un’età centrale per il loro sviluppo, per di più l’attuale emergenza sanitaria li espone ad ulteriori rischi per la salute. È quindi indispensabile individuare misure volte a consentire la collocazione dei genitori detenuti assieme ai loro bambini al di fuori degli istituti penitenziari, anche quelli a custodia attenuata (ICAM). “Siamo convinti”, sostengono le organizzazioni, “che esistano soluzioni di buon senso e percorribili anche nell’immediato perché nelle carceri italiane non ci siano più bambini. L’accoglimento della nostra proposta rappresenterebbe una prima risposta concreta al problema, e sarebbe indicativa di una chiara e decisa volontà politica di farsene carico con l’adozione di misure efficaci e di sistema”. L’emendamento alla legge di Bilancio ha trovato un sostegno trasversale, con la sottoscrizione di tutti i gruppi di maggioranza, ed in particolare dai capogruppo in Commissione Affari Sociali del PD, M5S, LEU e IV, ha superato il vaglio di ammissibilità, e nei prossimi giorni sarà discusso dalla Commissione Bilancio della Camera. “Ci rivogliamo a questo punto”, concludono le organizzazioni, “al Presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, Onorevole Melilli, che ha già sostenuto iniziative legislative sul tema con finalità analoghe alla nostra proposta, affinché si faccia promotore dell’emendamento in seno alla Commissione. Confidiamo che l’ampio favore finora dimostrato sulla proposta da parte di tante forze politiche si rafforzi ulteriormente, così da garantire la rapida approvazione in Commissione ed il successivo positivo passaggio in Aula. Ci auguriamo che questa sia finalmente l’occasione per restituire necessaria centralità alla tutela della salute dei piccoli finora detenuti in carcere assieme alle loro madri”. “I cappellani siano per i detenuti i medici che curano le ferite” di Gigliola Alfaro agensir.it, 4 dicembre 2020 A dirlo è stato l’ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane don Raffaele Grimaldi commentando le parole di papa Francesco. “Soprattutto in questo momento di grande solitudine e di abbandono nel quale i ristretti vivono l’ansia per il domani e portano nel cuore l’attesa del miracolo di una presta liberazione, nel messaggio di misericordia di Papa Francesco si scorge un chiaro appello rivolto anche a noi che siamo fuori dalle mura delle carceri, a volte più prigionieri degli altri, affinché siamo chiamati a non giudicare, ma a vedere, anche nell’uomo che ha commesso gravi reati, l’immagine di Cristo”. Lo sottolinea oggi l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, don Raffaele Grimaldi commentando le parole di ieri di Papa Francesco all’udienza generale dedicate al mondo del carcere e alle famiglie dei detenuti. Ringraziando il Santo Padre a nome di cappellani, operatori e agenti della Penitenziaria, don Grimaldi evidenzia: “Dio non solo è paziente con coloro che sono dietro le sbarre, ma lo è anche con noi. Perciò, siamo chiamati a non dimenticare che siamo tutti peccatori e non va puntato il dito per giudicare l’altro. Possiamo ritenerci fortunati dinanzi al giudizio dell’opinione pubblica quando i nostri peccati non vengono alla luce. Ma la legge del Vangelo vale per gli uomini di tutti i tempi: ‘Chi è senza peccato scagli la prima pietra’”. Sul reinserimento sociale, prosegue l’ispettore generale, “parlando di comunità di recupero, il Papa ci ha indicato la strada per donare un orizzonte di speranza a coloro che desiderano ritornare nella comunità civile. Comunità, case famiglia, dove i detenuti possano ritrovare l’affetto di persone, di parenti e amici che li accolgono e li indirizzano verso un vero cammino di rinascita”. Di qui l’invito a “tendere una mano, dare fiducia a chi ha sbagliato, essere comunità accoglienti, avere il coraggio di difendere chi è caduto nella trappola del male, per non vedere nella persona che è in carcere, solo il male, solo gli errori commessi”. Don Grimaldi aggiunge: “La nostra società perbene deve avere un cuore misericordioso, come lo è la madre del carcerato che visita e ama il proprio figlio che ha sbagliato e si è macchiato di gravi reati ricoprendo loro volto di ‘vergogna’. Gli uomini e le donne che hanno commesso una colpa, a volte sepolti dall’indifferenza degli altri, hanno bisogno di essere incoraggiati per rinascere”. Ricordando le storie di rinascita di cui sono testimoni i cappellani, il sacerdote conclude: “Per le persone rinchiuse dietro le sbarre per i loro errori commessi, abbandonate al loro destino, siamo chiamati a essere autentici medici che sappiano curare le ferite e che offrano occasioni di accoglienza e di recupero”. No al subentro di Grasso: il Csm va alla terza elezione suppletiva di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 4 dicembre 2020 “L’ex presidente Anm non può sostituire il togato dimissionario Mancinetti”. E col Covid quando si vota? Sfidando il Covid, le esigenze di contenimento della spesa pubblica e, soprattutto, il buonsenso, il plenum del Csm ha deciso ieri pomeriggio che bisognerà indire nuove elezioni per sostituire il togato di Unicost Marco Mancinetti, dimessosi due mesi orsono dopo che il pg della Cassazione Giovanni Salvi gli aveva notificato l’avvio di un’azione disciplinare per il contenuto delle chat scambiate con il collega di corrente ed ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Dopo quella per il rinnovo della componente togata del Csm a luglio 2018, la prossima sarà dunque la terza tornata di elezioni “suppletive”. Un record senza precedenti negli oltre cinquant’anni di vita dell’organo di autogoverno della magistratura e che, sicuramente, rimarrà imbattuto a lungo. Il nuovo voto, comunque, a causa dell’emergenza sanitaria difficilmente si potrà tenere prima della scadenza quadriennale della consiliatura, prevista, appunto, fra poco più di un anno e mezzo. La perdurante pandemia, infatti, mette in forte dubbio la ripresa delle normali attività anche per il prossimo anno. Nulla da fare, quindi, per Pasquale Grasso, giudice al Tribunale di Genova ed ex presidente dell’Anm per pochi mesi nella primavera del 2019 prima di essere sfiduciato all’indomani dello scoppio dell’affaire Palamara. Fra i motivi della sfiducia, l’aver avuto, a detta dei rappresentanti degli altri gruppi, un atteggiamento “morbido” nei confronti dei togati del Csm, poi costretti alle dimissioni, che avevano partecipato all’ormai celebre incontro all’hotel Champagne di Roma con i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti. Grasso, toga a lungo iscritta a Magistratura indipendente e tuttora vicina al gruppo moderato, era risultato il primo dei non eletti alle ultime elezioni suppletive, quelle per la categoria del merito, vinte lo scorso dicembre da Elisabetta Chinaglia (Area) per sostituire Paolo Criscuoli, un altro dei partecipanti al famigerato incontro. Fra l’interpretazione “estensiva” e quella ‘ letteralè della norma sui subentri ha prevalso, quindi, quest’ultima. Secondo la tesi del laico pentastellato Alberto Maria Benedetti, passata con 18 voti fra cui quelli dei capi di Corte e del vicepresidente David Ermini, “lo scorrimento, che è il primo criterio, implica che il subentrante e l’uscente facciano parte dello stesso collegio, ma non è così in questo caso perché nessuno seguiva Mancinetti nel collegio primario”. Di diverso avviso la togata Paola Maria Braggion (Mi), la cui proposta ha avuto 5 voti. Il plenum, in assenza di “non eletti” all’iniziale tornata del 2018 ha deciso che non è possibile “attingere” da altre graduatorie elettorali. A parte, adesso, la difficoltà di chiamare al voto in presenza circa diecimila magistrati, il problema principale, in caso si riuscisse a fissare una data per le elezioni nei prossimi mesi, sarà quello di “trovare” dei candidati. Quale magistrato, infatti, sarebbe disposto ad affrontare una campagna elettorale per rimanere in carica meno di anno? La legge istitutiva del Csm vieta la ricandidatura dei consiglieri uscenti. E dal momento che la riforma del Consiglio superiore ha visto solo ieri l’avvio delle audizioni alla Camera, le prossime elezioni si terranno, quasi sicuramente, con l’attuale sistema di voto: collegio unico e metodo proporzionale puro. Meglio attendere, sarà il ragionamento di tanti, il 2022 per candidarsi a un mandato di un intero quadriennio e non di poche settimane. Oltre ai togati di “Mi”, a favore del subentro della toga genovese hanno votato i togati Filippo Donati (M5s) e Alessio Lanzi (FI). Hanno scelto di astenersi i laici della Lega Stefano Cavanna e Emanuele Basile. Lanzi, nel suo intervento, ha sottolineato l’importanza del principio democratico, del pluralismo e, soprattutto, del “rispetto del voto degli elettori: molte delibere avvengono al Csm con un solo voto di scarto”, ha ricordato, evidenziando la necessità di ricomporre quanto prima il plenum senza aspettare le nuove elezioni. Per poi aggiungere che non c’è “nulla di più irragionevole che votare per la terza volta”. Di diverso avviso, come detto, la maggioranza del Csm. La bocciatura di Grasso non potrà non avere ripercussioni alla prossima riunione dell’Anm, prevista questo fine settimana, in cui si dovrà eleggere il presidente. Dopo lo “sgambetto” di ieri, difficile che “Mi” accetterà di far parte di una giunta unitaria con coloro che hanno votato compatti contro Grasso. Spese per la difesa degli assolti detratte dall’Irpef: la Camera voterà sulla norma di Errico Novi Il Dubbio, 4 dicembre 2020 Stavolta si può fare. Il diritto di difesa potrebbe smettere di essere “tassato in maniera irragionevole”, come dice Enrico Costa con efficace paradosso. Il deputato di Azione, ed ex viceministro della Giustizia, ha rilanciato la proposta, avanzata la prima volta esattamente un anno fa, sulla detraibilità delle spese legali sostenute per la difesa da parte di chi è assolto. Ne ha fatto un emendamento alla legge di Bilancio. E le possibilità di successo cominciano a farsi interessanti. Ieri la proposta è stata dichiarata ammissibile dal presidente della commissione Bilancio della Camera (dov’è in corso l’esame della Manovra), il dem Fabio Melilli. Primo passo, non scontato. Basti pensare che lo stesso Costa si è visto invece respingere come inammissibile un altro emendamento con cui chiedeva di innalzare il tetto massimo del risarcimento previsto per l’ingiusta detenzione dagli attuali 516mila a un milione e 32mila euro. Motivo: secondo Melilli si tratta di una modifica “ordinamentale”, dunque incompatibile con le leggi di Bilancio. La partita dunque è aperta, e andrà giocata su un terreno politico. La formazione di cui Costa ora fa parte, quella appunto di Carlo Calenda, è rappresentata nel gruppo Misto di Montecitorio da altri due deputati, che pure hanno sottoscritto la proposta sul parziale ristoro degli assolti: Nunzio Angiola e Flora Frate. A loro si è aggiunto il leader di +Europa Riccardo Magi. Nei giorni scorsi non hanno esitato a inserire l’emendamento tra i “segnalati” alla commissione Bilancio Costa confida in un sostegno del guardasigilli Alfonso Bonafede, a cui ha illustrato l’idea in una lettera, ma anche del Pd. “Non posso dimenticare innanzitutto che, dal punto di vista parlamentare, la primogenitura dell’idea è di Gabriele Albertini”, spiega al Dubbio il deputato di Azione. “Fu lui a proporla in Senato nella precedente legislatura, e ottenne il sostegno convinto dell’allora capogruppo dem in commissione Giustizia Beppe Lumia. Anche per questo credo che il Pd non sarà indifferente al mio emendamento”. D’altronde non si tratta di una provocazione iperbolica. La norma è scritta in modo equilibrato. Innanzitutto, la detraibilità delle spese legali riguarderebbe solo chi è assolto in via definitiva con una delle seguenti formule: se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. “Come specificato in uno dei commi”, chiarisce Costa, “sarebbero esclusi dal recupero fiscale di parte delle spese legali coloro per i quali viene dichiarato prescritto il reato, o che beneficiano di interventi di depenalizzazione, o che sono prosciolti da un capo d’accusa ma condannati per un altro”. Non solo. C’è un limite innanzitutto alla somma che ciascun ex imputato può portare in detrazione: 10.500 euro. Si specifica che il risparmio fiscale sarebbe applicato alle “imposte sui redditi”, dunque con detrazioni Irpef, ripartite in tre quote annuali a partire dall’anno successivo all’assoluzione definitiva. Ma soprattutto, la ragionevolezza della proposta risiede al quinto comma dell’articolo (ora codificato come 177- bis): la misura sarebbe applicata “nel limite massimo di spesa di 15 milioni di euro nell’anno 2021 e di 20 milioni a decorrere dal 2022” reperiti in un fondo specificamente indicato. Il parlamentare di Azione aveva provato a introdurre il principio della “soccombenza” nel processo penale già nel ddl sul patrocinio a spese dello Stato, assegnato alla commissione Giustizia di Montecitorio. In attesa che quel testo riprenda l’esame, Costa tenta ora la strada della legge di Bilancio anche in virtù di un consenso che potrebbe rivelarsi decisivo: quello del guardasigilli Alfonso Bonafede. Il ministro non ha nascosto il proprio interesse per la proposta. Ma ha subito segnalato la necessità di una verifica contabile, non semplicissima: visto che Costa propone di rendere detraibili, fino a 10.500 euro, le spese sostenute per la difesa da parte di chi è assolto, è necessario conoscere, approssimativamente, il numero delle persone che ogni anno potrebbero accedere a tale diritto. Ma una statistica del genere non è mai stata fatta. Si conosce il numero dei proscioglimenti ma non di quelli pronunciati con una di quelle che Costa definisce “formule ampiamente liberatorie”. Ecco perché il deputato di Azione ha pensato di integrare il vecchio schema della proposta con un tetto massimo, inizialmente di 15 milioni. Si dirà: e se i prosciolti con una delle formule previste si rivelassero abbastanza numerosi da rendere insufficiente il fondo? L’emendamento mette in conto anche tale plausibile eventualità: al comma 6 stabilisce che “con decreto del ministro dell’Economia, da adottare entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di Bilancio, sono definiti criteri e modalità di attuazione” della norma sulle detrazioni. “Ipotizzo che il Mef possa scegliere di ridurre proporzionalmente la detrazione ammessa per ciascun assolto, qualora il fondo fosse insufficiente. Oppure che si stabilisca altro criterio. Ciò che conta”, dice Costa, “è affermare il principio: lo Stato paga, se sbaglia ad accusarti”. Semplice, incontestabile. Ma non previsto in Italia, diversamente da quanto avviene in altri 28 Paesi del Consiglio d’Europa, tra cui Francia, Spagna, Svezia e Norvegia. Nella legge di Bilancio del 2018, era stato il Consiglio nazionale forense a proporre per primo una norma del genere, basata sul principio per cui il diritto di difesa è sancito in Costituzione, all’articolo 24, con enfasi non certo attenuata rispetto, per esempio, al diritto alla salute. Può darsi che la Manovra per il 2021 si riveli la volta buona per una battaglia cara non solo a Costa ma all’intera avvocatura italiana. I magistrati che sbagliano non possono essere promossi di Giovanni Ciappa Il Riformista, 4 dicembre 2020 L’intervento, qualche giorno fa, di Luigi Zanda in Senato, in merito all’assoluzione (la numero 19!) dell’ex sindaco di Napoli Antonio Bassolino; la morte di Francesco Nerli, ex presidente dell’autorità portuali Napoli assolto dopo otto anni tra indagini e processo; la sortita di Antonino Ingroia, oggi spoglio della toga inquirente, a proposito del supporto della ‘ndrangheta nella ingegnerizzazione del Coronavirus, dall’altro, ripropongono - assieme - le deflagranti tematiche afferenti alla responsabilità civile dei giudici e al preliminare test psico-attitudinale per accedere al concorso in magistratura. Tematica, quest’ultima, a mio avviso, quanto mai urgente e mai sufficientemente trattata, connessa, come dicevo, con la grande criticità del sistema giustizia nel nostro Paese: la responsabilità civile dei magistrati. Ad oggi, le norme vigenti tratteggiano una totale irresponsabilità delle toghe, malgrado gli innumerevoli e clamorosi errori giudiziari che hanno avuto (e hanno) conseguenze gravissime sulle vite di singoli cittadini e sull’intera vita della nazione. Non è giustificabile né moralmente accettabile che questa privilegiata categoria di funzionari dello Stato non sia sottoposta a responsabilità civile per i propri errori, se non in casi estremamente rari, a differenza di tutti gli altri dipendenti dello Stato per i quali la responsabilità civile presenta maglie più larghe. Peraltro aiutata da una imbelle classe politica che non vuole mettere mano alla spinosa questione per opportunismo e per viltà. A questo punto mi chiedo: perché non immaginare almeno un serio percorso della Corte dei conti che possa indagare sugli sprechi (intercettazioni telefoniche e ambientali, trojan, attività di servizio e così via) al fine di sanzionare adeguatamente chi, con colpa grave, abbia in maniera spesso pruriginosa squassato le vite del prossimo senza patirne almeno conseguenze patrimoniali? Non è da sottacere che, nel caso dei processi a Bassolino come per altri in analoghe circostanze, il danno erariale è finanche acuito dai compensi da corrispondere agli ottimi avvocati che hanno assistito i perseguitati di turno nel corso di lunghi calvari giudiziari. Il test psicoattitudinale, dicevo: da premier, Silvio Berlusconi accennò a un timido approccio, ma venne stroncato con massiva levata di scudi della corporazione, forse scaturente dalla consapevolezza che ben pochi avrebbero potuto superare gli esami che da sempre caratterizzano gli ingressi nella pubblica amministrazione. L’accesso al concorso in magistratura non può essere basato solo su mnemoniche conoscenze (allora sia un computer a decidere!) o, anche, come emerso in recenti episodi ben raccontati dalla stampa, su compromessi che denotano un critico profilo neuropsicologico degli aspiranti candidati suscettibile, ad addendum, di futuri ricatti. Un excursus delle carriere di alcuni magistrati induce a ritenere che le scelte apicali del sistema giudiziario siano direttamente proporzionali ai flop giudiziari (caso Tortora docet) collezionati in carriera. Considerazione rafforzata dalla recentissima vicenda che ha visto sacrificare l’ex presidente del sindacato delle toghe ed ex membro del Consiglio superiore della magistratura, Luca Palamara, all’altare di una giustizia sommaria che ha voluto individuare il capro espiatorio lasciando così intatta quella deriva irreversibile del sistema giudiziario italico che sovente consente di fare da trampolino di lancio per carriere politiche, giornalistiche, storiografiche e, spesso, fumettistiche. Gli uccisero il padre, lui risponde salvando i quartieri di Napoli di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 4 dicembre 2020 Il manager ha fondato la Onlus L’Altra Napoli dopo che il padre fu ucciso in una rapina. Quindici anni fa i suoi primi interventi alla Sanità, dal 2019 ha avviato un progetto per il quartiere Forcella. Ha quell’aria seria, che spiazza chi s’orienta per luoghi comuni. Così, capita che qualche vestale da talk show gli domandi come mai non sorrida “visto che è napoletano”, immaginando insomma tarantelle e putipù. Lui, mite e paziente, nega con garbo: “Non è vero che sorrido poco. Certo, non è che noi dobbiamo essere per forza pittoreschi, tanti napoletani sono più milanesi dei milanesi, con l’aggiunta di una quota di… intelligenza sociale. Siamo abituati a gestire l’emergenza”. Ecco, l’emergenza può essere un bivio nella vita. Lui ci s’è trovato davanti 15 anni fa. “Allora puoi andartene, voltare le spalle e non pensarci più: ripeterti che la tua città merita di essere abbandonata al suo destino”, dice adesso Ernesto Albanese, 56 anni, manager e inventore della onlus L’Altra Napoli, motore della rinascita del rione Sanità e adesso della non meno problematica Forcella. Puoi odiare, certo. Il 3 maggio 2005 suo padre Emilio, ex dirigente Fiat, passa in banca a cambiare un assegno da tremila euro per la famiglia: due ragazzi lo seguono imboccando contromano le vie della centralissima Portalba, zona di librai e studenti; gli saltano addosso nell’androne del suo palazzo in via Costantinopoli, gli spezzano il collo. Ernesto è lontano quella mattina: lo è da anni, pendolare tra Milano e Roma, dirigente al Coni, dopo la formazione a Torino. Al telefono uno dei suoi fratelli gli dice solo “vieni, papà è stato aggredito”. A un bivio così puoi odiare, molto. “In 15 anni nessuno mi ha mai detto che il caso è stato chiuso. La Digos mi spiegò che gli assassini erano microcrimine, nessuna possibilità di trovarli”. In quella primavera del 2005 l’emozione a Napoli è grande. Emilio, consuocero di Dario Fo, aveva una famiglia affiatata, l’amore per cemento. “Così ho deciso di non insistere. Non volevo più che li trovassero”, dice. Poi, cogliendo la sorpresa dell’interlocutore: “Sai, mia madre Vera trovò papà sulle scale, non li vide: ma era l’unica testimone. Li avessero presi, l’avremmo condannata a una vita atroce, di processo in processo”. A un bivio così, se non odi, puoi scappare via. Lui invece pensa che “una cosa simile non può succedere di nuovo”: e torna. Da allora lavora “per evitare che si ripeta”. Si riunisce con cinque amici, “per fare cose concrete, non strilli alla luna come si usa a Napoli”: è un anti-napoletano che parla a voce bassa e a testa bassa sgobba, questo sovvertitore di luoghi comuni. Al funerale del padre aveva quasi litigato con una giornalista brava ma un po’ insistente. Si chiariscono, fanno pace, lui le chiede: “A Napoli dove si fa un progetto?”. Lei, Conchita Sannino, una carriera da cronista nei quartieri difficili, gli risponde: “Da quel pazzo di don Antonio, alla Sanità”. La strada dopo il bivio comincia così. Il parroco Antonio Loffredo è un boss per conto del Padreterno, ha rovesciato il rione come un santo guerriero, la basilica di Santa Maria alla Sanità è il suo avamposto. Lo accoglie con due raccomandazioni: “Non venire col casco (a quel tempo nei quartieri popolari lo portavano solo i killer, ndr) e non farti mettere sotto perché qua nessuno è assicurato”. Nascono undici progetti per far ripartire la gente di quei vicoli: idee talmente concrete che Ernesto le porta a New York, al fundraising di Bill Clinton. “Lì non ti danno quattrini, ma un marchio di qualità prezioso. C’era tutto il Terzo mondo e… noi napoletani. Quell’anno il nostro fu l’unico progetto europeo approvato”. Servirebbero poco meno di due milioni. Negli anni L’Altra Napoli arriverà a raccoglierne sette: tutti finanziamenti privati, per lanciare il turismo nelle Catacombe di San Gennaro, l’orchestra dei bambini, fare il recupero del chiostro, l’Officina dei talenti, dove adesso lavorano trenta giovanissimi operai del rione, il Teatro stabile alla Sanità. “La cooperativa La Paranza, 35 ragazzi che lavorano nell’impresa sociale sulle catacombe, ha fatto 4 mila visitatori nel 2008, 160 mila nel 2019. Ma il regista è don Antonio, io sono uno dei… produttori”, dice Ernesto. Di don Antonio l’idea di una palestra di boxe in sagrestia: ragazzi che finirebbero nelle baby gang vengono invece allenati da istruttori delle Fiamme Oro della polizia. Ernesto teorizza che il bello sia educativo, che bisogna partire da piccole riqualificazioni. “Non la nuova Bagnoli calata dall’alto”, ma il vicolo, il lampione, il giardino, la facciata della Casa gialla alla Sanità, la Casa di Vetro inaugurata un anno fa a Forcella. “Rendili responsabili e loro cureranno ciò che hanno restaurato”. Riformista deciso a non spendersi in politica (“perderei credibilità”), sembra aver studiato il Michel Rocard del “discorso del pianerottolo”: ridipingere pianerottoli e riparare cassette delle lettere per iniziare a rammendare lo strappo dei ghetti e delle banlieue. Come il male, anche il bene sta nei dettagli. “No, non penso mai agli assassini di mio padre, non mi frega nulla di loro. Penso agli altri, ai nostri ragazzi”, dice Ernesto. È un transfert? “Sì, me ne rendo conto. E ne sono contento”. La bellezza è il sorriso di Dio dentro le cose, diceva Simone Weil. Ernesto di Dio non parla. Ma da 15 anni la bellezza è diventata la sua liturgia. Delitti mediatici e processi indiziari, il problema è nel metodo di Gianni Carbotti e Camillo Maffia agenziaradicale.com, 4 dicembre 2020 Intervista al giudice Gennaro Francione. La crescente deriva giustizialista nel nostro paese è solo una conseguenza delle contraddizioni del sistema mediatico che spettacolarizza le vicende di cronaca o ci sono criticità più profonde che toccano l’ambito stesso dell’impianto processuale? Ne abbiamo parlato con Gennaro Francione, ex-magistrato e scrittore, fondatore del Movimento per il Neorinascimento della Giustizia, che da anni si batte contro il processo indiziario e per l’introduzione in ambito giudiziario di un metodo scientifico di stampo popperiano. Dott. Francione, insieme al biologo forense Eugenio D’Orio lei ha da poco pubblicato un volume dal titolo “I grandi delitti dalla A alla Z - alla luce della Criminologia Dinamica” (Nuova Editrice Universitaria) in cui, oltre a rileggere i casi più noti che hanno avuto maggiore eco mediatica (Yara Gambirasio, Sara Scazzi, Melania Rea, Meredith Kercher, Elena Ceste, ecc.) alla luce di questo nuovo metodo su basi scientifiche che proponete in ambito giudiziario, esprimete una forte critica al cosiddetto “processo indiziario”. Può spiegarci alla luce della sua esperienza di magistrato e giurista cosa s’intende, nel nostro ordinamento giuridico, per “processo indiziario” e quali sono secondo lei i pericoli che costituisce per i cittadini coinvolti come imputati in un procedimento penale? Da magistrato posso dire che alcuni punti dell’attuale processo mi hanno lasciato diverse perplessità: ho spesso avuto l’impressione, davanti a certe vicende, di trovarmi di fronte a un sistema processuale non solo fallace, ma proprio aleatorio. Sia chiaro: non è detto che un processo indiziario non possa portare all’identificazione di un colpevole, ma non avremo mai la certezza assoluta di avere scoperto la verità su una determinata vicenda. Da qui è scaturita la mia meditazione sul metodo posto alla base della ricerca delle prove da parte del giudice, che si è innestata su una mia vecchia passione: la filosofia. Mi sono così imbattuto nel concetto di epistemologia che è la chiave della riflessione sulla conoscenza e sul metodo scientifico da adottare per raggiungerla. Ho cominciato a chiedermi: “Ma noi magistrati quale metodo usiamo”? Da qui scaturì la questione relativa all’incostituzionalità del processo indiziario, in quanto irragionevole, da me sollevata il 13 giugno del 2000 nell’ambito di un processo, quando posi apertamente il problema dell’epistemologia popperiana, ossia della necessità per cui il giudice debba farsi scienziato. Egli deve giudicare secondo uno schema prettamente scientifico per l’acquisizione degli elementi probatori, mentre attualmente in molti casi si comporta come un romanziere. Avrete notato come i processi indiziari innanzitutto portano al costituirsi di due “squadre”, due fazioni: innocentisti e colpevolisti. E i media poi ci sguazzano… Non solo ci sguazzano, ma hanno tutto l’interesse ad alimentare questo stato di cose, perché certi processi basati su prove evidenti nemmeno li considerano, dato che non sono abbastanza spettacolari. Insomma, nel 2001 la Corte Costituzionale rigettò in malo modo la mia proposta affermando che in questo modo il processo indiziario sarebbe rimasto senza metodo. La verità è che il Codice Rocco, molto più scientifico, prevedeva senza mezzi termini il processo fatto per prove. Furono gli stessi giudici, accorgendosi che seguendo quei parametri c’erano secondo loro troppe assoluzioni, a inventare il criterio degli indizi “gravi, precisi e concordanti” che venne poi recepito dal Codice Vassalli. Orbene secondo il nuovo codice il criterio indiziario dovrebbe essere utilizzato solo in casi estremi: il processo si deve basare su prove certe, a meno che sussistano gli indizi di cui sopra. E, invece, il metodo indiziario è diventato dominante nel nostro sistema processuale. In questo modo si lascia al magistrato una discrezionalità enorme… Esatto! Diciamo pure che la discrezionalità del giudice è estesa all’infinito anche perché su qualunque sospettato un indizio si trova sempre. Questo mi fa venire in mente un’osservazione fatta da voi nel libro a proposito di Alberto Stasi, implicato nel celebre delitto di Garlasco, per cui si è giunti infine ad una condanna dopo varie assoluzioni impugnando il processo. In un caso del genere, in cui sottolineate come due corti, basandosi sui medesimi elementi, si pronunciano in maniera del tutto opposta, si dovrebbe solo per questo parlare evidentemente di ragionevole dubbio... Quando io sollevai la questione d’incostituzionalità del processo indiziario non esisteva ancora il ragionevole dubbio che fu introdotto nel 2006, ma adesso c’è anche questo nuovo elemento. Infatti se un’intera corte ha deciso per l’assoluzione come può un’altra corte, senza addurre nulla di realmente nuovo e decisivo, pronunciare una sentenza di colpevolezza? E come si può pensare che una corte superiore sia migliore, più intelligente, di quella inferiore? Per paradosso dovrebbe prevalere la corte che ha emesso una sentenza di assoluzione perché questo crea appunto un ragionevole dubbio da cui non si può prescindere. Più volte anche la CEDU ha parlato di giusto processo e un processo è giusto se celebrato alla pari: tutti i cittadini devono avere un processo per prove, non è possibile che alcuni lo abbiano per prove forti e altri per prove deboli, anche perché il procedimento dev’essere equiparato a quanto prescritto dall’articolo 111 della Costituzione. Quando sollevai pubblicamente la questione dell’incostituzionalità del processo indiziario mi ritrovai isolato, ma ricevetti un importante incoraggiamento da Ferdinando Imposimato. Lo ammiravo molto e divenni suo amico: un uomo illuminato che come giudice aveva seguito casi importanti ed era stato anche senatore. Quando lo conobbi, faceva l’avvocato. Lui prese in grande considerazione le mie proposte, partecipò al mio libro “L’errore del giudice: contro il processo indiziario” che presentammo insieme alla Sapienza dal Prof. Bruno; poi trasmise queste mie idee all’Università de L’Aquila, in alcuni master in Svizzera, e scrisse altri libri sul tema sia con me che per conto suo. Fu proprio lui in seguito, a causa delle nostre riflessioni ma anche per via di alcuni casi di cui si era occupato e che lo avevano indignato, a propormi l’idea, che tuttora sto cercando di portare avanti, di una “Tavola delle Prove Legali”. In pratica bisognerebbe creare una griglia attraverso cui incanalare la decisionalità dei giudici. Per fare qualche esempio: la confessione senza riscontro non è sufficiente; sono necessari almeno due testimoni (il vecchio “unus testis, nullus testis”); le intercettazioni servono per individuare una via d’indagine, ma di per sé non costituiscono una prova; occorre ritornare all’antico principio del “favor rei”, per il quale nel caso di dubbio bisogna pronunciarsi a favore dell’imputato; divieto della “reformatio in peius”, ossia divieto del giudice di appello di riformare la sentenza di primo grado irrogando una pena o una misura peggiori delle precedenti… Insomma, io ho creato questo guscio, poi c’è Eugenio D’Orio che si occupa di biologia forense e mi ha aiutato nella stesura di quest’ultimo libro, oltre al collega Luigi Bobbio il quale è molto convinto di queste tesi, in particolare per quanto riguarda l’uso delle intercettazioni telefoniche; ci sono altri che si occupano d’informatica giudiziaria, neuroscienze, tutta una serie di competenze scientifiche da inserire in questa Tavola delle Prove Legali, una griglia rigorosa su base popperiana cui i giudici dovrebbero attenersi nei processi. A questo proposito negli anni recenti, specie sull’onda della forte attenzione mediatica relativa ad alcuni processi, il pubblico si è convinto che la prova del DNA costituisca di per sé un elemento probatorio definitivo, schiacciante, di condanna: una sorta di regina delle prove. Voi sostenete un punto di vista diverso in merito, dato che secondo il metodo della Criminologia dinamica da voi proposto la prova del DNA non è di per sé sufficiente per emettere una condanna, ma dev’essere corroborata da una serie di altri elementi, giusto? Proprio così, bisogna accertare tutta una serie di circostanze relative a un fatto. La criminologia dinamica richiede la risposta rigorosa ai quesiti: “Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando”, una locuzione latina tratta da un passo di Cicerone citato anche da San Tommaso d’Aquino nella sua “Summa Theologiae”, che tradotta letteralmente significa “chi, che cosa, dove, con quali mezzi, perché, in qual modo, quando?”, nella quale sono contenuti i criteri da rispettare nello svolgimento di una composizione letteraria: considerare cioè la persona che agisce (quis); l’azione che fa (quid); il luogo in cui la esegue (ubi); i mezzi che adopera nell’eseguirla (quibus auxiliis); lo scopo che si prefigge (cur); il modo con cui la fa (quomodo); il tempo che vi impiega e nel quale la compie (quando). Agli elementi tradizionali ho aggiunto il “quantum”, l’elemento quantitativo che può diventare anche qualitativo come nel caso della quantità di DNA. Per esempio, nel caso di Bossetti su Yara innanzitutto bisognerebbe dimostrare che non c’è stata contaminazione: elemento paradossale, praticamente impossibile da accertare viste le circostanze del ritrovamento e lo stato di deterioramento del cadavere. Ma anche prendendo per assunto che quel DNA sia suo, qualcuno mi deve spiegare perché, essendo state ritrovate tracce di numerosi altri soggetti, dev’essere stato per forza lui l’assassino e non uno degli altri? Il DNA di Bossetti potrebbe essersi depositato in molti altri modi. Come avevamo rilevato in un altro articolo infatti, volendo a tutti i costi escludere qualunque possibilità di contaminazione della scena del crimine e ipotizzando un sicuro collegamento di Bossetti col cadavere, perché escludere che quest’ultimo non abbia aiutato l’assassino o gli assassini a trasportarlo, occultarlo o - per quanto possa essere un pensiero ripugnante - non si sia imbattuto successivamente nei resti della ragazza compiendo un atto di necrofilia? Stiamo parlando di una possibilità turpe, innominabile, ma comunque diversa dall’omicidio… Mi avete anticipato! In effetti non avevo pensato a questa possibilità della necrofilia, ma sarebbe plausibile. Pensavo invece all’occultamento di cadavere, che è anche un’ipotesi di reato residuale, applicata per esempio a Michele Misseri nel caso di Avetrana, visto che non si poteva stabilire in base agli indizi se Sarah Scazzi l’avesse ammazzata lui (e tanto meno la moglie o la figlia, secondo me). Anche se lui tecnicamente era un reo confesso… E questo rientra proprio nei principi di cui parlavamo: ogni dichiarazione, ogni chiamata in correità, ogni testimonianza, anche ogni confessione, richiedono riscontri inequivocabili. Infatti nel caso di Misseri sono andati a verificare i fatti e non coincidevano con quanto da lui dichiarato. Lo stesso vale per il caso di Erba, che è stato seguito da Eugenio D’Orio, e in cui le confessioni degli indagati non coincidevano con le dinamiche dei fatti. Neanche la confessione è la regina delle prove: la regina delle prove non esiste. Solo mediante una tavola che funzioni come una griglia, un setaccio rigorosissimo delle prove, si può pensare di arrivare ad un verdetto degno. Questo per quanto riguarda la parte “costruens”, la parte costruttiva secondo il metodo baconiano, che mi fu suggerita da Imposimato e che io sto costruendo insieme ad altri magistrati, avvocati, scienziati forensi, addetti ai lavori. Ci tengo anche a dire un’altra cosa: il Codice Vassalli secondo me è proprio fallimentare, perché ha creato un predominio assoluto dei procuratori. Il GIP è ininfluente - infatti lo chiamano “giudice-sogliola” - quindi in pratica è tutto in mano ai procuratori e alla polizia giudiziaria (vedi il caso Bossetti), che spesso operano sui reperti senza possibilità per la difesa di un reale contraddittorio come previsto dall’art. 111 della Costituzione. E noi dovremmo andare avanti per fede nella bontà assoluta del loro operato? Io propongo piuttosto di ricreare il Giudice Istruttore: è lui che deve condurre le indagini, avvalendosi di un istituendo Servizio nazionale di scienziati forensi che saranno assolutamente neutri, perché mentre polizia e pubblico ministero cercano dei colpevoli, loro dovrebbero cercare la verità e il processo dovrebbe essere anticipato a ridosso dei fatti, già in fase istruttoria come si faceva prima, non in dibattimento. Da una parte interverrebbero il PM e la polizia giudiziaria come parte accusatrice e dall’altra il difensore con un consulente, anche pro ignoto, per equilibrare il tutto. Riteniamo che con questo approccio metodologico si potrebbe eliminare la Cassazione: resterebbe e sarebbe sufficiente l’appello. Questo è un po’ il quadro completo della rivoluzione strutturale da me proposta. Il vostro testo si concentra particolarmente, anche nell’esame scrupoloso dei vari casi riportati, sul rapporto media/giustizia e sulle sue conseguenze: quanto pesa a vostro parere la pressione esercitata da questa relazione problematica sull’esito dei processi? Pesa moltissimo, anche perché l’eco dell’interesse popolare per certi casi viene moltiplicato all’infinito e diciamolo: un caso anche importante e controverso se non attira l’attenzione della gente finisce là, non fa storia. Invece l’insistenza su alcuni casi particolari che diventano processi mediatici influenza i giudici, eccome! Prima di tutto influisce sui giudici popolari: mi risulta addirittura che, riguardo a un certo processo, uno fra questi avesse già espresso il suo convincimento colpevolista nei confronti dell’imputato su un gruppo social… Un gruppo su Facebook intende? Sì, certo, e ciononostante è stato chiamato in aula, naturalmente all’insaputa dei giudici. Nei paesi anglosassoni, ad esempio, c’è molto più rigore, perché il collegio giudicante viene tenuto completamente estraneo ad informazioni di questo tipo. Questo per quanto riguarda i giudici popolari, ma anche i togati possono essere influenzati. Noi abbiamo casi di magistrati coraggiosi che hanno pagato con la carriera l’aver giudicato secondo coscienza: penso ad esempio al caso di Meredith Kercher e al giudice Hellmann che assolse Amanda Knox e Raffaele Sollecito e che sentì l’avversione dei colleghi, dell’ambiente di lavoro, tanto da dover andare in pensione anticipata. Ma esistono altre vicende simili, come quella del procuratore Piero Tony, impegnato nel caso del Mostro di Firenze - il quale ha scritto un libro, “Io non posso tacere”, che abbiamo presentato insieme al mio “Temi Desnuda” all’eremo di Agliati - e invischiato in una lotta tra procuratori. Medesima sorte nello stesso processo anche quella di Francesco Ferri, presidente della Corte per aver osato assolvere Pacciani, anche lui autore di un libro sulla sua esperienza (“Il caso Pacciani”). Entrambi se ne sono dovuti andare e raccontano incredibili storie di isolamento, di colleghi che hanno tolto loro il saluto… altro che giustizia! Una cosa imprescindibile per riformare la giustizia è la separazione delle carriere perché i PM non di rado esercitano pressioni forti, sposano delle tesi e pensano di perdere la faccia se il poveraccio di turno, strombazzato dai media come autore di un grande delitto, verrà assolto. Per amore del paradosso tempo fa ho scritto su Facebook che tra un po’ chiuderanno i tribunali e i processi li faranno direttamente i “mediamen” dei reality criminal shows! Anche perché, se osi dire una parola a favore del grande indiziato, ti scatenano subito tutto il pubblico contro. Io me li ritrovo sui social che mi attaccano, figuriamoci la pressione che può subire un giudice se assolve Sollecito, la Knox o Pacciani. I processi mediatici hanno una potenza assurda, occupano percentuali impressionanti dei nostri palinsesti, basta accendere la radio o la tv ad un orario qualsiasi per verificarlo. E secondo me questo continuo martellamento potrebbe causare anche degli “omicidi per induzione” perché in qualche modo rendono questi cosiddetti “mostri” dei personaggi, quasi eroici se sono stati loro a uccidere, e possono ispirare emulazione in qualcuno ad ammazzare la moglie o l’amante per risolvere i suoi problemi personali. Non parliamo dei casi di persone scomparse, come quelli che trattiamo nel libro di Guerrina Piscaglia, di Roberta Ragusa ed altri, in cui gli omicidi (e le relative condanne) li hanno inventati i programmi televisivi a forza di sollevare dubbi e fare illazioni fondate sul nulla, senza prove. Mi sono sempre chiesto a tal punto: perché non aprire un fascicolo per omicidio in ogni caso di scomparsa indiziando il marito, il fidanzato, l’amante con cui la svanita nel nulla ha litigato nell’ultimo periodo? La verità in questi casi è nel brocardo: “nullum crimen, sine corpore”. Senza il corpo non è possibile stabilire se la persona sia morta e chi l’abbia uccisa, come e perché. Sono riferiti nel libro vari casi di persone scomparse e poi riapparse vive e vegete. Lei è tra i fondatori di un movimento denominato MOV.RIN.GIU (Movimento per il Neo-rinascimento della Giustizia), che si propone di cambiare anche il paradigma culturale che ruota attorno all’amministrazione della giustizia. Secondo lei quali sono i passi necessari da intraprendere anche da questo punto di vista per preparare il terreno a quegli interventi legislativi ormai irrimandabili nella tragica situazione nazionale, che è sotto gli occhi di tutti? A nostro parere sono necessari: l’abolizione del processo indiziario (che è il nucleo del nostro progetto di riforma); la separazione delle carriere per equiparare il peso delle parti nei processi, mentre ora la bilancia della giustizia pende drammaticamente dalla parte dei pubblici ministeri e della polizia giudiziaria; la reintroduzione del Giudice Istruttore, con un servizio nazionale forense in cui PM e polizia da un lato e difensore e consulente dall’altro diventino parti equidistanti; l’anticipazione del giudizio in fase istruttoria, a ridosso dei fatti; l’applicazione di alcuni principi fondamentali come il divieto di reformatio in peius e l’assoluto favor rei, per cui in un caso controverso tra due possibili interpretazioni deve prevalere quella più favorevole all’imputato; l’eliminazione della Cassazione che non sarà più necessaria, facendoci guadagnare così un gran numero di magistrati; la creazione di un fondo economico importante per i difensori e consulenti in favore degli imputati meno abbienti e, quindi, più deboli; l’unificazione di tutte le magistrature, da quella ordinaria ai tribunali amministrativi; l’eliminazione dei tribunali militari. Infine, la creazione di un Giudice di Quartiere e di un Giudice Web. Il Giudice di Quartiere sarebbe affiancato da un’equipe di esperti, psicologi, assistenti sociali, investigatori e difensori civici, con una funzione prevalentemente preventiva, per evitare che certe questioni nei condomini, nelle comunità o nelle famiglie diventino esplosive e si risolvano con veri e propri reati (quando ero giudice mi sono capitati molti casi del genere). Il Giudice Web, invece, dovrebbe occuparsi di tutte le questioni relative alla rete, dalla pornografia, al cyber-bullismo. Insomma, progettiamo la creazione di giudici di prevenzione, con un compito non repressivo, ma il cui intervento può essere efficace per evitare che dei reati si consumino. Altra proposta è eliminare i concorsi ed assumere, con criteri da verificare, i nuovi magistrati tra gli avvocati che abbiano fatto almeno dieci anni di carriera e con una rotazione ogni quattro/cinque anni per evitare l’impantanamento del potere. Su tutto: la creazione della Tavola delle prove legali, che diventi legge in modo che si sappia finalmente in cosa consistono le prove e quali sono i criteri uniformi attraverso i quali i giudici devono verificarle, mettendo da parte il processo indiziario. Concluderei specificando perché parlo di Neo-Rinascimento: per me il primo rinascimento della giustizia fu rappresentato dagli illuministi (penso a Voltaire che sosteneva fosse meglio mettere nove colpevoli in libertà che un innocente in carcere, a Beccaria che si batté per l’umanizzazione della pena). Abbiamo parlato a lungo dei processi, ma il Movimento s’interessa anche dello smantellamento delle carceri per la creazione di un nuovo sistema che preveda la depenalizzazione su molti fronti, specie per quanto riguarda le droghe che andrebbero legalizzate, e la realizzazione di carceri a cielo aperto ipotizzando, per esempio, l’utilizzo di isole per la detenzione, senza più trattare gli esseri umani come bestie serrate in gabbia. Se il primo Rinascimento è stato rappresentato dagli illuministi, il nuovo sarà rappresentato dagli epistemologi illuministi che riprendono la via di Voltaire e Beccaria cercando di attualizzarla, modernizzarla e fraternizzarla. Queste per me sono le chiavi per una Rivoluzione della Giustizia. Una rivoluzione netta che si contrapponga alle tante pseudo-riforme che si sono susseguite negli anni. Spesso sono solo provvedimenti gattopardeschi in cui si fa finta di cambiare piccole cose per mantenere intatta la sostanza di una giustizia antiquata e ingiusta. Ergastolo, niente sconto. Inapplicabile alla pena il rito abbreviato di Dario Ferrara Italia Oggi, 4 dicembre 2020 Infondate le questioni di legittimità costituzionale sulla legge 33/2019. È legittima la scelta del legislatore di escludere il rito abbreviato per i delitti punibili con l’ergastolo. “Possono essere o meno condivise” le finalità perseguite, che tendono a un inasprimento delle pene inflitte in concreto agli imputati. Ma i mezzi con cui il Parlamento ha deciso di raggiungerle non risultano connotate da “manifesta irragionevolezza o arbitrarietà”. Insomma, passa il vaglio di costituzionalità la legge 33/2019, tanto cara alla Lega: lo stabilisce la sentenza 260/20, depositata il 3 dicembre (redattore Francesco Viganò). Infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate sulla legge 33/2019 dalla Corte d’assise di Napoli e dal tribunale di Piacenza, nell’ambito di due processi a carico di imputati accusati di aver ucciso, rispettivamente, il padre e la moglie. Dal dibattito alle Camere è emerso che con la modifica normativa il legislatore ha voluto assicurare, per i reati più gravi previsti dall’ordinamento, la celebrazione di un processo pubblico davanti a una corte d’assise e non a un giudice monocratico, “con le piene garanzie sia per l’imputato, sia per le vittime, di partecipare all’accertamento della verità”. È escluso che la disciplina violi il diritto costituzionale di difesa: il legislatore ben può negare l’accesso a determinati riti alternativi agli imputati di reati particolarmente gravi, come quelli puniti con l’ergastolo. E d’altronde l’inquisito non è titolare di un diritto a ottenere la celebrazione del processo “a porte chiuse” a tutela della sua dignità e riservatezza. Bisogna fare i conti, infatti, col principio della pubblicità del processo, che non costituisce soltanto una garanzia soggettiva per l’imputato, ma anche ma anche un connotato identitario dello Stato di diritto, a tutela dell’imparzialità e obiettività dell’amministrazione della giustizia, sotto il controllo dell’opinione pubblica. E ciò specialmente per i delitti più gravi. In ogni caso chi è giudicato colpevole all’esito del dibattimento può comunque ottenere una pena più lieve dell’ergastolo grazie alle attenuanti. Consulta. Sì al divieto di abbreviato per reati puniti con l’ergastolo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2020 Non esiste un profilo di illegittimità costituzionale nelle norme che impediscono l’accesso al rito abbreviato per gli imputati di reati punibili con l’ergastolo. Questa la conclusione della Corte costituzionale con la sentenza 260/2020 depositata ieri e scritta da Francesco Viganò. La Consulta ha così giudicato infondate le questioni sollevate dalla Corte d’Assise di Napoli e dal tribunale di Piacenza in 2 processi per omicidi maturati nell’ambito familiare. La Consulta con la sentenza n. 260 ha dichiarato non fondate le censure sollevate sulla legge n. 33 del 2019. Depositate le motivazioni sull’inapplicabilità del giudizio abbreviato ai reati punibili con la pena dell’ergastolo. La Corte costituzionale con la sentenza di oggi n. 260, come era stato già anticipato nel comunicato dello scorso 18 novembre, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate sulla legge n. 33 del 2019 dalla Corte d’assise di Napoli e dal Tribunale di Piacenza, nell’ambito di due processi a carico di imputati accusati di aver ucciso, rispettivamente, il padre e la moglie. La disciplina censurata - che esclude il rito abbreviato per gli imputati ai quali può essere applicato l’ergastolo - rappresenta per i giudici delle leggi espressione della discrezionalità legislativa in materia processuale e non contrasta con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione), con il diritto di difesa (articolo 24 della Costituzione), con la presunzione di non colpevolezza (articolo 27, secondo comma, della Costituzione), né con la regola del giusto processo e della ragionevole durata (articolo 111, secondo comma, della Costituzione). Le finalità della norma - prosegue la Consulta - “possono essere o meno condivise”, ma non sono irragionevoli o arbitrarie, con essa infatti si è voluto assicurare, per i delitti più gravi previsti dall’ordinamento, la celebrazione di un processo pubblico davanti a una corte d’assise e non a un giudice monocratico, nel quale anche le vittime hanno la possibilità di essere ascoltate. Un obiettivo che secondo la Corte necessariamente comporta tempi più lunghi, ma “l’individuazione delle soluzioni più idonee ad assicurare un giudizio in grado di raggiungere, in tempi ragionevoli, il suo scopo naturale e cioè l’accertamento del fatto e delle relative responsabilità, nel rispetto dei diritti della difesa”, è una scelta che spetta al legislatore e sulla quale la Corte costituzionale non può sovrapporsi. Per quanto riguarda anche il diritto di difesa la Consulta afferma che non ci sono violazioni sia perché il legislatore è legittimato a vietare l’accesso a determinati riti alternativi a imputati colpevoli di gravi reati, come appunto quelli puniti con l’ergastolo, sia perché non esiste il diritto dell’imputato a ottenere la celebrazione del processo “a porte chiuse” a tutela della sua dignità e riservatezza. Il principio della pubblicità del processo è infatti “non solo una garanzia soggettiva per l’imputato, ma anche un connotato identitario dello Stato di diritto, a tutela dell’imparzialità e obiettività dell’amministrazione della giustizia, sotto il controllo dell’opinione pubblica”. La sentenza infine sottolinea che l’applicazione della legge 33/2019 non comporta automaticamente l’effettiva condanna all’ergastolo dell’imputato giudicato colpevole, poiché la corte di assise ha sempre la possibilità di riconoscere l’esistenza di circostanze attenuanti che possono comportare l’adozione di una pena inferiore. Il sequestro per mafia dell’intera società non lede il diritto di proprietà del socio di minoranza di Fabrizio Ventimiglia e Francesco Vivone Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2020 La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, afferma che se l’azienda ha natura mafiosa il sequestro dell’intera società è legittimo e non si può riconoscere al terzo - socio di minoranza - l’interesse a lamentare la lesione del diritto di proprietà. Nota a margine Cass. Pen, sez. II, sent. 32904/2020. La Corte di Cassazione, con la sentenza sent. 32904/2020, afferma che se l’azienda ha natura mafiosa il sequestro dell’intera società è legittimo e non si può riconoscere al terzo - socio di minoranza - l’interesse a lamentare la lesione del diritto di proprietà. A parere della Corte, infatti, se le quote del terzo non sono state sequestrate, questi mantiene il diritto di partecipare alla distribuzione del ricavato dei beni aziendali. Questa, in sintesi, la vicenda processuale. La Corte di Appello di Palermo rigettava il ricorso proposto dai Curatori fallimentari di una società avverso il decreto emesso dal Tribunale di Trapani avente ad oggetto il sequestro dell’intero patrimonio aziendale della società, confermando il provvedimento di prime cure. Il Fallimento della Società - a mezzo del suo Avvocato di fiducia - proponeva quindi ricorso per Cassazione avverso il decreto, lamentando la violazione degli art. 20, 25 e 26 del decreto legislativo 159/2011. In particolare, la difesa eccepiva che l’art. 20 del citato decreto prevede, quale condizione necessaria per poter disporre un sequestro, la circostanza che il bene sia nella disponibilità del proposto. Per tale motivo il sequestro dell’intera società, sul solo presupposto che l’indagato fosse socio di maggioranza della stessa, sarebbe da ritenersi illegittima, potendo essere semmai sequestrata la sua quota, poiché è attraverso di essa che il proposto incide sull’azienda. A sostegno della tesi difensiva in parola, inoltre, viene ricordato che l’art. 20 del citato decreto pone una presunzione iuris et de iure della disponibilità diretta quando il capitale sociale sia totalmente nelle mani dell’indagato. In ogni altro caso, è necessario verificare che la società sia gestita dal socio in spregio di ogni regola societaria ed anche contro la volontà e l’opposizione dei soci di minoranza. Nel caso di specie, il 36% del capitale sociale era di proprietà di un terzo di buona fede riconducibile, per di più, allo Stato; alla luce di questa composizione societaria era indubbio che la società non poteva essere fittizia e che il proposto non aveva esercitato in essa alcun diritto che non gli derivasse dal possesso delle partecipazioni sociali. Per tali ragioni, a parere della difesa, non si sarebbe potuto presumere che l’azienda fosse integralmente nella disponibilità del socio di maggioranza e, di conseguenza, sarebbe stato onere della Corte di appello dare conto delle ragioni per le quali aveva ritenuto l’azienda direttamente riconducibile al proposto. La Suprema Corte di Cassazione ricorda, innanzitutto, che L’art. 20 del D.lgs. 159/2011 prevede che “il Tribunale, quando dispone il sequestro di partecipazioni sociali totalitarie, ordina il sequestro dei relativi beni costituiti in azienda ai sensi degli articoli 2535 e seguenti del codice civile, anche al fine di consentire gli adempimenti previsti dall’articolo 104 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale. In ogni caso, il sequestro avente ad oggetto partecipazioni sociali totalitarie si estende di diritto a tutti i beni costituiti in azienda ai sensi degli articoli 2555 e seguenti del codice civile”. La recente riforma che ha modificato il codice antimafia, inoltre, ha ampliato il perimetro della possibilità di intervento ablatorio, collegando, con effetto automatico, la confisca delle quote del capitale sociale alla confisca dell’intero compendio aziendale. Siffatta disposizione è coerente con la ratio legis che, come affermato dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. U, sent. 26/06/2014 n. 4880) è da individuarsi nella finalità di sottrarre i patrimoni illecitamente accumulati alla disponibilità di determinati soggetti, che non possano dimostrarne la legittima provenienza. A parere dei Giudici della Corte “… è quindi evidente che, qualora i beni della società siano riconducibili alla attività del proposto, che pure non sia titolare delle quote dell’intero capitale sociale, si debba procedere al sequestro e confisca dei beni”. Nel caso di specie, dunque, il sequestro è da considerarsi legittimo in quanto il patrimonio della società risulta complessivamente inquinato dalle attività illecite poste in essere dal socio di maggioranza del quale è dimostrata la “mafiosità” delle condotte imprenditoriali. In conclusione, la Corte di Cassazione respinge il ricorso anche nella parte in cui viene dedotta una lesione del diritto di proprietà di un terzo osservando che, non essendo state sequestrate, nel caso di specie, le quote del terzo, questi avrebbe comunque diritto di partecipare alla distribuzione del ricavato dei beni aziendali, con conseguente insussistenza della lamentata lesione. Lazio. Coronavirus e carcere, stabile il dato sui positivi romasette.it, 4 dicembre 2020 Il grazie del Garante dei detenuti Stefano Anastasia a operatori sanitari e penitenziari. L’udienza del Papa e le parole di don Grimaldi, ispettore dei cappellani. Dal Garante dei detenuti Stefano Anastasìa, parole di gratitudine per gli operatori sanitari e penitenziari, “per la cura e l’attenzione con cui hanno gestito la fase più aggressiva del virus in carcere. Da tre settimane - riferisce - il numero dei positivi nelle carceri della regione è sostanzialmente stabile e attualmente non ci sono focolai incontrollati in atto. Ciò nonostante, è bene tenere alta la guardia ma senza panico e senza misure ingiustificate di restrizione delle attività e dei colloqui”. Al 1° dicembre risultano 40 persone positive e un solo ospedalizzato. La maggior parte dei casi positivi è a Rebibbia femminile, dove comunque il numero di positive è stabile da settimane, a conferma del fatto che il cluster è stato confinato. Altri carceri interessati dal contagio tra i detenuti, seppure in forma minore, sono attualmente gli altri istituti di Rebibbia, Regina Coeli e Cassino e Rieti. “Modesti”, nell’analisi di Anastasìa, gli effetti del decreto Ristori: calano di appena 29 unità le presenze negli istituti di pena del Lazio rispetto al mese di ottobre, da 5.839 a 5.810. “Entrato in vigore il 28 ottobre - ricorda il Garante -, il decreto-legge 137/2020 prevede licenze premio straordinarie per i semiliberi, durata straordinaria dei permessi per i lavoranti all’esterno e il rinnovo di misure per incentivare la detenzione domiciliare dei detenuti a fine pena ma si tratta di una variazione davvero poco significativa e del tutto inadeguata rispetto alla situazione”. A fine novembre il tasso di affollamento complessivo negli istituti di pena del Lazio calcolato sulla base della capienza regolamentare dichiarata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sarebbe del 113 per cento mentre in tutta Italia, dove, peraltro, si è registrato un consistente aumento del numero di detenuti nel mese di novembre, è del 109 per cento. Va però considerato che rispetto ai dati delle capienze “regolamentari”, in parecchi istituti di pena della nostra regione i posti effettivamente disponibili sono più ridotti a causa dello stato di degrado di alcuni reparti, di lavori di ristrutturazione e di adeguamento degli edifici in corso e di altre misure di sicurezza. Conseguentemente, se si analizza la situazione dei singoli istituti sulla base delle valutazioni delle schede di trasparenza disponibili sul sito del ministero della Giustizia, il tasso di affollamento negli istituti di pena del Lazio sale al 128 per cento e nella metà delle carceri della regione risulta superiore al 130 per cento. “Come più volte ribadito - è il commento di Anastasìa - riteniamo quanto mai necessario che vengano adottate tutte le possibili misure per consentire a chi ne ha i requisiti di scontare la pena detentiva al di fuori delle mura carcerarie, in considerazione anche sia del numero significativo di persone che devono scontare pene inferiori ai due anni sia della notevole percentuale di detenuti in attesa di primo giudizio, vicina al 20 per cento del totale dei detenuti presenti in regione”. Percentuale che “risulta da due anni costantemente superiore a quella che si riscontra a livello nazionale”. Al mondo delle carceri anche Papa Francesco ha dedicato un passaggio nell’udienza generale di mercoledì 2 dicembre. Parole riprese dall’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane don Raffaele Grimaldi, che le ha lette come “un chiaro appello rivolto anche a noi che siamo fuori dalle mura delle carceri, a volte più prigionieri degli altri, affinché siamo chiamati a non giudicare, ma a vedere, anche nell’uomo che ha commesso gravi reati, l’immagine di Cristo”. Ringraziando il Santo Padre a nome di cappellani, operatori e agenti della Penitenziaria, don Grimaldi evidenzia che “Dio non solo è paziente con coloro che sono dietro le sbarre ma lo è anche con noi. Perciò, siamo chiamati a non dimenticare che siamo tutti peccatori e non va puntato il dito per giudicare l’altro”. Sul reinserimento sociale, prosegue l’ispettore generale, “parlando di comunità di recupero, il Papa ci ha indicato la strada per donare un orizzonte di speranza a coloro che desiderano ritornare nella comunità civile. Comunità, case famiglia, dove i detenuti possano ritrovare l’affetto di persone, di parenti e amici che li accolgono e li indirizzano verso un vero cammino di rinascita”. Di qui l’invito a “tendere una mano, dare fiducia a chi ha sbagliato, essere comunità accoglienti, avere il coraggio di difendere chi è caduto nella trappola del male, per non vedere nella persona che è in carcere, solo il male, solo gli errori commessi”. Don Grimaldi aggiunge: “La nostra società perbene deve avere un cuore misericordioso, come lo è la madre del carcerato che visita e ama il proprio figlio che ha sbagliato e si è macchiato di gravi reati. Gli uomini e le donne che hanno commesso una colpa, a volte sepolti dall’indifferenza degli altri, hanno bisogno di essere incoraggiati per rinascere”. Ricordando le storie di rinascita di cui sono testimoni i cappellani, il sacerdote conclude: “Per le persone rinchiuse dietro le sbarre per i loro errori commessi, abbandonate al loro destino, siamo chiamati a essere autentici medici che sappiano curare le ferite e che offrano occasioni di accoglienza e di recupero”. Umbria. 4mila test anti-covid per detenuti e operatori delle carceri umbriajournal.com, 4 dicembre 2020 Nelle carceri dell’Umbria arriveranno 4 mila test per lo screening dei detenuti e degli operatori. Lo ha annunciato il commissario per l’emergenza Antonio Onnis nella conferenza stampa settimanale sull’andamento dell’epidemia. All’incontro hanno partecipato anche il direttore regionale alla Salute, Claudio Dario, e la dottoressa Enrica Ricci dell’Unità strategica emergenza coronavirus (Usec). “A partire dalle informazioni presenti nella banca dati disponibili della protezione civile e dell’Istituto superiore di sanità - hanno spiegato Carla Bietta e Mauro Cristofori del Nucleo epidemiologico - sono state analizzate le due fasi epidemiche per fornire elementi di confronto relativi ai decessi da (per) Covid, includendo nell’analisi tutti i 415 decessi occorsi dall’inizio dell’epidemia al 30 novembre 2020. La distribuzione dei casi nelle due fasi è a netto vantaggio della Fase 2?. Relativamente alla situazione nelle carceri umbre, Onnis ha reso noto che “la situazione è sotto controllo anche se c’è necessità di un livello di attenzione altro. Nel corso dell’incontro il direttore Dario ha reso noto che “in presenza di una variazione del quadro epidemiologico che, nelle ultime settimane, ha evidenziato un progressivo crescente impegno del Servizio sanitario regionale, si stanno rivedendo le strategie messe in atto nella Regione Umbria proprio sul versante diagnostico”. “In questa logica - ha aggiunto - sono state approvate dal Comitato tecnico scientifico della Regione Umbria le ‘linee di indirizzo per la sorveglianza e strategia diagnostica nell’uso dei test per il Covid-19’, un documento di governo che ridefinisce il percorso della sorveglianza e le strategie diagnostiche nell’uso dei test per il Covid-19, sulla base delle normative vigenti. Proprio alla luce delle nuove strategie diagnostiche per garantire una maggiore accessibilità alla diagnostica per Sars-Cov 2 rivolta anche a cittadini che non fanno parte delle casistiche che vengono prese in carico dalla sanità pubblica, come ad esempio i privati cittadini asintomatici che non risultano contatti stretti di casi Covid, oppure per lo screening nei luoghi di lavoro, è stata prevista la possibilità, in caso di test antigenico o sierologico positivo, di eseguire il test molecolare su tampone oro-rinofaringeo in regime privato. In attesa dell’approvazione da parte della Giunta regionale di una delibera che recepisce le linee del Cts sarà trasmessa una circolare esplicativa ai laboratori privati da parte della Direzione sanitaria regionale e del Commissario regionale all’emergenza Covid, per rendere già operative le linee stesse in base alle quali il cittadino che risulti positivo al test antigenico o al test sierologico potrà quindi effettuare il test molecolare seguendo due modalità”. Ovvero contestualmente, nel caso sia stato eseguito un test rapido presso lo stesso laboratorio, punto prelievo, medico competente - è stato spiegato -, con costi a proprio carico e dovrà restare in isolamento domiciliare fiduciario fino al referto del test molecolare, dal quale dipenderà il percorso successivo. Diversamente, si potrà avvalere del servizio pubblico e, in tal caso - è stato detto ancora - verrà preso in carico servizio di prevenzione, che provvederà alla prescrizione e programmazione del test molecolare, con costo a carico della sanità pubblica, fermo restando che, in attesa dell’esecuzione del test molecolare, il soggetto dovrà permanere in isolamento domiciliare fiduciario”. Napoli. Coronavirus in carcere, un altro detenuto di Poggioreale morto all’ospedale di Elena Del Mastro Il Riformista, 4 dicembre 2020 “I problemi patologici del carcere erano già sotto gli occhi di tutti, poi si sono aggravati con il diffondersi della pandemia da Covid 19. Peccato che dal Ministero della giustizia e dalla politica in generale si minimizzi sui contagi di detenuti, personale di polizia penitenziaria, personale sanitario e addirittura sui morti.” Così il Garante campano Samuele Ciambriello e quello napoletano Pietro Ioia prima di iniziare l’incontro di oggi a Secondigliano dopo quello di ieri a Poggioreale. Stamattina i Garanti hanno incontrato presso il carcere di Secondigliano la direttrice Giulia Russo, la responsabile sanitaria Maria Rosaria Gemei, il responsabile della sanità penitenziaria dell’ASL NA1 Lorenzo Acampora. Dopo la riunione i due garanti comunicano i seguenti dati aggiornati a questa mattina a Secondigliano: risultano 51 i positivi e 6 in isolamento sanitario su una popolazione di 1185 detenuti. Non vi sono ricoverati presso presidi ospedalieri. Tra il personale di polizia penitenziaria i positivi sono 57 e 22 in quarantena precauzionale perché a contatto con positivi. Del personale sanitario vi è un solo positivo. I tamponi totali somministrati ai detenuti dall’inizio della pandemia sono poco più di 1000. Sono stati sottoposti a tampone i detenuti di quasi tutti i reparti, tranne una sezione del reparto Ionio e una sezione del reparto Ligure che avverrà nei prossimi giorni. “Grazie allo screening realizzato all’interno dei penitenziari napoletani è stato possibile porre in essere un attività di prevenzione che ha permesso di procedere all’isolamento dei positivi evitando in maniera massiva il diffondersi dell’epidemia, screening fortemente voluto dal direttore generale della Asl Na 1 Ciro Verdoliva” così ha dichiarato Lorenzo Acampora durante l’incontro. I due garanti hanno poi dato una triste notizia: ieri sera tardi è morto un detenuto di Poggioreale per Covid all’ospedale Cardarelli, il terzo in Campania tra i detenuti,(2 di Poggioreale e 1 di Secondigliano) oltre alla morte per Covid del Direttore Sanitario del carcere di Secondigliano Raffaele de Iasio. “Prima della riunione abbiamo incontrato una delegazione di detenuti art. 21 che lavorano sia all’interno che all’esterno del carcere. Crediamo che per questi detenuti debba esserci una corsia preferenziale che consentirebbe loro di avere un permesso premio prolungato e un affidamento in prova ai servizi sociali. Lo stesso vale per i semiliberi che sono in licenza fino al 7 gennaio 2021. Ci è stato comunicato che con il Decreto Ristori è uscito un solo detenuto e questo ci dà la conferma di ciò che sosteniamo da diverso tempo e cioè che il Decreto Ristori per i detenuti è insufficiente perché troppo restrittivo nelle modalità e in particolar modo in una clausola, quella riguardante la detenzione domiciliare esclusa per i detenuti con resti ostativi, clausola ingiusta, ipocrita e anticostituzionale perché la legge deve essere uguale per tutti. La giornata di oggi purtroppo è stata funestata dalla triste notizia della morte per Covid 19, presso l’Ospedale Cardarelli, di Filippo A., 63 anni. Il detenuto di Poggioreale, cardiopatico, era ricoverato in ospedale dal 26 novembre. “Le nostre più sentite condoglianze alla famiglia. Purtroppo si continua a morire di carcere e in carcere” così Ciambriello e Ioia dopo l’incontro. Vasto (Ch). “Detenuto morto, vogliamo chiarezza” di Paola Calvano Il Centro, 4 dicembre 2020 La compagna del 39enne trovato senza vita in cella: stava per uscire, qualcuno dica la verità. La compagna del detenuto milanese di 39 anni trovato morto nel carcere di Torre Sinello chiede chiarezza. La donna, madre di un bambino di 10 anni, si è rivolta per questo ad un legale, l’avvocato Raffaele Giacomucci. “È difficile rassegnarsi a una tragedia così inaspettata”, dice Giacomucci. Il legale ha presentato alla Procura un’istanza in cui chiede di accertare le modalità della morte e cosa avrebbe spinto il detenuto a un gesto estremo. “Ho chiesto anche che vengano eseguiti accertamenti medico legali sulla salma”, spiega ancora il legale. Il 39enne, nei giorni scorsi, aveva parlato proprio con l’avvocato Giacomucci: il legale si era occupato del suo trasferimento in una comunità. “Presto ci sarebbe stata l’udienza e, subito dopo, il mio cliente sarebbe uscito da Torre Sinello. Perché all’improvviso avrebbe deciso di togliersi la vita?”. Il corpo dell’uomo è stato trovato nella tarda mattinata di martedì dagli agenti della polizia penitenziaria. L’uomo era nella sua cella da solo. Pare che avesse accanto un sacchetto di plastica e una bomboletta di gas. Immediatamente è scattato l’allarme e sono partiti i soccorsi. Le operazioni di rianimazione tuttavia sono state inutili. Il detenuto non si è più svegliato: i medici non hanno potuto fare altro che dichiarare il decesso. La direzione della casa lavoro ha subito avvisato dell’accaduto la Procura di Vasto che ha aperto un’indagine sull’accaduto. Ora al fascicolo si aggiunge l’istanza presentata dal legale della compagna dell’uomo. Il corpo del detenuto è stato trasferito all’obitorio dell’ospedale Santissima Annunziata di Chieti in attesa dell’autopsia. È probabile che la perizia medico legale venga eseguita domani. “Ripeto”, dice Giacomucci, “accettare una morte improvvisa non è facile. A maggior ragione non lo è se arriva in un modo così drammatico. La mia cliente e il figlioletto di 10 anni sperano che gli investigatori riescano a capire, attraverso il racconto di chi in questo periodo gli stava accanto, perché il 39enne abbia deciso di togliersi la vita e se avesse manifestato le sue intenzioni ad altri detenuti o magari questi ultimi abbiano notato un comportamento strano e un atteggiamento particolarmente malinconico negli ultimi tempi”. Firenze. Sollicciano, tra positivi e quarantene sono sessanta gli agenti fuori gioco di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 4 dicembre 2020 Cinque i detenuti infettati, 28 in isolamento. L’Asl: la situazione per ora è sotto controllo, se serve possiamo blindare interi reparti. Ventisei agenti penitenziari di Sollicciano sono positivi al Covid, mentre sono 38 quelli in quarantena nella caserma o in isolamento fiduciario a casa. Complessivamente, nel carcere fiorentino mancano all’appello oltre 60 agenti, un numero consistente che contribuisce ad abbassare la sicurezza nel penitenziario, anche se, dato il periodo di pandemia e le pochissime attività collaterali, la situazione è sotto controllo. Certo è, che se gli agenti contagiati dovessero aumentare, la situazione comincerebbe a diventare critica. La nota positiva è che restano ancora circa 400 agenti a disposizione. Per quanto riguarda i detenuti, la situazione è migliore: i positivi sono 5, mentre quelli in isolamento (perché appena arrestati o provenienti da altri penitenziari) sono 28. Tutti loro scontano la pena nell’area Covid di Sollicciano, che contiene in tutto 11 posti ed è gestita come una zona a parte, con tanto di differenziamento del cibo e dei rifiuti. “Fortunatamente per ora la situazione è sotto controllo - afferma Sandra Rogialli, responsabile per la Asl del Dipartimento Salute in carcere - Speriamo che il virus non entri più pesantemente nel nostro carcere, ma qualora dovesse succedere siamo pronti con un piano di emergenza che prevede l’isolamento di interi reparti”. Dal 20 marzo al 25 novembre, specifica poi Rogialli, “sono stati effettuati 1.026 tamponi”, quasi tutti sulla popolazione detenuta, e questo ha frenato la diffusione del virus. A complicare la situazione, c’è il sovraffollamento del carcere, dove sono presenti 721 detenuti su una capienza regolamentare di 494. E come se non bastasse, Sollicciano è ancora senza un direttore definitivo. Alla guida del penitenziario c’è l’ex direttrice dell’Opg di Montelupo e direttrice del carcere Gozzini, Antonella Tuoni, che dovrebbe restare per un altro paio di mesi. Dopodiché, dovrebbe subentrare il direttore definitivo. “È imminente - aveva detto a metà ottobre il ministro della giustizia Alfonso Bonafede al Corriere Fiorentino - l’avvio della procedura per individuare il nuovo direttore”. Eppure, hanno spiegato ieri dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a Roma, il posto per il direttore sarà bandito a gennaio e, se tutto procederà senza intoppi dovrebbe arrivare tra marzo ed aprile. I tempi dunque sembrano dilatarsi. Una notizia che fa infuriare Eleuterio Grieco della Uil Pa Penitenziari: “Nonostante le difficoltà di Sollicciano, non è ancora stato avviato l’iter per la nomina del nuovo vertice, e questo crea ulteriori problemi a un carcere che già ne ha tanti”. Inoltre, aggiunge Grieco, “abbiamo un provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria a metà, visto che Gianfranco De Gesu se ne è appena andato e al suo posto è arrivato nelle ultime ore Carmelo Cantone, che però è già provveditore di Lazio, Molise, Abruzzo e Umbria”. Il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani ha inviato una lettera alla Regione nel quale si chiede, non appena il vaccino arriverà di “vaccinare anche i reclusi e il personale degli agenti penitenziari”. E nel frattempo, è arrivata al 22esimo giorno di sciopero della fame l’ex parlamentare radicale Rita Bernardini che chiede, in seguito ai 900 detenuti positivi nelle carceri italiane, amnistia e indulto per i reclusi che sono arrivati alla fine del loro periodo di reclusione. Napoli. “Tribunali e prigioni in tilt, ecco come sbloccarli”, la proposta del giudice Morello di Andrea Esposito Il Riformista, 4 dicembre 2020 Subito l’amnistia e l’indulto. Poi riforme che prevedano un’ampia depenalizzazione, l’estensione dell’ambito applicativo dell’assoluzione per particolare tenuità del fatto e un rafforzamento degli organici degli uffici giudiziari. Eccola, la strategia che Tullio Morello, magistrato in forza alla sezione penale del Tribunale di Napoli, suggerisce per sciogliere i nodi della giustizia italiana e partenopea. Già presidente della sezione locale dell’Anm, Morello ha più volte denunciato il collasso della giustizia penale e del sistema carcerario, oltre a sottolineare la necessità di una riforma della carriera delle toghe. Dottor Morello, le vicende di Francesco Nerli e Antonio Bassolino ripropongono il tema degli errori giudiziari e, soprattutto, della valutazione dell’operato dei giudici. Il sistema di controllo attualmente in vigore è sufficiente? “I criteri di valutazione sono chiari ed è oggettivamente difficile prevederne altri senza intaccare l’indipendenza della magistratura. Anche perché le sanzioni esistono e vengono applicate. Una soluzione ottimale non esiste, ma la verità è un’altra”. Quale? “I magistrati sono pochi e si occupano di troppe cose. In più, norme e fatti sono suscettibili di diverse interpretazioni. Non a caso il legislatore ha previsto non uno, ma tre gradi di giudizio. Senza dimenticare che il risultato del processo penale dipende, oltre che dalla professionalità del giudice, dal comportamento del pm e dei difensori di periti e testimoni. In un contesto così confuso l’errore è dietro l’angolo. E a questo dobbiamo aggiungere gli effetti della pandemia che ha paralizzato la giustizia”. Come se ne esce? “L’amnistia è il primo provvedimento da adottare per resettare il sistema e far ripartire il processo penale. Non spetta a me indicare i reati da estinguere attraverso l’amnistia, ma si può ragionare sulle fattispecie contemplate dalle leggi speciali che rappresentano circa il 60% del carico di lavoro del giudice monocratico. Con l’amnistia si darebbe ossigeno agli uffici e i giudici monocratici potrebbero offrire il loro contributo nei processi collegiali per reati più gravi”. A proposito di numeri, in Campania ci sono più di 6.600 detenuti. Quasi la metà è in attesa di giudizio, mentre solo una minima parte si trova in cella per reati gravi. È accettabile? “No. Il dato sui detenuti in attesa di giudizio è altissimo e collide con i principi costituzionali e di legge che ispirano il processo penale. Le condizioni delle carceri, dove il sovraffollamento è evidente e accresce il rischio di diffusione del Covid tra i reclusi e il personale, impongono soluzioni drastiche e rapide. Perciò, oltre l’amnistia, al nostro Paese serve l’indulto”. Non ritiene possibile abolire il carcere, almeno per certi reati, sostituendolo con percorsi formativi o finalizzati all’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro? “Certo, il carcere deve essere considerato come extrema ratio e previsto solo per i reati più gravi. Anzi, dirò di più: per i reati bagattellari è indispensabile una depenalizzazione. Con i proventi delle sanzioni amministrative, infatti, lo Stato reperirebbe le risorse necessarie per potenziare l’organico delle Prefetture che sarebbero chiamate a occuparsi di quel tipo di illeciti. E poi bisogna ampliare l’ambito applicativo dell’articolo 131 bis del codice penale sull’assoluzione per particolare tenuità del fatto: il limite edittale della pena detentiva non superiore a cinque anni non consente di disporre l’assoluzione in casi in cui il fatto illecito è lieve e il danno o pericolo è esiguo”. E Napoli? “Queste misure produrrebbero un impatto notevole. C’è da dire, però, che molte persone si trovano in cella anche perché non hanno nessuno che presenti per loro l’istanza di ammissione a misure alternative come la detenzione domiciliare. E perché il Tribunale di Sorveglianza è affetto da una cronica carenza di personale amministrativo. Anche su questi aspetti bisogna intervenire al più presto”. Napoli. Carceri, il virus dà tregua ma non la burocrazia di Viviana Lanza Il Riformista, 4 dicembre 2020 Se il Covid sembra aver allentato la presa all’interno delle carceri campane, la burocrazia resta il nodo ancora da sciogliere per via dei tempi lunghi delle decisioni di Tribunale e Uffici di Sorveglianza e dei tempi segnalati dai garanti con cui le aree educative delle carceri si occupano di quei detenuti soli, stranieri o senza fissa dimora. “In questi giorni abbiamo dato numeri su carcere e Covid, abbiamo partecipato a manifestazioni di solidarietà per i detenuti, abbiamo cercato di sensibilizzare la politica rispetto alla gravità di questa emergenza e in generale sui temi che riguardano il carcere: sovraffollamento, malasanità, malagiustizia. La nostra vuole essere una battaglia civile utile per la democrazia e per i diritti, consapevoli che sia necessario e opportuno divulgare con trasparenza i dati su carcere e Covid nonostante le minimizzazioni del Ministro della Giustizia e più in generale della politica”, hanno affermato il garante della Campania, Samuele Ciambriello, e quello di Napoli, Pietro Ioia, varcando la soglia del carcere di Poggioreale per un incontro con il direttore del carcere Carlo Berdini e con il direttore sanitario Vincenzo Irollo. Il numero dei positivi all’interno delle celle della grande struttura penitenziaria cittadina finalmente comincia a calare, ma alcune criticità restano. Il direttore Berdini ha riferito ai garanti che negli ultimi giorni sono state 62 le istanze inviate alla magistratura di Sorveglianza e relative alle posizioni di detenuti che potrebbero beneficiare del decreto Ristori. E nei prossimi giorni saranno istruite nuove pratiche con tutte le verifiche sulle singole posizioni da mandare al vaglio della Sorveglianza. Più confortanti, rispetto alle scorse settimane, sono i dati sull’andamento della pandemia all’interno della struttura: a Poggioreale, dove c’è ad oggi una popolazione di 2.008 reclusi, i detenuti positivi sono scesi a 42 (erano 102 fino a qualche giorno fa) e sono tutti in isolamento nel padiglione Venezia a eccezione di un detenuto che si trova nella struttura sanitaria interna al carcere e di tre che si trovano ricoverati tra l’ospedale Cardarelli e il Cotugno. Ci sono inoltre 39 detenuti in quarantena precauzionale nel padiglione Firenze: si tratta di primi giunti, quindi di persone appena arrestate e messe in isolamento preventivo nelle celle filtro al primo piano, e di persone che hanno avuto contatti con positivi e sono al secondo piano. Quanto al personale di polizia penitenziaria, si contano attualmente 27 contagiati e 10 in quarantena preventiva, mentre tra i dipendenti sanitari ci sono tre medici e un infermiere assenti per Covid. Dall’inizio della pandemia ad oggi sono stati eseguiti, nel carcere di Poggioreale, 3.306 tamponi. “Chiederemo un quadro completo della situazione anche al carcere di Secondigliano”, assicurano i garanti, evidenziando ancora una volta il clima di generale indifferenza che c’è nel Paese attorno al tema carcere. Lecce. Detenuto morto in carcere per un’ulcera gastrica: condannati due medici di Francesco Oliva Corriere Salentino, 4 dicembre 2020 Due medici del carcere di Borgo “San Nicola” condannati per la morte del detenuto Donato Cartelli, 59enne originario di Uggiano La Chiesa, deceduto dietro le sbarre per un’ulcera gastrica. Il gup Carlo Cazzella, al termine del processo con rito abbreviato, ha inflitto 4 mesi di reclusione ai due sanitari con l’accusa di responsabilità colposa in ambito sanitario. Verdetto assolutorio per non aver commesso il fatto è stato emesso per un terzo medico. La sentenza contempla anche una provvisionale immediatamente esecutiva di 5mila euro e il resto del risarcimento da quantificarsi in separata sede per i familiari della vittima. “È stato come aver scalato una montagna” commenta l’avvocato Andrea Conte, legale dei parenti di Cartelli, “ma la soddisfazione maggiore è che è stato stabilito un minimo di risarcimento morale per le lacune evidenziate dal sistema sanitario carcerario per un decesso causato da un’ulcera gastrica” La vicenda giudiziaria, lunga e complessa, venne avviata dopo la denuncia dei familiari del 59enne. Dietro le sbarre Cartelli stava scontando una condanna a nove anni di reclusione per reati contro la persona. Il detenuto non aveva mai lamentato alcun problema di salute “dal 2011 quando era entrato in carcere” precisa l’avvocato Conte. E ai familiari non aveva riferito di alcun malanno. Anzi, nel corso dei colloqui, avrebbe sempre rassicurato i propri familiari augurandosi di poter beneficiare della liberazione anticipata alla luce della buona condotta tenuta dietro le sbarre. Il decesso si concretizzò nel rapido volgere di poche settimane dopo alcuni problemi di stomaco e cali di pressione. Il pubblico ministero Francesca Miglietta, sulla scorta degli esiti della perizia medica della dottoressa Gabriella Cretì nominata in sede di incidente probatorio, chiese l’archiviazione del procedimento. Dopo l’udienza camerale in cui venne discussa l’opposizione avanzata dal legale dei familiari di Cartelli, il gip Edoardo D’Ambrosio dispose l’imputazione coatta di tutti e tre i medici. Secondo il giudice, nel corso della prima visita del 20 gennaio 2016, il medico non avrebbe disposto un’ecografia senza informare il paziente dei rischi a cui in cui sarebbe incorso se non avesse effettuato l’esame nonostante nei giorni successivi i dolori addominali persistessero. E nonostante per il gip i tre medici (che hanno tenuta in cura Cartelli) avrebbero avuto l’obbligo di fornire un’adeguata informazione sulle conseguenze delle proprie scelte al detenuto “soggetto in tutto e per tutto alle cure dello Stato”. Gli altri due medici si sarebbero limitati nelle visite del 13 e 19 febbraio a prescrivere terapie generiche (un antidolorifico e un lassativo e un vasopressore) nonostante si trovassero di fronte ad un quadro cardiocircolatorio estremamente grave (pressione arteriosa pari a 80/60) e senza disporre un’ecografia o un ricovero. Il secondo medico, infine, dopo aver visitato il paziente il 18 febbraio nonostante un quadro cardiocircolatorio particolarmente grave e preoccupante avrebbe prescritto al detenuto l’assunzione per via orale di un vasocostrittore senza procedere al ricovero o a una nuova rivelazione della pressione arteriosa nelle sette ore successive che avrebbe consentito di accertare un quadro di anemia acuta, sintomo di un sanguinamento digestivo in atto. Prologo al decesso da cui è partita l’inchiesta sfociata dopo quattro anni nella condanna di due dei tre medici difesi dagli avvocati Vincenzo e Antonio Venneri, Vincenzo Perrone e Mario Ingrosso. Fra 60 giorni si conosceranno le motivazioni. Ascoli Piceno. Carcere del Marino: il Covid non ferma le attività di Simone Corradetti cronachepicene.it, 4 dicembre 2020 Sono ripartite le attività sportive e didattiche. Insieme al corso di giornalismo anche il corso di cucina. Nella Casa circondariale ascolana di Marino del Tronto non si perde tempo, e si cerca di riattivare tutte le iniziative che erano state sospese nella prima fase dell’emergenza Coronavirus. L’articolo 27 della costituzione, prevede la rieducazione del condannato durante l’esecuzione della pena in carcere, riavvicinandolo ai valori e ai principi di legalità. Sono ripresi gli allenamenti del progetto “Il mio campo libero”, promosso dal presidente del Csi di Ascoli Antonio Benigni, la collaborazione della responsabile Eleonora Sacchini, e il giovanissimo preparatore atletico Valentino D’Isidoro. L’anno scorso, in occasione del Natale, i detenuti avevano incontrato calcisticamente, i commercialisti, la Confindustria, la Nazionale italiana sacerdoti, e la Sambenedettese. Ora, sono anche riprese le attività didattiche, il corso di giornalismo con la nuova rivista “L’eco del Marino”, il corso di formazione per aspiranti cuochi, la raccolta dell’orto che viene coltivato dai detenuti, e un’attività cinofila portata avanti da due istruttori. Inoltre, si è formato un gruppo di lettura tra i reclusi dell’alta sicurezza (As3) con pene ostative, e il cineforum per la “media sicurezza”. Restano sospese le attività teatrali per il discorso del distanziamento sociale, e il catechismo. Grazie ai contributi della Carisap e della Caritas, è stata ristrutturata la cucina con nuove attrezzature all’avanguardia (leggi qui), e i colloqui familiari vengono effettuati soprattutto via Skype. Infine, sul fronte dell’emergenza sanitaria, i detenuti sottoposti al tampone, sono fortunatamente risultati tutti negativi al Covid, anche attraverso lo straordinario impegno di prevenzione da parte del personale penitenziario e sanitario. Catania. Banco alimentare: i detenuti di donano 90 kg alimenti ansa.it, 4 dicembre 2020 Nell’istituto di piazza Lanza, raccolta giunta a ottavo anno. Anche se la colletta del Banco alimentare quest’anno ha cambiato forma dematerializzandosi e puntando sulle gift card, nel carcere di piazza Lanza, a Catania, la raccolta, per l’ottavo anno consecutivo, è stata fatta in modo tradizionale raccogliendo più di 90 kg di generi alimentari. “Quest’anno la raccolta è stata fatta in modo diverso a causa del Covid - spiegano i volontari del Banco che hanno operato nel carcere - infatti rispetto agli altri anni abbiamo dovuto soltanto aspettare e portare fuori tutti i pacchi. È stata la polizia penitenziaria a occuparsi di recuperare tutti i generi alimentari donati dai detenuti. Un bellissimo gesto per il quale li ringraziamo con tutto il cuore e sentiamo la necessità di sottolineare che anche gli agenti penitenziari e quelli della polizia amministrativa hanno contribuito donando generi alimentare per chi ha bisogno. Grazie alla direttrice dell’istituto penitenziario, Elisabetta Zito. Tutto questo dimostra che quando c’è bisogno, il cuore dell’uomo risponde”. La 24esima Colletta Alimentare non si ferma, ma continua fino a martedì 8 dicembre nei 354 supermercati siciliani che hanno le insegne di Eurospin, Lidl, Penny Market e Fratelli Arena. È possibile acquistare la card da 2, 5 o 10 euro anche online sul sito www.collettaalimentare.it oppure contribuire alla Colletta Alimentare - in questo caso si può fare fino al 10 dicembre - sul sito: www.amazon.it/bancoalimentare. Regime ostativo: il doppio binario che mortifica diritti e dignità di Frank Cimini Il Riformista, 4 dicembre 2020 Il Covid dovrebbe essere una ragione in più affinché i detenuti possano accedere ai benefici penitenziari e si riduca la popolazione carceraria. Il condizionale è d’obbligo perché esiste una norma simbolo che fa da ostacolo all’attenuazione della durezza delle condizioni di detenzione, il famoso articolo 4bis da non confondere con un altro articolo ancora più famoso, il 41bis. Il 41bis norma, si fa per dire, il cosiddetto “carcere duro” ed è di antica data perché nasce con l’emergenza antimafia all’inizio degli anni 90 ma agisce, in pratica, in continuità con l’articolo 90 del regolamento penitenziario che risale alla madre di tutte le emergenze, quella relativa alla repressione della sovversione interna degli anni 70 e 80. Del tema si occupa il lavoro che ha per titolo “Regime ostativo ai benefici penitenziari. Evoluzione del doppio binario e prassi applicative”. L’autrice è Veronica Manca, avvocato e membro dell’Osservatorio carcere della Camera penale di Trento. Sono 280 pagine, 29 euro, editore Giuffrè Francis Lefebvre. Il cuore del problema sono tutte quelle norme che derogano alle regole generali in materia penitenziaria, ponendo in essere dei regimi applicativi “differenziati” della pena e ostativi della rieducazione e possibilità di risocializzazione. Prevalgono invece esigenze general-preventive di intimidazione, perché il condannato viene ritenuto socialmente pericoloso e quindi non meritevole di accedere ai benefici penitenziari. Secondo l’avvocato Manca, va verificato se con le discipline differenziate si garantisce comunque il rispetto dei diritti fondamentali che fanno capo alla dignità della persona umana anche se reclusa e anche se ritenuta dal legislatore pericolosa. La risposta è senza ombra di dubbio no. La Costituzione della Repubblica, o quello che ne rimane nel Paese dell’emergenza infinita ad avviso di chi scrive queste righe, fa fatica (eufemismo) a entrare nelle prigioni. Secondo l’autrice del libro, l’articolo 4bis costituisce il modello per eccellenza di deroga all’accesso ai benefici penitenziari dando origine a un binario parallelo per cui la regola diventa l’eccezione. Perché solo a determinate condizioni è possibile infatti accedere ai benefici. Il doppio binario è parallelo fin dal processo e dal giudicato penale di condanna a causa dell’accesso diretto in carcere per gli autori di reati contenuti nell’articolo 4bis. E se, come si diceva all’inizio, al 4bis si somma il 41bis, il regime di sospensione delle regole ordinarie di trattamento, il binario parallelo può innestarsi anche prima della fase processuale quando l’autore del reato è solo un indagato o un imputato. Il doppio binario esplica i propri effetti anche oltre l’esecuzione della pena detentiva, condiziona pesantemente la fase cautelare e influenza la strategia difensiva che deve essere necessariamente già proiettata in funzione dell’esecuzione della pena. La pena detentiva viene resa immutabile senza poter subire trasformazioni in sanzioni diverse dal carcere. C’è un iter trattamentale parallelo che si coglie già dalla collocazione dei condannati in sezioni separate, circuiti di alta sicurezza o in sezioni apposite per i detenuti in regime di 41bis. Ne consegue una forte compressione dei diritti soggettivi del detenuto, dalla corrispondenza ai contatti con esterni ai colloqui con i familiari. I giudici inglesi, ricordiamo, avevano negato di concedere l’estradizione di un condannato in Italia a causa del sovraffollamento carcerario. Al contrario gli svizzeri avevano concesso l’estradizione di un condannato premiando le recenti riforme che testimoniano una seria presa in carico del problema da parte delle autorità italiane. Ma, per esempio, l’introduzione della legge cosiddetta “spazza-corrotti” rivela uno schema di politica criminale general-preventivo per i delitti commessi da pubblici ufficiali. È precluso l’accesso ai benefici se non per il tramite dell’avvenuta “collaborazione” con la giustizia. Tentativi di riforma si sono avuti di recente attribuendo alla magistratura di sorveglianza il potere di valutare la posizione del detenuto anche se “non collaborante” sulla scorta di tutti gli ulteriori elementi, come l’assenza di legami con la criminalità organizzata, le condotte riparative o manifestazioni di ravvedimento. Nel libro si ricordano le rivolte carcerarie, con 13 morti, del marzo scorso con la presa d’atto che laddove l’epidemia dovesse raggiungere i detenuti - in realtà lo sta già facendo, come raccontano le cronache di questi giorni - non ci sarebbero strumenti, strutture adeguate né per fronteggiare le conseguenze né per prevenire ulteriori situazioni di rischio. Al fine di tutelare la salute dei detenuti, propone l’autrice, potrebbero essere estese le ipotesi di sospensione/differimento della pena per un arco di tempo limitato all’emergenza e/o anche un aumento di giorni da computare alla liberazione anticipata. Tenendo presente che, allo stato, la fine della pandemia appare abbastanza lontana e che le condizioni delle prigioni non consentono di utilizzare le precauzioni adottate all’esterno, a cominciare dal distanziamento tra una persona e l’altra. Il carcere visto in tv ci fa passare la voglia di gettare la chiave di Ginevra Santini Il Domani, 4 dicembre 2020 I prison drama stanno aumentando la loro popolarità. Anche l’Italia prova a seguire la moda americana ma con una sua peculiarità: la prigione può e deve essere uno strumento di recupero sociale. Per lungo tempo le serie televisive si sono fermate sulla soglia delle carceri, in un rassicurante happy end che consegnava il colpevole alla giustizia. Gli americani, con i prison drama, hanno superato quel confine. Da Prison Break a Orange is the new black gli spettatori sono stati portati all’interno del carcere. L’Italia ci ha messo un po’ di tempo ma alla fine i nostri sceneggiatori si sono fatti coraggio e hanno cercato una via italiana al genere del prison drama. Il primo esperimento è stato fatto con “Boez”. Poi è arrivato “Mare fuori”. Il rumore delle sbarre che si chiudono alle spalle. E poi l’oblio: narrativo, ma in fondo anche esistenziale. Per lungo tempo le serie crime si sono fermate qui: sulla soglia delle carceri, in un rassicurante happy end che consegnava il colpevole alla giustizia. Al suono delle manette, si andava tutti a letto sereni e fine. Poi però sono arrivati gli americani (già, ci sono sempre di mezzo loro) e quell’ideale confine tra noi, onesti cittadini, e loro, i cattivi assicurati alla giustizia, si è dissolto. I prison drama, ossia le serie tv ambientate in carcere, hanno scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora catapultandoci in un mondo fatto di guardie, secondini e galeotti. Un universo efferato e disperato, ma che allo stesso tempo ha tanti, troppi, punti di contatto con il nostro mondo. Il successo è stato immediato: da Prison Break in poi, abbiamo smesso di andare a letto sereni appassionandoci a cult tanto claustrofobici quanto geniali, come Orange is the new black. “Dal punto di vista drammaturgico, i prison drama vantano una posta in gioco altissima: qui la dicotomia è tra vita e morte, libertà e detenzione”, dice Armando Fumagalli, direttore del master in International screenwriting and production dell’Università Sacro Cuore di Milano. “Inoltre il carcere svolge sulle relazioni un effetto simile a quello di una pentola a pressione: intensifica tutti i conflitti, li fa esplodere. Se ben scritta, la storia riesce quindi a supplire alla scarsa varietà delle location: un limite comunque da non sottovalutare perché l’assenza di esterni aiuta il budget ma non la resa visiva”. Noi italiani, per la verità, ci abbiamo impiegato un po’ prima di avventurarci tra secondini e detenuti. Alla fine però i nostri sceneggiatori si sono fatti coraggio e hanno cercato una via italiana al genere del prison drama. Il primo esperimento in questa direzione è stato fatto la scorsa estate dalla Rai con Boez. Una docu fiction, ancora disponibile sulla piattaforma RaiPlay, che segue il cammino di sei ragazzi, detenuti in un carcere minorile di Roma, che accettano di percorrere la via Franchigena insieme all’escursionista Marco Saverio Loperfido e all’educatrice Ilaria D’Appollonio. Novecento chilometri a piedi in 50 tappe, il tutto ovviamente ripreso dalle telecamere. Il pellegrinaggio altro non è che una delle modalità di recupero proposte come alternativa al carcere: in Belgio il cammino esiste da 40 anni, in Francia da 30. Il risultato è un racconto autentico, che ha il coraggio di chiamare il male con il proprio nome senza cedere a buonismi. Fin dalle prime scene appare infatti chiaro che i ragazzi non sono finiti per errore in carcere: i reati commessi sono i più disparati, dallo spaccio al concorso in omicidio, e molti di loro sono ancora impantanati nei propri errori. Eppure in Boez non v’è sdegno, né scandalo, ma un cammino, condiviso fianco a fianco, di andata e ritorno nell’inferno delle anime. “È solo quando, con Boez, qualcuno ha iniziato a credere in me e nelle mie potenzialità, che ho potuto accarezzare l’idea di essere una persona diversa, migliore”, ha detto uno dei giovani protagonisti. Il gradimento della serie, peraltro realizzata in collaborazione con il Dipartimento per la giustizia minorile del ministero della Giustizia, è stato tale che la Rai sarebbe al lavoro su un ideale sequel, dove si racconta il reinserimento di questi ragazzi nella società. Nel frattempo Rai 2 ha rilanciato con Mare fuori: il primo teen drama italiano ambientato in carcere, di cui è già in scrittura la seconda stagione. Per la verità il progetto risale addirittura a 18 anni fa. Ideato da Cristiana Farina, era destinato a Rai 3 salvo poi essersi arenato in seguito alla decisione della Rai di non programmare più fiction sulla terza rete pubblica. Farina ha dovuto quindi attendere che i diritti tornassero suoi, trovare un produttore e poi, finalmente, rimettersi all’opera, stavolta insieme al cosceneggiatore Maurizio Careddu. Mare fuori ruota attorno a un gruppo di giovani detenuti: alcuni sono finiti in carcere ingiustamente (pochi), altri hanno commesso gravi reati. Pur essendo di finzione e al netto delle derive melò, la storia risulta realistica: l’idea di Farina era nata dopo aver tenuto dei seminari a Nisida, il carcere minorile di Napoli. “Molti dei ragazzi che oggi finiscono in carcere sono persone che, a differenza della maggior parte di noi, affrontano e sfidano costantemente la paura più grande di tutte: la morte. Loro sanno perfettamente che non arriveranno a 30 anni. Lo hanno messo in conto perché è il prezzo da pagare se si vuole vivere al massimo”, dice Farina. “Questo fa sì che le loro storie siano incredibilmente interessanti e, al contempo, drammatiche: adolescenti che non temono la morte ma si ritrovano persi nella loro stessa condizione. Ragazzi pieni di rabbia e risentimento che rispettano solo chi temono”. Di episodio in episodio la serie svela inoltre il background di ciascun detenuto: dietro ognuno di loro, o meglio dietro ogni loro delitto, c’è un dramma familiare, una solitudine, un punto di rottura. Esattamente come in Boez anche qui emerge il passato drammatico dei protagonisti, spesso figli di genitori violenti, disperati, anaffettivi. “Non definirei Mare fuori una serie di denuncia”, precisa Farina, “però sicuramente vogliamo suggerire una riflessione sociale: negare la libertà a ragazzi dai 14 ai 18 anni è una sconfitta per tutti noi. Vuol dire che abbiamo sbagliato qualcosa: qualcosa nella società non funziona. Vorrei che, al termine della visione, gli spettatori si chiedessero: cosa possiamo fare per cambiare le cose? L’Ipm (Istituto penitenziario minorile) è un’istituzione con scopo rieducativo ma da solo non basta. Gli operatori dentro fanno un gran lavoro e i risultati migliori li ho visti quando si adottano stimoli positivi più che quelli punitivi. Sul campo della negazione e della coercizione tra l’altro i ragazzi che ho conosciuto sono molto più preparati di noi”. Gettare la chiave smette insomma di essere l’unica opzione. Il che rappresenta un passo avanti non solo in termini di dibattito sociale e politico, ma anche di approccio drammaturgico: con il prison drama la figura dell’anti-eroe evolve verso orizzonti più maturi. Negli ultimi anni i bad heroes hanno infatti preso sempre più piede, e spazio, nelle fiction. L’esempio più noto sono i protagonisti di Gomorra: irrecuperabili e oscuri, hanno abbracciato la loro malvagità in un viaggio di sola andata verso morte certa. Con i prison drama si compie invece un ulteriore passo avanti. I protagonisti non sono certo meno inquietanti, anzi, ma non nascono già cattivi e, soprattutto, possono aspirare a un riscatto. “L’azione malvagia resta tale: non viene edulcorata. Però non definisce più la persona: non è l’ultima parola sulla sua vita”, dice Fumagalli. “Nel raccontare questa nuova dimensione dell’anti-eroe, noi italiani dobbiamo stare attenti a non fare concessioni al melò: un ingrediente diffuso nelle nostre produzioni ma estraneo al prison drama che invece si caratterizza per essere prima di tutto una storia di fuga o di capacità di resistenza”. E proprio le derive melò sono state uno dei limiti di Mare fuori. “Più che a degli anti-eroi mi piace pensare ai protagonisti di Mare fuori come a dei bambini che sono entrati in un bosco e, lì dentro, si sono perduti. Proprio come nelle favole”, dice Farina. “La domanda che Mare Fuori vuole sollevare è: cosa possiamo e dobbiamo fare per aiutare questi ragazzi a trovare il loro lieto fine?”. Il discorso si fa però ancora più interessante se si esce dal regno teen per entrare in quello adulto: quali sono qui i margini di redenzione? A questa domanda proverà probabilmente a rispondere Sky: suo è il primo prison drama italiano, dal titolo Il re. Il protagonista è nientemeno che Luca Zingaretti che abbandona temporaneamente i panni del commissario Montalbano per vestire quelli di Bruno Testori: il direttore di un carcere di frontiera. Come ha anticipato lo stesso Zingaretti, il ruolo è impegnativo. E la materia sicuramente incandescente. L’adolescenza è infatti per definizione l’età del cambiamento, degli errori, degli eccessi. Dunque, un ottimo scudo contro i pregiudizi. Nel caso degli adulti è facile invece sposare posizioni più severe e assolutistiche. “Il tema è quanto mai attuale e decisivo, soprattutto negli Stati Uniti”, osserva Fumagalli, “lì il numero dei detenuti è ampiamente superiore al nostro e la cultura è molto meno garantista”. Le serie tv si apprestano dunque a diventare un nuovo punto di osservazione su questo universo finora trascurato, e chissà che la via italiana al prison drama non possa essere proprio all’insegna del recupero sociale. Donatella Finocchiaro: “Mio padre rifiutò il pizzo e vissi la ferocia dei boss” di Eleonora Lombardo La Repubblica, 4 dicembre 2020 È stata Angela, la moglie del boss, per Roberta Torre; Irma, il volto del dolore e della compostezza della vedova Matteralla nel film di Grimaldi, e poi Pinuccia, la più sensuale delle sorelle Macaluso per Emma Dante, mentre stasera, su RaiUno, presterà volto e passione civile a Caterina, la protagonista della docu-fiction “Io, una giudice popolare al maxiprocesso”. Donatella Finocchiaro è oggi sicuramente l’attrice che rappresenta al cinema la donna siciliana in tutte le sue sfumature: l’intensità, il temperamento, la sensualità, l’allegria, il profondo senso del decoro e della giustizia. Una laurea in giurisprudenza, il cinema per cercare la verità in se stessa e il desiderio di misurarsi in ruoli sempre nuovi che possano raccontare tutti gli aspetti della sua personalità. Il dolore per i teatri chiusi e due progetti importanti tra Goliarda Sapienza e Medea, la Finocchiaro è allerta su tutti i fronti. Nella docu-fiction lei interpreta un personaggio che consente di vivere la storia da una prospettiva inedita, quella privata. Cosa ha imparato da questo ruolo? “È proprio questa la bellezza della fiction, il punto di vista di una persona normale che all’improvviso viene investita da una responsabilità civile importante, che affronta con coraggio, e che coinvolge la sua sfera privata, la famiglia e i figli. Una storia che fa vedere che un cittadino può cambiare la storia. Vedere le immagini del maxiprocesso con i mafiosi in gabbia a mangiare chiodi, a sbraitare, è stato in qualche modo riconoscere che il vero teatro, l’esibizione andava in scena lì. Eppure, con il loro modo di essere questi personaggi hanno macchiato la nostra storia. Mai come dopo aver girato questo film, ho chiara la certezza che il maxiprocesso è stato solo l’inizio e che la mafia la dobbiamo combattere ogni giorno da cittadini, perché la mafia non è solo quella che spara in mezzo alla strada: la mafia è quella che uccide ogni giorno con la droga, o impossessandosi del potere politico. E in questo, da cittadini, possiamo fare molto”. Era giovane negli anni del maxiprocesso, ma cosa ricorda? “Ero nel pieno dell’adolescenza, non sentivo la mafia come una cosa che poteva invadere la mia vita. Avevo i racconti di mio padre, che è sempre stato attento, di alcuni zii che lavoravano a Palermo. Ma non scorderò mai il giorno in cui la mafia ha fatto irruzione nella mia vita: quando hanno assassinato il generale Dalla Chiesa, del quale un mio zio carabiniere era buon amico. Mio zio apprese la notizia a casa mia, vederlo piangere mi ha fatto capire che la mafia non era quell’astrazione di cui ci parlavano a scuola, ma qualcosa che poteva riguardare da vicino le persone a me care. Purtroppo, qualche anno dopo lo avrei capito sulla mia pelle, il giorno in cui fecero esplodere la fabbrica di mio padre perché non aveva pagato il pizzo”. Come è stato lavorare al cinema con Emma Dante? “Mi avevano detto di prove estenuanti, con una componente fisica impegnativa. Ero pronta con la tuta, ma abbiamo lavorato diversamente. Per tre settimane prima delle riprese abbiamo provato nei luoghi in cui poi avremmo girato. È stato un laboratorio teatrale perché abbiamo passato il tempo a spiarci, visto che ogni ruolo era interpretato da tre attrici diverse in tre momenti diversi della vita, dovevamo imparare ad assumere ognuna una caratteristica da ereditare o da tramandare all’altra. È stato straordinario” Oltre la Dante nella sua carriera c’è stata anche Roberta Torre: nel suo destino ci sono le registe e Palermo... “Esatto. Lavorare con Emma è stato come ritrovare la stessa magia avuta all’inizio della mia carriera con Roberta che mi ha aiutato a muovere i primi passi nel cinema; Emma 18 anni dopo mi ha fatto di nuovo sorprendere. Vorrei moltissimo lavorare in teatro con Emma Dante”. C’è ancora maschilismo nel mondo del cinema e del teatro? “Diciamo che è come la mafia, abbiamo fatto dei passi avanti, ma è una battaglia da combattere ogni giorno”. Quali sono i ruoli che vorrebbe interpretare e che non le hanno ancora offerto? “La cattiva in un thriller: vorrei che i registi avessero molta più fiducia negli attori e nella loro capacità di interpretare anche quei ruoli che non hanno mai vestito. Poi vorrei tornare a lavorare con Bellocchio e Crialese, e sogno Garrone, forse uno dei miei preferiti”. Quali sono i prossimi progetti? “Spero, se questa situazione dolorosa dei teatri dovesse finire, di potere portare in scena “Il filo di mezzogiorno” tratto dal romanzo di Goliarda Sapienza per la regia di Mario Martone. E poi un progetto mio che è un sogno, una Medea in siciliano da mettere in scena al teatro greco di Siracusa: ma come si fa ad andare a bussare al tempio del teatro?”. Carcere a vita o reintegro nella società? In Svizzera si riapre il dibattito di Gabriele Lavagno luinonotizie.it, 4 dicembre 2020 Il Consiglio federale interviene sull’efficacia delle pene detentive e sulle richieste di alcuni parlamentari di limitare la liberazione condizionale. “Non è un premio”. Era il 12 maggio 2016 quando la polizia svizzera comunicava di aver individuato all’interno di un locale pubblico di Aarau, nel Canton Argovia, il responsabile - di lì a poco reo confesso - del fatto criminale più efferato che la storia recente della Confederazione elvetica ricordi. Nonostante lo scalpore della vicenda, da quel giorno i motori di ricerca online hanno immagazzinato un numero esiguo di informazioni personali sull’uomo, all’epoca dei fatti trentatreenne: una diretta conseguenza delle regole ferree che disciplinano oltre confine l’approccio deontologico dei media ai casi di cronaca più sconvolgenti, secondo una prassi volta a prevenire la spettacolarizzazione delle indagini e dei processi. Se da una parte l’identità dell’uomo è stata tutelata, dall’altra nulla ha impedito di ricorrere al diritto di cronaca per raccontare genesi e dinamiche del cosiddetto “massacro di Rupperswil”, compiuto il 21 dicembre 2015 presso una privata abitazione dell’omonimo villaggio, situato a meno di dieci chilometri da Aarau (Svizzera settentrionale, al confine con Basilea e con la Germania), dove trovarono la morte per mezzo di una brutale esecuzione - giunta a seguito di indicibili aggressioni perpetrate al fine di soddisfare istinti sessuali e pedofili, e per estorcere denaro - una donna di quarantotto anni, i due figli di tredici e diciannove e l’amica ventunenne del primogenito. Una strage premeditata nei minimi dettagli, a cui ne sarebbero seguite certamente altre, sulla base di quanto ricostruito dagli inquirenti. Ed è a partire dal riferimento a quei drammatici fatti che nei giorni scorsi si è riaperto un dibattito, a livello istituzionale, sui margini esistenti per giungere ad una revisione della pena detentiva a vita, allo scopo di rimarcarne i confini rispetto alle altre pene indicate dal Codice per i reati più gravi, ed evitare il ricorso ad altri istituti previsti dalla legge. L’autore del quadruplice omicidio, in carcere dal 2016, è stato condannato alla pena detentiva a vita e all’internamento, misura quest’ultima che consente ai giudici di stabilire la permanenza dietro le sbarre anche una volta espiata la pena, qualora sussista la pericolosità del detenuto e dunque il rischio concreto di recidiva. L’internamento impone inoltre il divieto di poter richiedere la liberazione condizionale (della durata di cinque anni) dopo aver scontato una prima parte di condanna (solitamente dopo quindici anni). Liberazione condizionale che è invece prevista per reati comunque gravi, associati anche alla pena massima di vent’anni (la “pena privativa della libertà a vita” non corrisponde infatti necessariamente alla condanna a scontare il resto dei propri giorni in galera). Ed è qui che si concentra il dibattito, alimentato da due richieste di revisione delle pene detentive a vita depositate in sede parlamentare e direttamente connesse all’intervento del Consiglio federale, pronunciatosi al riguardo alcuni giorni fa. C’è il rischio che l’omicida di Rupperswil possa ottenere a breve la parziale libertà? Il rischio non esiste, ma tra circa vent’anni le sue condizioni potranno essere rivalutate, anche e soprattutto in funzione di una importante riforma del codice penale sancita nei primi anni duemila, che ha tra i suoi concetti cardine il rafforzamento della funzione rieducativa del carcere, in opposizione all’annientamento totale della persona, indipendentemente da quanto i suoi reati siano umanamente difficili da perdonare. Esiste la possibilità di valutare una rinuncia della liberazione condizionale in caso di pena detentiva a vita, e dunque per chi si macchia dei crimini più efferati? Il quesito ha goduto della più assoluta centralità all’interno della recente discussione, anche alla luce di alcuni tragici precedenti che risalgono agli anni novanta, e che hanno visto soggetti già condannati per reati quali stupri ed omicidi, violentare o uccidere nuovamente in occasione dei già citati congedi (forme di esecuzione della pena attraverso il progressivo reinserimento nella società). Il caso più eclatante, quello di una ragazza ventenne uccisa nel 1993 in un bosco nei pressi di Zurigo, ha condotto ad una iniziativa popolare del 2004, profondamente sconsigliata dal Governo, per promuovere l’internamento a vita per i criminali più pericolosi: misura che, a differenza dell’internamento “ordinario” sopra descritto, prevede che la situazione di un condannato non venga più riesaminata in presenza di specifici parametri quali il rifiuto dei percorsi di terapia e il rischio di ricaduta. Il tribunale federale, tuttavia, ricorre assai raramente all’internamento a vita (così come alla liberazione condizionale degli internati), tanto è vero che l’istanza è stata richiesta dalla pubblica accusa in Appello proprio per il pluriomicida di Rupperswil, ed è stata poi rigettata dai giudici: due perizie hanno dimostrato che l’uomo non si sottrae ai percorsi di riabilitazione. Un verdetto che rispecchia l’essenza e i principi del codice penale e della sua riforma, e che si lega in parte alla risposta fornita dal Consiglio federale sulla proposta di abrogare la liberazione condizionale per i casi più gravi. “Non è necessario intervenire in questo senso - si legge in una nota dell’organo con sede a Berna - il sistema sanzionatorio svizzero consente già di punire in modo adeguato i reati particolarmente gravi, tenendo sufficientemente conto della necessità di proteggere la popolazione”. Discorso chiuso? Non del tutto, data l’apertura del Consiglio federale ad una “posticipazione moderata” della liberazione condizionale, al fine di differenziarla da quella concessa per altre tipologie di condanna. L’eliminazione totale, invece, è da considerare inammissibile. “La liberazione condizionale non costituisce una ricompensa per la buona condotta nella esecuzione della pena - viene sottolineato nelle righe conclusive della nota - bensì mira a reinserire l’autore nella società e quindi a ridurre il pericolo di recidiva. Se la sua pericolosità ne impedisce il reinserimento sociale, è già oggi possibile internare l’autore del reato”. In carcere a Hong Kong quattro leader dell’opposizione alla Cina quotidiano.net, 4 dicembre 2020 La libertà di Hong Kong ormai è un guscio vuoto. Chi si oppone alla Cina finisce in carcere. Joshua Wong Chi-fung, 24 anni, Il volto più conosciuto della protesta del 2019 e nel 2014 del movimento degli ombrelli a favore del suffragio universale, è stato condannato a tredici mesi e mezzo di galera per aver organizzato un assedio di 15 ore al quartier generale della polizia a Wan Chai il 21 giugno dell’anno scorso. Subito dopo il verdetto ha gridato “continuate a resistere” rivolgendosi ai suoi fan assiepati nella galleria pubblica dell’aula nella quale si è celebrato il processo. “I giorni che verranno saranno duri, ma resteremo lì, non molleremo”, ha ribadito uscendo dal tribunale (nella foto durante l’ora d’aria). Assieme a lui sono stati giudicati colpevoli altri due esponenti del gruppo “Demosisto” sciolto alla fine di giugno in vista della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale delle nuove norme sulla sicurezza nazionale. Sono Agnes Chow Tim, 23 anni, che si è vista infliggere 10 mesi per lo stesso episodio del 21 giugno e Ivan Lam Long-ying, 23 anni, condannato a 7 mesi di cella per aver istigato a partecipare a una manifestazione non autorizzata. Al centro della protesta c’erano all’epoca una legge di estradizione in Cina presentata dal Governo di Hong Kong e l’uso eccessivo della forza che la la polizia ha messo in campo per contrastare la sollevazione del 2019. Il giorno dopo, il 3 dicembre, è stato arrestato in aula anche Jimmy Lai, 73 anni, fondatore e proprietario del tabloid di orientamento democratico “Apple Daily” e dell’azienda “Next Digital”. Assieme ad altri due dirigenti della società è accusato di frode. Ignorando le clausole del contratto fra il 2016 e il 2020 avrebbe subaffittato al suo tabloid una parte di un palazzo il cui proprietario è una società pubblica del governo di Hong Kong. “Apple Daily” avrebbe goduto di un vantaggio indebito. Il tribunale gli ha negato la libertà su cauzione. Il processo sarà celebrato in aprile. Su Chow, ha precisato Nathan Law Kwun-chung, un ex dirigente di “Demosisto” fuggito a Londra, pende la spada di Damocle di un’altra indagine scaturita dalla legge sulla sicurezza nazionale cinese. La stessa imputazione potrebbe abbattersi, a suo parere, anche su Wong e Lam. “A essere onesto - riassume Law - non ho idea di quando il trio potrebbe uscire dalla prigione”. In questo cupo scenario la governatrice filo cinese Carrie Lam si è lamentata in un’intervista televisiva di essere costretta a tenere “mucchi di contanti” in casa. È l’effetto delle sanzioni americane. La numero uno dell’esecutivo guadagna 670 mila dollari all’anno, ma non ha più un conto corrente. L’11 novembre, applicando una risoluzione del Comitato permanente del Congresso del popolo cinese, ha dichiarato decaduti quattro deputati del fronte che si batte per la democrazia. Gli estromessi sono Alvin Yeung Ngok-Kiu, Kwok Ka-Ki e Dennis Kwok, del Partito Civico e Kenneth Leung della Gilda dei professionisti. sono Il documento del Comitato prevede che i membri del Consiglio legislativo di Hong Kong debbono essere esautorati in caso di “sostegno all’indipendenza della città, di mancato riconoscimento della sovranità di Hong Kong, di richiesta alle forze straniere di interferire negli affari della metropoli o di minaccia in altri modi alla sicurezza nazionale”. A tamburo battente hanno annunciato le loro dimissioni gli altri quindici avversari della Cina in seno al parlamento della megalopoli. Nel consiglio legislativo sono rimasti solo i 51 sostenitori di Pechino che hanno addirittura suggerito a Carrie Lam di procedere nello stesso modo contro 400 consiglieri distrettuali “colpevoli” di battersi per la democrazia. L’ordine degli avvocati della metropoli ha rilevato che è stato ignorato l’articolo 79 della Basic Law, la Legge Fondamentale, una sorta di Costituzione della metropoli. La norma prevede infatti che l’espulsione di un parlamentare deve essere votata dai due terzi dei membri dell’assemblea e che il provvedimento non può essere retroattivo. L’ufficio della Cina per Macao e per Hong Kong si è scagliato contro le dimissioni di massa. Le ha definite “un atto di ostinata resistenza. Se i deputati puntano a usarle per un’opposizione radicale e per sollecitare un’influenza esterna, hanno fatto male i loro conti”. A Pechino in giugno si era riunita la tredicesima sessione dell’Assemblea Nazionale. Avevano votato a favore dell’estensione all’ex colonia britannica della legge cinese sulla sicurezza tutti i 162 componenti del Comitato Permanente Nella tarda serata del 30 giugno il testo è stato pubblicato dalla Gazzetta ufficiale. La nuova norma imposta dalla Cina punisce, la secessione, il terrorismo, la sovversione e la collusione con forze straniere. La sezione III dell’articolo 20 prevede pene da 3 anni fino all’ergastolo. Dal primo luglio del 1997, l’anno del passaggio alla Cina, la metropoli aveva mantenuto un regime di autonomia dei giudici e delle forze dell’ordine e una sua Costituzione, la Basic Law. Pechino ha calato il pugno ferro. L’articolo 48 prevede l’apertura sull’isola di un’agenzia di intelligence il cui personale non sarà sottoposto alla legge di Hong Kong. La guiderà Zheng Yanxiong, 56 anni, un falco. Nel suo curriculum c’è la dura repressione della rivolta di Wukan. Nel 2011 la cittadina del Guangdong, la provincia che confina con la metropoli ex britannica, si era ribellata per contestare la confisca delle terre e lo strapotere di funzionari corrotti. In agosto le elezioni dell’assemblea legislativa della metropoli, sono state rinviate di un anno. La governatrice, la filocinese Carrie Lam, ha comunicato di aver usato i poteri speciali previsti della legge coloniale perché per dieci giorni i contagi sono stati superiori a 100 casi (il primo agosto sono saliti a 121). Per Joshua Wong, il rinvio “è la più grande frode elettorale nella storia di Hong Kong”. Wong, che aveva ottenuto 30 mila voti nelle primarie, è stato escluso dalla competizione assieme altri11 esponenti dell’opposizione alla maggioranza filocinese del Legislative Council. Il dieci agosto la polizia ha arrestato Jimmy Lai per aver violato la famigerata legge cinese sulla sicurezza nazionale. Lai è stato prelevato nella sua casa e portato negli uffici della sua società con le manette che gli tenevano le braccia dietro la schiena. I 200 agenti mobilitati sono usciti dagli uffici con 25 scatoloni di materiali sottoposti a sequestro. Pechino ha manifestato apprezzamento per il provvedimento che ha colpito un “agitatore anti Cina”. In febbraio Jimmy Lai era finito già in cella per aver partecipato alle manifestazioni di protesta dell’anno scorso. L’imputazione era di “collusione con le forze straniere”. In seguito era stato rilasciato su cauzione. Nella stessa giornata sono stati fermati “per aver caldeggiato sanzioni straniere” anche i suoi due figli, l’attivista Wilson Li, collaboratore del network inglese Itv, e Agnes Chow. All’interno del Partito comunista cinese continuano a convivere due filoni in lotta fra loro. Il primo squarcio sulla contrapposizione fu aperto dai file di “Wikileaks”. Si scoprì che l’ala dominante, i cosiddetti “principini”, aveva affibbiato agli avversari interni l’etichetta di “Tuanpai”, ossia “bottegai”. Il capofila di questo schieramento, scaturito da una costola della gioventù comunista, è l’attuale primo ministro Li Keqiang. Citando il quotidiano “South China Morning Post” di Hong Kong, “Caixin” e “Global Times”, Il sito “China Files” ricorda che il mese scorso il premier, durante una visita nella provincia nordorientale dello Shandong, ha indicato come esempio la città di Chengdu, perché ha creato 100 mila posti di lavoro autorizzando 36 mila bancarelle. Questo reticolo di economia minuta è il Ditan jingji. La vendita in strada è stata la prima esperienza di molti imprenditori di primo piano. Il più noto è il fondatore della fabbrica di computer Lenovo. Pochi giorni prima di una visita a Wuhan, epicentro della pandemia del Covid-19, il premier cinese aveva denunciato che 600 milioni di suoi concittadini sbarcano il lunario con meno di 140 dollari al mese. Era una dichiarazione perfettamente in linea con il retroterra sociale dei “bottegai” che vogliono dar voce ai gruppi sociali più deboli, i migranti interni, i contadini, la popolazione urbana povera, gli abitanti delle zone meno sviluppate del Paese. Nel 2017 la città di Pechino si è incamminata nella direzione opposta e ha messo al bando le bancarelle. Xi Jinping vuole proiettare all’esterno l’immagine di metropoli che siano un modello di pulizia, di sicurezza e di ordine, (requisiti necessari per ottenere i vantaggi garantiti dallo status di “città civile”). La reazione dei vertici del partito agli strappi del primo ministro Li Keqiang è arrivata a tamburo battente. Le autorità di Pechino, di Shenzhen e di Guangzhou hanno tuonato contro le bancarelle, spiegando che “eserciteranno una pressione visibile sulla gestione urbana, sull’ambiente, sull’igiene e sul traffico”. Il giornale “Bejing Daily” ha garantito che la “capitale utilizzerà misure e metodi propri” per rilanciare l’occupazione. Da “Weibo”, il sito di microblogging cinese più cliccato, è sparito subito l’hashtag “Ditan Jingji”, bandiera dei “bottegai in rete”. Il presidente Xi Jinping non tollera devianze politiche. L’ultima vittima del suo pugno di ferro sembra essere Jack Ma, il finanziere che si era gloriato di essere amico del presidente dal 2002. All’epoca Xi Jinping era il segretario del partito nella provincia dello Zhejiang. Nel capoluogo Hangzhou si trovava il quartier generale di “Alibaba”, il colosso del commercio in rete. Il partito ha bloccato lo sbarco in borsa di “Ant”, il braccio finanziario di “Alibaba”. Secondo gli analisti l’operazione vale 37 miliardi di dollari. Fonti pechinesi hanno soffiato al “Wall Street Journal”, che Jack Ma, al secolo Ma Yun, subisce lo stop perché ha criticato il sistema finanziario del suo Paese. Il 24 ottobre ha accusato il partito di obbligare gli istituti di credito a funzionare “come banchi dei pegni”. Non contento, aveva concluso: “La buona innovazione non ha paura delle regole, ha caso mai paura delle regole antiquate, non dovremmo usare metodi da stazione ferroviaria per far funzionare un aeroporto”. “Ant”, nata come un sistema di pagamento telefonico, è ora un colosso da 300 miliardi di dollari. Ma Jack è finito nel mirino del grande capo.