Non serve costruire nuove carceri di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 3 dicembre 2020 Chiunque abbia a cuore la legalità costituzionale dovrebbe chiedere a gran voce che le carceri non si riempiano oltre la capienza regolamentare, a prescindere dall’emergenza sanitaria in corso. Ovviamente i rischi di diffusione del Covid, con il tasso di imprevedibilità che tale malattia porta con sé, rendono ancora più stringente l’esigenza di ridurre i numeri globali. Nessuno può negare che la parola pena sia sinonimo di sofferenza, ma da almeno la fine del diciottesimo secolo si afferma che il fine delle pene non debba essere tormento o afflizione. È inaccettabile assegnare alla pena uno scopo che non si quello descritto nella Costituzione che, ci piaccia o meno, non parla di punizione, vendetta, neutralizzazione sociale. Chiunque, compreso Marco Travaglio, abbia un’idea di pena che sia mero contenimento o pura afflizione è distonico rispetto alla legalità costituzionale che non lascia spazio a oramai superate dottrine retributivistiche, che avevano nel Guardasigilli degli anni 30 Alfredo Rocco uno dei più qualificati sostenitori. Da allora è passato quasi un secolo e non riusciamo a liberarci dalle sue idee e dal suo Codice, stracolmo di eccessi punitivi. Dunque, se la pena non deve essere tormento o afflizione, è inaccettabile che i detenuti siano stipati in istituti dove manchi lo spazio vitale. Al momento in Italia vi sono 53.489 detenuti. La capienza regolamentare è pari a 50.570 posti. Così come si legge nelle statistiche ufficiali pubblicate dal ministero della Giustizia “il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato”. Situazioni transitorie che sono riassumibili in circa ulteriori 3-4 mila posti inutilizzabili. Complessivamente vi sono circa 7 mila persone in più rispetto alla capienza regolamentare. Già questo dovrebbe far trasecolare un qualunque amante della legalità. Non è ammissibile che il carcere, luogo di esecuzione delle pene legali, si trasformi in spazio illegale. I circa 900 detenuti attualmente positivi (a cui vanno aggiunti tutti coloro che sono venuti a contatto con questi ultimi) impongono ubicazioni individuali (che determinano ulteriori ammassamenti per i detenuti negativi al virus) allo scopo di evitare che il virus giri indiscriminatamente colpendo tutti, compresi i reclusi malati oncologici, cardiopatici, diabetici, nonché gli ultrasettantenni. C’è un triplo motivo per chiedere che si riduca la popolazione detenuta: assicurare legalità alla pena (il sovraffollamento degrada le persone a numeri, li rende invisibili, nega la fruizione di diritti fondamentali); evitare che si mandino in galera persone che hanno commesso delitti privi di offensività criminale; e infine, garantire il diritto alla salute anche di chi è in stato di detenzione. In carcere va assicurato un adeguato distanziamento fisico, anche nell’interesse dello staff (sono circa mille gli operatori contagiati). È un compito questo che vorremmo fosse a cuore del ministero della salute, competente per legge su ciò che riguarda la medicina nelle carceri. Costituzione e pragmatismo richiederebbero il coraggio di misure deflattive nonché la trasformazione della pandemia in occasione per un nuovo ordinamento sistema penitenziario ispirato alla modernità. Il peggior modo di usare i milioni del Recovery Fund è quello di investire nella costruzione di nuove carceri. Non abbiamo bisogno di nuove carceri ma di un nuovo sistema penitenziario che punti sulle misure di comunità, sulla modernizzazione e umanizzazione della vita detentiva, sulla gratificazione sociale ed economica del personale tutto. Rita Bernardini: “Caro Travaglio, ma come hai fatto i conti sul Covid in carcere?” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 dicembre 2020 Rita Bernardini è da 23 giorni in sciopero della fame e contesta le affermazioni al direttore del “Fatto Quotidiano” Marco Travaglio. “Ma come li ha fatti i conti Marco Travaglio?”, si chiede Rita Bernardini del Partito Radicale a 23 giorni dallo sciopero della fame per sollecitare il governo ad attivarsi per varare misure deflattive più efficaci capaci di fronteggiare l’emergenza Covid in carcere. Il riferimento è a ciò che ha scritto il direttore de Il Fatto Quotidiano in risposta alla lettera di Roberto Saviano che ha aderito, assieme a Luigi Manconi, Sandro Veronesi, molti giuristi, circa mille detenuti e tantissimi cittadini che ogni giorno si aggiungono per sostenere l’iniziativa radicale. Secondo Travaglio i dati dicono che in carcere si è più al sicuro rispetto a chi vive fuori. Per questo motivo Il Dubbio ha raggiunto Rita Bernardini, preoccupato che stia compiendo un duro sacrificio del tutto inutile visto che l’emergenza Covid in carcere sarebbe inesistente. Proprio durante l’intervista, a Il Dubbio giunge da parte dell’avvocato Paolo Di Fresco la notizia della morte per Covid del detenuto al 41bis del carcere di Opera, il 78enne Salvatore Genovese. È il sesto detenuto della seconda ondata morto per il Covid. Una morte annunciata visto che proprio 10 giorni prima che si ammalasse, il giudice del tribunale di sorveglianza aveva respinto l’istanza per la detenzione domiciliare. Aveva tantissime gravi patologie, ma secondo la magistratura sarebbe stato al riparo dal virus rimanendo al carcere duro. Purtroppo non è andata così. Onorevole Bernardini, il direttore de Il Fatto è stato chiarissimo nello sviscerare i dati. Sostiene che su 53.720 detenuti risultano 949 positivi, quindi l’1,76% della popolazione detenuta; mentre fuori ci sono 1,6 milioni di positivi ufficiali, ovvero il 2,66% della popolazione libera. Allora è vero che chi vive in carcere rischia di ammalarsi meno… Travaglio ha fatto un calcolo totalmente sballato. Da una parte ricava la percentuale con i dati dei positivi della seconda ondata in carcere, dall’altra però - per quanto riguarda la popolazione italiana - ricava la percentuale dal totale dei positivi dall’inizio pandemia. Chiaro che in quella maniera risulta più basso il tasso dei positivi che stanno in carcere. Avrebbe dovuto semplicemente considerare gli attualmente positivi che in Italia oggi sono 788.471. Allora ecco che viene fuori il vero confronto: per i detenuti il tasso del contagio è dell’1,76 %, mentre per coloro che vivono fuori le mura è dell’1,31%, non del 2,66% come sproloquia Travaglio. Ma attenzione, io sto prendendo in considerazione solamente i detenuti positivi, perché se consideriamo i positivi fra tutti coloro che frequentano quotidianamente il carcere, e quindi anche il personale, la percentuale schizza a oltre il 3,76%. Va bene, qui Travaglio è possibile abbia commesso un errore. Però ha ragione nel dire che i detenuti sono più monitorati e che soprattutto - a differenza della stragrande maggioranza degli italiani - a quasi tutti vengono effettuati i tamponi... Mi dispiace, ma anche su questo, Travaglio toppa. Guardi, ho qui i dati di alcuni giorni fa e risultano effettuati un totale di 16mila tamponi. Il che non significa che siano stati fatti i tamponi a 16mila detenuti, perché sappiamo che per ogni recluso risultato positivo, così come per tutti gli altri contagiati, viene sottoposto ad almeno altri due tamponi fino a che non si negativizza. Quindi il numero effettivo dei detenuti sottoposti a tampone va come minimo dimezzato. Altro che “copertura statistica quasi totale” come dice Travaglio. Però una cosa indiscutibile l’ha detta, sempre rispondendo a Saviano. Ha osservato che rispetto al passato il sovraffollamento è sceso... In realtà Travaglio ha smentito sé stesso. Fino a qualche tempo fa negava il sovraffollamento e addirittura pubblicò un editoriale sostenendo l’esistenza di ulteriori posti disponibili. Ora però, per replicare a Saviano, ha ammesso che “non c’è dubbio” sul fatto che “le strutture siano affollate e in parte fatiscenti”. Un piccolo passo in avanti per la comprensione di un sistema carcerario a lui totalmente sconosciuto. Dopodiché, quando parla di una significativa diminuzione dei detenuti, non comprende che c’è una differenza tra la prima ondata e la seconda. Durante la prima, un impatto decisivo alla riduzione del sovraffollamento non va attribuito al decreto “Cura Italia”, ma all’azione della magistratura di sorveglianza. Compresi i procuratori che coscienziosamente hanno evitato, quando possibile, di mettere preventivamente le persone in carcere. Questo anche grazie alle indicazioni del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Ora, dopo le indignazioni sulle “scarcerazioni” e l’azione politica del ministro Bonafede per assecondarle (le indignazioni), mi sembra che siano molto limitati i provvedimenti di detenzione domiciliare. Infine Travaglio non considera il numero delle celle non agibili che non vengono sottratte ai dati ufficiali della capienza regolamentare, non si accorge che le misure governative deflattive attuali non bastano e soprattutto non è a conoscenza che mancano gli spazi per la gestione sanitaria dell’emergenza. Pensiamo alla vicenda grave del carcere di Tolmezzo dove gli avvocati hanno presentato anche degli esposti in procura. D’accordo, ma Travaglio ha comunque detto che, finita l’emergenza Covid, il sovraffollamento comincerà a crescere a causa dell’alto “numero dei delinquenti”. Critica Saviano che parla di misure alternative al carcere, perché a detta sua ne usufruiscono già 40mila detenuti e quindi l’unica soluzione è la costruzione di nuove carceri. Non mi dica che anche qui ha sbagliato nell’elencare i dati… Ebbene ha toppato anche qui. Non conosce la differenza tra chi ha usufruito della misura alternativa e chi ad esempio ha beneficiato della messa alla prova: quest’ultimo caso riguarda persone che non sarebbero comunque mai entrate in carcere. Basta andare sul sito del ministero della Giustizia e consultare gli ultimi dati disponibili relativi al 15 ottobre. Sono 28.073 detenuti che hanno usufruito delle misure alternative alla detenzione. Travaglio gli ha aggiunto le 8.575 persone che hanno usufruito dei lavori di pubblica utilità per violazione del codice della strada e 16 mila che sono in messa alla prova. Tutte persone che non hanno a che fare con il discorso carcerario. Quindi, anche in questo caso, ha dimostrato di non capirci nulla. Non voglio mettere il dito nella piaga, ma a quanto pare non tornano nemmeno i numeri dei detenuti morti per Covid... Ebbene sì. Sempre come risposta alla lettera di Saviano, il direttore de Il Fatto parla di 5 detenuti morti per Covid in questi nove mesi. Non so da chi si sia informato, ma nella prima ondata ci sono stati 4 reclusi morti, mentre nella seconda siamo arrivati a 6 morti. L’ultima vittima è proprio quella di ieri, uno dei reclusi al 41bis di Opera che, prima di prendersi il Covid, era già gravemente malato. Me lo ricordo bene Travaglio, quando stigmatizzò il giudice che aveva dato la detenzione domiciliare a Bonura, perché secondo lui al 41bis si è al riparo dal virus. Travaglio conclude dicendo che la pena deve anche rieducare, ma dev’essere, appunto, una pena. Non una finzione o una barzelletta... Ed è proprio quando sottolinea “anche” rieducare denota la sua poca conoscenza dell’articolo 27 della Costituzione che prevede proprio la finalità rieducativa delle pene. Quel plurale gli sfugge perché lui ha in testa solo il carcere, mentre i nostri padri costituenti (che il carcere lo conoscevano a differenza di Travaglio) saggiamente prevedevano con lungimiranza già che il carcere non dovesse costituite l’unico tipo di pena. Infine, il direttore de Il Fatto non prende neanche in considerazione che attualmente, a causa del Covid, sono sospese anche le più elementari - e già scarse in precedenza - attività trattamentali. “Riformare o abolire, il carcere non può rimanere così com’è” di Medea Calzana redattoresociale.it, 3 dicembre 2020 L’invito a un ripensamento dell’istituzione carceraria arriva da Antigone Emilia-Romagna, che sottolinea un dato: “Ci sono istituti in cui il 90 per cento delle persone detenute è in terapia psichiatrica. Carceri anche focolai Covid”. Suicidi, violenze, recidiva. È questo il profilo del carcere emerso in occasione del webinar “Carcere riforma o abolizione?” organizzato dall’associazione Antigone Emilia-Romagna insieme con Extrema Ratio. Per provare a rispondere alla domanda, due tesi contrapposte e un dubbio: giusto lavorare per la totale soppressione dell’istituzione carceraria o per il suo cambiamento? Alla base, alcune certezze comuni: l’afflizione come conseguenza della soppressione della libertà, la sofferenza dei detenuti e il mancato raggiungimento degli obiettivi previsti dall’art.27 della Costituzione per cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Secondo il rapporto dell’Osservatorio Antigone, nel 2019 sono stati 53 in totale i suicidi negli istituti penitenziari italiani, con un tasso di 8,7 casi su 10 mila detenuti a fronte dei 0,65 suicidi su 10 mila abitanti nell’intero territorio nazionale. Antigone, durante il webinar, ha posto l’accento anche sull’incidenza delle malattie psichiatriche, “spesso cause ed effetto della detenzione. Nei 98 istituti che abbiamo visitato, in media il 27,6 per cento dei detenuti è in terapia psichiatrica. Con alcuni record - denuncia: nell’istituto penitenziario di Spoleto è risultato in terapia il 97 per cento delle persone recluse, a Lucca il 90 per cento, a Vercelli l’86 per cento”. Come noto, complice l’emergenza sanitaria, è tornato alla ribalta il tema del sovraffollamento, legato a doppio filo con la necessità di garantire le misure anti contagio previste. Come ha spiegato Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti, “le persone detenute positive sono 882, distribuite in 86 istituti. L’incidenza del contagio è alta anche tra gli operatori penitenziari, il cui numero di positivi è attorno al migliaio”. “Se un sistema deve essere valutato in base ai risultati e rispetto agli obiettivi, si può dire che il sistema penitenziario italiano stia clamorosamente fallendo il suo compito - afferma Francesco d’Errico presidente di Extrema Ratio - tanto nell’ottica della risocializzazione, quanto dell’umanità della pena. Da questo fallimento scaturisce un dubbio legittimo e la necessità di tentare nuove strade: la prima è quella che chiede un processo di riforma, teso a un’umanizzazione del sistema, che cerchi di bilanciare i diritti in gioco. La seconda è più radicale e opta per l’abolizione del carcere in sé”. Ed è proprio questa seconda strada quella indicata da Livio Ferrari, giornalista e portavoce del movimento “No prison”: “L’abolizione non è un’utopia, ma una necessità. Non è solo una questione umana e sociale, ma anche economica. Il costo del sistema carcerario italiano, infatti, è di 3 miliardi di euro, 134 euro al giorno è il costo di ogni persona detenuta. Il carcere è un luogo dove la legge non esiste più, esistono solo violenza e cattiveria. Tra quelle mura, lo Stato è stato sconfitto e regna la legge del taglione. Perché, allora, non si riesce ad abolirlo? Perché ci sono troppi interessi economici in gioco”. Propenso a una riorganizzazione dell’istituzione carceraria, invece, è Marco Ruotolo, professore ordinario di diritto costituzionale all’università di Roma Tre: “Abolire il carcere non è realistico: l’opinione pubblica vede la carcerazione come imprescindibile e la politica cerca di accontentarla. Senza dimenticare che, in alcuni casi, l’isolamento sociale per la pericolosità della persona condannata è necessario. Ritengo, piuttosto, che sia importante depenalizzare e intendere la carcerazione come extrema ratio, favorendo misure esterne. Queste, è dimostrato, riducono la possibilità di recidiva. Il messaggio che deve passare è: meno carcere significa più sicurezza”. “Svuota-carceri un flop, in cella solo per i reati più gravi”, la proposta di Catello Maresca di Viviana Lanza Il Riformista, 3 dicembre 2020 Il Covid avanza e le carceri restano sovraffollate. I provvedimenti finora varati dal Governo si sono rivelati inefficaci e la funzione rieducativa della reclusione continua a essere sacrificata sull’altare dell’emergenza sanitaria. Eppure una diversa modalità di espiazione della pena è possibile. Ne è convinto anche Catello Maresca, attuale sostituto alla Procura generale di Napoli dopo una lunga esperienza da pm nella Direzione distrettuale antimafia, docente di Diritto e procedura della legislazione antimafia all’università della Campania Luigi Vanvitelli e corteggiato dalla politica come possibile candidato sindaco della città. Su questi ultimi rumors Maresca preferisce glissare: “Li vivo da magistrato che fa il suo lavoro tutti i giorni e prova a dare un contributo su temi che sono prossimi alla sua professione e al suo impegno in questo momento. Se un domani il mio impegno sarà in altri luoghi, risponderò ad altro tipo di istanze; per ora mi fa piacere rispondere a queste”. Parliamo di carcere, allora... “Il Recovery Fund potrebbe essere un’occasione formidabile per destinare al comparto della reclusione risorse che possano tradursi in un carcere più umano, dove l’unica privazione ammessa è quella della libertà e non, come accade ancora in alcune strutture carcerarie, anche quella della dignità: ci sono condizioni che riguardano le detenute, per esempio, che sono davvero al limite del trattamento disumana e degradante. Dignità nell’esecuzione della pena, quindi, ed efficacia nell’individuazione di percorsi di riabilitazione dei detenuti sono le linee programmatiche che uno Stato serio deve essere capace di declinare e realizzare in concreto”. A leggere le statistiche, la realtà è ben diversa: in Campania ci sono 6.648 detenuti, un terzo dei quali recluso per reati per cui sarebbero possibili le cosiddette misure alternative, e circa la metà è in attesa di giudizio... “È il momento di fare una riflessione seria e profonda sull’attualità della funzione della pena e sulla modalità di espiazione a partire dal carcere. Oggi il paradigma ancora applicato è quello vecchio del carcere inteso come prima istanza, tant’è che le altre misure vengono definite “alternative” come a dire che c’è il carcere e poi ci sono le altre. Credo che invece bisognerebbe partire proprio da questo valore: non esiste una misura primaria o, meglio, può esistere solo per categorie di reati di particolare allarme sociale. Penso ai reati di criminalità organizzata, ai delitti contro la persona, ai reati previsti dal Codice rosso che sono reati che vanno trattati con la massima attenzione possibile e rispetto ai quali il carcere è naturalmente il primo livello di garanzia che deve essere assicurato, mentre per tutti gli altri reati bisognerebbe cercare di contemperare misure diverse. Prima che dal Legislatore, però, la riflessione profonda deve partire dalla dottrina che è più avanguardista e capace di elaborare nuove modalità di espiazione della pena che riescano a soddisfare adeguatamente l’esigenza di prevenzione generale e speciale e l’esigenza di rieducazione. Perché spesso il carcere, in determinate condizioni, diventa addirittura criminogeno, un luogo dove si cementano alleanze tra clan e dove rancore e malanimo nei confronti dello Stato si sviluppano e si traducono in un’ulteriore propensione a delinquere”. Pensa a un nuovo modello di pena? “Sì, occorre costruire un nuovo modello nel nostro ordinamento che tenga conto anche di un’esigenza di punizione che passi attraverso il risarcimento del danno, il ristoro economico. Ho una mia idea per i reati contro la pubblica amministrazione: la vera punizione dovrebbe essere il pagamento dell’equivalente sottratto e la possibilità di non esercitare più le funzioni rispetto alle quali il reato è avvenuto”. Intanto l’emergenza Covid sta sollevando nuove criticità... “Ci troviamo in una situazione di assoluta emergenza, e come tutte le emergenze va trattata con provvedimenti eccezionali. Da marzo ad oggi mi sarei aspettato grossi interventi in termini trattamentali; i provvedimenti adottati finora sono svuota-carceri solo sulla carta, i numeri sono implacabili e danno la percezione immediata del fallimento dei provvedimenti normativi. Non si può pensare che, in una regione con un alto numero di detenuti come la Campania, la deflazione della platea carceraria sia rappresentata da meno di dieci soggetti scarcerati. È chiaro che la norma ha fallito e bisogna pensare a nuove soluzioni”. Si parla di 20mila scarcerazioni per decongestionare le carceri italiane... “È un numero possibile, ma il vero problema è che ad oggi mancano i dati iniziali essenziali sulla popolazione carceraria. L’ho detto anche alla Commissione Giustizia del Senato che mi ha chiamato a esprimere un parere tecnico sull’ultimo provvedimento svuota-carceri. Senza quei dati è impossibile avere un minimo di prognosi di efficacia”. Intellettuali liberali muti sui detenuti di Iuri Maria Prado Il Riformista, 3 dicembre 2020 A sinistra, a battagliare per i carcerati, ci sono Saviano e Manconi. Sono pochi, ma sempre di più dei maître à penser di destra, che pure dovrebbero essere sensibili al garantismo anche per i deboli. Non dovrebbe far notizia che tre intellettuali si espongano nella difesa dei diritti elementari dei detenuti, reclamando che la pena detentiva non si trasformi in una condanna a morte per abbandono all’infezione. Dovrebbe far notizia, piuttosto, che siano solo quei tre a spendersi in quel modo, che per un intellettuale è poi l’unico modo, e cioè facendosi sentire. E se pure uno detestasse di tutto cuore (eccomi, presente) il milieu culturale cui appartengono almeno due di quei tre (Manconi e Saviano, perché Veronesi fa storia a parte), ebbene dovrebbe domandarsi per quale motivo analoghe iniziative di mobilitazione siano tanto per intendersi, “a destra”. È la riprova, semmai servisse, che quest’altro ambiente non solo non è complessivamente meglio dell’altro, ma non si qualifica nemmeno per un orlo di eccentricità capace rappresentare un trio di “liberali” che dicono il minimo: e cioè che i diritti personali non si tutelano solo facendo convegni e scrivendo articolesse anglosassoni, ma denunciandone la violazione presso i poveri e i deboli. È abbastanza difficile, davanti a simili scollamenti, non dar ragione a chi, pur pretestuosamente, definisce “farlocco” certo garantismo. E la sensazione che i liberali, in Italia, siano sempre quelli di cui parlava Alvaro (“il loro non è un partito ma l’atteggiamento di chi non ha ragioni di sofferenza”) ebbene si rinnova a ogni giro importante della vicenda italiana in argomento di giustizia. È inutile precisare che non ci si aspetta proprio nulla dal coagulo reazionario dell’opposizione dominante, la destra delle ruspe e delle zingaracce in alleanza competitiva con quella dio-patria-famiglia che nega il riso in bianco al detenuto perché è un lusso eccessivo, ma appunto: non c’è proprio nessun altro? Bene o male qualche Tv, qualche giornale, insomma qualche occasione per farsi sentire potrebbero trovarla. Ma evidentemente non ne vale la pena. Evidentemente l’impegno liberale è una specie di formula vuota, una cosa allo stesso rango della giacca ben tagliata e rise non accede nemmeno al livello di una passioncella: un modo di dire. E ragioniamo sul fatto che le condizioni della giustizia in Italia siano ancora queste dopo un trentennio di legittimazione al governo delle destre. Ragioniamo sul fatto che alla specie di garantismo sociale di sinistra la controparte non abbia saputo giustapporre praticamente nulla: e oggi nemmeno un gruppetto capace di denunciare che, se un detenuto muore, non è il Covid a ucciderlo ma lo Stato. Carcere e sessualità: “anche noi siamo uomini e donne”! di Riccardo Radi filodiritto.com, 3 dicembre 2020 La valente avvocata Maria Brucale, appassionata e appassionante per il suo impegno per il rispetto dei diritti dei detenuti ha scritto recentemente un articolo sul “Riformista”, in merito al diritto alla sessualità in carcere. La collega prende lo spunto da una recente ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Roma che ha accolto il reclamo di un detenuto al 41bis. Il detenuto si era visto negare il permesso all’acquisto di riviste pornografiche. Il tribunale nell’accogliere il reclamo ha affermato che “La sessualità è un diritto soggettivo assoluto, relativo alla tutela della dignità del ristretto che non è mai comprimibile, della sessualità e del rispetto della propria vita privata e familiare di cui all’articolo 8 Cedu”. È, ancora, “uno degli essenziali modi di espressione della persona umana”. Va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione e inquadrato “tra i diritti inviolabili della persona che l’articolo 2 Costituzione impone di garantire”. Come argutamente evidenziato dalla Brucale, da tali premesse: “… si coglie un aspetto davvero struggente e in patente distonia con il dettato costituzionale e con i diritti fondamentali. Si legge nell’ordinanza che la tutela di quel diritto fa sì che debba essere concesso al reclamante di acquistare le riviste a luci rosse perché possa vivere la sessualità sia pur astratta; la possibilità di visionare fotografie erotiche consentirebbe, secondo il tribunale, di migliorare la vita privata del “detenuto sottoposto al regime differenziato per il quale l’orizzonte espressivo della sfera sessuale si riduce ad una dimensione effimera e sublimata”. È sconcertante l’affermazione che esista un diritto assoluto e costituzionalmente garantito e, al contempo, che ci sia una tipologia di detenuti che non possono fruirne. La Costituzione non ammette che ci sia una carcerazione che estromette un ristretto dai diritti fondamentali”. La distonia rilevata dalla Brucale non esiste, purtroppo nelle carceri italiane dove il diritto alla sessualità è negato a tutti i detenuti, a prescindere dal regime detentivo. La Corte Costituzionale già nel 1987, poi nel 2012, ha parlato di “una esigenza reale e fortemente avvertita” che “merita ogni attenzione da parte del legislatore”. In Italia gli esponenti politici sono abituati a tanti dibattiti, convegni e parole che tali rimangono e non si tramutano mai in norme. Tutti i tentativi per far riconoscere il diritto alla sessualità in carcere sono rimasti lettera morta. In Europa quale è la situazione? A questo interrogativo, proviamo a rispondere con un veloce esame delle realtà carcerarie di alcuni paesi europei. Scopriamo che, fuori dall’Italia, i momenti di vera affettività per le persone ristrette in carcere, sono considerati giusti. Sono 13 le nazioni che prevedono e riconoscono il diritto alla sessualità in carcere: Albania, Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera. In Italia è un argomento tabù, che si presta alle facili ironie dei paladini del carcere duro e senza speranza. In senato è stata presentata una proposta di legge che proviene dalla regione Toscana. La Commissione Affari istituzionali del Consiglio regionale, presieduta da Giacomo Bugliani (Pd), ha licenziato con parere favorevole a maggioranza una proposta di legge al Parlamento, primo firmatario Leonardo Marras, capogruppo Pd. I consiglieri di Forza Italia e Lega Nord hanno espresso parere contrario. La proposta interviene sulle norme che regolano l’ordinamento penitenziario (legge 354/1975 e successive modificazioni) vede tra i promotori Franco Corleone, Alessandro Margara, Monica Cirinnà, Oliviero Diliberto e Franco Anastasia. Sono convinto che la proposta tale rimarrà e con questo quadro politico non verrà mai posta in discussione. In ogni caso è un piacere leggere il primo articolo del testo presentato, per modificare la legge Gozzini: sotto il titolo “Rapporti con la famiglia”. Tra gli scopi del carcere, teso alla rieducazione del condannato, quello nuovo prevede: “Particolare cura è altresì dedicata a coltivare i rapporti affettivi. A tale fine i detenuti e gli internati hanno diritto a una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore, delle persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in apposite unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi e auditivi”. In queste poche righe c’è l’annuncio delle “stanze dell’amore” e dell’ingresso anche, ma non necessariamente, di una sessualità sana in carcere. Franco Corleone, quando era sottosegretario alla giustizia, visitò le carceri di alcuni paesi europei e scrisse: “In Svizzera trovai un’unità immobiliare separata dal resto del carcere. In Olanda c’erano stanze in buone condizioni, ma non edifici distinti dal resto della prigione. In Spagna, sia a Barcellona che a Madrid, erano ugualmente previste”. La sua proposta di cambiare solo l’ordinamento penitenziario fallì, il Consiglio di Stato, espresse un parere contrario scrivendo che era assolutamente necessaria una legge e non bastava soltanto mettere mano all’ordinamento penitenziario. Non ha avuto fortuna neppure l’ex Guardasigilli Andrea Orlando quando a Milano nel 2018 ha organizzato gli Stati generali sul carcere. L’innovazione rivoluzionaria delle stanze dell’amore era prevista, ma alla fine venne stralciata per le perplessità di esponenti della stessa maggioranza. La politica codarda dei like e del facile consenso preferisce sempre la tattica del rinvio e del poi si vedrà. Alessandro Margara in audizione, davanti alla commissione Giustizia della Camera, disse: “Vogliamo tenere assieme cose che possono apparire impossibili, ma non devono esserlo, cioè un carcere vivibile, in cui la pena non abbia nulla di afflittivo oltre la perdita della libertà”. Era l’11 marzo del 1999 sono trascorsi “solamente” 11 anni in questo paese immobile e pieno di vanagloriosa retorica che si compiace di essere stato la culla del diritto e dimentica che: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. “Riforma penale da cambiare” di Errico Novi Il Dubbio, 3 dicembre 2020 Parla Franco Vazio, deputato Pd e relatore della legge sul processo: “non si danneggi il diritto di difesa”. “Ci sono due grandi questioni da chiarire e da approfondire. Da una parte il rischio di indebolire il rito accusatorio che l’Italia, abbandonando l’era del giudice “inquisitore”, scelse 30 anni fa con la riforma Vassalli. Fu una grande conquista e noi, oggi, non possiamo tornare indietro. Dall’altra, dobbiamo interrogarci sull’efficacia delle modifiche nel ridurre la durata dei giudizi, che deve essere ragionevole: se non ne fossimo convinti, non si può escludere a priori un ragionamento a 360 gradi su strumenti e norme adeguati che la possano garantire”. A parlare non è un opinionista qualsiasi ma il relatore della riforma penale nella commissione Giustizia di Montecitorio: Franco Vazio. Che è deputato del Pd, cioè di quel pilastro dell’attuale maggioranza non certo ispiratore del blocca-prescrizione. A breve si passerà alla fase degli emendamenti. E da Vazio vengono inviti alla riflessione, non certo ultimatum politici. Ma nell’analisi proposta dal parlamentare, che della commissione Giustizia è anche vicepresidente, ricompare per la prima volta dopo mesi un tema che sembrava ormai cristallizzato e impronunciabile manco fosse un tabù: la prescrizione, appunto. Gli auditi, professori e avvocati, hanno evidenziato che alcune norme della riforma mortificano il diritto di difesa... Il rischio va evitato. Non ha senso, per usare una metafora calcistica, fare gol allargando improvvisamente la porta. Un conto è modificare aspetti sostanziali, non esclusa l’entità della pena: nel tempo la percezione del disvalore sociale si modifica e ha senso che ne possa conseguire anche un diverso quadro sanzionatorio. Ma le regole del processo penale costituiscono il perimetro del campo di gioco, che sarebbe auspicabile cambiare il meno possibile. Solo che il ddl penale interviene proprio sulle regole, e non nella direzione invocata dall’avvocatura... Premessa: personalmente non sono affatto contrario alle innovazioni. Soprattutto se riguardano la modernità degli strumenti, l’introduzione di nuove tecnologie. La parte che riguarda la digitalizzazione delle attività di notifica, ad esempio, mi sembra preziosa. Andranno meglio definiti i limiti di responsabilità del difensore, ma credo che il penale telematico si rivelerà una svolta positiva come avvenne per il civile, rispetto al quale pure mi confrontai con le titubanze degli operatori della giustizia. Oggi nessuno tornerebbe indietro. I nodi da sciogliere sono altri. Ad esempio? Non si può snaturare il modello accusatorio. Né introdurre strumenti che ne tradiscano i principi. A partire dalle sollecitazioni di molti auditi, credo si debba intervenire con un’attenta attività emendativa. La formazione della prova di fronte al giudice, allo stesso giudice, la parità di accusa e difesa, la garanzia del controllo collegiale in appello costituiscono la spina dorsale di quel rito. Il ddl propone ad esempio la trasformazione dei collegi di Appello in giudici monocratici, e nuove udienze filtro per il giudizio monocratico in primo grado. Soluzioni per le quali ho profonde riserve. Molti autorevoli auditi, magistrati di grande esperienza, le hanno ritenute non efficaci, addirittura controproducenti, rispetto all’auspicata riduzione dei tempi. In cosa consisterebbe l’udienza filtro? Riguarda i giudizi a citazione diretta. Prima del giudizio propriamente detto, ci si dovrebbe presentare dinanzi a un giudice, necessariamente diverso da quello che eventualmente pronuncerebbe la sentenza, che dovrebbe valutare se sussistano le condizioni per dichiarare il non luogo a procedere. Tutto sulla base del solo fascicolo del pm. Di fatto, se la prognosi che ne deriva apparisse favorevole all’accusa, il vero esito consisterebbe in una pressione sull’imputato, che sarebbe fortemente indotto al patteggiamento, senza condizioni di parità nella formazione della prova. Di fatto un ritorno all’inquisitorio... Con problemi pratici che accentuano le perplessità della stessa magistratura. Visto che l’udienza filtro deve avere un giudice diverso, sarà difficile, nei piccoli Tribunali, individuare i magistrati a cui assegnare i diversi passaggi del procedimento. Si rischia insomma di ingolfare ancora di più la macchina. Sarebbe paradossale: l’obiettivo dichiarato dalla maggioranza è ridurre i tempi per rendere irrilevante il blocco della prescrizione... Noi dobbiamo valutare l’insieme delle nuove regole previste nella riforma, e dovremo chiederci se tutto ciò possa autorizzare ad affermare che il processo sarà certamente breve e giusto, e quindi che l’istituto della prescrizione possa trovare nella nuova e ultima regolazione un adeguato baluardo a difesa del precetto costituzionale della ragionevole durata. E secondo lei il baluardo è adeguato? Da una parte credo che ormai tutti vedano come il blocco della prescrizione dopo il primo grado solo in caso di condanna rappresenti una formulazione migliore di quella introdotta con la spazza-corrotti. Dall’altra parte, una durata del processo giusta non può venire da mutilazioni del diritto di difesa. Come avverrebbe ad esempio con le ricordate udienze filtro... È un tema, non il solo. La riduzione dei tempi non può essere affidata solo alle sanzioni disciplinari per giudici e pm che non rispettassero la durata predeterminata per ciascuna fase. In altre parole, il Pd ha accolto la riscrittura della norma sulla prescrizione sulla base di un presupposto: la riduzione dei tempi del giudizio. Ora dobbiamo valutare se le modifiche apportate possono davvero garantire quella riduzione. Se dovessimo realisticamente convenire che non potrà essere così, serviranno altri interventi. Nei casi di durata eccessiva, Canzio ha riproposto sconti di pena e, in extrema ratio, l’improcedibilità... Gli sconti di pena all’imputato rappresentano una soluzione. Ma non pongono rimedio agli sforamenti più significativi. Quando si verificano, chi rende davvero giustizia all’imputato sottoposto al processo per vari lustri o anche alla parte offesa? Se un risarcimento arriva dopo 20- 30 anni, possiamo affermare che lo Stato è giusto e pronto a difendere i propri cittadini? Perciò il ragionamento non può escludere nei casi più gravi soluzioni differenti. Gli avvocati attendono risposte anche sulla norma che impone all’imputato di dare specifico mandato al difensore per l’impugnazione in appello... È stata concepita sempre con l’obiettivo di deflazionare il carico sul secondo grado. Dobbiamo però chiederci se davvero ci sia un significativo numero di difensori che impugnano oltre la volontà dell’assistito. Cosa che mi pare improbabile. Potrebbe rivelarsi una soluzione punitiva, per certi versi analoga alle sanzioni per i magistrati. E ripeto: non è con l’effimera leva disciplinare che si riducono i tempi. Siamo chiamati a un’analisi seria e attenta. Se si rivelerà necessario emendare il testo della riforma, sarà giusto farlo. “Appello cartolare solo se lo chiede l’avvocato” di Errico Novi Il Dubbio, 3 dicembre 2020 Emendamento della Lega alle norme del Ristori bis sui processi di secondo grado. Rovesciare il quadro: niente processi d’appello cartolari e camere di consiglio da remoto, a meno che non sia il difensore a chiederlo. È il senso dell’emendamento al decreto Ristori bis presentato dalla Lega in materia di giustizia penale. Una proposta firmata da Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama e prima linea di Salvini in materia di processi, e da tutti gli altri senatori del Carroccio della stessa commissione, “supportati” da colleghi di partito, come l’economista Alberto Bagnai, che ne discuteranno direttamente in commissione congiunta. È una opzione condivisa anche dal resto del centrodestra e, in gran parte, da Italia viva. Con buone possibilità dunque, di passare le forche caudine dell’esame nella “congiunta” Bilancio e Finanze di questo fine settimana L’iniziativa leghista viene incontro alle richieste dell’avvocatura. Da ultimo, del presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, che lunedì scorso ha inviato una lettera al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per chiedere che venga “cancellata” la “insensata e pericolosa norma” sulle Corti d’appello, secondo cui il processo di secondo grado avviene col deposito telematico delle conclusioni di pm e difensori e, appunto, con giudici che decidono in videoconferenza, salvo che lo stesso pm o uno degli avvocati avanzi richiesta di discussione orale. In altri termini: nel testo del decreto, in vigore dallo scorso 9 novembre e già attuato quindi dalle Corti d’appello di tutta Italia, la via cartolare- telematica è la regola e la discussione orale l’eccezione; secondo l’emendamento leghista, invece, si parte di default senza sconvolgere le regole del processo d’appello, dunque con giudizi in presenza, salvo che siano le “parti private”, come si legge nel testo dell’emendamento, a chiedere di “procedere in modo cartolare”. L’obiezione che Caiazza ha avanzato al guardasigilli nella sua lettera di lunedì è semplice e sottile nello stesso tempo: nella pratica, l’attuale situazione rischia di precludere, agli stessi giudici del collegio della Corte d’appello, l’effettivo accesso agli atti. Se la Camera di consiglio deve svolgersi da remoto, vuol dire che solo il relatore potrà fisicamente ottenere la visione del fascicolo. E nei casi più impegnativi per dimensione, segnala il presidente dell’Ucpi, “nemmeno lui”. Sentenze di secondo grado emesse praticamente alla cieca, insomma: sarebbe questo il risultato della norma anti covid inserita dal governo nel decreto Ristori bis, il numero 149 del 2020. A meno che, ha scritto Caiazza a Bonafede, non si verifichi quanto rischia di diventare inevitabile: vale a dire che il difensore, pur di evitare un processo farsa, chieda la modalità in presenza in un numero di occasioni assai superiore, “con l’effetto di aumentare, anziché diminuire, le presenze nelle aule”. I numeri al Senato sono sul filo. L’esame degli emendamenti è competenza della sola congiunta Bilancio e Finanze. Ma la propensione di Italia viva a evitare la deriva burocratica del processo può fare la differenza. D’altra parte, i dati delle prime quattro settimane di vigenza del Ristori bis suggeriscono una diffusa adesione della stessa avvocatura all’appello in modalità telematica. Il senso delle richieste dell’Ucpi, raccolte da centrodestra è renziani, risponde dunque al principio per cui il processo è delle parti e, in campo penale, deve considerare l’imputato sempre e comunque in posizione centrale. Sullo sfondo, insomma, oltre alla credibilità delle sentenze in tempo di Covid, c’è anche la volontà di non rassegnarsi a una giustizia robotica, dall’approccio sbrigativo. Anche perché nessuno garantisce che le modalità pensate per l’emergenza non lascino, dopo, strascichi pericolosi per lo Stato di diritto. Ancora le urne per il Csm più tormentato di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 3 dicembre 2020 L’onda lunga del caso Palamara: il Consiglio indica, a maggioranza, la strada di nuove elezioni suppletive per sostituire il sesto giudice costretto alle dimissioni. Equilibri cambiati nella componente togata. Si voterà ancora per la componente togata del Consiglio superiore della magistratura e sarà la quarta volta in due anni. È l’effetto dell’onda lunga del caso Palamara, il terremoto che ha colpito il Csm nella primavera 2019. L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, radiato dalla magistratura, è comparso recentemente in udienza preliminare: la procura di Perugia ha chiesto per lui il rinvio a giudizio per corruzione. Intanto si è dimesso un altro magistrato tra gli eletti al Csm nel 2018, Marco Mancinetti, anche lui coinvolto nelle intercettazioni di Palamara. E ieri il Consiglio superiore ha deciso a larga maggioranza che per sostituirlo bisognerà tornare a votare. In precedenza si erano dimessi altri cinque magistrati eletti, tutti sottoposti ad azione disciplinare. Due di loro erano stati sostituiti attingendo alle liste dei non eletti, mentre per altri tre (due pm e un giudice) erano stati necessari altri due turni elettorali, a settembre e a dicembre 2019. Il prossimo turno elettorale per scegliere il sostituto di Mancinetti sarà convocato (ormai per il 2021) dal presidente della Repubblica, saranno dunque le quarte elezioni. Mancinetti è un giudice, due anni fa è stato il più votato della categoria. L’intera lista dei magistrati giudicanti non eletti nel 2018 è stata esaurita con le precedenti dimissioni o (un caso) per rinuncia. Mancinetti è espressione della corrente centrista di Unicost, la stessa di Palamara e di altri due magistrati costretti alle dimissioni, Morlini e Spina. Mentre sono di Magistratura indipendente, la corrente di destra, le altre tre toghe che si sono dovute dimettere, Cartoni, Criscuoli e Lepri. Del Csm originario non fa più parte neanche Piercamillo Davigo, eletto con un record di preferenze tra i magistrati di Cassazione ma costretto a lasciare poche settimane fa perché in pensione. La componente togata è così rivoluzionata rispetto a quella iniziale, sono cambiati sette magistrati su sedici. In attesa del nuovo turno elettorale, è diminuito il peso di Mi e Unicost, mentre è cresciuto quello della corrente dei davighiani e della sinistra di Area. Ieri nel Csm tre consiglieri laici di centrodestra e i togati di Mi hanno provato a far passare la tesi che Mancinetti potesse essere sostituito con il primo dei non eletti non nel 2018, ma nell’ultima elezione suppletiva. Si sarebbe trattato proprio di una toga di Mi, l’ex presidente Anm Pasquale Grasso. Ma la proposta è stata respinta dal plenum per 18 voti a 5. Si riaprono le urne. Sentenza storica per i Giudici di pace: “Hanno gli stessi diritti di quelli ordinari” di Liana Miella La Repubblica, 3 dicembre 2020 Sono 5.500 a fronte dei 10mila magistrati ordinari, ma sono pagati a sentenza, non hanno diritto né a ferie, né a malattia, né alla pensione. La presidente Olga Rossella Barone: “Dopo 25 anni di sentenze sono un fantasma”. Sono solo poco più di dieci righe. Quelle di una sentenza scritta a Napoli. Da una giudice del lavoro. Ma dentro c’è una decisione storica che potrebbe cambiare la vita di 5mila e 500 persone. Sono i “fantasmi” della giustizia. Gli “schiavi”. Giudici onorari di pace, vice procuratori onorari, giudici onorari del tribunale. Quelli pagati solo a sentenza, 50 euro lordi che con il 40% di trattenute calano della metà. Hanno solo doveri. Nessun diritto. Non sono assicurati. Se un mattone gli cade in testa, tanti saluti. Non hanno ferie. Non possono godere di giorni di malattia. Se lasciano l’incarico per sei mesi vengono cancellati. Non hanno la pensione. Ma lavorano. E come ha riconosciuto più volte il Guardasigilli Alfonso Bonafede, senza di loro la giustizia andrebbe a capofitto. Ma dal 26 novembre la sorte dei “fantasmi” potrebbe radicalmente cambiare. Ed è una notizia bomba proprio in queste ore in cui i giudici onorari hanno deciso di lanciarsi in uno sciopero della fame perché il Covid ha reso tremendo il loro lavoro senza tutele né garanzie. Ma che dice la sentenza della giudice Giovanna Picciotti? Innanzitutto stabilisce che i giudici di pace hanno diritto a essere considerati dei “lavoratori”. Ne consegue che hanno dei diritti. Scrive che va loro riconosciuto “un trattamento economico e normativo equivalente a quello assicurato ai lavoratori comparabili che svolgono funzioni analoghe alle dipendenze del Ministero della giustizia”. E qui la sentenza non ha bisogno di particolari delucidazioni, né interpretazioni. Dice che i giudici onorari sono dei lavoratori identici ai loro “colleghi” magistrati ordinari. Non sono dei fantasmi di serie b o degli spiccia-faccende. Quelli della giustizia da due soldi. Per questo lo Stato e il ministero di via Arenula vengono condannati “al pagamento delle conseguenti differenze retributive” e “al risarcimento del danno in favore di ciascun ricorrente, nella misura pari a cinque mensilità”. Una sentenza “storica” e che farà storia non solo per i 1.250 giudici di pace protagonisti del ricorso, ma anche per gli altri 4.250 giudici onorari. Una grande famiglia di lavoratori precari della giustizia. Una sentenza peraltro in perfetta sintonia con la decisione della Corte di giustizia del Lussemburgo del 16 luglio. Una decisione che fa dire a Olga Rossella Barone, giudice di pace a Napoli e presidente del Coordinamento magistratura giustizia di pace: “È la prima sentenza di tribunale che riconosce i diritti della nostra categoria che il ministro Bonafede ha definito ‘un pilastro della giustizia’ e che in nome del popolo italiano amministra circa il 60% di tutto il contenzioso nazionale e nei cui confronti lo Stato ha violato non solo i principi costituzionali, ma le stesse direttive europee in tema di lavoro”. Perché, come racconta a Repubblica Olga Rossella Barone, “io ho lavorato in tutto 25 anni per la giustizia, per sei anni come vice procuratore onorario e per 18 anni come giudice onorario di pace, e sono stata retribuita per ogni sentenza che ho scritto. Quando sono rimasta incinta di due gemelli sono dovuta tornare in fretta in tribunale perché chi non torna entro sei mesi decade automaticamente. Ho 52 anni, metà dei quali dedicati allo Stato, che però non mi verserà un solo euro di pensione”. Scioperi, come quello della fame in atto, e proteste, non sono serviti. I giudici onorari sono convinti che qualsiasi governo ha “voltato loro le spalle”. Considerano una sconfitta la riforma Orlando del 2016 che, dicono, “quando entrerà in vigore nel 2021 di fatto ci cancellerà sostituendoci con la figura del giudice occasionale, e chi riuscirà a sopravvivere guadagnerà 6-700 euro, ma dovrà anche pagarsi l’assistenza”. Ce l’hanno con tutti perché “nessuno ha avuto il coraggio di riconoscere che la Costituzione vale anche per noi”. Eppure fanno un lavoro enorme. Ecco come lo descrive la stessa Barone: “I codici di procedura penale e civile fissano i nostri ambiti di azione. Abbiamo competenza per le cause ordinarie fino a 5mila euro e per gli incidenti stradali fino a 20mila. Ci occupiamo delle multe e delle cartelle esattoriali, e di tutti i procedimenti di convalida per l’espulsione degli extracomunitari. Siamo anche dei conciliatori. Accertiamo se è legittima o meno la pretesa di una banca, di un’assicurazione, delle grandi multinazionali. Abbiamo emesso sentenze che hanno verificato la violazione dei diritti dei cittadini e, dopo la conferma della Cassazione, hanno indotto il legislatore a importanti modifiche in materia di diritti del consumatore. Basta citare l’illegittimità dell’iscrizione ipotecaria sugli immobili per cartelle esattoriali con pretese inferiori agli 800mila euro, gli abusi da parte di società con posizione dominante in materia di viaggiatori e consumatori. Noi siamo quelli che in un anno hanno definito 2 milioni di procedimenti e hanno amministrato la giustizia, a legge Pinto zero (cioè senza ritardo poi puniti dall’Europa, ndr), nel rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo”. Adesso tutto questo lavoro si trasforma in un’enorme piattaforma rivendicativa. Perché, come spiega Barone, “noi cottimisti della giustizia abbiamo deciso di rivolgersi alla stessa giustizia per tutelare i nostri diritti”. La prima mossa - studiata a tavolino dagli avvocati Giorgio Fontana e Vincenzo De Michele - è stata quella di rivolgersi direttamente alla Corte di giustizia del Lussemburgo. Che, lette le carte, ha dato ragione ai giudici onorari. Poi l’offensiva si è trasferita in Italia dove sono stati presentati decine e decine di ricorsi che potrebbero sortire lo stesso esito di quello di Napoli. Cosa si aspettano Olga Rossella Barone e i suoi colleghi? “Che lo Stato, per cui abbiamo lavorato con onestà e dedizione, e in questo lungo anno anche nonostante il Covid e senza tutele neppure per questo, ci dia i soldi arretrati che ci deve, e ci faccia andare avanti come meritiamo di andare. Come giudici grazie ai quali la giustizia non finisce nel baratro”. Magistratura onoraria: “stato di agitazione permanente, senza risposte sarà astensione” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2020 La Consulta della magistratura onoraria: “Non è più possibile negare la dignità di lavoratori a cinquemila magistrati onorari, abdicando la buona politica in favore di anacronistiche prese di posizione, lontane anni luce da principi di efficienza e dal diritto dell’Unione Europea”. Si alza il livello dello scontro tra magistratura onoraria e Governo. I non togati proclamano lo stato di agitazione permanente e annunciano ulteriori iniziative - prima fra tutte lo sciopero - in assenza di una convocazione da parte dell’Esecutivo entro 20 giorni. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, oltre all’assenza di tutele aggravata dalla pandemia, è stata probabilmente l’affermazione del Ministro Bonafede (in risposta a una interrogazione parlamentare) secondo cui la magistratura onoraria oltre a essere caratterizzata dalla “spontaneità della adesione” e dai caratteri della “precarietà e temporaneità” ha la “finalità di contenere il numero dei togati, pena la perdita di prestigio e la riduzione delle retribuzioni della Magistratura professionale”. “Nell’offenderci - si legge nel comunicato della Consulta della magistratura onoraria, che ha la rappresentanza delle diverse associazioni - per la prima volta non si alza il vessillo dell’invarianza finanziaria” ormai poco credibile “a fronte di somme - anche maggiori degli 80 milioni necessari a uscire dall’impasse - stanziate, esemplificativamente, per bonus risciò e monopattini”, ma si afferma semplicemente che il magistrato onorario “è immeritevole di tutele, che non è un lavoratore e che non esiste per l’Ordinamento, poiché servile non all’efficienza del Sistema e al buon andamento della res publica” bensì allo status della magistratura togata. Sono molte le questioni messe sul tavolo dalla Consulta che necessitano “di una rapida soluzione prima che il Sistema tracolli”. A questo punto però vi è un’unica strada percorribile ed è il ricorso alla decretazione d’urgenza per mantenere in servizio i magistrati onorari a tempo pieno e fino a 70 anni e riconoscere loro i diritti previdenziali, assistenziali e retributivi “compatibili con le funzioni esercitate”. Per la Consulta è una “soluzione rapida” e che “rispetta i caratteri della necessaria efficienza” richiesti dalla pandemia attingendo “a personale formato, con esperienza anche pluridecennale, perfettamente in grado di operare nell’immediato e senza necessità di attendere l’esito di lunghe procedure e tirocinio”. La Consulta ricorda poi come anche durante la fase di sospensione dell’attività giudiziaria, dal 9 marzo all’11 maggio scorso, la magistratura onoraria “nonostante l’emergenza sanitaria, senza tutele, priva di adeguata retribuzione”, “è rimasta negli uffici a garantire i servizi indifferibili e urgenti, le turnazioni di reperibilità e l’evasione del lavoro già preso in carico”, svolgendo compiti che l’odierno sistema di pagamento a cottimo, “ancorato quasi esclusivamente allo svolgimento delle udienze, non riconosce come remunerabili”. Persino il contributo di solidarietà di 600 euro, previsto per tre mensilità, “è stato, in moltissimi Uffici, negato per la fase successiva all’11 maggio o decurtato delle misere indennità percepite per i pochi giorni di attività prestata, quasi a punire il magistrato virtuoso”. E ancora in queste settimane accade che in piena emergenza pandemica i magistrati onorari “hanno dovuto operare una disumana opzione tra diritti egualmente essenziali della persona, optando per la tutela della salute, alcuni iniziando oggi finanche lo sciopero della fame”. Il lungo e articolato documento, firmato in rappresentanze delle Associazioni da Mariaflora Di Giovanni (Presidente Unagipa), è una chiamata in causa di tutte le istituzioni, essendo stato inviato ai Presidente della Repubblica e del Consiglio dei ministri, al ministro della Giustizia, ai Presidenti delle Commissioni Giustizia del Senato e della Camera oltre che alla Commissione per la Garanzia dello sciopero nei servizi pubblici. Ma anche “per conoscenza” ai vertici delle istituzioni europee a cui la M.O. si è sovente rivolta per avere tutele. A tutte queste autorità, dunque, Giudici di Pace, Giudici Onorari di Tribunale e Vice Procuratori Onorari chiedono di esperire il tentativo di conciliazione e attivare “ogni idonea procedura di raffreddamento al fine di affrontare e risolvere i gravi problemi evidenziati, facendo presente che, nella denegata ipotesi di mancata convocazione entro 20 giorni dal ricevimento della presente, le scriventi Organizzazioni, in ossequio al mandato ricevuto dagli organi assembleari e direttivi, porranno in essere ogni necessaria iniziativa di denuncia e sensibilizzazione dell’opinione pubblica e della società civile, nonché valuteranno le conseguenti astensioni dalle udienze e da tutte le altre attività, secondo i tempi e le modalità previsti dai rispettivi codici di autoregolamentazione”. Caro Arturo, non dimenticheremo il tuo j’accuse contro la malagiustizia di Tiziana Maiolo Il Riformista, 3 dicembre 2020 Con Diaconale scompare un garantista, uno dei pochi. Il suo Tribunale Dreyfus puntava il dito su un’Italia in cui pareva impossibile “alcuna forma di rinnovamento del sistema in crisi”. Arturo Diaconale, che non è più con noi da due giorni, è stato salutato ieri da tanti amici, da tante persone che lo hanno stimato e apprezzato. Come grande giornalista, come grande liberale, come attento politico e anche come appassionato sportivo. Io amo ricordarlo come garantista, cioè come persona perbene, come sono coloro che hanno a cuore i diritti di tutti e che sanno, che hanno saputo mettere il proprio corpo, e la propria vita con i sentimenti e le contraddizioni, nella difesa di chi la pensa in modo diverso. Non è un caso che Arturo e io ci siamo conosciuti non nel partito liberale (pur avendo io dato, a ventun’anni, il mio primo voto a Malagodi) né in nessuno dei giornali e televisioni in cui lui ha lavorato, visto che io sono stata per vent’anni al Manifesto, luogo in cui si vedeva come fumo negli occhi Il Giornale di Montanelli. E tralasciamo i campi di San Siro, dove io già ragazzina tifavo per Gianni Rivera e l’Olimpico della Lazio che fu il mondo del tifoso Diaconale. Nulla di tutto ciò ci ha avvicinati, pure fu nel mondo radicale e antiproibizionista (quello più difficile da comunicare e far comprendere) che il nostro incontro fu una sintonia totale. L’amore per la giustizia dei diritti, da me spesso gridata, da lui offerta con la forza tranquilla di chi sa coltivare il dubbio insieme alle certezze. Quando nel 2014 propose il suo “J’accuse!” e fondò il Tribunale Dreyfus “per le vittime della malagiustizia”, seppe sintetizzare, da bravo giornalista, in quindici righe, il dipinto dell’Italia in cui pareva impossibile “alcuna forma di rinnovamento e di cambiamento del sistema in crisi”. Quelle quindici righe, e le parole che fanno da capofila ai pensieri, sono un vero programma politico sulla giustizia. Denunciano, prima di tutto, il fatto che la crisi della democrazia e dell’economia in Italia derivano dalla degenerazione del “sistema giustizia”. Un punto fermo. Politicizzazione della magistratura e rinuncia da parte della politica al proprio ruolo in favore delle toghe, prima di tutto, insieme a una quantità desolante di errori giudiziari per cui nessun magistrato paga mai, e di limitazione della funzione della difesa, insieme a un uso spropositato di intercettazioni telefoniche e ambientali fanno del processo un vero luogo di pena anticipata. Come conseguenza di questa distorsione, abbiamo un uso smodato della custodia cautelare in carcere (40% del totale dei detenuti) e prigioni-lager per le quali l’Italia è stata più volte condannata da sentenze e sanzioni dell’Unione Europea, che considera il nostro Paese un luogo di scarsa civiltà giuridica e privo delle garanzie costituzionali per i cittadini. In questo quadro, Arturo Diaconale, da bravo liberale, non aveva scordato l’aspetto economico, collegando alla degenerazione della giustizia il ristagno e il soffocamento della libertà economiche da parte del modesto funzionamento amministrativo soffocato dalla burocrazia. Tutti ostacoli che bloccano la crescita e lo sviluppo del Paese, la possibilità di mercati liberi e competitivi e gli investimenti stranieri. La lunghezza e la farraginosità del processo civile, il timore di inchieste penali, che spesso finiscono nel nulla ma dopo molti anni, tengono da tempo lontani gli investitori degli altri Paesi. La debolezza della classe politica (oggi più che mai), sempre subordinata alla magistratura (pur se oggi indebolita a sua volta) e ai potentati bancari e finanziari, chiudono il cerchio. Contro tutto ciò Arturo Diaconale aveva per una volta nella sua vita di liberale, alzato la voce, gridando “J’accuse” e fondando il suo - nostro tribunale Dreyfus per le vittime della malagiustizia. Dopo Marco Pannella, abbiamo perso anche lui. Ci manca già. E ha molto senso ricordare quelle quindici righe e tenerle sempre sulla scrivania. Spazio minimo per i detenuti: quali arredi vanno detratti dalla superficie lorda della cella? ilpenalista.it, 3 dicembre 2020 Ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati, occorre avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, da questa, detrarre gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui i letti a castello e i servizi igienici. Con sentenza n. 33822/20, la Cassazione si è pronunciata sul ricorso proposto dal difensore del detenuto volto all’ottenimento della riparazione per la carcerazione patita in condizioni difformi dal parametro di cui all’art. 3 Cedu negli istituti penitenziari di Salerno e Vibo Valentia. Nell’accogliere il ricorso, la Corte ha ricordato il recente arresto delle Sezioni Unite, reso noto con l’informazione provvisoria n. 17 del 24 settembre 2020, secondo cui “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti castello”. Ebbene, la Corte si trova qui a dare conferma a tale assunto, ribadendo che “ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati da assicurare a ogni detenuto, affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 Cedu, dalla superficie lorda della cella devono essere detratte l’area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, ove questo assuma la forma e la struttura a castello, e gli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arresi facilmente amovibili come sgabelli o tavolini”. Sì al “piantone” per il detenuto disabile in regime di 41bis Il Centro, 3 dicembre 2020 L’uomo è in carcere all’Aquila, per la Cassazione deve essere garantita la necessaria assistenza. A un detenuto in 41bis, disabile, deve essere garantita tutta l’assistenza possibile in relazione alle sue reali condizioni di salute. Va quindi affiancato da persona che lo aiuti a far fronte a tutte le necessità personali che da solo non può svolgere. È questo il senso di una sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una decisione del Tribunale di sorveglianza dell’Aquila che aveva invece ritenuto corretto quanto veniva garantito al detenuto, in termini di assistenza, dalla direzione del carcere. Il detenuto, originario di Lecce, è in carcere all’Aquila per una serie di gravissimi reati. L’uomo nel gennaio 2019 aveva chiesto al magistrato di sorveglianza “la tutela del proprio diritto a ricevere l’assistenza alla persona necessaria in relazione alla condizione di portatore di handicap e, dunque, al fine di svolgere alcune attività altrimenti preclusegli dalla situazione di inabilità, quali cucinare, lavare la biancheria, sbucciare la frutta compresa nel vitto”. Il tribunale nel maggio 2019 rigettò il reclamo, ritenendo che non vi fossero inadempienze da parte della direzione dell’istituto penitenziario “che aveva garantito all’uomo l’assistenza, grazie all’opera di un detenuto lavorante, per le pulizie della stanza per tre volte alla settimana e aveva disposto che la frutta venisse somministrata al detenuto dopo essere stata sbucciata e tagliata”. Il detenuto, però, tornò a sostenere che aveva bisogno “di assistenza per tutte le attività che non riusciva a compiere a causa della sua invalidità e non soltanto per la pulizia della stanza o per sbucciare la frutta”. Anche questo secondo reclamo fu rigettato dal Tribunale di sorveglianza. La Cassazione ha annullato però con rinvio la decisione del Tribunale con questa motivazione: “L’articolo 32 della Costituzione riconosce a tutte le persone il diritto fondamentale alla salute. Nei confronti dei detenuti, il diritto alla salute e, dunque, a vivere in un ambiente che non comprometta lo stato di benessere soggettivo, deve essere contemperato con le restrizioni proprie della condizione detentiva, dovendo esso sopportare talune limitazioni. Nel caso qui esaminato, è pacifico che al detenuto sia stata riconosciuta la condizione di soggetto portatore di handicap. Per tale ragione la direzione della casa circondariale ha subito fornito al detenuto un servizio di assistenza e ha adottato misure volte a consentire la possibilità di assumere cibi, come la frutta debitamente sbucciata e tagliata. Ciò che, tuttavia, non è affatto chiaro nella motivazione del provvedimento impugnato, che quindi deve ritenersi carente sul punto, è la portata della menzionata assistenza che parrebbe necessaria - secondo quanto è dato evincere dalla stessa ordinanza - in relazione a una pluralità di atti della vita quotidiana e non solo per provvedere alla pulizia della camera di detenzione. Pertanto, l’interpretazione fatta propria dall’ordinanza, secondo cui il sostegno andrebbe riferito a tutto ciò che il detenuto non riesce autonomamente a fare, non pare ancorata ad alcun concreto elemento di riscontro. Ne consegue che appare necessario sollecitare il Tribunale a un ulteriore sforzo motivazionale, inteso a chiarire tale profilo, attraverso una puntuale specificazione di quali ambiti delle quotidiane attività del recluso siano state oggetto dell’assistenza a lui prestata dal detenuto lavorante, investito anche dei compiti di piantone, nei confronti del ristretto disabile”. Intercettazioni utilizzabili anche per reati diversi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2020 Sulle intercettazioni, la riforma avvalora un’interpretazione estensiva della loro utilizzabilità. Tanto da corroborare decisioni attuali che prendono le distanze da quanto stabilito dalla ormai proverbiale sentenza delle Sezioni unite di poco meno di un anno fa, la n. 51 del 2020. Questo uno dei passaggi cruciali di una ordinanza del 2 novembre scorso del Tribunale del riesame di Milano nell’ambito di un procedimento a carico di alcuni dipendenti, anche apicali, dell’agenzia delle Entrate. In particolare, attraverso le operazioni di intercettazione, è emerso un quadro accusatorio che vede favorire una serie di utenti dell’ufficio in cambio del pagamento di somme di denaro. Un “asservimento delle pubbliche funzioni” che si concretizzava, nella gran parte dei casi, nell’estrazione di copie di atti (visure, certificati ipotecari e catastali,) senza riscuotere dai privati le relative imposte. Dalle intercettazioni emergeva la prova delle remunerazioni date dai privati a vantaggio dei pubblici ufficiali, rendendo così possibile la contestazione del reato di corruzione propria, mentre, in altri casi, le attività di intercettazione permettevano di registrare solo la condotta del dipendente pubblico contraria ai doveri d’ufficio, permettendo quindi la qualificazione dei fatti “solo” come abuso d’ufficio. Ora, il problema dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni si è posto in particolare con riferimento a queste ultime condotte, soprattutto perché le Sezioni unite hanno affermato, in materia di utilizzabilità in altri procedimenti, la necessità che oltre che di un reato connesso a quello o a quelli oggetto dell’autorizzazione, anche che si tratti di reati intercettabili sulla base dei requisiti definiti dall’articolo 266 del Codice di procedura penale. Una conclusione dalla quale il Tribunale del riesame di Milano prende le distanze sulla base di una serie di considerazioni. Tra queste, la valorizzazione del dato della connessione, per cui i reati indicati nell’autorizzazione e quelli scoperti in seguito sono comunque strettamente collegati, tanto da fare escludere ogni rischio di autorizzazione in bianco. Inoltre, nel caso di utilizzo probatorio di esiti di intercettazioni disposte nel medesimo procedimento per reati diversi connessi ma non rientranti nei limiti del Codice sull’intercettabilità, non si è in presenza, a dire del Riesame, “di alcuna delle ipotesi tassative di inutilizzabilità patologica del materiale probatorio previste dal Codice”. La possibilità di utilizzo deve poi essere garantita nel segno della “naturale utilizzabilità del risultato di una legittima attività d’indagine”. A venire compromesso sarebbe poi anche il principio di rilevanza costituzionale di non dispersione degli elementi di prova, istituendo, tra l’altro, una disparità di trattamento tra indagati nello stesso procedimento in assenza di disposizioni sul diverso utilizzo del materiale probatorio. Quanto alla riforma, ancora, nella lettura del Riesame milanese, questa si è indirizzata “nel senso di un ampliamento della possibilità di utilizzare le intercettazioni addirittura a prescindere dalla sussistenza di un legame come la connessione (...), atteso che il “nuovo” articolo 270 comma 1 Codice di procedura penale prevede la possibilità d’uso delle risultanze delle intercettazioni in “procedimenti diversi”, non più solo per la prova dei delitti per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, ma anche dei reati di cui all’articolo 266, comma i Cpp”. Marche. Trenta azioni di monitoraggio, oltre 200 visite, 1.800 colloqui con i detenuti consiglio.marche.it, 3 dicembre 2020 Bilancio dei 5 anni di lavoro del Garante negli istituti penitenziari. Zero contagi tra i detenuti, qualche caso tra gli operatori di polizia penitenziaria che non sono entrati, comunque, in contatto con gli stessi detenuti ed un sistema che ha retto all’urto dell’emergenza pandemica. Lo conferma il Garante dei diritti al termine dell’ultima visita, quella a Marino del Tronto di Ascoli Piceno, presso gli istituti penitenziari marchigiani. “Un riscontro positivo - precisa - che è legato a questa problematica specifica e che fotografa ovviamente il momento attuale. Su altro versante, sappiamo quante e quali sono ancora le criticità che insistono sul nostro sistema carcerario e che non hanno trovato un’adeguata soluzione. In questi anni l’Autorità di garanzia ha avuto modo di affrontarne diverse, dal sovraffollamento alla carenza di organici, dalle questioni legate alla sanità a quelle strutturali, fino alla necessità di incrementare le attività trattamentali. È indispensabile continuare a mettere in campo tutte le risorse possibili affinché le carceri non vengano considerate come l’ultimo anello del welfare. Occorre, quindi, monitorare con costanza e determinazione e non abbassare mai la guardia”. E a conclusione del suo mandato, il Garante tira le somme del lavoro svolto nel corso degli ultimi cinque anni. Sul piatto della bilancia ci sono 30 azioni di monitoraggio (più di cinque ogni anno) con una media complessiva di oltre 200 ingressi in carcere (sia per la stessa azione di monitoraggio che per altre iniziative) e circa 1.800 colloqui con i detenuti. Un’attività che si è concentrata soprattutto nei periodi che hanno registrato l’acuirsi delle criticità, come quello estivo o come quello straordinario dell’emergenza pandemica, che ha annoverato anche un confronto mantenuto costante attraverso il mezzo telematico. “La fotografia annuale - ricorda Nobili - è stata rappresentata con l’ausilio di 5 report, che hanno fornito i dati consolidati delle presenze nei sei istituti penitenziari delle Marche, sette fino al 2016 quando è stato chiuso quello di Camerino a causa del terremoto, e nella Rems attualmente ospitata a Macerata Feltria, ma hanno anche fatto il punto della situazione per quanto riguarda sovraffollamento, sanità, polizia penitenziaria, attività trattamentali e criticità di tipo strutturale”. Accanto a questo, ulteriori incontri sulla variegata realtà del volontariato e sulle problematiche inerenti la stessa polizia penitenziaria e tre convegni (ospitati rispettivamente nel capoluogo regionale e a Macerata) che hanno inteso fare il punto sul sistema carcerario presente e futuro, con l’apporto di autorevoli rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria nazionale. Massima attenzione da parte del Garante per quanto le attività trattamentali per promuovere la cultura, l’aggregazione e la risocializzazone, anche in funzione del reinserimento dei detenuti nella società, una volta terminata la pena. Raggiunti, in questa direzione, due importanti traguardi con il Polo universitario a Fossombrone e quello formativo a Barcaglione di Ancona. Nel corso degli ultimi cinque anni sono state attivate, inoltre, numerose collaborazioni che hanno permesso di portare in carcere, agricoltura sociale, letteratura, poesia, cinema e danza, laboratori e corsi di varia natura, per un totale di oltre 60 iniziative. Brescia. Nuovo suicidio e “battitura” dei detenuti nel carcere di Canton Mombello radiondadurto.org, 3 dicembre 2020 Nuovo suicidio nel carcere bresciano di Canton Mombello dove le condizioni di detenzione sono ulteriormente rese più dure e difficili a causa del sovraffollamento esistente e delle misure di prevenzione del contagio, che aumentano l’isolamento dei reclusi dai propri affetti famigliari. Un detenuto si è tolto la vita nei giorni scorsi. La professoressa Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Brescia ci parla di quest’ultimo luttuoso episodio e della battitura di protesta e di solidarietà con il proprio compagno di detenzione morto da parte degli altri reclusi, oltre che a fornirci un quadro della situazione di sovraffollamento spiegandone le cause. Vasto (Ch). Casa lavoro di Torre Sinello, detenuto di 39 anni si toglie la vita Il Centro, 3 dicembre 2020 Suicidio nel carcere di Vasto. Un detenuto di origine lombarda di 39 anni, padre di due bambini, che stava scontando in cella una pena pare per rapina, si è tolto la vita ieri mattina soffocandosi. La scoperta di quello che era accaduto è stata fatta in tarda mattinata da alcuni agenti della polizia penitenziaria. L’uomo era nella sua cella da solo. Pare che avesse accanto anche una bomboletta di gas. Immediatamente è scattato l’allarme. Sono partiti i soccorsi. Per lunghi minuti si è cercato di rianimare il trentanovenne, ma è stato tutto inutile. Il cuore dell’uomo non è più tornato a battere e i medici non hanno potuto fare altro che dichiarare il decesso. Sulla vicenda è stato alzato un muro di silenzio. La direzione della Casa Lavoro ha subito avvisato dell’accaduto la procura di Vasto. La magistratura ha deciso di aprire un’indagine sull’accaduto. La salma è stata trasferita all’obitorio dell’ospedale di Chieti in attesa dell’autopsia. Nel frattempo si cerca di capire, attraverso il racconto di chi lo ha conosciuto, perché il detenuto abbia deciso di togliersi la vita e se avesse manifestato le sue intenzioni. Per il carcere di Torre Sinello quello di ieri è il secondo suicidio nell’istituto di pena. Nel 2012 a togliersi la vita nella casa lavoro era stato un agente di custodia. Milano. Record di contagi in carcere: penalisti in sciopero della fame milanopost.info, 3 dicembre 2020 Nei vari istituti di pena italiano dove “vi sono ormai quasi 900 persone positive al Covid-19, mentre quasi 1000 sono i positivi tra gli operatori del settore penitenziario”. È l’allarme lanciato dal Direttivo e dalla Commissione Carcere della Camera Penale di Milano che “aderiscono allo sciopero della fame di Rita Bernardini, unendosi alla richiesta rivolta al Governo e al Parlamento di ridurre drasticamente la popolazione detenuta attraverso qualsiasi intervento di legge aderente alla Costituzione e alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo”. Il problema, denunciano i penalisti milanesi, è che “il virus questa volta non solo è entrato in carcere, ma si sta pure diffondendo in modo spaventoso”. E “l’elevatissimo livello di contagiosità del Coronavirus, che caratterizza la seconda ondata - puntualizza la Camera Penale in una nota - impone l’adozione di interventi in grado di incidere concretamente sul numero di presenze in carcere nell’immediato, per la tutela del diritto alla salute di detenuti e operatori penitenziari e, sul piano strutturale, attraverso una politica di coerente e costante decarcerizzazione”. La situazione è drammatica soprattutto in Lombardia, cioè “la Regione maggiormente colpita dal virus” dove c’è un problema di “sovraffollamento di per sé grave” che secondo la camera penale di Milano “non consente ovviamente di disporre di spazi adeguati per tutti gli isolamenti necessari”. Tutto ciò, evidenziano ancora i penalisti milanesi, rende “pertanto necessaria l’introduzione di misure urgenti per alleggerire le condizioni di sovraffollamento all’interno degli istituti penitenziari, al fine di garantire l’isolamento sanitario delle persone detenute già risultate positive o ritenute a rischio”. Milano. “Troppi detenuti nelle carceri aumentano il rischio Covid” di Sandro De Riccardis La Repubblica, 3 dicembre 2020 I penalisti milanesi a fianco della protesta di Rita Bernardini sostenuta da don Rigoldi. Anche gli avvocati milanesi aderiscono, con il direttivo e la commissione Carcere della Camera penale, all’iniziativa di Rita Bernardini, l’esponente dei Radicali Italiani in sciopero della fame dallo scorso 10 novembre. Una decisione presa per “unirsi alla richiesta rivolta a governo e Parlamento di ridurre drasticamente la popolazione detenuta attraverso un qualsiasi intervento di legge aderente alla Costituzione e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. La mobilitazione ha già raccolto oltre mille e 500 adesioni. E ieri, sulle pagine di Repubblica Milano, anche don Gino Rigoldi, cappellano del carcere minorile Beccaria, ha espresso la propria solidarietà a Bernardini “per lo sciopero della fame contro la condizione di troppe carceri italiane, dove il sovraffollamento rende impossibile una vita accettabile”. Ora anche l’adesione dei penalisti milanesi. “L’elevatissimo livello di contagiosità del virus che caratterizza la seconda ondata - scrivono in una nota - impone l’adozione di interventi in grado di incidere concretamente sul numero di presenze in carcere, nell’immediato per la tutela del diritto alla salute di detenuti e operatori penitenziari e, sul piano strutturale attraverso una politica di coerente e costante decarcerizzazione”. Secondo i dati raccolti dagli stessi avvocati, negli istituti di pena ci sono “quasi 900 persone positive al Covid-19, mentre quasi mille sono i positivi tra gli operatori del settore penitenziario”. Dati definiti “allarmanti” perché i numeri “sono inesorabilmente destinati ad aumentare in assenza di provvedimenti concretamente deflattivi della popolazione carceraria nazionale”. La situazione è particolarmente grave in Lombardia. “Basti pensare - scrive ancora la Camera penale - che i 6.156 posti ufficialmente disponibili sono distribuiti in sole 4.324 celle”. Aver creato poi dei presidi sanitari nelle carceri di Bollate e San Vittore, dove trovano assistenza anche i positivi al Covid in arrivo da altre carceri lombarde, “rischia di aumentare il sovraffollamento, e quindi il rischio sanitario nelle restanti sezioni detentive”. Gli avvocati chiedono al Parlamento interventi strutturali, attraverso modifiche al decreto dello scorso ottobre che contiene norme per ridurre il numero dei detenuti, considerate “insufficienti a contrastare il rischio di diffusione del contagio all’interno degli istituti di pena”. Napoli. Coronavirus in carcere, calano i contagi a Poggioreale di Elena Del Mastro Il Riformista, 3 dicembre 2020 42 i detenuti positivi, tutti nel padiglione Venezia. “In questi giorni abbiamo dato numeri su carcere e Covid, abbiamo partecipato a manifestazioni di solidarietà per i detenuti, abbiamo cercato di sensibilizzare la politica rispetto alla gravità in questo momento di emergenza ma in generale sui temi che riguardano il carcere: sovraffollamento, malasanità, malagiustizia. La nostra vuole essere una battaglia civile utile per la democrazia e per i diritti, consapevoli che sia necessario ed opportuno divulgare con trasparenza i dati su carcere e Covid nonostante le minimizzazioni del Ministro della Giustizia e più in generale della politica”. Così Ciambriello e Ioia, garanti dei detenuti della Campania e di Napoli, prima di entrare in carcere a Poggioreale per discutere sul punto della situazione, sia con la Direzione del carcere, che con la Direzione Sanitaria. Dagli ultimi aggiornamenti risulta che ad oggi, a Poggioreale, siano 42 i detenuti positivi al Covid 19, tutti allocati presso il padiglione Venezia e 1 presso il SAI, e 39 persone, ubicate nel padiglione Firenze, sono in quarantena precauzionale perché primi giunti (1 piano) o perché hanno avuto contatti con positivi (2 piano). Oggi a Poggioreale c’è una popolazione di 2008 detenuti. Sono 27 unità del personale di polizia penitenziaria contagiati, e 10 in quarantena. Tra il personale sanitario vi sono 4 persone assenti per Covid 19, tra i quali 3 medici e un infermiere. Sono ricoverati presso presidi ospedalieri 3 detenuti (due al Cardarelli e uno al Cotugno). È stato completato lo screening a tutti i detenuti; In totale i tamponi effettuati sono stati a Poggioreale ad oggi dall’inizio della Pandemia 3306. Ciambriello e Ioia hanno poi stigmatizzato la lentezza con la quale dal carcere di Poggioreale si trasmettono alla Magistratura di Sorveglianza le pratiche per il Decreto Ristori (detenzione domiciliare), in particolare per detenuti senza fissa dimora, e per i detenuti malati cronici. Il Direttore Carlo Berdini ha riferito che in questi giorni sono state 62 le istanze inviate alla magistratura concernenti il decreto ristori. “Nella giornata di domani saremo anche nel carcere di Secondigliano per avere un quadro completo anche per quest’istituto. Denunciamo un silenzio e un ‘indifferenza sul tema delle carceri. Il sovraffollamento, la promiscuità, le malattie croniche, gli ambienti non sufficientemente igienizzati e sanificati, rischiano di far vivere ai detenuti una doppia reclusione. Se a questo aggiungiamo anche il congelamento delle pratiche inviate ai magistrati di sorveglianza, la mancanza di colloqui de visu con i familiari, la sospensione di qualsiasi attività trattamentale, formativa, culturale e ricreativa, si verifica un’ulteriore esclusione sociale delle persone diversamente libere.” così il garante campano Samuele Ciambriello e il garante comunale di Napoli Pietro Ioia. Sulmona (Aq). Settimo caso di Covid tra gli agenti e un altro detenuto in ospedale di Andrea D’Aurelio ondatv.tv, 3 dicembre 2020 “Ospedale da campo in carcere”. L’allestimento di un ospedale da campo con personale sanitario dedicato all’interno del carcere per garantire una degenza in sicurezza che dovrebbe realizzare il Dap insieme alla Regione. Lo ha chiesto il sindaco di Sulmona, Annamaria Casini, nel corso del comitato provinciale per l’ordine pubblico e la sicurezza, a proposito della situazione in atto nel penitenziario peligno dove si è acceso un importante focolaio che conta 66 detenuti e 7 agenti penitenziari positivi. Il bilancio è salito questa mattina quando è stata accertata la positività su un altro agente penitenziario che si era sottoposto al tampone in un secondo momento. Mentre altri tre agenti sono risultati positivi al tampone rapido. Per cui dovranno sottoporsi al molecolare. Per la Casini si rende necessario un ospedale da campo mentre la Uil aveva proposto di destinare il reparto per i collaboratori di giustizia all’isolamento. Intanto questa mattina il Vice Capo del Dipartimento è tornato nel carcere “osservato speciale” per incontrare i vertici dell’amministrazione penitenziaria e per un ulteriore sopralluogo. In attesa di conoscere nuovi sviluppi un altro detenuto è stato trasportato in ospedale dopo la comparsa dei sintomi riconducibili al Covid. Sono tre quindi i detenuti che si trovano nel vecchio pronto soccorso in attesa di collocazione mentre continua la “staffetta” degli agenti per la sorveglianza. Ieri il rinforzo è arrivato da Roma con 22 poliziotti pronti a dare manforte al sistema in difficoltà. Intanto, sul fronte dell’emergenza pandemica, oggi è stato avviato lo screening di massa a Sulmona per la popolazione scolastica. Finora 130 studenti si sono sottoposti al test e non è stata accertata alcuna positività. Per il momento i numeri confermano che il sistema scuola sta reggendo grazie anche alle misure adottate ma il report completo arriverà solo nel pomeriggio. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Nel carcere infiltrazioni d’acqua e disabili portati in braccio di Marilù Musto Il Mattino, 3 dicembre 2020 I liberi non sono semplici spettatori della vita dei reclusi. Non in un paese civile. Non in piena pandemia. Soprattutto se nel carcere piove persino in cella perché manca la guaina isolante sul tetto. Soprattutto se non c’è un ascensore funzionante capace di trasportare un detenuto disabile, se la condotta per l’acqua non è stata ancora costruita dal Comune di Santa Maria Capua Vetere, dopo 5 anni di annunci e promesse. E così, i detenuti scioperano, non mangiano, “battono” pentole sulle grate, fanno rumore a costo di un provvedimento disciplinare e con la tagliola delle punizioni sulla testa. “C’è solo da indignarsi”, spiega Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania. E poi, c’è chi neanche può difendersi perché in carcere si trova su una sedia a rotelle. Come il detenuto di 60 anni che ha consegnato una lettera al deputato Antonio Del Monaco (M5s), quest’ultimo entrato nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere con Emanuela Belcuore, Garante provinciale dei detenuti, per verificare le condizioni della struttura Uccella di Santa Maria Capua Vetere nell’era Covid. L’edificio, per intenderci, che in sé ha anche un’aula bunker per i maxi-processi alla criminalità organizzata, interamente costruita da imprese legate al clan dei Casalesi. Sprazzi di storia, fra un disagio e l’altro. Ma ciò che conta è il presente. O il recente passato, chissà. Perché il detenuto disabile, un anno fa, scrisse la lettera inviandola all’amministrazione della casa circondariale, lamentando anche la presenza di un citofono rotto da due anni nella sua cella. Ma da allora nulla è cambiato, stando a ciò che ha raccontato. E infatti: “Il detenuto del reparto Nilo deve essere preso in braccio per poter prendere parte ai colloqui. Anche per l’ora d’aria, è la stessa storia. È in cella con il figlio - spiega Del Monaco. Nel reparto Tamigi, invece, alcuni detenuti dormono su letti su cui, però, cade pioggia perché, nonostante i lavori appena conclusi in quell’ala del carcere, filtra acqua dal soffitto”. E ancora, le detenute del reparto femminile lamentano la lontananza del presidio medico, posizionato nell’area maschile (fino alle ore 20 c’è un presidio nel settore femminile, ma subito dopo quell’ora le detenute fanno riferimento all’altro settore maschile). C’è, inoltre, un carente allineamento fra l’Asl e la struttura carceraria. Alcuni agenti della polizia penitenziaria attendono da un mese il rientro al lavoro, ma l’Asl di Caserta tarda a eseguire il terzo tampone: “E noi non possiamo andare a lavorare”, spiegano gli agenti. Per ogni problema, la dirigente del carcere fornisce una risposta: “L’ascensore è stato riparato”, spiega Elisabetta Palmieri. “Le infiltrazioni d’acqua? Non abbiamo possibilità economiche per riparare le finestre, ma indicheremo alla ditta di permealizzare le finestre con guaine”. Restano i nodi del citofono, dell’Asl e dell’acqua. Ma tanti altri problemi aspettano di essere risolti. Rovigo. I sindacati: “L’arrivo del carcere minorile va fermato a ogni costo” polesine24.it, 3 dicembre 2020 “In termini di sviluppo e crescita ulteriore del nostro Comune Capoluogo ed in particolare del suo centro storico, come condiviso da tutte le forze politiche locali nella scorsa campagna elettorale, resta tra le priorità la permanenza del Tribunale nella sua attuale allocazione”. Comincia così la nota stampa dei tre sindacati Cgil, Cisl e Uil, seguiti rispettivamente da Pieralberto Colombo, Samuel Scavazzin e Fabio Osti. “Il suo spostamento provocherebbe ulteriori difficoltà - prosegue l’analisi - anche potenzialmente occupazionali, alle varie attività economiche del centro che già sono in sofferenza a causa delle ricadute legate all’emergenza sanitaria in corso. Anzi gli spazi ora liberi della vecchia casa circondariale potrebbero finalmente essere utilizzati per l’unificazione in questa area del Tribunale stesso, oggi suddiviso in cinque diverse sedi distribuite in varie zone della città, con tutti i disagi che ciò comporta. L’unificazione potrebbe invece contribuire a dare un ulteriore impulso alla rivitalizzazione del centro storico, considerato anche che il Tribunale ha acquisito le competenze di 40 Comuni della Bassa Padovana”. “Questa questione si collega inevitabilmente alla vicenda del previsto trasferimento del carcere minorile da Treviso a Rovigo, proprio in questa area e con costi non indifferenti. Crediamo che il trasferimento del carcere minorile sia un errore sotto vari aspetti e che perciò vada contrastato. Innanzitutto perché impedirebbe l’allargamento del tribunale di Rovigo nella sua attuale collocazione in centro storico, ma anche perché comporterebbe per i giovani detenuti inseriti giustamente in percorsi di recupero - data la loro giovane età - una interruzione di tali percorsi dovendo trasferirsi di molti chilometri”. “Lo stesso valga per i lavoratori occupati a Treviso e per le stesse associazioni che collaborano nelle importanti attività sociali collegate. Tutte ragioni che ci spingono a dire che non è ancora troppo tardi per tentare di bloccare questa operazione se tutti gli attori coinvolti sapranno far sentire la voce del Territorio”. Castelfranco Emilia (Mo). Call center, lavanderia, vino e tortellini: il carcere “produce” di Antonella Barone gnewsonline.it, 3 dicembre 2020 Nella Casa di reclusione di Castelfranco Emilia, a pochi chilometri da Modena, negli ultimi anni è stata avviata una serie di progetti per valorizzare la produzione dell’Istituto che, oltre alla vasta area coltivabile, dispone anche di ampi spazi interni. L’azienda agricola, che si estende su 22 ettari di terreno, oggi ospita un vigneto diverse serre, stalle e un apiario. “Per valorizzare al meglio le potenzialità dei terreni - spiega la direttrice Maria Martone - è stato necessario mettere in atto una serie di azioni, a partire dalla possibilità di assumere più detenuti, dando loro una formazione specifica e qualificante, fino ad aprire l’azienda agricola a una collaborazione con il territorio. Detenuti adatti a questo tipo di attività sono stati selezionati grazie a due interpelli emanati dal Provveditorato che ci hanno permesso di creare una squadra fissa di circa quindici persone”. Ogni lavorante nell’azienda inizia la sua attività dopo la valutazione della sua idoneità da parte dall’equipe di osservazione e trattamento dell’Istituto, come previsto dall’art. dell’art. 21 dell’ordinamento penitenziario sul ‘lavoro all’esterno’ e usufruisce, sia pure con il controllo saltuario del personale addetto, di una graduale autonomia di movimento all’interno dello spazio dell’azienda. La scelta è stata da subito quella di offrire ai lavoratori una professionalità specifica e qualificata e, nel frattempo, di realizzare colture di qualità. Grazie alla collaborazione con un ente formativo, sono stati organizzati corsi professionali in orticoltura, viticoltura, conduzione di macchine agricole e apicoltura. Se l’azienda agricola è il settore di punta dell’intera struttura, negli ultimi anni hanno visto la luce altre attività produttive che, sottolinea la direttrice, “sono un esempio concreto di come sia possibile investire economicamente in carcere, con imprese che affiancano le finalità di profitto con il valore aggiunto dell’attenzione al sociale e al percorso di recupero dei detenuti”. Una di queste aziende è la Icall Work Calls You srl che, in uno spazio concesso dall’Istituto, ha allestito un call center dopo aver formato e assunto 10 detenuti come operai telefonici Out Bound. La lavanderia industriale, che eroga il servizio di lavaggio delle lenzuola anche per la casa circondariale di Modena, è invece gestita dalla Cooperativa sociale L’angolo. Recentissima, in quanto iniziata il 9 novembre, l’attività di produzione e commercializzazione all’esterno delle ostie, gestita dalla Cooperativa sociale Giorni Nuovi con il finanziamento della Curia di Bologna. In questa prima fase di avviamento vi lavorano due internati ma è previsto un aumento dei dipendenti nel corso dello svolgimento dell’attività produttiva. La creazione di un centro di produzione del tortellino si annuncia, infine, come il progetto che potrebbe portare visibilità all’intero panorama produttivo dell’Istituto anche per l’investimento, in termini di eventi divulgativi, da parte del Comune e da altre realtà locali. Il tortellino è, infatti, uno dei simboli di Castelfranco Emilia, che ha dedicato, non a caso, a questa specialità gastronomica un monumento per ricordarne la nascita leggendaria. Il laboratorio sarà gestito dall’associazione “San Nicola”, promotrice di iniziative a tutela delle tradizioni locali mentre una parte saliente della formazione, già in atto, è stata affidata alle “maestre sfogline”, esperte in questo specifico settore dell’arte pastaia. “Il progetto - aggiunge Maria Martone - è frutto di un’importante collaborazione che si è sviluppata tra il Comune, l’istituto Superiore Alberghiero e l’associazionismo di volontariato, interessati a vario titolo a rafforzare la rete di interazione del carcere con il suo territorio attraverso gli strumenti fondamentali della formazione professionale e del lavoro specialistico”. I detenuti e gli internati selezionati per l’attività, una volta conclusa la fase formativa retribuita saranno assunti e lavoreranno nel laboratorio all’interno del Forte Urbano della Casa di Reclusione. “Tutti questi progetti - conclude la direttrice - consentono di affermare che l’istituto penitenziario di Castelfranco Emilia è nelle condizioni organizzative, strutturali e logistiche per gestire processi produttivi completi e per generare posti di lavoro. È ora necessario proseguire nella ricerca di una rete stabile di collegamento con il mondo dell’imprenditoria e con la realtà economica e produttiva esterna. Una più ampia inclusione occupazionale può offrire un’immagine diversa del carcere, che non sia limitata solo a quella del luogo di sovraffollamento, di chiusura e di disagio sociale ma che facciano emergere anche la sua funzione formativa, sia in termini rieducativi sia professionali”. Meno “Relitti”, più persone di Andrea Carli Il Sole 24 Ore, 3 dicembre 2020 Il libro “Dei relitti e delle pene” di Stefano Natoli è in libreria per i tipi di Rubbettino. La domanda è di quelle “da un milione di dollari”, si direbbe, se non fosse che in questo caso non sono in gioco banconote ma qualcosa che vale- o dovrebbe valere - molto di più. Volti, nomi e cognomi, emozioni. E storie, quelle delle tante, troppe persone che vivono nelle carceri italiane in condizioni spesso disumane. “La galera è sempre e comunque la risposta giusta per punire chi sbaglia - ci si chiede - o questa soluzione non andrebbe considerata una sorta di extrema ratio, un qualcosa a cui ricorrere solo per i detenuti più pericolosi?”. Detta in altri termini: è proprio impossibile adottare un punto di vista diverso, e inserire nella riflessione la variabile che esistono delle alternative concrete ai 190 istituti di pena che sorgono nel nostro Paese? Sanzioni sostitutive come la libertà controllata, i lavori socialmente utili, la pena pecuniaria sostitutiva. È proprio questa la domanda a cui, in un contesto che vede l’Italia Paese condannato in più occasioni dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti “disumani e degradanti”, peraltro in una fase come quella attuale in cui l’emergenza sanitaria Covid-19 fa sì che il distanziamento sociale risulti determinante per il contenimento dei contagi e la tutela della salute delle persone (si pensi all’esplosione della protesta nelle carceri fra il 7 e il 9 marzo in decine di strutture penitenziarie), è proprio questa la domanda si diceva alla quale intende rispondere Stefano Natoli con il libro “Dei relitti e delle pene” (“Sottotitolo: Giustizia, giustizialismo, giustiziati. La questione carceraria fra indifferenza e disinformazione”). Un libro scritto, è bene metterlo subito in evidenza, da un giornalista, ricorso alla cassetta degli attrezzi del mestiere, a cominciare dalla cara vecchia abitudine di fare delle domande per avere delle risposte, per trarre dalla sua esperienza di volontario in un istituto penitenziario milanese, impegnato ogni giorno ad aiutare chi ha sbagliato, delle chiavi di lettura che possono essere utili a una collettività che troppo spesso considera la questione carceraria come qualcosa che sì esiste ma che alla fine si può anche trascurare, essendo un problema, quello dell’umanità reclusa, che in fin dei conti c’è sempre stato, e fin quando questi ultimi rimangono ai margini della società beh, non è un grande problema. “Chi scrive - chiarisce Natoli - è convinto di andare in carcere per ribadire a chi ha fatto scelte sbagliate - per sé e per gli altri - che esiste un modo diverso di affrontare le difficoltà che la vita ci presenta; un modo che non prevede il ricorso più o meno sistematico al crimine e alla violenza, ma un impegno costante e laborioso a sviluppare le proprie capacità, per poi metterle a disposizione dell’intera comunità, rispettando, sempre e comunque, i diritti del prossimo”. Di qui il titolo del libro che “rilegge” quello dell’opera del grande illuminista Milanese Cesare Beccaria “Un titolo - spiega l’autore - che vuole puntare i riflettori, più che sui delitti, sui loro autori, sui relitti appunto. Relitti, perché - rimarca Natoli - i detenuti in fondo sono come dei naufraghi: hanno navigato nel mare in tempesta della vita e a un certo punto sono andati alla deriva”. Il carcere continua a essere trascurato, a produrre sofferenza. La macchina attuale è una montagna che grava per tre miliardi di euro l’anno sulle esili spalle di un nano, ovvero le casse già in difficoltà del bilancio pubblico. Il risultato è un sistema che crea un disagio fortissimo nei relitti, li priva del loro essere persone, e li spinge nei casi più estremi e drammatici a togliersi la vita (52 suicidi nel 2017, 67 nel 2018, 53 nel 2019). Attualmente nelle carceri sono stipate oltre 61mila persone (al febbraio 2020), 15mila in più rispetto alla capienza effettiva. Il sovraffollamento è il grande nemico, ma non è l’unico. Don Raffaele Grimaldi, che per 23 anni è stato cappellano del carcere di Secondigliano, è dell’opinione che il problema più grande dei detenuti sia fuori dalla cella, nell’indifferenza di un’opinione pubblica sempre più incline a giudicare (e quindi a condannare) piuttosto che a capire. “È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” diceva il padre della teoria della Relatività Albert Einstein. L’emergenza sanitaria Covid-19, si diceva. I detenuti positivi stanno sfiorando la soglia dei mille casi. L’epidemia sanitaria ha fatto in modo che le storture che da sempre appartengono al sistema detentivo si intrecciassero con nuove sfide. Di fronte allo spettro di una seconda ondata di epidemia, bisogna far tesoro delle lezioni ricevute. Come? Oltre a un maggior ricorso alle misure alternative alla detenzione, Natoli propone che gli spazi del carcere vengano urgentemente ridisegnati, rendendoli finalmente a misura d’uomo; la sanità penitenziaria venga completamente ripensata (oggi abbiamo un medico ogni 315 detenuti); le tecnologie introdotte a causa dell’emergenza escano più, ma siano anzi estese già nel prossimo futuro ai percorsi rieducativi e socializzanti. E poi, si legge nel libro, “il carcere non può fare a meno delle attività educative e del lavoro del volontariato”. La cruda realtà degli istituti di detenzione rimane troppo spesso confinata dietro le sbarre, lontana da occhi che non vedono perché non vogliono vedere. Nascosta. Come le storie e le esistenze dei detenuti. I Relitti, appunto. È ora di aprire la finestra, di fare entrare un po’ di luce e, soprattutto, di tornare a chiamarli persone. (“Dei relitti e delle pene. Giustizia, giustizialismo, giustiziati. La questione carceraria fra indifferenza e disinformazione”, Stefano Natoli, Rubbettino, 204 pagine, 15 euro). “Liberaci dai nostri mali”: uno sguardo “interno” alle carceri italiane di Michela Porta triesteallnews.it, 3 dicembre 2020 La giornalista Katya Maugeri è l’autrice del libro “Liberaci dai nostri mali-Inchiesta nelle carceri italiane: dal reato al cambiamento” edito da Villaggio Maori. Primo scritto dell’autrice siciliana, affronta il tema della detenzione in carcere tramite le testimonianze di chi vi si trova al suo interno. Una visione intimista, con testimonianze senza filtri che mirano ad essere un percorso di prevenzione. Con esso l’autrice si insinua nelle vite di sette carcerati in modo discreto, quasi in punta di piedi per non disturbare. Un prima e un dopo, quello nella vita degli intervistati, che trova una ‘pausa’ simile ad una lente di ingrandimento nel limbo della prigione in cui l’identità si annulla improvvisamente diventando un semplice numero in attesa, come tanti altri, di poter tornare a respirare. Il volume inizia mettendo in chiaro fin da subito che verranno fatte conoscere le condizioni - non le giustificazioni - che hanno portato questi uomini a compiere determinati reati. Decisioni a volte improvvise, altre partite dalla disperazione, altre ancora sottovalutando la scelta che si stava per fare. Nel rapporto con i detenuti, l’autrice non è giudice ma veste i panni della giornalista obiettiva, testimone imparziale pronta ad accogliere i messaggi che alle volte tendiamo a non voler ascoltare pensando non ci riguardino. Vari i temi trattati, dall’importanza dell’articolo 21 che ammette la possibilità del lavoro esterno, alla differenza che può fare il sostegno dall’esterno, fino al fondamentale diritto e bisogno di stimoli per poter vedere una luce di speranza in fondo al tunnel. Sette singoli percorsi, ognuno diverso dall’altro, che hanno portato molto spesso in modo lento ed inconsapevole verso un baratro derivante da uno stile di vita diventato ormai abitudine. Il messaggio principale che accompagna il libro è l’importanza di raccontare le carceri come strutture rieducative e non più solo come strutture punitive, considerando il detenuto degno di un progetto di vita che lo soddisfi dentro e al di fuori dal carcere per non ricadere nel vortice delle emozioni malate dalle quali era ‘soggiogato’ prima di finire in prigione. La sfida raccontata da questi uomini è duplice in quanto, oltre allo sconto della pena, c’è il bisogno di trovare in sé stessi la volontà di cambiare, di cadere e riprovarci più volte, di ripulirsi mente e cuore, iniziando a vedere la vita con occhi nuovi e trovando soddisfazione nei piccoli e grandi miracoli del mondo reale. La sfida delle nostre carceri e di coloro che accoglieranno i detenuti al di fuori di esse è quella di renderlo possibile. Quella dei lettori, infine, è di conoscere il lato oscuro che - consciamente o no - fa parte di noi, perché solo comprendendo a fondo è possibile scegliere. L’Onu: “Via la cannabis dalla lista delle sostanze dannose” di Matteo Grittani La Stampa, 3 dicembre 2020 Le Nazioni Unite questa mattina hanno riconosciuto ufficialmente le proprietà medicinali della cannabis in un voto espresso a Vienna dagli Stati Membri nel corso della Commissione droghe delle Nazioni unite (Cnd), l’organo esecutivo per la politica sulle droghe. In agenda c’era il voto su sei raccomandazioni che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ha adottato qualche anno fa e che volevano ricollocare la cannabis all’interno delle quattro tabelle che dal 1961 classificano piante e derivati psicoattivi a seconda della loro pericolosità. La cannabis viene quindi tolta dalla tabella 4, quelle delle sostanze ritenute più pericolose in virtu’ dei suoi impieghi terapeutici. Da notare che l’Ungheria ha votato contrariamente alla posizione comune dell’Ue. “La decisione di oggi toglie gli ostacoli del controllo internazionale, imposti dal 1961 dalla Convenzione unica sulle sostanze narcotiche, alla produzione della cannabis per fini medico-scientifici”, ha detto Marco Perduca, che per l’Associazione Luca Coscioni, attiva a livello internazionale a tutela del diritto alla scienza e alla salute, coordina la campagna ‘Legalizziamo!’. Perduca ha aggiunto che il voto è importante “anche perché’ le raccomandazioni dell’Oms erano state elaborate sulla base della letteratura scientifica prodotta negli anni, in condizioni molto difficili”. “Finalmente la scienza diventa un elemento fondamentale per aggiornare decisioni di portata globale, come quelle delle Convenzioni nu sulle droghe, non solo ai mutati scenari sociali e culturali ma anche alla luce del progresso scientifico”, aggiunge Perduca. Dei 53 Stati quasi tutti quelli appartenenti all’Unione Europea - ad eccezione dell’Ungheria - e alle Americhe hanno votato a favore, compresa l’Italia, raggiungendo la maggioranza di un solo voto, a quota 27. Gran parte dei paesi asiatici e africani, invece, si sono opposti. Questo cambiamento faciliterà la ricerca scientifica sulla la cannabis, nota per i benefici nella cura del morbo di Parkinson, della sclerosi, dell’epilessia, del dolore cronico e del cancro. Cannabis, l’Onu riconosce il valore terapeutico di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 3 dicembre 2020 La sostanza è stata rimossa dalla tabella IV, la granitica convenzione del 1961 viene finalmente scalfita. Con 27 voti a favore (quasi tutti i paesi Ue, Ungheria esclusa), a Vienna cade il tabù. Al termine di un processo durato oltre 2 anni la 63esima sessione Commission on Narcotic Drugs (Cnd) dell’Onu, riconvocata dal 2 al 4 dicembre, ha ufficialmente riconosciuto il valore terapeutico della cannabis. Ha infatti modificato quelle che sino a ieri erano le granitiche classificazioni della convenzione del 1961, eliminando la cannabis dalla tabella IV, quella delle sostanze a rischio particolarmente forte di abuso e senza alcuna utilità terapeutica. La cannabis rimane nella tabella I, quella delle sostanze pericolose. Pur parziale e risicato è stato un voto storico. Per la prima volta la Cnd, 27 voti a favore, 25 contrari e 1 astenuto, ha derubricato una sostanza presente nelle convenzioni, rompendo un tabù di quella “chiesa della proibizione” di cui ha scritto tempo fa Peter Cohen (Fuoriluogo, maggio 2003). Anche per questo, la bocciatura delle restanti 5 raccomandazioni (su ricollocazione nelle varie convenzioni, estratti e tinture e Cbd) assume un valore molto relativo, rimanendo agli atti le osservazioni scientifiche dell’Oms e la valutazione tutta politica di queste, espressa nel voto dei paesi membri della Cnd. La cannabis non sarà quindi più soggetta alle “misure speciali di controllo” previste per le sostanze presenti in tabella IV. Sarà possibile per tutti i paesi introdurre legislazioni per sostenere la ricerca e per la sua produzione e uso medico senza più l’alibi della sua presenza nella tabella più vincolante della convenzione sugli stupefacenti. È stato un processo complicato: dalla presentazione ufficiale da parte dell’Oms, rimandata di un mese, ai due rinvii alla Cnd che facevano presagire un tentativo di far saltare il voto. È rarissimo che il parere scientifico dell’Oms arrivi in aula per uno scrutinio, e non approvato all’unanimità. Pesava la ferma opposizione, tutta ideologica, di Russia e Cina e di molti paesi asiatici ed africani. Nella conta finale è stato determinante il parere positivo dell’Unione Europea, Italia inclusa, che ha votato a favore di 4 delle 6 raccomandazioni. Non farebbe notizia la defezione dell’Ungheria, se non fosse che si è allontanata dalla prassi dell’Ue di votare all’Onu conformemente alle decisioni prese in sede europea. La decisione della Cnd è il primo cambio di rotta nel sistema internazionale del controllo delle sostanze stupefacenti. È importante perché è caduto un tabù, quello sulla cannabis. Ieri la massima autorità sanitaria mondiale è riuscita a convincere la culla della guerra alla droga, che la cannabis non è la “pianta del demonio”, bensì una risorsa terapeutica. Se è evidente che il vento ideologico del proibizionismo soffia ancora forte, lo è altrettanto che la rotta per la riforma è ormai alla prossima boa. È una vittoria delle associazioni della società civile, che a livello nazionale, europeo e globale hanno lavorato per questa svolta. Associazione Luca Coscioni, Forum Droghe, la Società della Ragione e Drcnet nel maggio 2018 avevano depositato all’Oms una memoria sull’esperienza allora decennale della cannabis terapeutica in Italia. Il governo italiano non presentò niente. Le stesse associazioni hanno poi presentato in questa sessione un documento firmato da un centinaio di ong internazionali, a sostegno dell’approvazione delle raccomandazioni. Cosa cambia per l’Italia? In primis non ci sono più scuse per non completare il quadro normativo e allo stesso tempo ampliare la produzione italiana di cannabis terapeutica. A partire dagli impegni che lo Stato si prese a fine 2017 nel decreto fiscale: è ben lontana dall’essere realtà la triplicazione della produzione di cannabis terapeutica a cura dell’Istituto Chimico Farmaceutico di Firenze, mentre nulla sappiamo dell’apertura della produzione nazionale ai privati, ormai indispensabile, della formazione del personale sanitario e della copertura dei costi per i pazienti da parte del Servizio Sanitario Nazionale. Da mesi, anche con un digiuno a staffetta che ha raggiunto i 300 aderenti, la Società Civile ha chiesto di non fare passi indietro, come adombrato da inopinate circolari e curiosi decreti ministeriali che hanno messo in crisi pazienti, medici e farmacisti italiani. Ora la politica deve fare il suo. Egitto, ondata di esecuzioni capitali negli ultimi due mesi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 3 dicembre 2020 Almeno 57, ma potrebbero essere state addirittura 91. Parliamo di condanne a morte eseguite in Egitto a ottobre e novembre. Il primo dato si riferisce alle esecuzioni accertate da Amnesty International, il secondo a quelle riferite dalla stampa filogovernativa. L’ondata di esecuzioni ha fatto seguito a una rivolta scoppiata il 23 settembre nell’ala del carcere di massima sicurezza di Tora nota come “lo Scorpione”, in cui rimasero uccisi quattro prigionieri condannati a morte e quattro membri delle forze di sicurezza. Secondo le autorità, si trattò di un tentativo di evasione ma non c’è mai stata un’indagine indipendente e trasparente sull’accaduto. Oltre ai 15 prigionieri messi a morte al termine di processi relativi a fatti di violenza politica, tra ottobre e novembre sono state eseguite altre 42 condanne a morte nei confronti di 38 uomini e quattro donne, per atti di criminalità comune, tra cui stupri. Il 3 ottobre sono stati messi a morte due uomini condannati al termine di un maxi-processo per quelli che sono passati alla storia come “i fatti della Biblioteca alessandrina”, atti di violenza politica seguiti al sanguinoso sgombero del sit-in di Rabaa, al Cairo, nell’agosto 2013. Il 4 ottobre, nel caso conosciuto come “Agnad Masr”, 10 uomini sono stati messi a morte per atti di violenza contro pubblici ufficiali e beni pubblici. Nel corso del processo gli imputati avevano denunciato di essere stati sottoposti a tortura e a sparizione forzata, ma non è poi stata disposta alcuna indagine. A processo ancora in corso, uno degli imputati che poi sarebbero stati messi a morte, Gamal Zaki, era stato costretto a “confessare” in una dichiarazione filmata trasmessa da numerose emittenti televisive. Sempre il 4 ottobre altri tre prigionieri sono stati messi a morte al termine del processo per “l’attacco alla stazione di polizia di Kerdasa”, sempre successivo allo sgombero di Rabaa, in cui erano morti 13 agenti di polizia. Nel dicembre 2014, un tribunale antiterrorismo aveva condannato 183 imputati a morte (34 dei quali in contumacia). In appello, erano state confermate 20 condanne a morte. Gli altri 17 condannati restano nel braccio della morte. Nove organizzazioni per i diritti umani avevano denunciato le gravi violazioni del diritto a un giusto processo, tra cui il diniego del diritto alla difesa e le coercizioni utilizzate per estorcere “confessioni”. Oltre ai 57 casi verificati, Amnesty International sta cercando di ottenere conferma delle altre 34 esecuzioni riferite dalla stampa filogovernativa egiziana. Le famiglie sono riluttanti a parlare con le organizzazioni per i diritti umani per il timore di ripercussioni. Altrettanto difficile è accertare il numero di prigionieri in attesa di esecuzione. Tra questi vi è sicuramente Wael Tawadros, noto come padre Isaia, un monaco condannato nell’aprile 2019 per l’omicidio del vescovo Anba Epphanius. Tawadros è stato condannato a morte al termine di un processo gravemente iniquo, basato su una “confessione” di colpevolezza estorta con la tortura durante un periodo di sparizione forzata, tra il 2 e il 28 agosto 2018. Egitto. “Zaki in cella dorme per terra da 11 mesi” Il Riformista, 3 dicembre 2020 Per la prima volta l’avvocato Huda Nasraallah ha potuto incontrare Patrick George Zaki, suo assistito. Lo studente egiziano dell’Università di Bologna, 29 anni, è detenuto nel carcere di Tora, il Cairo, dallo scorso febbraio. La pagina Facebook Patrick Libero che segue costantemente il caso ha riportato dell’incontro. E ha sottolineato le condizioni disumane nelle quali si trova Zaki. Dorme per terra dall’arresto. E perciò soffre di dolori alla schiena. È stato accusato di propaganda sovversiva. Rischia 25 anni di carcere. “Oggi, mercoledì 2 dicembre, l’avvocato di Patrick -Huda Nasraallah ha potuto fargli visita per la prima volta da quando è stato arrestato - si legge nel post su Facebook - La visita è stata generalmente piacevole, sono stati contenti di poter parlare tra loro per un po’ - in presenza di un ufficiale - e lui le ha raccontato un po’ della sua situazione. Huda è rimasto sorpreso di sapere che da quando è stato arrestato dorme per terra, cosa di cui non ha mai parlato o di cui si è lamentato prima, e l’unico motivo per cui lo ha fatto ora è che ha chiesto una pomata e una cintura di sostegno per la schiena, visto che soffre di mal di schiena. I genitori di Patrick sono preoccupati perché non si è mai lamentato di tali problemi di salute prima d’ora, ed è noto per non lamentarsi e sopportare il dolore fisico senza chiedere aiuto, il fatto che abbia chiaramente chiesto aiuto ci rende davvero preoccupati per le sue condizioni di salute che potrebbero solo peggiorare con il freddo”. Zaki è stato arrestato lo scorso 11 febbraio. Il 22 novembre la custodia cautelare presso il carcere di Tora è stata rinnovata per altri 45 giorni. Le accuse sono di istigazione al terrorismo per alcuni post su Facebook. Il caso ha spinto Amnesty International a parlare di “accanimento giudiziario” e a chiedere “un’azione diplomatica” italiana “molto forte” sull’Egitto. I post incriminati sarebbero una decina. Tra i reati contestati anche la “diffusione di notizie false”, “incitamento alla protesta” e “istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”. Per i capi dei quali Zaky è accusato, lo studente rischia 25 anni di carcere. I legali dello studente 29enne insistono su un aspetto: i post sarebbero stati pubblicati da un account quasi omonimo ma diverso dal suo. Proprio oggi l’attrice Scarlett Johansson aveva lanciato un appello alla liberazione di Zaki e di quella di altri tre dirigenti dell’ong egiziana per la difesa dei diritti civili Eipr (Iniziativa egiziana per i diritti personali). Iran, rimandata l’esecuzione del ricercatore Djalali di Gabriella Colarusso La Repubblica, 3 dicembre 2020 Le autorità iraniane hanno posticipato l’esecuzione di Ahmadreza Djalali, il medico e ricercatore con doppia nazionalità iraniana e svedese che aveva lavorato in Italia. Trattative e pressioni europee per la grazia. L’esecuzione di Ahmadreza Djalali, il ricercatore svedese-iraniano condannato a morte per spionaggio in Iran, è stata sospesa temporaneamente. Djalali avrebbe dovuto essere trasferito martedì sera dalla prigione di Evin, a nord di Teheran, dove è detenuto in isolamento da una settimana, al penitenziario Rajai Shahr di Karaj dove vengono eseguite le condanne a morte. Così era stato comunicato alla moglie Vida Mehrannia, ma il trasferimento è stato bloccato. L’arrivo a Rajai Shahr è un punto di non ritorno, vuole dire che la finestra della diplomazia è chiusa. Fonti che seguono il caso da vicino confermano invece che ci sono ancora trattative in corso tra i governi svedese e belga - Djalali è professore associato anche alla Vrije Universiteit di Bruxelles - e quello iraniano per ottenere la clemenza. “L’ufficio per l’attuazione delle sentenze ha detto che è arrivato un ordine superiore secondo il quale per i prossimi giorni l’esecuzione è sospesa”, riferisce Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International. Associazioni per i diritti umani, politici, attivisti in Italia e in Europa si stanno mobilitando in queste ore per chiedere la liberazione dello studioso. Il Parlamento europeo ha chiesto tramite il suo presidente, David Sassoli, che le autorità iraniane facciano un gesto di clemenza, e secondo l’agenzia di stampa Agi anche l’ambasciata italiana a Teheran si è “unita all’iniziativa diplomatica guidata dalla Svezia per far pressioni sulle autorità iraniane”. “Nessuna ragione di Stato giustifica l’uccisione di un uomo. Si fermi il boia, si risparmi la vita dello scienziato Ahmad Reza Djalali padre di due figli. Alle autorità dell’Iran rivolgiamo l’appello accorato a un gesto di clemenza e di umanità. Anche il governo italiano agisca”, ha scritto su Twitter il presidente della commissione Esteri della Camera, Piero Fassino. Il deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha presentato una interpellanza al ministro degli Esteri, Luigi di Maio, “per sapere in che modo il governo intenda attivare i canali diplomatici per provare a salvare la vita dello scienziato iraniano”. Le trattative sul caso Djalali arrivano in un momento di forti tensioni dentro e intorno all’Iran. Venerdì scorso è stato ucciso in un’imboscata lo scienziato nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh, un agguato che l’Iran denuncia come “atto terroristico”, chiedendo la condanna dell’Europa e dell’Onu. Mercoledì mattina l’ambasciata iraniana a Roma, in un tweet di risposta a un utente, ha scritto: “Chi ha martirizzato Fakhrizadeh, un grande scienziato, sicuramente si reputa innocente come Djalali, le cui mani sono macchiate del sangue dei suoi connazionali ed è stato condannato per spionaggio in tribunale, con prove sufficienti e quindi deve essere punito. Stop ai doppi standard”. Iran. L’avvocatessa Nasrin Sotoudeh torna in carcere agi.it, 3 dicembre 2020 Difensore delle donne in Iran, il suo rilascio temporaneo è durato meno di un mese. Deve scontare una pena di 12 anni. Come anticipato ieri dalle Ong, l’avvocatessa iraniana per i diritti umani Nasrin Sotoudeh è tornata in prigione meno di un mese dopo il suo rilascio temporaneo. Deve scontare una pena di 12 anni di carcere. A confermarlo è stato suo marito Reza Khandan: “Nasrin è tornata in prigione”, ha detto. Sotoudeh, 57 anni e vincitrice del premio Sakharov del Parlamento europeo, era stata rilasciata il 7 novembre dopo aver ottenuto un congedo temporaneo ed essere risultata positiva al Covid-19. L’avvocatessa e attivista è in carcere dal 2018 per aver difeso una donna arrestata per le proteste contro l’obbligo per le donne iraniane di indossare l’hijab. All’epoca era stata condannata a cinque anni di carcere in contumacia per spionaggio, ma nel 2019 è stata le sono stati inflitti 12 anni di carcere “per aver incoraggiato la corruzione e la dissolutezza”. Secondo suo marito, la salute di Sotoudeh si è gravemente compromessa durante la detenzione e a settembre l’attivista ha terminato uno sciopero della fame di 45 giorni che aveva cominciato per chiedere il rilascio dei prigionieri a causa della diffusione della pandemia di coronavirus nelle carceri. Le “autorità giudiziarie hanno insistito perché tornasse oggi” in prigione, ha detto suo marito. L’avvocatessa è risultata positiva al Covid-19 pochi giorni dopo il suo rilascio temporaneo, ha detto Khandan. Il mese scorso, l’Iran ha registrato quasi 49 mila decessi per coronavirus e oltre 989 mila casi. La Repubblica islamica è il paese più colpito del Medio Oriente. Da marzo a più di 100 mila detenuti è stata concessa una liberazione temporanea per limitare la diffusione della malattia nelle carceri, molti però sono poi tornati in prigione.