Un altro anno da dimenticare per il carcere di Giuseppe Rizzo internazionale.it, 31 dicembre 2020 Nel maggio del 2020 Sarah Stillman si chiedeva sul New Yorker se il coronavirus avrebbe messo in discussione l’incarcerazione di massa. Stillman si riferiva agli Stati Uniti, il paese con più detenuti in rapporto alla popolazione: 655 ogni 100mila abitanti. Ma in fatto di galere la corsa a chiuderci dentro quante più persone possibile è combattuta, e il tifo è rumoroso: se si può fare male, si farà peggio. Perciò la domanda è interessante anche rispetto all’Italia, che ha 90 detenuti ogni 100mila abitanti e dal 1990 a oggi ha visto raddoppiare le persone in galera, passando da circa 24mila a più di 60mila nel gennaio del 2020. In questi mesi il covid-19 ha scalfito l’idea che non ci siano alternative alle celle che con grande spensieratezza la lingua del ministero della giustizia chiama “camere”? Per poter rispondere a questa domanda bisogna riavvolgere il nastro e guardare cos’è successo negli ultimi 365 giorni. Gennaio - Il 2020 si apre con quasi 61mila persone dietro le sbarre, anche se i posti disponibili sono circa 47mila. Cinquemila detenuti scontano pene inferiori a due anni, potrebbero chiedere i domiciliari, ma molti sono senza avvocati o non hanno un domicilio: sono senzatetto, stranieri o persone che è meglio che non tornino dalle famiglie. Qualcuno toglie d’impaccio tutti e si uccide. Nelle ultime settimane del 2019 lo fanno quattro senzatetto, tre in attesa di giudizio. Uno si chiamava Diego Fernando Cardenas. Arrestato a Venezia per droga, aveva provato a tagliarsi le vene alla vigilia di Natale, ma era stato salvato. A santo Stefano ci aveva riprovato e ci era riuscito, impiccandosi con i lacci delle scarpe. Aveva 33 anni ed era nato il giorno di Natale, i compagni dicono che l’idea lo rattristasse. Febbraio - A metà mese si registrano i primi focolai di covid-19 in Italia. Ma in carcere anche in fatto di virus le lancette vanno tirate indietro: ad Agrigento ci sono venti casi di tubercolosi, mentre in generale il contagio più diffuso riguarda l’epatite c. Nel giro di pochi giorni la paura cresce. Niente più trasferimenti di detenuti da e per Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze. A Bologna sono sospese le visite dei familiari. A Padova la polizia penitenziaria chiede “celle chiuse”. Le otterrà, come via via nel resto degli istituti del paese. Niente più volontari o familiari. Marzo - La domenica in carcere è un giorno vuoto, senza visite o attività, senza colori. C’è la messa, per chi ci crede, e il letto per tutti gli altri. L’8 marzo è una domenica diversa. Decine di proteste e rivolte esplodono in 49 istituti. La miccia è accesa il 7, l’incendio va avanti fino al 9. “È il frutto di un’accumulazione combustibile sulla quale cade finalmente una scintilla: e la scintilla qui era, sul sovraffollamento, sulla malattia, sulla miseria igienica, l’avvento del panico dell’epidemia”, scrive Adriano Sofri. Muoiono quattordici detenuti, nove a Modena. Secondo le autorità tutti per overdose dopo aver rubato farmaci e metadone nelle infermerie. Con il passare delle settimane si diffondono le storie di violenze e ritorsioni da parte della polizia, di detenuti picchiati o minacciati dopo le rivolte. Il ministro della giustizia Alfonso Bonafede non dice una parola per giorni. Aprile - Dall’inizio della pandemia si fanno molti conti. Si contano i casi di covid-19 nel paese, si contano i morti, si contano i giorni di lockdown. Si contano gli scarcerati grazie al decreto cura Italia, ai motivi di salute e ai permessi per chi è in semilibertà: quattromila persone. Tra loro non c’è Vincenzo Sucato, 76 anni, accusato di associazione mafiosa, cardiopatico, diabetico e con problemi ai polmoni: chiuso nel carcere la Dozza di Bologna, in attesa di giudizio, è il primo morto per covid-19 tra i detenuti. Qualcuno si prende la briga di contare anche il numero dei bambini in cella. Il 1 aprile ce ne sono 55, hanno meno di tre anni e sono dietro le sbarre con le madri. Mentre si pensa a cosa fare di loro, il 6 aprile i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere protestano per chiedere mascherine e protezioni. Rientrano pacificamente nelle celle, ottengono “calci, pugni e colpi di manganello” da “circa 400 agenti di polizia penitenziaria”. Cinquantasette agenti saranno indagati. Maggio - Riaprono bar, negozi, musei, parrucchieri e palestre. Riprendono le messe. I carceri rimangono chiusi a famiglie e volontari. Secondo il garante nazionale dei detenuti il 1 maggio ci sono 159 casi di Covid-19 tra i detenuti e 215 tra il personale penitenziario. Da marzo sono uscite di galera quasi ottomila persone. Rispetto ai primi mesi del 2019, i delitti sono diminuiti. Giugno - Dal 3 ci si può spostare tra le regioni, dal 12 riaprono le discoteche. A Rebibbia, a Roma, entra un detenuto positivo asintomatico. Paolo B. ha dei contatti con lui e per questo è messo in isolamento sanitario. Solo che in galera l’isolamento sanitario, si può capire, ha poco di sanitario e molto di isolamento: una cella da dove non si può uscire se non per l’ora d’aria. Per Paolo B. è la seconda esperienza del genere. Al termine del primo isolamento sanitario, un mese e mezzo prima, aveva provato ad ammazzarsi. Ora ci riprova. Il 6 giugno lo trovano impiccato. Prima di lui, e per i motivi più diversi, dall’inizio dell’anno si sono uccisi altri 21 detenuti in tutto il paese. Due in isolamento sanitario come Paolo B. Luglio - “In questi giorni di caldo tanti istituti hanno le sezioni per i detenuti chiuse venti ore al giorno. In questo senso è famosa la cella 55 del carcere di Poggioreale dove ci sono 14 detenuti in una stanza con una finestra”, Samuele Ciambriello, garante dei detenuti in Campania. A fine luglio in tutta Italia ci sono 53.619 detenuti. In 24 istituti il sovraffollamento supera il 140 per cento. A Latina è del 197,4 per cento. Agosto - Nei penitenziari di Sulmona, Augusta e Santa Maria Capua Vetere manca spesso l’acqua. Quando c’è, esce dai rubinetti gialla. A Bologna una bimba rimane quattro giorni in una cella di isolamento con la mamma. Entrambe sarebbero dovute andare in un istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam), che però sono solo cinque in Italia, o in una casa famiglia, dove non c’è posto per loro. Settembre - In Campania si vota per le regionali. In carcere lo fanno 48 detenuti su circa mille che ne hanno diritto. Nel 2018 erano stati 120. “I detenuti non sono incentivati a votare perché nessuno si occupa di loro”, dice Annamaria Ziccardi, presidente dell’associazione Carcere possibile. A Poggioreale, una delle strutture più grandi in Europa, votano in tre, mentre nelle celle si fa i conti con la scabbia e la sifilide. Ottobre - Secondo un sondaggio Swg il 37 per cento degli italiani vorrebbe che nel paese fosse reintrodotta la pena di morte per i reati gravi. Nel 2017 erano il 35 per cento, nel 2015 il 25 per cento. Novembre - Dal 29 ottobre al 29 novembre il numero di positivi tra personale penitenziario e detenuti è passato da 350 a 1.829. Riccardo Arena pubblica una parte della lettera ricevuta da Radio Radicale: “Noi detenuti viviamo ogni giorno nel terrore di essere contagiati dal virus e di morire qui dentro. In queste celle sovraffollate è impossibile rispettare il distanziamento e non abbiamo mascherine o gel disinfettante”. A Torino uno di loro ha il diabete e il covid-19, lo curano con la tachipirina. Tremila potrebbero chiedere i domiciliari, ma 1.100 non hanno una casa. Dicembre. In Italia sono ancora chiuse in galera circa 53mila persone, i posti disponibili sono ancora 47mila. Restano in cella, con le madri, 34 bambine e bambini. Cinquantacinque detenuti si sono uccisi, di molti non si conoscono i nomi, di tutti ci si dimenticherà presto. Alla vigilia di Natale nel carcere di Terni c’è stato un blackout. La luce è andata via nel tardo pomeriggio e l’istituto è rimasto al buio per tre ore. I detenuti non erano ancora nelle loro celle, la polizia dentro non trovava le torce e quella fuori aveva circondato la struttura pronta al peggio. Ci si aspettava il peggio da un carcere in tilt: ma il peggio non arrivava, il peggio era già lì, il peggio era il carcere stesso. Giusta immagine, e terribile, per chiudere il 2020 e per sintetizzare la risposta alla domanda iniziale: il coronavirus ha cambiato il modo di concepire la galera? No, l’anno appena passato lo dimostra. In dodici mesi sono uscite di galera qualche migliaio di persone, dimostrando che non c’era bisogno di tenercele: l’Italia non è diventato un paese in mano alle bande. Sarebbe facile tirarne altre fuori, perché condannate per piccoli spacci o furti che meriterebbero misure alternative in grado di farle tornare a lavorare o a studiare, perché costrette all’illegalità dalle leggi sull’immigrazione, perché malate, perché in attesa di giudizi che arriveranno dopo anni. Si conserverebbe intatto il senso della giustizia e forse anche un po’ d’immaginazione, perfino di dignità, anche se per moltissime persone associare la parola dignità alla prigione è impensabile, per alcune prima ancora di pensarci, per molte anche dopo averci pensato. Difesa dei detenuti e diritti umani di Mauro Palma* La Repubblica, 31 dicembre 2020 Roberto Saviano ha dedicato un opportuno commento, apparso su Repubblica del 28 dicembre, alla doverosa istituzione in Italia della Commissione nazionale indipendente sui diritti umani In un passaggio Saviano auspica che la Commissione osservi “come sono gestite le carceri” e “come vengono trattate le questioni in materia di migranti”. Saviano sembra ignorare che in materia di privazione della libertà in Italia esiste già un’istituzione nazionale indipendente conforme ai Principi di Parigi: è l’Autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale che ho l’onore di presiedere. Istituita per legge nel 2013, operativa da marzo 2016, costituisce il Meccanismo nazionale di prevenzione previsto dal Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura e le pene o i trattamenti crudeli inumani e degradanti, ratificato dall’Italia. È certamente auspicabile un organismo che vigili sulla tutela di tutti, ma una Commissione del genere non deve sovrapporsi a istituzioni indipendenti già in funzione che presidiano alcune aree di vulnerabilità rispetto all’effettività dei diritti Altrimenti si corre il rischio che a una accresciuta presenza di istituzioni di questo tipo non si accompagni un reale innalzamento del livello di protezione. *Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. La riforma del carcere e la mancanza di coraggio della politica di Franco Insardà Il Dubbio, 31 dicembre 2020 Si dice che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, e sul carcere di belle parole ne abbiamo sentite sempre tante. Solo il Partito radicale, proseguendo l’azione di Marco Pannella, non ha mai smesso di lottare per assicurare una vita dignitosa ai detenuti, ma anche a tutto il personale e ai volontari che operano negli ambienti carcerari. Rita Bernardini e gli altri esponenti radicali ogni giorno sono in contatto con chi è in carcere e con le loro famiglie. Sono instancabili nel sollecitare un cambio di passo nel rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Così come va menzionata l’azione costante del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e quella dei garanti territoriali. Ma nulla si muove. Eppure a ottobre 2013 era intervenuto il Quirinale con il messaggio dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Parlamento, nel quale denunciava il grave sovraffollamento e chiedeva misure deflattive, compresi l’indulto e l’amnistia. Dopo sei mesi, nel 2014, l’altra sollecitazione, in occasione dello sciopero della sete di Marco Pannella sospeso dopo una telefonata di papa Francesco, con la quale Napolitano chiedeva alla Camere una verifica “sulle misure adottate e da adottare, anche in ossequio alla nota sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. Nel 2016 ci sono stati anche il Giubileo dei detenuti e la quarta Marcia per l’Amnistia intitolata a Marco Pannella e Papa Francesco, al quale fu consegnato un libro con le firme di ventimila detenuti. E poi tanti scioperi della fame di Rita Bernardini e di altri esponenti del Partito radicale, ai quali hanno aderito migliaia di reclusi, le loro famiglie, giuristi, intellettuali e liberi cittadini. E ancora, le visite periodiche nelle carceri italiane, e quelle di Ferragosto, Natale, Capodanno e Pasqua diventate ormai storiche, oltre che irrinunciabili. Nella precedente legislatura si celebrarono addirittura gli Stati generali, con una serie di tavoli tematici, per mettere a punto una riforma organica del sistema carcerario. Sembrava fatta e invece l’avvicinarsi delle elezioni e la montante onda populista spaventarono l’allora segretario del Pd Matteo Renzi, e quella riforma, che avrebbe consentito al sistema carcerario un passo notevole verso la civiltà e il rispetto delle regole, rimase nel cassetto. Ogni tanto qualche organo di informazione scopre che esistono il carcere, il sovraffollamento, le carenze sanitarie, i maltrattamenti. Noi nel nostro piccolo dal primo numero del Dubbio quotidianamente seguiamo e documentiamo con la nostra pagina Lettere dal carcere, curata dall’ottimo Damiano Aliprandi, tutto quello che avviene nell’universo penitenziario. Denunciamo spesso criticità e incongruenze. Come nel caso della vicenda della fornitura dei braccialetti elettronici: dagli articoli pubblicati su queste pagine sono venute una interrogazione e un’interpellanza del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti. Con il Covid la condizione di precarietà del sistema carcerario è peggiorata. L’umanità e la solidarietà nei confronti di chi vive recluso - spesso in situazioni di degrado umane e sanitarie - che sarebbero dovute naturalmente scattare nel popolo del “ce la faremo”, sono state sovrastate dalla ferocia giustizialista. È partita una campagna mediatica contro i provvedimenti dei magistrati di sorveglianza, rei di aver accolto le istanze di chi era incompatibile con il regime carcerario e aveva perciò chiesto di poter scontare la pena in regime di detenzione domiciliare. Si è addirittura parlato, dopo le proteste in alcuni istituti penitenziari che hanno causato decine di vittime e violente ritorsioni, di una nuova “trattativa” tra i boss mafiosi e lo Stato. Il capo del Dap è stato costretto alle dimissioni, ma chi l’ha sostituito non ha potuto fare altro che prendere atto della difficile situazione e sollecitare misure per ridurre la popolazione carceraria. E così nel decreto Ristori bis è stata inserita la proroga al 31 gennaio 2021 della possibilità di ottenere gli arresti domiciliari per chi ha ancora 18 mesi di pena da scontare, e di restare fuori dal carcere fino a quella data per chi gode di permessi premio o di lavoro. Nella prima ondata della pandemia hanno perso la vita 4 reclusi morti, mentre nella seconda siamo arrivati a una decina di decessi, senza dimenticare gli agenti e i medici penitenziari che non ce l’hanno fatta. Anche Giancarlo Coraggio, 44esimo presidente della Corte costituzionale, appena eletto ha detto che “servono interventi strutturali, ma questo è il caso classico di un problema politico nel senso più alto del termine”. Già la politica. Lo stesso Franco Mirabelli, vicepresidente dei senatori Pd, in una garbata lettera al Dubbio, ha dovuto ammettere: “Potevamo e volevamo di più, ma l’opposizione della destra, che agita irresponsabilmente la sua propaganda, e la contrarietà del M5S ad alcune nostre proposte hanno impedito un risultato migliore”. Mentre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha ricevuto Rita Bernardini, che ha interrotto l’ennesimo sciopero della fame dopo 36 giorni, al quale hanno aderito Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano, 202 accademici e professori di diritto penale, 3.600 detenuti e 650 cittadini liberi, tra cui molti parenti di reclusi, soprattutto mogli, e avvocati. Bernardini e Conte si sono lasciati con l’impegno del premier di affrontare la questione con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La leader radicale, comunque, abituata ai riti e alle promesse della politica, ha ribadito di aver solo sospeso lo sciopero della fame, pronta insieme a tanti altri a riprendere la lotta non violenta. Le misure deflattive lontane dai pensieri della società civile di Vincenzo Scalia* Il Dubbio, 31 dicembre 2020 Le carceri sono sempre state un luogo di sofferenza. Non soltanto per la privazione della libertà a cui sono soggetti i detenuti, ma anche per la separazione fisica e politica dal resto della società. Le guardie penitenziarie, i detenuti, ma anche i medici, gli infermieri, gli insegnanti e tutto il cosiddetto personale trattamentale che opera all’interno delle prigioni, finiscono per costruire un microcosmo all’interno del quale le dinamiche di sopraffazione, sofferenza, resistenza, si sovrappongono alle identità e alle personalità pregresse. Nel contesto attuale, che vede le prigioni qualificarsi come una discarica sociale, dove relegare le eccedenze della società dei consumi, le caratteristiche afflittive e marginalizzanti finiscono per accentuarsi. Vengono così cancellati i principi rieducativi e della presunzione di innocenza sottolineati dalla Carta costituzionale, mentre spiccano gli aspetti della vendetta sociale e dell’afflizione di pene aggiuntive alla privazione della libertà. È in seguito a questa impostazione che il sovraffollamento carcerario non desta scandalo, o se la sovra-rappresentazione dei suicidi, degli episodi di autolesionismo, delle patologie gravi tra la popolazione detenuta, non destano allarme presso l’opinione pubblica. È sempre questa impostazione che permette a opinion makers, presunti democratici, di affermare che essere dalla parte dei detenuti significa farli stare in galera, senza essere banditi dal consesso civile. La crisi pandemica scoppiata nello scorso febbraio, non ha fatto altro che esacerbare, in maniera quasi caricaturale, le dinamiche sopra descritte. Da un lato, la pandemia non fa che moltiplicare i problemi delle carceri, come si sarebbe potuto prevedere. La concentrazione di popolazione, l’esistenza di patologie, rendono i luoghi di detenzione un contesto particolarmente incline alla diffusione del Covid 19. Da Tolmezzo a Sulmona, da Modena a Salerno, ci troviamo a recitare un triste rosario di contagi e di morti. Una situazione che non può non scatenare l’insofferenza dei detenuti, e a fare sì che magari si esprima in proteste spontanee o organizzate. Dall’altro lato, la situazione carceraria in tempi di Covid, non trova adeguata ricezione a livello sociale, mostrando quanta siano ancora molti gli sforzi da compiere affinché venga colmato il divario tra il carcere e la società. Ci riferiamo non soltanto al rifiuto da parte della sfera politica di trarre le conseguenze che la pandemia comporta per il carcere e di varare dei provvedimenti deflattivi, quali amnistia e indulto, per porvi rimedio. Quello che ci preoccupa maggiormente, è l’impermeabilità di quella parte della società civile tradizionalmente impegnata dalla parte dei detenuti verso questa possibilità. Travaglio, Giletti e compagnia forcaiola sicuramente recitano la loro parte, ma non ci si poteva aspettare da loro che pensassero e agissero in maniera diversa. Sicuramente, sostenere che le mafie strumentalizzano le rivolte carcerarie, nella migliore delle ipotesi è un’affermazione che mostra la più totale ignoranza delle dinamiche penitenziarie. Ma, ripetiamo, questi signori hanno costruito la loro rendita di posizione sul punitivismo, e continueranno a farlo. Il problema più grave è rappresentato da chi dovrebbe e potrebbe, sia a livello di società civile che istituzionale, farsi promotore di un’amnistia o di un indulto e non lo fa. E dietro le scuse accampate di presunta problematicità dell’implementazione di questi provvedimenti, si celano vere e proprie ragioni di politique d’abord. Per esempio, è notorio che la componente maggioritaria della coalizione governativa attuale, ovvero il Movimento 5 Stelle, a cui appartiene lo stesso ministro della Giustizia, hanno fatto delle legalità, intesa come l’uso ipertrofico della penalità per regolare i conflitti sociali, la loro bandiera. Di conseguenza, aspettarsi un’amnistia o un indulto targati Bonafede, con la necessità di coinvolgere i quattro quinti del Parlamento, appare poco realista. Questa, probabilmente, è la vera ragione della scarsa incisività delle forze tradizionalmente garantiste. Eppure i grillini hanno già portato a casa l’abolizione della prescrizione, un provvedimento che, oltre a violare i diritti degli imputati, costituisce un unicum a livello internazionale, rischia di intasare ulteriormente la macchina della giustizia, e incide un ulteriore vulnus nel corpo delle garanzie costituzionali. Continuare a sacrificare le garanzie processuali e i diritti dei detenuti sull’altare della tenuta della coalizione di governo, oltre a non essere uno spettacolo edificante, perché mostra il prevalere degli interessi di bottega sui diritti dei cittadini, non argina certa l’ascesa di Salvini e Meloni, oggi più che mai sulla soglia del successo elettorale. Da parte nostra, continuiamo a sostenere la necessità che venga varato al più presto un provvedimento deflattivo in favore dei detenuti. Dal punto di vista funzionale, amnistia o indulto faciliterebbero la gestione delle carceri, evitando che a lungo termine si trasformino in lazzaretti o in polveriere che poi giustifichino interventi repressivi tali da innescare e inasprire il circolo vizioso del populismo penale. Sul piano umanitario, pensiamo che sia meglio per i detenuti affetti da patologie gravi evitare di essere contagiati, e a quelli che hanno contratto il virus di essere curati fuori dal carcere e tra i loro familiari. Ma è anche sul piano politico che il varo di un provvedimento deflattivo sortirebbe degli effetti significativi. Per anni si è sostenuto come il carcere fosse divenuto il luogo dove vengono delocalizzate le contraddizioni della società contemporanea. Le leggi sulle droghe, quelle sull’immigrazione, sono state definite come criminogene, poiché è stato proprio in seguito al loro varo che le carceri italiane si sono riempite fino al sovraffollamento. Ecco, approvare un indulto o un’amnistia, specialmente in questo contesto, potrebbe rappresentare l’occasione per delegittimare il punitivismo degli ultimi trent’anni, e per progettare una politica penale improntata al garantismo e al rafforzamento delle garanzie penali. Con buona pace di Giletti, Travaglio, Salvini e Meloni. Ma con grande vantaggio per detenuti e cittadini. *Criminologo e membro dell’associazione Yairaiha Risorse alle carceri, sarà più “digitale” il lavoro dei detenuti di Errico Novi Il Dubbio, 31 dicembre 2020 Il sottosegretario Giorgis: ecco i fondi previsti in manovra. È un segno che forse supera per velocità e chiarezza le ipotesi del Recovery plan. Nella legge di Bilancio si comincia a investire sul serio sul sistema dell’esecuzione penale, sulla qualità del trattamento di chi si trova in carcere ma, finalmente anche sull’esecuzione esterna, vale a dire le misure alternative alla “detenzione inframuraria”. Sono gli obiettivi che già un paio di mesi addietro il guardasigilli Alfonso Bonafede aveva descritto in audizione alla Camera come prioritari nell’uso dei fondi Ue per la giustizia. Dalle ipotesi si è passati alla realtà di stanziamenti che prescindono, ovviamente, da quanto si farà col Recovery. E ci si è arrivati con un anticipo non scontato anche grazie al lavoro paziente del sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis. Il costituzionalista eletto alla Camera col Pd si dice “molto soddisfatto dei risultati raggiunti, delle risorse previste per l’informatizzazione nelle carceri, per esempio, come di quelle che renderanno più celeri i risarcimenti dovuti per la sentenza Torreggiani”. Non solo, perché ci sono molte assunzioni, di cui in parte si è detto in questi giorni, e che rafforzano finalmente settori spesso trascurati a vantaggio della sola sicurezza. Oltre all’arrivo di nuovi magistrati, alle più volte ricordate, anche su queste pagine, nuove risorse di personale nella polizia penitenziaria, ci saranno 100 assunti anche nell’area trattamentale del Dap, che integrano la pianta organica già esistente. E ancora, altre 100 nuove unità saranno acquisite per colmare i vuoti aperti sul fronte degli educatori e delle professionalità di ambito pedagogico e psicologico, in particolare per il recupero di ha commesso reati contro le donne. Vengono rafforzati con ulteriori 80 assunzioni gli Uffici esecuzione penale esterna disseminati in tutte le città sedi di provveditorato. “Si tratta di investimenti volti a potenziare e migliorare i servizi e gli spazi trattamentali”, spiega il sottosegretario Giorgis, “e contestualmente migliorare le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria e di tutti coloro che operano all’interno delle carceri, garantendo così una più piena ed effettiva attuazione della finalità rieducativa della pena: il che significa ridurre i rischi di recidiva e in tal modo garantire la sicurezza di tutti i cittadini”. L’esecuzione penale esterna, il trattamento fuori delle mura è un segno importante, che la parte del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” pure prevede di incrementare, ma forse con qualche timidezza in più rispetto al capitolo dedicato all’edilizia giudiziaria e penitenziaria. Con la legge di Bilancio l’esecutivo muove dunque un passo verso un’idea di esecuzione penale vincolata non solo alla prospettiva inframuraria, e comunque molto attenta all’opportunità di lavorare anche per chi resta in cella. Così come una scelta necessaria è quella di stanziare 800mila euro l’annoi dal 2021 al 2023 per coprire i “rimedi risarcitori” reclamati dai detenuti che hanno fatto ricorso per trattamento inumano e degradante. Vale a dire per la condizione sofferta a causa del sovraffollamento, dello spazio vitale ridotto rispetto ai parametri della sentenza Torreggiani. Passo avanti, sì, ma certo ancora insufficiente rispetto all’inciviltà della condizione in cui, persino in tempo di Covid, sono costrette alcune decine di migliaia di esseri umani detenuti in carcere. Attenzione alla qualità della vita e al recupero di chi si trova dietro le sbarre c’è anche in quella che è forse la misura più suggestiva fra tutte quelle finanziate: gli 80 milioni destinati fino al 2026 per l’adeguamento degli spazi dove si svolgono le attività lavorative e anche al cablaggio degli istituti di pena, al rafforzamento delle infrastrutture telematiche. Vuol dire maggiori opportunità di lavoro anche attraverso i mezzi digitali. E forse qualche occasione in più di colloquiare a distanza con i propri cari, sia nel tempo che si spera breve in cui i carcerati saranno ancora sottoposti alle privazioni della emergenza sanitaria, sia per quei casi in cui anche una semplice visita è impedita è disagevole. Basta, tutto questo, a prefigurare un futuro, deciso ritorno alla grande riforma, quella che il Pd vorrebbe riproporre a Bonafede, che dovrebbe riaprire il dossier Orlando lasciato impolverare negli ultimi due anni? Difficile dirlo. Ma almeno, spendere un po’ di soldi per migliorare la qualità dell’esecuzione penale potrebbe essere anche un stimolo indiretto a rivedere l’intera politica carceraria. Morire in carcere non fa notizia di Valter Vecellio lindro.it, 31 dicembre 2020 Perché nei grandi network informativi non si parla di carcere? Notizie di cronaca ‘spicciola’, quella che viene utilizzata come ‘riempitivo’, quado occorre una ‘breve’. Così, spesso, si liquidano quelle che sono comunque tragedie che meriterebbero maggiore attenzione e visibilità, anche se avvengono in carcere. Come quella che giunge da Cagliari. Un detenuto ritorna nella Casa circondariale di Uta dopo un permesso premio trascorso in famiglia; si sottopone al previsto periodo di quarantena anti-covid con altri detenuti. Salvatore F., questo il nome dell’uomo, 80 anni, si toglie la vita. Sei anni fa era stato attestato, con l’accusa di aver ucciso un allevatore di cavalli con una fucilata, nelle campagne di Villasimius. Motivo del delitto continue liti per gli sconfinamenti dei cavalli nel suo terreno. Salvatore si impicca. Una breve, sui quotidiani locali. Eppure, qualche interrogativo, questo suicidio potrebbe giustificarlo. Invece… In Puglia, ora. Un uomo internato nella Rems di Carovigno, malato terminale, non più socialmente pericoloso. Lo stesso direttore della struttura dichiara che è incompatibile, non ci sono gli strumenti per assisterlo ‘negli ultimi giorni della sua vita’. Muore senza essere assistito adeguatamente: le Rems non sono strutture in grado di curare persone con gravi patologie fisiche; loro sono ‘solo’ attrezzate per i disagi psichici. Ennesima vicenda tragica, rivelatrice di come la giustizia sia amministrata in modo assurdamente burocratico. Considerata la situazione dell’uomo, il 10 dicembre scorso si è celebrata l’udienza per il riesame della pericolosità sociale; l’avvocato rappresenta la grave situazione di salute del detenuto; il giudice è stato informato dalla Rems, è venuto meno ogni possibile pericolosità sociale. Poteva essere trasferito in una struttura idonea non solo per motivi di salute, ma anche per il fatto che non sussisteva più pericolo. La misura però non viene revocata. Il Tribunale si limita a rinviare l’udienza al 21 gennaio e chiede un aggiornamento alla Rems per l’individuazione della struttura dove ricoverare la persona. Il 18 dicembre nuova relazione della Rems, nella quale si indica la necessità di un ‘trasferimento urgente del paziente in ambiente idoneo alle sue attuali gravi condizioni di salute’. Esclusa ancora una volta la pericolosità sociale. L’udienza viene anticipata al 7 gennaio. Peccato che l’uomo sia stremato. La cartella clinica parla di ‘disorientato, afasico, allettato, incontinente, si alimenta con fatica, iniziano le piaghe da decubito’. Si chiede di anticipare ulteriormente il riesame della pericolosità sociale, e di disporre d’ufficio il trasferimento dell’uomo in una struttura adeguata alle sue gravissime condizioni di salute. Ora non serve più: l’uomo è morto, senza adeguate cure farmacologiche e assistenza continua. A questo punto, che cos’hanno in comune trasmissioni, le si cita alla rinfusa, come ‘Porta a porta’ di Bruno Vespa, o ‘Stasera Italia’, condotto da Barbara Palombelli; ‘Quarta Repubblica’ di Nicola Porro; ‘Presa diretta’ di Riccardo Iacona; ‘Report’ di Sigfrido Ranucci, e ‘Piazza Pulita’ di Corrado Formigli; ‘Cartabianca’ di Bianca Berlinguer e ‘Di Martedì’ di Giovanni Floris; ‘Non è l’Arena’ di Massimo Giletti e ‘Che tempo che fa’ di Fabio Fazio; “Propaganda live’ di Diego Bianchi? Sono tutte trasmissioni dove si affrontano questioni e tematiche di vero o presunto interesse. A volte si può discutere la qualità degli ospiti, una specie di compagnia di giro, centellinati a seconda della loro casella politica, il loro essere più o meno rissosi, conta più il sembrare dell’essere… I conduttori possono piacere o meno, non qui e non ora si vuole discutere delle loro qualità o lacune. Quello che si vuole rimarcare che tutti hanno un singolare comune denominatore. Sono accuratamente evitati i temi e le questioni che agitano e le iniziative relative al carcere. Anche una questione apparentemente collaterale, come assicurare il vaccino ai detenuti e alla comunità penitenziaria: molti diranno, come, il vaccino ai delinquenti? A parte che un buon terzo di detenuti è in attesa di giudizio, con altissime percentuali di proscioglimento o dichiarazione di innocenza, il fatto è che le carceri sono sovraffollate; nella promiscuità il virus prospera e dilaga; nelle carceri non ci sono solo detenuti, ma anche una grande comunità penitenziaria, costituita da personale e agenti di custodia, con relative famiglie. Il virus entra nelle celle, ma dalle celle può facilmente uscire. È qualcosa di semplice da capire. Ma occorre che ci sia la volontà di comprendere, e di fare qualcosa che può apparire impopolare nell’immediato; ma non è certamente anti-popolare, e se si spiega lo si comprende. Che ne dite, Berlinguer, Bianchi, Fazio, Floris, Formigli, Giletti, Iacona, Palombelli, Porro, Ranucci, Vespa, non ne varrebbe la pena di parlarne un po’? Conte: “Nelle carceri situazione sotto controllo, solo 35 i positivi al Covid sintomatici” Adnkronos.it, 31 dicembre 2020 “Per la situazione delle carceri, in un periodo così complesso ci sono ulteriori preoccupazioni che si aggiungono. Se posso, nel complesso, per fortuna, la situazione è sotto controllo per la pandemia, su 53mila detenuti abbiamo 844 casi di positività al Covid, di cui sintomatici 35, ricoverati solo 25. Nel complesso le cautele adottate, ho verificato io stesso, ci sono”. Lo ha detto Giuseppe Conte nella conferenza di fine anno. “I problemi più complessivi vanno in quadrati nel confronto con le forze politiche, qualsiasi intervento sistemico non può che passare da una sintesi politica. Ma comunque c’è stato un alleggerimento, perché circa 2mila detenuti hanno beneficiato di alcune misure. Altre misure vanno vagliaste e discusse con le forze di maggioranza rappresentate in Parlamento”, ha spiegato il premier. “C’è la massima disponibilità anche a investire per l’edilizia penitenziaria per migliorare le condizioni delle carceri e anche per la Polizia penitenziaria: abbiamo programmato assunzioni straordinarie per circa 2mila nuove unità, stanziato circa 3mln e mezzo per il pagamento degli straordinari. La situazione delle carceri è all’attenzione del governo, tutte le discussioni per le soluzioni sono all’ordine del giorno e dovremo discuterle tutte insieme”. Carceri. Licenze e permessi straordinari, ecco le proroghe di Andrei Maicoci tusciatimes.eu, 31 dicembre 2020 “I magistrati di sorveglianza hanno tempo fino a domani, per prorogare fino al 31 gennaio le licenze e i permessi straordinari per i detenuti in semilibertà o lavoranti all’esterno”. Così il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante di Lazio e Umbria, Stefano Anastasìa, in merito alla legge 176/2020 di conversione del primo decreto Ristori, entrata in vigore nel giorno di Natale. “Poi - prosegue Anastasìa - sempre fino al 31 gennaio potranno essere concessi permessi straordinari anche a chi già usufruiva di permessi ordinari, anche se non lavorante all’esterno del carcere, ma sempre che non abbia reati ostativi. Infine, al 31 gennaio è fissato il termine per la richiesta della detenzione domiciliare di chi abbia da scontare meno di 18 mesi di pena. Sono giorni di festa - conclude Anastasìa - ma in carcere e nei tribunali di sorveglianza c’è - come sempre - molta apprensione e molto lavoro da fare, per evitare inutili detenzioni nelle nostre carceri sovraffollate”. Spese legali all’assolto: un primo passo camerepenali.it, 31 dicembre 2020 Con il voto del Senato sulla legge di bilancio è definitivamente approvata la norma che prevede il contributo alle spese legali per l’imputato assolto. Ora il Parlamento proceda con la separazione delle carriere per garantire l’effettiva terzietà del giudice e con la reintroduzione della prescrizione per impedire il processo infinito. Il documento della Giunta. Con l’approvazione della legge di bilancio è introdotto nell’ordinamento l’articolo 177 bis del codice penale, che prevede un contributo dello Stato alle spese legali in favore dei cittadini già imputati in un procedimento penale ed assolti con formula piena in via definitiva. È una scelta normativa da valutarsi positivamente e che premia l’iniziativa dell’On. Enrico Costa, alla quale hanno aderito gli On. Annibali, Lupi e Bartolozzi. Il processo penale rappresenta, infatti, per il cittadino non solo un patimento sotto il profilo morale e sociale, ma è spesso foriero di gravi conseguenze economiche. Finalmente l’ordinamento stabilisce che all’imputato assolto spetta un ristoro, seppure sotto il profilo di un parziale rimborso delle spese legali, da parte dello Stato che ne ha riconosciuto l’innocenza. È un importante segnale di coerenza con i principi costituzionali che tutelano il diritto di difesa e il giusto processo. I fondi stanziati a finanziamento del rimborso per il cittadino assolto e il meccanismo previsto dalla legge ne renderanno tuttavia l’attuazione poco più che simbolica. Non possono essere, infatti, condivise né la scelta di prevedere il rimborso in tre rate annuali né la fissazione del limite massimo in € 10.500,00. Si tratta di una inopportuna sottovalutazione della prestazione del difensore nel processo penale che limita fortemente l’obiettivo perseguito. Dunque, se da un lato è necessario ampliare e rafforzare le norme che prevedono il ristoro patrimoniale del cittadino dalle conseguenze ingiuste derivate dal processo penale, dall’altro occorre dare effettiva attuazione e concreta applicazione alla normativa che prevede la responsabilità del magistrato allorquando l’ingiustizia della decisione sia a lui addebitabile. Va, in ogni caso, sottolineato con soddisfazione come la nuova disciplina sia segno di una generale consapevolezza della necessità che lo Stato si faccia carico anche del sacrificio individuale imposto al cittadino innocente. Per realizzare compiutamente lo schema del rito accusatorio, però, sono necessari interventi sistematici quali la separazione delle carriere tra il magistrato giudicante e il magistrato inquirente, unico strumento per garantire l’effettiva terzietà del giudice. Nelle prossime settimane il Parlamento è chiamato a mettere mano a riforme del sistema processuale non coerenti con la scelta che oggi positivamente sottolineiamo. Le proposte governative contenute nel disegno di legge in discussione sono ispirate a logiche di mera efficienza che si risolvono nelle ennesime erosioni delle garanzie difensive ancorché tutti gli operatori avessero sottolineato la necessità di procedere con una seria depenalizzazione, il rilancio dei riti alternativi, la previsione di regole stringenti a presidiare l’esercizio dell’azione penale per evitare il processo in tutti quei casi in cui la prova mostri, sin dall’esito delle indagini, una capacità di tenuta insufficiente. È prima di tutto necessario recuperare i principi di civiltà del diritto penale liberale e reintrodurre una seria e garantista disciplina della prescrizione. Vanno respinti i tentativi di depotenziamento e di burocratizzazione del sistema delle impugnazioni. Le riforme processuali, infine, devono essere accompagnate da riforme ordinamentali in grado di superare la separatezza e l’autoreferenzialità dell’organizzazione della Magistratura italiana, predisponendo nuovi percorsi di reclutamento e di formazione, stabilendo parametri di carriera ancorati al merito e alla verifica dei risultati professionali. Questo sarà l’impegno dell’Unione nei prossimi mesi. Il bullismo non si sconfigge con le manette e un pessimo italiano di Alberto Cisterna Il Riformista, 31 dicembre 2020 Dopo la tragica morte di Willy Monteiro, all’inasprimento delle pene per il reato di rissa si era accompagnata l’estensione del Daspo. Le due norme sono finite nel più complesso decreto immigrazione. Ma sono scritte male. Alla tragica morte di Willy Monteiro, il 6 settembre di quest’anno, il Governo aveva risposto nell’unico modo che questo Paese ormai conosce per reagire a episodi di eclatante violenza, ossia mettendo mano al codice penale. All’inasprimento delle pene per il reato di rissa si era accompagnata l’estensione dell’ambito di applicazione del Daspo, ossia del provvedimento di polizia con il quale il questore interdice a soggetti ritenuti pericolosi la presenza in certe zone delle città. Le due norme sono passate quasi inosservate visto che hanno avuto in sorte di finire nel più complesso alambicco legislativo del cosiddetto decreto immigrazione (n.130/2020) che riformava, in alcuni punti, le scelte del precedente governo a trazione leghista. Il fatto che non si fosse aperta alcuna discussione sull’ennesima opzione punitiva partorita in ragione dell’emergenza di turno, non poteva però di per sé escludere che i lavori parlamentari offrissero un più ampio contributo sul tema. La legge di conversione, invece, si è risolta in un mero aggiustamento grammaticale e sintattico dei vari errori contenuti nel testo governativo, una cosa da matita rossa e blu per capirsi, con l’aggiunta qua e là di una virgola o la sostituzione di qualche proposizione (“dei” invece “di”). Insomma una cosa da far impallidire qualunque docente di italiano delle scuole primarie e che, invece, è il distillato del drafting legislativo della presidenza del Consiglio che ha imposto le successive “correzioni” parlamentari. È vero che si discute da tempo dello scadimento della qualità della legislazione in Italia (l’ultima presa di posizione autorevole è stata quella di Michele Ainis), ma che si arrivi alla falcidia della lingua italiana in testi aventi rilevanza penale e sanzionatoria costituisce la cifra di una crisi profonda del sistema delle fonti che risente di fratture culturali davvero estese. Sin qui poco male ci sarebbe da dire; in fondo i chierici del diritto sono abituati e, svarione in più svarione in meno, l’atteggiamento di diffidenza verso la produzione normativa domestica non sarà certo cambiato dopo l’ennesima figuraccia. Se non fosse. Se non fosse che quelle norme hanno come destinatari, in primo luogo, proprio quei ragazzi e quegli adolescenti che, troppe volte, si affrontano nelle piazze e per le strade delle nostre città in scontri organizzati plateali e violenti. La questione, in questo caso, non suo essere circoscritta alla sola pessima fi - gura delle istituzioni legislative nell’uso della lingua italiana (della quale i ragazzi nulla sapranno in verità), ma assume una diversa latitudine e molto più rilevante. Una cultura illuminista pretende che il cittadino abbia cognizione dell’esistenza delle norme per effetto della loro pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Consumato il rito pagano dell’ostensione del testo legislativo nelle pagine della Raccolta delle leggi, il dado è tratto. Nessuna ignoranza della norma può essere scusata. Un principio, invero, che non solo la Corte costituzionale (1988), ma soprattutto la Corte di Strasburgo hanno varie volte sottoposto a verifica, soprattutto in presenza di testi legislativi oscuri, parziali, sostanzialmente inaccessibili al cittadino medio senza l’assistenza di un tecnico. Ora immaginare che le gang di adolescenti e di giovani che vengono a fronteggiarsi con mazze e tirapugni possano attribuire un minimo senso alla norma contenuta nel decreto legge 21 ottobre 2020, n. 130, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 173 - secondo cui “All’articolo 588 del codice penale: a) al primo comma la parola “309” è sostituita dalla seguente: “2.000”; b) al secondo comma le parole “da tre mesi a cinque anni” sono sostituite dalle seguenti: “da sei mesi a sei anni”“ - è ovviamente una ingiustificabile illusione. Né è lecito pensare che prima di andare al Pincio a Roma o per le strade di Ercolano a darsele di santa ragione gli adolescenti diano un’occhiata alla Gazzetta ufficiale. Certo, obiezione scontata, si tratta di una tecnica legislativa inevitabile quando si deve modificare qualunque norma; si selezionano le parti da cambiare e si mettono accanto le modifiche. In questo caso, tanto per capirci, “309” e “2.000” non sono enunciati cabalistici, ma la pena pecuniaria prevista per la rissa che è stata innalzata da 309 a 2.000 euro; il resto è l’upgrading carcerario. Sembra, però, del tutto evidente che non ci si possa, come dire, lavare la coscienza per quanto successo nelle strade di Colleferro al povero Willy o, dopo l’approvazione dell’inasprimento sanzionatorio, al Pincio o a Ercolano brandendo un’oscura norma di un oscuro decreto legge, pietosamente reso compatibile con la lingua italiana dal Parlamento. La legge di conversione avrebbe dovuto offrire l’occasione per creare strumenti di comunicazione e di formazione ad hoc, espressamente indirizzati a quelle fasce giovanili troppo volte coinvolte in scontri organizzati e violenze di gruppo. Non si tratta di fare lezioni sul bullismo, sul cyber bullismo o cose del genere, ma di spiegare semplicemente cosa il legislatore prevede nel caso in cui si venga coinvolti in episodi del genere e come ci si possa rovinare la vita per simili sconsideratezze. Per carità l’ignoranza della legge penale non è tollerata, ma neppure quella di coloro i quali ritengono che con una manetta qui e l’altra una lì ogni problema venga a soluzione. La profezia dell’algoritmo: la polizia diventa predittiva di Fabrizia Candido Il Manifesto, 31 dicembre 2020 Tecnologia e controllo della popolazione. Al di qua della muraglia si impiegano strumenti per prevedere suicidi o “minacce” alla sicurezza. Modelli predittivi, così vengono chiamati i sistemi che tramite algoritmi statistici e tecniche di machine learning, individuano schemi e andamenti ricorrenti per prevedere eventi futuri. Sebbene in certi settori il loro utilizzo sia ormai comune - per prevedere la risposta di un paziente a un trattamento, individuare probabili focolai epidemici o l’insorgenza di guasti negli elettrodomestici, ad esempio - la sfida più ardua resta la previsione dei singoli comportamenti umani, un traguardo i cui risvolti spazierebbero dal campo assicurativo al marketing mirato, dalla sorveglianza alla polizia predittiva. I social network, dove il 45% della popolazione mondiale rilascia costantemente informazioni personali, sono un’inestimabile fonte di dati per l’allenamento di tali modelli. In questo contesto, anche la natura dei pensieri e delle emozioni condivise sul web diventa oggetto di analisi, come dimostra l’edonometro, l’algoritmo dell’Università del Vermont che ogni giorno dal 2008 analizza circa 50 milioni di tweet per valutare l’umore dell’opinione pubblica. Nel 2014 un sistema simile è stato usato da un gruppo di ricercatori cinesi per identificare coloro più inclini al suicidio. Hanno esaminato un set di messaggi condivisi su Weibo, nota piattaforma di microblog cinese, per individuare caratteristiche linguistiche ricorrenti sulla cui base allenare un algoritmo capace di calcolare il Suicide Probability Scale Score dei vari utenti. Un altro studio ha invece usato Weibo per la sentiment analysis, nota come opinion mining. L’obiettivo è comprendere che tipo di esperienza hanno avuto gli utenti circa un determinato prodotto, servizio o avvenimento, delineare la polarità delle loro opinioni e prevedere eventuali reazioni future: tendenze di mercato, azioni di protesta o persino attacchi terroristici. In Cina i modelli predittivi si intrecciano col piano per il sistema nazionale di crediti sociali, di cui sono già attivi dei progetti pilota con varianti locali. Catalogando dati su pagamenti di fatture, rispetto di contratti stipulati, attitudini individuali e relazioni interpersonali, il sistema valuta la condotta dei cittadini e delle aziende e fornisce le basi per predire il loro grado di “affidabilità”. Una previsione, sebbene non del tutto irreversibile poiché influenzabile da “azioni di recupero”, da cui dipende la possibilità di accedere ad alcuni servizi, tra cui prestiti, servizi sanitari, biglietti aerei o ferroviari. Questi modelli, che calcolano la potenzialità e la probabilità di un evento, per quanto accurati non sfuggono però a margini di errore. Se l’algoritmo di Spotify, Youtube o Netflix non è stato in grado di prevedere quale contenuto l’utente avrebbe gradito maggiormente, lo scenario diventa più complesso quando i modelli predittivi vengono schierati da organi di controllo e sorveglianza. Non si tratta dei precog di Minority Report, ma di software di polizia predittiva già in uso. L’Ijop (Integrated Joint Operations Platform) è il sistema fornito dalla Xinjiang Lianhai Cangzhi Company, sussidiaria della China Electronics Technology Group Corporation, appaltatrice militare di proprietà statale, che integra dati biometrici, attività online, relazioni interpersonali e informazioni di discutibile rilevanza - come la poligamia, l’uso anomalo di elettricità e l’accumulazione di scorte di cibo - per individuare potenziali minacce, allertare le autorità e avviare azioni “rieducative e preventive”. Non è una realtà esclusivamente cinese. La questura di Milano utilizza delia®, il software di analisi predittiva del crimine della startup Key Crime, e l’azienda californiana PredPol si definisce “market leader in predictive policing”. L’estrazione di dati per l’allenamento di algoritmi predittivi coinvolge inoltre l’intero gruppo Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), che spalancano così le proprie porte a quelli che la nota autrice di saggi e libri sul capitalismo della sorveglianza, Shoshana Zuboff, chiama behavorial futures markets, mercati basati sul passaggio da monitoraggio a orientamento verso esiti redditizi del comportamento individuale. In questo modo si favoriscono acquisti e tendenze, si influenzano opinioni e voti elettorali. Monitorare, processare, quantificare e monetizzare, è questa la sequenza. I post di StocKTwits, il social per trader e investitori, vengono analizzati per prevedere volatilità e rischi associati alle obbligazioni, Behavioral Signals, una start up di Los Angeles, usa il machine learning per analizzare le emozioni nella voce e prevedere risposte binarie in specifici contesti e infine la chatbot Microsoft Xiaoice flirta, scherza e simula rapporti sessuali con i suoi interlocutori, al fine di creare profonde connessioni emotive che accumulando dati potenziano il suo algoritmo, rendendolo redditizio. Nel 2019 è stato persino dimostrato che è possibile predire l’attività social di un individuo utilizzando i dati provenienti da altre 8 persone appartenenti alla sua rete Twitter. Significa che ogni interazione online espone dati anche di chi non è connesso e potenzialmente di chi non ha nemmeno un account: there’s no place to hide ha commentato Lewis Mitchell, coautore dello studio. Il Processo di Kafka parla di una misteriosa polizia che indaga sulla vita del protagonista per ragioni che lui non riesce a capire. Una buona immagine per rappresentare l’individuo del XXI secolo che più o meno inconsapevolmente è oggetto della più grande operazione di data mining della storia. Giustizia, i concorsi beffa che premiano i più anziani: decine di 60enni in graduatoria di Andrea Bassi Il Messaggero, 31 dicembre 2020 Provate a immaginare questo. Un giovane laureato con il massimo dei voti, che dopo la laurea, non appagato, ha deciso di proseguire gli studi con una specializzazione. Immaginate che abbia vinto anche una borsa di ricerca e magari, nei ritagli di tempo, abbia partecipato anche a un master. Immaginate, insomma, che sia uno dei quei trentenni iper-formati che, a parole, ogni governo dice di voler trattenere in Italia evitando che vadano a cercar lavoro altrove perché nel loro Paese tutte le porte sono chiuse. Ora provate a immaginare che questo stesso ragazzo voglia entrare nella Pubblica amministrazione tentando un concorso. Del resto ogni volta che accende la Tv sente il ministro di turno che dice che i dipendenti pubblici sono troppo vecchi e bisogna fare spazio ai giovani nei ranghi dello Stato. Bene, ora prendete tutto ciò che avete immaginato e cancellatelo. Il duro risveglio alla realtà si intitola “Concorso pubblico, per titoli ed esame orale, su base distrettuale, per il reclutamento di complessive n. 400 unità di personale non dirigenziale a tempo indeterminato per il profilo di Direttore, da inquadrare nell’Area funzionale Terza, Fascia economica F3, nei ruoli del personale del Ministero della giustizia - Amministrazione giudiziaria”. Titolo lungo in perfetto burocratese. Ma la traduzione potrebbe essere: non è un concorso per giovani. Detto al contrario, il primo bando di concorso per “anziani”. Al distretto di Bologna, 37 posti in palio, 332 gli ammessi, il candidato più avanti con l’età ha addirittura 73 anni. Il più giovane, ma è l’unico sotto i 40, ha 37 anni. A Roma, 54 posti disponibili, 481 ammessi all’orale, ci sono solo due 35enni, poi svariati 60enni, il più anziano dei quali ha 67 anni, l’età che, secondo la legge Fornero, dà diritto alla pensione. A Potenza (9 posti disponibili) il più giovane candidato ammesso agli orali ha 46 anni, il più anziano 62 anni. A Reggio Calabria si oscilla tra i 45 e i 65 anni, a Brescia tra i 44 e i 65 anni; a Milano c’è un solo 37enne, molti cinquantenni, diversi 60enni. Il più anziano ha 65 anni. In tutta Italia è così. Su 3.900 candidati ammessi agli orali, nessuno ha meno di 30 anni, una dozzina hanno tra 30 e 40 anni, diverse decine superano i 60 anni, la maggior parte sono nella fascia di età a cavallo dei 50 anni. Non proprio uno “svecchiamento” in una Pubblica amministrazione in cui l’età media è di 50,7 anni e solo il 2,9% dei dipendenti pubblici ha meno di 30 anni. Alcuni dei candidati, se dovessero passare agli orali dopo la selezione fatta solo per titoli, si troverebbero ad essere assunti solo per pochi mesi prima di andare in pensione. L’avvocato 73enne che ha passato la prima selezione a Bologna, nemmeno potrebbe essere immesso in ruolo avendo superato i 67 anni. Ma come è stata possibile questa follia? Tutto dipende dai criteri di selezione decisi dal bando del ministero guidato da grillino Alfonso Bonafede. Vediamoli. Una laurea con 110 e lode vale 5 punti. Un master universitario vale 1 punto, un diploma di specializzazione 3 punti, un dottorato di ricerca vale 4 punti. Ma attenzione, la somma dei titoli post laurea non può superare i 7 punti. Come dire, il ragazzo laureato con 110 e lode e iper specializzato non potrà avere più di 12 punti. Cosa viene premiato allora? L’anzianità. Un dipendente del ministero della giustizia ha potuto contare su 4 punti per ogni anno di servizio tolti i primi cinque; un magistrato onorario su 3 punti per ogni anno di servizio sempre tolti i primi cinque; e così un avvocato iscritto all’ordine. Più sei avanti nell’età, più esperienza hai maturato, più punti ricevi. “È l’esatto contrario della meritocrazia”, dice Massimo Battaglia, segretario generale di Unsa-Confsal, che ha battezzato la selezione dei 400 direttori del ministero della giustizia “il concorso della vergogna”. Si tratta, dice Battaglia, “di un’assurdità giuridica. Uno schiaffo ai comuni cittadini, magari all’operaio che ha lavorato e sudato per far studiare il proprio figlio che oggi non può concorrere a un posto da funzionario nella Pubblica amministrazione”. E non è l’unico concorso che ha questo meccanismo. “C’è anche la selezione per 150 funzionari del ministero della giustizia, le cui graduatorie stanno per essere pubblicate, che ha le stesse regole”, dice Giuseppe Cotruvo, esperto di didattica concorsuale, autore di diversi manuali di preparazione ai concorsi. “Diversi avvocati so che stanno preparando ricorso perché il bando ha profili di incostituzionalità”, aggiunge Cotruvo. La Carta in effetti, dice che ad essere selezionati dovrebbero essere i più meritevoli, non i più anziani. Interdizione perpetua dai pubblici uffici, i dubbi alla Consulta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2020 La Cassazione rinvia per un esame di legittimità alla Corte costituzionale, nel mirino l’automatismo previsto dall’articolo 317-bis del Codice penale. Va alla Consulta l’automatismo della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici per il reato di corruzione. Va alla Consulta l’automatismo della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici per il reato di corruzione. La Cassazione (ordinanza 37796) rinvia alla Corte costituzionale l’articolo 317bis del Codice penale, nella formulazione precedente alle modifiche introdotte dalla legge 3/2019, la cosiddetta Spazza-corrotti. Quest’ultima norma ha comunque lasciato inalterato l’automatismo e inasprito il trattamento, allargando il paniere dei reati e abbassando a due anni, rispetto a tre, il tetto della pena principale oltre il quale scatta il “daspo” a vita. La Spazza-corrotti prevede, però, un’incidenza nelle sanzioni interdittive della particolare tenuità e del ravvedimento operoso. I dubbi riguardano l’articolo 317- bis, rispetto alla corruzione (articolo 319 del Codice penale) per la “fissità” e la “perpetuità” della sanzione: una rigidità che non sembra compatibile “con il volto costituzionale della sanzione penale” come disegnato dalla Consulta dal 198 o, fino alle più recenti sentenze, con le quali il giudice delle leggi si è espresso in senso sfavorevole all’automatismo. L’impianto prevede pene che raramente scendono sotto i tre anni e la pena accessoria perpetua finisce per essere identica anche per condotte di minor disvalore. Le interdizioni, per i reati dei colletti bianchi, lesivi di beni di rilievo collettivo ed economico, dovrebbero essere concepite - precisa la Cassazione - in relazione al fatto commesso e alla gravità e non solo in rapporto all’autore. E la “punizione” deve essere proporzionata e rispettosa della funzione rieducativa. La risposta è invece sproporzionata rispetto ai comportamenti tipizzati e dunque in contrasto con gli articoli 2 e 27 della Costituzione, in relazione a fatti meno gravi. La Cassazione è consapevole della difficoltà di intervenire sulla norma censurata: un unicum in quanto pena accessoria perpetua e come tale strutturata nel sistema punitivo. Per il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli l’automatismo è il punto critico della norma censurata. “Il dubbio di legittimità costituzionale riguarda l’automatica applicazione di una pena accessoria perpetua, che limita fortemente la capacità della persona, anche in materia elettorale, e può essere non proporzionata rispetto alla concreta gravità dei fatti. L’automatismo sottrae al giudice ogni possibilità di valutazione, con l’effetto di non consentire la proporzionalità e la individualizzazione del trattamento sanzionatorio. Ne risulterebbero violati il principio di eguaglianza, sotto il profilo della ragionevolezza, e la finalità della pena. La definizione dei reati e la determinazione delle pene rispondono al principio di stretta legalità, vale a dire che la loro previsione e disciplina rientrano nella discrezionalità del Parlamento. La Corte costituzionale può tuttavia valutarne la ragionevolezza e, se condividesse l’orientamento della Corte di cassazione, potrebbe superare l’automatismo dichiarando la incostituzionalità della disposizione nella parte in cui non prevede la condanna alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici sino a quella perpetua, restando libero il legislatore di stabilire diversamente il minimo”. La sentenza della Consulta potrebbe avere effetti anche sulla Spazza-corrotti. “Una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale - dice Mirabelli - potrebbe colpire anche le disposizioni successivamente emanate dal legislatore, la cui illegittimità deriva come conseguenza della decisione adottata”. Reati ostativi: legittima la norma che esclude dai benefici, anche se il fatto è di lieve entità brocardi.it, 31 dicembre 2020 In caso di sequestro di persona a scopo di estorsione, la lieve entità del fatto non è sufficiente per la concessione dei benefici penitenziari. Recentemente la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, della Legge sull’ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354) “nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ivi ricompresi quello di cui all’art. 630 c.p., allorché sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di lieve entità, ai sensi della sentenza della Corte Costituzionale n. 68 del 23 marzo 2012”. La vicenda ha avuto origine dall’istanza di affidamento in prova al servizio sociale proposta presso il Tribunale di sorveglianza di Firenze da parte di un detenuto, il quale era in possesso di tutti i requisiti che, ai sensi dell’art. 47 della citata legge sull’ordinamento penitenziario, erano idonei ad ottenere tale misura, ma che, tuttavia, essendo egli stato condannato per sequestro di persona a scopo di estorsione ex art. 630 c.p., non risultavano sufficienti, in quanto il reato ascrittogli era incluso tra i c.d. reati ostativi per i quali non è possibile concedere tale beneficio. Il Tribunale di sorveglianza ha proposto questione di legittimità costituzionale, ritenendo che l’art. 4 bis comma 1 contrastasse con con l’art. 3 Cost, nella parte in cui irragionevolmente parificava un condannato per sequestro di persona a scopo di estorsione a cui erano state applicate le attenuanti per la lieve entità del fatto ai condannati per delitti più gravi che denotano un elevato rischio di pericolosità sociale, per i quali appunto era stata pensata l’introduzione del più restrittivo regime ex art. 4 bis. Infatti, i reati contemplati dalla norma sarebbero quelli contraddistinti “dal necessario o almeno normale inserimento del reo in compagini criminose di gruppo o comunque collegate con organizzazioni criminali”, carattere che, secondo il tribunale, non poteva dirsi sussistente nel caso in esame, in quanto l’applicazione dell’attenuante della lieve entità del fatto implicherebbe, oltre che una diminuzione della pena, anche “una valutazione di minore pericolosità degli autori o almeno un’attenuazione della presunzione di pericolosità”. Secondo il Tribunale, vi sarebbe poi stato un contrasto con l’art. 27 Cost., in quanto l’impedire l’applicazione della misura alternativa dell’affidamento in prova avrebbe ostacolato la funzione rieducativa della pena ed il reinserimento del condannato all’interno della società. La Corte Costituzionale si è espressa con la sentenza n. 52/2020, dichiarando la questione infondata. Nel farlo, ha ribadito quanto aveva precedente affermato in occasione della sentenza n. 188/2019, secondo la quale “l’unica adeguata definizione della disciplina di cui all’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario consiste nel sottolinearne la natura di disposizione speciale, di carattere restrittivo, in tema di concessione dei benefici penitenziari a determinate categorie di detenuti o internati, che si presumono socialmente pericolosi unicamente in ragione del titolo di reato per il quale la detenzione o l’internamento sono stati disposti”. Per la norma incriminata, dunque, è esclusivamente in base al titolo del reato che va valutata la presunzione di pericolosità sociale; perciò, il fatto che al condannato sia stata riconosciuta un’attenuante non deve andare ad incidere sulla validità di tale presunzione nei suoi confronti. Infatti, le attenuanti hanno lo scopo di adeguare la pena al caso concreto, ma la loro applicazione non è necessariamente collegata all’effettiva pericolosità della condotta. Per questi motivi, la Corte Costituzionale ha affermato che, come tutte le attenuanti, anche quella relativa alla lieve entità del fatto deve considerarsi rilevante solamente al fine della quantificazione della pena, mentre “non risulta idonea ad incidere, di per sé sola, sulla coerenza della scelta legislativa di ricollegare al sequestro con finalità estorsive un trattamento più rigoroso in fase di esecuzione, quale che sia la misura della pena inflitta nella sentenza di condanna”. Negare ai detenuti un pasto conforme ai loro precetti religiosi viola la Cedu avvocatocassazionista.it, 31 dicembre 2020 Cedu Sez. IV Neagu e Saran c. Romania. 10 novembre 2020, Ric. 21969/15 e 65993/16. Sono due carcerati che si lamentano del rifiuto delle autorità carcerarie di servirgli pasti rispettosi dei dettami dell’islam (senza carni suine), religione cui si sono convertiti durante la detenzione. Le Corti interne hanno sempre rigettato i loro ricorsi concordando con le autorità penitenziarie sul fatto che non avessero provato l’avvenuta conversione. Il secondo però sostiene di aver dato prova scritta delle sue convinzioni religiose ex lege e di essere discriminato rispetto alla maggioranza dei detenuti di religione cristiana ortodossa. Violato l’art. 9 Cedu: le autorità rumene non hanno attuato un giusto equilibrio tra i contrapposti interessi tanto più che il diritto e la prassi interna del 2013 impongono di offrire ai detenuti pasti conformi ai loro precetti religiosi. I carcerati una volta entrati in carcere hanno l’unico onere di fornire una dichiarazione sul loro onore di appartenere ad un dato credo e, durante la detenzione, di essersi convertiti ad un altro. In limine la Cedu rimarca come le ragioni addotte dalla Romania sui problemi ad accogliere le richieste dei ricorrenti siano infondate dato che a Saran in uno delle carceri in cui è stato ristretto gli sono stati serviti pasti privi di carni suine secondo i precetti dell’Islam. Sul tema: Raccomandazione n. 2/2006 del Consiglio dei Ministri del Coe sul regime penitenziario europeo in particolar modo su ciò che concerne il regime alimentare e le libertà religiosa e di opinione dei detenuti; Erlich e Kastro c. Romania del 20/6/20 e Leyla ?ahin c. Turchia [GC] del 2005. È analoga ad Associazione cristiana dei Testimoni di Geova della Bulgaria c. Bulgaria (Ric. 5301/11) della stessa data sulla mancata concessione edilizia per costruire un edificio di culto su un suo terreno. Piemonte. Sovraffollamento e obsolescenza: la situazione delle carceri ai tempi del Covid torinoggi.it, 31 dicembre 2020 Presentato il Dossier delle Criticità Strutturali e Logistiche, elaborato dal Garante Regionale delle Persone Detenute Bruno Mellano con il Coordinamento Piemontese dei Garanti Comunali. Sovraffollamento, decadenza e obsolescenza delle strutture: si può riassumere così il Dossier 2020 delle Criticità Strutturali e Logistiche delle Carceri Piemontesi, elaborato dal Garante Regionale delle Persone Detenute Bruno Mellano in collaborazione con il Coordinamento Piemontese dei Garanti Comunali. Il documento punta a fornire una panoramica generale della condizione attuale dei tredici istituti presenti sul territorio regionale, con un focus specifico riferito a ogni singola situazione; a livello nazionale, nel frattempo, si sta facendo sempre più strada la richiesta di inserire il sistema carcerario tra le priorità della campagna vaccinale anti-Covid-19. Gli ambiti prioritari di intervento - Secondo gli ultimi rilevamenti, datati 28 dicembre, le persone adulte attualmente detenute in Piemonte sono 4164. Nel dossier, per affrontare la situazione sono stati individuati tre punti di partenza: “Il primo - spiega Mellano - riguarda l’indicazione della soglia del 98% di presenze come condizione minima per avere spazio di manovra gestionale nei singoli istituti, soprattutto in tempi di pandemia dove il distanziamento è fondamentale; l’obiettivo prioritario visto che, in alcuni casi, raggiungiamo un affollamento superiore al 130%. Il secondo rileva la necessità di investire i fondi europei in interventi sulle carceri, in particolare sulle strutture sanitarie interne ma anche quelle legate all’istruzione e alla formazione. L’ultimo richiede con forza l’esecuzione penale di mamme con bambini in spazi esterni all’ambito carcerario come le case famiglia”. La situazione nelle singole carceri - Sono invece diverse, ma con alcuni tratti comuni, le situazioni dei singoli istituti presentate dai vari garanti comunali: a Torino la preoccupazione maggiore riguarda le strutture sanitarie, giudicate inagibili, il sovraffollamento di oltre 300 unità con la conseguente difficoltà a garantire l’uscita lavorativa a chi ne ha diritto e la precaria manutenzione dell’edificio. Da Ivrea, risolto il guasto al riscaldamento che aveva lasciato tutti al freddo per dieci giorni, la richiesta è quella di intervenire con una ristrutturazione generale e con l’installazione di un impianto di videosorveglianza nei piani attualmente scoperti per garantire la sicurezza di polizia penitenziaria e detenuti. La provincia che vede la più alta presenza di carceri è Cuneo con quattro: nel capoluogo, i lavori di ristrutturazione a un padiglione interamente non utilizzato dovrebbero garantire maggiori spazi. Nell’istituto di Saluzzo, in attesa di una conversione in alta sicurezza, sarà necessario il potenziamento delle reti e delle attrezzature telematiche informatiche per i colloqui a distanza. Discorso a parte meritano, invece, Alba e Fossano: il primo, infatti, è ancora in attesa dell’inizio degli interventi da 4,5 milioni di euro che ne garantirebbero una migliore efficienza soprattutto in ambito di inserimento lavorativo, mentre il secondo è considerato il migliore di tutto il Piemonte. Le problematiche relative alle altre province ricalcano quelle già citate: ad Alessandria la decadenza della vecchia Casa Circondariale Don Soria sta facendo emergere l’esigenza di una sua dismissione (in periferia è presente la Casa di Reclusione San Michele, ndr). Ad Asti, la prevista costruzione del nuovo padiglione di media sicurezza, a fronte di una carenza di personale, rischia di mettere in crisi il sistema; a Biella, infine, la mancanza di spazi adeguati sta mettendo a repentaglio l’attività lavorativa tessile avviata con successo nel corso degli anni grazie alla collaborazione con Zegna. Milano. Contagiati e infreddoliti, l’inferno delle carceri di Giulio Cavalli Il Riformista, 31 dicembre 2020 Il documento si riferisce agli istituti penitenziari di San Vittore, Bollate e Opera. Il 7,7 per cento dei detenuti risulta positivo. Attività scolastiche ferme, niente colloqui coi familiari. La seconda ondata del virus si abbatte violenta sulle carceri e rende ancora più difficile la vita della popolazione carceraria registrando il cronico sovraffollamento oltre i limiti di guardia, un pesante aumento di positivi al Covid rispetto alla prima ondata e nuove misure coercitive ancora più stringenti in nome della sicurezza sanitaria mentre scompaiono del tutto le occasioni di socializzazione e vengono a mancare i servizi sanitari che da sempre sono affidati ai volontari, diminuiti drasticamente in questi mesi. È il quadro drammatico che emerge da un documento elaborato dagli operatori dell’area Carcere della Caritas Ambrosiana sulla situazione degli istituti penitenziari di San Vittore, di Bollate e di Opera in Lombardia. Secondo fonti della Caritas nei tre istituti sarebbero almeno 260 i positivi tra detenuti e lavoratori con una percentuale del 7,7% della popolazione carceraria. Numeri molto più alti di quelli della prima ondata e che solo in parte può essere spiegata con i trasferimenti delle persone contagiate dagli altri istituti della regione nei due Covid Hub allestiti nel frattempo a Bollate e San Vittore. Il tutto, ovviamente, a fronte di un sovraffollamento che conta 3.400 detenuti presenti con una capienza teorica di 2.923 posti. Nonostante la popolazione carcerari sia diminuita dell’8% rispetto a quella registrata l’inizio dell’anno la riorganizzazione degli spazi legata alla necessità di predisporre reparti sanitari per gli ammalati e per l’isolamento dei detenuti positivi al Covid-19 ha costretto molti reclusi a essere trasferiti in altri reparti e a condividere le proprie celle con più persone rispetto alla loro situazione precedente, soffiando su una tensione ormai sedimentata da mesi. Ma la condizione di sovraffollamento è resa ancora più intollerabile dalla chiusura dei reparti, dei piani e in diversi casi anche delle celle. Nel suo documento la Caritas denuncia che soprattutto nel carcere di San Vittore c’è stata una significativa rinuncia all’applicazione della sorveglianza dinamica che prevedeva nei reparti di media e di bassa sicurezza che le celle restassero aperte almeno negli orari diurni migliorando sensibilmente la vivibilità degli istituti. Le occasioni di socialità hanno subito una brusca frenata anche a causa della chiusura di gran parte delle attività lavorative, delle attività culturali e ricreative e delle occasioni di sostegno psicologico e sociale che nei tre penitenziari erano garantite dalla presenza di operatori esterni all’amministrazione penitenziaria e di volontari. “Le attività scolastiche sono ferme e non è, a oggi, stata attivata alcuna forma di didattica a distanza, le attività trattamentali sono ridotte al lumicino”, scrive la Caritas nel suo rapporto. È un girone infernale: la mancata presenza di volontari ha influito pesantemente anche sulla distribuzione di indumenti e di prodotto per l’igiene personale (che l’amministrazione penitenziaria non riesce a garantire nemmeno nella misura prevista dalla legge). A farne le spese ovviamente sono i detenuti più indigenti e più fragili. A San Vittore ci sono detenuti che non hanno nemmeno abiti adatti per proteggersi dal freddo invernale. Persino l’accesso degli avvocati è fortemente limitato e l’impossibilità di svolgere i colloqui con i propri famigliari è resa ancora più intollerabile dalla limitazione (e in alcuni casi addirittura la sospensione) di poter ricevere i pacchi con indumenti, prodotti alimentari e altri beni. “Nonostante siano chiare - scrive la Caritas Ambrosiana - le esigenze sanitarie che, in carcere come fuori, suggeriscono di limitare le occasioni di contatto interpersonale, quel che più preoccupa è il protrarsi della durata di questo regime d’eccezione, con il blocco proprio di quelle attività che più di tutte assolvevano alla funzione rieducativa della pena stabilita dalla Costituzione e che dunque sono indispensabili per un corretto funzionamento del sistema penitenziario”. Si attende che il ministro batta un colpo. Napoli. Bonafede fa passerella ma dimentica i drammi dei detenuti di Viviana Lanza Il Riformista, 31 dicembre 2020 Il ministro Alfonso Bonafede ieri mattina ha fatto una visita a Poggioreale. “Insieme al vice capo del Dap Roberto Tartaglia ho visitato il carcere di Napoli Giuseppe Salvia nella consapevolezza che quest’istituto rappresenta una delle realtà più complesse e difficili dell’intero sistema penitenziario italiano”, ha poi scritto il guardasigilli su Facebook. “Ci tenevo a portare personalmente la mia vicinanza a tutti coloro che lavorano e vivono nell’istituto”, ha aggiunto spiegando le ragioni della sua visita. “Sarebbe stato bello se il ministro avesse incontrato anche gli educatori, i volontari, coloro che accompagnano i detenuti nel loro percorso in carcere”, la replica di don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale. Sarebbe stato anche utile che il ministro avesse visitato tutti i padiglioni della casa circondariale, sia quelli dove i lavori di ristrutturazione sono stati fatti sia quelli dove l’umidità lascia i segni sulle pareti e si sta in dieci in una cella. “Avrebbe avuto la giusta visione”, spiega don Franco che al ministro ha posto il problema del sovraffollamento. “Gli ho spiegato che serve svuotare Poggioreale di almeno mille unità. Lui mi ha guardato perplesso - racconta - Gli ho chiesto di valutare seriamente l’idea delle case di accoglienza per detenuti adulti: costerebbero meno allo Stato e garantirebbero migliori risultati in termini di sicurezza per la società. Ma queste sono decisioni per persone coraggiose”, conclude don Franco. Anche il garante regionale Samuele Ciambriello, incontrando il ministro, ha posto l’attenzione sulla necessità di interventi per rendere il carcere più umano: “Ho chiesto anche perché non vengono utilizzati i 12 milioni di euro per la riqualificazione dei padiglioni fatiscenti di Poggioreale”. Bonafade ha ascoltato ma non si è sbilanciato, ha avuto parole di ringraziamento per gli sforzi di amministrazione e personale penitenziario nella gestione dell’emergenza pandemica (nel carcere cittadino i contagi sono scesi a uno tra i detenuti e quattro tra il personale), ma non ha speso una parola sui detenuti che vivono nelle celle affollate, non ha fatto alcun riferimento alla campagna vaccinale nelle carceri su cui tanto si stanno mobilitando garanti e penalisti napoletani né cenni alle lungaggini burocratiche e giudiziarie che trattengono in carcere anche chi avrebbe diritto a misure alternative alla detenzione. Eppure basterebbe osservarlo meglio il mondo del carcere per rendersi conto, sì degli sforzi di molte amministrazioni penitenziarie, di garanti, volontari, docenti del polo universitario penitenziario della Federico II, ma anche per notare le criticità e i drammi che vivono dietro le sbarre. L’anno sta per chiudersi ed è tempo di bilanci. Il 2020 è stato un annus horribilis per la popolazione carceraria campana, non solo a causa del Covid. Il numero dei bambini in tenera età, che per stare con le proprie madri sono costretti a vivere in carcere, aumenta di mese in mese: secondo l’ultimo aggiornamento ministeriale del 30 novembre scorso, si contano 7 bambini nell’Icam di Lauro, 2 nel carcere di Pozzuoli, 3 nel carcere di Salerno. Quanto ai suicidi in cella e agli atti di autolesionismo, in Campania quest’anno si sono registrati 9 suicidi, circa 170 casi di autolesionismo e 80 tentativi di suicidio evitati dall’intervento della polizia penitenziaria. Ed è in aumento il numero dei detenuti con disturbi mentali. Il 2020, inoltre, è stato l’anno della pandemia e delle tensioni che ne sono scaturite, dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere su cui la Procura sta indagando, l’anno del lockdown, delle attività trattamentali interrotte a causa del Covid e dei detenuti costretti a trascorrere le giornate quasi interamente in cella. È stato l’anno dei processi rinviati, delle istanze inoltrate ai Tribunali di Sorveglianza e dei Tribunali di Sorveglianza che non ce la fanno a rispondere in tempi ragionevoli perché, come nel caso di Napoli, lavorano con il 42% del personale amministrativo in meno rispetto a quello che sarebbe necessario. Ma tutto questo il ministro Bonafede lo sa? Venezia. Carcere Santa Maria Maggiore, i contagi di Covid salgono a 42: scatta l’allarme di Laura Berlinghieri La Nuova Venezia, 31 dicembre 2020 Esplode il focolaio all’interno del carcere di Santa Maria Maggiore, dove sale a 42 il totale di positivi, di cui 38 tra i detenuti. I primi contagi, con numeri di un certo rilievo, erano emersi la settimana scorsa: 23 detenuti e tre agenti della polizia penitenziaria. Ma, nel giro di una settimana, le cifre sono praticamente raddoppiate. “E probabilmente i positivi sono ancora più di quelli che conosciamo, visto che i tamponi vengono fatti a rilento, non interessando l’intera platea del carcere”, denuncia Gianpietro Pegoraro di Cgil. “È vero che, tra il personale, i contagi sono pochi. Ma, vista la quantità enorme di detenuti positivi, sarà estremamente difficile circoscrivere il focolaio. La nostra speranza è nei vaccini, che potrebbero arrivare nelle carceri già a febbraio”. Anche per questo sembra tramontare l’ipotesi di trasferimento dei detenuti positivi nelle carceri di Rovigo (a medio - alta sicurezza) e di Trento, come ipotizzato alcune settimane fa. Rimane solo uno, invece, un positivo nel carcere femminile; all’interno del personale amministrativo. I casi emersi a Santa Maria Maggiore contribuiscono a dare una dimensione al picco dei 662 nuovi positivi emersi mercoledì, per un totale di 12.456 casi tuttora attivi nel territorio provinciale. Quindici, invece, le vittime registrate nelle ultime 24 ore, che fanno salire a 1.084 i decessi nel Veneziano dall’inizio della pandemia. Diminuiscono i posti letto occupati tra gli ospedali e le strutture intermedie della provincia: sono 571 (-10) di cui 60 (stabili) in terapia intensiva. Intanto ieri è iniziata la campagna di vaccinazione contro il Covid all’interno degli ospedali. E continua il fuoco sul dibattito circa l’opportunità di rendere obbligatorie le somministrazioni per il personale sanitario. L’adesione, a livello regionale, dovrebbe comunque essere prossima al 90%. “Io mi auguro che la sottoposizione rimanga volontaria; ma perché per un sanitario, sottoporsi al vaccino, dovrebbe essere automatico”, sostiene Giovanni Leoni, presidente veneziano dell’Ordine dei medici. “Quanto mi sono iscritto alla facoltà di Medicina, nel lontano 1976, farsi la vaccinazione contro la tubercolosi era un prerequisito per essere ammessi. Quando ho iniziato a lavorare in un ospedale, con la mano destra mi hanno dato il camice e con la sinistra i moduli per esami del sangue e vaccinazioni. Se vuoi fare il medico, passi di lì. Non dimentichiamo che, nei Paesi non industrializzati, le malattie infettive rimangono la prima causa di morte. Ma noi non abbiamo questa percezione. La polemica sui vaccini è una polemica sterile; ci sono cose che la scienza ha già consolidato. I vaccini sono una di queste”. Napoli. Il manettaro Maresca o l’antipopulista Bassolino? Non ho dubbi di Tiziana Maiolo Il Riformista, 31 dicembre 2020 Il carceriere e il carcerato. Maresca e Bassolino. Sarebbe una bella sfida per Napoli, e saprei da che parte stare, indipendentemente dai partiti. O malgrado loro, o anche contro qualcuno di loro. Due uomini di giustizia, uno per scelta, l’altro per penitenza. Il primo è una star della trasmissione di Massimo Giletti, l’altro si è imposto un lungo silenzio che ha attraversato gli eterni anni della sua penitenza giudiziaria, circa una ventina. Potrebbe capitare di vederli uno di fronte all’altro, a sfidarsi nei prossimi mesi per la conquista di Palazzo San Giacomo e della fascia tricolore. Potrebbe capitare e non avrei dubbi, se fossi una cittadina napoletana. Voterei Antonio Bassolino. Non avrei bisogno di turarmi il naso, anzi lo farei con allegria, i muscoli facciali ben distesi nel sorriso e nella speranza che Bassolino di oggi sia un po’ ancora quello di ieri. Quello che ho avuto occasione di incontrare come uomo di sinistra non avvelenato dall’antiberlusconismo del suo partito, ancora un po’ orfano dell’ingraismo del manifesto dove avevo militato per vent’anni, liberale di pensiero e di modi. Mi piacerebbe, in campagna elettorale, vederlo su quel palco di Piazza del Plebiscito dove gli uomini del Pd di Walter Veltroni gli impedirono di salire nel 2008. In nome del rinnovamento, gli dissero, definendo così il loro stare dalla parte del “boia” invece che da quella della vittima. Da tempo era nata la sinistra giudiziaria, da quando il Pci era stato salvato dalle rovine di Tangentopoli. E Bassolino il brillante, Bassolino l’anti-demagogo, Bassolino il carismatico che, come ha ricordato Piero Sansonetti, sapeva tenere insieme l’utopia e la realtà senza mai permettere che l’una prevalesse sull’altra o l’altra sull’una, fu preso a calci con feroce tranquillità. Il lebbroso-imputato denunciato da uno di sinistra che a sua volta si seppe costruire su quello la sua carriera politica e parlamentare. Processato diciannove volte e diciannove volte assolto. Ma in quei giorni prevalsero indifferenza, cinismo, invidia. Il piatto del suo partito, dei suoi compagni, dei suoi amici, gli fu servito così. Con la freddezza di chi si bagna il dito e gira semplicemente la pagina. Non credo che la sinistra avrà il coraggio di candidarlo a sindaco di Napoli. Non perché manchino le facce di bronzo, da quelle parti, lo so bene. Ma perché oggi il Pd di Zingaretti (ma anche il partitino di Renzi o Leu o altri segmenti locali della sinistra) è molto debole. E l’ingaggio di uno come Bassolino comporterebbe di saper disporre di una certa forza, di un progetto per la città, di una comunità coesa su quel progetto. E anche di un po’ di fantasia e di sogni, da tempo rinchiusi a doppia mandata nei cassetti della sinistra. Sarà fortunato il dottor Catello Maresca, se non avrà di fronte come contendente un uomo come Bassolino. Un uomo, non una maschera, un simulacro, un capetto, un burocrate. Un uomo che ha sofferto, non per mano di Catello Maresca, ma di alcuni che erano più o meno come lui. Pubblici ministeri come Paolo Sirleo, per esempio, quello che insieme al collega Giuseppe Noviello lo ha inseguito di processo in processo, persino sollecitando spostamenti di competenza territoriale pur di non farselo sfuggire, e perdendoli tutti. Due pubblici ministeri che, come è nella storia di tutti i magistrati, hanno proseguito tranquillamente la propria carriera, senza che un’ombra potesse mai macchiarla. Il dottor Noviello è oggi giudice a Perugia, Paolo Sirleo è in Calabria, è un sostituto del procuratore Gratteri. È lo stesso che ha chiesto e ottenuto l’arresto del presidente del consiglio regionale Tallini, quello definito dal gip che non si vergognava (parola sue) di copiare le richieste del pm e che definiva l’uomo politico “ombra dietro le ombre”. Anche questa volta Sirleo ha perso, insieme al suo capo della procura antimafia Nicola Gratteri. Ma ha anche un po’ vinto, perché Tallini, dopo esser stato scarcerato, ha detto che non si ricandiderà alle prossime elezioni regionali. Chi ha letto le carte dell’inchiesta che lo riguarda, sa con quanta insistenza la pubblica accusa aveva sottolineato in due note integrative al gip (in luglio e in novembre) della richiesta di custodia cautelare, il fatto che Tallini fosse il più votato nell’area crotonese e che questo fatto fosse di “attualità” e “continuità con i temi di prova”. Il problema sembrava quasi la ricandidatura dell’ex presidente del consiglio regionale. Il quale si è tirato indietro. Magari per non avere la stessa sorte di Bassolino. Di non dover diventare una sorta di turista giudiziario per i prossimi vent’anni. Sento già sullo sfondo, ma neanche tanto, le voci dei virtuosi dirigenti dei partiti del centrodestra napoletano obiettare che Maresca non è Sirleo (ah no?), perché da tutta una vita lotta contro la camorra e vive scortato da dodici anni, fin da quando ha arrestato Michele Zagaria, capo dei Casalesi, i quali gliel’hanno giurata. Grazie, queste cose le sappiamo, perché il dottor Maresca le ripete ogni domenica sera sul set di Massimo Giletti. E ogni volta io penso che vorrei avere occasione per spiegargli una cosa che lui sa bene, ma che finge di ignorare, e cioè che il pubblico ministero, essendo un magistrato e La persecuzione Bassolino è un uomo, non una maschera. Un uomo che ha sofferto per mano di altri pm come Sirleo e Noviello, che nonostante il grave errore giudiziario commesso hanno continuato tranquilli la loro carriera non un poliziotto, non deve proprio lottare contro nessuno. Ma mi piacerebbe sapere che cosa pensano Silvio Berlusconi che, a quanto leggo sui quotidiani bene informati, ha parlato personalmente con il magistrato per proporgli la candidatura, e i garantisti di Forza Italia rispetto al comportamento tenuto da Catello Maresca sulla vicenda dei provvedimenti di sospensione pena e detenzione domiciliare dei carcerati malati durante la prima ondata di contagio da Covid-19. Il diritto alla salute ha la forza costituzionale per prevalere su ogni altro, compresa la sicurezza. Dovrebbe essere chiaro a tutti, ma il procuratore Maresca evidentemente non la pensa così. È stato tra i più accaniti nel contestare la famosa circolare del Dap del 21 marzo in cui, in piena emergenza per il rischio di contagio di Coronavirus in luoghi affollati e ristretti come gli istituti di pena, si sollecitavano i direttori delle carceri a segnalare quali fossero i detenuti più anziani e più malati. Ha protestato, insieme a Giletti e a suoi colleghi a lui omogenei di pensiero quali Nino Di Matteo e il sindaco più populista d’Italia Luigi De Magistris, quando giudici e tribunali di sorveglianza hanno emanato provvedimenti di sospensione pena e di detenzione domiciliare. Ha definito “famigerate” la circolare e le scarcerazioni. E quando il 6 giugno il nuovo corso del Dap, presieduto e vice-presieduto da pubblici ministeri “antimafia”, ha fatto marcia indietro su quel provvedimento che era solo umanitario, ha festeggiato con parole solenni: “Si pone fine alla pagina più brutta della storia della gestione carceraria di questo Paese”. Certo, leggo che il dottor Maresca, che ha già il suo gruppo di lavoro e un ufficio stampa, benché non abbia ancora sciolto la riserva sulla candidatura e ami farsi corteggiare ancora un po’, è capace di gesti di coraggio. Come quello di stracciare la tessera del suo sindacato dopo che mezza Anm napoletana l’ha già fatto prima di lui. E anche che è vicino al mondo del terzo settore e fa molta beneficenza. Me ne compiaccio. Ma, rispetto a un magistrato che si definisce “anti”, preferisco uno che sia “per”. Scelgo la dignità del lungo silenzioso percorso di Antonio Bassolino. Non so se sia più iscritto al suo partito e non mi interessa. Io, se fossi cittadina di Napoli, come sindaco vorrei uno come lui. Anzi, proprio lui. Milano. Sul concorso per San Vittore: bene, ma perché circoscriverlo? di Cesare Burdese ilgiornaledellarchitettura.com, 31 dicembre 2020 Pubblichiamo una lettera di commento al concorso d’idee bandito dalla Triennale di Milano per ripensare gli spazi del carcere. Spettabile redazione, nel solco dell’azione che da molti decenni conduco per contribuire a far crescere, nel nostro paese, il fronte culturale architettonico sul tema dell’edilizia carceraria, ancora una volta mi avvalgo di questo Giornale (per il quale ho curato l’inchiesta “Emergenza carceri”) per portare alla ribalta questioni aperte. Lo spunto mi è dato dal concorso d’idee “San Vittore, spazio alla bellezza”, recentemente lanciato dalla Triennale di Milano e dalla casa circondariale Francesco Cataldo - San Vittore di Milano, rivolto a progettisti, architetti, designer, urbanisti, ingegneri. Obiettivo dell’iniziativa è promuovere una nuova concezione di casa circondariale, attraverso la riprogettazione di alcuni spazi del carcere, per cambiarne la percezione e migliorarne la funzionalità, iniziando dalla bellezza degli spazi che lo ospitano. Il prodotto finale consiste nell’elaborazione di studi di fattibilità tecnico-economica per ogni ambito d’intervento, ad opera dei progettisti selezionati, partendo dall’identificazione dei bisogni della casa circondariale, dei suoi attori, dei suoi utenti e dei cittadini. Un metodo questo già utilizzato all’estero, nella progettazione del nuovo carcere di Haren in Belgio, e che rappresenta indiscutibilmente una nota positiva nel desolante scenario nazionale della progettazione carceraria, fortemente caratterizzato da prassi che nulla hanno a che fare con la condivisione. Osservo come nei testi introduttivi dei promotori, allegati al bando, si esprimano valori e temi che appartengono al “carcere ideale” della Costituzione e dell’Ordinamento penitenziario - peraltro da decenni sempre declamati e scarsamente concretizzati - in assenza di una loro contestualizzazione nel “carcere reale”. Il fatto che la legge di riforma dell’Ordinamento penitenziario, risalente nella sua prima formulazione al 1975 e tutt’ora in vigore con qualche modifica recente di modesta rilevanza, non abbia ancora trovato compimento, rende non solo il senso dell’impotenza generalizzata a risolvere i problemi che affliggono il nostro carcere, ma velleitaria ogni azione per un suo reale cambiamento. Lo stato deplorevole, sia dal punto di vista materiale che umano, degli istituti detentivi in funzione - che ha visto l’Italia nel 2013 condannata dalla Corte europea dei diritti umani per trattamenti inumani o degradanti - rimane una costante, nonostante i recenti sforzi governativi profusi per superarlo. Dobbiamo essere consapevoli del quadro deficitario che investe il nostro universo carcerario, fatto di risorse umane, materiali ed economiche insufficienti, ma anche caratterizzato dall’assenza di strumenti culturali in grado di affrontare i temi architettonici che appartengono al carcere. Anche se in alcune aule universitarie il tema del carcere da alcuni anni viene insegnato, peraltro a volte in maniera episodica e fantasiosa, non si può affermare che, nel nostro paese, i giovani architetti e ingegneri ne abbiano adeguata contezza. Anche per questo motivo, ma non solo, giudico immotivata la scelta di circoscrivere l’accesso al concorso ai soli professionisti under 40 e iscritti agli Albi professionali di Milano e provincia. Meglio e più utile sarebbe stato offrire l’opportunità di espressione e raccogliere idee per la soluzione dei problemi architettonici che affliggono San Vittore, senza limitazioni anagrafiche o burocratiche e in un quadro reale di denuncia delle criticità in atto. Il rischio che intravedo con questa pur meritoria azione culturale è quello di perdere, ancora una volta, l’occasione di occuparsi realmente di una condizione disumana, tanto drammatica quanto distante da noi, considerandola mezzo e non fine. Agrigento. È il carcere di Petrusa ma sembra Alcatraz: dove sono finiti i diritti umani? di Andrea Cassia* Il Riformista, 31 dicembre 2020 Sovraffollamento, carenze e gravi disagi rendono la detenzione un calvario. La lettera-denuncia di un recluso. Riceviamo e pubblichiamo l’ennesima lettera-denuncia arrivata a Nessuno tocchi Caino dal “Petrusa”, il Carcere di Agrigento dove nulla pare sia cambiato, dopo le visite di Rita Bernardini e le interrogazioni parlamentari di Roberto Giachetti. Sono detenuto nel reparto Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Agrigento dal 16 luglio 2013, giorno in cui ebbe inizio il mio “calvario”. Già in passato ebbi modo di udire delle strane analogie che accostavano questo istituto al penitenziario americano di Alcatraz. Sì, proprio a quella struttura che nell’immaginario collettivo suscitava sofferenza a dismisura, maltrattamenti e torture tanto decantate nelle pellicole hollywoodiane, ma nulla poteva farmi anche lontanamente pensare che tutto ciò che stavo vivendo fosse reale in barba a qualsiasi legge europea sui diritti dell’uomo prima ancora che alla nostra tanto promettente quanto inefficiente Costituzione. E se oltre il danno deve esserci anche la beffa, questa si materializzava nelle nostre svariate forme di protesta (istanze al direttore o al magistrato di sorveglianza, scioperi della fame, mancati rientri nelle camere di pernottamento, ecc.) che puntualmente, dopo l’apparente concessione volta a calmare le pacifiche rivolte, si concludevano in un nulla di fatto. Questo accadeva per assenza di acqua calda in cella; mancanza di riscaldamenti; sovraffollamento di 2 o anche 3 detenuti in celle create per ospitare una sola persona; infiltrazioni d’acqua dai tetti che ancora oggi si verificano nonostante la recente ristrutturazione; assenza pressoché totale di figure di vitale importanza come educatore e psicologo; area sanitaria, se così si può chiamare, carente in tutto; finestre delle celle arrugginite con conseguenti spifferi nonché infiltrazioni di acqua; saletta destinata alla socialità tra detenuti utilizzata anche come locale di spartizione spesa, scuola, cucina didattica, chiesa, oratorio, palestra e quant’altro e pure priva di bagno; sala colloqui con evidenti infiltrazioni d’acqua prive di caloriferi e maleodorante; bagni privi di infissi o, in alternativa, di aeratori funzionanti; assenza di bidet e doccia nelle celle; assenza di colloqui in “area verde” o aree ludiche nelle sale colloqui per i bambini in tenera età; TV con solo 10 reti funzionanti; mancanza di WC nella sala di attesa adibita alla consegna dei documenti di riconoscimento da parte dei nostri familiari quando vengono ai colloqui; carrello del vitto giornaliero in cui i pasti, da prassi, arrivano freddi o ancora semicrudi; erogazione idrica spesso e soprattutto nel periodo estivo interrotta senza alcun preavviso che nei casi peggiori ha costretto i detenuti ad espletare i bisogni fisiologici in secchi o bottiglie di plastica. Più volte, come sappiamo, l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per le palesi violazioni dei diritti dell’Uomo nelle nostre carceri, ma nulla o quasi si concretizza nel merito e laddove esiste una legge che possa intervenire in soccorso di una violazione di tali diritti questa viene ignorata dai magistrati, garanti supremi del rispetto della legge, come quelli di sorveglianza, con le motivazioni le più folcloristiche e tracotanti di sarcasmo. È infatti ormai di pubblico dominio che della “legge Torreggiani” ad Agrigento non si possa usufruire in quanto anche d’inverno la nostra amata Sicilia gode di un clima mite. Non voglio nascondermi dietro un dietro un dito e razionalmente penso a quanto sia giusto scontare la pena se si è riconosciuti colpevoli di reato. Ma non posso e non voglio credere di trovarmi sul banco degli imputati di un tribunale della Santa Inquisizione dove dei Torquemada di età contemporanea ordinano ed eseguono roghi quanto mai attuali. Infine, mi permetta di chiudere con una massima che ho letto di recente in un libro. Essa citava: “Il grado di civiltà di un Paese lo si misura anche dallo stato delle sue carceri”. *Detenuto presso la Casa circondariale di Agrigento Pistoia. Nel carcere nuovi spazi per il benessere del personale e le attività dei detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 31 dicembre 2020 Nella casa circondariale di Pistoia, il 15 dicembre scorso si è tenuta una cerimonia per una doppia inaugurazione: quella dello spazio riservato allo spaccio per il personale e quella per la sala polivalente destinata a iniziative peri detenuti. Loredana Stefanelli, direttrice della casa circondariale toscana, e Angela Venezia, dirigente del Provveditorato Regionale Toscana e Umbria, hanno illustrato i progetti di ristrutturazione dei due locali, realizzati con obiettivi, tempi e strumenti diversi ma entrambi frutto del notevole impegno in termini di risorse umane ed economiche investite. Inaugurazione dello spazio spaccio nel carcere di Pistoia - Lo spaccio, ossia l’area che ospita il bar/ristoro e la vendita di articoli provenienti spesso da lavorazioni o attività produttive penitenziarie, è stato riaperto dopo quindici anni di chiusura grazie a una ristrutturazione radicale. Arredato in maniera confortevole con nuove sedie, tavoli e piante ornamentali, è stato pensato per offrire un luogo dove rilassarsi anche scegliendo un libro nella piccola biblioteca che vi è stata allestita e accessibile a tutto il personale. “Favorire la lettura e la cultura - viene spiegato una nota della direzione - anche in locali non dedicati, può essere un’occasione di valorizzazione e di crescita dell’amministrazione penitenziaria in particolar modo quando tutto ciò avviene in una piccola realtà come l’istituto di Pistoia”. Uno spazio soppalcato che sarà adibito a comfort-zone, utile soprattutto al personale residente in caserma, completerà a breve il progetto. Attualmente lo spaccio è funzionante nella fascia mattutina ma la direzione assicura che l’orario di apertura si estenderà al pomeriggio. L’angolo dei libri all’interno del nuovo spazio spaccio/bar all’interno del carcere di Pistoia - La sala polivalente, interamente rinnovata nei rivestimenti e adeguata a tutte le norme in materia di sicurezza, è stata dotata di servizi igienici e di uno spazio palestra separato dall’area riservata alle iniziative organizzate per favorire il contatto con la comunità esterna. I lavori sono stati realizzati grazie a un progetto approvato da Cassa Ammende ed eseguiti da detenuti al termine di un corso di formazione sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Inaugurazione dello spazio palestra per i detenuti nel carcere di Pistoia - Al termine dell’evento la direttrice Stefanelli ha consegnato a Giovanni Mosca, funzionario della casa circondariale di Prato che ha seguito i lavori, sia per la progettualità sia per le fasi amministrativo contabili, una targa in segno di riconoscimento per “l’impegno e il costante supporto al progetto che, senza la sua competenza professionale, non avrebbe avuto gli esiti auspicati”. Verona. La scuola può aiutare a cambiare, anche tra le mura di un carcere di Marta Morbioli verona-in.it, 31 dicembre 2020 Nicoletta Morbioli, dirigente Cpia, e Paola Tacchella, docente con allievi reclusi, raccontano la loro esperienza a Montorio. L’iniziativa “Adotta uno scrittore”, sostenuta dall’associazione delle fondazioni di origine bancaria del Piemonte e promossa dal Salone Internazionale del Libro di Torino, anche quest’anno ha scelto di coinvolgere nei propri progetti il mondo carcerario. Il 1, 3 e 7 dicembre 2020 si sono tenuti gli incontri alla Casa circondariale di Montorio con lo scrittore Fulvio Ervas, autore veneto tra le cui numerose pubblicazioni ricordiamo Se ti abbraccio non aver paura (2012) in cui racconta l’avventuroso viaggio di Franco e Andrea Antonello, padre e figlio affetto da autismo. Facciamo un viaggio a ritroso, partendo da quest’ultimo progetto per capire in profondità e senza retorica tutte le sfaccettature della scuola in carcere, accompagnati da Nicoletta Morbioli, dirigente del Cpia (Centro provinciale per l’istruzione agli adulti) e da Paola Tacchella, docente da 30 anni nel mondo carcerario. Partiamo dunque dall’iniziativa “Adotta uno scrittore”: un progetto di lettura, momenti di condivisione e incontri… com’è stato possibile tutto questo alla Casa circondariale di Montorio? Tacchella. “È frutto di un lungo percorso di lavoro e progettualità scolastica e culturale che stiamo coltivando da anni. Finalmente nel 2019, attraverso il Cesp - Rete delle Scuole Ristrette, le nostre attività scolastiche sono uscite dalle mura cittadine e sono approdate a Matera, Capitale Europea della Cultura, dove è stato presentato il laboratorio teatrale con protagoniste le donne detenute. Da lì poi il viaggio è proseguito e siamo arrivati al Salone del Libro di Torino che ci ha invitato a partecipare all’iniziativa “Adotta uno scrittore”. Il primo incontro con Fulvio Ervas è stato incentrato sul libro Se ti abbraccio non aver paura, il secondo è stato un momento di riflessione sullo scrivere, Il terzo incontro si è focalizzato sul “cosa facciamo”, idea e volontà di costruire una storia di natale, elaborata attraverso le scritture dei detenuti che hanno partecipato al laboratorio”. Morbioli. “Nonostante l’emergenza sanitaria, siamo una delle due realtà nazionali che sono riuscite (l’altra è al carcere dell’Ucciardone, che è un istituto penale) a realizzare gli incontri in presenza, fondamentale per garantire il valore del confronto. Non è stata una cosa facile, ma ci siamo riusciti anche grazie all’appoggio della direttrice del carcere Maria Grazia Bregoli e alla disponibilità dello scrittore Fulvio Ervas, che fin da subito ha dimostrato un’attenta e sensibile partecipazione al progetto”. Qualcuno potrebbe pensare che iniziative come queste siano “opportunità non meritate” che cosa rispondete? Morbioli. “Chi pensa questo, secondo me non ha fiducia nella capacità formativa della scuola né in carcere né fuori; ancora oggi purtroppo si sottovaluta il potere dell’istruzione e della cultura come strumento di stabilità sociale e questo è davvero un grande errore”. Tacchella. “Soprattutto chi ha commesso reati ha maggiormente bisogno di coltivare la cultura. Leggere è vivere altre vite e permette di uscire dal proprio egocentrismo; aiuta a superare il vittimismo favorendo un percorso di crescita interiore e di consapevolezza di sé e degli altri. La lettura partecipata è un’esperienza costruttiva a maggior ragione per una persona in carcere, che ha limitate possibilità di confronto. La cultura è una forma di investimento per favorire un’evoluzione della persona i cui cambiamenti concreti si vedono già all’interno del carcere”. Lei insegna a studenti o a detenuti? Tacchella. “La prima cosa che dovrebbe fare un insegnante quando entra in classe, e non solo in carcere, è liberarsi dai pregiudizi, perché il condizionamento non permette mai di compiere il proprio lavoro in libertà e con onestà. Questo non significa chiudere gli occhi e far finta di niente, so benissimo che ho di fronte persone che nel passato hanno compiuto azioni anche gravi, ma so che io sono lì per insegnare e che il mio ruolo è quello di trasmettere loro conoscenze, una “cassetta degli attrezzi utili” per rientrare in società diversi da come sono entrati in carcere. Io mi occupo di alfabetizzazione e mi è capitato di avere in classe persone che sono in Italia da tanti anni e che non sanno ancora parlare la nostra lingua; come si fa quindi a parlare di inclusione se non si è in grado di esprimere cittadinanza attiva? L’istruzione è un diritto, non è una concessione al merito”. Che tipo di scuola è quella in una casa circondariale? Morbioli. “È un’esperienza di confronto complessa. Questo tipo di struttura carceraria ospita persone in attesa di giudizio e quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni, questo significa dover creare una progettualità in continuo cambiamento a causa dell’alternarsi delle persone. Negli ultimi anni si è lavorato molto su questo aspetto grazie anche alla lungimirante attività della direttrice del carcere Maria Grazia Bregoli, che crede fermamente nel progetto educativo della scuola”. Tacchella. “In una struttura come questa la tensione è sempre palpabile, l’attesa del domani accompagna le giornate e condiziona tutte le attività. Gli equilibri sono precari, basta il cambio di un compagno di cella per destabilizzare un’intera classe. Per un insegnante è una forma di allenamento quotidiano continuo, che ti fa capire che non ci sono persone sbagliate, ma situazioni diverse da affrontare quotidianamente”. Qualcuno definisce il suo lavoro come una “missione”, per la passione e l’impegno che ci mette ma è corretto definirlo così? Tacchella. “Non è una missione è un lavoro, anche se c’è tanta passione e impegno. Chiamare le cose con il loro nome aiuta a dare una corretta connotazione e un giusto riconoscimento sociale a quello che facciamo, altrimenti può diventare un alibi per chi pensa che la scuola in carcere sia un passatempo e il tutto si esaurisca dentro una cella. L’attestato rilasciato dalla scuola in carcere è istruzione dell’adulto e ha lo stesso valore di una licenza o diploma presi fuori. L’insegnante che lavora in carcere deve avere delle competenze specifiche, si viene percepiti come un punto di riferimento; è necessario non sottovalutare nulla, deve anche saper definire dei confini ben precisi e trasmettere il senso delle regole, a partire da quelle scolastiche. La scuola non è solo un trasmettitore, fornisce strumenti e apre visioni, allarga gli spazi di costruzione ai futuri possibili. Questo non significa certo essere un benefattore, significa compiere il proprio lavoro con professionalità; è sempre e costantemente una questione di equilibrio per non cadere nell’errore del buonismo o non rimanere nella rigidità”. Che valore sociale ha la scuola in carcere e perché è un’opportunità anche per chi sta fuori e non solo per chi sta dentro? Morbioli. “La scuola non ha un marchio di fabbrica, l’attestato rilasciato in carcere è spendibile fuori e permette di avere una possibilità di scelta che magari prima non era neanche immaginabile. Questo va a vantaggio di tutta la comunità, che ritrova un individuo potenzialmente cambiato. Avere la presunzione di essere infallibili a volte ci porta a pensare che a noi non possa succedere nulla del genere, ma in realtà il confine tra “giusto e sbagliato” talvolta è molto labile, per questo collaboriamo e manteniamo i contatti anche con le scuole superiori, perché i ragazzi possano riflettere e maturare sulla consapevolezza che ogni individuo può sempre scegliere e che le nostre azioni hanno sempre delle conseguenze. Non basta dire che l’istruzione è importante, bisogna crederci veramente”. Catanzaro. Dalla pasticceria del carcere alle famiglie bisognose catanzaroinforma.it, 31 dicembre 2020 La solidarietà di fine anno dei detenuti. “Torte distribuite, nel corso delle feste, alle famiglie meno fortunate della città”. Il periodo di pandemia da Covid non ha fermato l’inventiva e il desiderio dei volontari cappellania carceri Catanzaro di partecipare in qualche modo alla vita dei detenuti che da tempo non incontrano, con proposte alternative alla presenza. Il Natale, per tutti un momento particolarmente suggestivo, quest’anno ancora più particolare, a causa delle restrizioni dovute al Coronavirus, ma necessarie, ha permesso ai tanti volontari di attivare la fantasia con nuove iniziative nel tempo che ha preceduto il grande evento religioso. Per questo motivo, una volontaria del gruppo che opera in carcere, ha proposto alla pasticceria del penitenziario di realizzare alcune torte da mettere all’interno delle borse che sono state distribuite, nel corso delle feste, alle famiglie meno fortunate della città. “L’iniziativa - ha spiegato suor Nicoletta Vessoni, punto di riferimento del gruppo di volontari - ha avuto l’immediata approvazione della direttrice del penitenziario, Angela Paravati, alla quale abbiamo inoltrato la proposta della volontaria. La direttrice ha detto subito sì, offrendo la possibilità alle famiglie che si trovano in una situazione di difficoltà, di avere in dono un dolce di vera pasticceria. Un dolce dal sapore veramente speciale”. Le persone prescelte hanno ricevuto, all’interno del pacco, infatti, anche un biglietto che spiegava loro la provenienza dei dolciumi e la grande disponibilità dei pasticcieri del carcere di Siano. “Insomma - ha concluso suor Nicoletta - Natale dentro, Natale fuori… che abbatte tutte le barriere e ci fa essere tutti fratelli”. L’Italia sospesa tra la paura e la speranza di Massimo Giannini La Stampa, 31 dicembre 2020 Finisce l’anno peggiore della nostra vita. L’Anno Uno d.C. Il primo non “dopo Cristo”, che ha lasciato perdere Eboli e si è fermato chissà dove. Ma “dopo Covid”, che invece si è fermato ovunque nel pianeta seminando sofferenza, dolore, morte. E cambiando forse per sempre la Storia. Del 2020 il premier Conte aveva detto “sarà un anno bellissimo”. Sappiamo com’è andata. Il più scellerato dei pronostici ha coinciso con il più crudele degli anni. Ne usciamo a pezzi, in ogni senso. Tutto è aggredito, violato, compromesso. Vite umane e abitudini quotidiane, rapporti affettivi e assetti produttivi, relazioni sociali e transazioni internazionali. L’abbiamo sperimentato sulla nostra pelle: “O la borsa o la vita” non è un’alternativa possibile. Mai come in questa tragedia non c’è l’una senza l’altra. Ma abbiamo capito con altrettanta chiarezza che far coesistere la pandemia e l’economia è una missione difficile e tuttavia irrinunciabile. Una sfida senza precedenti per le leadership del Grande Mondo. Uno stress test senza attenuanti per l’establishment della Piccola Italia. Ancora una volta sospesa tra la paura e la speranza. Nella guerra contro la pandemia quello che è accaduto lo certifica l’Istat: 84 mila vittime in più tra gennaio e novembre. Quello che ci aspetta lo annuncia il ministro Speranza: per il 2021 abbiamo un’arma in più, il vaccino. Ma ci sarà ancora da combattere a lungo. Ammesso che il “Quartier Generale” sia capace di gestire il conflitto, resta da chiedersi se “l’intendenza seguirà”. Condivido i dubbi sollevati su questo giornale da Emma Bonino, che nel piano vaccinale del governo individua più di una criticità. In teoria l’obiettivo è raggiungere l’immunità di gregge nel settembre 2021, vaccinando almeno l’80% della popolazione. In pratica le strutture del Servizio Sanitario Nazionale e quelle delle regioni non sembrano in grado di assicurare una copertura così capillare, né per risorse finanziarie né per risorse umane. E guardare il prato nel giardino degli altri fa male. La Francia ha impostato il suo piano vaccini a luglio (mentre noi ci preparavamo ai balli estivi in Costa Smeralda). La Germania il suo piano l’ha varato a settembre (mentre noi già piangevamo sul troppo virus versato nelle discoteche d’agosto). Nella guerra per rilanciare l’economia quello che è accaduto e quello che ci aspetta lo spiega il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Sotto i colpi del lockdown, la mondializzazione tramonta. Quest’anno il Pil del pianeta si contrarrà di oltre 4 punti, generando la recessione più profonda dalla Seconda Guerra mondiale. Uno shock, se si pensa che tra il 1990 e il 2019 il Prodotto globale era aumentato di quasi tre volte, il commercio internazionale era raddoppiato, la mortalità infantile era crollata dal 64 al 28 per mille e oltre 1 miliardo di persone erano uscite dalla povertà assoluta. Il contagio non solo frena i consumi e distrugge il lavoro, ma rialza le frontiere e frena gli scambi. Così arriviamo a quella che Marie Charrel su Le Monde definisce la “slowbalisation”: non la fine della globalizzazione, ma un suo drammatico rallentamento. Così si aggravano ulteriormente le “disuguaglianze asimmetriche”: si riduce il fossato che separa i Paesi Avanzati da quelli Emergenti in termini di reddito disponibile, ma all’interno degli uni e degli altri si allarga a dismisura l’abisso che separa i ricchi dai poveri. Il nostro Paese è dentro questo gorgo. Nel 2020 la caduta del Pil è di 9 punti. Se tutto va bene, dovremo aspettare la seconda metà del 2023 per riassestarci ai livelli pre-Covid (per altro già bassi visto che scontavano la Doppia Crisi: della finanza nel 2007, dei debiti sovrani nel 2011). Paghiamo il prezzo delle nostre storiche e arcinote debolezze. Scarsa istruzione, bassa qualità del lavoro, pochi investimenti, ascensore sociale e inter-generazionale bloccato. Tra i Paesi Ocse siamo secondi per numero di giovani 15-29enni che non studiano, non si formano e non lavorano, mentre siamo penultimi per quota di popolazione 25-34enne con titolo di studio terziario. La spesa pubblica e privata per ricerca e sviluppo è pari all’1,4% del Pil, meno della metà di Usa e Cina. Se le nostre imprese avessero la stessa dimensione media di quelle tedesche la produttività nell’industria sarebbe più alta del 20%. Se nella Pubblica Amministrazione si lavorasse come in Germania la produttività media nei servizi crescerebbe del 15%. Andiamo avanti così, facciamoci del male. Eppure nella sventura chiamata Coronavirus ci si offre un’opportunità irripetibile. I 209 miliardi del Recovery Plan sono manna dal cielo. Ma a patto che nel Paese ci siano mani capaci di raccoglierla. E anche su questo è tutto un fiorire di dubbi. Dopo i moniti di Gualtieri, Amendola e Gentiloni, finalmente anche il presidente del Consiglio ammette che siamo in grave ritardo sulla presentazione del piano. Dopo mesi dilapidati tra Rumor e Manzoni, a “frenare e rinviare” e a “troncare e sopire”, ora l’Avvocato del Popolo riconosce che “non possiamo galleggiare” e che le tranche semestrali degli aiuti Ue “rischiano di essere sospese, o addirittura dovranno essere restituite”. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Ma la verità è che non sappiamo se sia già troppo tardi. E soprattutto non sappiamo se questo governo e se questa classe dirigente siano davvero all’altezza del compito. Le premesse non sono buone. Le Linee Guida del Recovery italiano redatte finora, come ironizzava Andreotti su certi discorsi di Moro, sono davvero “brevi cenni sull’universo”. Le poste suddivise nei grandi capitoli sono consistenti per quantità ma sfuggenti per qualità. Il grosso dei progetti (circa 88 miliardi su 127 di prestiti Ue) riguarda vecchie opere incompiute e non investimenti innovativi nei settori a più alto valore aggiunto. Ogni partito della traballante maggioranza giallorossa ha presentato una sua “integrazione al piano”. In qualche caso (le 28 pagine vergate da Italia Viva) rappresentano in realtà “un altro piano”. Matteo Renzi le ha costruite intorno a quattro parole chiave: Cultura, Infrastrutture, Ambiente, Opportunità. E con il solito distruttivo “esprit florentin” ha lanciato l’acronimo CIAO. Non è il corrivo “Ciaone” con il quale dal referendum delle trivelle in poi il Giglio Magico liquidava amici e nemici. Ma poco ci manca. Rimettere ordine in mezzo a tanto caos non sarà facile. Impazza “l’euforia da deficit” (copyright Carlo Cottarelli) che ha prodotto una legge di bilancio con 26 miliardi di mancette di ogni genere, dalle bici ai rubinetti. Dilaga la marea del debito, che sfiora il 160% del Pil e che con l’anno nuovo si tradurrà in 367 miliardi di nuove emissioni di titoli di Stato. E qui torniamo al buon uso del Recovery, come chiarisce l’ex governatore della Bce, Mario Draghi: la sostenibilità del debito pubblico in un certo Paese sarà giudicata sulla base della crescita e quindi anche di come verranno spese le risorse del Next Generation Eu: se saranno sprecate, i progetti finanziati non produrranno crescita, e alla fine il debito diventerà insostenibile. Ecco sotto quale vulcano stiamo penando noi cittadini e sta danzando la politica. “Se non sapremo meritarci i fondi europei gli italiani avranno tutto il diritto di cacciarci con ignominia”, azzarda il premier travestendosi da grande statista. Con tutto il rispetto, sbaglia la prospettiva: se fallisce lui, stavolta fallisce l’Italia. Questa è la posta in palio, nell’Anno Due d.C. che sta arrivando. Non sarà bellissimo, sarà durissimo. Quei numeri che non vediamo di Walter Veltroni Corriere della Sera, 31 dicembre 2020 Il Paese invecchia e l’indice di natalità scende al livello più basso mai raggiunto. Quale futuro ha con questi dati? Come terrà il sistema pensionistico o il welfare complessivo se si ridurrà la popolazione attiva e crescerà, come per fortuna accade, la longevità della popolazione? “La matematica è la ginnastica posturale del cervello. Se fai ginnastica posturale è plausibile che le spalle rimangano dritte anche col passare del tempo”. Sono parole che Chiara Valerio usa per concludere il suo bel libro sul rapporto tra matematica e democrazia, matematica e politica. Guardiamo un po’ di numeri. Ci vuole pazienza e un buon rapporto col tempo per farlo in maniera ponderata. Con i numeri non si scherza. Non perché dicano la verità assoluta ma, al contrario, perché insegnano a ragionare, a dubitare. L’Istat ha recentemente reso noto che l’indice di vecchiaia della popolazione italiana - il rapporto tra chi ha più di 65 anni e chi ne ha meno di 15 - è passato dal 33,5% del 1951 al 180% del 2019. Il numero di anziani per bambino è passato, nello stesso periodo, da meno di uno a cinque. In pochi anni, dal 2011 al 2019, la percentuale delle persone che hanno più di 45 anni è salita dal 48,2% al 53,5%. Quest’anno orrendo sono morte più di 700.000 persone, un dato raggiunto solo sotto le bombe del 1943 e del 1944. Eravamo di meno allora, ma il dato di quest’anno è molto alto, per effetto di quel Covid del quale molti negavano la letalità. I numeri ci dicono poi una cosa che ci dovrebbe far sobbalzare: continua a diminuire la popolazione: al 1° gennaio 2020 i residenti ammontano a 60 milioni 317 mila,116 mila in meno su base annua. Aumenta il divario tra nascite e decessi: per 100 persone decedute arrivano soltanto 67 bambini (dieci anni fa erano 96). E l’immigrazione che si va riducendo, quest’anno 40.000 domande contro le 100.000 dell’anno scorso, non salda questo divario. Il Paese invecchia e l’indice di natalità scende al livello più basso mai raggiunto. Si arriverà nel 2020 attorno ai 400 mila neonati, nel 1964 ne veniva al mondo più di un milione. Quale futuro ha un Paese con questi numeri? Come terrà il sistema pensionistico o il welfare complessivo se si ridurrà la popolazione attiva e crescerà, come per fortuna accade, la longevità della popolazione? Scuole vuote e Rsa piene. Può essere questo un Paese moderno? Non sono dati che dovrebbero far temere la politica per la tenuta del sistema democratico? Spostiamoci su un piano che sembra diverso ma non lo è. Non lo è affatto. Nel nostro Paese la discussione sull’assetto politico istituzionale è stata sganciata colpevolmente dalla vita reale delle persone. Come se fosse un affare che riguardasse esclusivamente i professionisti della politica e non, come invece è, la qualità della vita dei cittadini e lo stato della nazione. Anche qui dei numeri. Dal 1971 a oggi in Gran Bretagna ci sono stati 10 premier, in Germania cinque cancellieri, in Spagna, nel dopo franchismo, sette primi ministri. In Italia sono stati ventidue diversi. Più di 110 parlamentari hanno cambiato gruppo di appartenenza. Nessun governo nella storia repubblicana è mai durato per un’intera legislatura. La durata media di un gabinetto è poco più di un anno. E questo, fino al 1994, è accaduto senza mai avere alternanza al governo, prassi poi sperimentata grazie al sistema elettorale che prese il nome dall’attuale presidente della Repubblica. La stabilità e l’alternanza sono la democrazia. La stabilità è il prodotto di leggi e di sistemi parlamentari che, a partire dai regolamenti, difendano le prerogative di governo dell’esecutivo e quelle di controllo dell’assemblea. E dal fatto che a scegliere i governi sia, sulla base di un programma e di una leadership, il corpo elettorale. Gli ultimi sei governi italiani sono stati, legittimamente, formati in Parlamento ma sono stati scelti dai gruppi dirigenti dei partiti, non dai cittadini che, recentemente, si sono trovati in poco tempo a guidare il Paese due coalizioni di orientamento opposto composte da partiti che fino al giorno prima, per non parlare delle elezioni, si erano reciprocamente coperti di contumelie. In questo contesto sembra, quasi un paradosso, essere maturata la convinzione della necessità di una legge elettorale proporzionale della quale peraltro, a sei mesi dal referendum, non si vede il segno. Come per tutto il resto delle riforme annunciate se avesse vinto il “Sì”. Il proporzionale, senza cancellierato e con sbarramenti bassi, è fonte certa di instabilità perché sposta sul tornaconto di partito e sulla faticosa alchimia necessaria per garantire la sostenibilità di una maggioranza, tutto il peso degli equilibri del sistema. Luciano Fontana, direttore di questo giornale, Paolo Mieli, Angelo Panebianco nei giorni scorsi hanno invitato a ragionare sulla necessità di strumenti elettorali che ci consentano invece, finalmente, di avere governi stabili, magari di legislatura. Solo una politica forte di una investitura popolare e certa di governare per cinque anni in attuazione del programma scelto dagli elettori sarà spinta infatti ad avere il coraggio di sfidare i conservatorismi e fare le riforme che servono all’Italia. Lo vediamo in questi giorni - immersi nell’emergenza della pandemia e alle prese con il Recovery fund, la più grande sfida immaginabile per la ripresa del Paese - la politica discute invece affannosamente, tra ultimatum e rinvii, della sopravvivenza di un governo che trascorre ore tra vertici e riunioni di capo delegazioni. Il Paese è imprigionato da una maglia d’acciaio che ne impedisce l’innovazione. Si chiama instabilità, si chiama trasformazione del governo in fine e non in mezzo. E sempre questo è giustificato, per ambedue gli schieramenti, dal pericolo mortale dell’arrivo degli “altri”. Il che costituisce così un’amputazione profonda della normale dialettica dell’alternanza che è anima della democrazia. La stabilità e l’alternanza sono legati. C’è da sperare in un Paese in cui i due schieramenti si rispettino e collaborino alla scrittura delle regole in un clima di convivenza civile, della quale i cittadini spossati sentono il bisogno. Per poi combattersi, magari con nettezza di differenze, sui programmi e sui valori. Un confronto alto, senza delegittimazioni reciproche, con l’ambizione di governi che nascano non solo per impedire che l’altro governi ma per realizzare le riforme, la modernizzazione, la giustizia sociale che costituisce lo scopo precipuo della stessa esistenza dei partiti politici. C’è un terzo numero, infine, che bisogna tenere sempre d’occhio. Il calo spaventoso del Pil che stiamo vivendo e le sue conseguenze sociali, in primo luogo sul lavoro e sulla sua qualità e quantità. La decrescita non è felice, lo sa chi sta vivendo la perdita della dignità del lavoro e dell’intraprendere. Una manciata di numeri. Che sono materia utilissima per la coscienza, il dubbio, la ricerca del nuovo. Il maestro Franco Lorenzoni, parlando di Emma Castelnuovo - grande docente e grande matematica - ha scritto: “Nel tempo del confinamento educhiamoci a sconfinare”. Educhiamoci, cioè, a immaginare ciò a cui purtroppo non siamo abituati. Noi che ormai viviamo tutti “nel frattempo”, bipolari tra paura e illusioni di Paolo Giordano Corriere della Sera, 31 dicembre 2020 Il sollievo grazie al vaccino è la narrazione di questa fase. Ma così si rischia di ripercorrere gli errori già fatti. Certe ricorrenze sono scritte nel nostro metabolismo. Che sia salutato da grandi festeggiamenti o attraversato con sobrietà, il passaggio di anno solare porta con sé la nozione di svolta. Al termine di un anno come questo, la suggestione della “pagina voltata” è più forte che mai. Abbiamo subìto e detestato il 2020 e riponiamo ogni fantasia di rinnovamento nel 2021. Dopo la paura, il sollievo. Dopo i limiti, la liberazione. Dopo l’anno della pandemia, l’anno dell’immunità. D’altra parte, la narrazione imposta dalle istituzioni e dai media a partire da novembre - all’incirca dal giorno in cui Pfizer ha annunciato i risultati confortanti sulla fase tre - ci spinge proprio in questa direzione. Il cambio di passo nella comunicazione è stato così eclatante da somigliare a una strategia di marketing decisa attorno a un tavolo: ora basta, da adesso speranza. In alto i cuori, perché siamo all’inizio della fine, ormai è questione di poco, da qui in avanti si rimane in attesa dell’arrivo messianico del vaccino. La campagna di vaccinazione inizierà nel più breve tempo possibile e si svolgerà con la massima efficienza, perché abbiamo stabilito che sarà così. Strategia di metafore - Poco importa che pressoché nulla fino a qui sia stato fatto in tempo utile o con la massima efficienza. Poco importa, per esempio, che non abbiamo ottimizzato neppure il sistema dei tamponi, a differenza di altri Paesi europei, e che in certe regioni si debbano pagare cifre insensate anche solo per sottoporsi a un test rapido privatamente, come se la prevenzione fosse la nuova frontiera del lusso. Tutto quello che è stato detto, proposto, messo a punto oppure no, ma comunque instancabilmente dibattuto, non ha più valore. Tanto arriva il vaccino. Perciò ecco il #VaccineDay, ecco la liturgia della prima infermiera a ricevere l’iniezione, ecco il camion che lascia lo stabilimento Pfizer di Puurs proprio alla vigilia di Natale, eccolo che oltrepassa la frontiera e scortato arriva alla capitale. Ecco i rendering dei padiglioni nelle piazze e la profusione di brutte metafore sfinite, la “fine del tunnel” e gli “spiragli di luce”, “l’alba dopo la lunga notte” e l’Italia che “rinasce con un fiore”. La variabile che non accogliamo - L’enfasi degli ultimi giorni è il proseguimento coerente della similitudine bellica così in voga in primavera. Quello era il momento dei visi cupi, dei “medici al fronte” e della “guerra contro il virus”. Questa è la parte in cui arrivano i nostri, la cavalcata delle forze di liberazione che giungono in soccorso. Il verbo “rinascere”, in particolare, è una scelta curiosa per lo slogan della campagna. “Rinasceremo” come se adesso fossimo morti, come se avessimo trascorso l’ultimo anno da moribondi. È l’ennesimo segnale di ciò che abbiamo fallito dal principio: accogliere una variabile nuova e ingombrante nelle nostre esistenze, rispettandola, ma riuscendo anche a percepire la continuità con le nostre abitudini di prima e con quelle che immaginiamo per dopo. Non vedere il virus soltanto come un problema in sé e per sé, ma riconnettere la sua presenza agli altri innumerevoli problemi che ci trasciniamo dietro. È vero, con il passare dei mesi abbiamo adattato molti comportamenti al nuovo contesto, ma il nostro modo di relazionarci alla pandemia è rimasto, nella sua essenza, bipolare: allarme o nulla, chiuso o aperto, condanna o salvezza. Morte o rinascita. Ora la svolta in chiave provvidenziale della comunicazione pubblica, unita al simbolismo del passaggio di anno rischiano di metterci di nuovo in pericolo, rafforzando l’impressione che ormai sia passata. Ma la pandemia non rispetta il calendario gregoriano. E comunque vada con il vaccino, per quanto rapidi ed efficienti (e disposti a vaccinarci) ci dimostriamo, il nostro futuro prossimo non sarà univoco, come subliminalmente ci viene suggerito. Il 2021 non assomiglierà a un passo da dentro a fuori la linea d’ombra. Molto più realisticamente si presenterà come una sovrapposizione di condizioni, alcune congiunturali, altre in contrasto. Sarà un “nel frattempo” prolungato, che dovremo gestire. Perché nel frattempo la curva si abbassa, ma lo fa lentamente come sempre. E non è affatto detto che queste feste, che da dentro ci appaiono così misere e limitate, non determinino un’altra inversione di tendenza. Le norme sono state introdotte tardivamente e questa volta sono più complicate del solito. La loro complicazione permette un margine di elusione piuttosto ampio. Gli aggiramenti, i piccoli stratagemmi, comprensibili dalla prospettiva del singolo, quasi innocenti, hanno un effetto potenziale molto diverso su larga scala. Una miriade di eventi di microdiffusione che potrebbero sommarsi, come è già avvenuto negli Stati Uniti con il Thanksgiving nonostante le raccomandazioni istituzionali. Ma il Thanksgiving, dura tre giorni ed è stato responsabile di un sussulto della curva, noi attraversiamo una quindicina di giorni delicati in fila, giorni fatti di saluti, di auguri e brevi incontri, due a due, quattro a quattro, sei a sei; giorni in cui ci stiamo inventando, ognuno per sé, una soluzione pandemica accettabile. Il tracciamento fallito - Nel frattempo c’è l’immancabile ritardo nel disegnare con chiarezza ciò che sarà dal 7 gennaio in avanti. Il quadro proposto, con le scuole di nuovo massicciamente in presenza, potrebbe rivelarsi in contraddizione con l’andamento dei contagi. Dopo le feste, e con in circolo una variante più rapidamente diffusiva (che a livello epidemiologico può essere perfino peggio di una variante più letale), rischiamo di aprire ancora una volta in fase di espansione. Ma se a settembre l’incremento giornaliero dei positivi era sull’ordine del migliaio, adesso è ancora vicino ai diecimila. Cosa è cambiato da allora, a parte il fatto che fa molto più freddo e in molte regioni è impensabile fare lezione con le finestre spalancate? Cosa è cambiato, a parte la concomitanza attesa con le altre infezioni respiratorie e con l’influenza a complicare il tutto? Ciò che è davvero cambiato è che è stata abbandonata ogni strategia seria di mitigazione, che non sia quella delle chiusure alternate. Parlare di testing e tracciamento suona ormai obsoleto. Le “t” hanno funzionato per il marketing di aprile, adesso c’è la narrazione più seducente del vaccino. Ma se qualcuno pensa che la fantasia di gestire il contagio fosse sbagliata dal principio, perché “il virus è troppo veloce” o perché “ci sono troppi asintomatici per tracciare”, be’, si può proporre un modo diverso di vederla: non siamo stati in grado. Non siamo stati in grado - Si potevano fare molte cose, e meglio: screening, pianificazione più accurata, implementazione della tecnologia, rafforzamento delle infrastrutture di monitoraggio. Capire i tempi e rispettarli. Ma non vale più la pena di accanirsi su questo. Suona vecchio, suona troppo 2020. Appena abbiamo intravisto lo “spiraglio di luce” abbiamo rinunciato. Avanti con il distanziamento quindi, solo con quello e con le sue conseguenze sociali ed economiche, fino a quando saremo tutti immuni. Immuni, già. Nel frattempo, però, resta da misurare la disponibilità reale all’idea di vaccinazione del popolo italiano. Per anni la diffidenza nei vaccini è aumentata nel nostro paese, come un’epidemia prima dell’epidemia. Il clima antivaccinale è stato assecondato più o meno apertamente da certe forze politiche, ormai è endemico, soprattutto in determinate comunità, e sta per presentarci un conto severo. Le uscite improvvide degli ultimi giorni da parte di certi personaggi di spicco (di spicco per motivi che non hanno nulla a che fare con la competenza medica) sono solo i primi segnali di qualcosa che nel 2021 scopriremo, con finto stupore, molto più comune di quanto vogliamo credere. Nel frattempo, mentre i camion dei vaccini sfrecciano per l’Europa, il virus è arrivato nel luogo più remoto di tutti, il più facile da proteggere almeno in linea di principio: una base scientifica in Antartide. Anche questa è una metafora su cui vale la pena di riflettere. Comunque vivere - Nel frattempo, mentre attendiamo il nostro turno per l’immunità, dovremmo sforzarci di non spingere sempre più lontano da noi l’ipotesi di questa malattia. E provare, invece, a fare nostre le parole difficili di Susan Sontag, quando ci ricorda che “la malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più gravosa”, che “ogni nuovo nato detiene una duplice cittadinanza, nel regno dei sani e nel regno degli infermi. E per quanto preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto migliore, prima o poi ciascuno di noi è costretto, almeno per un certo tempo, a riconoscersi cittadino di quell’altro luogo”. Nel frattempo, ricordiamoci che questo vivere non è e non è stato un essere morti né comatosi, se non per i troppi che sono morti davvero. Per noi altri è vivere un po’ meno magari, un po’ più faticosamente, ma è comunque vivere. La pandemia contro la libertà di stampa: sono 400 i giornalisti detenuti nel mondo di Giulia Ferri L’Espresso, 31 dicembre 2020 Pubblicato il rapporto di Reporters Sans Frontieres: la diffusione del virus ha avuto un ruolo determinante nell’aumento delle detenzioni. Il triste primato spetta alla Cina, seguito dal Medio Oriente. Le donne in carcere sono più del 35% rispetto allo scorso anno. Detenuta dallo scorso maggio per aver “diffuso false informazioni” sul virus, Zhang Zhan il 29 dicembre è stata condannata a quattro anni di carcere per aver “alimentato tensioni e provocato problemi”. L’ex avvocato e blogger cinese è stata ritenuta colpevole da un tribunale di Shangai per aver raccontato le prime fasi della pandemia, e criticato la sua gestione, nella città di Wuhan quando tutto iniziò, quasi un anno fa. La libertà di stampa e d’informazione sembra essere messa sempre più nel dimenticatoio in Cina, ma non solo: quello della giornalista asiatica è un destino condiviso con almeno altri 387 giornalisti in tutto il mondo secondo l’organizzazione francese Reporters Sans Frontieres (RSF). “Quasi 400 giornalisti trascorreranno le vacanze dietro le sbarre, lontano dalle proprie famiglie e in condizioni di detenzione che a volte mettono in pericolo la loro vita”, scrive Christophe Deloire, segretario generale di RSF. I numeri diffusi nel rapporto annuale 2020 dell’associazione per la libertà di stampa, pubblicato a dicembre, confermano un trend in aumento dal 2015, con un incremento di giornalisti detenuti del 17 percento in cinque anni. Il triste primato, secondo RSF, lo detiene proprio la Cina, con 117 giornalisti attualmente in stato di detenzione. Quasi la metà sono uiguri. Si trovano in carcere o in campi di internamento come conseguenza della più ampia repressione in atto nella regione dello Xinjang contro la minoranza musulmana, come Qurban Mamut, l’ex direttore responsabile del Xinjiang Cultural Journalera scomparso nel novembre 2017. Almeno una decina di giornalisti hanno subito arresti nel corso del 2020 invece per aver diffuso informazioni sulla pandemia e la sua gestione non gradite o non in linea con la narrativa di Bejing. Oltre alla 37enne Zhan, anche Chen Qiushi, Fang Bin e Li Zehua, sono detenuti dalle autorità dall’inizio dell’anno per aver coperto gli eventi di Wuhan, così come la giornalista economica di cittadinanza australiana Cheng Lei, arrestata il 14 agosto a Pechino e accusata di attività criminali che avrebbero messo a rischio la sicurezza nazionale cinese, per aver mosso critiche al governo. Nel 2020 un ruolo notevole nel determinare un così alto numero di detenzioni lo ha avuto il Covid-19. Secondo il rapporto il numero di arresti si è quadruplicato tra i mesi di marzo e maggio 2020, all’inizio della diffusione del virus nel mondo. In Asia si è registrato il più alto numero di giornalisti privati della libertà per aver trattato argomenti legati al Covid-19, ben 65 su 135. La pandemia però si è trasformata in un’occasione per reprimere ogni forma di libera informazione e dissenso interno anche in altre aree del mondo, come in Medio Oriente. Attualmente sono quasi 80 i giornalisti detenuti tra Arabia Saudita, Siria e Iran. Nella Repubblica Islamica quest’anno sono stati arrestati almeno una decina di reporter e due di loro si trovano ancora in carcere per aver raccontato la realtà della situazione sanitaria nel Paese. In più la liberazione della giornalista e attivista Narges Mohammadi dopo quattro anni di detenzione è stata negativamente controbilanciata dall’esecuzione di Ruhollam Zam, cronista arrestato nel 2019 in Iraq per aver riportato le critiche rivolte ai funzionari iraniani e aver coperto le proteste del 2017. Trasferito in Iran, è stato condannato a morte con una decina di capi d’accusa, tra cui spionaggio e notizie false diffuse all’estero e giustiziato il 12 dicembre. Il primo dopo 30 anni. Anche l’Egitto ha sfruttato la situazione per accentuare ancor più il controllo sui mezzi d’informazione e silenziare le fonti non governative. Le autorità egiziane con il diffondersi del virus hanno intensificato la loro ondata di arresti e rinnovi a tempo indeterminato di custodie cautelari, portando il numero di giornalisti incarcerati a 30 secondo i dati del rapporto. Almeno tre sono stati arrestati per aver criticato la gestione degli ospedali e aver denunciato la mancanza di medici e infermieri. Il ministero dell’Interno ha vietato a familiari e avvocati di visitare le carceri dall’inizio di marzo a metà agosto. E il virus è stato fatale per il reporter 65enne Mohamed Monir, morto a luglio scorso per aver contratto il virus nel carcere di Tora, lo stesso in cui è detenuto Patris Zaki, dove si trovava per aver assunto “posizioni antireligiose” durante un talk show su Al Jazeera. Oltre che dal covid, l’alto numero di reporter imprigionati nel 2020 è stato influenzato dalle proteste in Bielorussia e dal riaccendersi del conflitto in Etiopia. Nel Paese europeo le proteste esplose nel mese di agosto, dopo che il presidente Aleksandr Lukashenko ha rivendicato la vittoria per il sesto mandato in un’elezione considerata da molte parti truccata, hanno portato una serie di arresti tra la popolazione e giornalisti nazionali e internazionali. Secondo il bilancio di RSF dopo il 9 agosto più di 350 addetti all’informazione, tra cui il freelance italiano Claudio Locatelli, sarebbero stati arrestati e poi rilasciati dopo il 9 agosto, mentre 23 di loro sarebbero stati sottoposti a trattamenti disumani e degradanti, tra cui pestaggi arbitrari, spogliarelli umilianti, privazioni di cibo e cure. In Etiopia invece il riaccendersi degli scontri, sfociati poi in un conflitto armato tra l’esercito del governo centrale di Abiy Ahmed Ali e i militari indipendentisti del Tigray del Tplf hanno portato all’arresto di sei reporter in sei giorni nel solo mese di novembre. E le detenzioni proseguono: il 24 dicembre ad Addis Abeba è stato arrestato anche un cameramen della Reuters, Kumerra Gemechu, senza formulare accuse. Un ultimo dato rende ancor peggiore il quadro. Il rapporto denuncia un aumento del 35% di giornaliste detenute rispetto allo scorso anno: sono 42, tra cui la vietnamita Pham Doan Trang, vincitrice del premio RSF per la libertà di stampa 2019. “Queste cifre confermano l’impatto della crisi sanitaria sulla professione e il fatto inaccettabile che alcuni dei nostri colleghi paghino con la loro libertà, la ricerca della verità” scrive il segretario Deloire, che aggiunge come i dati confermano “che le giornaliste donne, sempre più numerose nella professione, non sono risparmiate dalla repressione”. Egitto. Regeni, la procura egiziana e la teoria del complotto di Marta Serafini Corriere della Sera, 31 dicembre 2020 L’omicidio architettato per screditare i rapporti tra Egitto ed Italia. In una nuova nota i magistrati del Cairo accusano Giulio di comportamenti sospetti, respingono le prove di Roma contro i quattro 007 e ribadiscono di non voler collaborare con le autorità italiane. La Farnesina: inaccettabile. Movimenti sospetti, complotti e nessuna intenzione di collaborare per cercare di stabilire la verità sulla morte di Giulio. La Procura egiziana si schiera di nuovo in difesa dei quattro membri della National Security accusati dai pm di Roma di essere i responsabili del rapimento, delle torture e dell’uccisione di Regeni, chiudendo ancora una volta la porta in faccia all’Italia. Ma non solo. Nel sostenere che un processo in Italia sarebbe “immotivato”, la procura generale egiziana accredita la tesi secondo la quale imprecisate “parti ostili a Egitto e Italia vogliano sfruttare” il caso “per nuocere alle relazioni” tra i due Paesi. Ciò, aggiunge la Procura, sarebbe provato dal luogo del ritrovamento del corpo e dalla scelta del giorno del sequestro e di quello del ritrovamento del cadavere, avvenuto durante una missione economica italiana al Cairo. Tutte posizioni che la Farnesina definisce inaccettabili mentre ribadisce la fiducia nell’operato della magistratura italiana e annuncia di voler proseguire in tutti le sedi - compresa l’Unione europea - con ogni sforzo “affinché la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni possa finalmente emergere”. È il procuratore generale Hamada Al Sawi a parlare in un comunicato. Prima ribadisce, come già fatto a fine novembre, che “per il momento non c’è alcuna ragione per intraprendere procedimenti penali circa l’uccisione, il sequestro e la tortura della vittima Giulio Regeni, in quanto il responsabile resta sconosciuto”. Ma non solo. La nota diffusa da Il Cairo torna a sottolineare che il procuratore “ha incaricato le parti cui è affidata l’inchiesta di proseguire le ricerche per identificare” i responsabili. Questo perché si “esclude ciò che è stato attribuito a quattro ufficiali della Sicurezza nazionale a proposito di questo caso”, dei quali non è stata ancora fornita ai colleghi italiani, nonostante la rogatoria del 2019, l’elezione di domicilio degli indagati. Dunque niente collaborazione con le autorità italiane da parte di quelle egiziane. Ma la Procura egiziana si spinge ancora più in là definendo il comportamento tenuto da Giulio Regeni nel corso della sua permanenza in Egitto, mentre stava svolgendo ricerche per la sua tesi, “non consono al suo ruolo di ricercatore” e per questo posto “sotto osservazione” da parte della sicurezza egiziana “senza però violare la sua libertà o la sua vita privata”. “Tuttavia - aggiungono - il suo comportamento non è stato valutato dannoso per la sicurezza generale e, quindi, il controllo è stato interrotto”. Altro punto è il tentativo di rispolverare la tesi dei rapinatori, ossia che a sequestrare e ammazzare Giulio Regeni sia stata una banda di cinque malviventi uccisi in circostanze sospette nel marzo 2016. Intervento, quello delle forze di sicurezza egiziane, cui seguì il ritrovamento dei documenti e di presunti effetti personali appartenenti al ricercatore nella casa di una delle persone uccise. Una messa in scena architettata, si presume, dall’intelligence egiziana per depistare le indagini che invece puntano l’attenzione ai vertici dei servizi del Cairo. Ma “vista la morte degli accusati - scrive infatti la Procura egiziana - non c’é alcuna ragione di intraprendere procedure penali circa il furto dei beni della vittima, il quale ha lasciato segni di ferite sul suo corpo”. Una teoria per altro smontata dalla procura di Roma già dal 2016. I pm egiziani si contraddicono un’altra volta, quando parlano di complotto. Nel sostenere che un processo in Italia sarebbe immotivato, la Procura accredita infatti la tesi che imprecisate “parti ostili a Egitto e Italia vogliano sfruttare” il caso di Giulio Regeni “per nuocere alle relazioni” tra i due Paesi. A prova di questa “tesi”, la procura generale del Cairo indica la tempistica del ritrovamento del corpo nella capitale egiziana all’inizio del 2016, e la scelta sia del giorno del sequestro, il 25 gennaio, sia di quello del ritrovamento del cadavere, il 3 febbraio, proprio durante una missione economica italiana al Cairo. Ma se a compiere l’omicidio fosse stata una semplice banda di rapinatori, non si spiega perché questi avrebbero dovuto organizzare una messinscena “per nuocere alle relazioni” tra Italia e Egitto. Inevitabili le reazioni in Italia, oltre quella della Farnesina. Erasmo Palazzotto, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni sottolinea come la nota della procura rappresenti “una mezza ammissione e insieme un altro vergognoso tentativo di depistaggio” e chiede che il governo Italiano pretenda chiarimenti”. E anche per l’europarlmentare Pierfrancesco Majorino “le dichiarazioni della procura egiziana sul caso Regeni, rese pubbliche oggi, sono un atto ostile e inaccettabile nei confronti dell’Italia e della procura di Roma nonché un insulto al Parlamento europeo. Ci vuole una reazione durissima da parte di tutti”. Mentre Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A Buon Diritto” definisce la nuova nota della procura “una totale incondizionata indisponibilità alla pur minima cooperazione giudiziaria con la procura italiana”. E chiede che l’Italia e l’Europa “esercitino forme di pressione” contro il “regime dispotico” del presidente dell’Egitto Al Sisi. “Non c’é bisogno di dichiarare guerra all’Egitto”, o rompere i rapporti diplomatici, ma l’alternativa “non è l’inerzia”, sottolinea l’ex senatore del Pd, che è stato presidente della commissione Diritti umani del Senato e ha seguito da vicino il caso Regeni. Anche Amnesty International ha immediatamente reagito, definendo “inaccettabile” la dichiarazione della procura egiziana. “Dovrebbe ritenerla inaccettabile anche il governo italiano dal quale auspichiamo una presa di posizione”, ha spiegato il portavoce in Italia, Riccardo Noury. “C’è di nuovo un palese tentativo delle autorità del Cairo di smarcarsi da ogni responsabilità, attribuendo quanto accaduto a misteriosi soggetti che avrebbero agito per contro proprio”, sottolinea Noury, “si torna sull’idea del depistaggio con un’assoluzione da ogni responsabilità”. “Dopo cinque anni”, fa notare il portavoce di Amnesty, “salta fuori in questa nota che Regeni era stato attenzionato, ma poi disattenzionato, nonostante il suo comportamento fosse ritenuto sospetto”. Egitto. Altro schiaffo di al Sisi all’Italia, “Processo Regeni senza basi” di Pino Dragoni Il Manifesto, 31 dicembre 2020 La procura egiziana risponde alla chiusura delle indagini. E ripropone l’idea della “spia”. La Procura generale egiziana risponde, dopo 20 giorni esatti, alla chiusura delle indagini in Italia sul rapimento, le torture e l’uccisione di Giulio Regeni. E lo fa con un lungo comunicato nel quale respinge in toto le accuse di Roma contro i quattro ufficiali della National Security indagati, rilancia la pista della banda criminale, e afferma che i responsabili del delitto restano ignoti. “Non ci sono basi per istruire un procedimento penale”, dichiara, quindi le indagini “per individuare i colpevoli” devono continuare. L’ennesimo schiaffo, nel giorno in cui la fregata italiana Schergat, partita in sordina il giorno di Natale, approda sulle coste dell’acquirente egiziano. Nella nota, riportata da numerosi organi di stampa egiziani statali e privati, il procuratore sostiene di aver ricostruito gli “eventi” verificatisi dal momento della scomparsa di Regeni fino al ritrovamento del corpo martoriato del ricercatore 28enne, senza però meglio specificare. Il comunicato si dilunga invece non poco su altri “dettagli della sua permanenza in Egitto”, raccolti attraverso “5 anni di indagini” e “120 testimonianze”: le amicizie, le persone contattate per la sua ricerca, persino presunti viaggi in Turchia e Israele fatti durante quel periodo. La nota specifica inoltre che nelle conversazioni con i venditori ambulanti e i sindacalisti oggetto della sua ricerca Giulio parlava di politica e del regime egiziano e diceva che lo status quo poteva essere cambiato. Ma se da un lato propone di nuovo il ritratto di una spia e di un agitatore, la procura ammette che il ricercatore di Fiumicello era stato messo sotto sorveglianza dalla National Security per le sue “azioni sospette”, ma che poi dalle informazioni raccolte era risultato “non pericoloso”. E qui la ricostruzione si fa caotica e contraddittoria. Giulio sarebbe stato prima derubato e ferito da una banda criminale (i cinque presunti ladri trucidati da innocenti nel marzo 2016) e poi a causa del suo “comportamento insolito” sarebbe caduto vittima di una “persona sconosciuta”, che approfittando delle misure di sicurezza messe in atto quel 25 gennaio avrebbe sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni. Il movente? Secondo la procura, implicare i servizi di sicurezza egiziani e rovinare i rapporti tra Italia ed Egitto, che proprio quel 25 gennaio 2016 venivano benedetti dalla visita di una nutrita delegazione commerciale italiana al Cairo. Ma c’è di più. Oltre a riproporre il complotto internazionale e tentativi di insabbiamento già ampiamente smontati, nel comunicato la Procura egiziana getta ombre praticamente su tutti, persino sui genitori di Regeni, “colpevoli” di aver sottratto dalla casa del ricercatore il computer portatile di Giulio. La nota va giù duro anche contro i magistrati italiani, accusati di aver costruito un caso “non supportato da prove”, “frutto di deduzioni errate, contrarie alla logica e agli standard internazionali per le inchieste penali”. Infine, in un vero e proprio rovesciamento dei fatti, punta il dito contro la Procura di Roma per non aver risposto alle richieste di collaborazione del Cairo, facendo dunque mancare elementi utili all’indagine egiziana. Critiche simili vanno anche alle autorità britanniche, accusate di non aver consegnato le testimonianze delle tutor di Regeni. Immediate le reazioni dall’Italia. Erasmo Palazzotto, presidente della commissione di inchiesta parlamentare sulla morte di Regeni, con una nota accusa: “Le autorità egiziane ammettono dopo 5 anni, e dopo che lo ha dimostrato la Procura di Roma, che pedinavano Giulio Regeni”. A tarda serata arriva la nota della Farnesina: “Inaccettabili” le parole della procura. In precedenza si era espresso anche il presidente della Camera Roberto Fico: “L’ennesima provocazione di un paese che non vuole collaborare”.