Carcere e droghe. Decriminalizzare i fatti di lieve entità di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 30 dicembre 2020 Tanto si parla in modo enfatico delle nuove generazioni, tanto poco si ragiona insieme a loro su come costruire una società autenticamente aperta ed effettivamente impermeabile agli affari sporchi delle mafie. Ci sono evidenti motivi di politica criminale che dovrebbero orientare il Parlamento e il Governo a cambiare rotta in materia di droghe e ad attenuare l’impianto repressivo e sanzionatorio dell’attuale legislazione, diversificando i fatti di lieve entità e la coltivazione di cannabis a uso personale da altri e più sostanziosi traffici. Quella che Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo, definisce l’ultimo anello della filiera del narcotraffico, è necessario che sia tenuta ben distinta da tutti gli altri anelli della catena di comando delle organizzazioni criminali. È questa un’esigenza investigativa evocata da tempo da tutti gli attori del sistema. Non è prendendosela con la parte terminale dei traffici illeciti che si ridurrà la quantità di sostanze che gireranno nelle nostre strade. Così come un qualsiasi economista ben potrebbe argomentare, la repressione penale dura verso l’ultimo anello produrrà al limite un aumento dei prezzi per i consumatori finali. Ci sono altrettanti evidenti motivi di ordine pubblico e sociale che dovrebbero spingere verso una differente politica sulle droghe, a partire dalla proposta di legge n. 2307 (primo firmatario Riccardo Magi) che disciplina i casi di lieve entità. Su questa proposta nei giorni scorsi la Commissione Giustizia della Camera ha sentito i pareri, oltre che di Federico Cafiero De Raho, anche di Antonino Maggiore, Direttore centrale per i servizi antidroga presso il Ministero dell’Interno, e di Mauro Palma, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. La proposta, ragionevolmente, si legge nella relazione introduttiva, mira a “differenziare il regime sanzionatorio in funzione della diversa natura della sostanza, al fine di graduare il trattamento punitivo in relazione alla gravità delle condotte… ed esclude l’arresto obbligatorio in flagranza per alcune fattispecie di lieve entità”. Anche per invertire la prassi in atto che porta alla carcerazione il 69% dei responsabili di violazione del comma 5 del Dpr 309/90. Quello che il procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo definisce ultimo anello della filiera del narcotraffico (ossia che ha con sé una quantità minima di sostanza), non di rado nulla ha a che fare con la logica del traffico, degli affari delle mafie locali o internazionali. Si tratta della gran massa dei nostri adolescenti, dei ragazzi che vivono le periferie urbane, degli esclusi dal welfare, di chi per scelta o per bisogno terapeutico decide di organizzare il proprio consumo. Nessun investigatore ha interesse a seguire i suggerimenti del leghista Riccardo Molinari, che ha presentato una proposta in tal senso, e arrestare centinaia di migliaia di persone, metterle dentro, così da rovinare la vita di tantissimi giovani e delle loro famiglie. Da loro, dai ragazzi e dalle loro famiglie, bisogna ripartire per vincere quella che è una battaglia culturale, prima ancora che politica. Con loro bisogna aprire il confronto, spingerli a usare la loro forza d’urto e la naturale tendenza alla trasgressione verso l’ordine costituito (statale o familiare che sia) per chiedere responsabilmente un’altra legislazione sulle droghe, meno aggressiva, meno stupidamente e inutilmente vessatoria. Ecco, il merito della proposta Magi è quello che avviare i lavori di un ponte con i più giovani, i meno protetti. Tanto si parla in modo enfatico delle nuove generazioni, tanto poco si ragiona insieme a loro su come costruire una società autenticamente aperta ed effettivamente impermeabile agli affari sporchi delle mafie. Chiunque abbia figli in età adolescente dovrebbe per motivi di salute e ordine pubblico chiedere ad alta voce politiche dal più basso impatto penale, in quanto quest’ultimo inevitabilmente si fonda sullo stigma, sul dolore, sulla violenza strutturale. La parola chiave è responsabilità, a tutti i livelli. La Pena del Diritto; matti da (s)legare di Michele Passione* societadellaragione.it, 30 dicembre 2020 Treppo Carnico, settembre 2020; un piccolo gruppo di persone (giuristi, filosofi, psichiatri, etc.) discute e prepara una proposta di legge sul nodo della imputabilità/non imputabilità dell’autore di reato dichiarato incapace di intendere e di volere. Non solo un testo, un articolato, per il superamento del “doppio binario” e la riforma del regime legale dei “folli rei”, ma anche una campagna di sensibilizzazione pubblica ed iniziative da assumere nelle Università. Brescia, dicembre 2020; la Corte di Assise assolve un imputato (ottantenne) di omicidio pluriaggravato, a causa di vizio totale di mente. Della sentenza si è già scritto e detto moltissimo, per lo più a sproposito, anche se non son mancate interessanti letture (Maria Virgilio, su il Manifesto, Katia Poneti, su questo sito, Vittorio Manes su Domani) che hanno già disvelato il corto circuito creatosi attorno a questa tragica vicenda (umana, ancor prima che processuale). Quel che qui interessa è provare a trovare un nesso che lega l’ipotesi di riforma con lo stato dell’arte, liberare la riflessione sull’accaduto da suggestioni e torsioni, evidenziando ulteriori aspetti della decisione della Corte bresciana che, mi pare, non sono stati segnalati nei primi commenti. Ovviamente, non conoscendo gli atti del processo, tutto quanto si dirà si concentra sulle poche informazioni a disposizione, per come veicolate all’esterno dalla singolare “nota esplicativa” del Presidente della Prima Corte di Assise di Brescia. Andando con ordine; il Magistrato evidenzia di aver fornito la nota “a chiarimento di possibili interpretazioni fuorvianti… a richiesta del Presidente della Corte di Appello e del Presidente del Tribunale”. Un primo rilievo; l’iniziativa, inusuale, sembra dimentica del secondo comma dell’art. 101 Cost, e maggiormente debitrice di una distorta lettura del primo comma della disposizione, secondo la quale “la giustizia è amministrata in nome del popolo”. Così è del popolo (urlante) che il Presidente dell’Assise sembra preoccuparsi, con excusatio non petita volta a placare i leoni da tastiera, e finisce con l’espropriare la stessa magistratura giudicante del suo ruolo (lo ius dicere). Per dirla tutta; non è certo la funzione nomofilattica (talvolta anticipata dalle informazioni provvisorie della Suprema Corte) o quella regolatrice del Giudice delle leggi che ha mosso il Presidente bresciano, quanto l’umana (ma del tutto fuorviante, e pericolosa) preoccupazione di spiegare il perché del suo dire, prima di aver detto, dove si deve (art.546, comma 1, lett. e, c.p.p.). Ancora; si legge nella nota che l’imputato (detenuto a Milano - Opera, ove esiste un preoccupante focolaio di Sars CoV - 2), ottantenne, con diagnosi di Covid-19, malgrado l’assoluzione risulta ancora detenuto, in quanto ritenuto socialmente pericoloso e (perciò) destinatario di misura di sicurezza provvisoria in Rems. Dunque, ad oggi, il Sig. Gozzini (il cui cognome rievoca paradossalmente quello di uno dei Padri riformatori del sistema penitenziario), lungi dall’essere curato per le sue condizioni cliniche, risulta detenuto senza titolo. Del resto, non manca chi (un Gip di Tivoli) vorrebbe riportare nelle mani del Ministro il potere di governo delle Rems, consentendo il superamento del numero chiuso, ritenendo che “l’attribuzione costituzionale al Ministro della Giustizia in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla Giustizia impone che spetti a quest’ultimo la competenza a provvedere in relazione all’esecuzione dei provvedimenti dell’Autorità giudiziaria per motivi di omogeneo, ordinato ed efficace trattamento degli internati nei cui confronti va eseguito il ricovero in Rems”. Ma questa (forse) è un’altra storia. Proseguendo nella lettura, del tutto incoerente appare il richiamo alla revoca della costituzione di parte civile dei congiunti della vittima, quasi ad avvalorare l’idea che la decisione dipenda (o sia comunque resa più comprensibile) da un’iniziativa privata, e non già da una ponderata valutazione pubblica. In disparte le ulteriori “spiegazioni” fornite (sulle ragioni addotte dalla magistrata requirente per la richiesta di ergastolo), che verranno apprezzate solo con la lettura della motivazione (la sentenza è stata depositata - con largo anticipo sul maggior termine indicato - lo scorso 21 dicembre), anche l’uso del termine “femminicidio” (di contrasto alla violenza di genere si occupa la L. 119/2013) appare improprio, malgrado la nota si premuri di evidenziare che nel caso di specie non si sia trattato di “una dinamica sottostante, tipica di un processo di femminicidio” (così avvalorando l’ipotesi che di ciò possa essere chiamato ad occuparsi un processo), dovendosi a tal proposito distinguere tra “l’uccisione di una donna in sé e per sé considerata e l’uccisione di una donna in quanto donna”. Infine, ancora una nota stonata: la nota ricorda (Al lettore? Al Popolo? Al distratto e arrabbiato bevitore di caffè - da asporto?) che la Corte di Assise di Brescia ha ben chiaro il distinguo tra “movente di gelosia e delirio di gelosia”, tanto da aver irrogato per l’effetto in due diverse vicende processuali la pena dell’ergastolo. Così l’asticella si alza, e attraverso il richiamo terribile alla pena (incostituzionale) perpetua si “spiega” al Popolo che la Giustizia è capace di rigore e di comprensione. Un corto circuito. Manco a dirlo, immancabile, la richiesta di chiarimenti (poi malamente smentita, come giustamente rilevato dall’Esecutivo nazionale di Magistratura democratica) da parte del Ministro, che ha successivamente dato atto di esserci stata “una mera trasmissione della notizia agli uffici competenti per le valutazioni e gli eventuali accertamenti del caso”. Un presagio, insomma. Quale sia la notizia (un’assoluzione fa notizia?), e soprattutto quali possano essere le “valutazioni” da parte di “uffici competenti” il Ministro non lo spiega, ma non è davvero difficile immaginare il condizionamento che questo intervento può provocare per il futuro. Ed allora, per provare a orientare la bussola, torniamo in Carnia, ripartendo da lontano, dal 1996, da similari proposte di riforma sul punto. Ma siccome il tempo scorre, mai invano, e le critiche al sistema vigente vanno riarticolate sulla mutata realtà normativa, occorre “mettere in sicurezza” quanto accaduto nel frattempo (su tutto, la chiusura degli Opg), e compiere il passo per il superamento definitivo di ogni logica custodiale, manicomiale, incapacitante. Si è detto più volte; occorre passare dalla cura della sicurezza alla sicurezza della cura, attraverso la responsabilizzazione del soggetto, non più oggetto, ma protagonista della sua vita. Le cose di questo mondo sono sempre più complesse di una “nota esplicativa”, e stanno dentro i percorsi di vita di donne e uomini. Nel dibattito su questo sito, Katia Poneti ha scritto: Se si abolisse la non imputabilità per le persone con patologia psichiatrica, considerandoli responsabili attraverso la condanna, ma poi curandoli perché ne hanno bisogno, potremmo ricomporre situazioni di questo tipo: indicando chiaramente alla società, tramite la condanna, che quel crimine è gravissimo, e lo è proprio perché nasce, anche, da un approccio patriarcale e gravando l’autore della responsabilità per il fatto commesso, ma nello stesso tempo offrendogli possibilità di cura effettiva. Non sono d’accordo; quando si condanna, come quando si assolve, si dice il diritto, che non ha bisogno di una sola nota per scrivere il testo. Del resto, è col precetto, e non con la sanzione (o il suo contrario) che il Diritto orienta i comportamenti sociali, mentre al Giudice spetta il compito terribile di giudicare un fatto (quel fatto), e mai di curarsi del consenso. Non è dunque per placare gli animi che occorre superare il doppio binario, bensì perché la responsabilità è terapeutica. Affermarlo, anche per il soggetto affetto da una patologia psichiatrica, se del caso riducendo la sanzione e consentendone la cura extramoenia, vorrebbe dire favorire la comprensione del disvalore del proprio agito, incoraggiare un percorso di recupero, preservando la Dignità dell’Uomo e la funzione risocializzante della pena. Anche per questo, a Brescia si è fatto confusione, ma paradossalmente (ex malo, bono?) l’accaduto consente di riprendere la discussione che ci interessa. Con Musil (L’uomo senza qualità) possiamo pensare che “solo la punibilità è la qualità che fa di [un uomo] un uomo morale [e] si capisce che il giurista deve attaccarvisi con ferrea tenacia”, oppure ritenere che (Schopenhauer, La libertà del volere) “non esiste libertà nelle azioni umane, e la punizione di una persona si può concepire solo come deterrente rivolto al futuro”. Ma è un’epitome di Massimo Nobili che ci ricorda (richiamando Schiller, in Maria Stuart) che si danno forze “perverse, che hanno il sopravvento su noi e che ci costringono a gesti malvagi”, però “quando il fatto è compiuto [esse] si dileguano e ci lasciano [soli] eredi”: di sgomento, di una responsabilità che diviene allora individuale, di una pena. *Avvocato Immigrati, un terzo dei detenuti (ma con reati minori) di Mario Ghirardi africarivista.it, 30 dicembre 2020 Gli immigrati che affollano le carceri italiane sono un terzo del totale dei detenuti che a febbraio 2020 superavano i 60.000 e a giugno erano scesi a meno di 54.000. Esattamente il 32,7% a giugno, secondo le statistiche fornite dai ricercatori dell’associazione Antigone e dell’Idos nel loro annuale dossier sull’immigrazione, con un trend che si è mantenuto costante per tutto il primo semestre scorso. Per quanto riguarda gli uomini, gli africani detengono una quota importante, con tre nazionalità rappresentate tra le prime cinque, che costituiscono oltre il 60% del totale. In testa a questa classifica troviamo i cittadini marocchini con il 18,6% del totale, i tunisini con il 10% e i nigeriani con l’8,5%. I rumeni sono al 12%, gli albanesi all’11,9%. Tra le donne invece troviamo, dopo le rumene al 23%, le nigeriane al 19,4% e le marocchine al 4,6%, praticamente a pari quota con bosniache e brasiliane. In generale dunque i problemi maggiori legati alla criminalità delle comunità africane sono da cercare, in ordine decrescente, tra i gruppi originari di Marocco, Tunisia, Nigeria seguiti da Senegal, Egitto e Gambia. A fine 2018 (ultimi dati disponibili) su quasi 870.000 reati totali, il numero di denunce e arresti ha riguardato italiani per il 72,4% e stranieri per il 27,6%. Visto che in Italia gli stranieri residenti nello stesso periodo ammontavano al 8,5% del totale, sembrerebbe che la tendenza a delinquere sia tre volte maggiore di quella degli italiani, dando così spazio alla paura, alla diffidenza e al risentimento sbandierato dai sovranisti. In realtà, se si sviscerano i dati, una quota molto alta di queste denunce e arresti (67,5%) riguarda immigrati irregolari, costretti a vivere nel sommerso proprio anche dalle stesse politiche praticate dai decreti legge sicurezza, e in più i reati di cui questi sono accusati sono di bassa pericolosità sociale. Alla fine risulta che il tasso di criminalità degli immigrati è simile a quello degli italiani. I reati di cui sono accusati gli stranieri riguardano per la maggior parte (58,2%) pornografia minorile e prostituzione quasi a pari quota con contraffazione di marchi e prodotti industriali, ovvero vendita di prodotti contraffatti (che implicano anche i reati di violazione della proprietà individuale, col 31, 3%, nei casi per esempio di contraffazione di cd) a cui si associano a volte attività di ricettazione (4,1%). Se consideriamo solo le tipologie di reato dette di microcriminalità, una consistente partecipazione di oltre il 40 % di loro si rileva tra furti, rapine e spaccio di droga, legati in un terzo dei casi a lesioni dolose e danneggiamenti. Preoccupanti sono le elevate quote di reati gravi commessi dagli immigrati riguardo a violenze sessuali (41,8%) e sequestri di persona (38,5%). Vaccino, i Garanti al governo: priorità pure a chi sta in carcere di Angela Stella Il Riformista, 30 dicembre 2020 A chiedere di includere reclusi e agenti tra le categorie prioritarie anche un Odg presentato da Magi (+Europa), l’esecutivo l’ha accolto solo parzialmente. Ridurre le presenze in carcere e annoverare i detenuti, insieme con il personale penitenziario, tra le categorie prioritarie del piano vaccinale contro il Covid-19: sono queste le richieste fatte al Governo dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale tramite un documento dal titolo “Il carcere tra interno ed esterno. Esigenza di tutela tra diminuzione delle presenze e priorità vaccinale”. In particolare si chiede “l’inclusione delle persone detenute tra le categorie prioritarie di cui al piano strategico vaccinale elaborato da ministero della Salute, Commissario straordinario per l’emergenza, Istituto superiore di sanità, Agenas e Aifa”. Non sarà facile, visti i problemi di approvvigionamento delle dosi ma anche considerata la sensibilità del Governo nei confronti dei detenuti. Il 22 dicembre il deputato di +Europa Riccardo Magi aveva presentato un ordine del giorno che avrebbe impegnato “il Governo a predisporre un piano operativo per la vaccinazione dei detenuti e del personale che lavora nelle carceri, inserendoli sin dall’inizio fra le categorie sottoposte con priorità alla campagna di vaccinazione per la prevenzione delle infezioni da Sars-CoV-2”. L’odg è stato approvato nella seduta del 27 ma con una riformulazione richiesta dal Governo: “impegna il Governo a valutare la predisposizione di un piano per la vaccinazione del personale che opera negli istituti penitenziari e dei detenuti, nel quadro della programmazione nazionale”. La proposta da Magi era stata dunque più stringente anche perché, come da lui spiegato nella presentazione dell’odg e come affermato dall’Ucpi, i detenuti “da un punto di vista sanitario erano già vulnerabili ben prima dell’arrivo del Covid-19 e oggi vivono in uno stato di esposizione “naturale” - o meglio “innaturale” - al virus, per il ridottissimo spazio a loro disposizione, nella maggior parte dei casi, estremamente carente dal punto di vista igienico e, quindi, foriero di ogni tipo di malattia”, oltre che il personale dell’amministrazione penitenziaria; parliamo di oltre 100.000 persone, che vanno immediatamente protette perché quotidianamente a rischio personale e in quanto potenziali diffusori del virus”. Intanto, i dati resi noti dal Ministero della Giustizia ci dicono che gli attuali detenuti positivi al covid-19 sono 851, 92 in meno rispetto alla scorsa settimana. Comunque a sostenere che i detenuti sono ad alto rischio di contagio lo conferma, come ci segnala proprio l’onorevole Magi, anche un articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet lo scorso 12 dicembre. Tra gli intervistati c’è Seena Fazel, Dipartimento di Psichiatria, Università di Oxford, Regno Unito, secondo la quale i prigionieri sono ad alto rischio a causa delle condizioni croniche sottostanti, come l’età e l’ambiente. Uno studio del suo team ha rilevato che le carceri sono luoghi ad alto rischio per la trasmissione di malattie contagiose, con notevoli difficoltà nella gestione dei focolai. La ricerca ha suggerito che le persone in carcere dovrebbero essere tra i primi gruppi a ricevere qualsiasi vaccino Covid-19 per proteggersi dalle infezioni e per prevenire un’ulteriore diffusione della malattia. Non solo vaccino, in carcere servono medici e infermieri di Viviana Lanza Il Riformista, 30 dicembre 2020 Mentre l’attenzione e la speranza del mondo sono concentrate sul vaccino, nelle carceri l’emergenza sanitaria passa anche sotto la voce “carenza di personale”. Non c’è solo il Covid a preoccupare la tutela della salute dei reclusi: ogni giorno nel mondo dietro le sbarre si fanno i conti anche con le sproporzioni fra medici, infermieri e operatori disponibili e numero dei detenuti nelle celle. Negli istituti di pena di Napoli - parliamo di Secondigliano e Poggioreale - servirebbero almeno trenta nuove assunzioni per tamponare l’emergenza di questo particolare periodo. E la sproporzione è accentuata dal fatto che i bisogni sanitari della popolazione carceraria sono maggiori rispetto a quelli della popolazione che vive fuori dal carcere. Il trauma della carcerazione è l’espressione di un forte disagio che si manifesta spesso tra chi fa il proprio ingresso in un istituto di reclusione e nei cosiddetti “nuovi giunti” comporta una serie di sintomi che sono da collegarsi proprio all’inizio della detenzione: ipertensione, tachicardia, extrasistolia, inappetenza, anoressia, vertigini, cefalea, insonnia, astenia, tanto per citare i più frequenti. Si tratta di sintomi che, durante la detenzione, possono acutizzarsi, come accade a seguito di eventi stressanti quali notizie di lutti, notifiche relative a processi, a colloqui, a permessi, e che in taluni casi arrivano a cronicizzarsi fino a degenerare in quadri psicopatologici di varia complessità e di tipo psicosomatico. All’inizio di quest’anno il personale sanitario presente nei 15 istituti penitenziari della Campania era composto da 108 medici di reparto, 189 infermieri, 7 tecnici della riabilitazione, 17 psicologi, 23 psichiatri. Un totale, quindi, di 344 unità a fronte una popolazione carceraria superiore alle 6mila persone. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 30 novembre, nelle carceri campane si contano 6.548 detenuti, 500 in più rispetto alla capienza regolamentare. “Occorrerebbe personale per infoltire la piccola percentuale degli operatori socio-sanitari presenti, supportandoli nelle attività di assistenza della popolazione detenuta al fine di evitare il burn-out che si sta verificando, tenuto anche conto del forte aumento dei carichi assistenziali”, ha sottolineato il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello in una lettera inviata al direttore generale dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva. Nella lettera Ciambriello ha tracciato una sorta di bilancio dei diversi incontri avuti nei giorni scorsi con le direzioni delle carceri di Poggioreale e Secondigliano, con le rispettive direzioni sanitarie e con Lorenzo Acampora, responsabile della tutela della salute negli istituti penitenziari dell’Asl Napoli 1. “Mi hanno manifestato le preoccupazioni che si trovano ad affrontare durante questo periodo emergenziale”, ha spiegato il garante che si è fatto portavoce di una richiesta affinché si provveda al più presto a nuove assunzioni di personale sanitario all’interno degli istituti di pena. “Chiedo di predisporre assunzioni per 20 infermieri - è nel dettaglio la richiesta del garante -, otto operatori socio-sanitari, cinque assistenti sociali”. L’idea è quella di procedere con assunzioni a tempo determinato “fino al termine dell’epidemia per gli istituti penitenziari di Poggioreale e Secondigliano”. La speranza è che una parte dei medici e degli infermieri che l’Asl si appresta ad assumere nei prossimi mesi sarà destinata ai penitenziari. La pandemia incide sul carico del lavoro per la tutela della salute dei detenuti. E sebbene i dati sui contagi in cella siano attualmente meno allarmanti del mese scorso, non è possibile abbassare la guardia perché esiste ancora il rischio di nuovi contagi e nuovi focolai. Nel mondo penitenziario campano, negli ultimi giorni, il numero dei detenuti contagiati è sceso a 47: uno a Poggioreale, più uno ricoverato in ospedale; 44 contagiati nel carcere di Secondigliano, più due in ospedale; uno caso nel carcere di Benevento e un in quello di Salerno. Tra gli operatori socio-sanitari e il personale della polizia penitenziaria, i casi di positività al Covid sono attualmente 70. “Mai più bambini in carcere: Bonafede non ci deluderà” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 30 dicembre 2020 Manovra, l’intervento di Cirinnà sui fondi destinati alle case famiglia. “Mai più bambini in carcere con le madri”. Una soluzione c’è e ora, a un passo dal diventare effettiva, non si può più attendere per metterla in campo: si tratta di destinare maggiori risorse - con un fondo di un milione e mezzo all’anno - alle case famiglia e alle strutture protette per accogliere i detenuti con figli a seguito. “L’emergenza sanitaria ha avuto effetti drammatici nelle carceri”, spiega la senatrice Monica Cirinnà, responsabile Diritti del Pd, intervenendo in aula alla discussione sulla Manovra. “I numeri non corrispondono soltanto a somme di denaro”, prosegue: “34 è il numero delle bambine e dei bambini che, nonostante la pandemia, sono ancora in carcere. 31 sono invece le loro madri, detenute. 1,5 milioni di euro all’anno, per il 2021, il 2022 e il 2023, la somma che viene stanziata per finanziare quella legge che, da nove anni, prevede che le detenute madri e i loro figli debbano risiedere in case-famiglia protette, per evitare che anche un solo bambino varchi la soglia del carcere”. “Il termine per l’adozione del decreto attuativo è di due mesi”, spiega la senatrice Pd, certa che “il Ministro Bonafede non ci deluderà e ridurrà al minimo il tempo necessario per “mettere a terra” questo denaro”. Quelle madri e quei bambini reclusi negli istituti penitenziari non possono ridursi a numeri e dati, torna a sottolineare Cirinnà: e “non possono più attendere: ogni giorno in carcere è, per loro, un’esperienza dolorosa e traumatizzante”. “Molto c’è ancora da fare - sottolinea la senatrice - a partire dalla rapida approvazione del disegno di legge sull’affettività in carcere”. Si tratta di “un testo sollecitato dai Garanti per i detenuti e per cui come relatrice mi batterò - conclude. Giustizia, legalità e sicurezza non possono esistere se è violata la dignità dei detenuti. Continuare a occuparsi dei diritti non toglie nulla all’efficace gestione dell’emergenza sanitaria e alla ripartenza del Paese. Bisogna tenere assieme gestione dell’emergenza e tutela dei diritti. Non sono separate tra loro, perché unica è la vita delle persone, e tutto si tiene: diritto alla salute, diritti civili, diritti sociali”. Emendamento Renzi sulla prescrizione: showdown a gennaio di Errico Novi Il Dubbio, 30 dicembre 2020 Ddl penale, ultimatum a Bonafede: subito il tavolo per riscrivere la tua norma o la modifichiamo noi col centrodestra. A volte i diminutivi e gli accrescitivi, insomma le alterazioni lessicali, fanno la differenza. Nel caso di Renzi l’espediente è consueto. Stavolta tocca al Recovery plan e alla giustizia. Nell’enews diramata ieri mattina, il leader di Italia viva riproduce così il concetto già espresso il giorno prima in conferenza stampa: il piano del governo “comincia con delle paginette giustizialiste sulla giustizia: noi cominciamo con la cultura. Della serie: scopri le differenze”. Di che si tratta? Basta tornare all’incontro coi giornalisti: “Questo Recovery”, aveva detto Renzi, “è impregnato di cinquestellismo giustizialista nel momento in cui si parla della prescrizione: no al manettarismo di seconda mano di alcuni membri della coalizione”. Ecco qual è il bersaglio. Ecco cosa non va in quelle che lui liquida col diminutivo paginette: l’enfasi celebrativa riservata dall’esecutivo di Conte alla riforma della prescrizione. Celebrazione in cui ricorre pure qualche sottile offesa rivolta agli avvocati. Come quando si allude all’uso strumentale che si sarebbe fatto della prescrizione e che, impedito dalla norma Bonafede, dovrebbe finalmente sospingere gli imputati e i loro difensori verso i riti alternativi. Ma se le insinuazioni gratuite del “Piano di ripresa e resilienza” sono sgradevoli, anche Renzi la tocca tutt’altro che piano. Quando evoca il “manettarismo di seconda mano” punta dritto alle presunte diserzioni dei dem, i quali si sarebbero messi a rimorchio dei 5 stelle proprio sulla giustizia. L’ex premier paventa la crisi, ed è chiaro che tornerà a incalzare gli alleati sul ddl penale. Nei giorni scorsi i deputati renziani della commissione Giustizia (Lucia Annibali, Cosimo Ferri e Catello Vitiello) hanno rivolto una specifica richiesta al presidente Mario Perantoni, del M5S: rinviare il termine per il deposito degli emendamenti alla riforma del processo penale. Richiesta accordata. La scadenza era fissata per il 14 gennaio. Ora è il 21. Alla proposta di dare più tempo si è associato l’intero centrodestra. Ma Italia viva come approfitterà del margine concesso? Ha in rampa di lancio proprio un emendamento sulla prescrizione. E non si tratta di una modifica da poco, ma del famigerato (per la maggioranza) lodo Annibali. In pratica, l’avvocata e deputata renziana propone di sospendere gli effetti del blocca- prescrizione (entrato in vigore il 1° gennaio 2020) fin quando non sarà approvata proprio la riforma penale all’esame di Montecitorio. Solo dopo che si saranno verificati gli effetti di quest’ultima riforma, e solo se ne risulterà un’effettiva accelerazione dei processi, il blocca- prescrizione di Bonafede tornerebbe a essere efficace. È l’armageddon giudiziario della maggioranza? Non lo si può escludere. I numeri in commissione Giustizia sono in bilico. Il centrodestra voterebbe compatto con Italia viva. Così, sulla carta, i due fronti sarebbero pari. Cosa potrebbe evitare uno scontro così pesante sulla giustizia? Solo l’immediato insediamento del tavolo sulla prescrizione che i renziani sollecitano da mesi. Una commissione composta dai “migliori accademici del settore, da rappresentanti dell’avvocatura e della magistratura nonché da parlamentari” per definire “le linee guida” sulla prescrizione. Così ne parla Italia viva nelle osservazioni al Recovery plan, che riservano un capitolo proprio alla giustizia. Secondo la formazione dell’ex premier, non basta dunque il lodo Conte bis: il tavolo dovrebbe riscrivere la norma sulla prescrizione in modo che, “a differenza di questa bozza di legge-delega” sia “organica e strutturale, nel rispetto delle garanzie previste dalla Carta costituzionale”. Renzi vorrebbe che a presiedere la commissione preposta a correggere il blocca- prescrizione fosse il leader dei penalisti italiani, Gian Domenico Caiazza, ossia il più tenace avversario di quella norma. Spiega chi è vicino a Renzi: “Se Bonafede mettesse davvero in piedi, subito, la commissione da noi richiesta per discutere di prescrizione, e per renderla compatibile con il principio della ragionevole durata dei processi, eviteremmo di presentare l’emendamento Annibali. Ecco perché abbiamo chiesto più tempo al presidente Perantoni. Se il ministro non ci ascolterà, porteremo il lodo Annibali in commissione, e vedremo se il Pd avrà il coraggio di votare contro. Non abbiamo mai capito”, dice il fedelissimo di Renzi, “perché si siano arresi così presto a Bonafede. Non hanno preteso nemmeno di poter verificare gli effetti della riforma Orlando, della loro riforma, che aveva già esteso in modo notevolissimo i termini di prescrizione. Vediamo con che argomenti si schiereranno contro”. Non c’è male, come auguri di buon anno. Di ottimismo avrà bisogno anche Perantoni. Che non ha esitato ad accogliere la richiesta di “proroga” avanzata dai renziani della commissione da lui presieduta (Cosimo Ferri e Lucia Annibali). Un gesto di disponibilità anche verso le opposizioni che, come detto, si erano associate a Italia Viva. D’altra parte il vertice pentastellato della commissione Giustizia è convinto che tra i vari aspetti della riforma penale “molto importanti ed efficaci” vi siano quelli relativi “alla fase delle notificazioni, per eliminare i tempi morti” ma anche “al perfezionamento della prescrizione, che resta”, a suo giudizio, “una riforma fondamentale”, da attuare “rafforzando gli uffici giudiziari, come siamo impegnati a fare”. Altro che congelamenti, insomma. Certo è che il 2021 si apre come s’era aperto il 2020: con Conte che balla sulla giustizia. Certe tradizioni non cambiano. Toghe fuori ruolo favorite dalla riforma del Csm di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 30 dicembre 2020 È stato respinto domenica scorsa dalla Camera, durante le votazioni per l’approvazione della legge di Bilancio, l’ordine del giorno proposto da Azione e Più Europa che impegnava il governo ad adottare con urgenza “un’iniziativa normativa volta a ridurre drasticamente il numero degli attuali incarichi in posizione di fuori ruolo a magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, avvocati e procuratori dello Stato”. Una proposta di limitare il dirottamento delle toghe verso funzioni extra-giurisdizionali, di cui pure si discute ormai da anni. Il governo e la maggioranza che lo sostiene non hanno condiviso l’idea, e così ha reagito il deputato di Azione Enrico Costa, che l’aveva messa sul tavolo: “La maggioranza finge di litigare, ma al dunque Partito democratico, Italia viva e Movimento 5 Stelle si compattano per difendere i privilegi dei magistrati fuori ruolo: tutti insieme alla Camera si sono uniti per respingere quest’ordine del giorno, votato solo dal centrodestra”. Secondo l’ex viceministro della Giustizia, “di fronte al massiccio arretrato giudiziario e alle carenze di organico, sarebbe più che ragionevole far rientrare a svolgere attività giurisdizionale quei magistrati distaccati nei ministeri o nelle Organizzazioni internazionali, che sono circa duecento”. Il tema dei “fuori ruolo”, come detto, non è nuovo. Anzi, da sempre infiamma il dibattito politico. La materia è oggi disciplinata da una legge del 2008. Il legislatore ha previsto che possano essere destinati a ricoprire “funzioni non giudiziarie” un massimo di duecento magistrati. Il procedimento autorizzativo da parte del Csm prevede che non si crei una scopertura superiore al venti percento nell’ufficio cedente, valutando il positivo ritorno per la magistratura rispetto all’attività che il magistrato andrà a svolgere lontano dalle aule dei tribunali. Le norme fissano in dieci anni, anche non continuativi, la durata massima di questi incarichi. Attualmente ci sono magistrati presso le authority, i ministeri, le rappresentanze diplomatiche. Le disposizioni vigenti non prevedono, poi, criteri particolarmente “severi” per il ritorno in servizio, terminato il mandato, dei magistrati eletti nelle assemblee politiche nazionali o locali, oppure nominati per ricoprire incarichi politici, come quello di assessore o di ministro. Non esiste, in particolare, alcun periodo di “decantazione” fra i due incarichi. Nei mesi scorsi l’Associazione dirigenti giustizia (Adg) aveva lanciato a proposito dei fuori ruolo un appello al presidente del Consiglio, ai ministri della Giustizia e della Pubblica amministrazione, alle commissioni Giustizia e Affari costituzionali di Senato e Camera. I dirigenti di via Arenula richiamavano l’attenzione dell’opinione pubblica sulla “anomalia istituzionale” dovuta all’eccessivo numero di magistrati attualmente presenti in quel ministero con incarichi amministrativi, chiedendo di “riaffidare” almeno le funzioni gestionali ai dirigenti, senza così distogliere dalla giurisdizione un numero sempre maggiore di toghe. I fuori ruolo sono presenti anche fra le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm in discussione alla Camera. In occasione della nomina alle funzioni direttive e semi-direttive, si legge nel testo al vaglio della commissione Giustizia, “quando occorra procedere alla comparazione delle attitudini dei candidati, di puntuali parametri e indicatori”, si tenga in considerazione anche il periodo svolto “in incarichi fuori ruolo”. Con una puntualizzazione: “Le attività esercitate fuori del ruolo organico della magistratura siano valutate nei soli casi nei quali l’incarico abbia a oggetto attività assimilabili a quelle giudiziarie o che presuppongano particolare attitudine allo studio e alla ricerca giuridica, con esclusione di qualsiasi automatismo con riferimento a categorie particolari di attività o incarichi fuori ruolo”. Una disposizione specifica riguarda gli ex componenti togati del Csm. Per “evitare l’attribuzione di vantaggi di carriera o di ricollocamento in ruolo per i consiglieri che hanno cessato di far parte del Consiglio”, viene preclusa per un congruo periodo “la possibilità che abbiano accesso a incarichi direttivi o semi-direttivi o che possano essere nuovamente collocati fuori ruolo”. Attualmente ci sono alcuni ex togati del Csm sotto disciplinare per aver sollecitato un emendamento che eliminava qualsiasi periodo “cuscinetto”. Per i fuori ruolo, infine, sarà previsto un collegio elettorale ad hoc in occasione delle elezioni per il rinnovo del Csm, istituito presso il seggio del Tribunale di Roma. Imbrogli e regime di Piero Sansonetti Il Riformista, 30 dicembre 2020 Non finisce mai il Palamaragate. E ogni capitolo nuovo è una mazzata sulla credibilità di tutta la magistratura. Non perché tutta la magistratura sia corrotta, per carità, ma perché appare evidente che la corruzione ha minato profondamente la sua testa, il suo gruppo dirigente potremmo dire, e per questa ragione ha tolto ogni credibilità a tutta la macchina della giustizia. È un danno spaventoso per il Paese. Il grosso della magistratura fa il suo lavoro onestamente. Senza pregiudizi. Cerca la verità. C’è però un gruppo di circa 2000 persone, che costituisce un quarto della magistratura, del quale fanno parte soprattutto i Pm, che ha assunto un ruolo sovversivo e che ha messo a soqquadro e posto fuorilegge tutta l’istituzione. Avete presente quella frase fatta: ho fiducia nella magistratura? È insensata. Anch’io avrei fiducia nella magistratura, ma se mi capita invece di finire sotto il tiro di uno di quei 2000 magistrati del Palamaragate, altro che fiducia! So per certo che in quel caso macchina della giustizia e giustizia hanno divorziato. Il secondo e il terzo capitolo del Palamaragate, venuti alla luce in queste ore, ci dicono due cose sconvolgenti. La prima l’abbiamo raccontata ieri, ed è il “blocco” delle chat di Luca Palamara (alle quali partecipò il Gotha della magistratura italiana e soprattutto del partito dei Pm) deciso dalla Procura di Perugia, che le trasmise al Csm e alla Cassazione con un anno di ritardo. In questo modo si è evitato che magistratopoli potesse influire sulle nomine avvenute tra il maggio del 2019 e il maggio del 2020, tra le quali moltissime assai importanti, come la nomina del procuratore di Roma, cioè del successore di Pignatone. La seconda cosa che dicono questi nuovi sviluppi del Palamaragate è che addirittura sono andati perduti tutti gli sms del cellulare sequestrato a Luca Palamara, perché la Guardia di Finanza si dimenticò di scaricarli prima di restituire il telefonino al magistrato sotto inchiesta. Cosa c’era in questi sms? Nessuno può saperlo, ma probabilmente c’erano chiacchiere molto importanti, anche perché è noto che alcuni magistrati non usano whatsapp - non lo possiedono - ma usano i vecchi sms. Voi provate a immaginare se due errori così clamorosi - sì, certo, vien da ridere a chiamarli errori - fossero stati commessi in una indagine che riguardava dei politici. Sarebbe successo il finimondo: dimissioni, cadute di governi, arresti, gogne, campagne giornalistiche. E invece sembra che la magistratura riuscirà a inghiottire senza fare una piega anche questo nuovo scandalo. E continuerà ad operare, a giudicare, a disporre delle nostre vite, dei nostri patrimoni, della nostra libertà. Cioè a fare uso incontrollato e incontrollabile del proprio smisurato potere, del tutto incongruente con gli assetti di una democrazia moderna, di una società equilibrata, di uno Stato di diritto. È vero che dentro la magistratura sta succedendo qualcosa. Ci sono frange, gruppi, singoli, che iniziano a ribellarsi. A contestare i vertici, le correnti, il giustizialismo, il corporativismo, il moralismo senza morale, il davighismo, il partito dei Pm. La recente vicenda di Magistratura democratica è un esempio. Md è un pilastro della magistratura associata. Da decenni. Ha una storia lunga, forte, piena di pensiero, di cultura, in parte gloriosa in parte ingloriosa. C’è un mio amico magistrato che, un po’ per scherzo e un po’ seriamente, dice che Md è l’unico luogo della sinistra - nel mondo intero - che ha retto alla caduta del muro di Berlino. Già. L’unico che è stato capace di proseguire per la sua strada, forte come prima e forse, anzi, parecchio più forte di prima. Mai nella sua storia è stata oggetto di congiure interne. Tantomeno di scissioni. E invece, proprio in questi giorni, l’attacco si è scatenato. Dopo che Md aveva espresso dei dubbi sul caso Palamara (e ancora lo ha fatto ieri, con la bella e coraggiosa intervista di Mariarosaria Guglielmi, che è la segretaria di Md, al nostro giornale), e dopo che aveva mollato Davigo e ostacolato la sua pretesa di restare al Csm in violazione della legge, è scattata la controffensiva della sua componente conservatrice, che ha attaccato dall’interno e poi è giunta fino alla scissione. Cioè a un gesto clamoroso e inedito. Md reggerà, probabilmente, anche a questo colpo. E chiaramente il terremoto che è in atto cambierà i rapporti di forza all’interno della stessa Anm, dove recentemente Md, sfidando le tradizioni e i riti, aveva imposto alla presidenza, per la prima volta dopo decenni, un giudice, in contrasto evidente e sfacciato col partito dei Pm. Il presidente di Anm, da tempo incalcolabile, è un Pm. Tutto questo, insieme a molti altri movimenti e mal di pancia provocati, comunque, dal Palamaragate, scuoteranno l’ambiente fino a mettere in discussione gli assetti della magistratura, i suoi rapporti con la società e la legalità, la possibilità di immaginare, dopo decenni, una riforma profonda della giustizia e il ripristino dello Strato di diritto? Temo di no, per una ragione molto semplice. Il dibattito e il conflitto all’interno della magistratura non rispondono alle regole normali di una democrazia e di una società libera. Come mai? Perché quando si entra nel campo della giustizia, in Italia, si lascia il campo della libertà. Questo è un punto difficile da spiegare. È così. La nostra società, bene o male, è una società sostanzialmente libera, nonostante molte strettoie, molti grumi, molte spinte autoritarie. Però è in linea con le altre società occidentali. Forse solo un paio di spanne indietro. Nel campo della giustizia no: manca totalmente la libertà di informazione. In nessun altro settore del vivere civile è così. La stampa è libera, la televisione è libera, ed è libera di criticare, talvolta anche a sproposito, qualunque schieramento politico, o professionale, i medici, i commercialisti, gli architetti e i poliziotti, gli imprenditori, gli scrittori e i generali dei carabinieri, gli immigrati e gli homeless, senza limitazioni, come in tutto l’occidente. Non è libera neppure un poco quando si parla di magistrati. È del tutto subalterna e succube. Obbediente fino al servilismo. Il rapporto tra potere giudiziario e stampa non è diverso da quello che c’era da noi durante il fascismo, o nella Grecia dei colonnelli o nell’Ungheria o nella Germania comuniste. In nulla è diverso. La censura e l’autocensura sono assolute. I giornalisti ammessi alle sacre stanze devono far parte in tutto e per tutto della consorteria: altro che logge segrete! E questo rende difficilissimo l’emergere del dissenso interno alla magistratura o di piccole o grandi ribellioni verso il partito dei Pm. Chi comanda in magistratura ha il potere di mettere a tacere ogni critica, e di punire chi ha criticato, senza che possa difendersi. Questo provoca la situazione di regime - sì, esattamente di regime, spesso anche violento, perché dispone delle prigioni, dei sequestri dei beni, della gogna - molto difficile da scalfire. Pensate solo a come la stampa ha reagito alla grande amnistia decisa dalla Cassazione sul caso Palamara. Quando ha stabilito che i magistrati che si autopromuovevano o che promuovevano, presso Palamara, propri amici, non violavano nessuna regola. Ho scritto amnistia: amnistia piena, celebrata in contemporanea alla condanna e alla cacciata di Palamara. È lui, solo lui, esclusivamente lui il male, e tutti gli altri sono perdonati. Punto. Guai a chi obietta. E infatti mi pare che solo noi del Riformista abbiamo obiettato. Voi sapete quanti politici sono stati messi al bando per una raccomandazione. Qualcuno, anche recentemente, è stato persino arrestato. Da chi? Dai magistrati che decidevano che le raccomandazioni tra toghe, però, sono cosa buona e giusta. Avete letto qualche riga di critica? Forse Paolo Mieli sul Corriere. Un quadrifoglio. Apparso e poi rapidamente sepolto dalle righe e righe e righe dei “giudiziari di professione”. Qualcuno può fermare questo degrado? Può avviare una transizione? In Spagna, quasi mezzo secolo fa, fu il re che garantì la transizione tra dittatura e democrazia, dopo la morte di Franco. Qui da noi, forse, solo il Presidente della Repubblica potrebbe fare qualcosa del genere. Però dovrebbe chiedere lo scioglimento del Csm (lui, come ha detto più volte, non ha il potere per scioglierlo), chiedere una riforma che limiti il potere giudiziario, chiedere al Parlamento di uscire dalla sudditanza a Beppe grillo e a Marco Travaglio. Lo farà? Troppe intercettazioni, così lo Stato di polizia è servito di Matteo De Luca Il Riformista, 30 dicembre 2020 Alla luce delle recenti riforme legislative che hanno interessato l’articolo 270 del codice di procedura penale e dell’ormai nota sentenza Cavallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, torna al centro del dibattito l’annosa questione relativa ai parametri di legittimità delle intercettazioni mediante l’uso di captatori informatici in procedimenti diversi da quelli nei quali sono state disposte. Le intercettazioni, negli ultimi anni, hanno profondamente condizionato le sorti di indagini e processi. Infatti, gran parte delle inchieste che occupano le aule di giustizia si fondano esclusivamente sulle intercettazioni, oggi corroborate anche dall’ausilio dei trojan, veri e propri virus capaci di attaccare ogni apparecchio elettronico e inseguire le loro prede superando ogni barriera fisica e giuridica. La materia presidiata dall’articolo 270 è stata modificata dalla legge 7 del 28 febbraio 2020 che, intervenendo sulla riforma Orlando, introduce nel nostro ordinamento la pericolosa disciplina della cosiddetta “pesca a strascico” mediante l’uso di captatori informatici anche per taluni reati comuni, estendendone di fatto l’utilizzo a tutti i reati contro la pubblica amministrazione. In sostanza, si getta l’”esca” nel mare dello scambio di informazioni e conversazioni travati e si attende che qualcosa venga a galla. È evidente che il dibattito che ha animato i dissidi delle forze politiche e dei protagonisti della giurisdizione penale in fase di conversione in legge della riforma delle intercettazioni non attiene a un profilo prettamente processuale, ma investe inevitabilmente la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo, a cominciare da quello alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e di ogni forma di comunicazione, sancito dall’articolo 15 della Costituzione, che rischia di essere gravemente compromesso laddove la circolazione dei risultati delle intercettazioni venga estesa oltre ogni misura. Su questo infausto panorama legislativo si è espressa la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza Cavallo (la 51 del 2020) che, ristabilendo i limiti alla utilizzabilità delle intercettazioni, di fatto vieta l’utilizzo delle stesse in procedimenti diversi rispetto a quelli per cui sono state autorizzate, sempre che tra essi non vi sia una connessione forte e che non si tratti di gravi reati per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza (con pena minima non inferiore a cinque anni e massima a vent’ anni). L’entrata in vigore della riforma delle intercettazioni dal primo settembre 2020 ha tuttavia diminuito la portata garantista della sentenza in commento. Infatti, l’utilizzo delle intercettazioni effettuate in un procedimento diverso da quello in cui sono state autorizzate, elude il dettato dell’articolo 15 della Costituzione, che tutela il diritto fondamentale della libertà e della segretezza delle comunicazioni, in assenza di un espresso provvedimento di autorizzazione. In altri termini, questa riforma, in barba al principio della separazione dei poteri, rischia di trasformare il nostro Paese in uno Stato di polizia, fornendo alle Procure una sorta di autorizzazione in bianco a monitorare la vita privata dei cittadini, in evidente spregio al diritto e costituzionale della libertà di comunicazione. In conclusione, ben venga la tecnologia al sevizio della sicurezza e della legalità ma siamo realmente garantiti contro l’abuso di questi strumenti? E inoltre, siamo sicuri che chi ha disciplinato tali strumenti ne abbia colto realmente la portata invasiva? Femminicidio. Le donne rischiano il populismo penale? di Susanna Ronconi societadellaragione.it, 30 dicembre 2020 La sentenza della Corte di Assise di Brescia, che ha prosciolto Antonio Gozzini, l’ottantenne che nel 2019 ha ucciso la moglie, perché incapace di intendere e volere, ha sollevato reazioni dure e indignate di parte del mondo femminista e dell’associazionismo che si occupa di lotta alla violenza di genere. La ragione di questa forte reazione, sta, come in altri casi simili, nella motivazione addotta dalla Corte, quella del “delirio di gelosia”. Il proscioglimento, cioè, viene letto come un ritorno indietro rispetto a quel movimento - culturale, sociale e infine anche giuridico - che ha sancito come la spinta della gelosia, che sta alla base di tanti femminicidi, non possa più essere considerata una attenuante, come per millenni inteso dalla cultura e dal potere patriarcale, ma all’opposto una aggravante, derivante dall’esercizio violento dell’idea di possesso maschile della donna. Questo slittamento culturale e poi giuridico è un passaggio epocale, ed è ben comprensibile come ogni decisione che faccia balenare il ripristino di una qualche legittimazione attenuante di una accezione patriarcale, asimmetrica e violenta, delle relazioni tra uomo e donna, venga radicalmente messa in discussione. Non è un caso che l’attenzione del mondo delle donne, dopo aver puntato alla riforma delle leggi e del codice penale, sia oggi principalmente concentrata sulla giurisprudenza: non solo perché le leggi e le pene oggi ci sono (e in Italia le pene per i reati contro le donne sono tra le più elevate in Europa), ma perché la giurisprudenza - le sentenze - sono attraversate e influenzate dalla cultura, dei giudici, degli avvocati, dei periti, della pubblica opinione. Ed è una complessità, quella tra diritto e cultura, in cui i cambiamenti sono più lenti e contraddittori, ben più di una qualsiasi riforma delle leggi. In questo dibattito, e in questo movimento, mettere la giurisprudenza al centro significa focalizzare l’attenzione sulla responsabilità del reo, sulla pena e sulle motivazioni della sentenza. Sulla pena, soprattutto: che diventa, anche ben oltre le sue finalità, la misura emblematica del successo di questo passaggio culturale epocale, e del riconoscimento della donna vittima e dei suoi diritti. Ritengo che in questa attuale centralità della pena e del diritto penale vi siano molti rischi, e la reazione alla sentenza di Brescia ne è un esempio. Il primo rischio è quello di un populismo penale femminile e femminista, intendendo per populismo penale la tendenza e la pratica di delegare al codice penale (e alla pena) il fronteggiamento di questioni sociali complesse, quali appunto quelle di genere, facendo inoltre prevalere una funzione simbolica del penale, e caricando di conseguenza ogni sentenza nel merito e ogni pena comminata di questa responsabilità simbolica. Il tema del populismo penale delle donne mi appare all’ordine del giorno, e più leggo dichiarazioni e reazioni alle sentenze e più me ne convinco. Lo scorso anno, con l’associazione Sapere Plurale, abbiamo cercato di dare una opportunità di riflessione critica su questo slittamento come Coordinamento Cittadino contro la Violenza sulle Donne di Torino, organizzando il seminario Il populismo penale e la violenza di genere, a cui rimando perché lì si sono messi a tema molti aspetti critici. Definisco questo slittamento verso un penale simbolico un rischio perché, per la mia esperienza e il mio vissuto, il movimento delle donne è un movimento delle libertà per tutte e tutti, che mal si coniuga con la domanda autoritaria, law&order che sta alla base del populismo penale, qualsiasi sia l’oggetto cui si rivolge, così come con una accezione punitiva e vendicativa della pena. Ma anche o soprattutto, perché il dilatarsi del penale simbolico e della sua importanza cozza irrimediabilmente contro quella accezione di violenza di genere declinata dal movimento delle donne - e ratificata dalla Convenzione di Istanbul - come prodotto della cultura e della società patriarcali, dunque come una realtà che non si riassume nella somma di tanti atti delittuosi individuali contro le donne, ma si profila come fattore strutturale delle nostre società, e come tale va combattuta e cambiata. Certo, gli atti individuali vanno perseguiti, accertati e puniti, così come la responsabilità del singolo uomo, ma se quella lettura è corretta, non è dal penale che la lotta alla violenza di genere riceverà le sue conferme e le sue vittorie. Il penale va presidiato, perché ognuna ha diritto ad avere giustizia, secondo la legge, ma sarebbe incoerente confonderlo, populisticamente appunto, come terreno privilegiato di lotta. Eppure ritengo che oggi questo slittamento sia ampiamente in atto, nonostante il femminismo italiano tradizionalmente non abbia mai avuto fiducia nello strumento del diritto e tanto meno in quello del diritto penale. E temo che questo caricare ogni sentenza di questo peso simbolico produca una diffusa illusione iperpunitiva, non solo destinata a fallire (il potere dissuasivo della pena e del carcere è notoriamente nullo) ma anche foriera di una cultura non garantista del processo e della pena. Non è di molto tempo fa la polemica attorno al mancato riconoscimento, da parte di un tribunale che giudicava uno stupro, di una aggravante, quella di aver intenzionalmente indotto la vittima ad ubriacarsi per poterle più facilmente usare violenza: i fatti accertati dicevano che la sua ubriachezza non era stata forzata dagli imputati. Le proteste contro questa decisione - la sentenza comunque si è conclusa con la colpevolezza e la condanna degli imputati - furono aprioristiche, prescindevano dall’accertamento dei fatti, alludendo pericolosamente a una sorta di giustizia sommaria, in cui i fatti e le responsabilità specifiche attribuite rischiano di essere dettagli poco significativi. E qui torniamo alla sentenza Gozzini. Non sono una giurista, ma la lettura del dispositivo della sentenza mi pare chiarire che questo rischio paventato, tornare a una cultura della gelosia (o del raptus passionale) come attenuante, non vi sia. Anzi, la sentenza affronta esplicitamente il dibattito sul femminicidio e si addentra nel distinguo tra gelosia come motivazione e, peggio, attenuante (e dunque come tale inaccettabile) e la sofferenza psichiatrica del reo, che è alla base della sentenza di proscioglimento per incapacità di intendere e di volere. Dice il giudice: “vanno tenuti ben distinti il delirio da altre forme di travolgimento delle facoltà di discernimento che, non avendo base psicotica, possono e debbono essere controllate attraverso l’inibizione della impulsività ed instintualità”. La sofferenza psichiatrica esiste, in questo caso il delirio di gelosia è un disturbo psicotico, e quando la sofferenza psichiatrica esiste ha ben poco a che vedere con la retorica patriarcale, autoassolutoria, del raptus occasionale da gelosia. Il caso di Gozzini non sembra, per esempio, assomigliare a quell’altro caso, giudicato a Bologna nel 2019, il caso Castaldo, con una riduzione di pena di 15 anni per attenuante dovuta a “soverchiante tempesta emotiva e passionale”, questa sì, mi pare, una giurisprudenza a maggior rischio. Il processo di Brescia ha appurato che l’imputato ha commesso il delitto, ma lo ha reputato non imputabile per la sua patologia psichiatrica: nell’estrema complessità e contraddittorietà che caratterizza una perizia psichiatrica - di cui la lettura di questa sentenza offre uno spaccato significativo - pure la sofferenza psichiatrica esiste, anche in caso di femminicidio. Gozzini non sarà un uomo libero, se questo è il timore: è stata comminata la misura di sicurezza della permanenza in una Rems. Queste misure di sicurezza, se non sono il carcere (che in ogni caso per un uomo di 80 anni non dovrebbe essere ammesso, se i criteri costituzionali e di umanità della pena valgono qualcosa) sono comunque restrizioni della libertà centrate sulla pericolosità sociale anche più opache e meno garantiste della reclusione, come ben testimonia il dibattito sul “doppio binario” promosso da Società della Ragione e in corso su questo sito. No so se la non imputabilità per incapacità di intendere e di volere vada superata, in nome di una responsabilità personale che è anche garanzia di maggiori diritti contro l’arbitrarietà delle misure di sicurezza, oltre che premessa di punibilità; lo sento un tema complesso e anche insidioso, in modo particolare considerando il clima sociale in cui viviamo, con il rischio che quella invocata, riconosciuta responsabilità non faccia tanto rima con dignità, quanto piuttosto con quella “certezza della pena” oggi per lo più declinata in salsa vendicativa. So però che Gozzini non poteva essere giudicato a prescindere dalla considerazione della sua sofferenza psichiatrica. Nemmeno se il reato è il femminicidio. Emilia Romagna. Coronavirus, 57 casi nelle carceri emiliane, 31 alla Dozza di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 30 dicembre 2020 Il caso più complicato da gestire resta quello del carcere della Dozza, ma in generale la situazione dei contagi all’interno delle strutture penitenziarie dell’Emilia-Romagna è complessivamente buono e assolutamente sotto controllo. Lo si evince dall’ultima relazione del ministero della Giustizia attraverso cui si è fatto il punto, con dati aggiornati a domenica scorsa, sia rispetto ai detenuti contagiati che agli agenti della polizia penitenziaria. In totale gli attualmente positivi nelle strutture presenti in regione sono 57. Si tratta di 39 detenuti e 18 guardie penitenziarie. I numeri più alti sono quelli della Dozza, dove al 27 dicembre risultano 29 detenuti contagiati e 2 poliziotti della penitenziaria. In tutte le altre strutture i numeri non vanno in doppia cifra e in due casi, Ravenna e Forlì, gli istituti risultano Covid free, ossia senza contagi. Oltre Bologna le strutture con il maggior numero di persone infettate sono Modena con 8 casi (6 detenuti e 2 agenti) e Reggio Emilia con 6 casi (4 agenti e 2 detenuti ricoverati in ospedale). Tre casi a testa sono poi registrati a Ferrara, Piacenza e Parma. Un unico caso (ma si tratta di agenti e non di detenuti) si registra a Rimini, Castelfranco Emilia e al provveditorato regionale di Bologna. Secondo Nicola d’Amore, vice segretario regionale del sindacato della penitenziaria Sinappe, in sevizio alla Dozza “la situazione sta comunque migliorando di giorno in giorno”. E Aggiunge: “Basta ricordare che soltanto un mese fa i contagiati tra i detenuti erano circa 70 e che ora sono meno della metà”. Un ruolo importante per “calmierare la situazione lo ha avuto l’abbattimento del sovraffollamento grazie alle misure alternative e alle strategie di contenimento dei numeri con una diversa distribuzione dei detenuti in altri istituti. Oggi alla Dozza ci sono meno di settecento detenuti, mentre soltanto alcuni mesi fa erano oltre 900”. Campania. Gli avvocati scrivono a De Luca: subito il vaccino per i reclusi di Viviana Lanza Il Riformista, 30 dicembre 2020 Un gruppo di penalisti partenopei lancia una petizione online per chiedere l’intervento del governatore della Campania. Nelle affollatissime prigioni regionali è boom di soggetti a rischio di contagio da Covid: più di 400 gli anziani, 194 i disabili. Prima gli appelli e le denunce dei garanti. Poi lo sciopero della fame, iniziato da Rita Bernardini, leader dei Radicali e di Nessuno Tocchi Caino, e proseguito con una staffetta tra i penalisti. Infine una petizione online. L’obiettivo è sensibilizzare la politica soprattutto, ma anche l’opinione pubblica, sul dramma delle carceri durante questa pandemia. L’avvocato Alessandra Cangiano, che con il penalista Gaetano Balice e un gruppo di altri colleghi si erano candidati alla guida della Camera penale indicando tra le loro priorità anche quella dell’attenzione al mondo del carcere, ha promosso una raccolta di firme per una priorità delle vaccinazioni anche nelle carceri. Ormai il vaccino è una realtà e c’è già un piano per la vaccinazione della popolazione regione per regione. C’è anche una scala di priorità da seguire: si parte da medici, infermieri, operatori sociosanitari per arrivare alle categorie più a rischio, perché anziani, con patologie o lavoratori in settori essenziali come insegnanti e personale scolastico, forze dell’ordine, personale delle carceri e dei luoghi di comunità. Non c’è, però, un riferimento diretto alla popolazione carceraria. Eppure quello del carcere è un mondo dove il rischio di focolai si è rivelato un rischio concreto. Siccome parliamo della realtà napoletana, pensiamo al carcere di Poggioreale: in questi giorni i dati sulla pandemia nel grande penitenziario cittadino sono meno allarmanti rispetto al mese scorso e il numero dei detenuti positivi si è più che dimezzato, ma è presto per abbassare la guardia anche perché ci sono stati contagi e decessi negli ultimi mesi. Il Garante regionale aveva proposto di dare la precedenza, nella campagna vaccinale, a quegli istituti, come Poggioreale e Secondigliano, dove il Covid ha causato più contagi e anche vittime. La raccolta di firme online è un’iniziativa che sta raccogliendo molti consensi tra gli avvocati penalisti che sostengono la necessità di includere anche il popolo delle carceri nel piano anti-Covid. I promotori dell’iniziativa si sono detti pronti a collaborare con la nuova giunta della Camera penale, guidata dal neo-presidente Marco Campora. Intanto, hanno avviato la petizione online e scritto al governatore Vincenzo De Luca. “È facile intuire che il carcere, nonostante gli sforzi organizzativi in atto, costituisce il focolaio per eccellenza essendo impossibile praticare il distanziamento ma spesso anche solo aprire una finestra - si legge - Le autorità nazionali finora sono rimaste silenti, invitiamo il presidente della Campania, neovaccinato, in quanto responsabile della sanità locale a dare disposizioni in tal senso nell’ambito del territorio regionale. Sarebbe un bell’esempio che sicuramente verrebbe seguito a livello nazionale”. Si fa appello all’incomprimibile diritto alla salute, diritto da assicurare a chi vive come a chi lavora in carcere: “Lo stato detentivo non può e non deve costituire un motivo di marginalizzazione di una comunità peraltro molto esposta al rischio contagio”. La proposta, sulla scorta di quanto già stabilito dal piano nazionale di vaccinazione, è quella di iniziare con i reclusi con patologie che superano i 60 anni di età e con i tossicodipendenti, che pure sono una quota numerosissima all’interno delle carceri. Guardiamo i numeri della popolazione carceraria campana, per capire di quante persone parliamo. Secondo il Ministero della Giustizia, sono 70 i reclusi che hanno più di 70 anni di età, 370 quelli tra i 60 e i 69 anni, 1.164 tra 50 e 59 anni di età: sommati rappresentano circa un quarto di tutti i detenuti della regione. Per il resto, man mano che l’età si abbassa si abbassano anche i numeri dei reclusi: 65 sono i giovanissimi (tra i 18 e i 20 anni), 316 hanno tra 21 e 24 anni, 765 hanno tra i 25 e i 29 anni, 864 non hanno più di 35 anni, 963 hanno tra i 35 e i 40 anni d’età, 1.018 non superano i 44 anni e 833 hanno tra i 45 e i 49 anni. Ci sono inoltre, 114 detenuti con disabilità, 1.440 i detenuti tossicodipendenti, 330 quelli con doppia diagnosi, ossia tossicodipendenti e con altre patologie. Piemonte. Il Covid aumenta le criticità delle carceri piemontesi targatocn.it, 30 dicembre 2020 Oggi la relazione del garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. Sulle stesse tematiche si è espresso anche il gruppo Radicali Cuneo - Gianfranco Donadio: “Il Covid mette a rischio anche tutto il personale addetto, dagli agenti di custodia, agli amministrativi, a chiunque vi svolga mansioni varie” Si terrà oggi 30 dicembre alle 11 tramite videoconferenza la presentazione del Quinto Dossier sulle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi. A relazionare sui dati il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano e una rappresentanza dei dodici garanti comunali piemontesi; le conclusioni saranno lasciate al portavoce della Conferenza nazionale dei garanti territoriali Stefano Anastasia. A seguito della conferenza il dossier verrà inviato al capodipartimento dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia, al provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Piemonte Pierpaolo D’Andria, al ministro di Giustizia Alfonso Bonafede e ai sottosegretari di Stato Vittorio Ferraresi e Andrea Giorgis. Sulla stessa tematica - e nello specifico in merito alle criticità legate al periodo Covid - anche il gruppo Radicali Cuneo - Gianfranco Donadio si è espresso recentemente, con una lettera e una segnalazione alle autorità regionali. “L’essere condannati ad una pena detentiva non fa decadere il diritto alla salute - si legge nella lettera. E il Covid mette a rischio anche tutto il personale addetto, dagli agenti di custodia, agli amministrativi, a chiunque vi svolga mansioni varie. Siamo a conoscenza di un detenuto del carcere di Cuneo affetto da Covid che sta facendo lo sciopero della fame, della sete e si astiene dalle cure per denunciare la situazione. Pare che i contagiati siano rinchiusi in spazi ristretti, senza condizioni igienico-sanitarie consone. Chiediamo quindi con urgenza l’intervento delle autorità per ripristinare condizioni umane e di legalità all’interno del carcere e degli istituti penitenziari in generale, tramite l’approfondimento della questione, visite ispettive e rigidi controlli sul rispetto delle regole. Vogliamo conoscere quanti siano i positivi nelle nostre carceri, quali siano le cautele poste in essere e quale la loro efficacia e proponiamo che si consideri l’opportunità di una tempistica urgente per la somministrazione del vaccino a questa popolazione “a rischio” ed attendiamo le risposte”. Lazio. 600mila euro per informatizzare gli istituti penitenziari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 dicembre 2020 Approvato l’emendamento di Alessandro Capriccioli, consigliere regionale di +Europa radicali. Nella regione Lazio, a partire dall’anno 2021, verranno stanziati 600 mila euro per finanziare progetti e investimenti per l’informatizzazione e il potenziamento delle dotazioni telematiche all’interno degli istituti penitenziari. Questo servirà anche per incentivare lo svolgimento delle attività formative e culturali, nonché di favorire le relazioni familiari dei detenuti attraverso l’acquisizione di idonea strumentazione informatica e la modernizzazione delle reti. Parliamo di emendamento approvato dalla Regione e promosso da Alessandro Capriccioli, consigliere regionale del Lazio di +Europa Radicali. “L’emergenza sanitaria legata al Covid, che ha costretto gli istituti a sostituire molte attività in presenza con quelle in collegamento - spiega il consigliere Capriccioli, ha messo in luce l’inadeguatezza degli strumenti digitali e telematici a disposizione delle nostre carceri”. Sottolinea che grazie al suo emendamento si potrà iniziare a colmare questa lacuna. Infatti i fondi stanziati potranno essere utilizzati sia per acquistare nuove strumentazioni, sia per modernizzare le reti. “Grazie a questi investimenti - osserva sempre Capriccioli di +Europa Radicali - sarà possibile potenziare lo svolgimento della formazione, delle attività trattamentali e dei colloqui familiari per via telematica, in modo che nel protrarsi della crisi sanitaria queste attività possano continuare a svolgersi malgrado le misure di distanziamento sociale, e che una volta superata l’emergenza la modalità a distanza possa affiancarsi a quella tradizionale, garantendo ai detenuti un esercizio più pieno dei loro diritti”. Una conquista non da poco la digitalizzazione delle carceri, si tratta di un primo ma importante passo. Sì, perché se pensassimo solo all’istruzione, l’e-learning consente un collegamento interattivo tra il carcere e le agenzie educative all’esterno, senza spostare né i ristretti né il personale insegnante. In questo modo diventa realizzabile la creazione di un ambiente di apprendimento idoneo a far conseguire una formazione e dei titoli di studio spendibili sul mercato del lavoro. Sempre che il detenuto, ovviamente, una volta tornato cittadino libero non si abbandonato a sé stesso ma seguito e aiutato nel suo percorso di inserimento. Stesso identico discorso con la questione dell’affettività. Potenziare l’utilizzo di Skype ai tempi di pandemia è stata una svolta per non recidere i contatti tra detenuti e famigliari, ancor di più tra detenuti e figli minori. Investire in tecnologia vuol dire innanzitutto offrire ai detenuti un’alternativa alle forme più comuni e praticate di istruzione professionale, ma, soprattutto si pone l’obiettivo di realizzare forme alternative e al passo con i tempi che riescano effettivamente ad assicurare elevati standard trattamentali al fine di realizzare, attraverso il recupero ed il reinserimento sociale, l’azzeramento o quanto meno l’abbassamento dei livelli di recidiva. Veneto. Il carcere minorile si trasferirà a Rovigo di Milvana Citter Corriere del Veneto, 30 dicembre 2020 È giallo sulla data. La Cgil: “Il ministero ignora le nostre richieste di informazioni”. La sede è stata scelta, la gara d’appalto per oltre 11 milioni di euro per i lavori di ristrutturazione e adeguamento è ormai in via di definizione, ma non c’è ancora nessuna data certa sul trasferimento del carcere minorile di Treviso a Rovigo. Un’incertezza che pesa soprattutto sugli oltre 40 agenti di polizia penitenziaria in servizio nell’istituto di pena per minorenni di Santa Bona che non sanno quale sarà il loro futuro. La pratica per il trasferimento è stata avviata dal Ministero delle Infrastrutture oltre due anni fa, e nel novembre scorso si è chiusa l’ultima gara d’appalto per l’affidamento dei lavori che dovranno trasformare l’ex casa circondariale di Rovigo nella nuova struttura di detenzione per i minori per i quali viene disposto il carcere tra Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, arrivano a Treviso. Il trasferimento è stato deciso, come spiega il ministero nel bando della gara: “Per l’esigenza di eliminare l’istituto minorile di Treviso, che in contrasto a tutte le normative e a tutti gli standard nazionali ed europei, è l’unico istituto penitenziario minorile del nostro paese ancora inserito all’interno di una struttura penitenziaria per adulti”. La struttura si trova infatti accanto al carcere di Treviso, con il quale condivide anche l’accesso. Esigenza riconosciuta dagli stessi operatori anche per le dimensioni della struttura che, spesso, si è ritrovata in situazione di sovraffollamento. Ma a preoccupare sono i tempi: “Ancora non sappiamo nulla di definitivo - spiega Luca Bosio, delegato del sindacato Fp Cgil, nemmeno la data di inizio dei lavori e questo naturalmente crea molta incertezza per il personale. Parliamo di agenti che nel Trevigiano hanno vita e famiglia e che potrebbero essere costretti a trasferirsi a Rovigo. Per questo il 23 ottobre abbiamo inviato al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Venezia, una nota ufficiale nella quale chiediamo informazioni sulle tempistiche”. A due mesi di distanza però nessuna risposta è arrivata e per il sindacato e gli operatori restano le preoccupazioni per il trasferimento degli operatori in servizio a Treviso. Milano. Nelle carceri tra sovraffollamento e isolamento forzato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 dicembre 2020 In cella senza abiti adeguati alla stagione, scuola e attività lavorative sospese, forti limitazioni ai colloqui con avvocati e familiari. A denunciarlo in un dossier, sono gli operatori dell’area Carcere di Caritas Ambrosiana sulla situazione degli istituti penitenziari di San Vittore, Bollate e Opera. Dal dossier emerge che, nonostante il calo della popolazione carceraria dell’8% rispetto a quella registrata all’inizio dell’anno, quindi prima dell’emergenza sanitaria, permane, invece, una situazione di sovraffollamento: i posti teoricamente disponibili sono solo 2.923 a fonte dei 3.400 detenuti presenti. Una condizione fortemente aggravata dalla riorganizzazione degli spazi legata alla necessità di predisporre reparti sanitari per gli ammalati e per l’isolamento dei detenuti positivi al Covid- 19. Per liberare questi spazi - spiegano gli operatori della Caritas - molti reclusi sono stati trasferiti in altri reparti, trovandosi così a condividere la cella con più persone di prima. Una scelta che, sempre secondo il dossier, ha provocato persino nel carcere di Milano Bollate situazioni critiche. La condizione di sovraffollamento è resa anche più intollerabile, poi, dalla chiusura dei reparti, dei piani e, in diversi casi, persino delle celle, con una significativa diminuzione, in particolare a San Vittore, dell’applicazione della sorveglianza dinamica, un regime che prevede che, nei reparti di media e bassa sicurezza, le celle restino aperte negli orari diurni, migliorando così la vivibilità degli istituti da parte delle persone detenute. Ma uno degli aspetti che più preoccupa gli operatori della Caritas Ambrosiana riguarda la chiusura della scuola e di gran parte delle attività lavorative, culturali, ricreative e di sostegno psicologico, sociale che nei tre istituti erano garantite dalla presenza di operatori esterni all’amministrazione penitenziaria e dei volontari. “Le attività scolastiche sono ferme e non è, a oggi, stata attivata alcuna forma di didattica a distanza, le attività trattamentali sono ridotte al lumicino”, denunciano gli operatori della Caritas. Sempre secondo quanto emerge dal dossier, la presenza dei volontari è stata drasticamente ridimensionata in tutti e tre gli istituti, con evidenti conseguenze peggiorative per la vita delle persone detenute, soprattutto quelle maggiormente vulnerabili, che non possono effettuare i colloqui con i volontari e le volontarie delle diverse associazioni. Non solo. La diminuzione dei volontari ammessi ad entrare in carcere ha anche determinato un calo nell’erogazione di alcuni servizi di aiuto materiale come la distribuzione di indumenti e prodotti per l’igiene personale (che l’amministrazione penitenziaria non riesce a garantire, nemmeno per quei prodotti essenziali previsti dalla normativa). Dalle informazioni raccolte dagli operatori risulta che la situazione sia particolarmente critica nella casa circondariale di San Vittore, dove molti detenuti non avrebbero ancora ricevuto abiti adatti per proteggersi dal freddo. Persino l’accesso degli avvocati è fortemente limitato e non riuscirebbe ad essere opportunamente sostituito dai colloqui telefonici o dalle video-chiamate, tanto più per le persone straniere che hanno meno dimestichezza con la lingua italiana. Contemporaneamente, l’isolamento è reso ancora più intollerabile dall’impossibilità di svolgere i colloqui con i propri familiari e dalla limitazione, in alcuni casi dalla sospensione, della possibilità di ricevere i ‘pacchi’, con indumenti, prodotti alimentari e altri beni dall’esterno, a volte persino quelli recapitati per posta. “Nonostante siano chiare le esigenze sanitarie che, in carcere come fuori, suggeriscono di limitare le occasioni di contatto interpersonale, quel che più preoccupa è il protrarsi della durata di questo regime d’eccezione, con il blocco proprio di quelle attività che più di tutte assolvevano alla funzione rieducativa della pena stabilita dalla Costituzione e che dunque sono indispensabili per un corretto funzionamento del sistema penitenziario”, osservano gli operatori della Caritas Ambrosiana. Cuneo. “Essere condannati a una pena detentiva non fa decadere il diritto alla salute” cuneodice.it, 30 dicembre 2020 La denuncia dei Radicali Cuneo: “Nel carcere di Cerialdo un detenuto positivo al Covid sta facendo lo sciopero della fame per denunciare condizioni di vita non adeguate”. Desideriamo far conoscere che nelle carceri esistono particolari situazioni in conseguenza della pandemia. Era di per sé prevedibile, visto la difficoltà a mettere in atto la cautela del distanziamento in strutture comunitarie e coatte. A seguito di una specifica segnalazione giunta a Radicali Italiani ed all’Associazione Radicali Cuneo - Gianfranco Donadei, ci siamo attivati per segnalare al Prefetto, al Magistrato di Sorveglianza di Cuneo, al Garante regionale e nazionale dei detenuti una situazione insostenibile. L’essere condannati ad una pena detentiva non fa decadere il diritto alla salute. Ed il Covid mette a rischio anche tutto il personale addetto, dagli agenti di custodia, agli amministrativi, a chiunque vi svolga mansioni varie. Siamo a conoscenza di un detenuto del carcere di Cuneo affetto da Covid che sta facendo lo sciopero della fame, della sete e si astiene dalle cure per denunciare la situazione. Pare che i contagiati siano rinchiusi in spazi ristretti, senza condizioni igienico-sanitarie consone. Chiediamo quindi con urgenza l’intervento delle autorità per ripristinare condizioni umane e di legalità all’interno del carcere e degli istituti penitenziari in generale, tramite l’approfondimento della questione, visite ispettive e rigidi controlli sul rispetto delle regole. Vogliamo conoscere quanti siano i positivi nelle nostre carceri, quali siano le cautele poste in essere e quale la loro efficacia e proponiamo che si consideri l’opportunità di una tempistica urgente per la somministrazione del vaccino a questa popolazione “a rischio” ed attendiamo le risposte. Perugia. Detenuti, un progetto offre una via per ripartire Il Messaggero, 30 dicembre 2020 Sono stati 72, di cui 15 donne, i detenuti coinvolti in cinque percorsi formativi promossi nell’ambito del progetto Argo. Quello che propone, appunto, percorsi formativi per il reinserimento dei detenuti ed è finanziato dalla Regione attraverso il Fondo Sociale Europeo. C’è chi ha trovato la sua passione nella pasta fresca e nel pane fatto in casa, e sogna un proprio ristorante una volta fuori dal carcere. Chi durante la detenzione ha trovato l’orgoglio di saper fare un mestiere perché prima, in 53 anni, era stata “solo una casalinga” ed adesso dice di aver avuto “un’occasione per imparare a lavorare e la speranza di continuare il mestiere della cucina una volta fuori”. Se ben organizzato, il carcere può davvero diventare un luogo di recupero. In questo senso l’esperienza formativa nel Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia si può dire riuscita. Sono stati 72 i detenuti coinvolti, di cui 15 donne ristrette nella sezione femminile. Gli allievi che hanno frequentato i 5 percorsi formativi per “Addetto alla cucina” (2 edizioni), “Addetto ai servizi di pulizia”, “Impiantista elettricista” ed “Operaio agricolo”, promossi da Frontiera Lavoro nell’ambito del progetto “Argo: percorsi formativi per il reinserimento dei detenuti”, finanziato dalla Regione Umbria attraverso il Fondo Sociale Europeo, sono soddisfatti della loro nuova o migliorata capacità professionale. Al termine delle 120 ore di lezione, i migliori 2 del corso di cucina sono stati assunti con regolare contratto di lavoro a tempo indeterminato in prestigiosi ristoranti del territorio perugino. Il corso di cucina, in particolare, è non solo un’occasione professionalizzante, ma anche motivo di incontro ed integrazione tra culture. Nell’Istituto penitenziario di Perugia sono infatti presenti molti detenuti stranieri che adesso stanno diventando in un certo senso portavoce della cucina mediterranea e dei piatti della tradizione umbra. Come Elena, 32 anni, romena: “Ho imparato - racconta - tante cose nuove, specialmente riguardo agli ingredienti base della cucina italiana e ai modi di cottura che prima non conoscevo”. O come la sua compagna Veronica, 26enne toscana, che però preferirebbe dedicarsi al servizio ai tavoli e dice: “Ora voglio riprendere la mia vita e continuare a fare la cameriera”. Tutti i corsisti che hanno partecipato alla formazione sono coordinati da prestigiosi e rinomati docenti. “Gli allievi - spiega la chef Catia Ciofo - hanno imparato le basi della cucina mediterranea, dalla pasta fatta in casa ai piatti tradizionali rivisitati. Alcuni non avevano idea della cucina, mentre altri avevano già lavorato nel settore. Tutti hanno affrontato il corso con piacere e ottenendo ottimi risultati. Divisi in piccoli gruppi, i partecipanti hanno lavorato in cucina con materiali e prodotti di qualità e, al termine di ogni lezione monotematica, la carne, il pesce, l’orto, la pasticceria, i piatti preparati sono stati consumati insieme. Il cibo è un linguaggio comune e un argomento che tocca trasversalmente tutte le culture e le nazionalità, da qui la scelta di metterlo al centro di un progetto che ha un duplice obiettivo: da un lato creare le condizioni per una migliore integrazione delle donne detenute e migliorare la loro capacità comunicativa, dall’altro acquisire nuove abilità e competenze tecniche che possano costituire il punto di partenza per modificare il proprio percorso di vita”. Il progetto, causa emergenza pandemica, attualmente è sospeso e riprenderà nel prossimo mese di gennaio con il corso per “Impiantista elettricista” in modalità a distanza. I progetti di inclusione sociale, come quello promosso dalla Regione Umbria, sono utili per persone maggiormente vulnerabili, a rischio discriminazione, per le quali vengono definiti percorsi personalizzati di accompagnamento al lavoro. “Il progetto proposto - dichiara il coordinatore Luca Verdolini - ha l’obiettivo principale di fornire le competenze di base sulle diverse professionalità che possono operare in un contesto lavorativo oltre agli insegnamenti fondamentali, propedeutici ad un successivo reinserimento sociale della persona detenuta. Negare ad una persona detenuta il diritto al lavoro non equivale infatti a sanzionarlo per il delitto che ha commesso, ma privarlo uno degli aspetti salienti della vita: la relazione con le persone e con la realtà. L’esperienza lavorativa, infatti, aumenta il grado di stima dei detenuti consentendo una riscoperta della loro dignità, permette il recupero dei legami familiari favorendo una rinnovata socialità ed incide infine sulla recidiva migliorando i comportamenti individuali e le abitudini sociali. Solo così riusciranno a ricominciare a vivere con dignità”. Gela. Lavori sociali ai detenuti, l’idea di “Cittadini Attivi” presto al via di Maria Teresa Corso quotidianodigela.it, 30 dicembre 2020 I detenuti del carcere di contrada Balate saranno impiegati in lavori socialmente utili. Per la definitiva approvazione si aspetta la conferma anche del sindaco Lucio Greco. L’iniziativa rientra in un più vasto progetto di reinserimento sociale dei detenuti ed è stata proposta dall’associazione Cittadini Attivi, presieduta da Carlo Varchi, subito sposata anche dall’assessore ai Servizi sociali, Nadia Gnoffo. Questa mattina entrambi sono stati ricevuti da Cesira Rinaldi, direttore della casa circondariale. Era presente anche Viviana Savarino, capo area trattamentale. “Il mondo del volontariato - spiega l’assessore Gnoffo - si è speso sempre in maniera elegante e con metodi di alto profilo specie in questa casa circondariale. Il mio assessorato presto proporrà al comune di redigere un protocollo d’intesa per garantire un percorso comune all’istituto penitenziario”. L’iniziativa prevede il trasporto e una copertura assicurativa dei detenuti. “Mi sono attivato facendo da collante tra i due Enti - assicura Varchi, presidente dell’associazione Cittadini Attivi - consapevole che un istituto penitenziario ha bisogno di servizi comunali e di avere collegamenti diretti con il territorio per favorire, certamente, percorsi di trattamento e di inserimento nel tessuto sociale”. La direttrice della casa circondariale, Cesira Rinaldi, ha già avviato iniziative del genere in altre strutture penitenziarie prima dell’esperienza gelese. Perugia. Il teatro per riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza umbria24.it, 30 dicembre 2020 “Per Aspera ad Astra”, con l’obiettivo del recupero e della risocializzazione, è arrivato alla terza edizione. Il corto artistico “Voliera” sostituisce quest’anno lo spettacolo finale. L’obiettivo è quello di portare il teatro in carcere per contribuire al recupero dell’identità personale e alla risocializzazione dei detenuti e, parallelamente, al loro reinserimento nel mondo esterno e nel contesto lavorativo attraverso percorsi professionalizzanti nel campo delle arti e dei mestieri teatrali. Giunto alla sua terza edizione “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, il progetto nazionale promosso da Acri, l’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria, è stato portato in Umbria grazie all’adesione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia. Sostenuto da dieci Fondazioni di origine bancaria, ‘Per Aspera ad Astra’ si articola in una serie di eventi formativi e di workshop rivolti a operatori artistici, operatori sociali e detenuti realizzati all’interno degli Istituti di pena che si trovano nei territori di competenza delle Fondazioni partecipanti. A livello territoriale è stata dunque attivata una collaborazione che insieme alla Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia coinvolge la Casa circondariale di Capanne e il Teatro Stabile dell’Umbria e che, proprio attraverso il progetto ‘Per Aspera ad Astra’, ha permesso di dare continuità alle attività dedicate alla popolazione carceraria già organizzate negli anni dal Teatro Stabile dell’Umbria all’interno del carcere di Perugia. Giovedì 7 gennaio 2021, a partire dalle ore 18, sui canali social Facebook e YouTube della Fondazione Cassa di Risparmio e del Teatro Stabile dell’Umbria Cristina Colaiacovo, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Bernardina Di Mario, direttore della Casa Circondariale di Capanne e Nino Marino, direttore del Teatro Stabile dell’Umbria, daranno conto del progetto, delle attività svolte e dei risultati ottenuti. “Attraverso questo progetto - afferma il presidente Cristina Colaiacovo - la Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, come è solita fare in altri campi nell’espletare la sua attività istituzionale, non si è limitata ad erogare risorse, ma ha assunto un ruolo attivo e propulsivo raccogliendo e mettendo a sistema energie, conoscenze, competenze e metodologie e costruendo così l’architrave per garantire continuità alle iniziative artistiche all’interno del carcere. Tutto ciò è stato possibile grazie alla disponibilità e al coinvolgimento dei direttori della Casa Circondariale di Capanne e del Teatro Stabile dell’Umbria e degli operatori artistici e sociali che ci hanno permesso di sviluppare una iniziativa che intendiamo consolidare, a beneficio del nostro territorio e del rafforzamento della rete nazionale, con l’adesione all’edizione 2021”. Un progetto che si rinnova e cresce ogni anno e che è diventato un vero e proprio corso di formazione professionale grazie a Vittoria Corallo, della Compagnia dei giovani del TSU. In questa occasione è stata coinvolta anche una classe del Liceo Classico Mariotti e studenti e detenuti hanno lavorato insieme all’interno del carcere. Al termine del laboratorio era programmata una dimostrazione pubblica che, a causa delle restrizioni in atto, non è stato possibile realizzare. È nato così “Voliera”, il corto artistico firmato da Vittoria Corallo che andrà in onda venerdì 8 gennaio nella Sala virtuale del cinema Postmodernissimo e sarà preceduto, a partire dalle ore 19, sui canali social del Postmodernissimo, del Teatro Stabile dell’Umbria e della Fondazione Cassa di Risparmio, da un incontro di presentazione a cui parteciperanno Vittoria Corallo, Daniela Monni del Comitato di Indirizzo della Fondazione Cassa di Risparmio e Nino Marino direttore del TSU. Voliera è prima di tutto uno spettacolo teatrale, ma è anche la testimonianza che pur tra le difficoltà causate dall’emergenza sanitaria ‘Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza’ non si è fermato. “Voliera - spiega Vittoria Corallo - ? un’opera visuale che è nata nella Casa Circondariale di Capanne durante la pandemia, per continuare un percorso artistico e formativo che altrimenti rischiava di fermarsi. Volevamo fare uno spettacolo teatrale aperto al pubblico, che fosse liberamente ispirato a “Gli Uccelli” di Aristofane, per mesi ci siamo preparati esplorando alcune delle tematiche che quel testo ci suggeriva. Per esempio il rapporto tra l’individuo e lo spazio in cui vive, il rapporto tra i metri quadrati che abita e la libertà sociale che questi gli concedono. Il materiale raccolto si è sedimentato ed è poi apparso in visioni a cui ho creduto, una di queste, quella che più mi ha sorpreso vedendola materializzarsi è stata la relazione tra le persone e i propri cani, e tra le persone ed altre persone diverse per etnia e cultura, questa è diventata per me un’allegoria di qualcosa di attuale e confuso del nostro spazio interiore e sociale. Uno degli obbiettivi del progetto Per Aspera ad Astra è quello espresso nel suo titolo completo: “Riconfigurare il carcere attraverso Cultura e Bellezza”, con questo in mente ho cercato di attraversare i contenuti esplorati nei mesi precedenti insieme agli attori detenuti con un linguaggio simbolico e poetico: per trasfigurare il carcere fisico, il carcere estetico e contenutistico, per trasfigurare il tempo del carcere e il tempo della pandemia. Volevamo prendere quel poco concesso e portarlo fino a dove si poteva estendere, anche questo per noi è stato un tentativo di volo”. Modena. Panettoni e mascherine per gli ospiti del carcere di Beppe Manni Gazzetta di Modena, 30 dicembre 2020 Il carcere modenese di Sant’Anna è in grande sofferenza. Il grave episodio della rivolta dell’8 marzo con nove morti ha lasciato uno strascico di malessere, diffidenze e interrogativi non ancora risolti. La struttura che accoglieva 550 ospiti (la capienza sarebbe stata di 346), oggi ne ha poco più di 200 tra uomini e donne. Ciò dipende sia dai lavori di ristrutturazione che dal Coronavirus che colpisce anche in questo caso maggiormente le fasce più deboli dei cittadini. Gli internati sono doppiamente reclusi per evitare contagi e anche per le misure di sicurezza. I colloqui con i familiari sono stati ridotti, recuperati solo parzialmente da una maggiore possibilità per gli ospiti di fare telefonate. Il Gruppo Carcere e Città, un’associazione di volontari modenesi, anche quest’anno per Natale ha invitato i cittadini a fare un regalo agli ospiti della struttura di Sant’Anna: un panettone, oltre alle mascherine, che in carcere i detenuti fanno fatica a reperire. Sono stati raccolti, nella sede di via Curie 21, cento panettoni e più di mille mascherine. I volontari non hanno purtroppo potuto consegnare personalmente i doni alle persone detenute. Ai cittadini che hanno fatto il dono è stato consegnato un biglietto in ricordo e in ringraziamento. Don Erio Castellucci, vescovo di Modena, ha celebrato la messa natalizia in carcere nella sezione femminile. Su Rai tre la scorsa settimana in “Tutta la città ne parla” si è parlato dei fatti di Modena. La città e la società civile se informata è presente e fa sentire la sua vicinanza ai reclusi che fanno parte, anche se in un modo diverso, della nostra piccola collettività urbana. Il vento del nuovo anno di Antonio Polito Corriere della Sera, 30 dicembre 2020 Non è scontato che l’Italia esca presto e bene dall’emergenza. Forse anche per questo la solidarietà politica tra i partiti di maggioranza è scesa sotto zero. E il 2021 ci riserva la concreta prospettiva di una crisi di governo. L’opposizione confida nella “legge” di Tocqueville. Il pensatore francese sosteneva che un popolo può sopportare a lungo e senza lamentarsi condizioni difficili e restrizioni della libertà, ma “le rifiuta violentemente non appena se ne alleggerisca il peso”. Nei tempi duri il malcontento si accumula, però difficilmente si traduce in azione politica, perché prevale la paura di star peggio. Ma quando si esce dall’emergenza, e le cose migliorano, ecco che c’è lo spazio per chiedere di più e provare un cambiamento. Una delle tante conferme storiche di questa legge è la vicenda di Winston Churchill: vinse la guerra e perse le elezioni, poiché gli inglesi preferirono voltar pagina dopo tutto “il sudore, le lacrime e il sangue” che lo sforzo bellico aveva imposto. È probabile che anche da noi la fine della pandemia porti a un cambiamento radicale negli orientamenti dell’elettorato. È del resto già successo che durante una crisi la gente preferisca la sinistra, nella convinzione che sia più generosa nell’uso del denaro pubblico, ma per la ripresa si rivolga a destra, sperando in meno vincoli e più libertà all’iniziativa privata. Però la fine della pandemia è ancora lontana. L’anno nuovo può portare grandi novità politiche, ma intanto si apre con un più tradizionale lockdown. Siamo ancora immersi nella seconda ondata, e non sappiamo se ce ne sarà una terza; se basterà il vaccino e quando arriverà la nostra dose; se e quando riapriranno le scuole dei nostri figli. Abbiamo altro a cui pensare insomma, prima della politica. Per questo i partiti si muovono un po’ al buio. Fanno giochi di palazzo ma col fiato sospeso, aspettando di capire dove andrà il Paese, da che parte tirerà il vento del 2021. Così il governo un po’ alla volta si indebolisce, ma l’alternativa resta avvolta nella nebbia. Eppure questo “grande stallo”, invece di stabilizzare la situazione, manda in fibrillazione la maggioranza. La ragione è semplice: anche da quella parte conoscono, e temono, l’effetto Churchill. Le strategie per evitarlo sono molte e diverse, spesso anche in conflitto tra loro, ma convergono tutte su un obiettivo: ristrutturare l’offerta politica del centrosinistra, così che quando l’emergenza finisca sia pronto qualcosa che sembri nuovo. Il materiale a disposizione non è abbondante, e i voti nemmeno, dunque bisogna lavorare con la fantasia. Gli ingredienti sul piatto sono tre: una nuova alleanza politica, un nuovo sistema elettorale, un nuovo Presidente della Repubblica. Ognuno si muove a modo suo. Renzi fa il Ghino di Tacco, scuotendo l’albero per cambiare governo (ma con l’apprezzabile scelta di far leva sui contenuti: più o meno gli stessi che fino a un mese fa sbandierava il Pd). Gli eredi della tradizione togliattiana, come Bettini, puntano a far nascere intorno al premier un nuovo partito che dia più spazio coalizionale al Pd (non sarebbe la prima volta, anche D’Alema curò il parto elettorale di Dini nel 1996). Conte e Franceschini, figli e figliastri della tradizione democristiana, contano invece sul fatto che il potere logora chi non ce l’ha: o con un estenuante temporeggiamento moroteo nel caso del premier pugliese, o con una tessitura squisitamente dorotea per il ministro ferrarese, un domino di “alleanze matrimoniali” con i Cinquestelle che parte dalla scelta dei candidati sindaci nelle cinque grandi città al voto in primavera, per arrivare fino al prossimo inquilino del Quirinale da eleggere tra un anno. Ma tutte queste manovre hanno una loro debolezza intrinseca: e sta nel fatto che Conte non è Churchill. Non solo nel senso che non ha ancora vinto la guerra, ma che potrebbe anche perderla. A ben guardare, l’anno che sta per aprirsi rischia infatti di essere una prova troppo dura per questo governo. Il debito è cresciuto a dismisura, e per quanto Conte ripeta che finanziarsi non è un problema, ben 88 miliardi dei 127 di prestiti europei saranno destinati a vecchi progetti per sostituire finanziamenti nazionali e non indebitarsi ancora: il che ridurrà di molto la potenza di fuoco della “ripresa”. La governance necessaria per gestire questi soldi è ancora un mistero avvolto in un enigma. Né gli italiani né l’Europa sembrano avere alcuna fiducia nella capacità di spesa della nostra burocrazia, e il rischio di sperperare soldi destinati agli investimenti in incentivi e sussidi è molto elevato, come ha paventato ieri il commissario Gentiloni in un’intervista a Repubblica. D’altra parte si è visto nell’ultima Finanziaria, approvata in fretta e furia, quanto il partito della spesa pubblica sia in preda a una vera e propria “euforia da deficit”, al punto di sparpagliare altri 24,6 miliardi in interessi corporativi, operazioni di consenso e vere e proprie mance, come ha spietatamente spiegato ieri Sabino Cassese sul Corriere, così portando il disavanzo al 10,8% e il debito al 158%. Che l’Italia esca presto e bene da questa emergenza è insomma tutt’altro che scontato. Pur essendoci entrata prima e peggio di tanti altri. Forse anche per questo la solidarietà politica tra i partiti di maggioranza è scesa sotto zero. Se si seguono i dibattiti parlamentari si vedrà che ogni gruppo applaude solo la dichiarazione di voto del suo rappresentante. Così il 2021 ci riserva la concreta prospettiva di una crisi di governo. O “pilotata” a gennaio, verso un nuovo Conte rimpastato (magari con aggiunta di un gruppetto di “responsabili” selezionati tra transfughi ed eletti all’estero, nella migliore tradizione del trasformismo italico). O “non pilotata” a luglio, quando il “semestre bianco” eliminerà del tutto il rischio di elezioni anticipate. Un anno fa il premier Conte fu protagonista di un infortunio, pronosticando che il 2020 sarebbe stato un “anno bellissimo”. Neanche per il prossimo siamo messi bene. Lo stato d’emergenza, i Dpcm e quei diritti fondamentali oscurati di Roberto Righi Il Dubbio, 30 dicembre 2020 È opportuna una prima riflessione, dopo un anno di emergenza sanitaria, economica e sociale. E dopo un anno di stravolgimento della gerarchia e delle categorie delle fonti e di quelle che si sarebbero potute definire le (relative) certezze in materia del giurista contemporaneo. Voglio partire da una recente sentenza della Corte Costituzionale, resa però in epoca che sembra ormai lontana, perché “pre-virus”. Con essa, affrontando le limitazioni alla libertà personale conseguenti alle misure di pubblica sicurezza previste dal d.lgs. 159/ 2011, la Corte ha fatto importanti affermazioni di principio. E cioè che “le misure in questione in tanto possono considerarsi legittime, in quanto rispettino i requisiti cui l’art. 13 Cost. subordina la liceità di ogni restrizione alla libertà personale, tra i quali vanno in particolare sottolineate la riserva assoluta di legge (rinforzata, stante l’esigenza di predeterminazione legale dei “casi e modi” della restrizione) e la riserva di giurisdizione. Gli esiti cui è approdata la giurisprudenza costituzionale italiana, che in questa sede devono essere riaffermati, finiscono così per attribuire un livello di tutela ai diritti fondamentali dei destinatari della misura della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, che è superiore a quello assicurato in sede europea. La riconduzione delle misure in parola all’alveo dell’art. 13 Cost. comporta, infatti, che alle garanzie (richieste anche nel quadro convenzionale) a) di una idonea base legale delle misure in questione e b) della necessaria proporzionalità della misura rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati (proporzionalità che è requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo), debba affiancarsi l’ulteriore garanzia c) della riserva di giurisdizione, non richiesta in sede europea per misure limitative di quella che la Corte Edu considera come mera libertà di circolazione, ricondotta in quanto tale al quadro garantistico dell’art. 2 Prot. n. 4 Cedu” (sent. n. 24/ 2019). Tutti gli italiani, anche se non leggono la Gazzetta Ufficiale conoscono però il D. L. 2 dicembre 2020 n. 158 e il D. L. 18 dicembre 2020 n. 172 e stanno vivendo in questi giorni le limitazioni ivi contenute alle libertà di circolazione e di domicilio. Le quali confliggono frontalmente con gli artt. 13, 14 e 16 della Costituzione. Se per questa volta si è rispettata da parte del Governo - attraverso la decretazione d’urgenza - la riserva assoluta di legge che pertiene a tali diritti apparentemente “inviolabili”, mentre la fonte secondaria atipica rappresentata dai D.P.C.M. sino ad oggi intervenuti in materia era certamente incostituzionale, prima di tutto per la mancanza di capacità a disciplinare le limitazioni ai diritti di libertà che ne sono conseguite, altrettanto non può dirsi quanto al contenuto di tali decreti legge, la cui lettera confligge frontalmente con le norme costituzionali sopra citate. Ma non solo con esse. Queste però sono considerazioni al limite dell’ovvio. Ma come si spiega tutto questo? Anche se la gravosità delle limitazioni subite dai cittadini italiani è certamente la più intensa, quella dei ripetuti lockdown è un’esperienza comune alle democrazie occidentali, benché fondate sulla “rule of law”. Ma il giudizio sulla legittimità costituzionale dei D. L. 158 e 172 del 2020 spetterà alla Corte Costituzionale, se ne sarà investita in via incidentale e qui non intendiamo anticiparlo. Intendiamo solo darne una parziale spiegazione, in termini di realismo giuridico. Nei giorni scorsi su questo quotidiano è stato infatti autorevolmente ricordato da Ginevra Cerrina Feroni che il bisogno di sicurezza rappresenta un valore “super primario”, che non entra nel tradizionale bilanciamento con gli altri diritti costituzionali, anche con quelli definiti inviolabili, perché vi prevale necessariamente. Potremo allora dire che siamo di fronte ad un bisogno di difesa del singolo e della collettività, che deve essere assicurato dal potere esecutivo e quindi dal suo vertice rappresentato dal Governo e soprattutto dal Presidente del Consiglio dei Ministri ex art. 95 Cost., il quale, in una situazione eccezionale come quella che stiamo vivendo, inevitabilmente assume la capacità di “mangiarsi” molti dei diritti fondamentali assicurati dalla Costituzione. Questo spiega ad un tempo l’esautoramento del Parlamento, come se fossimo in stato di guerra ex art. 78 Cost. e l’emersione di quelle fonti atipiche promananti appunto del Presidente del Consiglio dei Ministri, che peraltro per Costituzione non dispone di alcun autonomo potere normativo. In questa situazione governata dallo stato di necessità recedono dunque non solo le categorie delle fonti normative, ma persino la Costituzione. E soltanto un organo di garanzia come la Corte Costituzionale potrà probabilmente dirci in futuro se i poteri normativi così esercitati hanno avuto nondimeno una copertura costituzionale. È certo però che tutto il diritto dell’emergenza che stiamo vivendo avrebbe avuto quantomeno bisogno di una legittimazione, che vada oltre il semplice meccanismo della fiducia parlamentare. È necessario che queste limitazioni, che tutti noi stiamo vivendo e subendo in questi giorni, abbiano una fortissima copertura politica. Che il Governo che le dispone possa cioè dirsi il Governo di tutti gli italiani nel periodo più difficile dell’intera storia repubblicana. Altra forma di legittimazione non è possibile. Ma al momento essa è assente, con le conseguenze sotto gli occhi di tutti. Che saranno destinate ad aggravarsi ancora. *Avvocato Dalla catastrofe possiamo uscire soltanto grazie ai nuovi italiani di Enrico Deaglio Il Domani, 30 dicembre 2020 Nelle mie fantasie per l’anno nuovo io mi immagino che il governo italiano, con un succinto decreto dichiari lo ius soli per un milione di giovani figli di immigrati nati in Italia; che con un secondo decreto conceda la cittadinanza italiana a tutto il personale sanitario straniero che si è coperto di fatica e di gloria in questi mesi; che con un terzo decreto dia la precedenza nelle vaccinazioni a tutti quegli immigrati irregolari che sono, per le loro condizioni di povertà e precario vivere, i più esposti al contagio e alla sua trasmissione, e nello stesso tempo impauriti e quindi non in grado di far valere i propri diritti. Naturalmente, tutti hanno ancora ben chiare le immagini del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, commosso, che sovraintende alla vaccinazione dei detenuti del carcere di Modena, dove il 9 marzo scorso morirono in circostanze purtroppo molto oscure, tredici (tredici) detenuti che avevano chiesto misure urgenti di protezione contro l’epidemia. (Errata corrige: cancellate da “naturalmente” in poi, mi rendo conto che questo paragrafo è davvero irrealistico). Tutti dicono che il virus ha cambiato il mondo, e che non è certo finita qui. Grandi economie sono crollate, uomini potenti come Trump sono finiti nel ridicolo, le religioni hanno chinato la testa di fronte alla scienza; la dottoressa Katalina Karikò, nata 65 anni fa nella tragica pianura ungherese in una casa senza luce elettrica e acqua corrente ha regalato (sì, regalato) al mondo l’idea di un vaccino basato sull’Rna cui nessuno prima aveva pensato, che ci sta salvando tutti. Fosse arrivata qui, invece che in America, sarebbe rimasta precaria allo Spallanzani, ad agitare reagenti. Questo per dire che, in genere, sono sempre gli immigrati il sale della terra e che ci converrebbe capirlo. E quindi: ius soli come risarcimento e come investimento, contro la nostra vecchiaia ormai decrepita, contro i nostri Natali tra Uncle Scrooge e Napoli Milionaria, in cui tutti chiedono “uno scatto”, “una visione”, “procedure straordinarie”, “qualcosa per i giovani”, ma fingono di non vedere che cosa succede. Nello specifico, il virus ha fatto sapere che tutto il mondo dell’assistenza sanitaria - non per l’emergenza, ma per sempre - avrà bisogno (sempre che vogliamo conservare la democrazia) di decuplicare gli addetti, dal portantino al ricercatore, dal radiologo all’assistente sociale; e che questi non saranno italiani. Già ora, tutto il personale “basso”, spesso precario, degli ospedali e delle residenze per anziani è fatto di immigrati. E colpisce il dato di un’associazione di medici e infermieri stranieri in Italia: 77.000 iscritti. Non avendo la cittadinanza italiana, non possono partecipare ai concorsi pubblici, nemmeno ai bandi attuali delle Asl. In generale poi, come tutti sanno, l’economia italiana si regge sul lavoro degli immigrati, che costituiscono la maggiore forza creativa delle nostre imprese. E ancora più in generale, nella storia ci si è salvati dalle grandi calamità con l’inclusione, e non con il contrario. Il contrario porta alle autarchie, alle dittature e alle guerre. Fantasie? Sicuramente. Ci vorrebbe un grande statista, una persona con una visione, ci vorrebbe un Mario Draghi. Sì, forse lui sarebbe la persona adatta; ha visione economica, ha sensibilità democratica e coraggio, come ha dimostrato con il whatever it takes e ora complimentandosi con il presidente del Napoli per la cancellazione della ingiustizia subita con il 3 a 0 a tavolino dato alla Juventus. Rsf: 50 giornalisti uccisi nel 2020, la maggior parte in Paesi non in guerra di Gabriella Colarusso La Repubblica, 30 dicembre 2020 Nel mondo ci sono 387 reporter detenuti, aumenta del 35 per cento il numero di giornaliste arrestate. Il Messico, il Pakistan, le Filippine, l’Honduras, ma anche l’Iran, l’Iraq. Le minacce alla libertà di informazione non vengono solo dalla guerra: nel 2020 sono stati uccisi 50 giornalisti nel mondo e la maggior parte lavorava in Paesi non in conflitto. È uno dei dati che emergono dal rapporto annuale di Reporters sans Frontières (Rsf) che monitora lo stato di salute del giornalismo nel mondo. In dieci anni, dal 2011 a oggi, Rsf ha censito 937 vittime, ma il numero dei morti cala più o meno costantemente dal 2012. Quest’anno sono stati uccisi mentre facevano il loro lavoro 50 giornalisti, anche se secondo l’organizzazione sono arrivate meno segnalazioni a causa della pandemia. Anche la pace uccide l’informazione - Il numero dei giornalisti uccisi in zone di guerra diminuisce, è una tendenza che va avanti dal 2016, ma aumentano le vittime nei Paesi pacifici: nel 2016, il 58% dei giornalisti è stato uccisi in zone di conflitto contro il 32% di quest’anno. Gli Stati più a rischio si sono rivelati il Messico con 8 morti, l’India (4), il Pakistan (4), le Filippine (3) e l’Honduras (3). Rsf sottolinea nel rapporto il modo particolarmente cruento con cui sono stati uccisi in Messico il giornalista Julio Valdívia Rodríguez del quotidiano El Mundo de Veracruz trovato decapitato e il suo collega Víctor Fernando Álvarez Chávez fatto a pezzi nella città di Acapulco. In India, il giornalista Rakesh Singh Nirbhik è stato “bruciato vivo” mentre il giornalista Isravel Moses, corrispondente di una stazione televisiva del Tamil Nadu, è “stato ucciso con il machete”, riporta Rsf. Dall’Iraq alla Nigeria, coprire le proteste è sempre più pericoloso - In Iran, pochi giorni fa è stato giustiziato il fondatore del canale Telegram Amad, il giornalista dissidente Ruollah Zam. A indebolire i giornalisti non ci sono solo “i rischi legati alla professione” ma anche le leggi statali. Quasi venti giornalisti investigativi sono stati uccisi quest’anno: alcuni indagavano su corruzione e appropriazione indebita di fondi pubblici, altri si stavano occupando di mafia e criminalità organizzata, altri ancora di questioni ambientali. Anche coprire le proteste è diventato sempre più pericoloso: “In un nuovo sviluppo nel 2020, sette giornalisti sono stati uccisi mentre coprivano le proteste”, si legge nel rapporto. “In Iraq, tre giornalisti sono stati uccisi esattamente nello stesso modo: da un colpo alla testa sparato da uomini armati non identificati mentre coprivano le proteste. Un quarto è stato ucciso nella regione del Kurdistan settentrionale dell’Iraq mentre cercava di sfuggire agli scontri tra forze di sicurezza e manifestanti”. Più reporter donna agli arresti, cresce la censura per la pandemia - In Nigeria, “due giornalisti sono stati vittime del clima di violenza che accompagna le proteste, in particolare le proteste contro la brutalità di un’unità di polizia incaricata di combattere la criminalità. In Colombia, un giornalista di una stazione radio comunitaria è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco mentre copriva una protesta della comunità indigena contro la privatizzazione della terra locale che è stata violentemente dispersa da polizia regolare, polizia antisommossa e soldati”. Ad oggi nel mondo ci sono ancora 387 giornalisti detenuti, nel 2020 è cresciuto anche il numero di giornaliste arrestate, + 35%. Nei primi quattro mesi dell’anno, il numero di giornalisti arrestato è cresciuto di quattro volte anche per la copertura sulla pandemia. Bosnia, 3mila migranti a piedi nudi nella neve: ignorati dalle autorità, respinti dalla Croazia di Francesco Battistini Corriere della Sera, 30 dicembre 2020 Nei 25 anni passati dagli accordi di Dayton, la Bosnia Erzegovina s’è rivelata essere poco più di un’espressione geografica. Bosgnacchi, serbi e croati fingono d’essere uniti, ma sono divisi su tutto. Tranne che su una cosa: non volere i migranti. “Difendiamo la nostra città!”. I profughi di ieri contro i profughi di oggi. La gente che un tempo veniva sfollata e che ora usa lo sfollagente. Nel gelo di fine anno, nella glaciale indifferenza che il Covid fa calare su qualunque altra emergenza globale, alle porte dell’Europa c’è un problema migranti che si sta trasformando in una guerra fra poveri, in una “vera catastrofe umanitaria” - dice l’Onu - che nessuno sa affrontare: almeno tremila mediorientali, nordafricani, asiatici da giorni vagano in ciabatte a venti sottozero per le foreste della Bosnia nord-occidentale, al confine con la Croazia, arrivati lungo la rotta dei Balcani e rimasti senza un campo dove rifugiarsi e respinti dalle guardie di frontiera croate e infine rifiutati dai cittadini bosniaci di Bihac. Che non li vogliono ospitare. Che presidiano la vecchia fabbrica dismessa di Bira, dove s’è provato a reperire un rifugio. “Difendiamo la nostra città!”, il grido di battaglia lanciato su Facebook da un gruppo di “patrioti” fra migliaia di follower e di like, fra politici e media locali che descrivono gli intrusi come criminali, terroristi, portatori di malattie. Da Sarajevo, il governo lascia fare e si volta dall’altra parte, nonostante abbia ricevuto 60 milioni dell’Ue (più altri 25 in arrivo) proprio per tamponare questo disastro migratorio. Solo Unhcr e Oim, le organizzazioni mondiali per i rifugiati e i migranti, hanno rotto il silenzio con un parole molto dure: “Nevica, siamo sotto zero, non c’è riscaldamento, niente”, ha twittato spazientito il responsabile Oim per la Bosnia, Peter Van der Auweraert, ormai a fine mandato. “Non è così che dovrebbero vivere le persone. Servono coraggio politico e azione. Adesso”. Il caso esplode ora perché sabato scorso, alla notizia che la loro tendopoli di Lipa sarebbe stata chiusa, i disperati hanno incendiato il campo. Ma nessuno può dirsi sorpreso da quel che succede: è da mesi che molte ong denunciano le condizioni di Lipa, 30 chilometri da Bihac, un campo temporaneo in mezzo al nulla, impiantato ad aprile per fronteggiare la pandemia. Le tende dovevano sbaraccare in settembre, ma nessuno ha fatto granché, per paura delle proteste degli abitanti della regione. E il 9 dicembre, quando l’Oim ha deciso di non voler finanziare più un campo così inadeguato per l’inverno, concordando con le autorità locali una sistemazione nei container di Bira, la crisi è precipitata: 400 migranti hanno preso le loro quattro cose e han provato a entrare in Croazia, come al solito respinti dalla polizia di Zagabria con modi ruvidi (sono numerose le accuse di violenze); qualcuno esasperato ha dato fuoco alle tende; a tutti gli altri non è rimasto che vagare nei boschi innevati. Congelati, in un Paese pietrificato. Coi piedi violacei, la febbre alta, poche coperte, qualche pasto offerto dalla Croce rossa bosniaca: “Viviamo come animali”, ha detto ai microfoni d’una tv Kasim, un giovane pakistano. “Anzi, gli animali vivono meglio di noi. Se non ci aiutate, moriremo. Per favore, aiutateci!”. Non dicano che non si sapeva. I Balcani sono l’area d’Europa a maggior concentrazione d’organizzazioni internazionali, militari e umanitarie, ma da quando è stata chiusa la rotta Turchia-Grecia-Macedonia-Serbia-Bosnia, le migrazioni sono continuate e poco s’è fatto: solo dal 2018, il governo di Sarajevo ha dovuto gestire 60 mila rifugiati e ora ne ha 6.500 in campi fatiscenti, oltre a questi tremila a spasso. La Croazia ha alzato un muro invisibile, sessanta respingimenti al giorno, e un dossier presentato la settimana scorsa alla commissaria Ue per gli Affari interni, Ylva Johansson, censisce 12.654 abusi subiti dai migranti finiti in mano alle mafie o alle (spesso corrotte) polizie balcaniche. Sono stati documentati da Amnesty International autentici casi di tortura: profughi sequestrati in cambio di riscatto, un marchio a fuoco sulle braccia a titolo del pagamento avvenuto. Da più di due anni c’è una coraggiosa maestra elementare bosniaca di Bihac, Zehida Bihorac, che in totale solitudine porta medicinali, vestiti, cibo e racconta sui social quel che patiscono i migranti nella Krajina, in fondo a quei 1.600 chilometri di cammino, di paura, di fame, di torture che li portano da Lesbo alle frontiere dell’Europa. Zehida ha ricevuto minacce, ha chiesto (spesso inutilmente) la protezione della polizia e il suo caso, come quello di tutti i volontari bosniaci che aiutano gli immigrati, ha spinto perfino le Nazioni Unite a protestare, chiedendo un’indagine sulle violenze xenofobe. Tutto questo, a 25 anni da Dayton. E da quegli accordi di pace che nel dicembre 1995 liberarono gli stessi bosniaci dalla guerra, dal genocidio, dai campi profughi in cui erano stati cacciati, dall’incubo di dover vagare in cerca d’un destino migliore. Mai più, si diceva allora. In questo quarto di secolo, la Bosnia Erzegovina s’è rivelata essere poco più di un’espressione geografica, congelata in una pace vuota e fredda. Bosgnacchi, serbi e croati fingono d’essere uniti, ma sono divisi su tutto. Tranne che su una cosa: non volere i migranti. Libia. Il mistero dell’Onu nell’inchiesta sulle torture ai migranti di Giovanni Tizian Il Domani, 30 dicembre 2020 I trafficanti di esseri umani hanno contatti ovunque. I testimoni che hanno vissuto nei lager libici riferiscono della presenza di militari, di prigioni confinanti con caserme dove c’erano uomini in divisa e carri armati. Altri hanno detto ai magistrati di essere stati venduti da intermediari che lavoravano per un’organizzazione delle Nazioni unite e hanno fatto i nomi dei capi che gestivano i centri di detenzione. Uno di loro è collegato al comandante Bija, il guardacoste, accusato proprio dall’Onu di essere “uno dei più efferati trafficanti di uomini in Libia”, che nel 2017 ha partecipato a un incontro in Italia con una delegazione del ministero dell’Interno. I magistrati di Palermo proseguono le indagini e da quanto risulta a Domani avrebbero avviato alcune rogatorie per raccogliere le prove su questa rete di complicità. Dietro le torture c’è infatti un sistema di connivenze istituzionali in uno stato dove regna il caos e le bande criminali si spartiscono donne, uomini e bambini come merce in un suk. Le ultime rivelazioni, raccontate da due ragazzi del Bangladesh, riferiscono di sistematiche brutalità: appesi a testa in giù e picchiati con tubi e armi. Violenze mostrate in diretta ai familiari chiamati con il telefonino per convincerli a pagare il riscatto. I due testimoni, sentiti nell’ambito di un’inchiesta della procura di Palermo coordinata dal magistrato Calogero Ferrara, hanno raccontato anche di essere stati imbarcati a forza nonostante il mare agitato e le cattive condizioni meteorologiche. “O salite o vi ammazziamo e buttiamo i corpi in mare”, è stata la minaccia dei trafficanti libici. I migranti vengono venduti da una banda a un’altra, le richieste di denaro sono continue, i familiari nei paesi di origine vengono intimiditi costantemente. L’organizzazione corrompe poliziotti e funzionari di stato. Spesso gli affiliati sono militari e uomini della guardia costiera libica. Prigione Zawyia L’indagine della procura di Palermo evidenzia anche la superficialità e l’indifferenza con cui l’Europa e l’Italia hanno affrontato l’argomento. Nella geografia del traffico di esseri umani la città di Zuara è uno dei luoghi privilegiati per le partenze perché molto vicino al confine tunisino. I due bengalesi torturati, le cui testimonianze sono state pubblicate nei giorni scorsi, erano arrivati qui prima di finire su una barca diretta verso l’Italia. Strategica è pure Zawya, non lontano da Tripoli e Zuara. “I migranti rinchiusi nella ex base militare venivano innanzitutto privati della loro libertà personale, sorvegliati ininterrottamente da carcerieri armati. Inoltre i soggetti rinchiusi a Zawyia venivano tenuti in condizioni disumane, privi dei beni di prima necessità e delle cure mediche necessarie (tant’è che in tanti sono morti per gli stenti o le malattie lì contratte, così come emerge da diverse dichiarazioni), in modo che, da un lato non rappresentassero un costo per l’associazione, e dall’altro vivessero in uno stato di grave soggezione nei confronti dei loro carcerieri”. È un passaggio del mandato di arresto nei confronti di alcuni scafisti e torturatori catturati su ordine del magistrato Ferrara. Nello stesso documento si legge: “La situazione veniva aggravata dal sistematico compimento di continue e atroci violenze fisiche o sessuali, fino a giungere alla perpetrazione di veri e propri atti di tortura, talora culminate in omicidi, e ciò al fine di costringere i familiari dei migranti a versare all’associazione somme di denaro quali prezzo per la loro liberazione” Nella gestione di questi campi di tortura, secondo quanto riferito da alcuni testimoni vittime dei soprusi, ha avuto un ruolo tale Mohamed decritto come “il libico dell’Oim”, cioè l’organizzazione delle Nazioni unite che si occupa di flussi migratori. “Mohamed - dice un testimone al pm - aveva una barba lunga e vestiva in abiti militari, in quanto sulle spalline aveva una stella e tre barre. Egli aveva un aiutante, verosimilmente sudanese, che indossava la casacca dell’Oim e che parlava inglese e arabo”. Vengono poi aggiunti dettagli sul luogo di detenzione: “L’area era collegata, tramite un portone, a un’altra base militare operativa dove vi erano militari e anche carri armati. Tale base era in prossimità del mare e di una raffineria. All’interno potevamo esserci circa 500 persone, uomini, donne e circa 15 bambini”. Da quanto risulta a Domani la procura di Palermo sta approfondendo il ruolo del “libico dell’Oim”. Non sarà facile, ma qualche riscontro è già stato acquisito e gli accertamenti sono in corso anche tramite la richiesta di documentazione in Libia attraverso rogatoria. La parte difficile sarà, come spiega una fonte investigativa, poterlo sentire. Infatti, se davvero lavora per l’Oim, gode dell’immunità diplomatica. Negli atti dell’inchiesta c’è poi un altro riferimento all’organizzazione della Nazioni unite: nel campo, ex base militare, alcuni testimoni riferiscono di un container dell’organizzazione dell’Onu. “Non è dato sapere se è in disuso e usato dalla criminalità locale”, scrivono i magistrati. Dalle indagini è anche emerso che il “libico dell’Oim” è legato al comandante Bija, il boss del traffico di esseri umani legato alle istituzioni libiche e ospite di incontri ministeriali europei. Bija è il soprannome di Abd al-Rahman al-Milad, a capo della Guardia costiere libica nella zona di Zawyia, cugino, come ha scritto Nello Scavo su Avvenire, di Ossama, il capo del campo governativo di Zawya su cui indaga la procura di Palermo e dove, secondo i testimoni, si trovava Mohamed. Bija è stato arrestato in Libia lo scorso ottobre. Nel 2018 l’Onu lo aveva inserito in una black list dei trafficanti di esseri umani. Eppure nel 2017 faceva parte della delegazione libica giunta in Italia per incontrare funzionari del governo italiano in un incontro organizzato proprio dall’Oim. In fondo chi meglio di Bija poteva discutere di come frenare i flussi migratori? Il governo era quello di Matteo Renzi, ministro dell’Interno Marco Minniti. Già all’epoca il lager di Zawya era operativo e i migranti venivano torturati. Ma per l’Europa e l’Italia questo evidentemente era secondario. La priorità era fare in modo che la Libia apparisse un porto sicuro. Egitto. La prima fregata per al-Sisi salpata in silenzio il giorno di Natale di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 dicembre 2020 “Al Galala” arriverà al Cairo il 31 dicembre, parte di un pacchetto-record di vendite militari al regime egiziano. Che avrebbe ottenuto anche 8 milioni di euro in munizionamento da Cagliari a giugno. Intanto dalla prigione arriva un’altra lettera di Patrick Zaki. La più contestata delle vendite di equipaggiamento militare si conclude in sordina, così come iniziata: il 5 febbraio scorso su queste pagine avevamo rivelato la vendita di due fregate Fremm Bergamini di Fincantieri al regime egiziano, un affare da 1,2 miliardi di euro per due navi - la Emilio Bianchi F599 e la Spartaco Schergat F598 - inizialmente destinate alla Difesa italiana e poi virate sul Cairo senza comunicazioni ufficiali al parlamento. Un affare enorme, possibile grazie alla collaborazione di banche europee e agenzie di credito (tra gli altri Cassa Depositi e Prestiti, Sace, Intesa Sanpaolo, Bnp Paribas e Santander) che copriranno parte della spesa egiziana con prestiti da 500 milioni. All’epoca Fincantieri non aveva voluto rilasciare dichiarazioni, solo dopo montò la polemica che costrinse il governo a metterci una pezza promettendo di rivedere l’accordo e poi (con il premier Conte) affermando che per avere verità dal regime sull’omicidio di Giulio Regeni era meglio fare business e tenerselo amico. Altrettanto in sordina la prima delle due navi, la Spartaco Schergat, ancorata a Muggiano, vicino La Spezia, è stata ribattezzata dal regime con il nome “Al Galala”, riferimento a uno dei mega progetti infrastrutturali voluti dal presidente al-Sisi e realizzati dalle imprese dell’esercito (fulgido esempio di forze armate imprenditrici e di un oligopolio che garantisce potere economico e dunque politico). Il 23 dicembre, a due giorni da Natale, di nuovo in sordina (come raramente accade) a Muggiano si è svolta la cerimonia di consegna da Fincantieri alla Marina militare egiziana. Lo ha rivelato Rete Disarmo, con a corredo due foto dove sono ben visibili le bandiere egiziane e alti ufficiali che fanno il saluto militare. “Il tentativo di tenere nascosta la consegna e la successiva partenza alla volta dell’Egitto durante il periodo natalizio - scrive Rete Disarmo - manifesta chiaramente l’imbarazzo da parte del governo italiano: non solo nessun rappresentante dell’esecutivo ha partecipato alla cerimonia, ma non ci risulta alcun comunicato ufficiale da parte dei vari ministeri in qualche modo coinvolti”. La Al-Galala è partita il giorno di Natale, secondo Agenzia Nova arriverà lungo le coste egiziane il 31 dicembre. Seguirà il resto del pacchetto già autorizzato dall’Italia, tra i 9 e gli 11 miliardi di euro (record) per 20 pattugliatori, 24 caccia Eurofighter e 20 aerei addestratori M346. Intanto continuano ad arrivare munizioni: secondo Giorgio Beretta, analista di Opal, dalla provincia di Cagliari a giugno sono stati esportati 8.121.300 euro di munizionamento pesante all’Egitto. Lo dicono i dati Istat, nella neonata categoria “Altri prodotti in metallo”. Ma con simili numeri, spiega Beretta, quel metallo serve a camuffare armi prodotte dalla Rwm Italia di Domunsnovas (la stessa che parla di crisi aziendale, come spiegavamo lo scorso 15 novembre su queste colonne). E mentre Al-Galala lasciava le acque italiane, a Tora - la famigerata prigione del Cairo per i detenuti politici - lo studente Patrick Zaki vedeva la famiglia. Il 28 dicembre ha consegnato loro un biglietto scritto in italiano: “Buon natale a tutti i miei colleghi e sostenitori. Fate sapere che sono qui perché sono un difensore dei diritti umani”. Durante l’incontro il giovane ha detto ai genitori - riporta la pagina Facebook “Patrick Libero” - di essere certo che questa detenzione altro non sia che una punizione per il suo lavoro. Cina. Quando il nemico è la libertà d’informazione che racconta il Covid-19 di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 dicembre 2020 Non sapremo mai se, qualora il coronavirus si fosse sviluppato in uno stato custode e non nemico della libertà d’informazione, avremmo potuto difenderci prima e meglio. Ma è lecito pensare che se in Cina le denunce avessero potuto circolare senza censure né rappresaglie, la stessa popolazione locale, e poi quella mondiale, avrebbero potuto essere avvisate e curate più tempestivamente. In decine di stati, nel 2020, è sembrato che oltre alla pandemia da Covid-19, ci fosse un’altra emergenza da affrontare: la libertà d’informazione, appunto. Il 28 dicembre Zhang Zhan, un passato remoto da avvocata e un passato più recente da blogger interrotto dall’arresto a maggio, è stata condannata a quattro anni di carcere da un tribunale di Shanghai in quanto colpevole di aver provocato contenziosi e problemi. Zhang Zhan, 37 anni, aveva provato a raccontare dall’epicentro del virus, Wuhan, cosa stava accadendo e cosa si celava dietro la cosiddetta “polmonite misteriosa”, quella che ti riduce i polmoni a suole consumate di scarpe. Secondo il tribunale di Shanghai, le migliaia di persone che seguivano le sue dirette su WeChat e YouTube e i suoi post su Twitter, avevano ricevuto “informazioni false”. E sempre secondo quel tribunale, Zhang Zhan nelle interviste ai media stranieri aveva avanzato “ipotesi maligne”. Ad esempio, raccontando che altri operatori indipendenti dell’informazione erano stati arrestati e che molti parenti delle vittime del coronavirus a Wuhan chiedevano giustizia.