Per un carcere più umano di Massimo Donini* e Giovanni Fiandaca** questionegiustizia.it, 2 dicembre 2020 Un appello di studiosi di diritto e procedura penale per una rinnovata attenzione al carcere. Come studiosi e docenti universitari di discipline penalistiche, aderiamo in ideale staffetta allo sciopero della fame di Rita Bernardini, Irene Testa, Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano e di oltre 500 detenuti, quale forma di mobilitazione per chiedere al governo e alle autorità competenti di adottare provvedimenti idonei a ridurre il più possibile il sovraffollamento delle carceri italiane, così da prevenire il rischio di un’ulteriore diffusione del contagio da Coronavirus al loro interno. Questa emergenza sanitaria, nel fare riaffiorare in maniera più amplificata la condizione molto problematica in cui non da ora versa il sistema penitenziario italiano, sotto il profilo delle condizioni di vita intramurarie, del livello di rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e di una effettiva idoneità della pena a conseguire l’obiettivo costituzionale della rieducazione e del reinserimento sociale, può rappresentare un’importante occasione per riaccendere le luci sul pianeta-carcere e sollecitare il potere politico a riprendere il cammino delle riforme necessarie per ridare vitalità e concretezza ai principi enunciati nel terzo comma dell’art. 27 della Costituzione. Sottoscrivono: 1. Amati Enrico (Università di Udine) 2. Ambrosetti Enrico Maria (Università di Padova) 3. Andolina Elena (Università di Catanzaro) 4. Barnao Charlie (Università di Catanzaro) 5. Belfiore Elio (Università di Foggia) 6. Belluta Hervè (Università di Brescia) 7. Biral Marianna (Università di Bologna) 8. Bonini Valentina (Università di Pisa) 9. Bresciani Luca (Università di Pisa) 10.Bronzo Pasquale (Università La Sapienza- Roma) 11.Buzzelli Silvia (Università Bicocca - Milano) 12.Caianello Michele (Università di Bologna) 13.Canestrari Stefano (Università di Bologna) 14.Capone Arturo (Università Mediterranea - Reggio Calabria) 15.Caraceni Lina (Università di Macerata) 16.Carnevale Stefania (Università di Ferrara) 17.Cassibba Fabio (Università di Parma) 18.Catalano Elena Maria (Università dell’Insubria - Como) 19.Catenacci Mauro (Università di Roma Tre) 20.Caterini Mario (Università della Calabria) 21.Cavaliere Antonio (Università Federico II - Napoli) 22.Chelo Andrea (Università e-Campus) 23.Chinnici Daniela (Università di Palermo) 24.Ciavola Agata (Università Kore - Enna) 25.Citrigno Annamaria (Università di Messina) 26.Colamussi Marilena (Università di Bari) 27.Consoli Teresa (Università di Catania) 28.Cortesi Maria Francesca (Università di Cagliari) 29.Coppetta Maria Grazia (Università di Urbino) 30.Cotti Giacomo (Università di Bologna) 31.Curtotti Donatella (Università di Foggia) 32.Daniele Marcello (Università di Padova) 33.De Simone Giulio (Università del Salento) 34.Deganello Mario (Università di Torino) 35.Della Casa Franco (Università di Genova) 36.Delvecchio Francesca (Università di Foggia) 37.Di Bitonto Maria Lucia (Università di Camerino) 38.Di Giovine Ombretta (Università di Foggia) 39.Diamanti Francesco (Università di Modena e Reggio Emilia) 40.Diddi Alessandro (Università della Calabria) 41.Eusebi Luciano (Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano) 42.Ferrua Paolo (Università di Torino) 43.Filippi Leonardo (Università di Cagliari) 44.Fiore Carlo (Università Federico II- Napoli) 45.Fiore Stefano (Università del Molise) 46.Fiorio Carlo (Università di Perugia) 47.Flora Giovanni (Università di Firenze) 48.Foffani Luigi (Università di Modena e Reggio Emilia) 49.Fronza Emanuela (Università di Bologna) 50.Gabrielli Chiara (Università di Urbino) 51.Galiani Tullio (Università di Camerino) 52.Giacona Ignazio (Università di Palermo) 53.Gialuz Mitja (Università di Genova) 54.Giunchedi Filippo (Università Niccolò Cusano - Roma) 55.Giunta Fausto Biagio (Università di Firenze) 56.Guerini Tommaso (Università di Bologna) 57.Kalb Luigi (Università di Salerno) 58.Insolera Gaetano (Università di Bologna) 59.La Regina Katia (Università di Benevento) 60.Lasagni Giulia (Università di Bologna) 61.Lo Monte Elio (Università di Salerno) 62.Ludovici Luigi (Università degli Studi Guglielmo Marconi) 63.Maffeo Vania (Università Federico II- Napoli) 64.Maggio Paola (Università di Palermo) 65.Manna Adelmo (Università di Foggia) 66.Mantovani Giulia (Università di Torino) 67.Marzaduri Enrico (Università di Pisa) 68.Masucci Massimiliano (Università di Roma Tre) 69.Maugeri Anna Maria (Università di Catania) 70.Mazzucato Claudia (Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano) 71.Melchionda Alessandro (Università di Trento) 72.Menghini Antonia (Università di Trento) 73.Merlo Andrea (Università di Palermo) 74.Moccia Sergio (Università Federico II - Napoli) 75.Monaco Lucio (Università di Urbino) 76.Mongillo Vincenzo (Unitelma Sapienza- Roma) 77.Montagna Mariangela (Università di Perugia) 78.Morelli Francesco (Università di Ferrara) 79.Nappi Antonio (Università Federico II - Napoli) 80.Orlandi Renzo (Università di Bologna) 81.Pansini Carla (Università Parthenope - Napoli) 82.Paonessa Caterina (Università di Firenze) 83.Patanè Vania (Università di Catania) 84.Pecorella Claudia (Università Bicocca - Milano) 85.Petrini Davide (Università di Torino) 86.Pisani Nicola (Università di Teramo) 87.Procaccino Angela (Università di Foggia) 88.Quattrocolo Serena (Università del Piemonte Orientale) 89.Ranaldi Gianrico (Università di Cassino) 90.Renon Paolo (Università di Pavia) 91.Renzetti Silvia (Università di Bologna) 92.Riondato Silvio (Università di Padova) 93.Risicato Lucia (Università di Messina) 94.Romano Bartolomeo (Università di Palermo) 95.Ruggeri Stefano (Università di Messina) 96.Ruggieri Francesca (Università dell’Insubria - Como) 97.Sanna Alessandra (Università di Firenze) 98.Scaccianoce Caterina (Università di Palermo) 99.Scalfati Adolfo (Università Tor Vergata- Roma) 100. Scella Andrea (Università degli Studi di Udine) 101. Schiaffo Francesco (Università di Salerno) 102. Sicurella Rosaria (Università di Catania) 103. Siracusano Fabrizio (Università di Catania) 104. Spagnolo Paola (Università Lumsa - Roma) 105. Spangher Giorgio (Unitelma Sapienza - Roma) 106. Tassi Andrea (Università di Macerata) 107. Tesauro Alessandro (Università di Palermo) 108. Tonini Paolo (Università di Firenze) 109. Torre Valeria (Università di Foggia) 110. Ubertis Giulio (Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano) 111. Valentini Elena (Università di Bologna) 112. Vallini Antonio (Università di Pisa) 113. Varraso Gianluca (Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano) 114. Vicoli Daniele (Università di Bologna) 115. Visconti Costantino (Università di Palermo) 116. Voena Giovanni Paolo (Università di Torino) 117. Zacché Francesco (Università Bicocca - Milano) *Massimo Donini, ordinario di diritto penale nell’Università di Modena e Reggio Emilia **Giovanni Fiandaca, ordinario di diritto penale presso l’Università di Palermo Sciopero della fame, continuano le adesioni all’iniziativa radicale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 dicembre 2020 “Come studiosi e docenti universitari di discipline penalistiche, aderiamo in ideale staffetta allo sciopero della fame di Rita Bernardini, Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano e di oltre 500 detenuti, quale forma di mobilitazione per chiedere al governo e alle autorità competenti di adottare provvedimenti idonei a ridurre il più possibile il sovraffollamento delle carceri italiane, così da prevenire il rischio di un’ ulteriore diffusione del contagio da Coronavirus al loro interno”. È l’appello lanciato al governo firmato anche da otto professori palermitani, tra cui Giovanni Fiandaca, noto giurista nato a Palermo 73 anni fa, studioso di diritto penale e del fenomeno mafioso. Secondo i giuristi firmatari dell’appello, questa emergenza sanitaria, nel fare riaffiorare in maniera più amplificata la condizione molto problematica in cui non da ora versa il sistema penitenziario italiano, sotto il profilo delle condizioni di vita intramurarie, del livello di rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e di una effettiva idoneità della pena a conseguire l’obiettivo costituzionale della rieducazione e del reinserimento sociale, “può rappresentare - osservano i docenti - un’importante occasione per riaccendere le luci sul pianeta-carcere e sollecitare il potere politico a riprendere il cammino delle riforme necessarie per ridare vitalità e concretezza ai principi enunciati nel terzo comma dell’art. 27 della Costituzione”. I numeri del contagio nelle carceri, infatti, sono in continuo aumento. Secondo l’ultimo report del Dap, siamo arrivati a un totale di 949 detenuti e 989 agenti infettati dal Covid. A parte il caso del carcere di Tolmezzo con il primato nazionale di 153 detenuti contagiati, sono divampati altri importanti focolai come i 52 detenuti positivi di Sulmona. Sono in tutto 34 i detenuti delle patrie galere ricoverati negli ospedali, tra i quali alcuni finiti in terapia intensiva. Siamo giunti nel frattempo a cinque detenuti morti per Covid, tutti con patologie pregresse. In tutto questo c’è Rita Bernardini del Partito Radicale giunta al 22esimo sciopero della fame. La sua vita è messa a dura prova e ancora non giunge alcun segnale dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Rifondazione Comunista: aderiamo allo sciopero indetto dal Partito Radicale per l’amnistia rifondazione.it, 2 dicembre 2020 Aderiamo convintamente allo sciopero della fame indetto dal Partito Radicale - così dichiarano Giovanni Russo Spena e Gianluca Schiavon rispettivamente responsabili Democrazia istituzioni e Giustizia del Prc/Se - per la liberazione delle detenute e dei detenuti in tutti i penitenziari per la pandemia in corso. Abbiamo denunciato con tante e tanti la situazione di illegalità nelle carceri italiane. Illegalità dovuta, in primis, al sovraffollamento e all’impossibilità di controllo effettivo della salute di lavoratori e detenuti. Si tratta di un vero e proprio abominio non solo perché il Ministro della Giustizia e le altre istituzioni ancora una volta disattendono il dettato dell’art. 27 della Costituzione nella parte in cui prevede la funzione emendativa della pena, ma perché ancora una volta ribadiscono inerti l’inevitabilità del fatto che il Covid colpisca le parti più svantaggiate della società. Oggi sono necessari provvedimenti d’urgenza, ma già domani va ripensata l’esecuzione penale nell’ambito di un’ampia depenalizzazione di fatti che oggi costituiscono reato. Ci associamo, quindi, all’appello di Rita Bernardini e Irene Testa sperando che siano ascoltate anche nella redazione di provvedimenti legislativi. Se in carcere la pena diventa una tortura di Gino Rigoldi* Corriere della Sera, 2 dicembre 2020 Mi sento anch’io solidale con Rita Bernardini per lo sciopero della fame che sta facendo per protestare contro la condizione di troppe carceri italiane, dove il sovraffollamento rende impossibile una vita accettabile. Se in una stanza di due letti stanno quattro o più detenuti, e ci stanno per 23 ore al giorno, non si può più parlare di espiazione della pena, si deve chiamare tortura. Incontrare un ragazzo conosciuto sano e forte e vederlo, dopo qualche mese in un carcere per adulti, dimagrito di una decina di chili e colmo di disperazione, è una grande pena che esige un cambiamento secondo me possibile. Occorre dire e far diventare concreto il termine “recidiva”: ci sono carceri italiane dove la recidiva si aggira intorno al 20%, altre, anche nella stessa regione, dove la recidiva si aggira intorno all’80%. Si dovrebbe partire da una prima condizione apparentemente ovvia: un direttore o direttrice in ogni istituto penale, un comandante della polizia penitenziaria in ogni istituto. Nella realtà diversi direttori hanno una sede principale e fanno i “direttori” di altri istituti, dove spesso capita che ci vadano solo per firmare le carte. E in questi carceri dove c’è un direttore “di passaggio” chi comanda? Nella quotidianità comanda chi c’è, comunque sia. Lo stesso ragionamento vale per la polizia penitenziaria. Va da sé che dove non c’è il direttore o il comandante titolare, è facile che si creino paludi di inerzia e sovraffollamento. Una seconda condizione necessaria è la presenza di educatori nella misura di almeno uno ogni 50 detenuti. L’educatore o l’educatrice è la figura che ha rapporti tra il detenuto, la famiglia, la direzione dell’istituto, gli avvocati, i servizi sociali. Se gli educatori non ci sono o sono troppo pochi, come quasi sempre succede, il detenuto è abbandonato e i più svantaggiati rimangono, di fatto, senza più diritti. L’educatore è quella figura che insieme con la direzione, i servizi sociali, la scuola o la formazione professionale costruisce il progetto per il dopo carcere. Credo manchino all’appello, per rispettare il minimo rapporto di l a 50, diverse centinaia di educatori. Io trasformerei la sacrosanta protesta per il sovraffollamento in una richiesta di personale e di responsabilità, così che ogni istituto possa avvicinarsi se non al 20% della recidiva almeno a numeri sempre più vicini. Che sia possibile è dimostrato da almeno una decina, forse qualche decina di carceri, dove c’è un impegno per il reinserimento nella società con la cura per l’alloggio, il lavoro, la formazione professionale. In questi istituti si fa una detenzione in qualche modo produttiva, si fa sicurezza perché la gran parte non delinque più, si fa economia perché non si aggiungono numeri a numeri e quindi meno pericolo di sovraffollamento e delle spese relative. In altre tipologie di carceri si fa una “gestione dura” o semplicemente di custodia immobile, perciò sterile per le persone e diseconomica per lo Stato. *Cappellano dell’Ipm “Beccaria” di Milano E-mail aperta a Rita Bernardini in sciopero della fame di Beppe Battaglia Ristretti Orizzonti, 2 dicembre 2020 Cara Rita, un amico torinese, ieri sera mi ha chiamato per dirmi una cosa...importante: a nome suo e di sua moglie ha chiesto a me e Laura se eravamo disposti a partecipare insieme, in modo simbolico, alla carovana di digiunatori a staffetta che ti accompagnano da venti giorni. La proposta mi ha messo in crisi perché tanti anni fa (quando abitavo il carcere) ho fatto con altri miei compagni uno sciopero della fame tosto. Si beveva solo acqua e andò avanti per un mesetto. Finimmo in ospedale e alla fine vincemmo anche la causa: l’abolizione dei “braccetti della morte”. Quel mesetto per me fu una esperienza tragica anche se ne uscimmo vincenti! Tragica perché... vedevo il mio corpo mangiare sé stesso e soprattutto dal primo all’ultimo giorno una fame atroce assediava la mia mente, il cuore e tutti i sensi. Il bersaglio però era più forte della fame e arrivai in fondo...affamato ma soddisfatto. In quei giorni giurai a me stesso che mai più avrei fatto uno sciopero della fame. Ora, però, non si tratta di uno sciopero della fame tosto e ad oltranza come allora. Anche il bersaglio è, come allora, importantissimo: stare con chi guarda in faccia e da vicino la morte. Parlo della diffusione del Covid 19 nelle celle, che silenziosamente ogni giorno fa aumentare il numero dei contagiati, dei ricoverati, dei morti. Sebbene io non mi fidi delle fonti dei dati (i sindacati della polizia penitenziaria e il Dap), già quelli sono allarmanti! Io conosco il carcere e so bene come viene vissuta la pandemia nelle celle di tutte le carceri e quanto si tratti di un pericolo di vita collettivo in atto! Aggiungici che leggo tutti i giorni le teorie provocatorie dei tuttologi alla Travaglio, o le non risposte del ministro della giustizia e del Dap, pur sapendoti in buona compagnia, ho deciso di sciogliere il mio vecchio giuramento e accompagnarti fisicamente per qualche giorno su questo sentiero, insieme a Laura, Joli e Luciano (gli ultimi due sono i nostri amici torinesi), sperando che il bersaglio da te proposto possa in qualche misura essere raggiunto. Un abbraccio virtuale, solidale, caldo, speciale, per te e tutta la carovana che ti accompagna e alla quale ci associamo. Joli Ghibaudi Luciano Battocchio Laura Calvanelli Beppe Battaglia Indulto e amnistia: se non ora quando? di Federica Graziani Il Riformista, 2 dicembre 2020 Con Luigi Manconi, anche lo scrittore Sandro Veronesi ha aderito allo sciopero della fame intrapreso da Rita Bernardini per sollevare la questione del sovraffollamento nelle carceri. “Abbiamo deciso - racconta al Riformista - di cercare di dare supporto a un’azione piuttosto decisa, che però fatica a trovare visibilità. Le carceri sono in una situazione di emergenza. Serve un atto di clemenza oppure applicare una serie di tecnicismi che svuotino le carceri. Subito”. Il carcere è il luogo più affollato d’Italia e una cella di prigione può essere lo spazio più congestionato e patogeno dell’intero sistema penitenziario: per chiunque vi si trovi, detenuto o membro del personale amministrativo e di polizia. Il contagio all’interno degli istituti di pena riproduce in maniera gravemente accentuata la crescita del Covid-19 registrata nell’intera popolazione: 874 i contagiati tra i detenuti e 1042 tra gli operatori. Da martedì 10 novembre la presidente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, ha avviato un’azione non violenta per denunciare quanto poco il governo stia facendo al fine di ridurre in maniera significativa la popolazione detenuta. Perché innanzitutto hai deciso di aderire a quest’azione, quali sono le tue motivazioni? Per cercare di dare supporto a un’azione piuttosto decisa, appunto quella di Rita Bernardini, che però fatica a trovare visibilità. Ho cercato allora, insieme a Luigi Manconi e ad altri, di dargliene un poco di più unendoci abbastanza simbolicamente perché i miei due giorni di digiuno non sono certamente un sacrificio come quello che sta affrontando lei. Peraltro, c’è stata un poco di visibilità ma anche quella non è ancora servita allo scopo perché quell’aspetto, strettamente legato alla pandemia, del sovraffollamento della popolazione carceraria continua a non essere affrontato dal governo e si rischia in breve tempo, se non ci si è già, di entrare in emergenza. Il carcere infatti non è un luogo come un altro, innanzitutto perché non vi si può praticare il distanziamento e, più in generale, perché non vi si può controllare nemmeno quel poco che si può controllare al di fuori. Siccome non ci sono altre armi, l’unica è quella di ridurre la popolazione carceraria, cioè di fronteggiare una volta per tutte il problema del sovraffollamento. Sono passati 60 anni dal primo sciopero della fame di Marco Pannella - era il 1960, Pannella era corrispondente del “Giorno” a Parigi e seguì un vecchio anarchico, Louis Lecoin, che protestava contro la guerra d’Algeria - l’uomo politico italiano che più fece di sé e del suo corpo il suo stesso programma politico e grazie a cui ancora oggi ci sono radicali che continuano a entrare nelle carceri nella santa convinzione che il progresso di un popolo si misura dalle sue prigioni. Che senso ha oggi, che i corpi a furia di oversharing sui social di pose e selfie sembrano aver perso qualsiasi intimità e insieme qualsiasi incidenza nell’azione politica - e la pandemia ci s’è aggiunta a corredo imprevedibile eppure calzante, un’azione politica come lo sciopero della fame? Io credo che non abbia importanza quanto cambiamento ci sia stato. L’azione è sempre la stessa e mette in diretto contatto il corpo di chi manifesta con i corpi delle persone per cui si manifesta perché c’è sempre di mezzo una moltitudine o alle volte una persona sola il cui corpo è in pericolo. Queste non sono forme, diciamo così, di lotta che si fanno per qualsiasi motivazione. Per altre ragioni, ci sono altre forme di lotta, i referendum ad esempio. Quando però c’è di mezzo il corpo, con il corpo si va a sollecitare un intervento e credo che, quali che siano i cambiamenti intervenuti nella nostra società e tanto più ora che ci troviamo in una situazione eccezionale, l’atteggiamento non deve cambiare, soprattutto per chi come la Bernardini ha preso sulle proprie spalle l’eredità di Marco Pannella. La solidarietà e quel poco di aiuto che cerchiamo di dare noi non hanno niente a che fare con quello che fa lei, però quello che fa lei mantiene secondo me una sua forza ed efficacia purché la gente lo sappia. Il problema è tutto qui. E quindi cerchiamo di far sapere al più largo numero di persone possibile quello che sta succedendo in modo che il governo sia costretto a rispondere. Poi, risponderà come meglio crede, però i dati di fatto son quelli e insomma son numeri! C’è poco da discutere su quelli. Alla maggior parte degli italiani, afflitti ognuno dall’affanno suo, del carcere non importa niente o importa quel tanto necessario a elaborare la convinzione che chi sta in galera qualcosa avrà pur fatto e tanto basta a chiudere la faccenda. Perché a te sta a cuore il tema del carcere? Per quella ragione lì, che hai detto prima te. Perché è proprio da come vengono trattate le carceri e le persone dentro le carceri che si misura il vero grado di civiltà di un popolo e di un paese. Già quando non ci sono emergenze ugualmente certe situazioni nelle carceri sono al limite della sopportabilità, ma quando c’è un’emergenza come questa! E poi - oh, attenzione! - è vero che nelle carceri ci sono i detenuti, ma nelle carceri ci sono pure le guardie e gli operatori. Vedi come quel discorso lì un po’ revanscista del “se lo meritano” cade immediatamente: guardie e operatori di sicuro non se lo meritano. Sono lavoratori, tra l’altro impegnati giorno dopo giorno per conto di tutti noi, e sono esposti al contagio perché il carcere è di per sé un luogo patogeno, più di qualsiasi altro. Quindi la questione non riguarda soltanto i detenuti, eppure non ci si pensa mai. Si potrebbe avere un parente detenuto, ma anche un parente poliziotto penitenziario e allora, forse, si capirebbe molto di più. Poi ci sono una serie di altre cose che non vengono tenute nel giusto conto. Mentre si sconta una pena e si vive in comunità dentro una cella - possibilmente non in sette, non in quattro, non in tre in pochi metri quadrati - si dividono tante cose. Per esempio, i pacchi alimentari, che poi ognuno mette a disposizione anche dei compagni di cella. Adesso non si ricevono più i pacchi alimentari, non ci sono più le visite con la frequenza che è prevista dalla legge, cioè l’afflizione della condizione detentiva, grazie alle misure anti-Covid, è aumentata. Però, per contro, non vi è nessuna misura a protezione della salute e questo mi sembra che sia un altro argomento abbastanza esplicito. Bisogna riconoscere che certe condizioni sono di per sé patogene e che la questione è cruda e semplice: sono troppe le persone dentro a una cella e quindi la trasmissione di un eventuale virus diventa automatica e inarrestabile. E quali parole opporresti, invece, a chi pensa che viviamo in un’epoca di feticismo della fragilità, per cui il manipolo di chi denuncia le violazioni dei diritti fondamentali è in fondo un’orda di anime belle che per una sorta di voyeurismo del dolore insiste nell’impresa di avvicinarsi a situazioni, come il carcere, al limite dell’esperienza umana per trarne qualche sorta di soddisfazione da virtù compiuta? Ti dico la verità, le obiezioni le conosco tutte però non mi sembra nemmeno il caso di mettersi a obiettare alle obiezioni. È chiaro che una persona che dice quel tipo di cose non viene convinta con degli argomenti. Attenzione: gli argomenti ci sono e sono convincenti a me m’hanno convinto quando li ho guardati, io mica son nato così, certe convinzioni le ho maturate perché ho voluto guardare ad alcuni temi. Se però si parte prevenuti, qualunque di quei pur buoni argomenti non varrà nulla, quindi non sto a perder tempo a rispondere sempre alle stesse obiezioni. Si è risposto una volta per tutte, se non lo si vuol sentire non lo sentirà. Il fatto è che comunque l’urgenza rimane. Anche se ci sono i fustigatori delle anime belle, dentro alle carceri italiane il contagio si sta propagando con un indice preoccupante. E proprio perché è un luogo nel quale di manovre se ne possono far poche - proprio come nelle Rsa, dove non è che gli ospiti sono reclusi, ma insomma, quasi… - bisogna moltiplicare l’attenzione dovuta. Attenzione che finora non si è avuta e infatti il virus è entrato proprio lì, mietendo centinaia di vittime. Un’altra cosa. Il fatto che la scorsa primavera ci siano state le uniche rivolte carcerarie degli ultimi 15 anni, anche diffuse, è testimonianza del fatto che il governo ha pensato più o meno a tutti tranne che ai detenuti, alle guardie e agli operatori. Ma gli strumenti ci sono! Io capisco la portata politica dell’indulto e dell’amnistia e, benché mi sembrerebbe proprio la situazione perfetta per adottare tali misure - d’altro canto un’amnistia nel 90 è stata fatta e così l’indulto nel 2006, e non c’era una pandemia in corso - capisco che un governo così fragile e così eterogeneo non trovi l’accordo per simili azioni. Eppure ci sono dei tecnicismi che permetterebbero comunque di alleggerire la promiscuità dei corpi, ad esempio mandando a casa persone che sono a fine pena. Insomma, ci sono delle misure efficaci per affrontare l’emergenza e anche di questo parla la Bernardini, della vasta gamma di possibilità presenti per tutelare quella popolazione. L’unica possibilità che non si può adottare è quella di lasciare che si ammalino o che muoiano, perché oltretutto lo si sta decidendo anche per gli operatori penitenziari e uno Stato non può permettersi di fare questo ai propri servitori. È urgente mettere le istituzioni nelle condizioni di non poter evadere la richiesta di affrontare l’emergenza. Hai parlato tu stesso delle misure di indulto e amnistia. Ti faccio allora una domanda un poco metafisica: cosa rimane di una giustizia che non contempla la clemenza? E cos’è, secondo te, o cosa dovrebbe essere una giustizia giusta? Qui si va su un territorio che forse interesserà poche persone perché è un territorio ricco di simboli e di rimandi anche filosofici. Di sicuro, la clemenza è contemplata dalle nostre carte, dalla nostra Costituzione. Non sono certo io il primo né è la prima volta che dei cittadini chiedono al proprio governo l’applicazione di un atteggiamento clemente. La clemenza in questo caso, per esempio, sarebbe a tutela della salute, non fine a se stessa. E in ogni caso la clemenza, anche quando è fine a se stessa cioè è quella clemenza che si esercita nei confronti degli esseri umani perché sono tali, alle volte è l’unica vera risposta che si può dare a determinate situazioni. Una su tutte: la sofferenza dovuta alla detenzione. La grazia del Presidente della Repubblica cos’altro è se non un atto di clemenza che si applica in determinati casi che il Presidente della Repubblica stesso e il Ministro della Giustizia hanno chiarito essere meritevoli di questo intervento? Io credo che se ci si mette nei panni altrui, si può capire agevolmente cosa è giusto e cosa non è giusto. E credo che l’idea che i detenuti siano delle belve pronte a colpire di nuovo, pronte a sbranare di nuovo, sia profondamente sbagliata. La maggior parte della popolazione reclusa è composta di persone che, all’uscita dal carcere, non delinquerebbero di nuovo, ma proverebbero a condurre una vita onesta. Ecco perché la clemenza ha una portata evolutiva e non è meramente il piacere di sentirsi buoni. Se ci sono delle possibilità di recupero delle persone, non provare nemmeno a metterle in pratica è una perdita secca per tutti. Non soltanto per chi rimane dentro. La pena carceraria identifica senza residui il reo con il crimine che ha commesso, sequestrandolo per intero e riducendone la vita a quell’unica azione. Eppure la sproporzione tra il delitto, che riguarda sempre e solo una frazione della persona, e la pena che invece chiude in cella in un impeto di coercizione illimitata… (…Veronesi accalorato interrompe, ndr) Ma non solo! Si dice che uno sconta una pena per pagare una colpa. Ma quando l’ha scontata, non l’ha affatto pagata la colpa perché gli rimane incollata addosso, timbrata addosso! Se hai pagato, torni pulito, no? Dovrebbe essere così. E invece no! Perché il pregiudizio, che ignora ogni supporto statistico e ogni aderenza ai dati, conduce a pensare che se uno ha rubato è un ladro per sempre, se uno ha commesso violenza è assassino per sempre. E io posso capirlo, dal lato della coscienza di chi ha subito il danno, ma lo Stato è terzo, la legge è terza! E, sinceramente, se fossi un detenuto che paga quel che deve pagare, sconta per intero la sua pena e poi esce e continua a essere considerato non una persona ma un ladro nonostante abbia pagato, ecco mi sentirei veramente tagliato fuori dalla possibilità di rientrare nella società. Questa è la nozione che più manca, secondo me, e cioè che il carcere non potrà mai essere, qualsiasi sia il delitto commesso, risarcitivo nei confronti di chi subisce il reato. Ma deve essere, per quanto riguarda il colpevole, il prezzo che lo rende di nuovo una persona libera, integra e responsabile. Per quel che riguarda il rimorso, l’atteggiamento che la persona colpevole di un reato ha nei confronti di sé stessa, evidentemente cambierà di caso in caso e può darsi che alcune persone non si daranno mai pace, altre invece più superficialmente si perdoneranno troppo presto. Ma ripeto! - lo Stato è terzo ed è lo Stato a decide quanto uno deve pagare. Quando però il reo ha pagato, lo Stato dovrebbe riconoscerglielo e questo non è. Lo sappiamo. Sì, lo sappiamo. L’ultima domanda la faccio allo scrittore. Da “Centuria” di Manganelli a “Il deserto dei Tartari” di Buzzati, all’ “L’università di Rebibbia” di Goliarda Sapienza, sono decine gli scrittori che hanno dedicato pagine e pagine al carcere. Se la letteratura ha la capacità di resuscitare alla vista pubblica la sensazione delle vite altrui, cosa consiglieresti di leggere sul crimine, sulla sua punizione e sulle biografie di chi commette reato? Io ho cominciato a “vedere” i detenuti, anche se non avevo detenuti in famiglia o tra gli amici, da ragazzo. Avevo 18 o 19 anni e lessi Il vento va e poi ritorna di Vladimir Bukovskij. Un libro che dà conto di un gulag e di come, con l’intelligenza e la perseveranza, i detenuti riuscissero addirittura a mettere in scacco l’enorme apparato della burocrazia sovietica. Come? Mettendo in pratica una forma di lotta studiata dagli intellettuali. Perché il problema di mettere la gente intelligente in galera è che poi questi, appunto, sono intelligenti. Quindi, tornando al libro, ciascuno di quei detenuti comincia a scrivere quindici lettere di reclamo al giorno, il massimo consentito, per qualsiasi anche minima cosa all’istituzione e per legge i burocrati devono rispondere a ognuna delle lettere di quei duemila detenuti. Capisci? Loro non avevano null’altro da fare tutto il giorno che scrivere queste lettere e gli uomini della burocrazia non riuscivano a evadere una simile mole di corrispondenza. Sfruttando quindi lo stesso meccanismo interno della burocrazia, quegli uomini riuscirono a mettere in ginocchio una delle istituzioni più tremende della storia dell’umanità, quella che governava i gulag sovietici. Quella è stata la prima cosa che ho letto intorno al carcere e mi ricordo che mi colpì il fatto che quei detenuti volessero ascolto per riuscire a eliminare il più possibile la disumanità presente nei gulag. E riuscirono nel loro intento! Può non sembrare un grande risultato, in fondo quegli uomini rinchiusi per le loro opinioni non è che riconquistarono la libertà, però l’idea che l’intelligenza stesse dentro e non fuori dalla cella mi fece pensare. Per esempio, capii che quello non era l’unico posto di coercizione dove questo succedeva e che l’importante era che gli Stati e i popoli non scivolassero nella condizione in cui l’intelligenza è rinchiusa e fuori c’è l’ottusità. Noi non siamo a questo livello, ma bisogna vigilare altrimenti l’inerzia delle istituzioni, se protratta, potrebbe portarci proprio lì. Per un nuovo sistema penitenziario, non per nuovi penitenziari di Associazione Antigone MicroMega, 2 dicembre 2020 Le proposte dell’associazione Antigone per un uso razionale e costituzionalmente orientato del Recovery fund nel sistema penitenziario. Dal Recovery Fund dovrebbero arrivare all’Italia oltre 200 miliardi di euro. Una parte andranno alla Giustizia e al sistema penitenziario. È un’occasione da non sprecare con la solita ricetta, ossia con piani di edilizia penitenziaria. Non è costruendo carceri che si innova un sistema che invece ha bisogno di modernizzazione, creatività e investimenti nel campo delle risorse umane. Il Recovery Fund deve essere l’occasione di una vera ripartenza, che può essere possibile solo in una società coesa e capace di farsi carico di tutti i suoi componenti, con politiche organiche di inclusione rivolte anche alle fasce più deboli. Una vera ripartenza presuppone un sistema del welfare rafforzato, capace di sottrarre alle politiche penali un’ampia fascia di coloro che oggi affollano le carceri italiane, innanzitutto rispetto alla gestione delle tossicodipendenze. Il Recovery Fund deve costituire inoltre un’occasione per orientarsi verso una differenziazione del sistema sanzionatorio. Ogni detenuto costa circa 130 euro al giorno. In confronto, le misure alternative costano meno di un decimo e hanno un ben più significativo impatto nella lotta alla recidiva e negli obiettivi di recupero sociale dei condannati. Dall’altro lato bisogna investire nella ristrutturazione delle carceri esistenti, coinvolgendo nella pianificazione la migliore intelligenza giuridica, accademica, architettonica, sociale che insieme ad esperti penitenziari diano vita ad equipe multidisciplinari che lavorino per raggiungere l’obiettivo di rimodernizzare le carceri, nel rispetto di quanto previsto dalle norme interne e internazionali, in termini di spazi, diritti e opportunità. È questo il momento per cablare gli istituti, per potenziare le infrastrutture tecnologiche, per prevedere ipotesi aggiuntive di didattica a distanza, per assicurare la formazione professionale anche da remoto, per consentire ancor più incontri con il mondo del volontariato, per aumentare le possibilità di video colloqui con familiari e persone care che si aggiungano ai colloqui visivi. La rimodernizzazione deve riguardare anche una diversa organizzazione e valorizzazione degli spazi di vita sociale interna ma anche delle stesse camere di pernottamento. Infine, bisogna investire sul capitale umano, senza il quale ogni obiettivo resta irraggiungibile. Usiamo i fondi del Recovery per un nuovo sistema penitenziario e non per nuovi penitenziari. 1. Più risorse per le misure alternative e per la giustizia di comunità - Nel 2021 il budget per il Dipartimento Giustizia minorile e di comunità, che ha in carico le misure alternative, è stato di 283,8 milioni. Al Dap sono stati assegnati 3,1 miliardi di euro. Usiamo il Recovery fund per invertire questo trend di spesa. Le misure alternative producono sicurezza: solo lo 0,5% di coloro che scontavano una misura alternativa ha commesso nuovi reati. Al contrario, il carcere aumenta il rischio di recidiva. Si usino i fondi per: case di accoglienza per detenuti in misura alternativa, per progetti educativi e sociali che riducano i rischi della devianza, trattamenti socioterapeutici esterni per chi ha problemi di dipendenza, case famiglia per detenute madri, accordi con le centrali della cooperazione sociale, dell’artigianato e del mondo dell’industria per facilitare inserimenti lavorativi di persone in esecuzione penale. 2. Più risorse per modernizzare e migliorare la vita interna - Si deve con decisione investire nelle dotazioni tecnologiche di ogni istituto. Vanno potenziate le infrastrutture, che oggi rendono difficoltosi i video collegamenti. Ogni carcere deve avere una potente wifi. Le aule delle scuole devono consentire collegamenti a distanza. Si doti ogni istituto di una efficiente ed efficace rete telefonica. Si investa negli spazi comuni delle carceri, nelle aule, nelle attrezzature sportive, nelle biblioteche, nei teatri, nelle officine. Li si renda fruibili al massimo delle loro potenzialità. Si creino sale musicali dove poter suonare. Si investa in campi e palestre. Lo sport è terapeutico. Si investa anche nelle farmacie interne e nell’attrezzatura di primo soccorso medico. Si rinnovino le lavanderie con macchine nuove e si faccia lo stesso con le falegnamerie, laddove presenti. Nella metà delle carceri vistate da Antigone nel 2019 c’erano celle senza doccia. Nel 44% degli istituti c’erano celle non riscaldate. In un carcere su tre i detenuti non avevano accesso a un campo sportivo o a una palestra. In un istituto su quattro non c’erano spazi per le lavorazioni. Nel 10% degli istituti visitati c’era addirittura il wc nella stessa stanza del letto. Le ristrutturazioni sono necessità non rinviabili. Si rifacciano le docce rovinate. Si dotino, in vista dell’estate, le celle o le sezioni di frigoriferi. 3. Più risorse da investire nel capitale umano - Gli educatori presenti sono il 13,5% in meno di quelli previsti (774 invece di 895). Nelle carceri visitate da Antigone c’era 1 educatore ogni 92 detenuti. Il trattamento economico a loro riservato è nettamente inferiore rispetto a quello degli agenti. In meno di 1 carcere su 10 tra quelle visitate da Antigone erano presenti mediatori linguistici e culturali. I funzionari amministrativi sono il 16,8% in meno di quelli previsti. Infine, in circa la metà degli istituti da noi visitati non c’era un direttore incaricato esclusivamente in quell’istituto. Ugualmente medici, infermieri, psicologi sono insufficienti, al pari degli assistenti sociali. Il Recovery Fund deve essere una grande occasione per far entrare le nuove generazioni nei lavori che hanno a che fare con il carcere, per adeguare le aspettative economiche del personale alla rilevanza dell’impegno professionale, per assicurare una piena e continua formazione a tutto lo staff penitenziario. Sovraffollamento e coronavirus nell’inutile attesa dei braccialetti elettronici promessi di Domenico Alessandro De Rossi* Il Dubbio, 2 dicembre 2020 Più che un giallo una farsa. In base a quanto riportato in una vasta inchiesta promossa da Il Dubbio, conclusasi in un approfondito articolo pubblicato il 18 marzo 2020 in cui si riportava l’interrogazione parlamentare a firma del deputato Roberto Giachetti, che chiedeva conto al governo se fosse “a conoscenza delle ragioni per le quali la procedura di collaudo risulti essere in così estremo ritardo. Ma soprattutto se sia in grado di fornire chiarimenti e indicazioni precise in merito alle modalità e ai tempi con cui i nuovi braccialetti elettronici saranno messi a disposizione, in modo da consentire l’esecuzione delle misure di detenzione domiciliare già disposte e quelle altresì previste con l’entrata in vigore del decreto”, è l’annosa storia italiana dei braccialetti elettronici. Infatti in base a quanto riportato nello stesso articolo si legge nell’interrogazione: “dalla relazione tecnica allegata al decreto “Cura Italia” emerge che al momento e fino al 15 maggio siano disponibili solo 2600 braccialetti, sebbene il contratto con Fastweb (che decorre dal 31 dicembre 2018) preveda la fornitura di 1000-1200 braccialetti mensili per un totale di 15 mila braccialetti che invece in teoria sarebbero dovuti essere già disponibili alla data odierna”. Questi i motivi per i quali il deputato Giachetti di Italia Viva chiese al governo, già molto tempo prima della pandemia da Covid 19, dei chiarimenti sulla procedura del collaudo dei “sicurity device”. Ad oggi siamo alle solite del nulla risolto. Dall’Archivio Notizie e comunicati stampa ancora dal lontano 13 aprile 2020 dell’Agenzia per lo Sviluppo Invitalia, apprendiamo che il Commissario Straordinario per l’emergenza Coronavirus, Domenico Arcuri avrebbe inteso affidare la fornitura di ben 4.700 braccialetti elettronici e il relativo servizio di sorveglianza a distanza a Fastweb Spa. Il meritevole obiettivo era quello di accelerare, all’epoca, misure certe per un deciso contrasto al pericolo della diffusione del virus nelle carceri e di poter contare entro fine maggio sull’efficiente utilizzazione degli apparecchi. A tal fine la nota dell’Agenzia precisava che “secondo quanto previsto dal Dl Cura Italia sulla facoltà per il Commissario di procedere anche all’acquisto di dispositivi finalizzati a contrastare l’emergenza Coronavirus e agevolare l’adozione dei protocolli sanitari nelle carceri italiane, è stata nel giorni scorsi avviata un’interlocuzione tra il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, il Commissario Straordinario, Domenico Arcuri e il ministero dell’Interno per garantire l’accelerazione delle istallazioni dei dispositivi destinati soprattutto alla detenzione domiciliare di quanti devono scontare una pena residua tra i 7 e i 18 mesi”. La meritoria idea sarebbe dovuta rientrare, secondo i piani dei diversi responsabili, quale tempestivo impedimento all’estensione del coronavirus. Non c’è che dire in proposito, se non rimarcare che l’ipotesi porta la data del 13 aprile con la pretesa di bloccare gli aspetti emergenziali altamente rischiosi del propagarsi del virus negli ambienti carcerari. Lodevole decisione quella che, se fosse stata portata a termine in termini ragionevoli già al tempo della interrogazione dell’onorevole Giachetti, e comunque prima dell’estate di quest’anno, avrebbe avuto il pregio di risolvere almeno talune criticità della realtà penitenziaria. In primo luogo alleggerendo con costi bassissimi - senza ricorrere ad onerosi interventi sugli edifici - il pesante carico di almeno cinquemila persone che si trovano sovra numero rispetto alla reale capacità di custodia degli istituti. In secondo luogo, avrebbe garantito finalmente una immediata protezione per la sicurezza sanitaria di chi è detenuto. Dando in tal modo un segnale non trascurabile di una seria presa in considerazione dei problemi che affliggono l’universo della detenzione. Non solo, ma questa decisione, se attuata nei tempi non della semplice “pronuncia” avrebbe consentito all’affacciarsi della seconda fase (prevedibile), una ripetizione della fornitura dei braccialetti riducendo ulteriormente le presenze in carcere dei detenuti. La diminuzione dell’indice di affollamento avrebbe altresì aumentato lo spazio a disposizione favorendo di fatto la distanza tra individui, con grande beneficio per chi è “ristretto” in ambienti obsoleti quali sono quelli delle carceri. Invece ci si è avvalsi dei soliti proclami e promesse, rinviando ad ulteriori tavoli tecnici la solita concertazione (salvo intese), volti solo ad apparire: mass media a servizio e molti trombettieri di regime al seguito. Questo, purtroppo, è il “sistema Italia”, metodo che osserviamo con grande preoccupazione e che dovrebbe portarci fuori dal cosiddetto tunnel. Il metodo che dovrebbe approntare la politica e i programmi strategici per la ripresa dell’Italia, alla attenzione della Ue con una visione “sistemica” di lunga gittata e di grande respiro per i prossimi trenta, quaranta anni. La gravità delle situazione nelle carceri italiane, che da tempo ormai ha assunto aspetti di ingestibile drammaticità, vedendo sommosse, suicidi e sofferenze di ogni genere tra detenuti e personale della Polizia penitenziaria, sembrerebbe non interessare più di tanto il ministro Bonafede, il quale a fronte della gravità della situazione dovrebbe compiere una verifica, se non è stata già fatta ma di cui non ci è giunta ancora notizia, sulla fornitura dei braccialetti elettronici per liberare gli spazi delle carceri da un cospicuo numero di detenuti. Purtroppo a tutt’oggi non si sono presentate da parte del ministero della Giustizia idee atte a contrastare in termini sistematici e strutturali il propagarsi del virus. Il numero dei detenuti in rapporto alle obsolete strutture carcerarie rappresenta un rischio altissimo ed irresponsabilmente rimosso: una vera e propria bomba di emergenza sanitaria, la quale nel momento stesso i cui dovesse “scoppiare” dilagando sul territorio, diverrebbe assolutamente ingestibile dato l’enorme numero di persone ristrette negli edifici. Le alternative ci sarebbero. Basterebbe far seguire i fatti alle enunciazioni di mera facciata. *Architetto e urbanista Le carceri smettano di essere atenei della criminalità di Roberto Saviano Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2020 In attesa di prigioni degne, va interrotta la spirale che fa sì che all’interno degli istituti penitenziari la disperazione generi affiliazione. Caro Marco, ho letto gli editoriali che hai scritto in questi giorni in risposta a quelli di Manconi, Veronesi e mio, che chiediamo al ministro Bonafede misure immediate per rendere le carceri luoghi sicuri (ora non lo sono) in tempo di pandemia. Sono contento che il nostro digiuno di dialogo, nel senso pannelliano del termine, sia stato da te immediatamente colto. Si parla di carcere in questi giorni anche grazie a te, e questa cosa, nel nostro Paese, accade troppo poco spesso. E allora questa opportunità di dialogo voglio coglierla fino in fondo, dunque accetto alcuni spunti critici e provo a tirarne fuori delle questioni sulle quali è per me importante avere la tua opinione. Tu scrivi di essere contro la nostra ricostruzione che vedrebbe il carcere come luogo di contagio, e a sostegno della tua tesi elenchi cifre e statistiche, ma quello che mi ha colpito del tuo editoriale è questo passaggio: “È vero: (le carceri) sono una tragedia nella tragedia, incivile e criminogena per la fatiscenza delle strutture, il sovraffollamento, la penuria di agenti ed educatori”. La tua soluzione è nuova edilizia carceraria, se ne parla da anni ma senza che vi siano fondi per poter dare seguito alla proposta, suppongo questo perché alle dichiarazioni non seguono mai azioni concrete. Dunque ti chiedo - dato che tu non sei il Pd, ovvero il partito che all’art. 1 del proprio Statuto ha questa regola: “Non decidere mai oggi, quando puoi dire che deciderai domani, tanto lo sai che non lo farai mai” - cosa ne facciamo, nel frattempo, di queste vite? Perché sono vite, persone, non statistiche o numeri, quelli che abitano i luoghi che tu hai definito “tragedie nelle tragedie”. E le persone recluse sono legate, fuori, ad altre persone, alle loro famiglie che riterranno quindi lo Stato inadeguato, inutile, incivile, quando non nocivo e deleterio. E questo accade in contesti geografici, economici e sociali in cui la presenza dello Stato dovrebbe avere tutt’altre caratteristiche. Hai da proporre una soluzione temporanea, prima che la costruzione delle nuove carceri (o l’incivilimento delle esistenti) abbia luogo? E ti chiedo anche: quanta responsabilità ha invocare e perseverare nella cultura della carcerizzazione, nel senso di limitazione delle pene alternative, quando ci troviamo palesemente al cospetto di un sistema “incivile e criminogeno”? Henry Woodcock, il 6 novembre, ha scritto sul tuo giornale un articolo importante, importante perché al centro del suo articolo c’era l’Uomo. L’Uomo condannato, l’Uomo recluso. Ti chiedo: possiamo permetterci di attendere i tempi dell’edilizia carceraria prossima futura, forse, chissà, mentre Uomini sono reclusi in veri e propri incubatoci criminali? Conosci la realtà delle carceri e conosci le regole che le dominano, conosci il welfare criminale che le condiziona; così come succede all’esterno, anche in carcere la disperazione genera affiliazione. E questo è un problema enorme, ineludibile e che ormai ha smesso di riguardare solo il Sud. Come vedi, la situazione è molto complessa e i numeri dicono poco. Soprattutto se a via Arenula siede un ministro la cui cifra politica è il silenzio. Sei tu che hai sentito la necessità di rispondere ai nostri editoriali, ma il ministro tace. Credi davvero che in un altro Paese un ministro sarebbe rimasto al suo posto dopo i 13 morti delle rivolte di marzo? Il fatto che sia rimasto al suo posto mi fa pensare che quelle Persone, delle quali a stento conosciamo i nomi, siano per il ministro solo degli animali o poco più. Possiamo accontentarci di tutto questo solo perché, magari, chi c’era a via Arenula prima o non era meglio o ci piaceva meno? Un’ultima questione riguarda il tuo proibizionismo. Vedi Marco, io credo sia evidente che le droghe siano proibite perché i proventi del narcotraffico sono l’enorme liquidità della quale la nostra economia (e non solo la nostra) ha necessità per sopravvivere allo stato di crisi permanente nella quale siamo calati da anni. Le cronache giudiziarie ci hanno spesso raccontato di aziende private che accantonavano fondi neri utilizzati poi per corrompere e alterare il mercato. Ecco Marco, credo che tu non abbia ben compreso che i proventi del narcotraffico sono i fondi neri della democrazia, e io che tutto questo lo studio e lo racconto da anni, non posso, in nome della lotta alle organizzazioni criminali, non pretendere a voce alta che le carceri smettano di essere, una volta per tutte, università del crimine (oggi un piccolo spacciatore in carcere può fare “carriera”, questo lo sappiamo, e non agendo, anzi temporeggiando e tacendo, lo permettiamo), per diventare luoghi in cui chi ha commesso un reato possa scontare la pena il cui scopo non è punire, ma recuperare l’individuo alla società. Grazie per aver accolto questo mio commento. I dati vi smentiscono di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 2 dicembre 2020 Caro Roberto, noto con piacere che la parola Covid è scomparsa dal tuo ragionamento. Però è proprio dal Covid che muoveva l’appello congiunto tuo, di Veronesi e di Manconi. Tu parlavi di una “strage” di detenuti “condannati a morte” dall’inerzia del governo e della necessità di liberarne diverse migliaia per salvarli dal rischio - a vostro dire molto superiore a quello corso da chi sta fuori - di contagio e di morte. I dati dimostrano che il vostro assunto di partenza è falso: in questi nove mesi, fuori dal carcere sono morte in Italia 56.356 persone su 60 milioni (quasi 1 su mille) e in carcere 5 su poco meno di 100 mila detenuti passati dai penitenziari (quasi 1 su 20mila). Quindi chi sta dentro ha 20 probabilità in meno di morire per Covid di chi sta fuori. Quanto ai contagi, il calcolo è più difficile: nelle carceri vengono sottoposti a tampone tutti quelli che entrano e tutti gli ospiti appena si scopre un positivo, con una copertura statistica quasi totale; fuori, la stragrande maggioranza degli italiani non ha mai fatto un tampone, dunque non si sa quanti siano i positivi (i dati riguardano solo chi fa il test). Ma, anche con questo squilibrio, i numeri dimostrano che in carcere si è molto più controllati e sicuri, quanto al Covid, che fuori. Ieri, su 53.720 detenuti, c’erano 949 positivi (1,76%) e 22 ricoverati (0,04%); fuori, 1,6 milioni di positivi ufficiali (2,66%), senza contare l’enorme sommerso, e 36.500 ricoverati (0,6%). Il dato dei positivi è imparagonabile, perché non tiene conto dei “clandestini”, ma resta comunque più basso in carcere che fuori. Quello dei ricoveri invece è paragonabile ed è 12 volte più basso per la popolazione carceraria che per quella esterna. Mi pare che basti per spazzare via digiuni contro la “strage” da Covid nelle carceri, campagne per amnistie, indulti e altre misure svuota-celle, accuse al governo di “condannare a morte” i detenuti. Infatti, caro Roberto, tu sposti il problema sull’edilizia carceraria, che tarda ad arrivare mentre le celle scoppiano e il ministro non fa nulla. Ora, che le strutture siano affollate e in parte fatiscenti, non c’è dubbio. Ma gli attuali 53mila detenuti su quasi 51mila posti cella regolamentari costituiscono il minor affollamento da molti anni: non proprio un’emergenza da affrontare con urgenza. I 61mila reclusi di marzo sono calati di 8mila un po’ per i giudici che han limitato (fin troppo) gli arresti, un po’ per la riduzione dell’attività giudiziaria, un po’ per le misure di Bonafede nei dl Cura Italia e Ristori: domiciliari per gli ultimi 18 mesi di pena, con braccialetto elettronico per i residui sopra i 6 mesi; licenze e permessi straordinari; mancati rientri serali dalla semilibertà (reati di mafia esclusi, anche se tu inspiegabilmente contesti quest’esclusione). Ovviamente, finita l’emergenza Covid, i detenuti risaliranno. E il perché lo sai bene, da grande esperto della realtà camorristica: la popolazione carceraria dipende anzitutto dall’alto numero di delinquenti, non da leggi liberticide o dal destino cinico e baro. Tu vorresti più “pene alternative” al carcere: ma ne beneficiano già 40mila detenuti. Oggi, per restare al fresco almeno qualche giorno, bisogna avere condanne o residui pena superiori ai 5 anni: hai idea di cosa devi fare in Italia per beccarti più di 5 anni definitivi? Parliamo di persone che stanno in carcere perché ci devono stare. Tu vuoi liberalizzare le droghe e mi accusi di “proibizionismo”. Ma io in linea di principio non lo sono affatto: penso però che occorrerebbe una politica comune di almeno tutta l’Europa, sennò l’Italia diventerebbe il paradiso dei tossici. Nell’attesa, molto meglio aprire nuovi padiglioni, come quelli aperti quest’anno dal governo a Parma, Lecce, Taranto e Trani (800 posti) e gli altri 25 avviati (3mila posti). E ho letto che il Recovery Plan prevedrà anche nuove carceri. Alle tue accuse a Bonafede risponderà, se vorrà, Bonafede. Ma chiederne le dimissioni per le rivolte carcerarie di marzo (molto ben sincronizzate) è ridicolo: se bastassero a cacciare un Guardasigilli sgradito, sarebbero i detenuti più violenti e pericolosi a decidere chi deve fare il ministro. Che poi Bonafede “taccia” sulle carceri, non mi pare proprio: tra question time, repliche sulla mozione di sfiducia, audizioni in Antimafia, in commissione Giustizia alla Camera e al Senato, interviste ai media (anche al tuo giornale) e dati aggiornati sul sito del ministero, mi sembra piuttosto loquace. Magari tu non condividi quello che dice, ma quello è un altro paio di maniche. Infine, caro Roberto: uno degli scopi della pena è proprio punire, perché chi ha commesso un reato paghi il conto, liberi la società della sua presenza per un po’ e a lui e ai suoi simili passi la voglia di riprovarci. Poi, certo, la pena deve anche rieducare: ma dev’essere, appunto, una pena. Non una finzione o una barzelletta. I lavoratori invisibili della giustizia protestano e bloccano i tribunali di Giulia Merlo Il Domani, 2 dicembre 2020 I giudici onorari sono considerati lavoratori autonomi e, nonostante la pandemia, devono andare in aula. “Altrimenti non ci pagano”. Chiedono più tutele a Bonafede. Senza di loro salteranno migliaia di udienze. Alle nove di ieri mattina, le due giudici onorarie di Palermo Sabrina Argiolas e Vincenza Gagliardotto hanno preso posto su una panchina davanti al tribunale e iniziato lo sciopero della fame, oltre che dal lavoro d’udienza. Contemporaneamente tutti i magistrati onorari della città sono entrati in sciopero, a oltranza, contro le condizioni di lavoro e l’inerzia del ministero della Giustizia. A scatenare la protesta è stata la mancanza di tutela sanitaria durante la pandemia, che però non sarebbe altro che la conseguenza di anni e anni di precariato. “Da vent’anni - cioè dal decreto legislativo del 1998 che ha istituito la magistratura onoraria - siamo costretti a dover scegliere tra indigenza e salute” è la sintesi del problema. In Italia i magistrati onorari sono circa 8mila e smaltiscono attorno al 60 per cento del contenzioso di primo grado: senza di loro oggi la macchina della giustizia - già provata dalla pandemia - rischia di fermarsi. Eppure lo stato li considera lavoratori autonomi, pagati sulla base della quantità di lavoro svolto e senza diritto ad alcuna tutela giuslavoristica, nonostante una sentenza dello scorso luglio della Corte di giustizia europea ne riconosca lo status di giudici europei e li configuri quali lavoratori dipendenti. Il Covid, dunque, è stato solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso ormai colmo. “Abbiamo visto i nostri colleghi ammalarsi di Covid in tribunale - dice Argiolas - oppure messi in quarantena perché entrati a contatto in aula con persone positive. Ma per noi la quarantena o la malattia significano che non percepiremo un euro a fine mese”. A Palermo, due giudici onorari si sono ammalati di Covid e uno è stato anche ricoverato in gravi condizioni: il ministero ha inviato una lettera di richiamo a entrambi, perché avevano accumulato ritardo nel deposito delle loro sentenze. Argiolas, che è giudice onorario di tribunale da oltre vent’anni, prima faceva l’avvocato ma poi ha abbandonato la professione perché l’attività di giudice si era fatta sempre più intensa: oggi è assegnata a tre sezioni, celebra udienza tutti i giorni e svolge questa attività in modo esclusivo dentro al tribunale, a fianco dei giudici togati ma senza alcuna garanzia. Qualche anno fa, pur malata in modo grave, continuò ad andare in udienza tutti i giorni, “perché altrimenti non avrei avuto di che vivere”. Per questo la scelta dello sciopero della fame non è casuale: l’istituto nasce nell’Irlanda precristiana e serviva a dare al creditore un’arma in più nei confronti del debitore inadempiente. Il creditore si metteva davanti alla sua porta e non mangiava fino a che il debitore non avesse pagato. Se fosse morto, il debitore sarebbe stato responsabile di quella morte. “Nello stesso modo, noi staremo in sciopero della fame davanti alla porta del tribunale, fino a quando il nostro datore di lavoro non onorerà il suo debito”, dice Argiolas. La protesta si allarga La protesta di Palermo si sta allargando a molti altri tribunali italiani: Milano e anche Napoli hanno già seguito l’esempio. I giudici onorari palermitani hanno predisposto un documento che è stato inviato al presidente del tribunale e al procuratore capo, in cui hanno spiegato le ragioni dello sciopero dalle udienze e hanno ricevuto solidarietà da parte dei capi degli uffici. “Noi lavoriamo fianco a fianco, coadiuviamo i sostituti procuratori nel lavoro quotidiano - spiega Giulia Bentley, viceprocuratore onorario di Palermo. Anche l’Associazione nazionale magistrati si è espressa più volte in nostro favore, sottolineando le disfunzioni del sistema. Non esiste contrapposizione tra giudici onorari e togati, è solo nella testa di chi lavora al ministero”. Solidarietà è arrivata anche dal consiglio dell’ordine degli avvocati e dalle associazioni forensi. A Palermo un mese di sciopero dei magistrati onorari significa che rimarranno scoperti 101 ruoli, tra udienze monocratiche, convalide di arresto e udienze al giudice di pace. A Milano, invece, saranno 117. Per far fronte a questa carenza sono stati individuati alcuni sostituti procuratori che faranno le veci degli assenti, ma questo creerà ovvi rallentamenti nel lavoro degli uffici di procura. A dimostrazione che “il lavoro della magistratura onoraria non è saltuario o accessorio, ma senza di noi la macchina si ferma - dice Bentley. Siamo compatti nel dire che non possiamo più proseguire l’attività senza garanzie e con questi livelli di rischio per la salute”. “Serve un decreto legge” La richiesta indirizzata al ministero della Giustizia è precisa: lo sciopero non si fermerà fino a quando i magistrati onorari non avranno una risposta da parte del ministro Alfonso Bonafede. Una risposta che dovrebbe tradursi in un decreto legge che risolva la situazione e dia anche ai magistrati onorari le tutele di cui godono i lavoratori dipendenti, oppure in un progetto di riforma organico che riconosca quanto stabilito dalla sentenza europea. Bonafede e la maggioranza sono stati incalzati anche dal centrodestra in commissione Giustizia al Senato. Francesco Urraro (Lega), Alberto Balboni (FdI) e Fiammetta Modena (Forza Italia), hanno firmato una nota congiunta in cui hanno condiviso “le ragioni della astensione nei principali tribunali italiani. Condanniamo il silenzio ipocrita e colpevole del ministro”. Anche Area, il gruppo dei magistrati togati progressisti, è intervenuto a sostegno dei magistrati onorari: “Decenni di riforme della giustizia a “costo zero” hanno reso necessario il reclutamento veloce di risorse, offerte dalla magistratura onoraria. Di proroga in proroga, la situazione è divenuta insostenibile per la sempiterna precarietà, per l’inadeguatezza dei compensi e per la mancanza di qualsiasi trattamento previdenziale e pensionistico. Area è impegnata perché questa situazione non più tollerabile venga al più presto rimossa”. Gli occhi, ora, sono tutti puntati su via Arenula e sul parlamento. Consulta, Coraggio favorito per la presidenza. Tra i suoi “sponsor” anche l’ex ministro Amato di Liana Milella La Repubblica, 2 dicembre 2020 Dopo appena tre mesi Mario Morelli lascia la guida della Corte costituzionale. Tra le prossime decisioni che dovranno prendere i giudici, il ricorso di Sgarbi contro il Dpcm, il carcere per i giornalisti e la questione dei due padri di un figlio nato con utero in affitto. “Il presidente Coraggio”. Alla Corte costituzionale lo chiamano già così. Dando per scontato che sarà lui, tra un paio di settimane, il quarantaquattresimo presidente. Giancarlo Coraggio. Uno che a 80 anni gioca ancora a tennis. Che ha attraversato, nella sua carriera, tutte le funzioni giudiziarie possibili. È stato giudice ordinario, ma anche contabile, tributario, e, perché no, pure sportivo. E quando ha vestito i panni del giudice amministrativo è salito al vertice del Consiglio di Stato diventandone il presidente. Giusto prima di arrivare, meno di otto anni fa, alla Consulta. Ha fama di uno che mantiene il gusto della curiosità e non arretra di fronte alle novità. Com’è accaduto quando è partito il ben noto viaggio della Corte nelle carceri. Un’esitazione lo coglie all’inizio, ma poi eccolo tuffarsi nell’avventura del giudice delle leggi che entra in una galera e parla di Costituzione ai detenuti. Visita Terni, una prigione tosta, e non nasconde né durante il discorso, né dopo, di essere rimasto molto toccato da quell’esperienza. Tutto questo per dire che Repubblica sta per raccontare una transizione senza strappi. Senza “guerre” né sgambetti. Ma neppure un passaggio di scettro all’insegna dell’“ecco l’ennesimo presidente anziano che arriva al vertice perché gli tocca”. Non va così per Giancarlo Coraggio, come non era andata così neppure per il giudice che oggi lascia il vertice della Consulta. Mario Rosario Morelli, tre mesi di presidenza con l’inevitabile polemica iniziale sulle presidenze brevi. Anche se ce ne sono state tante alla Corte. Ma la sua ha avuto un sapore particolare, quella di un magistrato che dal 1973, come assistente, ha vissuto “dentro” la Corte, dividendosi tra di essa e la Cassazione, in entrambe esponendosi sulla frontiera dei diritti di chi non ne ha, come in passato Eluana Englaro, e adesso le mamme e i padri dello stesso sesso che desiderano un figlio proprio. Appena eletto presidente Morelli strizzò l’occhio a Coraggio - “Giancarlo” come lo chiama lui anche in pubblico, ricambiato da un affettuoso “Mario” - che indicò subito come suo successore “al 99%”. Nel salutarlo, adesso Coraggio parla di lui come del giudice le cui “sentenze sui nuovi diritti fondamentali hanno fatto la storia”. E Massimo Luciani, in toga nera e nelle vesti di avvocato, ricorda un suo “librino” del 2004 dal titolo ostico - “L’incidente di costituzionalità: come formulare le questioni senza incorrere nella sanzione della inammissibilità” - nel quale Morelli, in una sorta di decalogo, spiegava ai colleghi come presentare alla Corte un buon ricorso senza infilarsi nella subitanea bocciatura dell’incostituzionalità. Un presidente che ha avuto anche un altro merito, che gli riconosce l’Avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri, quello di aver camminato sulla stessa strada di Cartabia non fermando neppure per un giorno la giustizia costituzionale pur in tempi di pandemia. Coraggio, già presidente al 99 per cento. Pronostico giusto. Segnato proprio da quella votazione del 17 settembre. Quando Giuliano Amato, l’ex dottor Sottile del PSI e di tanti governi di cui ha fatto parte come premier e ministro dell’Interno, votò per Coraggio e non per Morelli. Facendo una scelta precisa, quella di dare alla Corte un guida lunga e stabile, anche evitando le polemiche che poi ci sono state. Anche se, come le fonti ufficiali della Consulta hanno spiegato fin nei minimi dettagli, ormai diventare presidente non significa guadagnare un solo euro in più, né godere di vetture che ormai appartengono al passato. Ma tant’è. Amato non solo “scelse”. Ma in quella scelta escluse se stesso. Come fa di nuovo oggi. Chi lo conosce lo descrive come non interessato a una lotta per fare il presidente. Voterà per Coraggio anche questa volta, e non per sé stesso. Lui, che pure ha davanti a sé ancora due anni di Corte, non vuole spaccare la Corte, perché il suo obiettivo è unirla. È darle una guida stabile. Perché sicuramente 13 mesi sono un periodo lungo, molto più lungo di quelli vissuti al vertice da presidenti importanti come sicuramente lo sono stati Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida, Giovanni Maria Flick. Ma soprattutto i dieci mesi di Marta Cartabia, la prima presidente al femminile che ha fatto “cadere il tetto di cristallo”, la sua espressione pronunciata al colmo dell’emozione e che ormai è diventata un simbolo della riscossa delle donne nelle istituzioni dove comandano ancora gli uomini. “Il virus ci obbliga a rinunciare alla solennità e alla pubblicità di un rito cui attribuiamo grande importanza. Non è l’unico sacrificio. E speriamo che non si tratti di sacrifici inutili. Speriamo di tornare presto alle relazioni sociali che sono il sale della nostra vita e che ci mancano molto” dice Giancarlo Coraggio nel breve speech di saluto a Morelli. Parla del virus. Proprio quel virus che presto diventerà protagonista di una prossima decisione della Consulta, quando i giudici dovranno occuparsi di un ricorso di Vittorio Sgarbi contro i Dpcm. Una Corte che farà i conti con argomenti top, dal carcere per i giornalisti, visto che il Parlamento è rimasto tuttora inerme rispetto al suo invito esplicito - era il 26 giugno - ad affrontare la questione, ai due padri di un figlio nato grazie a un utero in affitto. E la cui madre biologica ha chiesto di parlare davanti ai giudici che giusto nei prossimi due giorni decideranno se questo è possibile. Covid e udienze, assenza del legale in base a precise regole di Simona Gatti Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2020 La Cassazione con la sentenza n. 34016 conferma un sequestro preventivo in mancanza del difensore che non si era presentato causa pandemia. Anche in tempi di Coronavirus le assenze dei difensori nelle aule dei processi devono seguire regole precise. Per questo motivo la Cassazione penale con la sentenza n. 34016 del 1 dicembre conferma un sequestro preventivo in mancanza del legale che non si era presentato in udienza causa Covid. Nel ricorso davanti ai Supremi giudici l’avvocato che doveva difendere la società sulla quale era stata emessa la misura cautelare ha sollevato in un unico motivo una serie di obiezioni. Per prima cosa ha evidenziato che l’udienza camerale era stata celebrata il 5 marzo 2020, in assenza del difensore, nonostante il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Napoli avesse proclamato due giorni prima l’astensione dal 3 all’11 marzo da tutte le udienze civili e penali della Corte di appello di Napoli e della circoscrizione del tribunale partenopeo. In secondo luogo, l’aumento dei casi di contagio in Campania, essendo lui avvocato di Roma, aveva reso impossibile la sua trasferta e la nomina di un sostituto processuale del foro locale. Pertanto la celebrazione del dibattimento in queste condizioni determinava una nullità dalla quale doveva scattare l’annullamento del provvedimento. Nel rigettare i motivi proposti, Piazza Cavour sottolinea che il carattere locale dell’astensione dalle udienze ne impedisce l’esportazione in distretti diversi senza le condizioni previste dal codice di “Autoregolamentazione delle astensioni degli avvocati”, che impone precisi oneri di comunicazione, sia al ministero della Giustizia sia ai vertici degli uffici giudiziari interessati. Nel caso specifico il difensore, appartenendo al foro di Roma, non era legittimato a non presentarsi e avrebbe avuto la possibilità di nominare, anche con delega orale, un sostituto del tribunale di Napoli, il quale a sua volta, pur attraverso posta elettronica, avrebbe potuto dichiarare l’astensione dall’udienza. In mancanza di una richiesta di rinvio per adesione all’astensione proclamata dall’Ordine napoletano, a causa della grave situazione sanitaria, le dedotte violazioni vengono bocciate. Custodia in carcere di ultrasettantenne: servono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza di Andrea Pisana altalex.com, 2 dicembre 2020 I presupposti della misura coercitiva devono sussistere non soltanto nella fase c.d. genetica, ma anche durante il corso di esecuzione della misura (Cass. pen. sentenza n. 31418/2020). Con la sentenza n. 31418/2020 (testo in calce) la Corte di cassazione affronta la questione della verifica dei presupposti per il mantenimento della misura cautelare carceraria, con particolare riguardo alla sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, nei confronti di soggetto ultrasettantenne. Il caso - Il tribunale di Roma, sezione specializzata per il riesame, ha confermato il provvedimento di rigetto della richiesta, avanzata nell’interesse di V.H.T.G., di sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere applicata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Viterbo in data 2 marzo 2019 in relazione al reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 e art. 80, comma 2, per avere detenuto al fine di spaccio 12 chili di cocaina (dalle quali erano ricavabili 69.815 singole dosi), fatto per il quale egli è stato condannato con sentenza del 27 febbraio 2020, a seguito di giudizio abbreviato, alla pena di anni sei di reclusione e 20.000 Euro di multa. Il tribunale, a fondamento del provvedimento di rigetto, ha innanzitutto escluso la sussistenza di una situazione di incompatibilità dello stato di salute dell’imputato con il regime carcerario, così come la necessità di nominare un perito, avendo fra l’altro l’imputato rinunciato all’indagine strumentale. Ha poi evidenziato, come non vi sia spazio per applicare il disposto dell’art. 275 c.p.p., comma 4, atteso che, all’atto dell’applicazione della misura carceraria, l’imputato non aveva ancora compiuto settant’anni, notando infine come il d.lgs 15 febbraio 2016, n. 36, ponga a carico del pubblico ministero procedente, e non del giudice, l’obbligo di trasmettere la decisione cautelare all’autorità competente dello stato membro. La Corte di Giustizia Ue interviene sulla commercializzazione del cannabidiolo di Elio Enrico Palumbieri Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2020 La Corte di Giustizia dell’Unione Europea è intervenuta sul “cannabidiolo” stabilendo che nessuno Stato membro può vietarne la commercializzazione se questo è stato legalmente prodotto in un altro Stato membro. Il caso trae origine da un procedimento penale sorto in Francia a carico di B. S. e C. A., ex amministratori della Catlab SAS specializzata nella commercializzazione di una sigaretta elettronica il cui liquido contiene olio di canapa o CBD. Quest’ultimo è prodotto in Repubblica Ceca da piante utilizzate nella loro interezza e, successivamente, confezionato in Francia. Il Decreto francese del 22 agosto 1990, però, in applicazione dell’articolo R. 5132-86 del codice della salute pubblica per la cannabis (Jorf del 4 ottobre 1990, pag. 12041), nel prevedere la possibilità di commercializzare esclusivamente le fibre e i semi della canapa, ha posto un limite all’importazione del suddetto prodotto ceco. L’articolo 1 della disposizione menzionata, infatti, autorizza la “coltivazione, l’importazione, l’esportazione e l’utilizzo industriale e commerciale (fibre e semi) delle varietà di Cannabis sativa L. purché: - il tenore di delta-9-tetraidrocannabinolo di tali varietà non sia superiore allo 0,20%; - la determinazione del tenore di delta-9-tetraidrocannabinolo e il campionamento in vista di tale determinazione siano effettuati secondo il metodo [dell’Unione] indicato nell’allegato”. A tal riguardo, il Ministero della Giustizia francese aveva chiarito, con circolare del 23 luglio 2018, che il decreto in commento andava interpretato come infra si dirà. Ebbene: “La coltivazione della canapa, la sua importazione, esportazione ed utilizzazione sono autorizzate soltanto se: - la pianta proviene da una delle varietà di Cannabis sativa L. previste dal decreto [del 22 agosto 1990]; - sono impiegate soltanto fibre e semi della pianta; - la pianta contiene essa stessa meno dello 0,20% di delta-9-tetraidrocannabinolo. Contrariamente all’argomento talvolta opposto dagli stabilimenti che offrono in vendita prodotti a base di cannabidiolo, il tenore autorizzato di delta-9-tetraidrocannabinolo dello 0,20% si applica alla pianta di cannabis e non al prodotto finito che ne sarebbe ottenuto. Occorre precisare che il cannabidiolo si trova principalmente nelle foglie e nei fiori della pianta, e non nelle fibre e nei semi. Di conseguenza, allo stato della legislazione applicabile, l’estrazione del cannabidiolo in condizioni conformi al codice della salute pubblica non appare possibile. Sulla scorta di tali elementi il Tribunal Correctionnel de Marseille, dunque, ha condannato gli ex amministratori della società avente ad oggetto la commercializzazione e la distribuzione delle sigarette elettroniche ad anni 18 e mesi 15 di reclusione, nonché al pagamento di € 10.000 di multa. Avverso tale sentenza, i predetti, proponevano appello dinanzi alla Court d’appel d’Aix-en-Provence (Corte d’appello di Aix-en-Provence), sostenendo la contrarierà al diritto dell’unione del divieto di commercializzazione del CBD ricavato dalla pianta di Cannabis sativa nella sua interezza. I Giudicanti, a questo punto, rimettevano alla Corte di Giustizia nel tentativo di risolvere la questione relativamente alla conformità delle disposizioni di cui al citato Decreto francese al diritto dell’Unione. La decisione della Corte - La Cgue ha, preliminarmente, escluso l’applicabilità al caso di specie dei regolamenti relativi alla P.A.C., non ritenendo il cannabidiolo un prodotto agricolo. Quel che più rileva, tuttavia, è che la medesima Corte ha statuito che il CBD non rientra fra le sostanze stupefacenti. Esso, infatti, non è menzionato nella Convenzione sulle Sostanze Psicotrope e non è annoverato, come stupefacente, neppure alla luce della Convenzione Unica sugli Stupefacenti. Per l’effetto, quindi, all’olio di Canapa, in quanto sostanza commercializzabile sul territorio UE, vanno applicati gli articoli 34 e 36 del Tfue concernenti la libera circolazione delle merci. Ma non è tutto. Sottolinea la Corte che il Decreto francese va ritenuto contrastante con il diritto dell’Unione in quanto posto in violazione del divieto di cui all’articolo 34 TFUE che, com’è noto, riguarda qualsiasi misura degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, realmente o potenzialmente, il commercio all’interno dell’Unione. Vieppiù, la decisione di vietare la commercializzazione, parrebbe non trovare giustificazione in uno dei motivi di interesse generale di cui all’articolo 36 Tfue. Tale provvedimento, infatti, può essere adottato soltanto qualora l’asserito rischio reale per la salute pubblica risulti sufficientemente dimostrato in base ai dati scientifici più recenti disponibili al momento dell’adozione di siffatta decisione. La Corte ha, quindi, evidenziato che spetta al giudice del rinvio valutare i dati scientifici disponibili e prodotti dinanzi ad esso al fine di assicurarsi che il presunto rischio reale per la salute non risulti fondato su mere presunzioni, bensì su dati di fatto inconfutabili. Campania. Carceri al collasso, ma metà dei detenuti è in attesa di giudizio di Viviana Lanza Il Riformista, 2 dicembre 2020 Sulla carta il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio, ma nei fatti è spesso la prima soluzione. Si parla tanto, e ora, in periodo di Covid più che mai, di misure alternative, ma si riesce ad applicarle solo a pochissimi. Il carcere è, insomma, un tema delicato e complesso, su cui bisognerebbe informarsi e investire di più. “Il carcere è la prima soluzione a cui si pensa, invece dovrebbe essere l’ultima. E le misure alternative, che ora sono ancora qualcosa di eccezionale, dovrebbero essere l’ordinario, il quotidiano”, osserva il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. Il suo impegno, la sua speranza, le sue battaglie per la tutela dei diritti dei “diversamente liberi”, come ama definirli, sono orientate a ribaltare queste proporzioni, a ristabilire un diverso rapporto tra i numeri della realtà penitenziaria. Perché se è vero che i numeri valgono a dare forma alla realtà, invertendoli si potrebbe ottenere una realtà diversa, dove i diritti non sono l’eccezione ma la regola e la funzione rieducativa della pena è più una realtà che un’utopia. E allora analizziamoli questi numeri. Negli istituti di pena della Campania ci sono attualmente 6.648 detenuti, 888 dei quali sono stranieri e 301 donne. Per quali reati sono in cella? Su 6.648, 765 sono dietro le sbarre per reati di criminalità organizzata mentre i più numerosi sono i detenuti per reati contro il patrimonio e reati legati a traffici e vendita di sostanze stupefacenti. In particolare, si contano, nelle carceri della Campania, 2.110 detenuti per rapina, 2.077 detenuti per reati di spaccio di droga e 1.010 detenuti per associazione finalizzata al traffico, anche internazionale, di stupefacenti. Per quei reati per i quali si rischia l’ergastolo, dunque per omicidio, sono in cella 747 detenuti, mentre si contano 450 reclusi per maltrattamenti in famiglia (un centinaio dei quali denunciato dai propri genitori, e qui la parentesi andrebbe aperta anche sulla solitudine di molte famiglie e sul degrado e sul vuoto di assistenza sociale e statale da cui sono circondate). Per reati sessuali sono in carcere attualmente 315 detenuti, 682 per furto, 15 per omicidio colposo, 47 per sfruttamento della prostituzione. È bene precisare che molti detenuti compaiono più volte in questi numeri, perché si tratta di persone accusate di più reati. Ed è da sottolineare anche un altro dato: dei 6.648 detenuti attualmente reclusi nelle carceri campane circa 3.200 sono in attesa di giudizio, sono cioè presunti innocenti in attesa di una sentenza. “E una quota di questi detenuti uscirà da innocenti senza aver nemmeno fatto il processo di primo grado”, aggiunge Ciambriello. E poi ci sono i numeri degli educatori e del personale socio-sanitario, ancora troppo esigui rispetto alla popolazione penitenziaria. Basti pensare che in un carcere grande e affollato come quello di Poggioreale, che conta circa 2mila detenuti, ci sono 18 educatori, quattro dei quali da alcuni giorni sono andati in pensione. Come si può fare cultura e formazione, rieducazione e reinserimento, se lo Stato non decide di investire nelle risorse? “Vi sembra sensato che con 54mila detenuti in Italia il Ministero abbia messo su un concorso per appena 95 educatori? Sono arrivate 18mila domande…”, sottolinea Ciambriello. “Bisognerebbe investire molto di più in risorse umane, in criminologi, psicologi, assistenti sociali - aggiunge - Se il rapporto resta di uno ogni duecento detenuti come si può sperare di aiutare chi è in carcere, di educare e reinserire nella società chi ha commesso un reato? - osserva il garante - Il rapporto dovrebbe essere invece di uno a dieci. Il carcere più che custodia dovrebbe essere accudimento della persona”. “E comunque - aggiunge - non si può farlo diventare una discarica sociale o una sorta di scuola del crimine. Perché anche questo si rischia quando si lascia che i detenuti trascorrano gran parte della giornata in sette, otto o dieci in una cella, senza alternative: è ovvio che finiscono per condividere e alimentare solo le proprie esperienze criminali”. “Il vero distanziamento sociale - conclude Ciambriello - è quello che vivono i detenuti, trascurati dalla politica, dalle istituzioni e dal mondo esterno che non si attiva per risolvere problemi come la precarietà, il degrado, la povertà economica, la povertà culturale”. Campania. Coronavirus e carcere, situazione sempre più allarmante vita.it, 2 dicembre 2020 Il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello: “La magistratura di sorveglianza contribuisca più attivamente a contrastare la diffusione del virus nelle carceri”. Le criticità che il “sistema carcere” sta rivelando ora che l’emergenza pandemica lo ha investito in pieno sono sotto gli occhi di tutti. L’aumento esponenziale del numero dei contagi tra la popolazione carceraria e gli operatori penitenziari costituisce il dato più visibile dell’incapacità di contenere e reagire alla diffusione del virus all’interno degli istituti penitenziari. Gli interventi legislativi adottati sinora per ridurre la popolazione carceraria - peraltro volgarmente strumentalizzati da gran parte dell’opinione pubblica come un tentativo di aprire le porte del carcere per boss e condannati al 41bis - si sono rivelati del tutto insufficienti a raggiungere gli obiettivi sperati. Anche le previsioni del decreto Ristori, delle quali si auspica un miglioramento in sede di conversione, sembrano muoversi lungo la medesima, insoddisfacente, direzione. In un simile scenario, appare dunque necessario che tutti gli attori che animano il sistema carcere operino nella medesima direzione, al fine di contenere il numero degli individui in entrata e di favorire forme di liberazione anticipata attraverso il ricorso ai variegati strumenti previsti in tal senso dalla legge. Tuttavia, i Garanti segnalano con rammarico come gli Uffici di sorveglianza campani si rivelino, al momento, sordi alle esigenze dettate da questa situazione di drammatica emergenza. Pur rinvenendo “a macchia di leopardo” una certa sensibilità da parte di alcuni magistrati, inclini ad accogliere le istanze di avvocati, detenuti, e degli stessi Garanti, si denuncia, invece, l’inerzia complessiva degli Uffici di sorveglianza nel rispondere a tali istanze. Da giorni, infatti, i Garanti ricevono segnalazioni in tal senso, che arrivano dai detenuti e dalle loro famiglie, dai rappresentati di associazioni e cooperative che operano nel carcere e dagli stessi avvocati difensori. In particolare, le mancate risposte in materia di permessi premio, affidamento esterno al lavoro, liberazione anticipata etc. finisce per contribuire in modo significativo alla cronica situazione di sovraffollamento carcerario, per tacere del senso di frustrazione patito da quei detenuti che vedono ignorate per lungo tempo le loro richieste. A ciò si aggiungono, inoltre, i continui ritardi mostrati dalle Aree educative, che finiscono per colpire soprattutto detenuti stranieri, senza fissa dimora, o coloro semplicemente poco seguiti dal proprio difensore, che diventano, di fatto, detenuti ignoti, dimenticati da quello stesso sistema che dovrebbe provvedere al loro reinserimento sociale. Nella consapevolezza dell’impatto che la pandemia da covid-19 ha avuto e ha tuttora sul carico di lavoro del comparto giustizia, il quale già soffre di un’endemica carenza di personale, i Garanti ribadiscono con forza la necessità di una relazione dinamica, continua e fluida con la magistratura di sorveglianza e le Aree educative, necessaria ora più che mai per garantire che il diritto alla vita e alla salute dei detenuti sia garantito. Sardegna. Tecnologia e inclusività, le parole chiave del diritto allo studio in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 2 dicembre 2020 Con quasi 70 detenuti-studenti (dei quali il 61% in alta sicurezza, il 30,5% in media sicurezza e l’8,5% al 41bis), il Polo Universitario Penitenziario (Pup) dell’Università di Sassari (Uniss) è il primo in Italia per incidenza sulla popolazione detenuta: “Il 5,4 % dei ristretti - spiega Emanuele Farris, coordinatore di ateneo per il progetto - studia all’Università contro una media nazionale dell’1,4%. Nell’ultimo anno accademico 2019-20 abbiamo avuto un incremento del 61% di studenti rispetto al triennio precedente”. Risultati che sono stati ottenuti nel corso di un anno caratterizzato dalla pandemia, affrontata però dal team del Puc con l’idea di trasformare una criticità in un’opportunità. Durante il lockdown non solo si sono ridotti i disagi degli iscritti, detenuti dei Penitenziari di Alghero, Nuoro, Sassari e Tempio Pausania, ma si è riusciti a ridurre quasi a zero, secondo quanto riferito da Farris, “il numero di studenti che non riuscivano a dare esami e a raddoppiare quello degli studenti meritevoli”. Idee, strategie, nuove relazioni, maturate proprio durante la crisi pandemica, sono confluite in un protocollo d’intesa per il triennio 2020-23 che- si caratterizza, rispetto al precedente, per innovazione tecnologica e maggiore inclusività. Punto saliente dell’accordo, un programma di informatizzazione delle aule dedicate esclusivamente agli studenti universitari che sarà realizzato grazie a una partnership istituzionale: il cablaggio è stato finanziato direttamente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), gli arredi dal Provveditorato Regionale (PRAP) mentre hardware e software sono stati acquistati grazie a un fondo premiale concesso dal Ministero dell’Università e Ricerca. Contributi che si vanno ad aggiungere all’apporto dell’Ente Regionale per lo Studio Universitario (Ersu) di Sassari che da anni fornisce servizi specifici agli studenti detenuti e a un finanziamento della Fondazione di Sardegna, erogato sul bando Volontariato 2020 per un progetto di potenziamento dei servizi didattici nelle carceri che garantisce un tutor in ogni aula didattica penitenziaria per tutto il 2021. Al nuovo protocollo hanno aderito, oltre a PRAP e DAP, già firmatari dell’edizione 2014-2019, anche l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) e il Centro per la Giustizia Minorile (CGM). La presenza di questi enti permetterà di facilitare l’accesso agli studi universitari anche alle persone che scontano la pena all’esterno degli istituti penitenziari e ai giovani fino a 25 anni di età che hanno commesso reati da minorenni. “Abbiamo lavorato a lungo per realizzare un network tra istituzioni che non ha eguali in Italia - dice il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria della Sardegna Maurizio Veneziano - e che ha ricevuto molto apprezzamento dal Ministero della Giustizia come progetto pilota a livello nazionale”. Anche il Ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi ha espresso il proprio apprezzamento per l’accordo: “Un bell’esempio di cooperazione istituzionale - scrive in un tweet - che mira a favorire la diffusione della cultura e della formazione come mezzo di riscatto e speranza nel futuro”. Venezia. Pegoraro (Cgil): “Il sistema carcere inadeguato per affrontare la pandemia” La Nuova Venezia, 2 dicembre 2020 “La protesta dei detenuti avvenuta mercoledì scorso nel carcere di Santa Maria Maggiore pone l’accento sulla drammatica situazione, resa ancora più grave da questo periodo di pandemia, di chi è detenuto ma anche di chi lavora all’interno di una struttura dove gli spazi ridotti fanno emergere i disagi e preoccupazioni di contagio”, commentano Gianpietro Pegoraro, Coordinatore regionale Cgil Polizia Penitenziaria e Franca Vanto della Cgil Funzione Pubblica. “Il sistema carcere in episodi come questo dimostra come non mai di essere inadeguato e superato ad affrontare il problema sia dell’affollamento di detenuti che della pandemia. Situazioni queste, che come sindacato avevamo più volte segnalato proponendo allo stesso tempo del carcere, dove vi è necessità di dare attuazioni alle Leggi che già ci sono, come ad esempio l’applicazione dell’articolo che prevede un sistema integrato di istituti differenziato per le varie tipologie detentive, che costituirebbe un enorme passo in avanti di riforma. Inoltre servono investimenti su più livelli - aggiungono Pegoraro e Vanto. Ci riferiamo all’edilizia penitenziaria che ogni anno subisce sempre tagli ai fondi per la ristrutturazione delle carceri e nel creare al loro interno spazi più aperti che oggi mancano. Riteniamo che non occorre costruire nuove strutture detentive, ma vi è necessità urgente l’attuazione di un nuovo codice penale, non serve dare attuazione ai decreti sicurezza, che vengono emanati in base ai mal di pancia di un ministro per avere il consenso popolare. Bisogna inoltre investire su nuove assunzioni di personale (poliziotti, amministrativi, educatori e psicologi) e sulla formazione, che ogni anno viene sempre ridotta, così come è ridotto il vestiario degli operatori di polizia penitenziaria, che viene consegnato con enorme ritardo (a volte con taglie errate) e che in certe occasioni non viene consegnato affatto”. Trieste. Coroneo, i contagi allungano l’incarico al direttore a tempo di Benedetta Moro Il Piccolo, 2 dicembre 2020 Il focolaio scoppiato in carcere rende necessario prolungare il mandato della responsabile provvisoria Taiani. Nessun positivo ha per ora sintomi gravi. Doveva lasciare l’incarico a metà novembre, ma il focolaio scoppiato la scorsa settimana nel carcere del capoluogo giuliano l’ha trattenuta. Resterà dunque a Trieste fino a gennaio Romina Taiani, che dirige provvisoriamente da settembre la struttura di via del Coroneo, dopo l’uscita del predecessore Ottavio Casarano, ora a Rebibbia. D’altronde doveva fermarsi fino a gennaio anche in Veneto, dove amministra, sempre come reggente, il carcere di Rovigo. In entrambi gli istituti penitenziari non sono ancora stati individuati dei direttori titolari per cui è stato avviato un interpello. Intanto i contagi continuano a crescere: i detenuti positivi sono passati da 17 a 30, ma non ci sono casi gravi. Numeri in aumento anche tra le guardie carcerarie. Si attendono i dati dei nuovi screening. “Stiamo affrontando la situazione in stretta collaborazione con Asugi, che ringrazio” rassicura Taiani. A causa del focolaio sospese tutte le attività, come previsto da protocollo, ma non i colloqui, grazie agli schermi di protezione tra detenuto e visitatore. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha comunicato in questi giorni che sono 83 i penitenziari colpiti su 192. Si attende dal Parlamento l’ok alle misure svuota carceri, tra cui la “liberazione anticipata speciale”, per cui si batte la Radicale Rita Bernardini, giunta al 20esimo giorno di sciopero della fame. Vicino all’ex deputata è Enrico Sbriglia, già provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e direttore del carcere di Trieste, nonché consigliere generale del Partito Radicale Transnazionale, intervenuto negli scorsi giorni su Radio Radicale: “Con quale coerenza e credibilità - ha sottolineato - s’impone il distanziamento nelle scuole, sul lavoro, agli esercizi economici e tanto non viene considerato per operatori penitenziari e detenuti?”. Ravenna. Uno sciopero della fame a staffetta per i diritti di detenuti e agenti ravennatoday.it, 2 dicembre 2020 Uno sciopero della fame a staffetta per tutelare il diritto alla salute dei carcerati e delle guardie penitenziarie, oltre che per arrivare alla nomina anche a Ravenna di un garante dei detenuti. +Europa Ravenna “per una società aperta”, in staffetta coi gruppi delle altre province dell’Emilia Romagna, vuole “riaffermare l’importanza dei valori fondamentali come la libertà, la democrazia e lo stato di diritto, senza dimenticanza alcuna”. Così, accogliendo l’appello di Rita Bernardini (presidente onoraria di ‘Nessuno Tocchi Caino’), ha deciso d’intraprendere un’azione non-violenta di digiuno. Tre sono gli esponenti che digiuneranno e tre sono gli obiettivi: contrastare il diffondersi dei contagi nelle carceri; impedire definitivamente la presenza dei bambini dietro le sbarre; nominare anche a Ravenna il garante dei detenuti. “In una situazione così difficile il diritto alla salute appartiene a tutti. Invece, in questa seconda ondata pandemica il numero di contagi - tra detenuti e agenti penitenziari - è in costante aumento, mentre le istituzioni italiane e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede rimangono immobili. Mercoledì 2 dicembre metterò in atto, per 24 ore, il mio digiuno a staffetta - dichiara Nevio Salimbeni, co-portavoce di +Europa Ravenna - e invito a seguirmi tutte le persone che hanno a cuore le fondamenta dello stato di diritto, ovunque esso sia minacciato. Chiediamo interventi concreti e incisivi, che possano far fronte alla situazione drammatica presente nelle carceri”. “Digiuno in nome di un interesse collettivo, non per uno slancio filantropico - racconta Sara, anche lei digiunante il 2 dicembre - Nelle società contemporanee, infatti, la salute pubblica non consente zone franche e non prevede spazi definitivamente immuni”. ““Sebbene Ravenna goda di una situazione carceraria più serena di tante altre città - conclude Davide Amadori, storico esponente radicale e altro digiunante - però manca ancora un garante cittadino dei diritti delle persone private di libertà che possa monitorare le situazioni di marginalità generate soprattutto dalla pandemia. La figura è stata istituita dal comune di Ravenna già dal 2010, auspichiamo quindi che possa avviarsi un percorso comune ad associazioni e professionisti del settore che giunga alla sua nomina effettiva”. Chi volesse unirsi a questa iniziativa, volta a sensibilizzare la politica e l’opinione pubblica sul delicato tema delle carceri e della mancanza di tutela di detenuti ed agenti, può farlo comunicandolo nella pagina Facebook del gruppo ravennate o all’indirizzo email salimbenin@gmail.com spiegando le proprie motivazioni”. Parma. Fare l’infermiere in carcere: tra empatia e sacrificio di Sofia D’Arrigo parmateneo.it, 2 dicembre 2020 C’è un diffuso preconcetto secondo cui fare l’infermiere in carcere sarebbe rischioso. Intervista al responsabile del Servizio Infermieristico del carcere di Parma. L’infermiere in carcere è un mestiere non a tutti noto e fa i conti con il diffuso preconcetto per cui lavorare nei penitenziari sarebbe rischioso. La sanità penitenziaria però, è materia tutto sommato nuova. Solo nel 2008, dopo un lungo iter legislativo, si è stabilito il passaggio della competenza in materia di salute al Servizio Sanitario Nazionale, lasciando all’Amministrazione Penitenziaria il compito di provvedere alla sicurezza dei ristretti. Da allora, è l’infermiere a occuparsi del paziente, relativizzando dunque la sua condizione di detenuto. Ne abbiamo parlato con Domenico Cannizzaro, responsabile del Servizio Infermieristico e tecnico dell’ Unità Operativa di salute penitenziaria del carcere di Parma. Ormai un anno fa, l’istituto di via Burla si era fatto avanti per affrontare il problema della preclusione del carcere, in maniera propositiva, rivolgendosi direttamente ai futuri infermieri. In collaborazione con l’Università di Parma, Cannizzaro si è fatto promotore dell’organizzazione di una ADO (Attività Didattica Opzionale) rivolta agli studenti del terzo anno del corso di Infermieristica. L’idea è quella di un ciclo di incontri formativi con il preciso obiettivo di smontare ogni possibile pregiudizio sulla vita nelle carceri. Dopo un primo incontro pilota nel mese di dicembre 2019, si affronta anche l’aspetto relazionale che coinvolge l’operatore sanitario e il paziente detenuto. Stando a chi pratica l’ambiente, infatti, pare che il nocciolo della questione sia proprio la difficoltà per molti infermieri di mettersi in gioco da un punto di vista personale in quello che rappresenta un ambiente di lavoro sicuramente atipico, ma di grande valore esperienziale. Con il sopraggiungere dell’emergenza Covid-19, il progetto si è bloccato, mentre la questione organico carente è rimasta, se non peggiorata a causa della pandemia. Ma qual è la realtà effettiva di chi lavora nelle carceri? Il lavoro da svolgere non è affatto diverso da quello che un infermiere pratica negli ospedali. Gli infermieri si occupano delle visite interne e coadiuvano l’organizzazione di quelle esterne, quando un detenuto necessita di controlli di salute da effettuare fuori dal carcere, cioè in ospedale. Ma ci sono anche le attività del reparto detentivo, con il centro prelievi e la gestione delle pratiche burocratiche legate all’elaborazione delle cartelle cliniche per ciascun paziente. Il personale infermieristico è assunto dall’AUSL di Parma ed accedono in Istituto tramite graduatoria, a seguito di assegnazione al distretto di Parma. Una piccola parte dell’equipe opera in carcere tramite agenzia interinale: “C’è un impiego massiccio di personale - spiega Cannizzaro - Nell’arco delle 24 ore dispongo l’impiego di ben 21 operatori, nove al mattino, nove al pomeriggio e tre nei turni notturni nei reparti detentivi. E cerchiamo di farlo garantendo così la continuità assistenziale”. E qui si svela uno degli aspetti più critici del mestiere. L’infermiere prende in carico il paziente in toto, già dal primo incontro con i nuovi giunti (nel gergo penitenziario, sono i detenuti appena arrivati). Con loro instaura un rapporto capace di intercettarne i bisogni, il paramedico si occupa delle terapie, conosce le patologie e il tipo di assistenza di cui necessita il paziente. Il primo contatto in carcere dei detenuti avviene proprio con il medico e l’infermiere. “Si tratta prevalentemente di stranieri, questo li rende maggiormente una fascia vulnerabile - prosegue il responsabile tecnico Cannizzaro - Ma è vero anche che dell’aspetto sanitario in carcere si sa poco e questo determina un rafforzamento del pregiudizio. Eppure siamo personale inquadrato a tempo indeterminato proprio per cercare di creare una certa fidelizzazione con l’ambiente di lavoro, trattandosi di un mestiere molto delicato”. Il racconto di Domenico parte da una evidenza personale: “Quando ho scelto di lavorare in carcere ero soprattutto incuriosito e avevo voglia di una esperienza di questo genere, ma ho trovato dissenso da parte della mia famiglia. Mio padre temeva che potessero insultarmi o obbligarmi a portare notizie all’esterno, o ancora costringermi a infrangere delle regole”. La casa circondariale di Parma conta 625 detenuti e nonostante si tratti di un carcere di massima sicurezza, da anni i sindacati di categoria lamentano una carenza importante di poliziotti penitenziari. Secondo le organizzazioni sindacali si registra una mancanza di oltre 100 unità di personale, in particolare nei ruoli di ispettori e sovrintendenti. Non è improbabile, quindi, che durante il lavoro l’infermiere possa rimanere solo con il detenuto: “Questo non deve spaventare - riprende l’infermiere - è possibile che la voglia di libertà, l’istituzionalizzazione a cui vengono sottoposti e le regole ferree da seguire prevalgano sulla salvaguardia della salute, e il detenuto arrivi così a fare richieste non previste, come un farmaco non indicato sul piano terapeutico che l’infermiere o il medico gli devono negare. La reazione, in quei casi, può capitare che ecceda in aggressioni verbali o fisiche”. Di fronte a questo tipo di scenario, “non conviene essere giudicanti, né interpretare ruoli che mettono in crisi la relazione “. Secondo l’esperienza di Domenico, è più costruttivo usare ascolto e accoglienza, vedere la persona oltre la superficie. Questo implica mettersi in gioco, esercitando un mestiere in cui l’emotività va equilibrata costantemente, altrimenti si rischia di lasciarsi travolgere dalle storie di sofferenza, impossibili da scongiurare: “Sentiamo sfoghi legati alla salute che sono un grido di dolore anche per altro; a volte abbiamo di fronte uomini che attendono da tempo la lettera di un familiare, di avere notizie su un figlio che non hanno visto nascere. Tutto vorrei a quel punto, tranne che trovarmi di fronte un muro di indifferenza”. Un lavoro, dunque, che mette sotto pressione e che fa spesso i conti con un problema collaterale come la carenza di organico: “Quando arrivano 3-4 nuovi infermieri - spiega ancora Cannizzaro - puoi gestire bene il numero del personale a disposizione, ma capita che spesso qualcuno e magari più di uno, vadano via, rendendo più complessa la copertura delle turnazioni”. Ma al momento il carcere di Parma riesce a gestire tutte le esigenze che si presentano e l’infermiere vive normalmente la sua condizione lavorativa. “È una forma di detenzione a tutti gli effetti anche la nostra - conclude l’infermiere - quando entriamo nel penitenziario lasciamo i nostri apparecchi elettronici e durante l’orario di lavoro, per almeno sei ore, vediamo le sbarre alla finestra esattamente come loro. Viviamo una condizione di isolamento, con il rischio di un burnout dietro l’angolo”. L’empatia allora, diventa fondamentale. Asti. Il progetto “Te piace ‘o presepe?” di Giuseppe Passarino Ristretti Orizzonti, 2 dicembre 2020 Il progetto “Te piace ‘o presepe?” è stato realizzato all’interno del carcere di Asti dall’Associazione Effatà con lo scopo di presentare e far conoscere la realtà carceraria, spesso nascosta o prefigurata da pregiudizi e stereotipi. Il progetto ha lo scopo di promuovere, attraverso azioni diverse, la conoscenza della vita dei detenuti e il contesto carcerario nel quale sono inseriti, valorizzando ciò che nell’Istituto viene realizzato. Si vorrebbe proseguire, in questo modo, un percorso che possa permettere ai detenuti di trovare nell’Associazione Effatà una risposta a quella necessità, mai sopita, di sentirsi, comunque parte di una società pur con l’obbligo della pena da scontare. I volontari di Effatà sperano anche di stimolare, per chi fosse particolarmente sensibile, l’avvicinamento al tema del volontariato penitenziario e intendono utilizzare l’iniziativa per raccogliere fondi per le attività dell’Associazione. Fatta questa premessa, se avete avuto la pazienza di leggere fin qui, ora tutto risulterà più interessante… perché potrete vedere nel file che vi allego i veri presepi artigianali napoletani, realizzati con una cura maniacale da alcuni detenuti. Uno in particolare è maestro in quest’arte, per cui gli abbiamo chiesto, non solo di condividere le sue capacità con i suoi compagni, ma di realizzare delle opere da poter esporre e poi successivamente anche mettere in vendita, per le finalità sopraesposte. Per il prezzo dovete concederci ancora qualche giorno perché abbiamo chiesto ad un esperto di valutarli perché chi li osserva possa rendersi conto di quanto valgono. Lasciamo poi a chi fosse interessato stabilire se quanto proposto sia equo, in ogni caso tutto quanto raccolto, dedotte i costi del materiale acquistato (che non è poco a cominciare dalla corteccia di sughero), sarà destinato ad attività fatte con i detenuti. Chi fosse interessato a vederli di persona può contattarmi, al 3476019907, li abbiamo depositati in uno spazio accessibile e visitabile in corso Felice Cavallotti, 52. I presepi non sono completati da statuine. Sono pochi pezzi unici e non ripetibili, che non è possibile trovare, realizzati con questa manualità, nemmeno nei negozi specializzati. *Associazione Effatà Vite rinchiuse e celle aperte: la biografia dello storico direttore di San Vittore di Piero Colaprico La Repubblica, 2 dicembre 2020 Gigi Pagano, ora in pensione, firma “Il direttore, quarant’anni di lavoro in carcere”: il resoconto di un mondo che ha vissuto spendendosi in prima persona. Dalla prefazione di Alfonso Sabella, magistrato, diventato anni fa il responsabile (a tempo) delle carceri italiane: “Gigi (...) mi fece girare un paio di sezioni dell’affollatissimo carcere meneghino dove si muoveva con la padronanza che può avere solo chi ci vive in una struttura così grande, fischiettando, quasi provocatoriamente, “Ma mì”, la storica canzone della mala milanese, e parlandomi esclusivamente delle persone che vi erano ristrette: “Vede, consigliè, Mario, quel guaglione della cella 2, era ascit’ due anni addietro, aveva ‘mparato a fare l’elettricista, ma ha ripreso a spacciare e lo hanno appena riacchiapat’, adesso sarà dura convincere il magistrato di sorveglianza. E ‘o signore anziano che sta con isso, era un ebanista bravissimo, ma poi per colpa d’o frate de la moglie”. Non so se Gigi conoscesse per nome tutti i 1.800 detenuti che c’erano in quel momento a San Vittore, ma certamente - scrive Sabella - conosceva le loro storie, criminali e personali, conosceva le loro emozioni, i loro turbamenti, le loro esigenze; e la mia mente, all’epoca, era ancora troppo ottusa e obnubilata di livore verso mafiosi e corrotti e corruttori che attentavano alla tenuta democratica del paese”. Gigi è Luigi Pagano e ha scritto Il direttore, quarant’anni di lavoro in carcere, edizioni Zolfo, 18 euro. Un saggio, un’autobiografia, un racconto? Uno strano cocktail di tutt’e tre le categorie, nel quale c’è il cuore di Pagano: c’è il resoconto di che cosa sia il carcere, un mondo che conosce davvero come le sue tasche, incastonato dentro il sistema Italia e le leggi che scandiscono i cambiamenti delle persone detenute. Specie agli esordi, la carriera di Pagano era stata parecchio movimentata. Sette sedi diverse in sei anni, dall’isola di Pianosa alla Taranto dei 150 morti ammazzati del clan Modeo. Ma il “direttore Pagano”, Gigi per moltissimi, è lo storico numero uno di San Vittore, ed era diventato un volto noto nell’epoca di Tangentopoli. E sebbene il suo non sia un libro di aneddoti, alcuni sono degni di una sceneggiatura. Per esempio, Pasquale Barra, detto ‘o Animale (Pagano non lo chiama mai così), ha ucciso (è il 1981) il boss milanese Francesco Turatello, Francis faccia d’angelo, nel supercarcere di Nuoro. Dietro le sbarre le “esecuzioni” tra detenuti in quei tempi non sono rare, in Italia si spara e si muore, il terrorismo rappresenta ancora un grave pericolo. E un giorno il pluriergastolano Barra chiede un colloquio con Pagano. Il killer della camorra comincia a parlare della vita dietro le sbarre, la tira in lungo, sussurrando in dialetto napoletano, e all’improvviso, a uno stupito Pagano, seriamente propone: “Dottò, voi mi togliete dall’isolamento e io ve ne ammazzo due, chi volete voi”. Si riferisce ai brigatisti rossi, c’era poco da scherzare: “No grazie, io queste cose non le faccio”, è la risposta glaciale. Pagano ha sempre goduto della reputazione di funzionario statale rigoroso, ma con la mente libera. A suo modo, uno che vuole cambiare le cose. Uno che “apre” alle idee, che non va per partito preso. Lo dimostra quando dirige il carcere di Brescia. Pochi forse ricorderanno l’episodio, ma avvenne un totale inedito nella storia della tv e delle carceri: ci fu una puntata del Maurizio Costanzo show dal palcoscenico di Canton Mombello. Pagano aveva letto che il conduttore cercava “palcoscenici diversi” e gli scrisse, offrendogli quello all’interno del carcere. Il grande critico tv Beniamino Placido su Repubblica scrisse: “Mercoledì sera abbiamo visto in televisione un bel pezzo di romanzo dell’Ottocento”. Si erano visti i detenuti con le loro storie, con i loro “fatti” e “Costanzo - scrive Placido - ne ha isolati alcuni e li ha portati a confessarsi”, smitizzando così l’idea dei mostri, della rotella guasta nella testa dei criminali. Il rischio che s’era assunto Pagano (era ministro della Giustizia Mino Martinazzoli, considerato uno dei migliori politici italiani) aveva stupito chiunque: tranne chi conosce “Gigi”. Da decenni infatti ripete un concetto che si fa sempre più diffuso. Anche se ancora oggi - basta leggere l’appello recentissimo di alcuni intellettuali - resta inapplicato: “Il trattamento è sicurezza”. E cioè, se il detenuto dietro le sbarre impara a fare qualcosa, se riflette su se stesso, se ha un dialogo con gli educatori, cala moltissimo la probabilità che torni a commettere reati. La società, se spende per le carceri, guadagna in sicurezza. Adesso Pagano è in pensione, ha finalmente trovato il tempo di scrivere questo mix di ricordi e di analisi. In America a uno come lui Hollywood avrebbe forse dedicato un film, in stile Brubaker (1980, con Robert Redfort). Da noi - siamo seri, lasciamo ad altri la retorica - è già tanto se uno così ha concluso la carriera senza ombre e senza troppi intoppi. E lo sottolineiamo con amarezza (soprattutto per tutti noi) e con un ricordo: quando i big della politica e dell’economia, durante la stagione di Mani pulite entrarono a San Vittore, conobbero “da dentro” le celle dell’istituto di piazza Filangieri, all’uscita giurarono che si sarebbero impegnati per rendere il carcere più civile. Poi, come accade, dimenticarono. Questo di Pagano invece è un libro che non dimentica. Un libro che mancava. Luigi Pagano, lo strano direttore che inventò il carcere normale di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 dicembre 2020 Storica guida di San Vittore e artefice dell’esperienza di Bollate, la sua è una storia fuori dal comune. Per lui la cella deve essere il posto dove si va a dormire ma non dove si vive. E in prigione bisogna poter studiare, lavorare, vivere relazioni sociali. Un tipo bizzarro per quelli secondo cui la galera serve solo a preservare la sicurezza. Ma i dati sulle recidive gli danno ragione. Colui che ha creato la prigione “normale”. Se non conoscessi da trent’anni Luigi Pagano, mitico direttore storico di San Vittore, l’inventore del carcere aperto di Bollate, colui che gestì con sapienza gli anni del terrorismo e quelli di “Mani Pulite”, mi basterebbe leggere la prefazione del magistrato Alfonso Sabella al suo libro (Il Direttore, Zolfo, 18 euro) per capire che la sua è una storia fuori dal comune. Tanto da aver, lui, quasi “convertito” un accanito “piemme antimafia”. Avevo cominciato a stressarlo fin da quando ero cronista giudiziaria al Manifesto e il carcere di San Vittore, dove ero anche stata “ospitata” per due giorni da detenuta, esercitava su di me uno strano fascino. Per la sua forma a stella, per la sua collocazione nel pieno centro di Milano. Un luogo che chiunque poteva vedere, quasi un pugno nello stomaco che ti obbligava a entrare in contatto con il mondo degli invisibili, degli ultimi. “Un pugnale nel cuore della città”, lo aveva definito un volantino anarchico agli inizi degli anni settanta, quando appetiti di varia sensibilità politica già cominciavano a ipotizzare il suo trasferimento in periferia per poi sfruttarne il preziosissimo territorio. Io ero una cronista di quelle che “scarpinano”, come si dice a Milano, e volevo sempre entrare, parlare con i detenuti, conoscere le loro storie. Sentivo una certa sintonia con questo direttore pieno di fantasia e di tentativi di cambiamento, ma anche inflessibile sulle regole. Io lo stressavo e lui mi respingeva. Finché un bel giorno, quando fui eletta in Parlamento, il primo telegramma non fu il suo: “Adesso può entrare quando vuole”. Ci davamo ancora del lei, ma eravamo già amici. Camminavamo nello stesso solco. E in carcere sarei tornata spesso, per tutta la mia vita di deputato. È una storia di amicizia, anche quella di cui parla il dottor Sabella nella prefazione. In poche pagine, costruisce una sorta di dialogo-scontro con il suo amico Gigi Pagano, quasi che il libro fosse la storia di due vite parallele che forse, ma solo in parte, si incrociano alla fine. Sicuramente si sono avvicinate nel rapporto personale, ma solo un pochino nel pensiero che sta dietro al pensiero stesso dell’esistenza del carcere, della sua sostanziale inutilità nel non detto di Pagano, nell’incubo delle stragi mafiose come condizionamento perenne di chi, insieme a tanti, pensò solo di “gettare le chiavi” nel credo assoluto di Sabella. Uno, che ancora oggi ama definirsi “piemme antimafia”, senza farsi sfiorare dal dubbio che il magistrato debba occuparsi di fatti e persone e non di fenomeni. L’altro che inventa un carcere, quello di Bollate, che parte dal principio che la cella debba essere il luogo dove si va a dormire, ma non quello dove si vive. Carcere aperto, con luoghi dove si studia, dove si lavora, dove si fa sport, dove si vivono relazioni sociali. Termini come “trattamento” e “lavoro penitenziario”, insieme alla sollecitazione di favorire i rapporti del detenuto con i familiari e l’esterno erano accolti ancora con un po’ di diffidenza da coloro che inaugurarono, alla fine degli anni novanta, il carcere di Bollate ma anche l’interminabile stagione dei “piemme antimafia” alla direzione delle carceri italiane. Così, mentre a Milano il gruppo delle teste pensanti (Pagano ricorda il provveditore regionale Felice Bocchino e il commissario Antonino Giacco) lancerà, sulla scia del nuovo ordinamento penitenziario, il “Progetto Bollate”, a Roma arrivavano al Dap i pubblici ministeri Caselli e Sabella. Magistrati con ancora negli occhi e nelle orecchie le auto esplose di Falcone e Borsellino e la soddisfazione di applicare tanti 41bis e poi gettare le chiavi. Erano anni in cui, un po’ come in una certa cultura di oggi, la prigione era vista solo come luogo in cui preservare la sicurezza, lontani mille miglia dalla stessa cultura dell’articolo 27 della Costituzione. Quelli come Gigi Pagano erano considerati tipi un po’ strani, come minimo ingenui sognatori che non capivano che certi delinquenti, assassini e autori di stragi, non sarebbero cambiati mai. La storia di Bollate (quella che di recente un “ignorante” come Nicola Gratteri ha definito “solo uno spot”), ma anche di San Vittore, di Opera, di Rebibbia, hanno dimostrato il contrario. E bastano i dati sulle recidive a dimostrarlo: chi in carcere ha potuto studiare, lavorare, mantenere i rapporti con l’esterno, quando torna a casa non delinque più. In otto casi su dieci, dicono le statistiche. Chi viene tenuto in cattività invece non cambia, e torna a delinquere in otto casi su dieci. La percentuale è perfettamente speculare e invertita. “Il rispetto della dignità del detenuto finisce dunque per produrre sicurezza”, scrive Pagano nel suo libro. E ricorda che Bollate fu inaugurato due volte. La prima nel 2001 dal ministro del governo di sinistra Piero Fassino, che arrivò accompagnato dal capo del Dap Giancarlo Caselli, e subito dopo le elezioni che si tennero quell’anno e che vennero vinte dal centro-destra, dal neoministro Roberto Castelli e il nuovo capo del Dap Giovanni Tinebra. La filosofia del “carcere normale” di Bollate è stata poi riversata, per quel che era possibile alla diversa struttura, su San Vittore, dove esiste tuttora l’esperienza della “Nave” per i tossicodipendenti, e nella creazione dell’Icam, l’Istituto a custodia limitata per le madri detenute con i bambini che spostava il nido dal carcere a un luogo esterno e separato. A oggi, purtroppo, di legge in legge, di ministro in ministro, ci sono ancora bambini in carcere. Cosa di cui Pagano, ormai in pensione, si rammarica. E benché tutti i guardasigilli promettano, non pare ci siano in Parlamento e al Governo serie intenzioni di risolvere il problema che per primo proprio a Milano aveva sollevato il direttore Pagano. Ci sono anche ricordi brutti, in questo libro. C’è la storia di Gabriele Cagliari, suicida la mattina del 20 luglio 1993, una giornata in cui l’intero carcere, dopo lunghi minuti di silenzio, si fece sentire con pianti e battiture dei cancelli. E poi, alla fine del giorno, un altro detenuto, Zoran Nicolic di trent’anni, fu trovato impiccato. Ma non era stato meno brutto quel 1992, “l’anno che cambiò l’Italia”, per quelle due bombe mafiose che squassano ancora oggi la nostra memoria e per quel che ne seguì. A San Vittore le conseguenze del famoso decreto Scotti-Martelli, che bloccava qualsiasi beneficio penitenziario ai condannati per i reati più gravi salvo che a vecchi e nuovi “pentiti” ebbe un effetto devastante. “Il giorno dopo a San Vittore - scrive Pagano - ci svegliammo circondati da agenti di polizia e carabinieri che avevano presidiato ogni varco del carcere. Tutti coloro che uscivano, agenti compresi, venivano identificati e i detenuti, quelli che si recavano come ogni mattina sul posto di lavoro, furono arrestati e portati in caserma”. A tutti veniva chiesto se intendessero collaborare. La richiesta veniva fatta a persone in carcere da decenni! Ricordo personalmente due detenute di una certa età, che lavoravano nella sartoria sia all’interno che all’esterno di San Vittore e che vent’anni prima erano state vivandiere al fianco dei mariti nei sequestri di persona. Che cosa avrebbero potuto raccontare che non si sapesse già? Purtroppo le conseguenze nefaste di quel decreto, che fu convertito in legge dal Parlamento non senza molti patemi d’animo e con cui tra l’altro fu introdotto l’ergastolo ostativo, furono un grande favore alla criminalità organizzata. Servirono a fiaccare ogni proposta riformatrice, a spegnere le speranza di coloro che, come Pagano, lavoravano per quel “carcere normale” così innovativo e utile per la società. Ma, come scrive il dottor Sabella nella prefazione del libro, “Gigi non ha un fisico imponente ed è molto garbato nei modi, ma sa essere un vero gigante con una determinazione di ferro”. Infatti, pochi anni dopo, la storia ha svoltato, è diventata Storia con la esse maiuscola. Vista, come dice ancora Sabella, “attraverso le sbarre delle prigioni e con gli occhi di quell’umanità che le aveva popolate. È a quelli come lui, oltre che ai giovani naturalmente, che va dedicato questo libro. A tutti gli uomini e le donne del mondo della giustizia, perché, attraverso la comprensione del “carcere normale”, capiscano che dietro alla condanna, prima della prigione, c’è il processo. E anche questo, con l’ispirazione di storie come quella di Pagano, dovrebbe diventare “normale”. Sarebbe ora. “La voce degli invisibili”: il fumetto che racconta l’umanità in carcere di Giusy Santella mardeisargassi.it, 2 dicembre 2020 L’invisibilità è un superpotere nei fumetti. Nella realtà, invece, rende impotenti, elimina la carne, nasconde l’anima. X è un uomo invisibile e i suoi diritti non hanno una voce. Si apre così “La voce degli invisibili”, il fumetto frutto del progetto di volontariato carcerario che l’Ex Opg ‘Je so pazz ha portato avanti da marzo 2019 all’interno della Casa Circondariale di Poggioreale, a Napoli, e che verrà presentato sulla pagina FB dell’associazione venerdì 4 dicembre alle 18:30. Il progetto ha visto la luce nell’ottobre 2018, dopo una proiezione pubblica di Sulla mia pelle, il film che racconta le violenze e gli abusi di potere perpetrati ai danni di Stefano Cucchi. L’indignazione per quanto avvenuto in quell’occasione - e troppo spesso accade mentre si è sotto la custodia dello Stato - ha spinto un gruppo di persone molto diverse tra loro a riunirsi e iniziare un dibattito costante sulla deriva del sistema penale e penitenziario degli ultimi anni, oramai divenuto artefice di afflizioni e sofferenze. Un sistema penale che non infligge pene ma punizioni, che disumanizza e aliena, non tenendo fede a neppure una delle funzioni assegnategli dalla Costituzione. Così, a partire da marzo 2019, i volontari hanno incontrato ogni settimana un gruppo di detenuti del Padiglione Genova e, ribaltando le logiche assistenzialistiche che caratterizzano il volontariato, hanno costruito con loro un percorso di coscientizzazione e dibattito su tematiche di attualità, creando un ponte tra ciò che accade all’interno delle mura del penitenziario e l’esterno, ricordando sempre che i reclusi sono parte integrante di una società e di un territorio che troppo spesso li respingono. La voce degli invisibili nasce quindi come strumento scelto dagli stessi detenuti per portare la loro voce fuori, per raccontare tutto ciò che rende il carcere un’istituzione che in questo momento non solo non mantiene la promessa rieducativa sancita dalla Costituzione, ma che è dannosa per chi vi entra poiché capace esclusivamente di infliggere sofferenze. Tutto ciò è stato possibile attraverso le mani di quattro bravissimi artisti che hanno trasformato in immagini le confidenze, i racconti e le emozioni dei detenuti: innanzitutto Kevin Scauri, napoletano, fondatore del collettivo e self-publisher Sciame, selezionato da Comicon - con cui ora collabora - come talento esordiente per Futuro Anteriore, che ha raccontato con immagini davvero suggestive la metamorfosi che ciascun uomo affronta quando entra in carcere, trasformandosi in mostro. È mostro da un lato perché ha bisogno di una corazza, di diventare spigoloso, di resistere ai colpi che quotidianamente gli vengono inflitti; dall’altro perché è questa l’immagine che assume agli occhi della società che smette di vederlo come un uomo. Il secondo episodio del fumetto è stato invece curato da Nova, artista abruzzese che collabora con il progetto Tinals - This Is Not A Love Song, che si è occupata del diritto all’affettività delle persone recluse. Ha reso, con una sensibilità disarmante, i racconti riguardanti i colloqui, le disumane file, gli abbracci mancati e la resistenza delle famiglie, perché chi fa la fila fuori dev’essere forte pure per chi sta dentro. Maurizio Lacavalla, fondatore di Sciame Press, ha invece reso, con colori scuri e un’amara ironia, tutte le problematiche riguardanti la sanità e la violazione dell’integrità fisica e psichica dei detenuti che si consuma all’interno delle mura dei penitenziari. Infine, Gianluca Manciola (Jazz), fondatore del collettivo Czbbl, ha affrontato il reinserimento post pena e l’impossibilità per chi esce dal carcere di liberarsi dello stigma di criminale e mostro che porta con sé. Il fumetto è poi completato con quattro inserti informativi curati da chi quotidianamente si occupa di carcere, a difesa dei diritti delle persone private della libertà personale: don Franco Esposito, cappellano della Casa Circondariale di Poggioreale e fondatore dell’Associazione di volontariato carcerario Liberi di Volare Onlus - che offre un’alternativa alla reclusione e un modo diverso di scontare la propria pena - ha approfondito il tema del pregiudizio e dello stigma sociale. Daniela Lourdes Falanga, presidentessa della storica associazione Arcigay Antinoo Napoli, si è invece occupata del diritto all’affettività e della necessità che esso sia realmente rispettato, liberandolo da qualsiasi intento punitivo. Infine, l’Associazione Antigone Campania ha elaborato due interessantissimi inserti riguardanti la sanità in carcere - definito fabbrica di malattie - la difficoltà del reinserimento post pena e la conseguente recidiva, che raggiunge tassi altissimi. Gli autori e i rappresentanti delle associazioni saranno presenti, insieme ai volontari, al collegamento che si terrà il 4 dicembre e racconteranno la loro esperienza personale e il punto di vista sull’istituzione carceraria e sulla necessità di parlarne in questo momento storico. Tutti loro, infatti, hanno ritenuto necessario lanciare il fumetto e focalizzare l’attenzione sul tema carcere adesso, pur dovendo rinunciare alla più sentita modalità in presenza, perché la pandemia ha messo in evidenza tutte le criticità e le falle del sistema. Riportare al centro del dibattito il carcere, superarne la necessità, ottenere una pena dignitosa: questi saranno solo alcuni dei temi trattati durante la presentazione… non perdetevela! La nostra anarchia di Stato di Sabino Cassese Corriere della Sera, 2 dicembre 2020 La dialettica istituzionale tra governo e regioni si mescola con quella politica tra maggioranza e opposizioni. I rapporti tra poteri pubblici sono “anarchia di Stato” (Tremonti, La Verità, 16 novembre); i conflitti Stato - regioni hanno “creato confusione e conflitti istituzionali” (Berlusconi, Corriere della Sera, 15 novembre); “molte cose non hanno funzionato nella catena di comando” (Casellati, Il Sole 24 Ore, 15 novembre). Perché tanta babele nelle nostre istituzioni? All’origine, si è imboccata la strada sbagliata. La Costituzione riserva la profilassi internazionale esclusivamente allo Stato. Nonostante che il virus non rispetti i confini regionali, si è preferito, invece, riconoscere competenze concorrenti a Stato e regioni. Ma questo avrebbe richiesto di far funzionare la collaborazione tra centro e periferia, perché i grandi servizi a rete, innanzitutto quello sanitario e quello scolastico, sono definiti dalle leggi “nazionali”. Ciò richiede che nessuno si ritenga proprietario esclusivo, ma che tutti concorrano a deliberare ed eseguire insieme. Aperta la strada alle troppe voci, i protagonisti, alla ricerca di popolarità, hanno cominciato a battibeccare, confliggendo invece che cooperando, con un tira e molla che ha prodotto incertezza e stupore nell’opinione pubblica. A questo punto, sul primo errore, che ha provocato il secondo, se n’è innestato un terzo: la proposta di ritornare a riformare la Costituzione, o riportando la sanità nella competenza esclusiva dello Stato centrale, o introducendo nella Costituzione una clausola di supremazia statale in caso di emergenza. Ma questa è una strada irrealistica, sia perché le modifiche costituzionali sono difficili da realizzare, sia perché la sanità rappresenta circa due terzi delle risorse finanziarie regionali e più della metà del loro potere lottizzatorio, e le regioni farebbero quadrato contro la riforma. L’impasse è stata accentuata dalla diversità del sistema politico regionale rispetto a quello statale. Il primo è d’impianto presidenzialistico, il secondo è rimasto a struttura parlamentare. Ne è derivata una asimmetria tra centro e periferia: il centro dovrebbe dettare i principi e le linee guida, e determinare i livelli essenziali delle prestazioni, ma è la parte più debole, perché si esprime con troppe voci; le regioni sono dominate dai loro presidenti (non a caso chiamati, erroneamente, governatori). Su questo succedersi e accavallarsi di errori si è innestata una ultima fonte di confusione. Come è noto, il Parlamento dovrebbe essere il luogo del dialogo-conflitto tra governo e opposizioni. Ma, in una situazione nella quale le regioni sono per tre quarti nelle mani dall’opposizione, il governo preferisce dialogare e confliggere con le regioni, sia perché queste sono a loro volta divise, sia perché riesce ad ottenere un altro beneficio, quello di mettere su un binario morto il leader dell’opposizione. Il governo centrale così ottiene un vantaggio (perché dialoga direttamente con i presidenti regionali, tra cui vi sono i potenziali concorrenti del leader dell’opposizione), ma con un costo molto alto per le istituzioni, perché svuota il Parlamento (la dialettica maggioranza-opposizioni non si svolge né a Montecitorio né a Palazzo Madama) e mescola la dialettica istituzionale Stato-regioni con quella politica maggioranza-opposizioni. Ma - per usare una frase attribuita a Richelieu - il disordine del regno è utile all’ordine del re. Questo intersecarsi ed intrecciarsi di errori e interessi di parte aumenta l’oscurità della politica, perché la società civile è oggi, più che in altri momenti, attenta al moto oscillatorio, alle tattiche, agli artifici retorici usati per nascondere interessi ed errori, con la conseguenza di aumentare quel distacco tra società e governo, tra Paese reale e Paese legale che è segnalato da anni dalla diminuzione della partecipazione politica. Per uscire da questo labirinto, c’è un solo modo realistico. Occorre rendersi conto che la divisione dei compiti tra le istituzioni non vuol dire che esse non debbano lavorare insieme. La separazione delle funzioni non impedisce che Stato e regioni cooperino, si mettano d’accordo. Una lezione viene ancora una volta dalla vicina Germania, dove l’articolo 91 della Costituzione prevede che su alcuni compiti comuni “Bund” e “Länder” decidano insieme, impegnandosi a cooperare anche nell’esecuzione. Questa collaborazione sarebbe necessaria anche in Italia, perché - lo ripeto - le leggi istitutive del Servizio sanitario e del Sistema scolastico recano ambedue l’aggettivo “nazionale” proprio per sottolineare che essi non sono nel dominio esclusivo dello Stato o delle regioni, e che, quindi, Stato e regioni debbono congiuntamente farsene carico, collaborando. Cyber crime, chi protegge l’identità digitale? I guardiani della Rete 5G di Fabio Sottocornola Corriere della Sera, 2 dicembre 2020 L’immagine è sempre quella di un’autostrada delle informazioni: ciascuno vi può entrare, viaggiare, scambiare dati. Ma insieme con il 5G adesso arrivano due novità destinate a mutare ogni scenario. Anzitutto, la grande velocità nei tempi di risposta, che in gergo si chiama latenza e viene misurata in millesimi di secondo. Poi, l’aumento esponenziale dei punti da cui è possibile entrare in questa autostrada tech: non più solo via smartphone ma con ogni apparecchio indossabile (per esempio, gli orologi). E saranno connessi anche gli elettrodomestici o i macchinari nelle fabbriche. Per non parlare dei progetti ai quali lavora il mondo del business, dalla logistica al sanitario passando proprio per l’industria. Ecco perché gli esperti hanno già lanciato l’allarme: si moltiplicano i rischi legati alla cyber-sicurezza, con intrusioni di hacker esperti. Esplode il mercato del cyber-crime - Esplode il mercato del cyber-crime che si affida a “ransomware”, cioè “malware”, programmi informatici di disturbo, creati per penetrare le reti aziendali e infettarle. I rischi nel dark web Obiettivo di chi opera nel “dark web”, nella rete profonda, è farsi pagare un riscatto, magari sotto forma di bitcoin, la moneta virtuale. Oltre al furto di soldi, si registrano furti di proprietà intellettuale. Lo sviluppo delle infrastrutture 5G nel mondo dell’healthcare consentirà di progettare sistemi di telemedicina, dai dispositivi che erogano insulina fino a interventi in telechirurgia. Che cosa succederebbe se qualche cyber criminale entrasse nel sistema? E ancora: un accesso furtivo sarebbe in grado di bloccare per giorni la produzione dentro una Factory 4.0 con macchinari connessi.E quali rischi corrono le nostre città impegnate nello sforzo di diventare sempre più “smart”? Le risposte - Il furto di identità digitali aumenta in maniera notevole. All’opera per trovare risposte efficaci ci sono istituzioni e privati, come Cisco il colosso americano che a Milano ha aperto un centro di co-Innovazione presso il Museo della Scienza Leonardo da Vinci. “Siamo attivi su ciò che serve al 5G per funzionare: prima di tutto un livello di filiera, quindi garantiamo la sicurezza dal disegno di tutti gli apparati fino alla loro installazione, al fatto che non ci siano prese di controllo da parte di terzi. Un progetto di security intrinseca su cui siamo molto impegnati”, spiega Paolo Campoli, vice president, global service provider leader del gruppo a livello mondiale. Garanzia della privacy dei cittadini, sicurezza nell’Internet delle Cose, protezione delle infrastrutture nazionali: sono gli aspetti chiave su cui opera il centro milanese, che si propone anche come spazio aperto al territorio: saranno offerti corsi a giovani o a chi vuole ampliare le proprie competenze. Secondo Campoli, una delle novità più interessanti in arrivo si chiama “edge cloud”: riguarda la necessità che le informazioni e i dati siano gestiti molto vicino al cliente per non disperdere i vantaggi del nuovo protocollo. Campoli prevede che nasceranno servizi (e tante startup innovative) capaci di sfruttare al meglio le potenzialità della tecnologia. Ma una nuova vitalità di business potrà riguardare anche le “tower company”, torri dove sono ospitate le antenne per il 5G che forniscono grande capacità di calcolo proprio per le funzioni in cloud. E quindi riescono ad essere sempre più vicino al cliente. Con Tim - Si torna al tema della sicurezza. Sempre Cisco ha messo in campo una soluzione, realizzata con Tim, che preventivamente blocca la navigazione degli utenti sui siti malevoli che potrebbero rubare informazioni. Come funziona? Vengono uniti i sistemi Dns di Tim (in pratica i nodi della rete) con la piattaforma Cisco Umbrella, che ogni giorno intercetta e stoppa 20 miliardi di possibili minacce sul web mondiale. Il presidio fisico è fatto da molti data center distribuiti in varie città, compresa Milano. Su questo fronte opera anche Accenture che, per conto di grandi clienti, realizza test e simulazioni di attacchi cyber “in particolare nel nostro centro a Praga”, spiega Paolo Dal Cin, security lead per l’Europa, “e stiamo supportando le aziende a progettare i nuovi servizi in un’ ottica di sicurezza by design”. Ma anche l’Italia non sta ferma, ricorda l’esperto. Palazzo Chigi - La normativa che recepisce quella europea ha previsto un elenco di 150 aziende strategiche nel perimetro di sicurezza nazionale. Queste aziende dovranno segnalare tutti i tentativi di accesso fraudolento al Csirt, il Computer security incident response team, presso la presidenza del Consiglio. “A differenza dell’Europa dove l’obbligo scatta dopo 24 ore dal fatto, in Italia questo limite è di 6 ore. Non si può aspettare oltre”, spiega Dal Cin. È la normativa più stringente in Europa. Quando si parla di sicurezza, è impossibile non alzare lo sguardo verso uno scenario ampio: lo scontro in atto tra gli Usa e la Cina con le vicende che hanno messo la Huawei nel mirino, accusata di operare una sorta di spionaggio a favore di Pechino. Ovviamente, con il 5G i rischi aumentano. Ma dentro questa guerra, uno sviluppo nuovo arriverà dalle tecnologie, spiega Antonio Capone, che al Politecnico di Milano è il dean della Scuola di Industriale information engineering. Persa la partita del 5G, gli Usa e l’Europa “sono orientati al 6G e sponsorizzano in maniera forte l’adozione di applicazioni open source per la nuova tecnologia”. Sistemi e codici accessibili. A parere del professore potrebbe essere questa la contromossa che l’Occidente mette in campo rispetto alle ambizioni della Cina. Cannabis all’Onu. Oggi cadrà il tabù? di Leonardo Fiorentini e Marco Perduca Il Manifesto, 2 dicembre 2020 La Commissione droghe delle Nazioni unite (Cnd) potrebbe prendere una decisione storica sulla pianta più usata, tra quelle considerate stupefacenti. La sessione della Commissione droghe delle Nazioni unite (Cnd), che si apre oggi potrebbe segnare l’inizio di una nuova era del controllo internazionale degli stupefacenti. In agenda c’è infatti il voto su sei raccomandazioni che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Oms, ha adottato qualche anno fa e che vogliono ricollocare la cannabis all’interno delle quattro tabelle che dal 1961 classificano piante e derivati psicoattivi a seconda della loro pericolosità. Potrebbe quindi trattarsi di una decisione storica, se non fosse che la storia di quelle piante è millenaria e se non fossimo a quasi sessant’anni dall’avvio di leggi e politiche che negli anni Settanta hanno militarizzato la guerra alle droghe. Accettare le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) vorrebbe dire riconoscere quanto la scienza dice da decenni relativamente ai possibili impieghi terapeutici della cannabis. E prendere atto del fatto che i rischi per la salute e l’ordine pubblico posti dalla pianta proibita sono minimi, e legati per l’Oms non tanto alla pianta in sé quanto all’essere la sostanza più diffusa. Dalla metà degli anni 90 nel mondo l’atteggiamento nei confronti della cannabis è progressivamente cambiato, specie negli Usa. Ha iniziato la California legalizzando la medical marijuana. Negli ultimi 10 anni siamo arrivati a oltre 30 stati che ne consentono la prescrizione terapeutica e una quindicina che l’hanno regolamentata del tutto. Siamo lontani dalle decisioni strutturali a livello nazionale di Uruguay e Canada - che hanno legalizzato la pianta per tutti gli usi - ma il progresso è significativo. In Europa si va invece molto a rilento e con alti e bassi: la depenalizzazione inizia a farsi strada, ma il terrore del decriminalizzare l’uso della cannabis resta diffuso. Una prima risposta a questi timori ancora ben radicati è stata data il 19 novembre dalla Corte europea di giustizia dell’Ue che, bontà sua, ha chiarito definitivamente che il Cbd, uno dei principi attivi della cannabis, non è da considerarsi come stupefacente. Non avendo effetti psicoattivi non va trattato come il Thc, e può esser commerciato all’interno dell’Unione, se uno Stato membro ne consente produzione e vendita. In questo scenario l’Italia si colloca in una strana posizione: dal 2007 consente la prescrizione di cannabinoidi terapeutici, dal 2015 produce infiorescenze con Cbd e Thc, ha progressivamente allentato le regole per le condizioni per cui la cannabis è utilizzabile (la rimborsabilità dipende dalle regioni) e in alcune università, come a quella di Modena e Reggio Emilia siamo all’avanguardia nella ricerca. Ma se la scienza progredisce, pure coi problemi dovuti allo stigma e al disinteresse pubblico, la politica quando può rallenta o ostacola il processo riformatore. Dopo aver ri-legalizzato la canapa industriale nel 2016 il quadro normativo è rimasto vago e spesso in preda alle isterie dei Ministri di turno. La mancanza di formazione e informazione ha fatto sì che i piani terapeutici a base di cannabis siano l’eccezione e non la regola, là dove invece la letteratura scientifica ne conferma l’efficacia. Mentre il monopolio pubblico (in capo al Ministero della Difesa!) non riesce a soddisfare il fabbisogno nazionale in termini di quantità e qualità. Per strani meccanismi consolidati l’importazione diretta viene consentita solo dall’Olanda mentre il resto dell’approvvigionamento avviene, con mille problemi, previe gare d’appalto d’emergenza gestite attraverso lo Stabilimento farmaceutico militare di Firenze. Oggi i canali social di Fuoriluogo racconteranno cosa succede alla Cnd con due live streaming a commento del dibattito: dalle 11 alle 13 e poi dalle 15. Il voto sulle raccomandazioni dell’OMS è previsto in tarda mattinata o nel primo pomeriggio; alle 18,30 ci saranno approfondimenti su tutto quanto ruota attorno alla cannabis a partire dalla sentenza della Corte di Lussemburgo sul Cbd. Mai sicurezza fine a sé stessa. Una seria e grave lezione francese di Mario Chiavario Avvenire, 2 dicembre 2020 Infiamma la Francia un progetto di legge, d’iniziativa di deputati di La République en Marche, partito fondato da Emmanuel Macron e cardine del Governo in carica. Intitolato alla “sicurezza globale”, è fortemente contestato in molte sue parti, ma principalmente in quell’articolo 24 che sanziona con pene severe (un anno di reclusione e 45.000 euro di multa) chiunque diffonda, allo scopo di ledere l’integrità fisica o psichica di membri delle forze dell’ordine impegnati in operazioni di polizia, le loro immagini o altri elementi identificativi. Il testo, fortemente voluto dai sindacati di polizia e appoggiato anche dall’estrema destra lepenista, ha suscitato severe opposizioni in tutte le pur varie anime della sinistra parlamentare ma lascia perplessi persino parecchi parlamentari della maggioranza. Nel Paese, manifestazioni e scontri di piazza, e prima ancora aspre e diffusissime critiche nel mondo dei giuristi, in nome, soprattutto, della libertà d’informazione. Il Governo transalpino ha giustificato in via di principio il progetto ricordando ricorrenti episodi di minacce e di attentati all’incolumità di poliziotti, cui avrebbe fatto da supporto la facilità dell’uso dei moderni mezzi di comunicazione per la diffusione di immagini e segni caratteristici. Quanto alle critiche degli oppositori, si muovono su due piani. Da un lato, si sostiene che a fronteggiare tutto ciò debbono bastare gli ordinari strumenti della repressione penale (che già puniscono gli atti diretti a minacciare o a ledere l’incolumità o l’onore degli stessi). Dall’altro, si sottolinea il rischio - emerso in trasparenza anche da alcune incaute dichiarazioni del ministro dell’Interno - che ci si serva della nuova e ‘specialè norma incriminatrice per legittimare le prassi, purtroppo già assai spesso constatate, dei sequestri preventivi di cellulari e di altri mezzi di riproduzione d’immagini durante lo svolgimento di manifestazioni; con la conseguenza, non solo di impedire una corretta ed esauriente informazione al pubblico attraverso i media, ma altresì di distruggere prove altrimenti utilizzabili in eventuali processi penali a documentazione di abusi di potere. Delle criticità sembra in parte essersi reso conto lo stesso Governo Castex, facendo inserire in extremis, prima dell’approvazione del testo da parte dell’Assemblea Nazionale, alcuni emendamenti, a dire il vero non troppo rassicuranti (con uno si fa genericamente salvo dall’essere pregiudicato ‘il diritto d’informarè, con un altro si esige che lo scopo lesivo della diffusione dei connotati identificativi sia ‘manifesto’); e annunciando ora la riscrittura del cruciale articolo 24. Ma resta forte l’inquietudine. Certo, questo non è che uno dei tanti sintomi di una tensione, da sempre esistente e che in parte è inevitabile e neppur di per sé negativa, tra i due valori della (o, meglio, delle) libertà e della sicurezza, pur nella consapevolezza che nessuno di due può essere considerato assolutamente intangibile. Non è peraltro un caso che libertà e sicurezza si trovino di solito affiancate strettamente nelle più autorevoli ‘Carte dei diritti fondamentali’ prodotte nel mondo contemporaneo, sino a farle apparire come i due elementi di un binomio inscindibile. “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza”: così, tra gli altri, esordisce l’art. 5 della Convenzione europea dei diritti umani, valida dagli anni Cinquanta del secolo scorso nell’ambito del Consiglio d’Europa (47 Stati) e il testo è ripreso alla lettera nell’art. 6 della più recente Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (27 Stati). Nella medesima Convenzione, più specificamente, gli artt. 9, 10 e 11, nel ribadire come fondamentali le più classiche libertà pubbliche (di coscienza, di associazione, di riunione) ne contrappuntano la tutela dando alla ‘sicurezza’ della collettività un ruolo di potenziale fattore di deroga a certe loro concretizzazioni. Non senza, però, ancorare possibili limiti o eccezioni al rispetto di ciò che implica l’appartenenza a una ‘società democratica’. E la Corte europea di Strasburgo, cui spetta garantire l’applicazione di questa regola, non manca di esigere che quei limiti e quelle eccezioni si mantengano in rapporto di stretta proporzione con il sacrificio che ne deriva alle libertà fondamentali. Due punti, tra gli altri, dovrebbero comunque essere fuori discussione. E non solo in Francia. Primo. La sicurezza non può mai essere addotta a scusante di comportamenti violenti da parte di chi la sicurezza è chiamato a tutelarla. Tanto più quando siano ispirati da sentimenti ignobili come il razzismo: il pestaggio del produttore musicale al grido di “sporco negro” da parte di quattro agenti, che ha ulteriormente arroventato le piazze al di là delle Alpi e scatenato indignazione in tutto il mondo, ne ha dato, proprio in questi giorni, un eloquente, e purtroppo ennesimo esempio. Secondo. La sicurezza è un bene comune; non solo di una parte delle persone che ne escluda a priori altre. Ma gli esempi di quanto si faccia fatica ad accettare questo postulato sarebbero a loro volta innumerevoli. Proviamo a proporne uno, in forma di domanda retorica, tra quelli che meno si ama ricordare? Siamo proprio certi che per la buona (?) coscienza delle nostre società la sicurezza sanitaria - specialmente in tempi di Covid-19 - valga pure per i detenuti, dato ‘quel che han fatto’? L’ultima beffa egiziana, quelle bugie su Regeni sono uno schiaffo all’Italia di Antonella Napoli Il Dubbio, 2 dicembre 2020 È stata l’ultima beffa egiziana, un oltraggio alla verità che non ha sorpreso nessuno. Ma non per questo fa meno male. I procuratori del Cairo, chiamati in causa dai colleghi di Roma pronti a chiudere l’indagine sul rapimento e l’uccisione di Giulio Regeni, il ricercatore trovato morto il 3 febbraio del 2016 in un fosso lungo la strada che da Giza si estende fino ad Alessandria, hanno avanzato “riserve” sul lavoro della nostra magistratura. Uno schiaffo che colpisce in piena faccia non solo gli inquirenti e la famiglia Regeni, ma lo Stato italiano. Giulio Regeni è e resta una ferita aperta che segna un popolo intero. Non è una “questione di famiglia”. È un fatto che pesa sulla dignità di tutti noi. E il nostro governo non può più cercare scappatoie. Per dirla con le parole di Paola e Claudio, pur apprezzando la risoluta determinazione della Procura di Roma che ha concluso le indagini “senza farsi fiaccare né confondere dai numerosi tentativi di depistaggio, dalle interminabili dilazioni e dalle mancate risposte egiziane”, è inevitabile la presa d’atto dell’ennesimo incontro infruttuoso tra le due procure. Senza nessuna sorpresa, ribadiamo. La plateale assenza di collaborazione da parte del regime, che non ha mai risposto alla rogatoria del 29 aprile 2019 e non ha fornito, come chiesto dagli inquirenti italiani, l’elezione di domicilio dei 5 funzionari della National Security iscritti nel registro degli indagati due anni fa, ha causato in questi 5 anni di ricerca di verità e di giustizia per Giulio Regeni ogni genere di affronto e offesa da parte di uno Stato che ha permesso il sequestro, la tortura e l’uccisione di un cittadino italiano. A rendere ancora più grottesca questa vicenda, oltre alla ostinata negazione di quanto avvenuto, è il tentativo, rinnovato in queste ore, di gettare discredito sul ricercatore friulano. E insistiamo. Non è solo un oltraggio alla famiglia ma un totale disprezzo della dignità di un intero Paese. Lo Stato italiano oltre alla mancata collaborazione degli inquirenti e dei giudici egiziani, subisce anche l’umiliazione del giudizio negativo sul quadro probatorio delineato dalla nostra Procura, rispedito al mittente con la riproposizione oscena del più eclatante dei depistaggi messi in atto per deviare l’attenzione dai veri responsabili: a sequestrare Giulio Regeni, per i magistrati del Cairo, furono cinque rapinatori uccisi durante un blitz. Innocenti spacciati per artefici dell’infausto destino del 28enne di Fiumicello. Una assoluta mancanza di rispetto nei confronti non solo della nostra magistratura ma anche dell’intelligenza di tutti gli italiani. La risposta ufficiale della procura generale d’Egitto, sostenendo che l’esecutore materiale dell’omicidio di Giulio Regeni sia ancora ignoto, è dunque la chiusura delle indagini con l’impianto iniziale ampiamente contestato dai nostri inquirenti che non hanno potuto far altro che prenderne atto. Eppure, leggendo i report sulle torture e le violazioni dei diritti umani perpetrate in Egitto, un colpo allo stomaco metaforico di inaudita violenza, che diventa quasi dolore fisico, è evidente che i sistemi utilizzati sui detenuti egiziani siano gli stessi che hanno lasciato segni sul corpo di Regeni. Le testimonianze raccolte da un ricercatore al Cairo di Human Rights Watch, Mark Spencer (il nome è fittizio per tutelarne l’anonimato, fondamentale per la sua sicurezza), su decine e decine di episodi di tortura, non lasciano adito a dubbi. Un dettagliato resoconto sulle pratiche adottate dai servizi segreti per costringere oppositori, attivisti, giornalisti - o come nel caso di Regeni, cittadini stranieri sospettati di spionaggio o di atti che potessero mettere a repentaglio la sicurezza nazionale - a confessare le proprie “colpe”. In particolare, la sua attenzione è stata focalizzata su una ventina di prigionieri sotto la custodia di uomini della National Security che, dopo la rivoluzione del 2011, ha cambiato denominazione ma ha mantenuto lo stesso modus operandi. Anzi, sottolinea il report, la situazione è addirittura peggiorata rispetto ai tempi di Mubarak. In base alle informazioni che ha potuto acquisire dai detenuti egiziani, confrontandole con quelle relative al caso Regeni, il ricercatore ha concluso che a perpetrare le sevizie sia sui primi che su Giulio siano stati gli stessi uomini dell’agenzia di sicurezza nazionale. In Egitto esiste un unico “canale giudiziario diretto” che va dall’arresto alla condanna, passando per le torture finalizzate a estorcere ammissioni di colpevolezza spesso a chi non ha nulla da confessare. Si passa dalle percosse all’applicazione di elettrodi per indurre scosse elettriche, alla minaccia di stupro, compiuto anche con spranghe di ferro. Tali procedure, per Human Rights Watch, sono interamente ed esclusivamente gestite dagli appartenenti a questo organo di Stato che sottopongono i malcapitati detenuti ai violenti e coercitivi interrogatori lunghi dai tre giorni a una o più settimane. Alcuni di loro scompaiono anche per mesi. Tra i casi seguiti dalla ong ci sono persone che sono state tenute in isolamento, senza poter interagire o incontrare nessuno, per quasi un anno. Unica discriminante, la resistenza alle pratiche di tortura di cui sono stati vittime. Di tutti gli intervistati nessuno di loro è stato liberato senza un’ammissione di responsabilità di qualche tipo, se non fornendo nomi di “complici”. A quasi cinque anni dal ritrovamento del corpo di Giulio Regeni, il sospetto che il ricercatore italiano non sia sopravvissuto all’incessante dose di sevizie perché non abbia ceduto ai suoi inquisitori appare ormai una certezza. I genitori di Giulio, il loro avvocato Alessandra Ballerini, l’opinione pubblica, la Commissione parlamentare per la verità sull’omicidio Regeni presieduta dall’onorevole Erasmo Palazzotto, tutti noi, siamo stati uniti, saldi, nel chiedere giustizia, chiarezza sulla fine del nostro connazionale e sul movente che l’abbia determinata. Oggi, a fronte della reiterata negazione da parte dell’Egitto di una verità giudiziaria che ormai ha ben poco da svelare, dovremo essere ancor più risoluti seppur il realismo non può che portare a un’unica e amara considerazione finale. Il governo italiano, consapevole che non otterrà mai nulla di concreto dall’Egitto, se non il fascicolo con i documenti del ricercatore friulano e alcuni oggetti che nemmeno erano suoi, continuerà a trascinare la questione nel tempo, confidando nell’oblio, attendendo che l’opinione pubblica dimentichi, che la Commissione esaurisca il suo mandato e che i genitori si rassegnino. Ma è questa l’unica vera “falla” del “piano” del governo. Paola Deffendi e Claudio Regeni non smetteranno mai di reclamare verità e giustizia per il figlio, un ragazzo di 28 anni barbaramente ucciso senza un perché. E noi con loro, senza dimenticare Patrick Zaki, lo studente egiziano arrestato con accuse infondate di rientro dall’Italia in Egitto lo scorso febbraio, i dirigenti della Ong per i diritti umani Eipr, con cui collaborava lo stesso Zaki, e tutti i Giulio e Giulia d’Egitto. Caso Regeni. “L’Italia ricorra alle corti internazionali e ponga la questione all’Europa” di Valeria Forgnone La Repubblica, 2 dicembre 2020 Erasmo Palazzotto, presidente della commissione d’inchiesta Regeni: “L’incontro di ieri è stato l’ennesimo tentativo di depistaggio dell’Egitto”. E sul richiamo dell’ambasciatore italiano al Cairo, invocato dai genitori di Giulio: “Sarebbe un segnale politico importante ma da solo non è sufficiente. Occorre mettere in atto altre misure”. L’incontro tra procure si è concluso con Roma che processerà i cinque 007 egiziani accusati del sequestro di Giulio Regeni e il Cairo che invece decide di mandare alla sbarra per furto cinque criminali uccisi quattro anni fa in uno scontro a fuoco. Per Erasmo Palazzotto, il presidente della commissione d’inchiesta sul caso Regeni e deputato di Leu che per oggi ha convocato d’urgenza l’ufficio di presidenza e una nuova audizione, si tratta “dell’ennesimo tentativo di depistaggio, il fallimento della cooperazione giudiziaria, che in realtà non c’è mai stata”. Esprime ancora una volta solidarietà alla famiglia di Giulio Regeni perché “la loro ferita resta ancora aperta”. E chiede “una assunzione di responsabilità collettiva da parte dell’Europa e la possibilità per l’Italia di ricorrere alle corti internazionali nei confronti dell’Egitto per la violazione alla convenzione contro la tortura”. Presidente Palazzotto, cosa si aspettava dall’incontro di ieri tra le due procure? “È stato un incontro conclusivo. Ero sicuro di un tentativo di cooperazione da parte della Procura di Roma, mentre non mi aspettavo risposte esaustive dall’Egitto ma neanche un oltraggio al lavoro della nostra magistratura. Siamo di fronte all’ennesimo tentativo di depistaggio su una storia che pretende verità e giustizia. Ora non è più una questione giudiziaria, ma politica. Le strade si dividono e l’Italia seguirà il suo corso”. Per la famiglia Regeni, questo è stato l’ennesimo colpo. Ha avuto modo di mettersi in contatto con loro? “Ancora non ho avuto modo di sentirli. Immagino l’amarezza, anche se credo che non si aspettassero molto dall’Egitto. La loro ferita resta aperta. La storia di Giulio non è più una questione privata ma riguarda la credibilità del nostro Paese”. I genitori di Giulio chiedono che venga richiamato l’ambasciatore italiano al Cairo. Cosa ne pensa? “Non spetta alla commissione intervenire. Ma davanti all’ennesimo smacco, io credo che il richiamo dell’ambasciatore sarebbe un segnale politico importante ma da solo non è sufficiente. Prima serviva per esercitare una pressione sull’aspetto giudiziario, ora sarebbe un atto dovuto ma non risolutivo. L’Italia dovrebbe mettere in atto altre misure, secondo me”. Ad esempio quali? “La commissione d’inchiesta sta valutando alcune ipotesi, come la richiesta di assunzione di responsabilità collettiva da parte dell’Unione europea nei confronti di un paese come l’Egitto. La storia di Giulio Regeni non è più un caso nazionale, ma occorre porre la questione nel prossimo consiglio europeo. E poi esistono anche delle possibilità per l’Italia di ricorrere al diritto internazionale e alle corti internazionali per violazione alla convenzione sulla tortura nei confronti dell’Egitto”. Stati Uniti. Ambiente e pena capitale, l’ultimo Trump è una furia di Luca Celada Il Manifesto, 2 dicembre 2020 Raffica di decreti nell’interregno della Casa bianca. Anche migranti e poveri nel mirino. Dopo la sconfitta elettorale, la misura più immorale - quindi tipicamente trumpiana - è la corsa per uccidere il maggior numero di persone detenute nel braccio della morte. Oltre a proseguire nella vana contestazione dei risultati elettorali (ma lo scopo a questo punto non è tanto rovesciare l’elezione quanto delegittimare l’amministrazione entrante e gettare le basi per un ostruzionismo ad oltranza), in questo concitato interregno Trump sta perseguendo una strategia di terra bruciata, una corsa ad attuare il massimo di provvedimenti nei suoi ultimi giorni al potere e renderli il più possibile di intralcio a Joe Biden. La raffica di decreti e provvedimenti comprendono l’abrogazione di norme sulla qualità di aria e acque e di limiti all’inquinamento atmosferico e sicurezza alimentare. Altri regali alle lobby industriali che hanno sponsorizzato il suo regime sono le aperture di aree protette (comprese terre indiane, santuari marittimi e parchi nazionali, come l’intonsa riserva artica in Alaska) per lo sfruttamento degli idrocarburi. La scorsa settimana il presidentissimo se l’è presa con gli uccelli, abrogando le norme che proteggono le rotte migratorie dalle intrusioni industriali e dell’edilizia. In questa forsennata corsa al fait accompli c’è la furia di chi sa di avere i giorni contati per lasciare un segno più possibile indelebile sul futuro del paese che lo ha congedato - la stessa foga con cui è stata nominata alla Corte suprema nelle ore prima dell’elezione, la giudice reazionaria Amy Coney Barrett. Sul confine meridionale sono state potenziate le maestranze che fanno i doppi turni per completare le 450 miglia di muraglia promessa, dinamitando deserto vergine prevalentemente in Arizona. La guerra agli immigrati e ai poveri prosegue peraltro su molteplici fronti. Il ministero dell’agricoltura si è premurato di in questi giorni di congelare per due anni il salario minimo dei frontalieri messicani contrattati per fare i raccolti sui campi Californiani - la manovalanza “essenziale” che sostiene il florido settore dell’agribusiness americano, ritenuta evidentemente eccessivamente avida nel rivendicare più dei $13 l’ora sindacali. Prosegue intanto anche la corsa alla deportazione di un numero massimo di detenuti dalle dozzine di centri di reclusione gestiti su appalto da corporation private - il gulag for profit potenziato e militarizzato da Trump Ognuna di queste malefatte è resa più meschina dalla scadenza del tempo massimo che incombe su un regime che ha mescolato malevolenza e insindacabilità con rara cattiveria. Nessuna forse però come la corsa in extremis per ammazzare il maggior numero possibile di condannati nel braccio della morte. Negli Stati uniti l’amministrazione degli omicidi di stato è ripartita in giurisdizioni statali e federale. La pena capitale è legale in 32 stati oltre che nell’ordinamento federale e militare. La pena di morte è stata sospesa dalla Corte suprema nel 1972 ma ripristinata nel 1977. Da allora sono state messe a morte oltre 2000 persone. Di queste solo tre sono state giustiziate in giurisdizione federale - fino a quest’anno, in cui per direttiva diramata da Trump a luglio sono morti già otto condannati - l’ultimo, Orlando Cordia Hall di 49 anni è stato giustiziato il 19 novembre. Cinque altre uccisioni sono state messe in calendario di qui a gennaio, compresa l’unica detenuta donna sul braccio delle morte, Lisa Montgomery di 52 anni, vittima di abusi con turbe psichiche: la sua esecuzione è prevista appena una settimana prima dell’insediamento di Biden, che da parte sua ha ribadito la propria opposizione alla pena capitale e l’intenzione di fermare le uccisioni. Solo quando per Montgomery e gli altri sarà troppo tardi. La furia assassina del presidente-reality segna la prima volta in oltre cento anni che le esecuzioni hanno luogo nel periodo di transizione fra amministrazioni e se inizialmente potevano aver una bieca logica elettorale da parte del presidente che si presentava come candidato del pugno di ferro, alla luce della sconfitta sono gratuite oltre che immorali. Ovvero squisitamente trumpiane. Incarnano cioè tutta la leggerezza e la crudeltà con cui Trump ha strumentalizzato i peggiori e più violenti istinti della nazione. Negli Stati Uniti i sondaggi registrano ancora un sostegno giustizialista per la pena capitale anche se all’atto pratico la tendenza è stata verso una riduzione delle esecuzioni in seguito ad una serie di sentenze che hanno ritenuto “non-umanitario” l’impiego dei veleni iniettati nei condannati. I farmaci che compongono il cocktail letale somministrato (anestetico, paralizzante e soffocante) hanno dato luogo a morti con evidenti atroci sofferenze e un numero crescente di stati hanno applicato moratorie indefinite alle esecuzioni. Nei rimanenti la penuria dei farmaci stessi ha fatto sì che le autorità abbiano sperimentato con alternative improvvisate quali i barbiturici o tranquillanti veterinari. Per ovviare, il justice department di Trump sta valutando, sempre con procedura accelerata, la reintroduzione di tecniche collaudate come la sedia elettrica, la camera a gas e i plotoni di esecuzione. Il tempo vola. L’importante è ammazzare. Medio Oriente. Tutti terroristi tranne il Mossad, che ha licenza di uccidere di Alberto Negri Il Manifesto, 2 dicembre 2020 Immaginate se l’intelligence di qualunque altro Stato avessero condotto all’estero in questi decenni operazioni mortali del genere, cioè omicidi mirati, come ha fatto Israele: probabilmente questo Paese non sarebbe più da un pezzo sulla mappa. Pace e guerra sono in mano al Mossad. Per cui il Mossad ha una licenza di uccidere di cui non gode nessun servizio al mondo e può condurre la sua guerra all’Iran, come e quando vuole. E nessun Paese al mondo, se non Israele, gode di altrettanta impunità. Si chiama doppio standard: in fondo - questa è la sensazione - siamo tutti fuorilegge, tranne il Mossad. Le monarchie assolute del Golfo hanno mangiato la foglia: se vogliono continuare ad avere la protezione Usa e le armi americane questi stati ricchi ma impresentabili per i parametri democratici devono entrare nel Patto di Abramo e accettare la supervisione dello Stato ebraico. Che ormai si estende anche all’Onu: i grandi gruppi industrial-militari israeliani forniranno i sistemi di sicurezza e intelligence per la “difesa” della missione delle Nazioni Unite in Mali. E se Israele va bene all’Onu, va bene a tutti. Mai, ovviamente, Israele è stato condannato o sottoposto a sanzioni per le sue attività letali. E mai in Occidente si levano parole di condanna come è avvenuto anche per l’uccisione dello scienziato nucleare iraniano Mohsen Fakhrizadeh, stigmatizzata da Russia, Cina e pochi altri, certo non in Europa che al massimo “esprime preoccupazione” per le tensioni regionali. Israele non si tocca: è anche la prima lezione delle scuole di giornalismo nostrane. Per fortuna gli israeliani hanno anche una stampa eccellente quindi attingiamo da loro per prendere informazioni. Il maggior esperto del Mossad, Ronen Bergman, inviato del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth e autore di “Uccidi per primo”, ritiene che i servizi israeliani abbia ucciso almeno 2700 persone in tutto il mondo: una cifra mai smentita da Tel Aviv. Immaginate se l’intelligence di qualunque altro Stato avessero condotto all’estero in questi decenni operazioni mortali del genere, cioè omicidi mirati, come ha fatto Israele: probabilmente questo Paese non sarebbe più da un pezzo sulla mappa. I servizi dello Stato ebraico, in collaborazione con gli americani e l’opposizione clandestina dell’Mko finanziata da Usa e Israele, hanno fatto fuori almeno quattro-cinque scienziati iraniani nell’ultimo decennio. Nel 2010 Usa e Israele hanno attaccato con un virus informatico micidiale, denominato Stuxnet, l’impianto nucleare di Natanz mettendo fuori uso circa 500 turbine. Soltanto nel 2020 Israele ha danneggiato con varie esplosioni la centrale di Parchin, ancora una volta quella di Natanz e pure quella di Isfahan. Sarebbe utile ricordare che con l’accordo sul nucleare del 2015 voluto anche da Obama e stracciato da Trump nel 2018, su pressione di Israele e delle monarchie del Golfo, gli impianti iraniani erano sottoposti a regolari ispezioni dell’Aiea. L’Iran ha firmato tra l’altro il Tnp, il Trattato di non proliferazione nucleare, mentre Israele che al contrario di Teheran ha l’atomica e un centinaio di testate nucleari, non ha mai aderito a nulla. Lo Stato fuorilegge sarebbe quello ebraico, non la repubblica islamica iraniana. Ma come si è detto vige il doppio standard: Israele fa quello che vuole, agli altri vengono imposte le sanzioni. E nessuno osa protestare: c’è una sorta di perenne sudditanza ai governi di Tel Aviv cui tutto è concesso. L’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh è stato un omicidio politico, non rispondeva a un pericolo immediato. Aveva il solo scopo di provocare una reazione degli ultraconservatori iraniani, mettere spalle al muro i moderati come il presidente Hassan Rohani, in vista anche delle presidenziali del 2021, e tenere alta la tensione quando manca un mese al primo anniversario dell’uccisione a Baghdad da parte degli americani del generale iraniano Qassem Soleimani. Ma soprattutto è il messaggio che il premier Netanyahu d’accordo con Trump ha inviato a Biden, disponibile a riprendere un negoziato con l’Iran. Come sottolinea Thomas Friedman sul New York Times quello che Israele e le monarchie del Golfo temono davvero non è l’inesistente atomica di Teheran ma la precisione dei missili iraniani, forse gli stessi usati dagli Houthi yemeniti per colpire l’Aramco nel 2019. Per questo è nato il Patto di Abramo: Israele, sauditi ed emiratini vogliono evitare che Biden torni all’accordo sul nucleare prima di un’intesa sui missili. Per questo il Mossad fa la sua guerra e la sua convincente e letale “diplomazia”. Ormai è sempre più complicato distinguere tra un tempo di pace e un tempo di guerra. Siamo di fronte a conflitti che non finiscono mai, come dimostra l’uccisione dell’ultimo scienziato iraniano. Con un’unica costante: solo il Mossad ha licenza di uccidere, gli altri sono “terroristi” o fuorilegge. Ma chi decide la legge? Iran. L’appello di Mehrannia: “Fermate l’esecuzione di mio marito Djalali” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 2 dicembre 2020 Il ricercatore che lavorò a Novara è stato trasferito. “Oggi verrà eseguita la condanna a morte”. Contro di lui l’accusa di spionaggio per conto d’Israele. Amnesty: processo iniquo e arbitrario. Ahmadreza Djalali potrebbe avere ancora poche ore di vita. “Hanno trasferito Ahmad nella prigione Rajai Shahr di Karaj per eseguire la sua condanna a morte”, ci dice al telefono sua moglie, Vida Mehrannia, che vive in Svezia con i loro due figli. “Ahmad è innocente”, ripete con la voce sfinita. “Chiedo alla società civile, al governo italiano di aiutarmi a liberarlo”. Per tutto il pomeriggio di ieri Mehrannia è stata in contatto con la diplomazia svedese che sta tentando una mediazione difficile, estrema, per ottenere clemenza dal governo iraniano e salvare la vita di Djalali, uno scienziato con doppia nazionalità iraniana e svedese esperto in medicina dei disastri. Aveva lavorato anche con l’Università del Piemonte Orientale, a Novara, dove ha vissuto per diverso tempo specializzandosi al Crimedim. Nel 2016 era tornato a Teheran dove vive sua madre per una conferenza all’Università: è stato arrestato con l’accusa che già ad altri stranieri e cittadini con doppio passaporto è costata anni in prigione, spionaggio per conto di Israele, e condannato a morte. In carcere ha perso peso, si è ammalato più volte. Una settimana fa ha chiamato la moglie avvisandola che quella sarebbe potuta essere l’ultima telefonata. Pochi minuti. “Mi ha detto che lo avrebbero messo in isolamento nella sezione 209 del carcere di Evin per una settimana fino a martedì (ieri, ndr) e che poi l’avrebbero portato a Karaj probabilmente per eseguire la sentenza”, racconta Mehrannia. Rajai Shahr è il penitenziario dove vengono eseguite le condanne a morte, di solito il mercoledì. La figlia più grande di Djalali, che si è appena diplomata, sa che cosa sta succedendo. “Mio figlio no, è troppo piccolo”, dice la madre. Un anno fa Mehrannia aveva incontrato anche il presidente della Camera Roberto Fico per sollecitare l’impegno dell’Italia: “Il governo italiano faccia pressione sull’Iran”. Djalali ha sempre respinto le accuse a suo carico dicendo di essere stato punito per essersi rifiutato di diventare una spia. Il governo iraniano parla di “interferenze” indebite e rivendica l’indipendenza della magistratura, ma per le organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International il processo è stato arbitrario e iniquo. Djalali ha subito pressioni perché confessasse. In difesa dello studioso in Italia si sono mobilitati anche i Radicali, i ricercatori del Crimedim, gli avvocati dell’Aiga. Da Bruxelles è arrivato l’appello del presidente del Parlamento europeo David Sassoli: “Chiediamo un gesto di clemenza in nome della vita”. Nelle prigioni iraniane ci sono almeno sei cittadini stranieri o con doppia nazionalità. La scorsa settimana, dopo un negoziato durato due anni, è stata liberata la britannico-australiana Kylie Moore-Gilbert con uno scambio di prigionieri: la Thailandia ha rilasciato tre iraniani arrestati nel 2013 con l’accusa di aver pianificato un attentato contro funzionari israeliani a Bangkok. Cinque giorni fa, vicino a Teheran, è stato ucciso in un’imboscata lo scienziato Mohsen Fakhrizadeh. L’Iran accusa Israele dell’assassinio. La tensione dentro e intorno al Paese è alta, lo spazio per la diplomazia è stretto.