Commissione nazionale indipendente sui diritti umani, prova di civiltà di Roberto Saviano La Repubblica, 29 dicembre 2020 Ora o mai più. Non può più essere rimandato, a gennaio sarà in aula il ddl per creare una Commissione nazionale indipendente sui diritti umani: lo attendevamo da moltissimo tempo. Che si realizzi è fondamentale, se dovesse nuovamente fallire significherebbe che la democrazia italiana ha scelto di rinunciare al senso stesso del suo esistere: creare e presidiare diritti. Perché istituire una Commissione nazionale indipendente sui diritti umani? Perché è una questione vitale per la qualità della vita del nostro Paese, perché senza di essa non avremo mai risposte ufficiali sulla situazione dei diritti del nostro Paese che oggi riusciamo, con molti sforzi, a vedere monitorata dalla generosità di diverse associazioni che osservano e studiano, denunciano e segnalano. Una commissione indipendente osserverebbe non solo come sono gestite le carceri, come vengono trattate le questioni in materia di migranti ma potrebbe intervenire sui tempi della giustizia che quando si allungano oltre ogni ragione sono una piena violazione dei diritti umani, del diritto di essere giudicato in tempi razionali. La Commissione potrà valutare come gli algoritmi manipolino e violino i diritti camuffandosi da neutrali percorsi commerciali, potrà valutare come nei media vengono sistematicamente vessate minoranze e violati diritti in nome del gusto del mercato. Eppure siamo in grande, enorme ritardo, questa commissione avrebbe dovuto essere istituita trent’anni fa. L’Italia si impegnò dal dicembre del 1993 con l’assemblea generale delle Nazioni Unite ad istituire una Commissione nazionale indipendente sui diritti umani ma non è mai stata realizzata. In questi quasi trent’anni c’è sempre stata una scusa per non istituirla: altre priorità, non è necessaria, è una questione solo di forma ma di poca sostanza, le solite motivazioni superficiali e furbe. In realtà questa commissione - secondo le direttive Onu - assumerebbe un significato determinante sia nell’assistenza alle vittime di violazione dei diritti umani sia nella capacità di vigilare sulle leggi in materia di diritti civili e sui comportamenti delle aziende e delle istituzioni su discriminazioni e intolleranze. 114 Paesi si sono adeguati alla direttiva nelle Nazioni Unite non l’Italia. Non sempre il meccanismo ha funzionato: ultimo esempio la Francia, dove esiste questa commissione che però non è bastata ad incalzare la politica così da fermare la decisione di dare la Legion d’onore ad Al Sisi, che arresta e tortura dissidenti in Egitto, o a impedire di vendere armi o ad avere rapporti commerciali importanti con Stati che violano i diritti civili. Detto ciò una commissione indipendente è “unica condizione” per impedire che l’ombra e il silenzio calino sui diritti violati, dato che “condizione unica” perché i poteri (di qualsiasi orientamento politico) compromettano i diritti è proprio l’ombra. Nessuna istituzione si proclamerà contro i diritti umani, nessuna, per questo deve esserci un organismo indipendente che vada a scoprire le violazioni ed assista gli abusati. Il presidente della Camera Fico si è impegnato a portare in aula il ddl sostenuto dal Pd e dal M5S: che questo gennaio porti la Commissione nazionale indipendente sui diritti umani, dopo trent’anni, sarebbe la più bella notizia per i diritti umani nel nostro Paese. Coronavirus e carceri, i Garanti: “Ridurre le presenze e subito vaccini ai detenuti” romatoday.it, 29 dicembre 2020 La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà rilancia le priorità in un documento ad hoc. Ridurre le presenze all’interno delle carceri e procedere con le vaccinazioni Covid-19. No allo stop alle attività di formazione e maggiore utilizzo delle videochiamate e di internet. La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà rilancia le priorità in un documento ad hoc. Ne “Il carcere tra interno ed esterno. Esigenza di tutela tra diminuzione delle presenze e priorità vaccinale”, la Conferenza ribadisce la necessità di ridurre le presenze in carcere e di annoverare i detenuti, insieme con il personale penitenziario, tra le categorie prioritarie del piano vaccinale contro il Covid-19 e lancia alcune proposte concrete. Constatato che le risorse finanziarie messe a disposizione dal bando Cassa Ammende “Emergenza Covid-19”, appaiono inadeguate (20 euro a persona tutto incluso) al bisogno rilevato di housing per persone in esecuzione penale esterna, la Conferenza propone l’aumento del budget giornaliero a persona a 38/40 comprensivo di Iva e l’adozione del meccanismo del “Vuoto per pieno”, in modo da sostenere gli enti gestori che creano nuove strutture di accoglienza (così da coprire i giorni di vuoto). Sempre sul versante della diminuzione delle presenze in carcere, appare necessario potenziare il sistema di presa in carico e gestione delle istanze di accesso ai benefici e alle misure alternative, come richiesto dal Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza. A tale proposito, la Conferenza dei Garanti territoriali si dichiara disponibile a facilitare azioni di supporto ai servizi della giustizia anche su base volontaria o a integrare percorsi allo studio o in fase di ideazione che possano contribuire alla gestione efficace delle istanze di accesso a benefici e misure alternative. Le carceri costituiscono comunità mobili, fatte di ingressi e uscite, di operatori socio-sanitari, educativi della sicurezza che lavorano e vivono tra interno ed esterno. Questa comunità deve essere tutelata, perché garantire la salute delle persone ristrette significa garantire la salute di tutti. Per questo, la Conferenza dei Garanti territoriali chiede l’inclusione delle persone detenute tra le categorie prioritarie di cui al piano strategico vaccinale elaborato da ministero della Salute, Commissario straordinario per l’emergenza, Istituto superiore di sanità, Agenas e Aifa. Nel frattempo, bisognerà garantire tutte le attività che non costituiscano una fonte di rischio elevato nella diffusione del virus, a partire dalla formazione professionale e dalla istruzione (anche in presenza, in stanze sufficientemente ampie e aerate, con insegnanti e studenti opportunamente distanziati e muniti di dispositivi di protezione individuale indossati correttamente) e da altre attività che non comportino assembramenti e contatti fisici tra popolazione detenuta e operatori provenienti dall’esterno. Infine, la Conferenza ritiene necessario sottolineare ancora una volta la divaricazione prospettica tra l’introduzione del reato di detenzione di telefoni cellulari all’interno di un istituto penitenziario (operata con il cosiddetto “decreto sicurezza”) e la necessità di aumentare le possibilità di contatto “immateriale” con l’esterno (aumento del numero delle chiamate) e di garantire la comunicazione e i contatti con familiari e terze persone attraverso le piattaforme informatiche, a fronte della estrema riduzione dei colloqui in presenza. Il governo sarà impegnato per un piano vaccini ai detenuti e agli operatori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 dicembre 2020 Accolto l’Ordine del giorno alla legge di bilancio di Riccardo Magi di +Europa. Il governo verrà impegnato a valutare la predisposizione di un piano per la vaccinazione del personale che opera negli istituti penitenziari e dei detenuti, nel quadro della programmazione nazionale. Domenica scorsa è stato finalmente accolto, con una riformula, l’ordine del giorno nella legge di Bilancio, depositato dal deputato Riccardo Magi di + Europa e già segretario nazionale di Radicali Italiani. Magi ha chiesto di impegnare il governo ha predisporre un piano operativo per la vaccinazione dei detenuti e del personale che lavora nelle carceri, inserendoli sin dall’inizio fra le categorie sottoposte con priorità alla campagna di vaccinazione per la prevenzione delle infezioni da Sars-CoV-2. Com’è detto, però, è stato riformulato con un impegno per il governo nel fare una valutazione circa la predisposizione del piano vaccinale nei confronti della popolazione penitenziaria. Per questo, a sua volta, ora il deputato Magi si impegnerà a fare pressione al governo affinché ci sia un seguito. Ricordiamo che tra le categorie alle quali il vaccino anti Covid-19 sarà somministrato prioritariamente figurano medici e infermieri, ultrasessantenni, malati cronici, pazienti affetti da più patologie, addetti ai servizi essenziali come insegnanti e forze dell’ordine e chiunque viva in condizioni nelle quali non possa essere garantito il distanziamento fisico. Tutti loro, come ha lanciato l’allarme per prima il portavoce dei Garanti territoriali Stefano Anastasia, tranne la comunità penitenziaria. “Parliamo di oltre 100.000 persone - ha ricordato il deputato di + Europa nel presentare l’ordine del giorno alla Camera nella legge di Bilancio - che vanno immediatamente protette perché quotidianamente a rischio personale e in quanto potenziali diffusori del virus”. Ha sottolineato che anche il Comitato nazionale per la bioetica nel suo parere del novembre scorso si è concentrato sull’accentuarsi di pregresse disuguaglianze fra cittadini/e e sul sorgerne di nuove, con particolare riferimento ad alcuni gruppi particolarmente vulnerabili, come i detenuti, che rappresentano un gruppo “ad alta vulnerabilità bio-psico-sociale”, cui va riconosciuto il diritto alle pari opportunità nella tutela della salute tramite “un impegno delle istituzioni, che va rafforzato in questa emergenza”. Ora, grazie all’ordine del giorno di Magi, il governo si dovrà impegnare a valutare una campagna vaccinale nei loro confronti. Nel frattempo è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge del 18 dicembre 2020 che prevede, fra altri interventi per emergenza Covid, la possibilità di proroga al 31 gennaio 2021 dei permessi previsti per le persone detenute in art. 21, già permessanti. La proroga è l’unico emendamento che il Pd è riuscito a strappare. Ma, come dicono tutti gli addetti ai lavori, dal Garante Nazionale a Rita Bernardini del Partito Radicale che ha intrapreso uno sciopero della fame durato 35 giorni, tali misure sono insufficienti per alleggerire la popolazione detenuta. Chissà se il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, come promesso dopo l’incontro con la delegazione guidata da Luigi Manconi, Gherardo Colombo, Giovanni Maria Flick e Sandro Veronesi, lo ha fatto presente al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Natale in carcere. La buona notizia di non essere dimenticati santegidio.org, 29 dicembre 2020 Il Covid-19 ha inciso in maniera tutta particolare sulla condizione delle persone in carcere: Sono ormai sono 10 mesi infatti che, come è avvenuto in quasi tutte le strutture residenziali (ospedali, istituti, case di riposo), sono stati ridotti o chiusi i permessi per l’ingresso dei familiari e dei volontari; i colloqui con i parenti sono possibili solo con video-chiamata, oppure - in casi rari - dietro un vetro. Inoltre sono state sospese tutte le attività esterne: il mondo esterno sembra sempre più lontano e irraggiungibile. A questa condizione si aggiungono altri fattori che rendono la condizione di chi è in carcere particolarmente dolorosa: il sovraffollamento - che genera paura e agitazione, perché il distanziamento fisico è praticamente impossibile in celle dove si vive anche in 6 persone - il rallentamento della giustizia, dovuto alle difficoltà connesse alla pandemia, e un generalizzato senso di angoscia e di paura di fronte al prolungarsi del Covid-19. Non pochi hanno perso parenti, a volte genitori, e sentono l’angoscia di non poter fare nulla per proteggere le proprie famiglie. Sono questi i sentimenti raccolti dai volontari che in questi giorni di Natale hanno avuto un permesso speciale per visitare - a piccoli gruppi - le carceri del Lazio, Campania, Liguria, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Umbria e Sicilia. Visite che hanno portato consolazione, affetto, e anche doni belli, preparati con cura da tanti amici che, un po’ in tutta Italia, si sono mobilitati. I pacchetti rossi sono stati consegnati solo in qualche caso dai volontari. Spesso sono stati affidati per la consegna al personale dell’amministrazione carceraria, che ha collaborato con grande disponibilità. Contengono generi di prima necessità, indumenti caldi prodotti per l’igiene personale, le tanto desiderate e preziose mascherine, ma anche qualche vezzo - un profumo, un piccolo gioiello di bigiotteria per le donne - e per tutti un cappello caldo di lana, confezionato a mano da amiche di ogni età. Il regalo più gradito, perché porta un calore speciale, quello di un pensiero personale. A nome di tutti scrivono “le donne di Pozzuoli”: “Questa terribile pandemia ha seminato il terrore di perdere ciò che di più prezioso abbiamo al mondo: i nostri cari. Eppure, nonostante le sofferenze, le difficoltà e l’angoscia, esistono persone che non smettono di prendersi cura degli altri”. Imputati assolti, lacuna nei rimborsi di Salvatore Sfrecola La Verità, 29 dicembre 2020 C’è una grave ingiustizia nell’emendamento che prevede il risarcimento per chi risulta innocente dopo un processo. Nessun indennizzo è dovuto se si tratta di giudizi contabili. “Il processo è esso stesso la pena”, ricorda Enrico Costa, parlamentare di Azione e già Vice ministro della Giustizia, citando una famosa definizione di Salvatore Satta, a commento di quello che considera “un passo verso la civiltà”, l’emendamento, del quale è stato primo firmatario, sottoscritto anche da Lucia Annibali, di Italia Viva, e Maurizio Lupi di Noi per l’Italia, al quale si sono associati Nunzio Angiola e Flora Frate di Azione, il leader di +Europa, Riccardo Magi, e Massimo Garavaglia della Lega, e Giusy Bartolozzi di Forza Italia, approvato all’unanimità con l’adesione del ministro Alfonso Bonafede, che attua un rimborso, sia pure parziale, delle spese legali sostenute da chi, sottoposto ad un processo penale, viene assolto perché il fatto non sussiste, non lo ha commesso, non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. “Si rifletta sulle accuse a vuoto” ha aggiunto Costa. La norma viene da lontano e la sua approvazione è senza dubbio un fatto di giustizia ma non soddisfa compiutamente le esigenze più volte rappresentate dal Foro. In primo luogo perché attua un rimborso parziale e non, come si auspicava, un riconoscimento, sia pure nei limiti di una somma riconosciuta congrua dall’Ordine degli avvocati, delle spese sostenute da chi è risultato innocente delle accuse. La norma ignora, altresì, un’altra realtà, quella dei giudizi contabili per danno erariale nel caso, frequente, nel quale il “presunto responsabile”, come si esprime l’art. 1 della legge n. 20 del 1994, viene assolto in istruttoria, con archiviazione da parte del Procuratore regionale della Corte dei conti. È nella fase terminale del procedimento istruttorio da parte della Procura contabile che un soggetto può ricevere un “invito a dedurre” sulla base di una imputazione di danno. E, pertanto, deve fornire elementi a dimostrazione della propria estraneità ai fatti e della assenza di dolo o colpa grave. Per queste controdeduzioni il soggetto, se non ha adeguata conoscenza del diritto e delle regole del processo contabile, deve farsi assistere da un avvocato. In questi casi, mancando una sentenza di assoluzione le spese legali non vengono rimborsate. È evidente la grave ingiustizia di chi, risultato innocente, ha dovuto spendere per difendersi. Una norma di civiltà “parziale”, dunque, anche per il budget piccolo piccolo, tanto che è stata definita una “elemosina” di Stato. Pur sempre un primo passo per far sì che colui il quale patisce ingiustamente un processo possa trovare un minimo di ristoro economico. Secondo Costa la norma ristabilisce un equilibrio e inserisce nel processo penale “il principio della soccombenza” già riconosciuto nei riti civile e amministrativo. Quello per cui “se il cittadino è riuscito a dimostrare la propria assoluta estraneità al reato o, addirittura, l’insussistenza di qualunque fatto di rilevanza penale” ha diritto di avere di fronte uno Stato che gli riconosce il rimborso. La stessa regola vale ancor più se “lo Stato ha esercitato erroneamente la propria pretesa punitiva, sottoponendo senza ragione la persona al lungo, defatigante e spesso umiliante calvario delle indagini e del processo”. E nel caso del giudizio contabile? Se addirittura l’archiviazione avviene in istruttoria. Una grave dimenticanza. La giustizia ripensata in uno spazio doppio: il digitale e il materiale di Daniela Piana* Il Dubbio, 29 dicembre 2020 La diagonale. Una traiettoria che non si vede mai in una piazza. Troppo affollata, troppo percorsa, troppo corsa, per poterne percepire la diagonale. Stamane era possibile. Era possibile il notturno deserto della città eterna, era possibile intravedere nelle brume Venezia eretta nell’assoluto improbabile della sua storia, le vie di fuga dei portici di Bologna si aprivano al viandante che avesse avuto voglia di avventurarsi nella immensa ed essenziale esperienza della solitudine. Diagonale. Non è una banalità quello sguardo che attraversa lo spazio in modo così inedito. L’anno che si chiude si chiude con un ribaltamento delle categorie del vivere. Il secolo breve - che sembra avere quasi voluto riprendersi la rivincita della sua brevità allungandosi fino al XXI secolo - è imploso come una pulsar nel rallentare fino allo zero un tempo accelerato in cui abbiamo vissuto per effetto centrifugo sempre più sfilacciati e disconnessi come atomi anomici. Tempo accelerato, hanno teorizzato e osservato i sociologici e gli studiosi dei fenomeni umani. Il tempo come metrica, il nomos rispetto al quale determinare il modo in cui gli uomini ordinano le loro azioni. Fare la spesa e poi andare al lavoro e nel frattempo rispondere alle mail e poi passare dalla scuola e certamente nel mezzo inserire una ora di palestra oppure fluttuare fra gli aerei ma non disconnessi già preparando le poste elettroniche che stanno per partire ad orario prefissato mentre stiamo valutando se fra un transfer e l’altro possiamo forse risolvere uno dei punti nel nostro taccuino virtuale che sempre - ovviamente - ci accompagna. Così si è vissuto. Così tanto accelerati che quando ci siamo fermati la prima volta non abbiamo davvero capito cosa fosse successo. Senza molto discutere ci si è immersi in una sorta di esperimento di laboratorio, la società ferma e coesa distanziata e solidale tutti per uno perché c’è un uno piccolo piccolo fra noi che rischia di mandare a carte e quarantotto quello che siamo e quello che vorremmo essere. Come individui ovvio, della società non è che siamo tanto abituati a curarci. La seconda volta è stato molto diverso. Lo abbiamo sentito eccome il fermarsi del tempo. Negli spazi forse interstizi vissuti fra il tempo fermo e il tempo che riprendeva nell’estate abbiamo avvertito la presenza pulsante di una categoria smarrita e dimenticata, lo spazio. Quello che si apre attorno al nostro respiro. Poi quando avvertiamo lo spazio vuoto. Non c’è spazio per l’horror vacui nel XXI secolo che sta diventando quello che è, ancora in embrione ma già si fa capire molto bene. Lo spazio ne è la categoria dominante e caratterizzante. Spazio vuoto perché è nello spazio vuoto che si possono dispiegare come se fossero trame di un tessuto tutto da intessere le nostre vite collettive, i nostri rituali, i nostri modi di essere nel mondo. Uno spazio che si è nel frattempo arricchito di una dimensione ulteriore quella immateriale. Abbiamo il materiale e abbiamo l’immateriale e siamo fortunati perché il secondo ci ha permesso di conservare e di potere in qualche modo prendere le distanze critiche allo stesso tempo dai riti che eravamo abituati a praticare e che avevamo rattrappito e accorciato nel primo. Un divertissement che chiosa a pié di pagina di Kant questo? Nulla affatto. Le conseguenze sul piano della vita sociale e soprattutto del rapporto che intercorre fra diritto e società sono immense ed ancora largamente inesplorate. Ne possiamo intuire la portata e tratteggiare alcune forme che chiedono però di essere approfondite e lavorate molto meglio e tutti insieme. Se lo spazio è importante e lo spazio è doppio allora i riti della giustizia devono essere ripensati in uno spazio doppio, attraverso una differenziazione, nel digitale alcuni nel materiale altri, gli uni connessi con gli altri attraverso l’unico ponte capace di integrare intelligenze e visioni, le persone che operano nella e per la giurisdizione. In secondo luogo se gli spazi sono importanti allora lo spazio centrato sul cosa fare e non tanto sulla procedura, non sull’artefatto, ma sul rito istituzionalizzato, significa che le sequenze delle azioni vanno ripensate, ma vanno ripensati anche i dispositivi che regolano gli accessi alla giustizia, non solo le porte dei palazzi di giustizia - remoti o vicini - ma anche la comprensione la accessibilità in senso linguistico e comunicativo oltre che l’accoglienza. Gli spazi di giustizia possono diventare luogo di investimento sul capitale sociale, di cultura. Facciamo degli interni dei palazzi luoghi di adozione di alberi e sculture, di significato di pitture e stralci di letteratura, perché chi frequenta i corridoi dei pas perdus non sia perduto ma raccolto in un tessuto culturale che dà un senso di uno spazio aperto e non angusto. Facciamo delle piattaforme internet di erogazione dei servizi legali anche luoghi virtuali dove i giovani possono raccontare le loro visioni della legalità. Ci costerà pochissimo ci darà un risultato incommensurabile di partecipazione e trasparenza. Ed infine ripensiamo le periferie: la giustizia dovrà essere sensibile soprattutto a chi non la raggiunge facilmente. Se la direttrice è la diagonale allora la diagonale collega i punti estremi ed è dal collegamento dei punti estremi di poligoni poliformi che emergono i nodi- centri di maggiore densità normativa giurisdizionale e di bisogno di giustizia. Forme che emergono da uno spazio vissuto, respirato capito e osservato. Facciamo dello spazio la metrica della giustizia del XXI secolo. *Comitato scientifico Consiglio di Stato Magistrati: pochi ma si sprecano di Cesare Maffi Italia Oggi, 29 dicembre 2020 Il governo boccia un Odg che aveva accolto in giugno. Anziché restituire i giudici ai tribunali, la maggioranza preferisce assumerne di nuovi. Assumere nuovi magistrati e, contemporaneamente, non ridurre il numero dei magistrati fuori ruolo, è una contraddizione che danneggia la già dissestata giustizia nostrana. Chi sono questi fuori ruolo? La legge ne prevede un massimo di 200, destinati a svolgere funzioni amministrative (si noti bene: amministrative, estranee in sé alla carriera intrapresa entrando in magistratura) presso una miriade di enti e istituzioni. Si va dal ministero della Giustizia all’Ispettorato generale, al dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, dalla Presidenza del consiglio alle Camere, ai ministeri, dalle autorità indipendenti agli organismi internazionali, alla Scuola superiore della magistratura. Tuttavia il tetto dei 200 fuori ruolo non tiene conto dei magistrati che operano presso alcuni palazzi romani: Quirinale, Consulta, Marescialli. Sono esclusi altresì i 16 eletti al Consiglio superiore della magistratura. Vi sono poi altri, collocati in aspettativa per svariati motivi: mandato parlamentare o amministrativo, funzioni di governo, assessori esterni, ricongiungimento col coniuge all’estero. Nel corso del dibattito svoltosi a Montecitorio sulla legge di Bilancio il deputato Enrico Costa, oggi di Azione (il movimento di Carlo Calenda), ha sollevato l’incoerenza di una spesa di 7 milioni iniziali, nel primo anno, per arrivare agli oltre 25 dal 2030, con lo scopo di assumere magistrati ordinari in aggiunta a quelli di cui è prevista l’assunzione in base alla normativa vigente. Non è coerente stanziare nuovi finanziamenti in luogo di recuperare decine e decine di magistrati fuori ruolo, in massima parte collocati al dicastero della Giustizia (più volte occasione di pepate polemiche da Francesco Cossiga, il quale vedeva i magistrati al lavoro in via Arenula impegnati nel predisporre disposizioni che li toccavano in prima persona). In giugno il governo aveva accettato un ordine del giorno mirante all’adozione delle iniziative volte a ridurre gli incarichi in posizione di fuori ruolo. Eppure, nonostante che da giugno a oggi il fenomeno sia cresciuto, il governo non ha accolto l’ordine del giorno Costa, proponendone una riformulazione che l’avrebbe depotenziato e che è stata respinta dal presentatore. Il parlamentare ne ha approfittato per segnalare una parte degli incarichi di fuori ruolo. L’elenco è perfino spassoso, perché parte dall’ambasciata a L’Aia per transitare nel Garante per concorrenza (tre magistrati, tanti quanti presso la Commissione europea), nella Commissione antimafia (ancora tre), nella Scuola della magistratura (cinque). Abbondano gli organismi internazionali: Consiglio d’Europa, Corte di giustizia, Corte penale internazionale, Corte europea per i diritti dell’uomo, Eurojust (in questo caso, con assistenti, anche loro parimenti magistrati). Non mancano destinazioni che rivelano eccellenti doti di fantasia: missioni in Ucraina, nei Paesi Bassi, presso il ministero della Giustizia del Marocco. Così, un magistrato va a Rabat mentre, putacaso, a Brescia ve ne sarebbe bisogno. In Albania un fuori ruolo è “magistrato di collegamento”. Numerosi magistrati operano nei gabinetti e negli uffici legislativi dei ministeri. In via Arenula ben 41 fuori ruolo sono incaricati di “funzioni amministrative”. Già: ma, come ha vanamente fatto notare Costa, “se svolgono funzioni amministrative, non si possono prendere degli amministrativi e non dei magistrati”? Le origini di Magistratura democratica e la spaccatura di oggi di Giuseppe Di Lello Il Manifesto, 29 dicembre 2020 Dal “libretto giallo” alle battaglie epiche tra istituzionalisti e movimentisti fino alla rottura. Della scissione tra Area e Md non ho capito granché ma temo che si sia riprodotto il solito contrasto tra l’ala politico-antagonista e quella istituzional-governista: mi si perdonino queste etichette approssimative che non vogliono intaccare in nessun modo l’onestà intellettuale dei protagonisti. Nulla di nuovo, comunque, sotto il cielo di una sinistra giudiziaria che non è mai stata omogenea ed anzi ha nel suo dna proprio questa sorda lotta, non troppo sotterranea, tra chi è preoccupato di promuovere più efficienza democratica nel funzionamento della giustizia e chi è più preoccupato del contesto politico generale, tra chi guarda troppo dentro e chi troppo fuori dagli uffici. È stato sempre difficile in Md trovare una sintesi, anche se si era tutti disposti a rimanere all’interno di una sorta di coesistenza pacifica, una tregua che però nei momenti difficili provocava scontri furibondi. Vorrei innanzitutto ricordare che, contrariamente a quanto afferma Zaccaro nell’intervista al manifesto (27 dicembre), Md è nata proprio con una fuoriuscita da una più ampia area di magistrati, sicuramente democratici, ma contrari a portare fuori dagli uffici le battaglie libertarie e soprattutto sociali dei primi Anni 60. Il manifesto ideologico e programmatico di Md è tutto nel “libretto giallo” redatto da Luigi Ferrajoli, Vincenzo Accattatis e Salvatore Senese per il congresso del dicembre 1971 (Per una strategia politica di Magistratura democratica) nel quale si teorizzava la promozione di una giurisprudenza alternativa non chiusa in se stessa ma capace di promuovere, “attraverso il collegamento organico con il movimento di classe, una cultura giuridico-politica alternativa all’ideologia tradizionale del diritto e della giustizia borghese che valga a prefigurare … un modello di giudice e di giustizia alternativo in una prospettiva di transizione al socialismo”. All’interno della corrente però questa strategia era mal sopportata da settori più moderati che volevano le stesse cose solo se e quando concordassero con le battaglie della sinistra ufficiale, cioè del Pci. L’ala movimentista, con l’avversione del Pci, era corsa lancia in resta contro la legge Reale con la raccolta di firme per il referendum abrogativo. Poi aveva preso una posizione pubblica contro le leggi speciali emanate per contrastare il terrorismo e in questo contesto c’erano state rotture, perfino personali, tra giudici di Md che istruivano i processi ai brigatisti e giudici che criticavano questo impegno, ed ancora tra giudici che appoggiavano il teorema del pm Calogero sull’autonomia operaia e quelli che lodavano la resistenza del giudice istruttore Palombarini. Molto altro ci sarebbe da ricordare di queste battaglie epiche tra istituzionalisti e movimentisti che si sono anche odiati, ma non si sono mai divisi perché alla fine si riusciva sempre a conciliare con intelligenza i due momenti della stessa battaglia. Si era molto attenti alla giurisprudenza, con riviste come Quale giustizia e poi Questione Giustizia, ma si era anche molto dentro i movimenti e le lotte sindacali. Così sia all’interno degli uffici che all’esterno nella società risaltava la figura di un giudice di Md legato all’impegno giudiziario e al sociale. Ora che se ne sia uscita la maggioranza della componente eletta nel Csm è veramente un brutto segno di rottura, speriamo non irrimediabile, perché sarebbe una sconfitta per quel poco di sinistra che c’è rimasta. Basterebbe tornare alle origini, ma la vedo dura. “È tempo che la Corte costituzionale faccia conoscere anche l’opinione dissenziente” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 29 dicembre 2020 Il giudice della Consulta Nicolò Zanon non ha voluto firmare la recente sentenza sulla prescrizione. Ma, spiega, “questa resta una soluzione insufficiente, meglio la trasparenza delle opinioni”. E sui ricorsi contro la procedura di approvazione delle leggi dice: “Invece di ricorrere all’aiuto esterno, il parlamento dovrebbe avere uno scatto di orgoglio e difendere da sé la sua centralità” Venerdì scorso la Corte costituzionale ha pubblicato una sentenza sulla prescrizione redatta da un giudice diverso da quello al quale era stata affidata la relazione. Accade assai raramente. In questo caso il giudice relatore, Nicolò Zanon, è lo stesso che in uno dei podcast pubblicati sul sito della Corte - una “libreria” nella quale i giudici costituzionali spiegano al pubblico il loro lavoro - aveva posto il tema dalla cosiddetta “opinione dissenziente”. Professore, qual è il motivo per il quale lei non ha firmato la sentenza sulla prescrizione? Perché avevo una tesi diversa rispetto alla maggioranza dei colleghi. Non svelo nulla di segreto, questa è l’unica ipotesi in cui il dissenso del giudice risulta dalla lettura della sentenza, c’è scritto infatti che il relatore è stato “sostituito” per la redazione. Quello che non si sa, perché resta nel segreto della camera di consiglio, è se altri giudici, e quanti, erano in dissenso come lui. Sul quesito che riguardava la sospensione della prescrizione la mia proposta al collegio era di segno diverso da quella adottata. È prevalsa la non fondatezza e non me la sono sentita di scrivere una motivazione che proprio non condividevo. È un caso estremo, tante volte succede di redigere pronunce che hanno un dispositivo diverso da quello che si immaginava all’inizio, ma che magari, discutendo con i colleghi, si impone come soluzione migliore. Questa mancata firma si può considerare una forma di opinione dissenziente? Purtroppo no, è una forma di dissenso che definirei autoreferenziale e introversa. Si è affermata in via di prassi: si può sapere che c’è stato un dissenso nel collegio ma non se ne conoscono le ragioni. A mio avviso è una soluzione largamente insufficiente. Lei è favorevole all’introduzione anche in Italia, come nella corte suprema Usa, nelle corti costituzionali spagnola e tedesca e nella corte europea dei diritti dell’uomo, dell’opinione dissenziente? Sarebbe un’innovazione con tanti vantaggi, ma anche alcuni svantaggi. Io sono favorevole. È la mia convinzione personale, non ne abbiamo parlato tra noi giudici e quando, molti anni fa, la questione fu valutata, si scelse di non cambiare le cose. L’attuale assetto viene infatti considerato utile a salvaguardare la collegialità perché i giudici rimasti in minoranza hanno l’incentivo a partecipare alla motivazione che non condividono, per migliorarla dal loro punto di vista. La collegialità è, anche qui, certamente un pregio. L’introduzione dell’opinione dissenziente non rischierebbe, specie nei casi di decisioni prese a stretta maggioranza, di rappresentare in pubblico una Corte costituzionale spaccata? Questo rischio c’è, ma io credo che l’opinione pubblica interessata abbia raggiunto un grado di maturità sufficiente per comprendere che le decisioni sulla costituzionalità di una legge non sono un’operazione matematica. Sono al contrario il risultato di un’interpretazione che può dipendere da prospettive culturali e concezioni diverse del diritto e dell’intervento della Corte. Forse si potrebbe accettare senza drammi l’esistenza opinioni diverse anche sulla Costituzione, malgrado debba esserci una decisione. Non mi sfuggono i valori da preservare, la certezza del diritto e l’autorevolezza delle decisioni della Corte. Temo però che al fondo delle ragioni di chi non ammette il dissenso ci sia un’idea un po’ dogmatica del diritto. Invece le opinioni di minoranza possono gettare un seme nella riflessione dei giuristi e diventare nel futuro le opinioni di tutta la Corte. Nessun dramma, anche perché nella stragrande maggioranza dei casi la Corte decide in maniera unanime e non serve votare. Il giudice che firma l’opinione dissenziente diventerebbe il punto di riferimento di chi non condivide la decisione della Corte, non teme che tutto il collegio possa essere trascinato nella polemica? Anche in questo caso non nego il rischio, tutto può essere strumentalizzato. Ma la forza degli argomenti costituzionali dovrebbe servire, al contrario, a rendere le decisioni più accessibili, più trasparenti e persino più comprensibili rispetto al segreto della camera di consiglio. La società italiana è più matura di quanto immaginiamo e nei paesi dove l’opinione dissenziente è prevista queste strumentalizzazioni non avvengono o avvengono molto di rado. Lei ha redatto la sentenza che ha cancellato alcune parti di una legge elettorale, il cosiddetto Italicum. Cosa pensa della proposta di anticipare il giudizio di costituzionalità sulle leggi elettorali a prima della promulgazione, visto queste leggi finiscono puntualmente davanti alla Corte? Sarebbe un’innovazione di rango costituzionale che ci attribuirebbe una nuova e specifica competenza e avvicinerebbe la Corte costituzionale italiana a quei supremi tribunali elettorali che esistono in alcune esperienze sudamericane, per esempio in Messico. A mio avviso sarebbe una stranezza, renderebbe la Corte una sorta di co-legislatore in materia elettorale e la butterebbe nell’agone politico proprio sulla più politica delle leggi. Sono scelte del legislatore, è chiaro, ma la mia opinione è che per la Corte si tratterebbe di un “dono avvelenato”. La Corte ha ormai aperto una strada ai ricorsi diretti dei singoli parlamentari sul procedimento legislativo e sempre più spesso la possibilità di ricorso alla Consulta viene utilizzata nel dibattito politico come un avvertimento preventivo nei confronti della maggioranza. Non vede il rischio che la Corte possa trasformarsi non dico in una terza camera, ma quasi in un tribunale delle minoranze parlamentari? Il tema è vedere se sia utile fare come in Francia, dove dagli anni Settanta è stata introdotta la possibilità per la minoranza di fare ricorso preventivo contro una legge appena approvata e prima che sia promulgata. Da noi sarebbe probabilmente un modo per sollecitare una maggiore attenzione alle procedure e al rispetto delle prerogative costituzionali di tutti i parlamentari. Ma vi sarebbe il rischio di attirare la corte nel mezzo di polemiche politiche relative a scelte appena compiute dal legislatore. Qui da noi, però, si sta affermando un monocameralismo sostanziale e le polemiche così come i ricorsi annunciati o presentati riguardano sempre più spesso il metodo di approvazione delle leggi e non il merito dei provvedimenti... Mi permetto di dire che anziché ricorrere all’aiuto esterno di istanze giurisdizionali o para giurisdizionali, il parlamento dovrebbe avere uno scatto di orgoglio al suo interno e difendere il suo ruolo e la sua centralità con la propria autorevolezza. Sarebbe la strada migliore, senza la necessità di immaginare chissà quali riforme. Cagliari. Tragedia in carcere: detenuto 80enne si toglie la vita impiccandosi sardegnalive.net, 29 dicembre 2020 L’uomo era ritornato nella Casa circondariale di Uta dopo un permesso premio trascorso in famiglia e stava effettuando il periodo di quarantena con altri detenuti. Si è tolto la vita in carcere Salvatore Floris, 80 anni, arrestato nel 2014 perché accusato di aver ucciso Salvatore Zanda, allevatore di cavalli che era stato freddato con una fucilata a pallettoni nelle campagne di Villasimius. L’allevatore e vicino della vittima, secondo l’accusa aveva agito dopo continue liti per gli sconfinamenti dei cavalli nel suo terreno. Era detenuto nel carcere di Uta. Questa notte l’estremo gesto: si è impiccato in cella. “Il suicidio di una persona lascia senza parole ma purtroppo è un segnale doloroso e indelebile della condizione di solitudine e perdita della speranza. Una sconfitta che induce tutti a riflettere soprattutto in questa fase dell’anno”, è il commento di Maria Grazia Caligaris, “Una tragedia imprevedibile considerando che l’uomo era ritornato nella Casa Circondariale dopo un permesso premio trascorso in famiglia e stava effettuando il periodo di quarantena con altri detenuti”. Brindisi. Muore nella Rems di Carovigno in attesa che il giudice decida il trasferimento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 dicembre 2020 L’uomo internato nella Rems di Carovigno era un malato terminale, non più socialmente pericoloso. L’udienza rinviata al 21 gennaio e poi anticipata al 7. Nella Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) pugliese di Carovigno c’era un malato terminale, con tanto di piaghe da decubito e non più socialmente pericoloso. Lo stesso direttore della struttura aveva dichiarato che era incompatibile, visto che non hanno gli strumenti per assisterlo “negli ultimi giorni della sua vita”. Parliamo nel passato perché ieri l’uomo è deceduto. Muore senza essere stato assistito adeguatamente visto che una Rems - seppur virtuosa come quella pugliese - non è una struttura per curare le persone con gravi patologie fisiche, ma esclusivamente quelle con disagi psichici. Una vicenda tragica e indicibile dove, ancora una volta, la giustizia considera le persone come numeri di protocollo. Una giustizia che assomiglia sempre di più ad una sorta di burocrazia del male. Visto la situazione dell’uomo, il 10 dicembre scorso si è celebrata l’udienza per il riesame della pericolosità sociale, ed in tale occasione l’avvocato Conte ha rappresentato la grave situazione di salute del detenuto, di cui comunque il Giudice era stato informato dalla Rems, e il venir meno di qualsivoglia indice di pericolosità sociale. Quindi l’uomo andava subito trasferito in una struttura idonea non solo perché incompatibile per motivi di salute, ma anche per il fatto che la misura di sicurezza non aveva alcun senso visto il suo non essere più socialmente pericoloso. Nonostante ciò non è stata revocata la misura, limitandosi il Tribunale a rinviare l’udienza al 21 gennaio e chiedendo un aggiornamento alla Rems e interessando il Centro di salute mentale di Maglie (Le) per l’individuazione della struttura dove ricoverare la persona. Ma è troppo tempo. Come può rimanere l’uomo, gravemente malato, in una struttura non adatta per poterlo assistere? Si stava palesando, come l’avvocato ha denunciato a Il Dubbio, un evidente trattamento disumano e degradante. Il 18 dicembre scorso, è giunta all’avvocato una ulteriore relazione della Rems, con la quale, sentito il parere del responsabile del centro di salute mentale, si indica la necessità di un “trasferimento urgente del paziente in ambiente idoneo alle sue attuali gravi condizioni di salute”. Con la stessa relazione veniva, come detto, esclusa la pericolosità sociale. A quel punto è stata anticipata l’udienza al 7 gennaio. Ma è sempre troppo tempo. Lo stato di salute risultava assolutamente precario, infatti dalla descrizione clinica, si legge: “disorientato, afasico, allettato, incontinente, si alimenta con fatica, iniziano le piaghe da decubito”, nella stessa relazione scrivono nero su bianco di “ultimi giorni della sua vita”. Visto la drammaticità della situazione, l’avvocato ha chiesto con la massima urgenza di anticipare ulteriormente il riesame della pericolosità sociale, ma soprattutto di disporre d’ufficio il trasferimento dell’uomo in una struttura adeguata alle sue gravissime condizioni di salute. Questo il 21 dicembre, ma nulla da fare: nonostante ciò è rimasto in condizioni palesemente disumane nella Rems. Alla fine ieri si è tragicamente realizzato il pericolo prospettato dalla relazione della struttura stessa: è morto senza adeguate cure farmacologiche e assistenza continua. Milano. Allarme Covid nelle carceri. La Caritas: 260 positivi tra i detenuti di Federico Berni Corriere della Sera, 29 dicembre 2020 Nella seconda ondata il 7,7 per cento della popolazione complessiva raggiunto dal contagio. Spazi ridotti e limitazioni a familiari e volontari aggravano la situazione: “A molti mancano i vestiti invernali”. Il Covid restringe ulteriormente gli spazi di libertà nelle carceri milanesi. L’allarme arriva da una ricerca di Caritas Ambrosiana, che parla di 260 detenuti positivi al virus tra quelli ospitati nei tre istituti del capoluogo (San Vittore, Bollate, Opera), anche se è guerra di cifre con il Ministero della Giustizia, secondo cui il dato relativo ai contagiati è drasticamente più basso (in tutto 160 persone, la metà delle quali a Bollate). Stando al report degli operatori dell’Area carceri, la cosiddetta seconda ondata ha colpito più duramente all’interno dei penitenziari rispetto alla prima, con il 7,7 per cento della popolazione complessiva raggiunto dal contagio (senza dimenticare la morte, ai primi di dicembre, dell’ispettore di polizia penitenziaria Mario De Michele). Percentuale più alta rispetto al alla prima ondata della pandemia nella scorsa primavera, e che si spiegherebbe solo in parte con il trasferimento di malati da altre strutture lombarde in due “hub” allestiti in questi mesi a Bollate e San Vittore per fronteggiare l’emergenza sanitaria. Situazione che va a gravare sul problema congenito della realtà carceraria cittadina, quello del sovraffollamento: 3.400 detenuti presenti, rispetto ai 2.392 previsti sulla carta. Una situazione di sofferenza che resiste nonostante il calo dell’8 per cento, rispetto alla situazione di inizio anno: prima, cioè, dei numerosi provvedimenti di rilascio o di alleggerimento delle misure di custodia adottati per sgravare le strutture all’epoca della prima ondata. L’obbligo di garantire gli spazi adeguati per l’isolamento dei positivi, però, restringe quelli dei detenuti sani. Per questo, riporta il documento della Caritas, “molti reclusi sono stati trasferiti in altri reparti, trovandosi così a condividere la cella con più persone di prima”. Ma non è l’unico effetto a catena della pandemia. Si segnalano, infatti, tensioni derivanti da chiusura dei reparti, in certi casi delle singole celle. E poi stop alla scuola, e a tutte le altre attività culturali e ricreative. Limitazioni all’accesso dei volontari (“a molti mancano vestiti adatti per l’inverno”) e ai colloqui con avvocati e familiari (il 12 dicembre la protesta delle mogli dei detenuti all’esterno di San Vittore). Si chiede quindi di intervenire su tre fronti: misure alternative al carcere per chi ne ha diritto, poi continuità degli interventi educativi e, dove sarà possibile, meno restrizioni, perché, afferma Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana, “la gestione della crisi sanitaria non può prescindere dalla tutela dei diritti”. Milano. Il Garante dei detenuti: “Nelle carceri situazione di sofferenza, ma diritti rispettati” Redattore Sociale, 29 dicembre 2020 Il Garante dei detenuti Francesco Maisto risponde alla denuncia di Caritas Ambrosiana sulle condizioni dei reclusi. I contagi sarebbero sotto controllo e le misure di sicurezza “non sono un paravento e vengono verificate ogni giorno in base alle indicazioni dei referenti sanitari”. “Certamente è un periodo questo di sofferenza per i detenuti degli istituti penitenziari, ma dal nostro punto di vista non risultano nelle carceri milanesi riflessi sulla riduzione dei diritti fondamentali”. Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano, non condivide il quadro della situazione nelle carceri di Bollate, Opera e San Vittore che emerge dal documento che Caritas Ambrosiana ha reso noto oggi. Secondo la Caritas Ambrosiana c’è un problema di sovraffollamento ancora oltre i limiti di guardia, un aumento dei positivi al Covid rispetto alla prima ondata con misure coercitive assunte in nome della sicurezza sanitaria che portano a tenere sempre chiuse le celle e una sospensione di alcune attività risocializzanti come la scuola e di servizi essenziali affidati ai volontari. Sui contagi, innanzitutto, il Garante assicura che la situazione è sotto controllo: “Nei 18 istituti penitenziari della regione Lombardia, 11 non hanno subito contagi da Covid - racconta Maisto: attualmente gli infetti sono 265 in tutta la regione, a fronte della più grave rilevazione del mese passato in cui erano 400. A Milano i contagiati attuali sono 168 nei tre istituti di cui 98 a Bollate, 29 ad Opera (di cui 9 in ospedale) e 41 San Vittore (di cui 1 in ospedale)”. Il problema del sovraffollamento c’è anche secondo il Garante, ma le misure di sicurezza anti-covid “non sono un paravento per ridurre i diritti dei detenuti e vengono verificate ogni giorno dai Garanti, valutando che sia corrispondenti alle indicazioni dei referenti sanitari anti-covid presenti in ciascun istituto”. Per quanto riguarda la riduzione dei volontari nelle tre carceri, Maisto precisa che “la situazione dei tre istituti va tenuta ben distinta e le limitazioni non sono uguali. Tra l’altro circa due settimane fa abbiamo fatto una riunione con 78 volontari del carcere di Bollate e nessuno ha fatto emergere i problemi denunciati oggi dal documento di Caritas Ambrosiana”. Lecce. Una Social Academy oltre le sbarre con dolci e tessuti di Giulio Sensi Corriere della Sera, 29 dicembre 2020 Il lavoro in carcere abbatte la recidiva dell’80 per cento. È fondamentale aiutare le persone detenute a ricostruire competenze personali per far sì che non tornino recluse. La pandemia non ha abbattuto la carica di Luciana Delle Donne, imprenditrice sociale e creatrice del marchio Made in Carcere, né la sua voglia di continuare a lavorare con giovani, donne e chi vive ai margini della società per un nuovo modello di economia. Ha cominciato una quindicina di anni fa, quando interruppe volontariamente una brillante carriera passata nel mondo della finanza ad occuparsi di innovazione tecnologica. Aveva fatto nascere la prima banca online in Italia, ma il richiamo etico del sociale era troppo forte. “È stato facile - racconta- convertire la mia passione e il mio lavoro nel mondo dell’innovazione sociale, facendo sempre da apripista in nuove attività. Dopo anni di sforzi e sacrifici, il 2020 è stato però l’anno più difficile e massacrante - aggiunge - perché tutti i percorsi si sono bloccati e non è stato semplice convertire immediatamente le attività. Sembrava un incubo. Ci siamo però rimboccati le maniche per produrre mascherine da donare alle comunità carcerarie e a tanti altri bisognosi per difendersi dal virus”. Da Lecce Da anni dietro a Made in Carcere c’è un progetto che restituisce un’altra possibilità a chi si trova temporaneamente a vivere l’esperienza della reclusione, soprattutto donne e minori. Dal primo laboratorio sartoriale avviato nel carcere di Lecce - e già riprodotto in altri istituti penitenziari - è nata l’idea di una “Social Academy”: nel 2021 darà formazione, lavoro e prospettiva a oltre 60 persone in varie forme di detenzione. Coinvolgerà persone private dalla libertà a Bari, Lecce, Trani, Taranto, Matera, Nisida, grazie al sostegno di Fondazione con il Sud. “Il nostro progetto - riprende Luciana - si sta consolidando verso un modello di economia generativa: non produciamo solo manufatti coinvolgendo i detenuti, ma lo condividiamo con percorsi formativi per altre realtà cooperative e imprenditoriali. Il lavoro in carcere abbatte la recidiva denota ed è fondamentale aiutare queste persone a ricostruire competenze personali e dignità, a riappropriarsi della consapevolezza di sé, per fare in modo che non tornino recluse”. Made in Carcere non è solo un modello efficace di innovazione sociale e di inclusione. È anche un esempio di sostenibilità ambientale, perché i materiali con cui sono cuciti i manufatti ricevono una nuova vita: sono tessuti donati da aziende che, invece di disfarsene, ingolfando il sistema di smaltimento ed inquinamento, preferiscono far sì che questi rivivano sotto le mani di chi cerca, ogni giorno, di ricostruire la propria vita. “Diventerebbero rifiuti - spiega ancora Delle Donne - ma noi li trasformiamo in gadget personalizzati o accessori che non amiamo definire di moda ma di stile. Abbiamo cercato di costruire oggetti semplici da cucire, perché le persone nel giro di pochi mesi dovevano avere la possibilità di percepire uno stipendio per diventare autonome”. Grazie al carisma, alle relazioni col mondo dell’impresa di Luciana, a una forte strategia di presenza online sui social media e nell’e-commerce, al lavoro dello staff di Made in Carcere, il progetto ha avuto successo e i gadget hanno riempito eventi e attività in tutta Italia. Ha dato lavoro a centinaia di detenuti e favorito la loro riabilitazione: borse, pochette, fasce, sciarpe e tanti altri oggetti colorati, ricuciti come tenta di essere intessuta la vita delle donne che li realizzano. Luciana non è gelosa del suo marchio, risponde sempre alle chiamate degli altri territori per dare consigli, contatti e sostegno. “Da Lecce siamo andati a Trani, poi Matera e Taranto. Accompagniamo sartorie sociali a Verona, Grosseto, Catanzaro. Adesso c’è l’ambizione della Social Academy nel 2021: un sogno che si realizzerà nonostante le difficoltà che stiamo vivendo. Anche in realtà non necessariamente legate al mondo del tessile, perché il modello di economia rigenerativa che portiamo avanti declina un po’ le modalità di stare sul mercato dell’impresa sociale. Non solo sartoria, ma anche agricole, alimentari, di falegnameria. Nel carcere di Bari abbiamo avviato una pasticceria che realizza e vende biscotti vegani certificati biologici, così come in quello di Nisida abbiamo aiutato un’altra pasticceria che impiega i minori”. il motto di Luciana è “trasformare il Prodotto Interno Lordo in Benessere Interno Lordo”, il Pil in Bil. “Vuoi dire investire nel futuro. È un processo tutto da costruire, che necessita di consumatori consapevoli. L’altro giorno una signora si è avvicinata ad un nostro corner che noi definiamo “la Scala dei Valori” dicendo che voleva spendere un po’ di soldi. Le ho risposto che non stava spendendo soldi, ma investendo nel nostro futuro. Che è il futuro di chi altrimenti non avrebbe futuro”. Napoli. Covid-19: contagi sotto controllo nel carcere di Poggioreale ansa.it, 29 dicembre 2020 Dopo 3 mesi da primo caso e picco 164 contagi ora solo 5 “positivi”. Dopo circa 3 mesi dal primo caso di Sars-Cov-2 è ormai sotto controllo il contagio nella Casa Circondariale di Napoli Poggioreale, il carcere più affollato d’Europa. Secondo i dati resi noti dai vertici dell’istituto penitenziario al momento ci sono solo 5 “positivi”. A monitorare il contagio è stata la Polizia Penitenziaria, con il commissario Ciro Cozzolino e l’ispettore Salvatore De Cicco. L’emergenza è stata gestita con il personale infermieristico e medico dell’Asl Napoli 1, il personale sanitario della Protezione Civile e con i medici dell’Usca, questi ultimi coordinati dal dottor Alessandro D. Oliviero, Task Force (piccole unità mobili dell’Asl metropolitana) impiegate per il monitoraggio ed il contrasto del virus fortemente voluto dal comandante della Polizia Penitenziaria dirigente aggiunto Gaetano Diglio e dal direttore dell’Istituto Carlo Berdini, dal direttore sanitario Irollo, che ha operato con l’obiettivo comune di tutelare la salute di tutti, soprattutto dei 2.250 detenuti ristretti nella Casa Circondariale di Napoli Poggioreale a fronte della capienza regolamentare di 1.633. Per identificare e isolare il virus sono stati eseguiti 3.596 tamponi (pari al 160% della popolazione detenuta, 2.566 eseguiti dall’U.S.C.A., 1030 dalla Direzione Sanitaria Interna); 179 sono stati i contagiati di cui 119 sono stati i casi di positività gestiti contemporaneamente nel picco di massimo di contagio e 164 i soggetti che si sono successivamente negativizzati (pari al 97% dei positivi). Cinquecento sono stati infine, i detenuti posti in quarantena precauzionale/fiduciaria. Per quanto riguarda, infine, il Corpo Polizia Penitenziaria sono stati 85 i “positivi” emersi dai controlli, 72 negativizzati, 69 sottoposti in quarantena fiduciaria. Al momento c’è ancora un agente “positivo” e tre in quarantena fiduciaria. Napoli. Torna in cella a Natale dopo 22 anni. La moglie: “È cambiato, aiutatelo” Corriere del Mezzogiorno, 29 dicembre 2020 “Ha sbagliato da giovane ma ha un lavoro onesto, moglie e tre figli”. L’ordine di carcerazione per fatti del 1999. L’avvocato Pisani chiede la grazia a Mattarella. “Ha commesso degli errori quando aveva 26 anni, poi però ci siamo sposati e lui è cambiato totalmente, adesso ha tre figli e da allora anni lavora onestamente. Ora, dopo 21 anni, arriva questa sorpresa”. Chiede aiuto la moglie di Giuseppe Marziale, il 47enne per il quale nei giorni scorsi si sono aperte le porte del carcere per reati commessi nel 1999. All’epoca militava in un gruppo camorristico dei Quartieri Spagnoli di Napoli e per conto di quella camorra ha commesso dei reati per i quali è stato condannato. Dopo tutti questi anni deve scontare una pena di 11 anni, 11 mesi e 16 giorni di reclusione per associazione mafiosa e spaccio di droga, anche se nel frattempo ha cambiato totalmente “pelle”. “Se lo sono preso e lo hanno portato via - dice la moglie in un messaggio video registrato per chiedere aiuto - e la cosa più brutta è stata dirlo ai figli. Vi chiedo di aiutarmi perché è ingiusto scontare una pena dopo 22 anni e perché Giuseppe Marziale è cambiato totalmente”. Nel 1999 faceva parte di un gruppo malavitoso di stanza nella zona di Sant’Anna a Palazzo, i cui componenti, fatta eccezione per lui, che ha cambiato strada, sono tutti finiti ammazzati. Giuseppe, che tutti chiamano Pippo, adottò la “retta via” lavorando onestamente. Il Tribunale del Riesame, infatti, lo scarcerò, dopo l’arresto, per mancanza di esigenze cautelari. Ma sabato scorso, a distanza di 21 anni da quei fatti, è stato raggiunto da un ordine di carcerazione. “Questa carcerazione - commenta il legale di Giuseppe, l’avvocato Sergio Pisani - rappresenta il fallimento totale dell’attuale sistema giustizia. Che senso ha, dopo 21 anni da un reato, far scontare 11 anni di reclusione ad un soggetto che in un ventennio si è totalmente riabilitato lavorando onestamente e mettendo su famiglia? Chiederemo la grazia al Presidente della Repubblica perché la funzione rieducativa della pena non si trasformi in una mera funzione punitiva, annullando, di fatto, un percorso di vita che ora viene incredibilmente stroncato”. Roma. Verdini in cella con la barba lunga: faccio il tutor ai detenuti di Concetto Vecchio La Repubblica, 29 dicembre 2020 L’ex senatore impegnato anche nella cooperativa che produce il caffé Galeotto. La barba lunga, lo sguardo stanco, in tuta, Denis Verdini incontra l’onorevole Polverini davanti alla sua cella a Rebibbia alla vigilia di Natale: “Renata, le condizioni delle carceri italiane sono incivili! Noi del centrodestra abbiamo sbagliato a non affrontare mai la questione”. “Ma parla per te!”, lo rintuzza ridendo la deputata di Forza Italia, che anche quest’anno ha distribuito i panettoni nelle galere. “Guarda qui”, le dice Verdini, allargando il braccio sul corridoio rumoroso di voci. “È dura sia per i detenuti che per le guardie carcerarie. Avremmo dovuto fare una grande battaglia politica “. Verdini, con quell’aria da attore, facondo e guascone, era una delle maschere della Seconda Repubblica. Tutto in lui era eccessivo, un potente, per giunta ricchissimo, che viaggiava in Maybach, e adesso ha trascorso le feste in una cella di pochi metri quadri. Dal 3 novembre sconta una pena a 6 anni e mezzo per il crack del Credito fiorentino. Ma l’affetto degli amici non è venuto meno. Sono andati a trovarlo Matteo Salvini, che è il compagno della figlia Francesca, Matteo Renzi, Luca Lotti, Maurizio Lupi, e altri ancora. Verdini lavora nell’amministrazione della cooperativa che produce il caffé Galeotto e fa da “tutor” ad alcuni detenuti che si stanno laureando. Chi vuole varcare il pesante portone del penitenziario deve esibire un tampone negativo fatto il giorno primo, e anche là dentro tutti indossano le mascherine, la Polverini addirittura tre. Verdini occupa una cella singola, c’è posto per la branda, la tv, il cucinino, il cesso alla turca. “Non si dà pace”, dice Polverini. “Abbiamo anche parlato di politica, con qualche battuta sul centrodestra e sul governo, ma senza la passione che aveva fuori. Il carcere pesa”. I famigliari, spiega l’avvocato Marco Rocchi che lo difende con il professor Franco Coppi, hanno diritto a quattro visite al mese, contingentate causa Covid. “Gli ho detto: Denis, tagliati il barbone “, rivela Daniela Santanché. “E fai un po’ di moto, non rinunciare all’ora d’aria in cortile, non stare sempre chiuso qui dentro. Quando l’ho visto io il morale era così così. Legge di malavoglia i giornali, infatti sulla branda aveva sparpagliati dei libri. “Guardo poco anche la tele, preferisco studiare”. È probabile che le immagini che vengono da fuori, la neve, la corsa a vaccinarsi, le tribolazioni di Conte, lo immalinconiscano. Alcuni detenuti fermano la senatrice Santanché, la stuzzicano sulle sue posizioni legge e ordine: “Sì, resto contraria a indulto e amnistia”, tiene il punto. A maggio Verdini compirà 70 anni. I suoi legali potranno presentare domanda per gli arresti domiciliari, ma l’ultima parola spetterà al tribunale di sorveglianza. A giugno inizierà il processo d’appello per la bancarotta della Ste, la società che editava Il Giornale della Toscana, per la quale è stato condannato a 5 anni e mezzo, e poi un altro giudizio, sempre per bancarotta, altri 3 anni e 4 mesi. Un duro inverno attende Verdini. Savona. Rifondazione Comunista: “Sì al nuovo carcere in città” La Stampa, 29 dicembre 2020 Criticato il progetto di una sede in Valbormida. Fabrizio Ferraro, segretario provinciale di Rifondazione Comunista e Marco Ravera, consigliere comunale “Rete a Sinistra - Savona che vorrei” rilancio l’idea che Savona ospiti il nuovo carcere. “Nelle ultime settimane si è tornato a parlare con insistenza del nuovo carcere. Dalla chiusura del Sant’Agostino, infatti, - scrivono in una nota - la provincia di Savona è rimasta senza casa circondariale. Un’assenza pesante, che ha causato problemi di sovraffollamento delle strutture degli altri circondari, incrementato i tempi di spostamento dei detenuti in vista delle udienze, aggravato il lavoro della polizia penitenziaria e generato disagi per i familiari dei detenuti stessi”. “Per tutte queste ragioni - proseguono - riteniamo importante la realizzazione del nuovo carcere della nostra provincia, peraltro prevista per legge; non condividiamo tuttavia la possibile scelta della Val Bormida, e quella di Cengio in particolare. Ci sembrerebbe irragionevole per la distanza dalla città capoluogo e dal Tribunale, con difficoltà per agenti e parenti dei detenuti, e renderebbe molto più difficile il rapporto con il volontariato e con i servizi. Sarebbe, infine, inopportuno costruirlo nelle aree dell’ex-Acna di Cengio, al centro di un disastro ambientale di grandi proporzioni nei passati decenni, e solo di recente bonificata (ma sul completamento della bonifica e sulla possibilità di edificarvi esistono pareri anche molto critici)”. “Per questo rilanciamo l’idea di trovare - concludono - una collocazione consona e sicura nella città di Savona e sollecitiamo la Giunta comunale ad attivarsi in tal senso. Non vi è nulla di sbagliato o di punitivo ad ospitare il carcere, ed è necessario tutelare i diritti sia dei detenuti con le loro famiglie, sia degli agenti di polizia penitenziaria”. Lucca. “Non allontaniamo il carcere dal centro storico” Il Tirreno, 29 dicembre 2020 Quando anche gli spazi possono giocare un ruolo importante nelle politiche sociali, comprese quelle per il recupero di chi ha fatto scelte di vita sbagliate. Va in questo senso la riflessione di Daniele Bianucci, consigliere comunale con delega sui diritti, e ispirata dalla recente visita del senatore Marcucci e dell’assessore regionale Baccelli al San Giorgio. “Ho letto - scrive Bianucci - la notizia della visita del senatore Andrea Marcucci e dell’assessore regionale Stefano Baccelli al carcere San Giorgio di Lucca. Segno evidente di un’attenzione e di una sensibilità davvero importanti, che sento profondamente vicine alla mie. In particolare riconosco con piacere, al senatore Marcucci, un impegno che, su questo tema, con coerenza va avanti da anni”. Su un punto però Bianucci trova una divergenza, appunto quello della collocazione del carcere: “Su una questione specifica - riprende il consigliere - da loro espressa nel corso della visita, sento il bisogno di esprimere una diversità di pensiero: e lo faccio con l’esclusiva speranza che possa contribuire, sull’argomento, a sviluppare un dibattito cittadino, sereno e costruttivo. Non penso affatto che allontanare il carcere dal centro storico rappresenti un’occasione per “restituire alla città il bellissimo chiostro che ospita il San Giorgio”. La struttura del carcere è già attualmente nella disponibilità della comunità: al servizio dei propri concittadini che hanno commesso un errore; e che per questo stanno pagando il proprio debito, attraverso pene che, come ci ricorda la Costituzione, “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Certo, esiste ed è forte il bisogno di integrare sempre di più la vita del carcere con quella della città, nel suo complesso. Era questo l’intento che per tanti anni ha guidato l’impegno meraviglioso di Don Beppe Giordano, a lungo cappellano della struttura. È questo l’obiettivo che sta portando avanti l’amministrazione comunale di Lucca, così come gli operatori e i volontari delle associazioni, che con dedizione, ogni giorno, proseguono la loro coraggiosa attività. E per la quale meritano tutta la nostra gratitudine. Si può anche riflettere sull’opportunità di trovare una nuova collocazione al carcere, e il percorso per la redazione del piano operativo, attualmente in fase di elaborazione, rappresenta in tal senso un’opportunità. Mi piacerebbe che ogni ragionamento in tal senso partisse però dall’impellente necessità che la testimonianza di vita dei carcerati, che tanto ci possono insegnare pure per la nostra quotidianità, restasse al centro, anche fisico, delle esistenze di tutti noi. E questo Natale, per tanti versi improntato anche alla solitudine fisica, forse ci ricorda proprio di quanto sia importante che la città mai si dimentichi di alcuno dei propri fratelli. Compresi quelli che hanno sbagliato”. Catanzaro. Il presepe in carcere durante la pandemia avveniredicalabria.news, 29 dicembre 2020 Nonostante l’emergenza sanitaria si è rinnovato l’appuntamento per i detenuti del carcere di Siano. “Il presepe è famiglia, è affetto. E proprio per sentire meno lontani i loro affetti e le loro famiglie, i detenuti del carcere di Siano ogni anno si mettono all’opera per rappresentare una natività diversa, che - già solo per il contesto carcerario che fa da cornice - assume un significato profondo”. Con queste parole la direttrice dell’istituto penitenziario, Angela Paravati, spiega il senso della sesta edizione del concorso “Il Messaggio dei Presepi” alla Casa Circondariale di Catanzaro, la cui premiazione si è svolta alcuni giorni fa nel corso di una manifestazione “a distanza” organizzata dall’istituzione in collaborazione con l’associazione Consolidal Ets, presieduta dall’architetto Teresa Gualtieri. “Il Covid non ha fermato l’evento che è ormai una tradizione” ha commentato l’architetto Teresa Gualtieri, ed infatti la manifestazione ha visto la presenza anche del Garante regionale dei detenuti Agostino Siviglia, intervenuto personalmente, ma anche, in videoconferenza, dell’assessore alla cultura del comune di Catanzaro Concetta Carrozza, del direttore dell’ufficio detenuti del Provveditorato regionale Giuseppina Irrera, della consigliera di parità della Provincia di Catanzaro Elena Morano Cinque, del docente universitario a riposo e pedagogista Nicola De Cumis, da anni volontario presso l’Istituto e del dirigente scolastico dell’istituto Petrucci Maresca Elisabetta Zaccone. Sette presepi sono stati realizzati dalle persone detenute presso la Casa Circondariale: sette sfide per far nascere Gesù in carcere durante la pandemia, in un doppio isolamento. Un significato ancora più autentico, essendo la nascita, secondo i Vangeli, avvenuta in una grotta, al freddo, in un ambiente ostile alla vita proprio come è il mondo intero oggi, afflitto dall’emergenza epidemiologica. E così troviamo personaggi dei presepi con la mascherina, tensostrutture e spazi di emergenza medica rappresentati accanto alla capanna con la sacra famiglia, il bue e l’asinello. Un contrasto che fa riflettere: come è presente la pandemia, è presente anche, ancora una volta, una nascita che rilancia e vince una sfida, contro tutte le previsioni. E si arriva così al presepe in mongolfiera che poeticamente riesce a vincere i mali del mondo elevandosi al di sopra di essi e che ha avuto un premio speciale. Vincitori a pari merito il presepe intitolato Angeli Di Dio e l’opera “Il presepe con il gruppo di preghiera Rinnovamento dello spirito”. Da notare il “dolce Covid” realizzato nel laboratorio di pasticceria dei detenuti dell’Istituto. Il Garante regionale dei detenuti Agostino Siviglia ha apprezzato l’iniziativa affermando che: “È stata la risposta migliore che i detenuti potevano dare a questo periodo di isolamento”. Pisa. Da Unicoop Firenze 380 panettoni ai detenuti del carcere Don Bosco caritaspisa.com, 29 dicembre 2020 L’iniziativa di un gruppo di cittadini con ruoli istituzionali e della sezione soci di Pisa. Anche quest’anno, come in passato, è stata realizzata la donazione dei panettoni per i detenuti del carcere Don Bosco. L’iniziativa, promossa insieme da persone che hanno ruoli istituzionali e dalla sezione soci della Coop, con il contributo operativo della Caritas di Pisa, ha “il doppio obiettivo di dare da un lato un segnale di solidarietà concreta verso chi vive una situazione ai limiti della civiltà, in un sistema carcerario caratterizzato dal sovraffollamento e dal degrado strutturale, pesantemente aggravata dall’emergenza sanitaria prodotta dal coronavirus - scrivono i promotori dell’iniziativa. Dall’altro intende richiamare l’attenzione su un problema serio come quello dello stato e del funzionamento degli istituti di pena italiani, in cui si avvertono tutti i rischi di una lesione dei diritti umani. Le misure restrittive necessariamente indotte dalla pandemia hanno accentuato i fattori e le condizioni che mettono in crisi la dignità umana dei detenuti, in un contesto che isola, disumanizza i rapporti e le relazioni, e alla fine spinge alla recidiva, e il risultato non va certamente nella direzione di un miglioramento della sicurezza. Per questo riteniamo importante segnalare l’urgenza del problema e ci auguriamo che da parte dello Stato, del Governo e del Parlamento ci sia l’attenzione che merita” I panettoni donati da Unicoop Firenze-Sezione soci Pisa e consegnati sono 380 e saranno distribuiti dalla Caritas di intesa con la Direzione del Don Bosco. Allo stesso tempo sono stati consegnati al direttore Caritas Don Emanuele Morelli 400 euro per aiutare i detenuti in maggiore difficoltà, frutto della sottoscrizione dei deputati (in carica ed ex) Lucia Ciampi, Stefano Ceccanti, Paolo Fontanelli, Maria Grazia Gatti, dalle assessore regionali Alessandra Nardini e Serena Spinelli, del consigliere regionale Andrea Pieroni e del presidente del Consiglio regionale Antonio Mazzeo. Al carico dei panettoni predisposto alla Coop di Porta a Mare erano presenti la presidente della sezione soci pisana Angiolina Rovetini, il vicepresidente Sergio Brondi, la consigliera del direttivo Titina Maccioni, oltre a Don Morelli e all’onorevole Paolo Fontanelli, che hanno poi provveduto alla consegna alla presenza del direttore della Casa circondariale Francesco Ruello. Gela (Ct). Volontari in carcere, doni per i detenuti di Maria Teresa Corso quotidianodigela.it, 29 dicembre 2020 Solidarietà e speranza non conoscono confini, riescono a raggiungere anche chi è costretto a vivere dietro le sbarre. I volontari della Comunità di Sant’Egidio hanno donato prodotti di prima necessità e panettoni come simbolo del Natale ai detenuti della Casa Circondariale di contrada Balate, diretta da Cesira Rinaldi. Il pranzo di Natale, offerto ogni anno dalla Comunità di Sant’Egidio è stato quest’anno sostituito con la consegna di doni utili, così da poter consentire ai volontari di dimostrare ai detenuti la loro concreta vicinanza, nonostante le difficoltà generate dalle restrizioni imposte dall’emergenza Covid. “Le donazioni dei volontari della Comunità di Sant’Egidio - sostiene la direttrice della Casa Circondariale - sono state infatti recepite dai detenuti come un valore aggiunto alla difficile permanenza nella struttura”. Garantire sicurezza per ridurre i rischi di contagi all’interno della struttura della Casa Circondariale continua ad essere fondamentale, soprattutto durante il periodo delle festività natalizie in occasione delle quali la direttrice Cesira Rinaldi ha comunque voluto garantire ai detenuti l’opportunità di restare vicini ai propri familiari. “Le donazioni da parte della Comunità di Sant’Egidio - afferma Selenia La Spina in rappresentanza della Comunità - sono state davvero importanti per i detenuti della struttura, costretti a vivere quotidianamente una realtà in cui la distanza si avverte maggiormente”. Le restrizioni imposte dall’emergenza Covid hanno rivoluzionato le tradizionali festività natalizie, da sempre trascorse con numerosi amici e parenti, rendendo il Natale del 2020 alquanto insolito e memorabile. Tuttavia, la direttrice della Casa Circondariale di contrada Balate si è impegnata affinché i detenuti potessero avvertire il calore dei propri familiari, sempre nel rispetto delle disposizioni di sicurezza. Il Natale è simbolo di speranza e augurarla anche con piccoli gesti diviene un momento davvero importante, soprattutto con l’emergenza Covid che ha oramai caratterizzato l’intero 2020. Il ritorno all’ordine in un mondo sottosopra combattendo la pandemia di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 29 dicembre 2020 La straordinaria prova offerta quest’anno dalla società civile - da chi ha combattuto la pandemia in prima fila - non può cancellare gli errori della classe dirigente. Dopo la Grande Guerra, ci fu nell’arte il rappel à l’ordre, il richiamo all’ordine. Si placarono i furori delle avanguardie e si riscoprirono i maestri rinascimentali e la classicità. Per semplificare: prima i pittori avevano sperimentato: astratti, cubisti, futuristi. Dopo pure Picasso tornò all’arte figurativa, insomma a fare le figure (e più tardi negherà di aver mai dipinto un quadro astratto in tutta la sua vita). Ecco, il 2020 sarà ricordato in politica come l’anno del ritorno all’ordine; il che, in un mondo sottosopra per la pandemia, può sembrare curioso. Per semplificare: il ‘900 è stato segnato dal comunismo, che predicava la dittatura di una classe sociale; dal fascismo, che teorizzava la prevalenza di una razza e di una nazione (ovviamente la propria) sulle altre; e dal liberalismo, convinto che la libertà d’intrapresa e di commercio avrebbe alla lunga portato benefici a ogni classe sociale e a ogni Paese. Il fascismo è stato sconfitto con la seconda guerra mondiale, il comunismo con la guerra fredda. All’inizio del nuovo secolo, è parso che pure il liberalismo si sentisse poco bene. Prima il 2008 della grande crisi, poi il 2016 della Brexit e di Trump sembravano aver inflitto un colpo mortale all’idea del libero scambio, della globalizzazione felice, della crescita perpetua, in una parola della liberal-democrazia. Se poi un anno fa qualcuno avesse vaticinato una pandemia capace di far crollare la produzione e l’occupazione, di bloccare i voli tra l’Europa e l’America, financo di impedirci di uscire di casa, avremmo pensato che stesse per scoppiare la rivoluzione. Invece è accaduto il contrario. Il ritorno all’ordine, appunto; o almeno così sembra. Trump ha perso un’elezione che senza il Covid avrebbe probabilmente vinto, e gli Stati Uniti hanno eletto il presidente più anziano della storia, un democratico di centro; un tipo “normale”. La Brexit ha partorito alla fine un accordo che salva il mercato unico tra Londra e il continente. Non solo, senza la Brexit non ci sarebbe forse stato lo scatto dell’Europa. La grande novità dell’anno è che, sull’onda della crisi sanitaria ed economica, Angela Merkel ha aperto al debito comune europeo. Una mossa che potrebbe consegnarla alla storia come la prima statista europea, e non solo come l’ultima statista tedesca; anche se ora sui vaccini Berlino è ripiombata nel solito egoismo, a discapito degli alleati. L’Europa non ha certo risolto i suoi problemi; i soldi di Next Generation Eu ancora non si sono visti; ma già Germania e Francia, i grandi Paesi saldamente governati dal centro, hanno recuperato la loro centralità, mentre i revanscismi diffusi nell’Est europeo sono stati ricondotti alla loro dimensione, inquietante ma non necessariamente dirimente. In Italia, il ritorno all’ordine ha segnato sia le elezioni regionali, sia la linea dei partiti un tempo considerati populisti. Campani e pugliesi di destra hanno rieletto De Luca ed Emiliano; veneti e liguri di sinistra hanno votato Zaia e Toti; e dove non c’era un uscente, come in Toscana, è stato riconfermato un sistema. I Cinque Stelle sono passati dai Gilets Jaunes a Macron. La Lega si interroga se sia davvero il caso di restare al fianco di Marine Le Pen - che peraltro quest’anno ha rinunciato ai toni estremisti - anziché dialogare con le donne che comandano davvero in Europa: Merkel, von der Layen, Lagarde. Questo non significa affatto che il 2020 abbia segnato la fine del sovranismo. A maggior ragione nel Paese forse più debole dell’Occidente; che purtroppo è l’Italia. La straordinaria prova offerta dalla società civile - da medici e infermieri che hanno combattuto la pandemia in prima fila, a imprenditori e operai che hanno tenuto duro - non può cancellare gli errori della classe dirigente. I ceti più esposti alla tentazione sovranista sono stati i più colpiti dalla crisi: le classi popolari si sono ulteriormente indebolite; si è allargata la forbice tra chi è garantito e chi no, tra chi può lavorare in smart-working e ricevere lo stipendio e il popolo degli autonomi, degli artigiani, delle partite Iva, dei precari. Inoltre si comincia a capire che l’Europa ha commesso un errore abbastanza clamoroso, puntando quasi tutto su un vaccino che ancora non c’è, e ordinando troppe poche dosi del vaccino che invece c’è. Di conseguenza la Cina, uscita per prima dall’emergenza, sarà seguita dall’America, non dal nostro continente; con la solita eccezione della Germania, che sta però cercando una scorciatoia che non le fa onore. Dopo la Grande Guerra non venne, in politica, un ritorno all’ordine. Vennero rivoluzioni comuniste e fasciste. La storia non si ripete mai due volte, anzi: “Non ritorna mai più niente”, come ammonisce Francesco De Gregori; e il fatto va accettato “come una vittoria”. Ma se l’Europa non riuscirà a vaccinare i suoi cittadini in modo efficace - proteggendo oltre agli anziani anche i lavoratori attivi - né a creare lavoro con i soldi del Recovery, allora il 2021 porterà altre sorprese; e non positive. L’Unhcr: “Per salvare i migranti bisogna risolvere il problema libico” di Giunio Panarelli Il Domani, 29 dicembre 2020 L’inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo Centrale, Vincent Cochetel, descrive una situazione molto difficile per i migranti a causa delle discriminazioni subìte nei paesi nordafricani e dell’indifferenza europea verso quello che sta accadendo nel Mediterraneo. La condizione dei migranti è peggiorata con la pandemia causata dal Covid-19. Vivevano ai margini e con il virus sono stati isolati e emarginati ancor di più. Soprattutto in Libia, dove sostano prima della partenza per l’Europa. Chi non finiva rinchiuso in un centro di detenzione riusciva a lavorare in nero. “Ma il Covid ha complicato le cose”, dice Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale, che racconta una situazione sempre più difficile che deve fare i conti con l’indifferenza europea. Qual è oggi la situazione dei migranti nel Mediterraneo centrale? In paesi come l’Algeria, la Tunisia e la Libia, il Covid-19 ha avuto un impatto pesante sulla vita quotidiana dei migranti innanzitutto da un punto di vista sanitario: in questi stati chi non ha la cittadinanza non ha potuto avere accesso alla rete di welfare sociale né ai servizi sanitari, ovviamente essenziali in un periodo di pandemia. Inoltre, molti migranti lavoravano in nero e ora si trovano senza nessuna forma di paracadute sociale. Tutti i paesi hanno risposto allo stesso modo? I problemi sono stati comuni, ma non tutti gli stati hanno reagito allo stesso modo: in Marocco le autorità hanno compreso che aiutare chi si trovava sul territorio era di interesse pubblico e ci sono stati diversi sforzi per curare queste persone; viceversa in aree come quella di Tripoli le persone sono state totalmente abbandonate a sé stesse in una situazione sanitaria pericolosissima se pensiamo che in media un migrante in quelle zone vive in un dormitorio con altre venti persone. I problemi però non sono solo di natura sanitaria… Purtroppo, no: la vera grande emergenza è quella di persone che finora lavoravano spesso senza essere dichiarate e senza alcuna forma di paracadute sociale. Questi individui si trovano ora senza possibilità di guadagno e pagano le conseguenze delle politiche interne dei paesi nordafricani che non prevedono tutele per chi non è loro cittadino né concedono facilmente la cittadinanza. Ho visto con i miei occhi la disperazione di queste persone: il portiere del mio palazzo, per esempio, è arrivato in Tunisia dopo essere partito dalla Cosa d’Avorio, suo paese natale, e si trova ora in una situazione totalmente precaria in cui non può contare in alcun modo sull’aiuto della comunità. Una delle cose che più credo debba farci riflettere è che, come mi ha spiegato, per lui è oggi meno costoso mettersi in viaggio verso l’Europa piuttosto che tornare nella sua terra d’origine. E la popolazione locale? Come ha reagito? La pandemia ha accentuato le discriminazioni già presenti verso i migranti provenienti dai territori sub sahariani. Molti nordafricani hanno accusato i migranti di essere portatori del virus. Una credenza che è arrivata fino a richieste estreme come quelle di buttare letteralmente fuori dai propri i territori i migranti fino ad allora presenti. Si tratta di un dramma che ha radici profonde in certi atteggiamenti razzisti delle popolazioni del Mediterraneo centrale dove molte persone accusano i migranti sub sahariani di venire nei loro territori per “rubare il lavoro”. È un atteggiamento molto simile a quello che gli xenofobi europei hanno verso i migranti che riescono ad arrivare nel nostro continente. Credo che queste visioni siano da far risalire alla tratta degli schiavi e al senso di superiorità che sia gli europei sia i nordafricani hanno verso queste etnie. Nel frattempo a novembre è iniziato il conflitto nella regione etiope del Tigray. Che impatto può avere questo conflitto sulle rotte migratorie? La situazione nel Tigray è molto preoccupante e sta già spingendo decine di migliaia di profughi eritrei ed etiopi a rifugiarsi nel Sudan che già dal 1967 accoglie profughi di questi paesi senza avere però mai riconosciuto a queste persone il diritto di lavorare. È chiaro che alcuni migranti si muoveranno dal Sudan e si rifugeranno in altri paesi. Penso soprattutto all’Egitto dove esistono già molte comunità eritree e quindi sarebbe semplice per queste persone trovare una rete sociale accogliente. La situazione in Libia sembra essere, però, quella più critica... Sicuramente quella in Libia è una situazione in molti casi drammatica. Attualmente sono solo otto i centri di detenzione per migranti in funzione. Questo significa che spesso le persone riportate a riva dalla Guardia costiera libica non finiscono nei centri di detenzione, ma questa non è necessariamente una buona notizia perché vuol dire che chi oggi viene rimpatriato è totalmente abbandonato a sé stesso. Ecco, appunto, la Guardia costiera libica. Cosa pensa dei sospetti sul suo coinvolgimento nel traffico di esseri umani? Le collusioni di una parte della Guardia costiera con i trafficanti di migranti sono note anche in Italia. Certo bisogna dire che si tratta di una minoranza. Inoltre, mi chiedo se si possa sempre parlare di corruzione. Cosa intende? Le faccio un esempio, una volta mi sono trovato a parlare in confidenza con un membro della Guardia costiera che mi ha detto di avere ricevuto un giorno la visita di alcuni uomini mascherati che sono piombati nel suo appartamento intimandogli di non andare a lavoro il giorno dopo. Dopo la visita il militare ha avvertito i suoi superiori di quanto accaduto, ma il giorno successivo non si è presentato al lavoro per paura delle possibili ripercussioni. Di fronte a una storia del genere mi chiedo: possiamo considerare persone come lui davvero “corrotte” dai trafficanti? Il problema della debolezza delle autorità libiche è sicuramente dovuto anche alla lotta avvenuta sinora tra il presidente libico Fayez al-Sarraj e il generale Kahlifa Haftar. In questi giorni si susseguono gli incontri per trovare la soluzione a un conflitto che dura ormai da quasi dieci anni. La pace a Tripoli potrebbe avere effetti sulle condizioni dei migranti nei paesi? Sinceramente non credo che una pace tra Haftar e al-Sarraj avrebbe vere ripercussioni sulla vita dei migranti se non la creazione di una maggiore stabilità economica e quindi di una maggiore offerta di posti di lavoro. Le critiche che facciamo ai due regimi sono pressoché identiche e soprattutto le forze di Haftar si sono rese responsabili in questo periodo di espulsioni di massa verso il Sudan e il Ciad. Come giudica l’Italia nella gestione dell’arrivo dei migranti durante questa pandemia? Credo che nei limiti del possibile l’Italia abbia compiuto un’azione molto importante dal punto di vista umanitario e anche coraggiosa da una prospettiva più di tipo politico decidendo di fare rimanere aperti i porti e di non chiudere le sue frontiere come fatto da altri paesi. Sicuramente quella delle navi quarantena non è stata una situazione facile, ma credo vada comunque riconosciuta la volontà di accogliere i migranti pur con la pandemia in atto. Negli ultimi mesi un’inchiesta giornalistica ha accusato Frontex di avere respinto alcuni barconi di in viaggio nel mar Egeo dalla Turchia verso la Grecia. È a conoscenza di situazioni simili nel Mediterraneo centrale? In questo tratto di mare il ruolo di Frontex è sicuramente ridotto. Non ho notizie di respingimenti, ma abbiamo dei dubbi su come la sorveglianza aerea venga utilizzata. Intende dire che potrebbe essere usata nei respingimenti? Non è chiarissimo se sia usata anche per riportare i migranti in Libia. Una scelta che non credo abbia un senso da un punto di vista umanitario visti i gravi rischi che i migranti corrono una volta tornati sul suolo libico. Un altro soggetto molto contestato nel Mediterraneo sono le organizzazioni non governative che effettuano salvataggi nelle acque internazionali... Credo che oggi le ong sopperiscano a una grave mancanza degli stati europei che hanno sospeso le missioni di salvataggio nelle acque internazionali e salvano solo i migranti che entrano nelle loro acque. È chiaro che di fronte a una situazione del genere qualcuno deve intervenire per evitare che le persone muoiano in mare. È come un incendio: se i pompieri rimangono immobili qualcuno dovrà pur spegnere il fuoco. Ma intanto in Europa i populisti vincono sostenendo che se aiutiamo tutti finiremo sommersi dai migranti... È un falso mito da sfatare: secondo i dati dell’Unhcr, i nuovi richiedenti asilo che si rivolgono ai nostri uffici hanno vissuto in Libia per una media di quattro anni e due mesi e spesso vorrebbero continuare a farlo. Ciò che in molti in Europa non capiscono è che la maggior parte dei migranti non vuole necessariamente andare in Europa, ma preferirebbe rimanere in Libia se la situazione fosse migliore (senza torture e violenze ndr). Risolvere il problema libico significherebbe anche risolvere gran parte dei problemi legati ai flussi migratori verso l’Europa. Migranti. Bosnia, se anche i sopravvissuti hanno perso la pietà di Domenico Quirico La Stampa, 29 dicembre 2020 L’egoismo dei ricchi solleva indignazione, l’indifferenza dei poveri è peggio. Credevamo nella solidarietà dei poveri verso i poveri, nella pietà di chi, scudisciato da delusioni e amarezze, ha vissuto la sventura verso gli altri che la attraversano. L’unico vero comunismo possibile, in fondo, negli abissi della Storia. Ora non più. Anche questo conforto ci è sottratto, sparisce, si asciuga. Perché tremila migranti vagano nella neve della Bosnia malmenata dall’inverno alla ricerca di un varco che li porti nell’Europa che sognano: tremila senza riparo, senza rifugio; isolati, negati, respinti. Disavventure, le loro, non metafisiche ma scavate nella storia di oggi. Tremila di ogni genere, di tutte le età, di tutte le origini, sociali e religiose. Mi trovo a inventare le loro vite, i destini particolari. Non so nulla di loro, ma mi è chiara l’ostilità, il furore della popolazione che, anche lì, non li vuole, se non come vittime senza alcuna speranza di riscatto. La Bosnia. Se passiamo le dita sulla carta geografica ancora ne palpiamo le ferite, gli squarci, le infinite suture, il dolore. Eppure quei tremila non sono niente, spazzatura umana, numeri da cancellare rapidamente, da consegnare sveltamente ad altri. Ogni strada ogni città ogni bosco e montagna che percorrono laggiù evoca una strage, un agguato, un assedio, un sacrificio. Ricadere nell’orrore - La Bosnia è un memento, una biografia della possibilità di ricadere, sempre nell’orrore, esemplifica, aspetta al varco, ripropone. Ma anche lì la pietà è sparita, balbetta, tace. Sempre l’odio è di più facile assimilazione. Le televisioni ci mostreranno le immagini, i giornali descriveranno i tremila migranti che avanzano verso il nulla dell’inverno, un giovane che piange di rabbia, una vecchia di disperazione, descriveranno le scarpe scalcagnate, i vestiti inadatti e ci diranno, precisi, i gradi del freddo delle notti balcaniche, assorbiremo i loro sguardi che sembrano supplicarci o rimproverarci. A forza di ascoltare ciò che tacciono, la miseria irrimediabile della loro condizione umana, noi non sentiamo più i rumori della vita. Sì. È ancora una tragedia di migranti, dieci anni dopo l’inizio, solo le infinite variazioni geografiche, etniche, sociali, politiche si assommano, i luoghi si ripetono, le rotte della marcia si scambiano il proscenio. Il dramma resta uno: verrebbe da dire infinitamente eguale. Eppure quando pensiamo alla tragedia eravamo certi che al termine deve esserci un momento di riconciliazione. Il popolo dei fuggiaschi insiste: dammi una mano, racconta di me, metti a parte, indossami, cammina con me verso dove non sanno neppure di aspettarmi, trova il modo. Il muro tra i campi - Tra noi e loro, invece, il silenzio si è fatto muraglia, separa ormai definitivamente i due campi. Un silenzio che oltrepassa i suoi limiti per diventare onnipresente e farsi indifferenza. I migranti decantano, si sradicano, non hanno più origine né sfondo. Li abbiamo dimenticati, astutamente consegnati alle unghie di altri. L’egoismo dei ricchi solleva indignazione, l’indifferenza dei poveri è peggio, ci sottrae il conforto nell’uomo, provoca in tutti noi un senso di smarrimento. Eppure abbiamo attraversato stagioni in questa storia infinita in cui i poveri saldamente davano l’esempio, a noi tentati dalla xenofobia ottusa o distratti dagli infiniti problemi che crea il timore di diventare meno ricchi. Neppure la pandemia ci ha reso universali nella pietà. Li abbiamo ammirati i tunisini, i libanesi, gli ugandesi allungare la mano a questo immenso popolo in marcia, dividere il poco che hanno da offrire un riparo, una voce di speranza. Il conforto della minoranza - Erano il conforto della minoranza che da questa parte del mare si ostinava alla virtù del buonismo, al prossimo come dovere assoluto, e non voleva ritrovarsi al buio sotto la fitta coperta di un darwinismo sociale impenetrabile ai raggi della cultura e del diritto. La gente non reagisce più come un tempo alle tragedie umane che non la coinvolgono direttamente. Un numero infinito di elementi interviene a modificare o nascondere queste reazioni di pietà, le ingiustizie non vengono più riconosciute in modo immediato anche quando siamo dei sopravvissuti. In altre parole le reazioni hanno perso la loro immediatezza perché si sono frapposti il calcolo o la bugia. La pietà umana, dispersa e smarrita, è diventata eccezione anacronistica. Stati Uniti. Caso Forti, ministero in pressing: “Subito carte e trasferimento” di Donatello Baldo Corriere dell’Alto Adige, 29 dicembre 2020 Il governatore della Florida e gli Stati Uniti hanno acconsentito al trasferimento di Chico Forti in Italia. “Devo vederlo scendere dall’aereo, perché fin quando non mette piede in Italia non sono affatto tranquillo”. Gianni Forti, zio di Chico Forti, rimane ottimista e crede che “a breve potremo riabbracciarlo”, ma le ultime dichiarazioni del ministero della Giustizia lo fanno essere ancora più prudente. Da Roma, all’indirizzo del Department of Justice statunitense, le pressioni sono infatti “reiterate”, e la richiesta è quella di “trasmettere nel più breve tempo possibile tutta la documentazione necessaria al trasferimento in Italia del detenuto Enrico, detto Chico, Forti”. Questo emerge da un comunicato stampa diffuso ieri da via Arenula che fa trasparire anche l’intenzione di non abbassare la guardia nel momento più delicato. “Ci sono tempi tecnici - ammette lo zio Gianni - ma se emergono lungaggini nelle tempistiche è giusto che il governo si faccia sentire, come giustamente sta facendo. Sarebbe il colmo che tutto si bloccasse per questioni burocratiche o addirittura politiche”. Gianni Forti non ci vuole nemmeno pensare a un possibile ostacolo dell’ultimo minuto: “Il ministro degli Esteri Di Maio mi ha assicurato che l’ambasciata è impegnata su questo, con l’obiettivo di riportarlo a casa nel più breve tempo possibile”. In questi giorni, indirettamente, Gianni Forti si è messo in contatto con il nipote recluso: “Tramite un amico che ha potuto visitarlo il giorno di Natale. Gli ho consigliato di tenere un profilo basso, ma di tenere alta la guardia perché ricordiamoci che Chico è in carcere e che il suo diritto al trasferimento in Italia potrebbe essere visto dagli altri detenuti come un privilegio, suscitando invidie”. Un profilo basso che chiede anche “agli amici di Chico qui in Italia”: “Fino a che non scende dall’aereo è meglio essere vigili ma prudenti, continuare la battaglia ma misurare ogni parola. È ancora in carcere - ripete - nelle stesse mani di chi lo ha condannato e incarcerato. Non dimentichiamolo”. Egitto. Zaky ai genitori: “Dite a tutti che sono in carcere perché difendo i diritti umani” La Repubblica, 29 dicembre 2020 Il ringraziamento dello studente egiziano agli italiani e ai bolognesi. “Buon Natale a tutti i miei colleghi e sostenitori. Fate sapere che sono qui perché sono un difensore dei diritti umani”. Sono le parole che Patrick Zaky ha affidato ai genitori durante la visita in carcere di oggi, scrivendole su un foglio di carta. Lo studente egiziano ha raccontato che il giudice continua a porgli le stesse domande prima di innovare la sua detenzione e che l’unica volta che l’accusa ha fatto vedere i post Facebook a lui attribuiti si sono rivelati essere stati scritti da altre persone. Zaky si è detto “pieno di gratitudine per il popolo gentile di Italia”, ma furioso per il fatto che tutte le azioni compiute finora da persone ed entità diverse in tutto il mondo non l’abbiano ancora fatto uscire di prigione fino a questo momento”. Queste sono state le parole di Patrick in un piccolo foglio che ha consegnato alla sua famiglia durante la visita di oggi, così come riporta Patrick Libero, il gruppo che su Facebook si batte per il rilascio del ricercatore in detenzione cautelare da febbraio scorso per “sedizione”. Secondo il gruppo, Zaky ha chiesto ai familiari di far recapitare il messaggio ai suoi colleghi dell’università di Bologna - dove prima dell’arresto frequentava il primo anno di un master - e a coloro che sostengono il suo caso in tutto il mondo. “Patrick ha trascorso un solo Natale con i suoi colleghi in Italia, ma si è assicurato di mandargli i suoi caldi saluti anche ora che è rinchiuso a chiave” scrivono ancora i responsabili del gruppo. “Questa è sempre stata la vera natura del nostro amato Patrick, non un terrorista ma una persona compassionevole che ha sempre avuto tutte le capacità per la sua famiglia e i suoi amici anche nei momenti più bui”. Durante tutta la visita, si legge ancora, “Patrick ha sottolineato che all’inizio ha pensato di essere stato preso per sbaglio e che sarebbe uscito non appena il malinteso fosse stato chiarito. Tuttavia, ora è certo di essere stato punito per il suo lavoro”. Ai genitori ha quindi dichiarato: “sia chiaro che io sono qui perché sono un difensore dei diritti umani e non per un qualsiasi altro motivo inventato”. Ha anche aggiunto che in ogni seduta del tribunale, il giudice gli pone le stesse domande e poi rinnova la sua detenzione, oltre al fatto che “l’unica volta che l’accusa gli ha fatto vedere i presunti post di Facebook si sono rivelati essere i post di altre persone su Facebook e nemmeno le sue stesse parole”. La campagna “Patrick libero” continua riferendo che Zaky si è lamentato di aver perso negli ultimi dieci mesi “ogni festa, celebrazione e occasione per dei post su Facebook che nemmeno non mi appartengono”, chiarendo che si tratta di un semplice “atto di vendetta e nient’altro”. Patrick si dice pieno di gratitudine per il “popolo gentile dell’Italia”, come dice lui, ma anche molto arrabbiato per il fatto che tutte le azioni compiute finora da persone ed organismi diversi sparsi in tutto il mondo non abbiano ancora avuto l’effetto di farlo uscire di prigione. Infine, ha riferito di soffrire ancora di forti dolori alla schiena ma che non vuole farsi visitare presso l’ambulatorio: “ha paura di farsi fare una diagnosi o di farsi prescrivere dei farmaci all’interno del carcere”, riporta il gruppo, aggiungendo che il giovane rimpiange invece il suo medico di Bologna di cui “si fidava molto”. Gli attivisti della campagna concludono denunciando che “Patrick ha trascorso il natale cattolico in carcere, da solo, stanco e spaventato. Ma c’è ancora tempo per festeggiare il natale copto con la sua famiglia, il 7 gennaio, cioè tra dieci giorni”. Quindi l’invito a continuare a sostenerlo e a rispondere al messaggio, “perché Patrick ne sarà sicuramente felice”. Arabia Saudita. Loujain Al Hathloul condannata a cinque anni e otto mesi di carcere di Michele Giorgio Il Manifesto, 29 dicembre 2020 L’attivista saudita comunque dovrebbe uscire di prigione a marzo grazie alla sospensione della pena. Intanto pensa di presentare appello contro la sentenza che l’ha condanna per terrorismo. La buona notizia è che Loujain Al Hathloul sarà scarcerata nel giro di due-tre mesi, forse già a marzo, grazie alla sospensione della pena decisa dai giudici. La brutta è che comunque l’attivista saudita per i diritti delle donne è stata condannata a cinque anni e otto mesi di prigione - per cinque anni non potrà uscire dal paese - da un tribunale speciale per l’antiterrorismo. I media sauditi, megafoni della monarchia, spiegavano ieri che Al Hathloul è stata giudicata colpevole di “varie attività proibite dalla legge antiterrorismo” e perché avrebbe favorito una “agenda straniera”. Il ministro degli esteri Faisal ben Farhan Al-Saud ha aggiunto che la donna sarebbe stata in contatto con Stati “ostili” ai quali avrebbe fornito “informazioni riservate”. Ma durante le indagini e nel processo non è stata mostrata alcuna prova o testimonianza a sostegno di questi reati. “Loujain ha pianto al termine della lettura della sentenza. Dopo quasi tre anni di detenzione arbitraria, tortura e isolamento, ora la condannano e la etichettano come terrorista. Loujain farà appello contro la sentenza”, ha scritto Lina Al Hathloul, sorella dell’attivista. Le accuse sono giudicate assurde da più parti poiché Al Hathloul è solo stata protagonista della battaglia per il diritto alla guida per le donne e ha invocato in qualche tweet il rispetto dei diritti umani. La sospensione della pena di due anni e dieci mesi sarà applicata solo a condizione che l’attivista non commetta “un nuovo crimine entro tre anni”. Avendo già trascorso due anni e mezzo in prigione in custodia cautelare, Al Hathloul dovrebbe tornare a casa tra poche settimane. Da un lato è positivo - la decisione dei giudici con ogni probabilità è frutto delle pressioni internazionali - dall’altro la sospensione della pena imbavaglia l’attivista che per i prossimi tre anni dovrà restare in silenzio assoluto per non rischiare di finire di nuovo dietro le sbarre. La custodia cautelare è stata molto dura. Al Hathloul ha denunciato, attraverso i rari contatti avuti con la famiglia, di aver subito torture e abusi sessuali durante gli interrogatori seguiti al suo arresto. Ma la procura non ha mai avviato un’indagine su questo sostenendo che i filmati delle telecamere di sorveglianza all’interno del carcere vengono cancellati ogni 40 giorni. Che il fine del procedimento fosse quello di punire a ogni costo Al Hathoul è stato evidente quando il caso è stato trasferito il mese scorso a una delle corti speciali che si occupano di terrorismo e che in realtà prendono di mira gli oppositori della monarchia. A quel punto sono scattate le accuse di aver contattato non meglio precisate organizzazioni di Stati esteri. L’attivista ha anche fatto ad ottobre uno sciopero della fame che è stata costretta ad interrompere per le minacce delle autorità. Ora si attende di conoscere la sorte di Nassima Al Sadah, Samar Badawi e Nouf Abdelaziz che il 15 maggio del 2018 furono arrestate assieme ad Hathloul per il loro attivismo a sostegno del diritto delle donne di poter guidare l’auto. Diritto che appena qualche settimana dopo sarebbe stato riconosciuto dal potente e brutale principe ereditario Mohammed bin Salman. Secondo alcuni le quattro donne furono incarcerate per far apparire l’erede al trono come un leader forte che prende le sue decisioni da solo e non sotto le pressioni della società civile. Cina. I reportage da Wuhan fanno infuriare Pechino, giornalista condannata di Carlo Pizzati La Stampa, 29 dicembre 2020 Quattro anni di carcere per la blogger cinese Zhang Zhan, aveva raccontato l’epicentro del Covid sui social network. Condannata a quattro anni di prigione per aver detto la verità. Non aveva fatto altro che lasciare la sua attività di avvocato a Shanghai, arrivare a Wuhan nel pieno dell’epidemia, girare tra crematori, ospedali e stazioni dei treni per chiedere ai passanti cosa stava succedendo. E poi postare tutto online, da semplice, ma coraggiosa giornalista partecipativa. Ed è per questo che la trentasettenne Zhang Zhan è stata condannata ieri nella sua città, dopo un processo farsa. È arrivata in tribunale in sedia a rotelle, soffrendo di vertigini, pallida e quasi irriconoscibile, avendo perso molto peso nei mesi di detenzione, con il mal di pancia e la pressione bassa oltre a un’infezione alla gola che le è venuta perché da giugno tenta di fare uno sciopero della fame, e i carcerieri l’hanno invece immobilizzata, ammanettata, intubata e nutrita a forza. Il processo è durato meno di tre ore. I capi d’imputazione sono “aver causato problemi e cercato il conflitto”, vaghe accuse usate spesso contro chi osa criticare il regime cinese. Il pubblico ministero, così racconta uno dei suoi avvocati, ha “elencato una lista di prove, senza produrne nemmeno una”. Zhang è intervenuta per pronunciare un’unica frase, con un filo di voce: “La libertà di parola del popolo non dovrebbe essere censurata”. Dozzine di amici hanno tentato di presenziare al processo, che in teoria è pubblico, ma i giudici hanno deciso di celebrarlo a porte chiuse. L’avvocato Ren Quanniu annuncia l’appello. Ma nel 2019 in Cina la percentuale di condanne è stata del 99.9 %. Qual è il crimine di questa trentenne? In spezzoni di video, a volte di pochi secondi, non ha fatto altro che chiedere impressioni. Ha svolto l’attività di giornalismo partecipativo che, grazie a Internet, ha rivoluzionato l’informazione globale. Nulla di più. E siccome le autorità cinesi erano occupate dal contenimento del contagio, per un breve lasso di tempo i controlli della censura cinese si erano allentati. Così da febbraio a maggio Zhang è riuscita a mettere online i suoi video, prima su WeChat (subito censurata) e poi su YouTube e Twitter, siti bloccati in Cina, ma aggirabili con il sistema del VPN. I suoi post sono stati seguiti da poche centinaia di persone e, vedendo che non nessuno la fermava, Zhang si è fatta sempre più coraggiosa, andando alle centrali di polizia a chiedere informazioni su altri tre blogger scomparsi. Quindi è toccato a lei: l’arresto, l’accusa di avere “inventato storie e diffuso informazioni false” e di aver rilasciato interviste ai media stranieri. “È testarda e idealista, a volte oltre i limiti del comprensibile” dice ora la sua amica Li Dawei. Sì, oltre i limiti, perché in Cina si rischia grosso a dire la verità. In aprile tre volontari che avevano creato un archivio online di notizie censurate sono scomparsi. Poi si è saputo che due di loro sono in carcere, anche se i loro processi non sono ancora iniziati. In uno dei video incriminati, Zhang aveva riassunto ciò che spinge blogger come lei a rischiare la libertà: “Chi di noi ha a cuore la verità, in questo Paese, deve dire che se ci crogioliamo nelle nostre tristezze e non facciamo niente per cambiare la nostra realtà, allora le nostre emozioni non valgono niente”. Pakistan. Una speranza alla fine della detenzione di Gianluca Franco interris.it, 29 dicembre 2020 L’arcidiocesi di Lahore sostiene gli ex detenuti per la creazione di imprese. In Pakistan la Chiesa si mobilita per supportare i cristiani nella creazione di una propria attività di impresa. Monsignor Sebastian Francis Shaw, arcivescovo di Lahore ne ha parlato in un incontro che si è svolto nella chiesa cattolica di San Giovanni a Youhanabad. “Hanno sofferto molto negli ultimi cinque anni- spiega il presule a Fides. Abbiamo preso questa iniziativa per fare in modo che 42 ex detenuti innocenti possano gestire una nuova attività economica per sostenere le loro famiglie. E non dipendere da nessuno. Afferma l’arcivescovo di Lahore rivolgendosi ai fedeli: “Questo è un regalo di Natale per tutti voi. Per restituire stabilità alla vostra vita e viverla con dignità. Preghiamo per il vostro bene e invochiamo le benedizioni di Dio per le vostre famiglie”. L’arcivescovo ha anche ringraziato il governo pakistano e Ijaz Alam Augustine, ministro per i diritti umani e gli affari religiosi nella provincia del Punjab. Per la loro cooperazione e il sostegno nel rilasciare 42 prigionieri cristiani accusati di aver partecipato a scontri e rivolte. Dopo gli attentati suicidi che colpirono due chiese a Lahore a marzo 2015. Ai partecipanti all’incontro in chiesa l’arcivescovo Shaw ha detto: “Vogliamo sostenervi pienamente e desideriamo vedervi impegnati in un’attività fiorente. Perché possiate vivere una vita felice”. È intervenuto anche padre Francis Gulzar, vicario generale dell’arcidiocesi di Lahore e parroco della chiesa cattolica di St. John “Aiutarli nell’avviare una impresa economica personale è la strada migliore - sottolinea. Abbiamo consegnato dei rickshaw (mezzi di trasporto) a dieci persone. Ad altri motociclette con un carretto”. Aggiunge padre Francis Gulzar: “Altri ancora hanno avuto un sostegno per aprire un’attività commerciale. Come un negozio di alimentari, una attività di ristorazione. O un negozio di decorazione e vendita di tende e tappeti, uno spaccio di materiali per l’edilizia. Tra le persone beneficiate c’è anche un ex prigioniero musulmano, che era in carcere con loro”.