Diritti umani, la legge che in Italia attende da 27 anni di Emanuele Lauria La Repubblica, 28 dicembre 2020 L’impegno con l’Onu è del 1993. Da Pd-5S la proposta di legge per istituire una commissione nazionale indipendente. In aula entro gennaio. Ventisette anni, sette legislature, trascorsi invano. Due o tre ere politiche dentro le quali l’Italia non è riuscita a rispettare un impegno votato il 20 dicembre del 1993 all’assemblea generale delle Nazioni Unite: quello di istituire una commissione nazionale indipendente sui diritti umani. Almeno una decina di iniziative, in questo lungo periodo, sono abortite sull’altare di altri interessi ritenuti prioritari, senza neppure la possibilità di superare la fase dell’esame in commissione. Ora c’è una proposta che mette insieme i due principali azionisti di maggioranza, Pd e M5s, e porta la firma dei deputati Lia Quartapelle, Giuseppe Brescia ed Emanuele Scagliusi. C’è un impegno del presidente della Camera Roberto Fico a portare la proposta di legge in aula entro gennaio e c’è una petizione di +Europa che ha già raccolto oltre 1.400 firme che ha l’obiettivo di sollecitare Montecitorio a mettere fine alla lunga attesa. La risoluzione votata alla vigilia di Natale di 27 anni fa impegnava i Paesi contraenti a dotarsi di organismi autonomi dalla politica (seppur votati dalle Camere) chiamati a due funzioni principali: assistenza alle vittime di violazioni dei diritti umani e vigilanza sull’applicazione, nelle legislazioni nazionali, dei principi previsti nella Carta europea per i diritti fondamentali e in altri trattati. Sono 114 gli Stati che si sono adeguati a quell’atto. Tranne l’Italia, appunto. “Ne va della nostra credibilità all’estero, soprattutto quando giustamente ci indigniamo per il comportamento di altri Paesi, come quello dell’Egitto nel caso Regeni”, dice Filippo di Robilant, già vicepresidente dell’agenzia Ue per i diritti fondamentali. “Al Paese - dice di Robilant - manca una forte e autorevole public voice in tema di diritti fondamentali non solo nella loro definizione classica: razzismo, discriminazioni, intolleranze. Il problema si pone anche guardando a nuovi problemi legati ad esempio alla pandemia: il corretto funzionamento dello Stato di diritto, con il bilanciamento fra libertà individuali e tutela della sicurezza nazionale, e le diseguaglianze create dal Covid”. Ma anche per il futuro, avverte de Robilant, “occorre una protezione dei diritti umani rispetto a violazioni che potrebbero derivare dall’intelligenza artificiale e dell’opacità di processi decisionali legati agli algoritmi”. Questioni di lotta politica (la Lega a inizio legislatura ha fatto una battaglia a suon di emendamenti) ma anche la generale voglia di tutelare uno status quo che affida a una frastagliata mappa di organismi la difesa dei diritti umani, hanno frenato l’iter delle varie proposte di istituzione di una commissione indipendente. Malgrado i pressanti inviti a dare attuazione alla risoluzione indirizzati all’Italia da autorità di monitoraggio del rispetto dei diritti umani, sia dell’Onu che del Consiglio d’Europa. Diverse volte, dal 2007 in poi, esponenti di governo si sono impegnati formalmente a osservare quella prescrizione. L’ultima volta, nell’autunno dell’anno scorso, è toccato al sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano rinnovare la promessa: “Ci adegueremo entro il 2020”. Ma il lungo conto alla rovescia non si è ancora fermato. Perché non si scrive dei pestaggi in carcere? di Stefano Feltri* saleincorpo.it, 28 dicembre 2020 Siamo portati a non scrivere dei pestaggi in carcere. Solo pochi giornali, tra questi Il Domani, hanno denunciato quello che è accaduto nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Il commento è di Stefano Feltri. Il 6 aprile scorso è successo qualcosa di inaccettabile in una democrazia: una spedizione punitiva di oltre 300 poliziotti è entrata nel carcere Uccella, a Santa Maria Capua Vetere, e ha picchiato i detenuti che protestavano per le proprie condizioni, aggravate dalla pandemia. Sapevamo che quella rivolta non era stata gestita come le altre che le carceri italiane hanno sperimentato durante i mesi del lockdown: a giugno 57 agenti sono stati perquisiti, le accuse dell’indagine includono reati molto gravi come tortura. Matteo Salvini si era precipitato a dare solidarietà. Non alle vittime, ma ai presunti torturatori. Dagli articoli che Nello Trocchia ha pubblicato in questi giorni su Domani sappiamo come sono andate le cose quel 6 di aprile. L’operazione di polizia nel carcere non si è limitata a riportare l’ordine ma, a quanto sappiamo dai testimoni, è servita soprattutto a sfogare la tensione accumulata dagli agenti in quelle settimane difficili. Calci, schiaffi, umiliazioni, pestaggi anche ai danni di un detenuto disabile. Di quelle violenze ci sono anche i video. Questo è il paese che ha già conosciuto scene simili alla scuola Diaz di Genova nel 2001, che ha visto morire ragazzi come Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi per mano di persone che avrebbero dovuto proteggerli e che invece li hanno massacrati e poi hanno fatto di tutto per evitare le proprie responsabilità. Non possiamo dire che abbiamo dimenticato: uno dei filoni del processo Cucchi è ancora in corso, il film che ricostruisce la vicenda ha addirittura vinto un David di Donatello e veniva proiettato nelle piazze come atto di impegno civile. Eppure la vicenda di Santa Maria Capua Vetere lascia indifferenti quasi tutti: erano soltanto detenuti, per di più in rivolta, che sarà mai qualche manganellata? Ma quello che è successo in quel carcere non può essere tollerato. La magistratura sta indagando, vedremo che esito avranno le inchieste. Il piano penale, però, non è l’unico. Su quello disciplinare, non si registra alcuna azione nei confronti degli agenti coinvolti e dei loro responsabili, anche se sappiamo i nomi e i cognomi. Il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, il magistrato Francesco Basentini (dimessosi a maggio per altre ragioni) non ricorda se ha preso provvedimenti. Il suo successore Dino Petralia è rimasto altrettanto immobile. Agenti accusati di tortura restano in servizio nelle carceri, persino negli stessi reparti dove si è svolta la spedizione punitiva del 6 aprile. Tutti sono innocenti fino a prova contraria, dal punto di vista penale. Ma quel giorno, in quel carcere, c’erano persone che non avrebbero dovuto esserci, che hanno tenuto comportamenti inappropriati. Ci sono telecamere di sorveglianza, detenuti che hanno visto e subito, anche referti medici, è lecito immaginare. I fatti già accertati, insomma, sono più che sufficienti per legittimare un intervento dall’alto, se non altro in via cautelare. Se un’azienda scopre un ammanco e ha prove che un suo impiegato ha gestito male la cassa, può prendersi del tempo prima di decidere se licenziarlo, ma lo mette in condizione di non fare altri danni. C’è soltanto una persona che potrebbe - e dovrebbe - rompere questa cappa di silenzio: il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Solo lui può chiedere al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di rendere conto di quello che è successo. Se Bonafede sceglierà di non interessarsi del caso, nascondendosi dietro il comodo alibi “lasciamo lavorare la magistratura”, si renderà complice dei responsabili di quegli abusi. *Giornalista, direttore de Il Domani La doppia lezione del killer di Livatino di Elisabetta Zamparutti* Il Tempo, 28 dicembre 2020 L’esistenza è un viaggio e il “viaggio della speranza” è la metamorfosi della detenzione in libertà. È il peregrinare della coscienza nel tempo che regala sempre e a tutti la possibilità di elevarsi fino a compiere, lo dico con convinzione, il miracolo. A partire dalla consapevolezza di ciò che si è, di ciò che si è stati e di ciò che si può essere. I detenuti ne sono spesso metafora per le vicende che in detenzione li hanno condotti e per le condizioni in cui si trovano a scontare la pena, a penare. Come Gaetano Puzzangaro. Mi dà occasione di parlare di questo e di lui la recente decisione della Santa Sede di beatificare il giudice Rosario Livatino, assassinato ad Agrigento il 21 settembre 1990, all’età di 37 anni, per mano di un gruppo di suoi coetanei “stiddari”. Il giudice ragazzino, nato a Canicattì, che esercitava la funzione di magistrato quasi in forma di preghiera a Dio arrivando a parlare di “amore verso la persona giudicata” si era guadagnato il soprannome, tra i mafiosi, di “santocchio” (bigotto). Questo suo orientamento ai valori umani lo rendeva talmente diverso dai mafiosi e pertanto a loro inaccessibile che decidono di eliminarlo. Tra gli assassini c’è “a musca” (la mosca) Gaetano Puzzangaro, di Palma di Montechiaro. Quando parla oggi da protagonista del docu-film “Spes contra spem-Liberi dentro” di Ambrogio Crespi, Gaetano risveglia un senso di grazia. La grazia appartiene a tutti ma nel suo caso è stata per lungo tempo soffocata da una dura corazza protettiva di cui ha iniziato a spogliarsi quando Giovanni Paolo II, proprio ad Agrigento, nella Valle dei Templi, lanciò un anatema contro la mafia e abbracciò i genitori del giudice. Da quel momento inizia un percorso spirituale che lo porta a testimoniare alla causa di beatificazione di Livatino giunta ora, anche con e grazie alle parole di Gaetano, a buon fine. La decisione di Papa Francesco di far pubblicare il decreto diventa allora emblema di una giustizia capace di riconoscere vittima e carnefice e, come per miracolo, riconciliarli. Caino e Abele insieme per così riparare, ricostruire e ricominciare. Ma il senso delle parole che Gaetano ha consegnato al regista Ambrogio Crespi hanno contribuito anche a “beatificare” l’Italia perché è stato anche grazie alla visione del docu-film “Spes contra spem-Liberi dentro” che la Corte europea per i diritti umani ha potuto meglio capire la realtà dell’ergastolo ostativo e così arrivare alla sentenza Viola vs Italia che ha affermato nel nostro ordinamento finalmente il diritto alla speranza. Un po’ come la campagna di immagine e parole “We, on death row” che Oliviero Toscani realizzò a sostegno della moratoria Onu delle esecuzioni capitali. Quando intervenne un anno fa dal palco del Congresso di Nessuno tocchi Caino nel carcere di Opera a Milano, Gaetano ha detto che il suo “è stato un lungo cammino, che va avanti da trent’anni e che non finirà mai”. “Quando si è seduti sulle macerie della propria esistenza, l’unica cosa da fare è fermarsi, tirare una linea e vedere che cosa non ha funzionato in sé stessi e nella comunità in cui si è vissuti fino a quel momento”. “Morte tua, vita mia”, è per lui oggi un mostruoso abbaglio, convertitosi com’è alla ben più creativa espressione “vita tua, vita mia”. La Sicilia continua in questo ad essere una terra mitica, dove il confine tra inizio e fine è in costante movimento e così il male come contrapposto al bene. Accade così che per Gaetano che credeva di non far più parte della sua comunità, la città di Palma di Montechiaro, per quel passato ferito che ritorna sempre un miracolo si era già avverato. Quando il Sindaco della sua Palma di Montechiaro, Stefano Castellino, è venuto a trovarlo a Opera per farlo sentire ancora suo cittadino. Cittadino della sua Palma di Montechiaro. È il miracolo umano di Spes contra spem, di una speranza che non è attesa inerte ma coraggio di guardare dentro sé stessi e andare avanti. *Tesoriere di Nessuno tocchi Caino Giustizia 2020, un anno all’insegna della pandemia di Debora Alberici Italia Oggi, 28 dicembre 2020 Sta chiudendosi il 2020, l’anno della pandemia, sulla quale sono stati scritti fiumi di inchiostro. Dalle influenze del Covid-19 non è esente il settore della giustizia che fra personale in smart working, udienze cancellate e poi in parte celebrate online, ha segnato un grave disagio a chi svolge la professione forense. Minori sono stati i depositi presso la Suprema corte che, però, anche quest’anno, ha fornito importanti chiarimenti e inaugurato nuovi indirizzi giurisprudenziali. Dalle leggi sull’emergenza sanitaria ai procedimenti disciplinari, alle spese giudiziali e poi ancora al primo concreto riconoscimento del mobbing, anche il 2020 ha visto il deposito al Palazzaccio di molte sentenze fondamentali. Gennaio si è aperto con un “revival” sulle sostanze stupefacenti: ancora una volta le Sezioni unite penali hanno infatti sancito che non è reato coltivare cannabis in casa per uso solo personale. Sempre a inizio anno, poi, gli Ermellini hanno sdoganato l’ingiunzione da parte del legale al cliente anche senza parcella vistata dall’ordine. In pieno lockdown, come se i guai non fossero già abbastanza, un’altra doccia fredda per i professionisti: la Cassazione ha dato il via libera al sequestro dell’intera documentazione e del pc al legale sospettato di illeciti penali. Ma non basta: la misura non cade anche se la procedura finisce per colpire l’intero archivio virtuale. Per avere le prime interpretazioni sulle norme anti-Covid dovrà arrivare settembre. È infatti dopo l’estate che i Supremi giudici hanno affermato come non c’è alcuna aggravante a carico del pusher che spaccia durante l’emergenza sanitaria da Covid in barba al divieto di uscire di casa. In quell’occasione fu infatti escluso il piccolo spaccio a carico di un giovane, per le quantità di sostanze rinvenute ma non certo per la violazione del lockdown. E poi ancora nello stesso mese, entra in campo anche la terza sezione penale, secondo la quale è proprio il Covid a condannare l’evasore Iva. Il reato sarebbe infatti prescritto se non fossero intervenuti il rinvio delle udienze e lo stop alla prescrizione introdotti dal Cura Italia. Ma il sospetto di incostituzionalità va respinto perché la normativa d’emergenza non introduce una nuova ipotesi della prescrizione applicabile a fattispecie criminose perfezionatesi prima della sua entrata in vigore. Ma non è ancora tutto. La ciliegina sulla torta arriva a novembre con una decisione attesa da migliaia di lavoratori e che fa da apripista a un orientamento del tutto nuovo. Ad avviso della sezione lavoro, infatti, è mobbing rivolgere accuse infondate a un collega. Il datore, in questi casi, è tenuto al risarcimento del danno per non aver garantito la serenità del dipendente dalle maldicenze degli altri. Ciò perché, la responsabilità datoriale per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore discende da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma contenuta nell’art. 2087 c.c. La riforma (morale) dello Stato per azzerare i cavilli che aiutano le mafie di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2020 Quando queste Storie italiane usciranno il Natale sarà già passato. Perciò non ha senso usarle, come avrei voluto, per scrivere un’ideale lettera a Babbo Natale o a Gesù Bambino. Semmai ne approfitto per raccontarvi di un bimbo di sei anni che ha scritto una commovente lettera al vecchio Santa Claus chiedendogli di portare le medicine alla nonna per farla guarire. Sta di fatto che gli auguri di Buon Natale sono riuscito a farli. Mentre proprio non ce la faccio con quelli per il Nuovo anno. Se penso che ho passato tutto lo scorso 1° gennaio per rispondere o mandare direttamente gli auguri per il 2020 mi vengono i brividi. D a tempo infatti non mando più gli auguri per “un anno felice” e nemmeno per “un anno pieno di successi’; e meno che mai per “un anno vincente”. In quest’ultimo caso perché la formula mi pare un obbrobrio mentale. Negli altri due perché alla mia età ho imparato che bisogna stare schisci e che la cosa più bella che si possa augurare a una persona è la serenità. Felice, nell’anno, potrà essere qualche giorno, qualche attimo magico totalmente privato. Quanto ai successi, ne bastano un paio a riempirci l’anima. Ricordo dunque che l’augurio più frequente in quell’ultimo Capodanno è stato “che l’anno nuovo ti sia amico”. Volevo essere moderatamente ottimista e invece in due mesi si sarebbe rivelato un augurio stratosferico. Il bastardo, il 2020, non è stato amico con nessuno, ma traditore con quasi tutti. Credo che abbia fatto le fortune di qualche pescecane quando le mascherine costavano in farmacia 8 euro l’una. Sicuramente proveranno a farci fortuna banditi e mafiosi, dipenderà da noi. Proprio così, dipenderà da noi. Mi ha colpito soprattutto un risultato del sondaggio Demos-Libera sull’Italia disastrata dal Covid. Alla domanda su chi potrà tirarci fuori da questa crisi senza precedenti, la risposta più gettonata è stata “il governo”. E questo è senz’altro un segno di fiducia in Giuseppe Conte e nei suoi ministri di punta. La discrezione al governo ha dato insomma i suoi frutti, sconfiggendo 4-0 l’idea ormai trentennale che si debba urlare per valere più di un soldo di cacio sulla scena politica. Ma è la seconda risposta più frequente la vera sorpresa. Che non indica i partiti politici. E nemmeno le imprese e nemmeno le banche. E neppure i sindacati o le professioni o il terzo settore. Ma indica i singoli cittadini italiani e le loro energie individuali. Un modello di rigenerazione bellissimo, che non parla il linguaggio dello stato assistenziale, che non chiede di dare questo o regalare quello, ma chiede più verosimilmente di lasciar fare a chi ha voglia ed energie. È un messaggio di speranza indirettamente mandato allo Stato: quando proveremo a rimettere fuori la testa non presentatevi con le vostre gabelle, le vostre regole asfissianti e le vostre burocrazie sadiche o corrotte. Arrivate anche voi con le maniche arrotolate e aiutate chi vuole solo lavorare per la ripresa del Paese. Ecco, se dovessi fare un augurio per questo 2021, alla faccia della quarta e quinta e sesta ondata perché “neanche il vaccino”; se dovessi farlo, dicevo, sarebbe esattamente questo: uno Stato schizzato prodigiosamente fuori dal cilindro del Covid e che si fa servizio per gli “uomini di buona volontà” (qualcosa di natalizio lasciatemelo...) e mette in riga mafiosi e affaristi, che abbiano o meno una falsa perizia medica o aziendale in mano. Questo io sogno, pensate un po’. Le altre gioie che vorremmo le conoscete tutte e mai avremmo pensato che potessero essere tali. Dalla stretta di mano alla lezione in aula. Auguri di un anno sereno, anche se non sappiamo neanche più come sarebbe. Il nostro metro è cambiato. Un medico di corsia vale più di un grande fratello, e forse l’augurio più grande è che continui così. Gramsci le chiamava le riforme morali. Nelle mani delle narcomafie di Roberto Saviano saleincorpo.it, 28 dicembre 2020 In questi giorni ha creato grandi polemiche la decisione del Comune di Verona di togliere la cittadinanza onoraria a Roberto Saviano. Uno dei motivi alla base dello strappo è il fatto che lo scrittore è favorevole alla legalizzazione di cocaina e droghe leggere. Il tema è forte e divide. Pubblichiamo un’analisi di Saviano dove spiega i motivi della sua posizione. Un invito per tutti a discutere e riflettere. “È il sangue e solo il sangue che genera attenzione, che pretende azione (per qualche giorno almeno). È una drammatica e sempiterna regola, inviolata sino a ora. Solo il sangue è la madre di tutte le comprensioni: fin quando non lo vedi a terra la mafia non c’è, fin quando non senti lo sparo non percepisci pericolo, se non si innescano le faide non esiste il problema. Il sangue non si può nascondere e quando scorre cosa accade? Accade che si ridimensiona la vicenda. Con l’omicidio Sacchi il sangue a Roma è tornato a scorrere ma c’è un automatismo innato che si genera sempre dinanzi alle tragedie, cercare elementi per allontanarle da sé. Incidente stradale? Beh, ma guidava ubriaco. Cancro? Grande fumatore. Un ragazzo sparato alla nuca? Beh, ma vedrai che qualcosa non torna. È tutto normale, un modo per sentirsi al riparo, per potersi dire che non capiterà a chi si comporta bene, un meccanismo che le istituzioni spesso usano come ansiolitico per calmare la legittima apprensione, quella che pretende che tutto cambi. Avviene per non dirvi la più semplice delle verità: siamo tutti esposti, nessuno è al sicuro. Roma non ha i morti di Caracas, non è lontanamente paragonabile a San Salvador o Lagos, ma Roma deve smetterla di sentirsi diversa dall’essere una città mangiata dalla corruzione e occupata dai poteri criminali. Prima si rende conto di essere una Capitale mafiosa, prima può forse pensare di trasformarsi. Roma non è Gotham City? Molto peggio. Perché Gotham sapeva d’essere Gotham, perché riconosceva il male in Joker e Pinguino ma soprattutto Gotham aveva Batman che su Roma non è Bruce Wayne ma Franco Fiorito “er Batman”. Roma è luogo di riciclaggio privilegiato degli investimenti del narcotraffico da più di un decennio: elenchi sterminati di ristoranti, pub e gelaterie sequestrati alle cosche. Infinite speculazioni edilizie. Tutti spesso derubricati a fatti episodici, laterali alla vita della città quando ne sono l’essenza stessa, il sistema linfatico dell’economia. Dinanzi a un omicidio come quello dei Colli Albani si usano sempre le solite immagini. La metafora cinofila: “Cani sciolti”. Oppure quella equina: “Cavalli pazzi”. Sovente: “Lupi solitari”. Fesserie. Sono un esercito pronto ad affiliarsi, microcellule pronte al salto organizzativo e che nella parte maggiore dei casi non ci riescono perché finiscono ammazzati, arrestati o nel delirio sanguinario sparano alla nuca come se fosse uno spintone. Non c’è limite alla corsa per trovare spazio di guadagno. Roma da oltre un decennio è diventata l’hub della coca (e non solo) in Italia eppure di questo non sentirete mai parlare seriamente nei dibattiti politici. La prova più eclatante è già nel 2014 quando in una sola operazione (una sola!) i carabinieri sequestrarono 578 chili di coca che avrebbero reso 24 milioni di dosi ossia 1.300 milioni di euro. Da lì in poi potrei fare un elenco infinito, passando per i 200 chili scovati nell’agosto scorso. Percentuali di sequestro minime rispetto a un flusso perenne e continuo. Immaginate questa massa di denaro in una metropoli dove il turismo garantisce che case, ristoranti e locali siano pieni e quindi pronti per riciclare. Roma si racconta compiaciuta con i turisti che leccano i gelati e i selfie ai Fori Imperiali con i gladiatori. Ma è solo una scenografia. È invece la metropoli dove trovare lavoro senza essere protetto da un politico è quasi impossibile, dove un piccolo imprenditore per farsi pagare si deve rivolgere a bande che recuperano i crediti. In questa Roma ogni pistola è un’occasione per provare a farcela. Ancora pensate che siano le serie tv a ispirare i violenti? Quanta colpevole ingenuità, le serie raccontano il reale volto di ciò che accade e chi lo vive ci si specchia direttamente. Roma è stata storicamente città aperta: Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra si sono sempre mosse in equilibrio evitando scontri cruenti. La gestione negli anni si è evoluta: i clan meridionali hanno subappaltato il controllo del territorio e in questo spazio è nata un’organizzazione autonoma. Mafia Capitale la Cassazione non la definisce mafia, tutto questo è fisiologico perché ad oggi è solo su base etnica il riconoscimento penale del crimine organizzato: sembra assurdo ma è così (con la sola eccezione della Mala del Brenta). La battaglia per il riconoscimento di un’organizzazione mafiosa è infinita: l’introduzione del reato è del 1982 (mentre Cosa Nostra esisteva già da un secolo) e la parola ‘ndrangheta è entrata nel Codice Penale solo nel 2010 (esisteva da più di 120 anni). Ci vorrà tempo perché tutti comprendano il volto di ciò che è nato nel ventre di Roma, superando gli stereotipi che ancora cercano coppole e lupare. Questa battaglia però non si deve fermare. E non può essere delegata alla magistratura. Deve essere l’ossessione della società civile - se ancora esiste - perché spesso per gran parte della politica (quando non complice) è solo un tema da risolvere con le manette. Nulla di più fallace. Le prigioni da sole non hanno mai sconfitto nessuna mafia. Trasformare le regole che rendono Roma una città a vocazione mafiosa sarebbe invece l’unico atto determinante. Se l’omicidio Sacchi si configura come interno alle dinamiche della distribuzione delle droghe leggere, la politica per riscattare la sua inanità ha una sola strada: legalizzarle. Sottrarre questo mercato immenso al crimine è l’unico modo per dimezzarne profitti e potere: ogni altra strada sarà effimera, perché retate e condanne apriranno vuoti nelle reti di spaccio che una leva sempre più giovane sarà felice di colmare. Non sarà facile per una politica che si nutre di tweet prendere questa decisione. Ma bisogna imporre il tema nel dibattito pubblico. E costringere da subito ad affrontare i nodi del riciclaggio e dell’investimento mafioso che distruggono ogni libera iniziativa. Altrimenti Roma rimarrà una città corrotta sin nel midollo, dove l’unico modo per salvarsi è starne lontani”. La messa alla prova non esclude sempre le sanzioni accessorie di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 28 dicembre 2020 La Cassazione chiarisce gli effetti della dichiarazione di estinzione del reato. La sentenza non accerta responsabilità e non vale come precedente. Il buon esito della messa alla prova estingue il reato e non integra un precedente penale, ma presuppone l’accertamento di un fatto, che può essere rilevante nei casi in cui la reiterazione della condotta comporta l’applicazione di una sanzione accessoria in un successivo giudizio penale. Lo afferma la Cassazione con la sentenza 32209 del 17 novembre scorso, che riguarda la possibilità del giudice di merito di valutare un precedente illecito di guida in stato di ebbrezza alcolica per la sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente, anche se nel precedente giudizio l’imputato si è sottoposto alla messa alla prova, prevista dall’articolo 168-bis del Codice penale, con esito positivo. Non è la prima volta che la Cassazione affronta problematiche connesse alla messa alla prova. L’istituto, inserito nel Codice penale nel 2014, si applica ai reati puniti con pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore a quattro anni (e ad altri delitti specificamente individuati); l’imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova, che comporta il suo affidamento al servizio sociale per lo svolgimento di un programma, ad esempio con attività di volontariato e condotte volte a eliminare le conseguenze del reato e a risarcire il danno. Dopo aver sentito le parti, se il giudice accoglie la richiesta, con ordinanza fissa il temine entro il quale il programma deve essere eseguito e sospende il giudizio per un periodo non superiore a due anni. Al termine il giudice, se ritiene che la prova abbia vuoto esito positivo, dichiara con sentenza estinto il reato. Questa decisione - ha chiarito la Cassazione - non è idonea a esprimere un compiuto accertamento sul merito dell’accusa e sulla responsabilità. Per questo, ad esempio, non può essere parametro del contrasto tra giudicati rispetto ad altra sentenza resa nei confronti di un coimputato (Cassazione, 53648/2016). Poiché prescinde dall’accertamento di responsabilità - ha scritto inoltre la Cassazione - la sentenza che dichiara estinto il reato, in procedimenti per reati di contraffazione di prodotti, non può giustificare la confisca dei beni serviti per commettere il reato o che ne costituiscono provento (Cassazione, 49478/2019). Nelle ipotesi di reati tributari, è stata anche esclusala confisca per equivalente, perché connessa all’accertamento della responsabilità penale, mancante dopo la messa alla prova; tuttavia, è stata ammessa la possibilità di applicare le sanzioni amministrative accessorie, se previste dalla legge (Cassazione, 47104/2019). In materia di reati edilizie urbanistici, il giudice penale non può emettere l’ordine di demolizione con la sentenza di estinzione, ma si è ritenuta legittima l’emissione di analogo ordine da parte dell’autorità amministrativa sulla base degli elementi raccolti nel procedimento penale (Cassazione, 39445/2017 e 53640/2018). Per i reati previsti dal Codice della strada è stata seguita la stessa linea: l’estinzione del reato non consente al giudice penale di applicare le sanzioni amministrative accessorie, come la revoca della patente di guida, che può però essere irrogata in separato procedimento amministrativo dal Prefetto (Cassazione, 40069/2015, 39107/2016 e 29796/2017). Ora la Cassazione, conia sentenza 32209, aggiunge che, nonostante l’estinzione per l’esito della messa alla prova, una precedente condotta di guida in stato di ebbrezza può essere valorizzata dal giudice per la verifica della “recidiva nel biennio” prevista dall’articolo i86, comma 2 lettera b) del Codice della strada, presupposto per l’applicazione della sanzione accessoria della revoca della patente. Torino. “Ci vorranno anni per smaltire gli arretrati da pandemia. E attenti ai casi di usura” di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 28 dicembre 2020 Il Procuratore generale Francesco Saluzzo: “Colpito il lavoro del settore giudicante. La criminalità punta a prendersi attività per un tozzo di pane”. La verità è che ci vorrebbe un vaccino anche per la Giustizia, dopo un anno che ha sconvolto vite e incasinato scartoffie, ancor di più di quanto già non lo fossero: “Quando finirà la pandemia, e parliamo dell’autunno-inverno 2021, la macchina della giustizia sarà così depressa dal numero dell’arretrato accumulato, che ci vorranno anni prima di tornare ai livelli pre-Covid, che già non erano entusiasmanti”, ragiona il Procuratore generale Francesco Saluzzo, nell’ufficio al settimo piano del palagiustizia. Adesso, dell’attività nei mesi del virus, se ne può però tracciare un primo bilancio. Procuratore generale, nel 2019 disse che c’erano “troppe assoluzioni”: ora? “C’è stato un leggero miglioramento nello scarto tra esercizio dell’azione penale ed esito dibattimentale”. Perché? “A parte la maggior consapevolezza delle Procure di non mandare avanti cose senza futuro, ha determinato un cambio di rotta la messa alla prova, che ha funzionato. Così come ha influito la particolare tenuità del fatto, il 131 bis”. Morale? “Un gran numero di provvedimenti che andavano a giudizio, perché scrivere l’archiviazione è più faticoso che mandare a processo, muoiono in Procura. Dopodiché, resta sempre una questione”. L’articolo 112 della Carta. “Si torna sempre lì: è sostenibile un sistema nel quale tutti i fascicoli debbono essere trattati allo stesso modo?”. Lei cosa risponde? “No. E non perché sia un abolizionista dell’obbligatorietà dell’azione penale, assolutamente no, perché è garanzia per il cittadino. Ma perché bisognerebbe validare un meccanismo in base al quale, sia normativo o del Csm, il Procuratore possa dire, con criteri trasparenti: “questi non li faccio, o li faccio se mi avanzerà tempo”. E invece? “Nelle valutazioni, il Csm guarda in maniera ossessiva al numero dei procedimenti lavorati. E se io ho il vicino di stanza che ne fa tanti, di fascicoli, e magari neanche tanto bene, mi trovo in difficoltà perché ho minore produttività. Vagli a spiegare che la mia, magari è qualitativamente migliore: non interessa a nessuno. La quantità si pesa, la qualità no”. Le risultano ritardi nell’esecuzione delle sentenze? “Detto che la Procura generale e le Procure sono un’eccellenza nel panorama nazionale, quanto a velocità di esecuzione, il settore competente della corte d’Appello è in gravissima crisi: ci sono 6.000 sentenze per le quali occorre fare l’estratto esecutivo e comunicarlo all’organo dell’esecuzione, Procura o Procura generale appunto”. Come si risolve? “C’è una nuova struttura centralizzata, per smaltire l’arretrato, ma il problema sono i numeri, in termini puramente aritmetici, che non si possono affrontare”. Allarme per appalti e contributi pubblici nell’era Covid: che ne pensa? “Le malversazioni ci sono sempre state e ci saranno, perché la torta è ghiotta”. Sta aumentando l’usura? “Si stanno moltiplicando i fenomeni. Ai danni del piccolo commerciante, o imprenditore: non è usura classica, soldi per interessi a strozzo, ma strisciante, che porta all’acquisizione dell’attività commerciale”. L’obiettivo dei criminali? “È il momento in cui possono pensare di prendersi un’attività per un tozzo di pane, invece di mandare scagnozzi o di mettere la molotov alla saracinesca”. Che effetto ha avuto il virus sulla giustizia? “Le Procure, per necessità di cose, hanno sempre lavorato, anche se siamo al 65-70% di attività e risultati, ovviamente. L’impatto grave c’è stato per il giudicante”. Cosa ci aspetta? “4-5 anni per tornare ai livelli pre-Covid: sarà un lavoro immane”. Sul rinvio dei processi di ‘ndrangheta per virus fece incavolare gli avvocati. “Premessa. Il legislatore, in determinati casi, consente di far andare in carcere un cittadino non ancora giudicato, e quindi non colpevole”. Quindi? “Non mi rimangio neanche una parola. Sennò gli avvocati devono trovare motivo di scandalo nella stessa custodia cautelare; non nel fatto che se viene a cessare, e mica per ragioni fisiologiche, sia un fatto non indifferente per la collettività e per la prevenzione dei fenomeni criminali”. Torino. I timori dei legali: “La pandemia non sia la scusa per gli arretrati” di Massimiliano Nerozzi Corriere Torino, 28 dicembre 2020 L’ordine e la Camera penale dopo l’allarme del Pg Saluzzo “Tanti problemi che già c’erano, si investa su uomini e mezzi”. La pandemia - ragiona il presidente della Camera penale, l’avvocato Alberto De Sanctis - “non può essere l’alibi per giustificare la disfunzione del sistema giudiziario piemontese per i prossimi cinque anni”. Una prospettiva, pericolosamente realistica, adombrata ieri sul Corriere dal Procuratore generale Francesco Saluzzo, e che agita pure l’ordine degli avvocati: “Che non può che esprimere viva preoccupazione a proposito della previsione, sul peso dell’arretrato ulteriormente maturato durante il periodo Covid e sugli anni necessari, 4 o 5, per il suo smaltimento”. È il tempo di reagire, per De Sanctis: “Paradossalmente, deve essere un’occasione per risolvere i problemi che già esistevano”. Alla André Gide: non ci sono guai, ma soltanto soluzioni. Il consiglio dell’ordine, presieduto dall’avvocato Simona Grabbi, coglie l’occasione per ricordare l’esigenza di investire, sulla Giustizia: l’impressione dei legali è che “la pandemia abbia messo in luce le fragilità di un sistema giudiziario che deve essere aiutato investendo risorse in uomini, donne e mezzi, e non intervenendo esclusivamente sull’abolizione della prescrizione, ponendo la parola mai alla fine del processo penale e comprimendo così una garanzia fondamentale del cittadino”. Di certo, tutti si sono impegnati, in questi mesi: “Si conosce il lavoro immane fatto collaborando con i capi degli Uffici giudiziari, da marzo in avanti, per cercare di far ripartire con i diversi protocolli il lavoro processuale civile e penale - spiega il Consiglio - e da settembre in poi per non farlo fermare, nonostante le diverse difficoltà anche logistiche: il blocco delle maxi aule, e il timore degli assembramenti”. Altro resta da fare: “Il Consiglio ha anche proposto ingressi degli avvocati facilitati dall’uso dei badge con appositi lettori proprio per evitare code e attende risposta”. Propone correttivi anche la Camera penale: “In primo luogo - aggiunge De Sanctis - bisogna incidere sull’organizzazione, coniugando qualità e quantità. Non ci si può rassegnare a un futuro di arretrato. E l’indipendenza del magistrato non è incompatibile con un’organizzazione più vicina a criteri aziendalistici”. Altri passi: “La digitalizzazione nell’accesso agli atti processuali rischia di creare forme inedite di burocrazia informatica ma, se ben utilizzata, può dare efficienza al sistema, senza ridurre i diritti”. Attenzione petribunali”. rò alle carte di cui s’è riempita l’emergenza: “Bisogna tornare al primato della Legge nel disciplinare il processo penale - dice De Sanctis - ed evitare l’abuso di protocolli che creano sperequazioni territoriali, confusione e inutile burocrazia”. Morale: “I protocolli dovrebbero essere solo quelli “interni”, per migliorare il sistema organizzativo dei Occhio anche, avvertono i penalisti, ai processi modello web: “Si deve uscire dalla fase emergenziale che ha creato pericolose suggestioni apparentemente “smart” e “cool”, che celano invece la neutralizzazione del contraddittorio: processi da remoto con il difensore lontano dall’aula e camere di consiglio non partecipate (nemmeno dai giudici)”. Altro tema sollevato da Saluzzo, quello attorno all’articolo 112 della Costituzione: “Ben venga un esercizio molto ponderato dell’azione penale (anche solo perché il processo è di per sé una sanzione) - commenta il consiglio dell’ordine - salvaguardando comunque anche nei fatti il principio fondamentale della sua obbligatorietà, garanzia di uguaglianza del cittadino di fronte alla legge”. Chiusura, sul ruolo del legale: “I numeri delle assoluzioni non dipendono soltanto da un esercizio dell’azione talvolta superficiale da parte della Procura o dal ricorso a istituti deflativi, ma anche dal fattivo contributo alla dimostrazione dei fatti e della innocenza dell’imputato da parte dell’avvocato”. Sull’articolo 112 interviene pure l’avvocato Mauro Anetrini, indicato da Stampa come possibile successore di Bonafede: con l’idea di “un intervento correttivo che, sotto il controllo della legge e con criteri prestabiliti e uniformi, consenta, ove necessario, una gradazione di priorità. Soluzione prospettata nella Bicamerale presieduta da Bozzi. Riforma semplice, che non esporrebbe il magistrato a rischi di azione disciplinare e agevolerebbe la realizzazione degli scopi che la Giustizia persegue”. Milano. Salvini in visita a San Vittore: “I detenuti sono quasi tutti immigrati” globalist.it, 28 dicembre 2020 “In questa domenica di festa sono venuto a portare il saluto alle donne e agli uomini della Polizia penitenziaria che fanno un lavoro prezioso, costante, senza sosta spesso poco conosciuto in balia di gente varia ed eventuale. Qui a San Vittore oggi l’80% dei detenuti è straniero, otto su dieci sono immigrati e questo ci dice che c’è qualcosa che non funziona”, dice il leader leghista, che non manca di mandare la solita frecciata razzista. “Altri fanno polemiche, Salvini va ad aiutare i senzatetto, porta i pacchi alle famiglie, va a visitare gli agenti in carcere, domani va a donare il sangue”, io lascio a loro le polemiche e mi tengo la voglia di aiutare nel mio piccolo chi ha bisogno di una mano e chi in questi giorni di festa si sente ancora più solo. C’è chi polemizza e chi aiuta, io preferisco far parte degli italiani che fanno e che non chiacchierano”, conclude Salvini, recordman di assenteismo in Parlamento e una vita passata in campagna elettorale. Pisa. Il Natale della Caritas con gli ex carcerati a “Misericordia tua” Il Tirreno, 28 dicembre 2020 “In un luogo come questo, in cui si accoglie un’umanità ferita accompagnandola verso percorsi di reinserimento sociale, si può sperimentare il senso di questo Natale diverso ma forse più vero”. Per celebrare il Natale il direttore della Caritas di Pisa don Emanuele Morelli ha scelto “Misericordia tua”, la casa d’accoglienza della diocesi a Sant’Andrea a Lama a Calci che da due anni ospita carcerati ammessi alle misure alternative ed ex detenuti. Sette quelli accolti dall’inaugurazione a oggi, quattro quelli presenti ora. Nella chiesa di Sant’Andrea Apostolo (la più antica di Calci e attigua alla canonica che ospita la casa d’accoglienza) il 25 dicembre erano presenti anche alcuni componenti della “squadra” di “Misericordia tua”: dallo psicologo Lorenzo Lemmi al custode Luciano Zorzi, ad alcuni dei volontari che svolgono servizio nella struttura e ad un gruppo di credenti dei dintorni che hanno celebrato il Natale con i “vicini di casa” e a Vittorio Cerri, per 19 anni direttore del “Don Bosco” di Pisa e ora responsabile di “Misericordia tua”: “La nostra comunità vive in questo luogo da due anni e ce la stiamo mettendo tutta per “fondare la casa sulla roccia” - ha detto. Una roccia spirituale innanzitutto, perché come diceva sempre don Bosco, citando il salmo 126: “Se il Signore non fonda la casa, invano i costruttori si adoperano...”. Per questo ringraziamo l’arcivescovo che ci mostra la sua vicinanza ed il frutto della sua preghiera, i sacerdoti dell’arcidiocesi, la Caritas e la cappellania del carcere. Ma anche una roccia sociale, perché il nostro sviluppo è dovuto alla bella e proficua sinergia con la Magistratura di sorveglianza con l’Ufficio di esecuzione penale esterna di Pisa, la direzione generale di Firenze, il carcere di Pisa e gli “angeli” locali della legge: i carabinieri di Calci. Auguri dunque agli abitanti di Sant’Andrea e infine un abbraccio ai nostri operatori e volontari: il vicedirettore, il ragioniere, il brigadiere della polizia penitenziaria, il cappellano, la suora, Daniela e Maria Chiara di Controluce e soprattutto Luciano, il prezioso custode, Paolo, Matteo e Alessio”. Savona. Partito Radicale: “Il nuovo carcere sia costruito in città e non in Val Bormida” savonanews.it, 28 dicembre 2020 Stefano Petrella: “Costruire il nuovo istituto a 30 km dalla città allontanandolo dal Tribunale e dai servizi a cui deve fare riferimento è molto sbagliato”. “Rischia di chiudersi a breve e nel peggiore dei modi come era prevedibile la vicenda della individuazione dell’area del nuovo Carcere di Savona. Era evidente infatti che l’accelerazione impressa dall’iniziativa di Vazio avrebbe portato a questi risultati: l’ipotesi Val Bormida era l’unica già pronta sul tavolo, mentre riaprire la discussione su Savona richiede un approfondimento e una assunzione di responsabilità a cui la politica cittadina sembra ben decisa a sfuggire”. Queste le parole in una nota del Partito Radicale del militante Stefano Petrella. “Sono passati circa 40 anni da quando il Ministero iniziò a proporre la chiusura del Carcere di Sant’Agostino e a chiedere al Comune di Savona l’indicazione di un’area idonea a realizzare una nuova struttura, senza mai ottenerla al punto da arrivare proprio a causa di questo alla decisione di chiuderlo definitivamente nel 2016. Come Radicali ci eravamo trovati a manifestare nel 2011 - dopo una visita di Rita Bernardini - per chiederne la chiusura e difendiamo quella decisione. È grave responsabilità di chi ha amministrato la città non averla individuata ed in particolare degli ultimi Sindaci e del PD - dopo che il progetto di realizzarlo a Passeggi era stato accantonato - non avere più avanzato alcuna proposta in merito, indirizzando la soluzione su una ipotesi poco ragionevole e fino ad allora sostenuta soltanto dalla Polizia Penitenziaria come quella della Val Bormida” dicono i radicali. “A nostro parere costruire il nuovo istituto a 30 km dalla città allontanandolo dal Tribunale (che differenza fa per gli spostamenti visto che Genova è poco più lontana?) e dai servizi a cui deve fare riferimento è molto sbagliato e creerebbe inutili disagi ai parenti e maggiore difficoltà a portarvi attività lavorativa e trattamentale in aperto contrasto con quel modello di carcere aperto a cui sembra ispirarsi il progetto del Ministero. L’unica esperienza simile in Liguria, Sanremo Valle Armea, proprio a causa della distanza a cui si trova dalla città si è rivelata ad molto infelice e quel carcere è considerato da molti non a torto il peggiore della nostra Regione. Rimane tra le aree in discussione (per fortuna non è l’unica) anche quella dell’ex-Acna di Cengio, al centro di un disastro ambientale di gravissime proporzioni durato decenni, pensare di realizzarvi una struttura che dovrebbe ospitare 200 detenuti e almeno un centinaio di altre persone tra personale di custodia e amministrativo ci sembra del tutto irresponsabile” proseguono dal partito radicale. “Molto più della Val Bormida si presterebbe eventualmente Albenga per la collocazione sulla fascia costiera, la più facile raggiungibilità, la presenza di aree idonee già individuate (le ex-caserme dismesse ad esempio, ma non solo) e le migliori opportunità che offre in termini di servizi; appare sorprendente che il tavolo tecnico non l’abbia neppure presa in considerazione. Secondo noi va costruito a Savona e le proposte del Ministero (Legino e le ex-Officine Rialzo) sarebbero meritevoli di maggior considerazione: l’area dietro il Tribunale infatti è abbandonata al suo destino da molti anni e non risulta al centro di alcun progetto (se non nelle fantasie del capogruppo del M5S) e Legino già a metà degli anni 90 era stato indicato come soluzione possibile, di realizzazione di certo più facile di quanto non sarebbe stata Passeggi. Non è vero inoltre che gli spazi debbano necessariamente essere amplissimi, perché una capienza di 150-200 posti (quella originariamente proposta) sarebbe più che accettabile per le esigenze di Savona se si ragiona su un modello di carcere finalizzato al reinserimento sociale e aperto all’applicazione delle misure alternative” continuano. “Se quelle aree non sono ritenute le migliori possibili se ne possono individuare altre senz’altro presenti sul territorio cittadino, ma occorre che il Pd (dopo anni di colpevole inerzia di cui non fa alcuna ammenda) non forzi i tempi ad arte per indirizzare la scelta sulla soluzione peggiore e soprattutto che la politica savonese abbia il coraggio di occuparsene: ci auguriamo possa essere così” concludono i radicali. Terni. Black out dietro le sbarre, la denuncia: Natale da incubo a vocabolo Sabbione ternitoday.it, 28 dicembre 2020 “Un Natale da incubo al carcere di Sabbione di Terni”. La denuncia porta la firma del Sarap, Sindacato autonomo ruolo agenti di polizia penitenziaria, che racconta quanto accaduto nel tardo pomeriggio del 24 dicembre, parlando di “un black-out improvviso poco prima della chiusura delle camere detentive” che ha “mandato in tilt l’istituto ternano”, spiegando che “solo grazie alla professionalità del personale in servizio che di quello richiamato dalle proprie abitazioni e dalla caserma agenti si è riusciti a garantire l’ordine e la disciplina all’interno dell’istituto”. “Tutto questo - precisa il sindacato - nonostante l’assenza di torce per illuminare l’istituto, il malfunzionamento dei generatori di corrente dovuti alla scarsa manutenzione e alla scarsa informazione per tutto il personale da parte della direzione sulla custodia dei chiavistelli per l’apertura dei cancelli automatici in situazioni d’emergenza”. Il Sarap mette dunque in risalto “il panico in cui è stato costretto a vivere il personale operante nell’istituto di Terni a causa della reiterata superficiale messa in atto da parte del dirigente dell’istituto in favore della tutela del personale”. “Tale situazione - precisa il Sarap - si è riuscita a gestire solo grazie alla operatività della sorveglianza generale e di tutti gli agenti in servizio di turno in una giornata così particolare quale può essere la vigilia di Natale, riuscendo dopo circa tre ore a riportare l’istituto in totale sicurezza”. “Anche questa volta, solo grazie all’abnegazione dell’ispettore e sovrintendente capo insieme a tutto il personale agente e assistente che, nonostante la giornata particolare, sono stati richiamati in servizio mentre trascorrevano momenti lieti in compagnia dei propri familiari, riuscendo così a garantire l’ordine e la sicurezza sia all’interno dell’istituto che all’esterno con personale disposto a presidiare tutto il perimetro”. Una serie su San Patrignano, cronache di un’altra Italia di Antonio Dipollina La Repubblica, 28 dicembre 2020 Dal 30 dicembre su Netflix “SanPa”, in cinque puntate i volti e le storie della discussa comunità di recupero fondata da Vincenzo Muccioli nel 1978. Un pezzo incendiario di storia d’Italia, da un quarto di secolo sotto la cenere. E che ora torna all’attenzione dentro una storia che si chiama San Patrignano: nel senso della vicenda di allora, Comunità di recupero dalle tossicodipendenze dure, fuori Rimini. Vicenda aperta nel 1978, chiusa nel 1995 con la morte del fondatore, che si chiamava Vincenzo Muccioli. Tra demonio e santità, anni pazzeschi: chi c’era e ricorda, rivive la sensazione di spaccatura netta tra opinione pubblica, politica, operatori. L’impossibilità di qualunque mediazione. Il lager o il luogo di salvezza, appunto il diavolo o il santo Muccioli. SanPa: luci e tenebre di San Patrignano è il titolo della docuserie disponibile dal 30 dicembre su Netflix. Cinque puntate da un’ora, i volti, le storie, le immagini d’archivio e i racconti di chi c’era e ha voluto ricordare. È la prima docuserie prodotta in Italia da Netflix, l’impatto è un enigma per chi è giovane, ma per chi ha l’età giusta è un’esperienza forte. Creata e scritta da Gianluca Neri, con Carlo Gabardini e Paolo Bernardelli, con la regia coinvolgente di Cosima Spender. Tre anni di lavoro e si vedono tutti, nella maniacalità usata nell’aggiungere pezzi, parole, brani di interviste, senza risparmio, dettagli, momenti privati in Super8, archivi setacciati (fondamentale la collaborazione di Andrea Muccioli, il figlio): l’alternanza secca tra le voci dei colpevolisti e quelle degli innocentisti - anzi, spiega Gabardini, uno degli autori: dei soldati di Muccioli, alla Red Ronnie. Che ancora oggi si infervora a suo modo. Perché una storia così, e soprattutto in questo modo, non era mai stata raccontata? Gabardini: “Nessuno ha mai tentato in questa forma, con la docuserie. Credo che in molti abbiano progettato lavori a tesi, per sostenere una parte o un’altra: ma a quel punto sapevi che in metà si sarebbero rifiutati. Non si può essere neutrali se hai vissuto dentro una storia come questa”. E voi? “Raccontiamo tutto senza fascinazioni ma vivendo il contraddittorio esistente. Risultato? Su molti aspetti, la docuserie fornisce verità definitive. Ma alla fine, l’insieme, rimane comunque un dilemma”. Cosima Spender, la regista, aggiunge: “Siamo saliti sulle montagne russe di questa vicenda. Unico obiettivo, sollecitare altre domande. Siamo stati fortunati ad aver trovato tanta gente di allora che voleva raccontare, in primis Andrea Muccioli. Per molti, ex ospiti, o protagonisti a vario titolo, è stata una catarsi, più parlavano e più si trasformavano, con le ore cambiavano proprio espressione, una piccola liberazione”. La cronologia del racconto inchioda alla visione e ha i suoi momenti superiori. Dalle prime indagini - i ragazzi tossici trovati in catene - all’oscurità da incubo del locale macelleria, al culmine con l’omicidio di Roberto Maranzano, ospite in comunità, ritrovato morto in Campania: un tentativo assurdo di depistaggio, processi su processi e l’Italia che si spaccava a metà davanti al telegiornale e alle ospitate di Muccioli nei talk-show di punta. Ma soprattutto la prova di come la Comunità per le tossicodipendenze si fosse trasformata, nel percorso di onnipotenza del fondatore - spiegano gli autori - in una sorta di centro per il reset dell’anima delle persone. La traccia più potente la forniscono gli intervistati: con il filo rosso rappresentato da Fabio Cantelli, personaggio simbolo se mai ce ne sono stati. Ex seguace, collaboratore di Muccioli partendo dalla condizione di tossico, poi parte attiva nelle denunce contro quello che non andava, figura-chiave di questo racconto: dolente, come se portasse la croce di tutto, ma fornendo chiavi e analisi di grande spessore. Ci sono anche Andrea Delogu, oggi splendida conduttrice in tv, e suo padre Walter, che era ospite della Comunità, ritratto in foto giovanili di clamorosa bellezza poi attaccata dall’eroina. Come detto c’è il pasdaran Red Ronnie e ci sono i bravi cronisti d’epoca che aiutano a inquadrare la sequenza della storia. E ci sono gli assenti: in una schermata finale vengono elencati quelli che, pur interpellati, non hanno voluto rispondere, tra cui Letizia Moratti, ossia, ieri e oggi, insieme al marito Gianmarco la principale finanziatrice della Comunità. SanPa si offre da domani alla visione degli interessati. Dilemma finale, capire se la materia incandescente è pronta a tornare fuori nel paese dove ci si divide a metà sulle facezie, figuriamoci sulle cose serie. Oppure se l’opera di rimozione, che in fondo era quella di molti anche a vicenda in corso, continuerà nel tempo. Gli effetti del lockdown su bambini e gli adolescenti di Elisabetta Pierazzi giustiziainsieme.it, 28 dicembre 2020 Intervista ai neuropsichiatri infantili Lino Nobili e Sara Uccella. Quali sono gli effetti e breve e lungo termine del lockdown sulla costruzione dell’identità, e dell’identità sociale, dei ragazzi? Quanto e come i social media possono aiutare, e quali sono le strade da evitare? Come dovrà cambiare la scuola quando si tornerà, appena possibile, alla normalità? Dieci risposte di due importanti neuropsichiatri infantili per orientarci nel groviglio di domande, preoccupazioni e incertezze sugli effetti della forzata limitazione dei contatti sociali dovuta alla pandemia. I possibili rischi per i bambini e gli adolescenti, i segnali da tenere sotto controllo, le migliori strategie personali e familiari e le priorità da seguire come collettività per fare i conti con le conseguenze di quell’incredibile esperimento sociale che, tra le altre cose, è stato il lockdown. 1. Nel giugno scorso il Dipartimento di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Gaslini di Genova da lei diretto, professor Nobili, ha svolto una ampia indagine sull’impatto psicologico e emotivo del lockdown sulle famiglie italiane. Cosa è emerso, quali sono stati e con quale incidenza i disturbi o comunque le conseguenze a breve termine del lockdown e della pandemia in generale per i bambini e gli adolescenti? E ci sono state differenze tra le varie fasce d’età? L’indagine in realtà, pur essendo stata pubblicata sul sito del Ministero a giugno, è nata agli esordi del confinamento in Italia. Quando l’abbiamo lanciata nel web, il primo intento era cercare di capire che effetto stessero avendo la pandemia ed il confinamento, dettato dalle misure di contenimento del contagio, sulle famiglie. In particolare volevamo vedere se c’erano differenze tra famiglie con o senza minori in casa. All’indagine hanno risposto in quasi settemila partecipanti adulti, chi con figli chi senza. Nella maggioranza della popolazione (più del 95%) sono stati dichiarati cambiamenti comportamentali, vale a dire maggiore difficoltà a concentrarsi, disturbi del sonno (come risvegli notturni, incubi, difficoltà ad addormentarsi), cambiamenti d’umore, esacerbazioni di malattie croniche o sensazioni corporee inspiegate (che afferiscono all’area delle reazioni che il corpo ha nei confronti di un evento stressante o traumatico). Nella popolazione dei genitori di bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni lo stress è stato in media maggiore, con picchi più elevati nella fascia dei genitori con figli in età prescolare (al di sotto dei 6 anni). Nelle risposte dei genitori poi, i cambiamenti comportamentali nei figli sono stati riportati da più della metà dei figli, con circa il 64% dei figli al di sotto dei sei anni e circa il 72% nei figli nella fascia di età 6-18. Per i più piccoli, i sintomi maggiormente osservati sono stati maggiore irritabilità, difficoltà ad andare a dormire da soli e risvegli notturni. Per la fascia 6-18 invece più frequentemente si sono osservate sensazioni corporee come sensazione di fame d’aria e disturbi del sonno a tipo “ritardo di fase” ovvero difficoltà ad addormentarsi e a svegliarsi la mattina. Il disagio dei figli correlava con il disagio dei genitori (che era maggiore se in casa erano presenti anche persone con più di 65 anni o se il genitore riferiva fragilità psicologiche pregresse). 2. Quali prevedete possano essere le conseguenze a medio e lungo termine? È difficile prevedere le reali conseguenze a lungo temine di questo momento storico. Attualmente ci rendiamo conto, anche nella nostra attività clinica, che questa situazione di isolamento sociale e di paura ha esacerbato (soprattutto nelle famiglie meno fortunate da un punto di vista socioeconomico, dove gravano disagi psichici noti o misconosciuti, o pregresse problematiche relazionali interne) disturbi psicologici e comportamentali anche severi. 3. Quali “strategie di sopravvivenza” domestica si sono rivelate migliori durante il periodo del lockdown? Quali gli elementi di rischio e quali quelli di forza all’interno delle famiglie? La World Health Organization[1] e l’Unicef[2] (per i bambini) avevano stilato a inizio della pandemia dei suggerimenti per affrontare il confinamento forzato. Sicuramente cercare di stare assieme bene in famiglia, impiegando del tempo per intrattenersi, provando a distogliere l’attenzione da notizie sul virus è la prima cosa da fare. Cercare di scandire i ritmi della giornata, fare esercizio fisico regolarmente, mangiare sano e trovare delle abitudini regolari (anche nell’andare a dormire) sono le regole d’oro per la “sopravvivenza domestica”. Questo, è stato anche quanto emerso dalla nostra indagine, dove chi ha avuto meno tempo per mettere in atto queste strategie, sono stati proprio i genitori dei bambini più piccoli, che hanno dovuto lavorare, gestire i bimbi a casa ed occuparsi dei nonni (categorie a rischio), nello stesso tempo. 4. Pochi mesi dopo la vostra indagine, a novembre, uno studio pubblicato sulla rivista Psychiatry Advisor[3] ha evidenziato che i bambini e gli adolescenti che svolgono più ore di attività nella “vita reale” sono più soddisfatti della propria vita, più ottimisti e in sostanza più felici, mentre quelli che trascorrono più tempo davanti agli schermi hanno livelli superiori di ansia e depressione. Avete rilevato anche voi questa correlazione, anche nel periodo precedente la pandemia? Abbiamo letto l’articolo non appena uscito, davvero interessante. Dice tante cose che sarebbero dovute essere ribadite anche prima e dovrebbero esserlo ancora di più ora. Sicuramente, come già hanno mostrato anche studi su animali, l’attività fisica e ludica, svolta insieme ai propri pari, è in grado di far produrre “neurotrasmettitori” benefici per la nostra salute psico-fisica, in modo nettamente maggiore che se eseguita in solitudine. Il nostro studio non prendeva strettamente in considerazione questi aspetti, anche se fondamentali, perché abbiamo cercato di avere informazioni a largo raggio su adulti e loro figli e non volevamo che il questionario durasse troppo tempo. Sicuramente il confinamento ha messo un freno a mano forzato a quelle attività della “vita reale” che colorano l’esistenza umana e fanno crescere, oltre a rendere più felice. Ci sarà da lavorare in questo senso (nel favorire gli incontri, quelli in carne ed ossa), cercando di rispettare comunque le norme di prevenzione pubblica di contenimento dei contagi. 5. In questo periodo quanto e come la socialità a distanza ha saputo supplire alla assenza della socializzazione in presenza? Ci sono differenze nell’utilizzo dei social da parte dei ragazzi rispetto a prima della pandemia? Sicuramente le videochiamate via Zoom e Skype, gli eventi in streaming su piattaforma digitale (Facebook, Instragram, Youtube...) possono aver dato un certo grado di beneficio, che è stato osservato anche nel nostro studio. Dall’altro lato, un utilizzo improprio dei socials per restare iperconnessi ha dato l’effetto contrario, anche nel nostro campione (per quanto riguarda i ragazzi e adolescenti tra i 6 ed i 18 anni di cui i genitori hanno descritto i cambiamenti comportamentali nella nostra intervista). Questo è un po’ quello che sta raccontando anche la letteratura di questi mesi: se da una parte potersi connettere agli altri dà un senso di appartenenza, dall’altro può anche generare alienazione; così come l’utilizzo della tecnologia e dell’informazione può avvicinare chiunque alle recenti innovazioni, dall’altro può aumentare sentimenti di frustazione ed impotenza, portando anche a sviluppare sintomi ansioso-depressivi, anche nei più giovani. 6. Il lockdown ha imposto anche agli adolescenti che trascorrevano poco tempo in casa di “rimanere in famiglia”, e tutt’ora la socialità con i gruppi dei pari è fortemente limitata per le restrizioni agli incontri. A me pare che l’isolamento abbia un impatto diverso su un adulto, un bambino e un adolescente, perché le relazioni sociali degli adulti si sono costruite nel tempo e dunque possono meglio resistere ad un momentaneo allentamento dei rapporti; quelle dei bambini sono in fase di sperimentazione, anche se forse sono ancora legate in prevalenza alla famiglia, mentre per gli adolescenti questo è il momento in cui tutto succede. Vi domando, quindi, quali sono per i bambini e gli adolescenti gli effetti di un periodo così lungo di deprivazione sociale? Riteniamo che lei abbia toccato molti spunti interessanti. Da un lato, è vero che i bambini più piccoli potrebbero avere risentito meno dell’aspetto di deprivazione sociale, ma sicuramente hanno vissuto molto i sentimenti e le emozioni dei loro genitori (mai come in questo periodo i bambini hanno respirato “l’aria che tira” in casa). Pertanto, l’esperienza dei più piccoli è stata fortemente e inevitabilmente correlata con la modalità di reazione familiare al confinamento. Per quanto riguarda invece gli adolescenti, la traiettoria è stata sicuramente diversa. L’adolescenza è il momento di differenziazione di un individuo che, distaccandosi dalle idee di riferimento del gruppo parentale e familiare, intraprende il suo processo di individuazione. Sicuramente i vari socials (Whatsapp, Instagram, e tanti altri che adesso vanno di moda tra i preadolescenti e gli adolescenti e di cui nemmeno conosciamo il nome) possono aver aiutato a supplire una carenza di esperienze ed affettiva. Gli adolescenti infatti sembrano un mondo a parte, in grado di fare coesione e gruppo tra pari. Tuttavia, i ragazzi più isolati o provenienti da contesti familiari più sfavorevoli o che già prima dello scoppio della pandemia presentavano fragilità psicologiche sono stati sicuramente penalizzati da questo momento storico. C’è chi, tra questi ultimi, ha sofferto molto (i ricoveri per urgenze psicologiche nel nostro reparto sono raddoppiati, per non parlare del numero di accessi in pronto soccorso) e chi invece ha mantenuto una apparente condotta di comfort durante questo isolamento sociale. È possibile che in quest’ultima situazione abbia svolto un ruolo anche la paura dell’altro e del nuovo. Ne verificheremo gli effetti nel momento di normalizzazione della regolamentazione sociale. Nel nostro campione, dove è possibile che abbiano riposto i genitori più in difficoltà, i cambiamenti comportamentali nella fascia 6-18 sono stati osservati, come menzionavamo prima, ad ampio raggio. 7. La fortissima pressione sui ragazzi in questo periodo per “restare a casa” e dunque con i genitori può avere avuto un effetto dannoso sulla loro capacità di acquisire e costruire la loro indipendenza? Quali possono essere le conseguenze? E quali spazi di intimità e autonomia è possibile e sano offrire ai bambini e a ai ragazzi anche in questa fase? Siamo comunque fiduciosi nella forza dell’adolescenza e degli adolescenti. Sarà stato e sarà faticoso, ma pensiamo che i ragazzi sapranno cogliere da questa esperienza forze per il futuro. Certo, tutto ciò dipende anche dalla loro maturità e dall’ambiente familiare, nonché dal substrato culturale. Anche pur restando in casa è comunque necessario mantenere un giusto compromesso tra indipendenza e osservanza delle regole; questo per tutti, grandi e piccini. 8. Questa domanda sono, in realtà, due domande. I genitori e chi si occupa di bambini e adolescenti si chiedono come ha influito sui ragazzi l’allontanamento dal luogo fisico della scuola e dalla vita comunitaria, e come influirà nel lungo periodo per quelli che ancora devono frequentare le lezioni a distanza. La prima domanda dunque è se ci saranno problemi a medio e lungo termine per l’apprendimento e l’educazione a stare insieme. Sono consapevole però anche della complessità e varietà delle diverse possibili situazioni. Ad esempio, la stragrande maggioranza dei bambini e dei ragazzi chiede a gran voce di poter tornare in classe, ma una cara amica che insegna in un liceo mi ha raccontato che alcuni studenti, che a scuola rimanevano abitualmente in disparte, nel lockdown hanno inaspettatamente cominciato a partecipare alle lezioni e a interagire con i compagni e gli insegnanti molto vivacemente (lei ha detto che sono “rinati”). In questo caso, quali sono i meccanismi che possono spiegare il cambiamento? La mancanza della scuola in questi mesi è sicuramente un costo che stiamo pagando e pagheremo tutti come società. Non è pensabile che un anno tra le mura di casa sia paragonabile a quello che accade tra i banchi di scuola, non solo a livello di apprendimento ma soprattutto per quel che riguarda la quantità di esperienze che la scuola porta con sé (il rapporto con i pari, quello con altri adulti differenti da quelli circolanti attorno al proprio nucleo familiare, la varietà di culture e la crescita stessa delle autonomie individuali). Ora la scuola deve adattarsi a questi tempi e trovare una didattica alternativa, che non sia solo frontale (così come spesso avviene anche in modalità “didattica a distanza”) ma che consenta di sviluppare il più possibile l’interazione, la discussione e che, ancor più di prima, cerchi di infondere nei ragazzi il piacere del sapere, della ricerca, anche autonoma, del sapere. In questo modo, quando potremo ritornare a una situazione “normale”, i nostri ragazzi potranno avere anche forse risorse in più. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, riguardante i ragazzi più “isolati”, questi probabilmente messi in una condizione di comfort come quella delle mura domestiche (dove sono meno giudicati per l’aspetto fisico, il loro modo di essere o di vestire) potrebbero in effetti essere stati avvantaggiati da una didattica a distanza. Si tratta comunque di un risultato, di cui però non bisogna accontentarsi: bisognerà controllare che questi ragazzi restino agganciati all’interno del gruppo, pur mantenendo la propria individualità ed unicità. 9. Secondo voi, ci sono state differenze nell’utilizzo dei social da parte dei ragazzi rispetto a prima della pandemia? E la socialità a distanza ha saputo supplire alla mancata socializzazione in presenza? Lo domando anche perché mi è stato suggerito che forse le maxirisse dei ragazzi delle settimane scorse potrebbero essere in qualche modo correlate con le limitazioni sociali dovute alla pandemia. È possibile che l’assuefazione ad una socialità virtuale renda meno empatici i bambini e gli adolescenti? E in questo caso, quali sarebbero i rischi per i singoli e per la collettività? Come spiegavamo prima, sicuramente in parte i social hanno supplito. Ma non potrà essere così per sempre. Sicuramente i ragazzi ora sono abituati, si sono organizzati quindi in media potrebbe esserci un utilizzo più consapevole; dall’altro lato però sono anche stanchi e questo ha generato molto più malumore ed apatia, anche nel cercare l’altro a distanza. Quanto alle vicende di cronaca legate alle maxirisse, crediamo più che altro che le persone non siano abituate a sentire la propria libertà limitata. Siamo tutti figli di una società che non ci ha insegnato il diniego ed il sacrificio e culturalmente siamo abituati, noi occidentali, ad avere un sufficiente margine di scelta. Ciò può aver aumentato i livelli di rabbia ed esplosività in alcuni gruppi di adolescenti. È sottile comunque parlare di assuefazione alla socialità virtuale e di riduzione dell’empatia. Uno studio interessante di Tomova ed altri[4], uscito in parallelo con l’inizio del confinamento, spiegava che l’isolamento porta a dei meccanismi simili alla fame, attivando circuiti molto ancestrali. Senza dilungarci oltre sulla biologia e le neuroscienze di questo tipo di fenomeni, è possibile che questo periodo di isolamento del primo “lockdown” abbia avuto i suoi effetti. 10. Infine, una domanda specifica sui bambini: la rappresentazione della vicinanza fisica come fonte di pericolo dal quale guardarsi, in una fase evolutiva nella quale si sperimenta e si incontra il mondo, rischia di avere delle conseguenze sulla loro capacità di avvicinarsi e fidarsi dell’altro? Quali sono le strategie per evitare che questo accada? I bambini fanno tendenzialmente quello che i genitori insegnano loro. La rappresentazione della vicinanza fisica come fonte di pericolo è un problema che andrà affrontato, ma crediamo non per tutti. Ci sarà da rinsegnare ad alcuni bambini a non avere paura dell’altro. E come società dovremo essere pronti a questo passo. “I giovani sono la priorità. A rischio la socializzazione, scuola valore da riscoprire” di Lucia De Sanctis orizzontescuola.it, 28 dicembre 2020 Il giurista Vincenzo Musacchio: la nostra gioventù è la più colpita dagli effetti devastanti del Coronavirus. La scuola sia il valore essenziale da riscoprire e potenziare. La risorsa da cui ripartire resta sempre l’uomo inteso come fine e non come mezzo dell’ordinamento giuridico. Non usciremo da questa emergenza se non recupereremo i nostri giovani che sono fondamentali nella ripresa non solo economica ma anche politica e sociale del Paese. Abbiamo bisogno delle loro forze essenziali e delle loro energie positive. Professore cosa intende per rischio socializzazione? Una caratteristica che contraddistingue in modo evidente questa pandemia è l’isolamento sociale associato a insicurezza e precarietà. È venuta meno la dimensione socializzante della comunità. Vede nelle guerre quando c’erano i bombardamenti ci si riuniva nelle cantine ma si restava comunque uniti. Ora invece siamo isolati a casa nell’incertezza e nella solitudine, esposti a variabili indipendenti dalla nostra volontà. Molti dicono che ne usciremo migliori. Io non credo. I più esposti sono soprattutto i più giovani. Limitare la socializzazione significa contrastare la nostra possibilità evolutiva millenaria. Rinunciare alle interazioni sociali per l’individuo significa privazione della sua essenza. Confrontarsi digitalmente non è uguale a interagire di persona. Il rischio più grave è proprio questa difficoltà dei giovani di vivere relazioni sociali reali. Che cosa pensa si potrebbe fare per i nostri giovani allora? Senza dubbio creare al più presto relazioni e interazioni reali “faccia a faccia” e non “faccia a schermo”. La chiusura delle scuole dovrebbe terminare al più presto possibile perché certamente ha accentuato le disuguaglianze nell’accesso dei più giovani alle opportunità di apprendimento e di socializzazione. Occorrerà dare supporto psicologico a questa deprivazione sociale analizzando gli effetti differenziali del coinvolgimento attivo o passivo nelle interazioni digitali per comprendere meglio gli effetti futuri della pandemia sugli adolescenti. La didattica a distanza non è al momento sufficientemente inclusiva per quegli studenti con disordini dello sviluppo, disabilità e necessità di seguire programmi personalizzati. Le abitudini scolastiche per quanto possano essere difficili da acquisire rappresentano una delle principali risorse di adattamento e di espressione delle potenzialità individuali. La mancanza d’interazioni “faccia a faccia” e la più complessa strutturazione della classe digitale limitano attualmente l’adattamento e la piena partecipazione. Sono questi i problemi che andranno affrontati. Quali priorità vede più urgenti? Per minimizzare gli effetti dell’emergenza sociale sui più giovani, si dovrebbero potenziare i servizi di assistenza sociale, dando priorità ai servizi centrati sui bambini con equità di accesso e attenzione alla protezione da violenze e abusi, a estendere l’accesso al digitale, a supportare i genitori. Penso soprattutto alle giovani generazioni, che mi pare siano state colpite molto più di altri da alcuni effetti collaterali dell’emergenza. Ci stiamo concentrando tanto sulla crisi economica e poco su una vera emergenza sociale, forse anche evolutiva, che non deve essere sottovalutata e alla quale sono esposte soprattutto le giovani generazioni e cioè la nostra prossima classe dirigente. Lei come interverrebbe, se potesse, con quali priorità? Credo che ogni decisione assunta sacrifichi qualcosa a favore di qualcos’altro. Esiste però un ordine di priorità nelle scelte di valore. Occorre riflettere su quali siano le priorità che si vogliono perseguire, posto che la situazione attuale e quella futura imporranno dei sacrifici a tutti. Guardi le faccio un esempio concreto. Il Governo ha deciso la ripartizione dei 209 miliardi di euro del Recovery Fund. 48,7 miliardi per digitalizzazione e innovazione; 74,3 per la “rivoluzione verde e transizione ecologica”; 27,7 al settore Infrastrutture per una mobilità sostenibile. Il capitolo “istruzione e ricerca” può contare su 19,2 miliardi, quello sulla Parità di genere su 17,1 miliardi. L’area sanità, infine, conterà su 9 miliardi. Non condivido tale distribuzione... Io avrei ripartito diversamente. All’Istruzione avrei dato 74.3 miliardi; alla Sanità, 48,7 miliardi; alla Giustizia, 27,7 miliardi; alla Transizione ecologica, 19,2 miliardi; alle Infrastrutture, 17,1 miliardi e alla Parità di genere, 9 miliardi. Ecco le mie priorità: Istruzione, Sanità e Giustizia. C’è un messaggio di speranza con cui vorrebbe terminare questa breve intervista? Non mi piace molto la parola “speranza” perché induce al fatto che altri agiscano al posto tuo. I giovani non devono avere speranze ma consapevolezza e determinazione in loro stessi, nel fare, nell’agire, nell’essere protagonisti. Il grande valore della libertà della persona deve essere il perno centrale della nostra convivenza civile bilanciato con gli altri diritti e adeguato al variare della situazione concreta ma sempre nel rispetto delle regole democratiche e pluralistiche che presidiano la nostra Costituzione. Faccio un breve cenno a uno dei grandi poeti del novecento, Pierpaolo Pasolini, che, purtroppo, si studia poco a scuola. In questo periodo lo sto rileggendo a distanza di quarantacinque anni dalla sua uccisione. Con estrema lucidità e genialità Pasolini ci dice come lo schema delle crisi giovanili sia sempre lo stesso: si ricostruisce a ogni generazione. I ragazzi e i giovani sono in generale degli esseri adorabili, pieni di quella sostanza vergine dell’uomo che è la buona volontà: mentre gli adulti sono in generale degli imbecilli, resi vili e ipocriti (alienati) dalle istituzioni sociali, in cui crescendo, sono venuti a poco a poco incastrandosi. Voi giovani avete un unico dovere: quello di razionalizzare il senso d’imbecillità che vi dànno i grandi, con le loro solenni ipocrisie, le loro decrepite e faziose istituzioni. Purtroppo invece l’enorme maggioranza di voi finisce col capitolare, appena l’ingranaggio delle necessità economiche l’incastra, lo fa suo, l’aliena. A tutto ciò si sfugge solo attraverso una esercitazione puntigliosa e implacabile dell’intelligenza, dello spirito critico. Altro non saprei consigliare ai giovani. Io darei lo stesso messaggio di Pasolini nei suoi dialoghi del 1965 che è, come non è arduo notare, ancora oggi attualissimo. Chico Forti, ancora molti italiani-prigionieri nel mondo se la vedono brutta di Michele Giordano Il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2020 La recente liberazione di Chico Forti, il velista e produttore televisivo trentino, mi ha riportato alla mente Fuga di mezzanotte (‘78), il grande film di Alan Parker, sceneggiato da Oliver Stone, che racconta la storia vera di Billy Hayes, studente hippy americano arrestato nel 70 all’aeroporto di Istanbul per possesso di hashish e finito per cinque anni in tre carceri turche dall’ultima delle quali riuscì a evadere dopo aver vissuto l’inferno (almeno nel film, visto che Hayes dichiarò, trent’anni dopo, che Parker aveva esagerato un po’ le cose). La differenza è che Hayes era colpevole (anche se gli diedero un esagerato ergastolo) e invece Forti, pure lui condannato al carcere a vita, si è sempre dichiarato innocente dell’omicidio dell’australiano Dale Pike, il cui cadavere seminudo venne rinvenuto a Sewer Beach, Miami, il 16 febbraio 1998. E, se non è stato Forti, dev’esserci ancora in giro un assassino che ammazzò Pike con una calibro 22. “L’avvocato di Forti, Joe Tacopina - scrive Giuseppe Sarcina sul Corriere della Sera - ha presentato istanza al Governatore della Florida, il trumpiano Ron DeSantis, per sollecitare l’applicazione della Convenzione di Strasburgo del 1983 che consente a un detenuto condannato in via definitiva di scontare la pena nel proprio Paese. La Farnesina e l’Ambasciata italiana a Washington hanno moltiplicato le pressioni sul Dipartimento di Stato, guidato da Mike Pompeo e sull’Amministrazione della Florida. Fino a ieri, quando il Governatore DeSantis ha accolto l’istanza”. A rigor di legge, Forti, non appena tornerà in Italia, potrebbe essere re-incarcerato, ma si tratta di un’ipotesi assai improbabile. Se a lui, dopo quasi vent’anni nell’istituto di pena di Everglades, è andata (si fa per dire) bene, molti altri italiani-prigionieri in giro per il mondo se la vedono brutta. Oggi, secondo i dati pubblicati dalla Farnesina in un volume del novembre 2019, Guida pratica all’assistenza consolare per i detenuti italiani all’estero, sarebbero circa 2.100. Il condizionale è d’obbligo perché di molti si sono perse le tracce (già nel 2015 la senatrice grillina Paola Donno aveva presentato un’interrogazione “per fare luce sul fenomeno, ricordando il dramma dimenticato di molti connazionali. Privati dell’assistenza di un legale o di un interprete, in alcuni casi. Altre volte abbandonati nella totale assenza di igiene e dignità”). Secondo l’associazione Prigionieri del Silenzio, fondata da Katia Anedda, che si occupa di aiutare gli italiani detenuti all’estero, sono invece 3278 gli italiani dietro le sbarre fuori dal proprio Paese, soprattutto nelle Americhe (472). “Non entriamo mai nel merito delle vicende processuali - aveva spiegato qualche tempo fa Anedda presentando a Milano il suo libro Prigionieri dimenticati, Historica Editrice - Non ci interessa se una persona è colpevole o innocente, è importante che vengano rispettati i suoi diritti”. E questo è un punto molto importante da sottolineare (il caso, sia pur inverso, di Cesare Battisti, docet). Non basta essere italiani per essere innocenti. Risolto quello di Forti, ci sono ancora tanti casi da affrontare. Ma non quello, purtroppo, di Simone Renda, un ragazzo di Lecce morto in carcere in Messico pochi anni fa, solo per citare uno dei molti avvenimenti funesti. Grande soddisfazione per la liberazione di Chico Forti da parte di chi si è battuto da sempre per ottenerne la liberazione: lo zio Gianni che lo ha sempre ritenuto innocente, i giornalisti di Radio 105, le Iene e molti altri che lo hanno sempre sostenuto. Perché, allora, i sospetti sull’omicidio di Dale Pike portò all’arresto di Forti? C’era di mezzo una compravendita di un hotel di Ibiza, il mitico Pikes, luogo amato dai supervip fondato e gestito da Tony Pike, scomparso lo scorso anno e padre della vittima, re dell’edonismo a Ibiza, oggetto di gossip per i suoi flirt con George Michael e Freddie Mercury, Grace Jones e Kylie Minogue? Quel che è certo che il figlio Dale fu ucciso a Miami mentre stava trattando la vendita dell’hotel di famiglia a un gruppo di acquirenti rivelatisi poi dei truffatori. E Chico Forti, amico suo, venne tirato dentro al caso. Non è ben chiaro perché, a oggi. Tanto più che dall’omicidio alla condanna a “fine vita” intercorsero ben due anni di processo e Forti - afferma il suo avvocato - non è mai stato chiamato a testimoniare. Persino l’opinione pubblica americana ha avuto dubbi sulla colpevolezza di Chico. Per di più, la legge degli Usa prevede che si possa riaprire un processo solo “al verificato accertamento di nuove prove di cui non si poteva essere a conoscenza all’epoca del processo e in grado di modificare gli esiti della sentenza”. Gli interventi di almeno tre ministri degli Esteri italiani succedutisi nei vari governi nulla hanno potuto. Fino ad oggi. Le Iene, che si sono occupate del caso in tv, hanno ipotizzato che Forti sia rimasto incastrato da un documentario che lui stesso girò all’epoca dell’omicidio di Gianni Versace, ovvero a luglio del ‘97, quando lavorava come produttore televisivo, un documentario che palesava ipotesi avverse alla ricostruzione effettuata dalla polizia sul ritrovamento del cadavere di Andrew Cunanan, il serial killer autore dell’omicidio dello stilista calabrese. Ammettere un clamoroso errore giudiziario non avrebbe certo fatto bene al sistema giudiziario Usa. La grande illusione delle “Primavere arabe” di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 28 dicembre 2020 Non so contare le volte che ho visto e ammirato “La grande illusione” di Jean Renoir, il film che in assoluto, più di qualsiasi altro, mi ha costantemente travolto di emozioni sempre nuove. Parla di democrazia, di rispetto, di speranza che le dittature e le guerre sarebbero finite. Il film, del 1937, che Hitler e Mussolini avevano proibito ma che fu celebrato in mezzo mondo, portava anche la firma di un grandissimo sceneggiatore: un uomo che per me è stato una presenza familiare. Quella di Charles Spaak, fratello del ministro belga Paul Henry (uno dei creatori dell’Europa unita), e padre di Agnes (la mia cara ex compagna) e di Catherine. La grande illusione era una storia di rapporti cavallereschi, anche tra nemici. Un mondo che almeno una volta nella vita abbiamo cercato o sognato, quantomeno come un’illusione valoriale di foscoliana e leopardiana memoria. Una delle ultime illusioni, che per chi vi parla ormai da tempo non esistono più, è arrivata nella seconda parte del dicembre di 10 anni fa, con l’inizio delle cosiddette “primavere arabe”. Partendo dalla Tunisia, dove un giovane venditore ambulante, Mohamed Bouazizi, si era suicidato per protesta contro le vessazioni subite, bruciandosi vivo, proprio come Ian Palack a Praga. Ma se la “primavera” contro l’aggressione sovietica alla Cecoslovacchia, era vera e concreta, quella cominciata in Tunisia ha segnato il picco di un’ipocrisia generalizzata. In realtà le “primavere arabe” sono rimaste sepolte negli slogan interessati dell’Occidente, che le ha celebrate nutrendole di illusorie speranze. Nel gennaio 2011, le proteste in Egitto, in piazza Tahrir, con la defenestrazione del presidente Hosni Mubarak, molti avevano immaginato erroneamente una vera rivoluzione democratica. Sciocchezza colossale, perché Mubarak in fondo era decisamente migliore dei due successivi presidenti: Mohammed Morsi, espresso dagli islamisti, e poi Abdel Fattah Al Sisi, scelto come garanzia di sicurezza dalla cosiddetta maggioranza silenziosa, quella che abbiamo chiamato “partito del sofà”. In verità si è andati di male in peggio. Con Mubarak, per come l’ho conosciuto e come ho lavorato per decenni nel suo Paese, un caso come l’assassinio, dopo orribili torture, del nostro Giulio Regeni non sarebbe mai accaduto. Immaginare poi una “primavera araba” in Libia, dove il dittatore Gheddafi garantiva quantomeno un equilibrio fra le oltre 200 tribù del Paese, era una pia illusione. Esattamente come in Siria, dove la guerra ed anche la crisi economica hanno creato due campi: i fedeli al regime e gli oppositori, i primi non migliori degli altri. Bashar Assad, che ho intervistato più volte, non è un santo ma neppure un criminale. Non doveva neppure diventare presidente. All’inizio era un convinto riformatore, poi è stato costretto ad adeguarsi al realismo politico. La Siria Paese terrorista? Ma non scherziamo. Aveva ragione il padre di Bashar, il presidente Hafez El Assad, quando chiese all’Onu di esprimersi sul terrorismo, insomma di dire chi è terrorista e chi no. Nessuna risposta. Impossibile decidere, perché oltre la metà del mondo ritiene che i terroristi siano combattenti per la libertà, e l’altra metà sostiene l’esatto contrario. Stesso discorso vale per un Paese che non è arabo ma ha una maggioranza musulmana come la Turchia, dove il sultano-dittatore Recep Tayyip Erdogan da una parte si inventa i golpe per arrestare decine di migliaia di oppositori, e dall’altra fa affari lucrosi con i fanatici dello Stato islamico, l’Isis, alla faccia della logica democratica, della Nato di cui fa parte, del rispetto degli altri, che il sultano non sa neppure dove abiti. Per non parlare dello Yemen dove, alla faccia delle primavere fasulle, vive una guerra insensata, condotta dall’Arabia Saudita, creatrice storica dello Stato islamico. Già, dimenticavo o fingevo di dimenticare che l’uomo forte di Riad, l’erede al trono, il signor MBS, è un fior di democratico che invia commandos di assassini per annientare le voci dell’opposizione. Però sui diritti umani violati in terra saudita nessuno parla, perché MBS ha ottimi rapporti d’affari con il pagliaccio Donald Trump, ex presidente americano, che gli ha venduto miliardi di armamenti. E anche la Francia, dell’uguaglianza, libertà e fraternità, non può certo consegnare di nascosto la Legion d’onore all’egiziano Al Sisi. Solite porcherie, amici che mi ascoltate. Non vedo l’ora che quest’anno bisestile e assai poco felice se ne vada. Buon 2021, e che il futuro ci sia amico. Diamanti, armi e ribelli. Il duello tra Mosca e Parigi per dominare il Centrafrica di Domenico Quirico La Stampa, 28 dicembre 2020 Il Paese al voto tra i disordini, sullo sfondo la lotta per il controllo delle risorse. Il presidente Touadéra tradisce la Francia con Putin e cerca la riconferma. Ah, l’Empire africano! Non sono più i tempi di una volta, quelli dei “barbouze”. I capi di Stato per esempio, pittoreschi arruffapopoli, soci nelle redditizie immondizie del post colonialismo; quando non servivano più o, incredibile arroganza davano segni di indipendenza dalla République, ebbene Parigi li licenziava con una telefonata. Un colonnello delle armate africane addestrate appunto per eseguire golpe da operetta lo liquidava in due ore. Poi si passava alla transizione alla democrazia restaurando opportuni sentimenti di fedeltà degni dei nibelunghi. La dominazione francese è come un iceberg, ne vedi solo la punta, suggestiva, tranquillizzante: perché è rivestita di retorica, la Francia miglior amica dell’Africa, la francofonia, il franco CFA, la patria dei diritti umani eccetera. Quale presidente francese da de Gaulle a Macron non ha pronunciato queste parole, non ha accolto gli “amici africani” sulla scaluccia dell’Eliseo con corazzieri e grandi abbracci? Quello che è sommerso, che non si vede, invece è pericoloso. È la mafiafrique: reti di controllo fitte come le finestre di una prigione, dalla politica alla sicurezza alle materie prime alle infrastrutture. Prendete il Centrafrica, che storie! Guerre, golpe, massacri, miseria e diamanti: insomma un polverone africano di poco conto. Ha fatto notizia perché lo ha visitato Papa Francesco. Francois Bozizé, il presidente, era un grande amico della Francia, neanche il diffamatore più incallito avrebbe potuto segnalare colpe. Come lo era stato un altro personaggio leggendario, Bokassa, “l’imperatore”. “De Gaulle è mio padre”, diceva lui che con la divisa francese aveva combattuto in Indocina. “Chi è quell’idiota che abbiamo a Bangui?”, chiedeva irato papà De Gaulle. I diamanti regalati a piene mani al sussiegoso Giscard d’Estaing non gli salvarono il trono quando Parigi trovò di cattivo gusto le sue sceneggiature napoleoniche, le carrozze tirate dai cavalli e le incoronazioni copiate sui testi di storia del primo impero. Bozizé, al potere con un golpe ovviamente, evitava queste stravaganze. L’aveva sempre servita in modo esemplare, meticoloso la Francia. Eppure nel 2013 lo lasciarono cadere come un frutto marcio sotto l’assalto di una coalizione di misteriosi ribelli musulmani, i seleka. Colpa gravissima imperdonabile, la sua: aveva fatto entrare una società sudafricana nello sfruttamento delle miniere di diamanti. Non bastarono a salvarlo dalle ire di Parigi le benedizioni del “cristianesimo celeste”, una setta esoterica di cui era fervido seguace. La chiesa sorgeva, allora, non lontano dall’aeroporto di Bangui nel quartiere di Galabadjia, portava il nome impegnativo di parrocchia della “nuova Gerusalemme”. Dotato di gerarchie complicatissime più della curia vaticana, il cristianesimo celeste vendeva i certificati di battesimo per l’equivalente di tre euro. Bozizé, il giorno della presa del potere, dopo una frettolosa visita a moschea e cattedrale, venne a pregare nel suo tempio, prosternandosi a terra, il corpo volto verso Est “dove sorge il sole”. Celebravano sacerdoti che indossavano suggestivi paramenti di stampo massonico. Era la belle époque della FrancAfrique. Sette anni dopo sembra di esser tornati alla casella di partenza, perché Bozizé è di nuovo protagonista. Già: si possono giocare le vecchie carte, riutilizzarle se tornano utili. Cosa è accaduto? Che il successore di Bozizé ha commesso un peccatuccio, sempre quello: ha provato a tradire la Francia. Con la Russia di Putin, per di più. Touadéra, ex professore di matematica, dal 2017 ha trasformato Bangui nell’avamposto del Cremlino in Africa. Affidandogli l’addestramento e il riarmo dell’esercito. Comincia a circolare tra i sudditi il dubbio che Parigi sia in fondo una potenza di terz’ordine, che non faccia più paura e che sia arrivato il momento di cercarsi padrini più svelti, grossi e affidabili. I cinesi per esempio. La Turchia di Erdogan. O i russi, che non sono più fossili semantici della disastrosa influenza sovietica. Ieri erano in programma le elezioni, presidenziali e legislative. Bozizé ha provato a ricandidarsi, dispone ancora di seguito popolare e pare che Parigi non fosse infelice per il suo ritorno. I golpe non sono di moda, costano. Ma la Corte costituzionale ha bocciato la candidatura; pende su Bozizé dal 2013 un’accusa alla Corte penale internazionale per violazione di diritti umani e crimini di guerra. Sembrava tutto in ordine per il presidente, che rientra nella normalità politica del continente, ovvero ritiene che la riconferma sia un diritto: in fondo anche dio non vuole oppositori, tanto è vero che ha cacciato Satana! Modesta la suspence, già a Bangui si scommetteva sulle percentuali della rielezione. E invece improvvisamente i gruppi ribelli, che Touadéra ha pagato per non avere guai, divisi finora da feroci rivalità anche religiose, tra musulmani seleka e cristiani e animisti, hanno deciso di unirsi impugnando le armi per demolire da cima a fondo il potere del presidente in un fiorire di sigle e gruppi dove si sprecano paroline come riabilitazione, rinascita, ritorno, patria. Qualcuno ha sospettato di Parigi, ipotizzando addirittura una guerra africana tra Mosca e la Francia. Che nega ogni nostalgia e traffico luciferino con Bozizé e per manifestare la sua buona fede ha spedito un paio di Mirage a sorvolare Bangui e le zone controllate dai ribelli. Un po’ pochino. I ribelli da dieci giorni sono passati all’attacco, avanzando verso la capitale, chiedendo rinvio del voto e posizioni di potere. A difesa del presidente si sono schierati i caschi blu del contingente di pace, che lamentano tre morti, e soprattutto i russi: perché Putin ha spedito subito alcune centinaia di mercenari della solita Wagner, in servizio permanente effettivo dalla Libia al Mozambico alla Siria, per rinsaldare lo sgangherato esercito locale. Tenere le elezioni è diventata una sfida politica. Che Touadéra sembra aver formalmente vinto. Con 50 minuti di ritardo ieri anche se Bangui era di fatto circondata e si parlava dell’infiltrazione dei ribelli in alcuni quartieri, i seggi sono stati aperti in una plumbea calma. Diversa la situazione nel resto del Paese, per due terzi sotto controllo o la minaccia armata dei ribelli. A Bokarouga ad esempio i miliziani ribelli hanno minacciato chi si preparava a votare, in altre località si sparava attorno ai seggi. In alcune città la buona volontà non è bastata: a causa delle strade interrotte non è arrivato dalla capitale il materiale elettorale. Libia, flop dell’Onu e al Sisi ne approfitta di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 28 dicembre 2020 Il rappresentante delle Nazioni Unite ha rinunciato prima di cominciare lasciando spazio all’Egitto per un ruolo da mediatore tra Tripolitania e Cirenaica. Resta impotente la comunità internazionale di fronte al groviglio libico, ma intanto l’Egitto si posiziona per giocare un ruolo da mediatore tra Tripolitania e Cirenaica. La novità importante nella Libia paralizzata dai contrasti interni e dalle ingerenze straniere si è consumata ieri a 150 metri dal perimetro dell’ambasciata italiana di Tripoli. Era infatti da poco trascorso mezzogiorno quando il personale italiano ha assistito in diretta all’arrivo di una folta delegazione egiziana nell’edificio limitrofo. Una mossa destinata a pesare sul Paese. L’ambasciata egiziana era stata chiusa nel febbraio 2014 e da allora tra il governo di Abdel Fattah al Sisi e quello poi sostenuto dalle Nazioni Unite guidato dal premier Fayez Sarraj a Tripoli era stata guerra aperta. Sembra invece che gli egiziani abbiano adesso deciso di rimandare un ambasciatore e di aprire un consolato nel Fezzan. Si prospetta anche una prossima visita di Sarraj in Egitto, dopo quella semisegreta di alcune settimane fa. Il nuovo attivismo egiziano dovrà venire considerato con attenzione anche in Italia, specie alla luce della crisi tra Roma e il Cairo innescata dall’affare Regeni. L’Egitto infatti mira ad essere un attore rilevante dello scenario libico. Va sottolineato che proprio al Sisi era stato uno dei maggiori alleati politici e militari dell’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar. L’Egitto, assieme alla Russia, aveva pienamente sostenuto la violenta offensiva lanciata da Haftar nel 2019 per conquistare Tripoli. Ma l’intervento turco al fianco delle milizie pro-Sarraj l’aveva bloccato. Oggi l’Onu resta marginale. Il suo nuovo inviato per la Libia, il diplomatico bulgaro Nickolay Mladenov, ha rinunciato all’incarico ancora prima di cominciare. Intanto Haftar e la Turchia si scambiano minacce di guerra. E al Sisi sa bene che per entrare nelle grazie di Biden gli sarà utile slegarsi dal carro di Putin, con cui invece Trump andava a braccetto. Cina. Raccontò il Covid a Wuhan, quattro anni di carcere alla blogger Zhang Zhan La Stampa, 28 dicembre 2020 Ex avvocatessa di 37 anni, è in cella da maggio. Secondo i giudici, ha diffuso “informazioni false” sui social media. Un tribunale di Shanghai, in Cina, ha condannato a quattro anni di detenzione Zhang Zhan, la blogger che aveva diffuso notizie sull’epidemia di Covid-19 da Wuhan. Lo ha annunciato il legale della donna, accusata di aver pubblicato “informazioni false” per i suoi report sulle fasi iniziali della risposta cinese alla pandemia, ampiamente condivisi sui social a febbraio scorso. Zhang Zhan, ex avvocato di 37 anni, è sottoposta dal maggio scorso a detenzione a Shanghai, e deve rispondere anche del reato di aver creato disordini, che viene spesso usato contro attivisti e dissidenti in Cina. Zhang ha inviato “false informazioni attraverso testi, video e altri media attraverso gli internet media come WeChat, Twitter e YouTube”, secondo l’accusa e ha accettato interviste da media stranieri, come Radio Free Asia ed Epoch Times, che “hanno speculato malignamente sull’epidemia di Covid-19 a Wuhan”. Bielorussia. Ondata di Covid-19 nelle carceri, già di loro in condizioni terribili di Roberto Naccarella periodicoitaliano.it, 28 dicembre 2020 Le carceri in Bielorussia stanno vivendo una situazione complicatissima. Dopo i tantissimi arresti in seguito alle manifestazioni contro il presidente Lukashenko, le strutture carcerarie, piene fino all’inverosimile, sono in condizioni critiche a causa di una spaventosa ondata di Covid-19. Gli attivisti che hanno parlato con l’Associated Press dopo il loro rilascio hanno descritto celle massicciamente sovraffollate, senza un’adeguata ventilazione o servizi di base, con totale assenza di cure mediche. Kastus Lisetsky, 35 anni, musicista, ha ricevuto una condanna di 15 giorni per aver partecipato a una protesta. È stato ricoverato in ospedale con febbre alta dopo otto giorni passati in una prigione nella Bielorussia orientale. Al 35enne è stata diagnosticata una polmonite bilaterale causata proprio dal Covid-19. “Muri umidi coperti da parassiti, mancanza di misure sanitarie, brividi di freddo e un letto arrugginito: questo è quello che ho ottenuto in prigione a Mogilev invece di assistenza medica”, ha detto Lisetsky. “Avevo la febbre e ho perso conoscenza - aggiunge - le guardie hanno dovuto chiamare un’ambulanza”. Lisetsky ha detto che prima di entrare in quel carcere, lui e altri tre attivisti sono stati detenuti in una prigione di Minsk e sono stati costretti a dormire sul pavimento di una cella destinata solo a due persone. Come riporta il sito SCMP, tutti e quattro hanno contratto il virus. Ma non è tutto, perché Lisetsky, dimesso dall’ospedale, dovrà anche tornare in prigione per scontare i restanti sette giorni di pena. Il 35enne ha accusato il governo di permettere al virus di diffondersi tra le persone incarcerate per motivi politici. “Le guardie dicono apertamente che lo fanno su ordine”, ha detto Lisetsky. Più di 30.000 persone sono state arrestate per aver preso parte alle proteste contro la rielezione in agosto del presidente bielorusso Alexander Lukashenko. Un voto che gli attivisti dell’opposizione hanno ritenuto fin da subito “truccato” ad arte per concedere a Lukashenko un sesto mandato. La candidata all’opposizione Sviatlana Tsikhanouskaya, giunta seconda alle elezioni presidenziali e costretta a lasciare il paese dopo aver contestato i risultati ufficiali, ha esortato i leader stranieri e le organizzazioni internazionali ad intervenire per aiutare a contenere l’epidemia di coronavirus nelle prigioni bielorusse. In Etiopia il carcere è l’inferno delle madri e dei loro bambini di Giuseppe Catozzella L’Espresso, 28 dicembre 2020 Ragazzine adescate. Giovani donne violentate. Mogli picchiate. E detenute rinchiuse insieme ai figli in edifici fatiscenti. Viaggio in un paese dove la crescita economica non migliora la qualità della vita. Una donna in carcere non è soltanto una donna rinchiusa, spesso è una donna rinchiusa insieme ai suoi figli. Oppure è una donna rinchiusa con i figli sbandati, se hanno più di cinque anni, nessun parente con cui stare e vivono per strada. Se è vero che le carceri sono una delle più fedeli rappresentazioni del grado di civiltà e del livello di rispetto dei diritti umani di un paese, le detenute della prigione di Adwa in Etiopia e i loro figli sono tra le persone che più subiscono una violazione dei diritti umani nel mondo, in uno Stato che per ogni detenuto spende nove birr al giorno (0,43 dollari). Ma la verità è che il carcere di Adwa non è che lo specchio dell’Etiopia. Se è vero che l’Etiopia è il paese che cresce economicamente di più al mondo è allora altrettanto vero che gli indici economici sono lontani dal misurare il benessere e la felicità dei cittadini. L’elezione di due anni e mezzo fa di Abi Ahmed Ali - dr. Abi come lo chiamano tutti in Etiopia - (il primo premier di etnia Oromo dopo gli anni del Terrore rosso, eletto con l’appoggio degli Stati Uniti), ha messo fine alla dittatura del negus comunista Menghistu Hailè Mairàm prima e a quella di Meles Zenawi dopo, ha aperto il paese a una impressionante crescita ma ha anche destabilizzato gli equilibri interni ed esterni dell’Etiopia. E se le riforme e le liberalizzazioni operate da dr. Abi (la cessazione della guerra contro l’Eritrea e la riapertura dei commerci a nord, con la conseguente riconquista di uno sbocco più comodo sul mare; la liberazione di migliaia di prigionieri politici Oromo; la privatizzazione delle industrie chiave; la denuncia della tortura da parte dei servizi di sicurezza) hanno fatto ben sperare per un po’, già dalla mia visita in Etiopia dell’inizio del 2019 era evidente che la storica guerra etnica tra Oromo e Tigrini non era cessata ma si era frantumata in guerriglie tra le etnie locali. Ora, dal novembre di quest’anno la guerra tra Oromo e Tigrini è ritornata, e potenziata, ha sconfinato in Eritrea, e dopo l’occupazione della capitale del Tigrai Macallè da parte delle Forze armate federali governative rischia adesso di sconvolgere gli equilibri di tutto il Corno d’Africa e dello scacchiere che controlla il mar Rosso e il canale di Suez (l’asse occidentale guidato dagli Usa da una parte, e la Cina e la sua via della Seta che passa per lo stretto di Bab el-Mandeb dall’altra). In uno dei paesi al mondo che ha sviluppato la più diffusa rete di spionaggio tutti sono controllati da tutti, e finisce che una persona su 6 ha la fedina penale sporca. E se sei donna, in un paese patriarcale come l’Etiopia, diventa molto più facile essere incriminata. Il paese, insomma, negli ultimi mesi e a dispetto del Nobel per la pace assegnato a dr. Abi, è tornato a essere una polveriera. E di polvere è fatta principalmente la strada che dal centro di Adwa conduce al carcere. Il centro della città-mercato è nella zona alta di Adwa, sull’altipiano che sfiora i duemila metri dove un tempo sorgeva il municipio italiano con la sua piazza e le case coloniali. Ora da lì partono solo stradine terrose che portano fuori. Il settore femminile del carcere si trova dietro quello maschile, ancora più fatiscente, è una costruzione della dominazione coloniale italiana degli anni Trenta e forse è nata, immagino io, per vendicare la proverbiale sconfitta che gli italiani ricevettero proprio ad Adwa (Adua) nel marzo del 1896, quando il negus Menelik II bloccò il primo sogno italico di colonizzazione dell’Abissinia e di creazione un impero africano. Per accedere alla sezione femminile c’è un portoncino di ferro rosso, presidiato da una guardia presente a tempi alterni. Il portone si apre in un muro di cinta basso e sormontato da filo spinato. Se non fosse per la guardia e il filo spinato sembrerebbe un qualunque edificio governativo. Dentro invece sono recluse 34 donne con i loro 12 bambini. Il carcere è composto di tre case di cemento armato allineate attorno a un cortile di terra rossa di sei metri per cinque. Non c’è elettricità né acqua corrente se non il sabato, il rubinetto nel cortile manda acqua solo quel giorno: è festa, bambini e madri raccolgono scorte dentro taniche di plastica da dieci litri. A settembre il vescovo di Adigrat ha lanciato l’allarme per comprare serbatoi puliti e acqua purificata. Diarrea, malattie intestinali e della pelle sono i maggiori fattori di morte in carcere. L’acqua è contaminata, i bambini si ammalano continuamente. Con la presenza del Covid poi, denuncia il vescovo, la situazione è più preoccupante del solito. C’è, scrive, necessità di acqua pulita e presidi sanitari di disinfezione. Per ora è inascoltato. Il sabato è anche il giorno del lavaggio, dei vestiti e dei corpi. I bambini finiscono dentro vasconi di metallo arrugginito, e giocano col flusso d’acqua che quel giorno scende miracoloso. Anche le donne si lavano aiutandosi a vicenda con le taniche. Il locale dei bagni, come tutto il resto, è fatiscente. In nessun angolo sono rispettate le norme di igiene. Le detenute non amano stare chiuse nelle “case”, trascorrono quasi tutto il tempo all’aperto. Quando non piove e tutte mangiano o dormono, fuori rimangono solo i fornelletti in cui tostano il caffè. C’è Azieb, che ha 19 anni ed è incinta di otto mesi. Deve scontare un anno e otto mesi per aver rubato un cellulare; partorirà qui, aiutata dalle altre detenute. Georgis Z. Michael invece è stata condannata per via del microcredito, aveva chiesto un prestito a una banca per aprire un’attività e non è riuscita a saldarlo. Dovrà passare in carcere i prossimi due anni, insieme alla figlia di cinque anni Desinet. Desinet ha problemi cardiaci ma non riceve cure, non è mai andata a scuola né ci andrà finché la madre sarà rinchiusa. Elfnesh Agos ha picchiato un uomo, le restano da scontare quattro mesi, ma nel frattempo suo figlio di sei anni non ha potuto cominciare la scuola perché fuori non c’è nessuno che lo accompagni. Triffe W. Gabriel è quella con la pena più alta, ha l’ergastolo per aver ammazzato il marito. Non è pentita, dice che era il minimo che potesse fargli, dopo una vita di umiliazioni. Non è raro, in Etiopia, in una società tanto patriarcale è normale che i mariti picchino le mogli. Capita che qualcuna reagisca, e viene subito incarcerata, dopo un processo sommario. Alem Berhe invece ha due figli di 12 e 7 anni che non sono rinchiusi ma vivono allo sbando, dormono alla stazione delle corriere di Adwa. Kubrom, il grande, ha lasciato la scuola per lavorare e stare con la sorella Meherawit, che è stata avvicinata da uomini adulti. “Mia sorella ha sempre fame”, dice, “non abbiamo abbastanza cibo. Ha un problema allo stomaco. Mia zia e i nostri parenti non ci aiutano perché l’incarcerazione di mia madre è vissuta come una vergogna. Quando c’era mamma la nostra vita era normale, avevamo cibo e andavamo a scuola. Di mio padre non ho notizie, lavora a Macallè, ho provato ad andare a trovarlo ma non ha mai voluto vedermi. Senza cibo non riesco a stare sveglio e non riesco a lavorare, e mia sorella non va a scuola se non riesce a stare sveglia. Non mi interessano i vestiti, ho bisogno di cibo”. Fa quello che trova, a volte ruba, per tenere la sorella lontana dalla strada. Spesso è prostituzione, a volte, come nel caso della piccola Meherawit, sono violenze. Gli uomini avvicinano le bambine anche solo con le caramelle. Il tasso di Hiv è alto in tutta l’area rurale di Adwa, in carcere non ci sono controlli né esami del sangue. Tutte, dentro, sono denutrite. L’alimentazione consiste in una porzione di injera (un pane molle fatto di farina di teff che non ha bisogno di essere conservato al freddo) e in una ciotola di shirò (una salsa di peperoncino e ceci) al giorno. Ogni giorno la stessa cosa, all’infinito. I bambini sviluppano gravi malattie legate alla mancanza di altri alimenti. Quando piove la terra diventa un pantano e i piedi affondano fino ai polpacci. Durante la stagione delle piogge il cortile diventa impraticabile ma questo non frena i bambini dal giocare in mezzo al fango, non hanno nient’altro, saltellano, si rincorrono, fingono di nascondersi. Non gridano mai, tengono la voce e gli occhi bassi. Dentro il carcere non c’è scuola, non c’è un insegnante, non un infermiere. I figli delle detenute dovrebbero rimanere con le madri fino ai cinque anni, ma per chi non ha alternative si chiude un occhio e i bambini crescono misurando il mondo col perimetro del cortile, gli sguardi e gli slanci spenti. Su un lato, fuori, le detenute hanno costruito una baracca di legno e lamiera dove passano le giornate a filare il cotone riparate dal sole. I bambini le aiutano, educati, servizievoli, spaventati dal mondo che non conoscono. Filare il cotone è l’unica attività che possono concedersi. Producono coperte per loro, il resto del cotone lo vendono, c’è un andirivieni di conoscenti e parenti che vengono a raccoglierlo e lo portano al mercato della città. Un’altra attività è tostare il caffè, è un’operazione lunga, che richiede tempo. Oppure producono injera, e quello che avanza lo danno da vendere al mercato ricavando qualche birr. Durante la stagione delle piogge le temperature la sera calano fino a dieci gradi, il dormitorio è una stanza spoglia senza materassi dove si raccoglie il freddo; i materassi, dicono, portano germi e uccidono i letti, loro dormono su assi di legno o su coperte di cotone. Manca tutto dentro il carcere femminile di Adwa. Soprattutto l’assenza di una cura esterna. Questa è la cosa peggiore, dopo un po’ si inaridisce anche la parola, tra detenute si comunica a monosillabi, poi a gesti. I bambini sono spaventati. A oggi, tra l’altro, è interrotto qualsiasi tipo di comunicazione, anche telefonica, col Tigrai, e quindi col carcere. Le Forze armate federali governative non vogliono che il mondo conosca le violenze che stanno infliggendo ai Tigrini.