Lettera aperta ai lettori di Ristretti, e a quelli che speriamo lo diventino Ristretti Orizzonti, 27 dicembre 2020 Cari lettori di Ristretti Orizzonti, a fine anno vogliamo chiedervi come state e raccontarvi come stiamo. Di recente un mio amico russo a cui ho insegnato l’italiano, alla domanda “come stai” mi ha risposto “sto insomma…”, forse non è un italiano perfetto, ma io introdurrei questa espressione nella nostra lingua, perché non trovo modo migliore per dire come stiamo, l’incertezza, l’ansia, l’incapacità di definire il nostro stato. Noi di Ristretti “stiamo insomma”: il volontariato a Padova è rientrato in carcere a luglio, così come in altre carceri, ma ci sono carceri in cui da marzo non è più rientrato, ora per lo più ne è uscito nuovamente a dicembre, perché la situazione sanitaria è peggiorata. Si preparano tempi particolarmente duri, ma noi vogliamo esserci in particolare con il nostro giornale, la Newsletter quotidiana, il progetto con le scuole, con tutto quello che riusciamo a fare sulla questione dell’informazione e della sensibilizzazione della società, anche perché questi tempi hanno portato in primo piano il degrado e la pochezza della “cultura” dominante sulle pene e sul carcere. Con queste condizioni abbiamo faticato tantissimo a rispettare l’impegno dei sette numeri all’anno di Ristretti, ma anche in questo anno crudele ce la stiamo facendo: è quasi pronto per la tipografia il numero 6, e il numero 7 sta per essere impaginato. In aggiunta a questo piccolo miracolo, abbiamo organizzato delle videoconferenze che hanno coinvolto detenuti, persone che hanno finito di scontare la pena, figlie di detenuti, vittime che si sono rese disponibili al dialogo: un piccolo miracolo che documenta che una cultura diversa su questi temi è possibile, ed è possibile riuscire a “farsi ascoltare” dalla società, anche quella più rabbiosa e incattivita. Per questo vi chiediamo di abbonarvi, o di rinnovare l’abbonamento, e magari di regalare qualche abbonamento ai vostri amici: per noi questo vostro aiuto costituirebbe una grande boccata di ossigeno. Con l’augurio che tutti riusciamo a trovare, con il Natale e il nuovo anno, la forza di non mollare e la voglia di scoprire strade nuove. Per abbonarsi: http://www.ristretti.it/abbonamenti.htm Figli in carcere con la madre, al via il fondo per l’accoglienza della famiglia in comunità di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2020 Il provvedimento a prima firma di Paolo Siani in V Commissione ora finirà in aula per l’approvazione definitiva e prevede che siano stanziati 1.500.000 di euro all’anno a partire dal 2021. Basta bambini costretti a vivere in carcere con la mamma. La V Commissione della Camera ha approvato l’emendamento alla Legge di Bilancio, a prima firma dell’onorevole Paolo Siani, che garantisce la creazione di un fondo per l’accoglienza delle madri che si trovano negli istituti penitenziari con i loro figli. Al 30 ottobre scorso (ultimo dato aggiornato fonte ministero della Giustizia) erano 33 i piccoli che si trovavano a crescere in una condizione assolutamente inadeguata e rischiosa, che mina il loro benessere psicologico, emotivo e fisico. Una vittoria per Cittadinanzattiva, A Roma Insieme - Leda Colombini, che hanno proposto la soluzione adottata dal parlamentare e dagli altri deputati di tutti i partiti di maggioranza che hanno voluto sottoscrivere l’emendamento. Il provvedimento che ora finirà in aula per l’approvazione definitiva prevede che siano stanziati 1.500.000 di euro all’anno a partire dal 2021: un finanziamento che servirà per coprire le spese di accoglienza delle donne e dei loro bambini, fuori dal carcere, in modo che possano essere trasferite sia in case famiglia protette sia in comunità alloggio già presenti su tutto il territorio nazionale. Una misura economica che dovrà essere seguita da un decreto del ministero della Giustizia da adottare entro due mesi dall’entrata in vigore della Legge. “Siamo davvero soddisfatti per l’approvazione del nostro emendamento, un risultato che fornisce una prima risposta concreta al superamento definitivo di un paradosso gravissimo e trascurato, probabilmente perché riguarda piccoli numeri e perché ha a che vedere con madri e bambini di solito provenienti da condizioni di marginalità”, spiega Laura Liberto, coordinatrice nazionale della rete Giustizia per i diritti di Cittadinanzattiva. Liberto pensa già al prossimo passo: “Più di un anno fa è stata depositata una proposta di Legge a firma Siani che contiene tutte le misure che consentirebbero di evitare nuovi ingressi di minori in carcere. Va calendarizzata al più presto per poter iniziare l’iter parlamentare necessario alla discussione”. Da lungo tempo Cittadinanzattiva è impegnata nella costruzione di soluzioni definitive al problema della presenza di bambini piccoli negli istituti penitenziari assieme alle madri detenute. L’associazione si è battuta per l’adozione di misure di sistema che non fossero soltanto legate all’emergenza sanitaria che ha investito pesantemente le carceri italiane, ma volte a creare le condizioni perché nessun bambino debba più provare l’esperienza della detenzione. La proposta di emendamento alla Legge di Bilancio è stata formulata in collaborazione con l’associazione A Roma Insieme - Leda Colombini. “La sinergia sperimentata in questa occasione tra due soggetti del volontariato, è la prova - dichiara Gustavo Imbellone di A Roma Insieme-Leda Colombini - che la società civile organizzata può stimolare positivamente le istituzioni per un quadro di regole più umane e rispettose della dignità dei minori e dei cittadini sinergia. Questo è un risultato importante che si iscrive lungo un percorso ancora non breve, per rendere l’ordinamento penale italiano pienamente rispondente ai livelli di civiltà”. Maratona virtuale per la liberà di Associazione Yairaiha Onlus comune-info.net, 27 dicembre 2020 Ormai da nove mesi i detenuti di tutta Italia sono in zona rossa permanente privati dei più elementari diritti e del calore degli affetti. I colloqui con i familiari, unico momento del dispositivo carcerario per mantenere vivi i legami con le persone care, sono stati pressoché sospesi e sostituiti da colloqui virtuali. Le limitazioni ulteriori, la paura e il dilagare del Covid-19 nelle carceri degli ultimi due mesi, rendono la “normale” condizione di privazione della libertà ancora più pesante da sopportare trasformando la punizione del reato in tortura e, in alcuni casi, condanna a morte certa. A poco sono serviti le decine di appelli proveniente da familiari, operatori e associazioni, affinché anche per le carceri venisse messo in atto un piano che affrontasse l’emergenza pandemica in maniera mirata ed efficace, mettendo al riparo la popolazione penitenziaria dal rischio contagio. Governo e parlamento hanno avuto la capacità di trasformare una emergenza sanitaria in emergenza criminalità scaricando sulla pelle dei detenuti i costi di una campagna elettorale permanente che si fonda sulla paura e sull’insicurezza sociale che, di fatto, sta cancellando i più elementari diritti umani e costituzionali. Un parlamento che avrebbe dovuto chiedere a gran voce amnistia e indulto per tutti e tutte, che avrebbe dovuto pretendere il rispetto del diritto alla salute anche per la popolazione carceraria e che, invece, continua a tacere sui tredici morti di Modena, Ascoli e Rieti e sulle centinaia di persone torturate e massacrate perché chiedevano diritti. Domenica 27 ci ritroveremo in questa piazza virtuale per amplificare le voci dei detenuti e delle detenute attraverso quelle dei familiari e dei solidali. Ognuno può intervenire per dare un saluto, esporre un cartello con un pensiero o anche solo il nome dei propri cari. Non lasciamoli soli. Link per accedere alla maratona: https://us02web.zoom.us/j/2272048950?pwd=YXNQcWhHUm8rWjVjMnlNbHRVaXphUT09&fbclid=IwAR066Be7ODzU_LZBHQUknbEdwNFfbIUPIPPaJtKArYFy1EaimtUeOdCo1d0#success Umanizzare il carcere con la forza del Vangelo di Davide Dionisi vaticannews.va, 27 dicembre 2020 Il punto sulla pastorale carceraria al tempo del Covid con il sottosegretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. “Credo che sia stato un anno complicato per tutti e nell’ambiente carcerario lo è stato cento volte di più. Oltre ai detenuti, a farne le spese è stata anche la pastorale che è stata in prima linea nonostante le restrizioni perché ha dovuto affrontare quello che non si capiva e, per tanti versi, ancora non si sa”. Diverse ombre, ma anche tante luci nel bilancio che monsignor Segundo Tejado Muñoz, sottosegretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, traccia parlando di pastorale carceraria al tempo del Covid. La creatività e le iniziative dei cappellani - Nelle visite virtuali e, dove consentito, in presenza, si sono registrate storie di umanità dolente, di umanità che ha cercato, tutto sommato, il modo per redimersi, di detenuti che hanno chiesto in tempo di pandemia di imparare un mestiere per poter riprendere la loro vita normale, per poter essere vicino ai figli, ai nipoti, ai familiari, per poter ritornare a far parte di quella famiglia dalla quale sono stati allontanati due volte. Per il virus e per la pena da scontare. “Ma così come è accaduto per i cappellani ospedalieri, anche per i sacerdoti che non hanno mai fatto mancare la loro presenza accanto ai fratelli carcerati, la creatività è stata fondamentale. Le modalità per garantire assistenza e sostegno morale e materiale soprattutto nei periodi più duri sono state sorprendenti” spiega Mons. Tejado Muñoz Papa Francesco, un dono per i detenuti - Tutto ciò che è stato fatto e si continuerà a fare è servito a diminuire la distanza che c’è tra l’uomo in carcere e la sua famiglia, tra il ristretto e la società. Così come evocato più volte dal Papa. “Francesco è sempre stato con loro e non ha mai smesso di manifestare il suo affetto e la sua vicinanza. I detenuti hanno un posto speciale nel suo cuore. Per loro e per noi tutti il Santo Padre è un grande dono” riprende il sottosegretario del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale Il vaccino, la nuova sfida - Monsignor Tejado Muñoz ricorda poi gli esempi di straordinaria professionalità e dedizione dei cappellani che hanno dimostrato quanto importante sia la presenza di tutti coloro che, ogni giorno, offrono ai detenuti un filo di comunicazione con il cosiddetto “mondo libero”, la possibilità di un canale di ascolto per ridurre la lacerazione della lontananza dagli affetti. “Abbiamo partecipato a ben 35 videoconferenze come Commissione Covid, durante le quali abbiamo ascoltato esperienze straordinarie di cappellani che si sono inventati di tutto pur di non abbandonare uomini e donne alla loro disperazione. Continueremo a gennaio perché il confronto tra esperienze diverse è fondamentale anche perché ora si apre il problema dei vaccini. Garantire la somministrazione a tutti sarà una delle nostre priorità”. Con la forza del Vangelo - Nel carcere si vedono abissi di dolore, di disperazione, ma anche straordinaria capacità di reagire e di ritrovare sé stessi nel momento del dolore e nel momento della sofferenza e una pastorale carceraria che sia realmente incisiva, per il sottosegretario del Dicastero deve far leva unicamente sul Vangelo. “Non c’è bisogno di altro” sottolinea. E aggiunge: “Il Signore è sempre tra noi e lo è stato in tanti modi nell’anno appena trascorso. Anche nelle prove più dure. Prove in cui dobbiamo sapere individuare e valorizzare le esperienze positive perché il cristiano non è pessimista. L’esempio di Gesù morto sulla croce ne è un esempio. Da un evento tragico ne è derivata la salvezza dell’umanità”. Prescrizione, i renziani contro Conte: “Dov’è la commissione che ci avevi promesso?” di Liana Milella La Repubblica, 27 dicembre 2020 Il 14 gennaio, dopo un anno, in commissione Giustizia alla Camera, scadono gli emendamenti alla riforma del processo penale. Anche Costa di Azione chiede di tornare alla riforma Orlando e attacca Bonafede: “La sua legge non si applichi ai reati precedenti”. Tra le vittime del Covid c’è anche la prescrizione. Sì, proprio lei, la riforma che tra gennaio e febbraio del 2020 ha tenuto banco costringendo il premier Giuseppe Conte a continui vertici a palazzo Chigi - se ne contano ben cinque - per mettere d’accordo la sua maggioranza, dove, già allora, i renziani scalpitavano per fermare la riforma del Guardasigilli Alfonso Bonafede. Esattamente come fanno anche oggi, tant’è che il tema della prescrizione ha fatto di nuovo capolino nell’ultimo incontro tra Conte e Renzi. Solo una battuta certo, ma gravida di conseguenze. Come Repubblica è in grado di raccontare. Perché, giusto il 14 gennaio, scadrà il termine per gli emendamenti sulla riforma del processo penale di Bonafede nella commissione Giustizia della Camera. Riforma che, all’articolo 14, contiene anche il cosiddetto lodo Conte-bis sulla prescrizione, frutto dei cinque vertici di maggioranza sulla giustizia tra gennaio e febbraio prima che il Covid derubricasse l’argomento tra quelli del tutto secondari. Ma ora, in agguato, non ci sono solo i renziani, ma pure Enrico Costa di Azione, noto “nemico” della riforma Bonafede e fan della precedente legge Orlando. Ettore Rosato, vice presidente della Camera e uomo di punta dei renziani, non si tira indietro sulla questione: “La prescrizione? Noi stiamo aspettando ancora quella commissione che Conte ci aveva promesso a febbraio...”. Già, dai vertici era spuntata, ed era stata accettata da Conte e Bonafede, la richiesta della deputata renziana Lucia Annibali di dar vita a una commissione ad hoc che valutasse la riforma della prescrizione e le sue possibili conseguenze sullo stato della giustizia, e per giunta Renzi aveva proposto che ne facesse parte anche Giandomenico Caiazza, il battagliero presidente delle Camere penali che adesso però è diventato anche il suo avvocato nel caso Open, e quindi è improbabile che possa ricoprire questo ruolo. Ma la commissione sulla prescrizione si è persa nelle nebbie. La legge Bonafede è pienamente operativa anche se quest’anno non ha riguardato nessun reato per l’ovvio motivo che un delitto commesso oggi si prescriverà tra alcuni anni. La riforma del processo penale, a sua volta, ha camminato assai lentamente alla Camera, tant’è che solo a metà gennaio prossimo saranno presentati gli emendamenti. Un’evidente tagliola - tra le tante - qualora la maggioranza non dovesse aver raggiunto un’intesa definitiva. Ma nel frattempo, proprio per via del Covid, il governo è stato costretto a mettere mano comunque alla prescrizione. Nei decreti Cura Italia di maggio viene stabilito che essa può bloccarsi visto che tutti i processi sono fermi. E nei decreti Ristori è scritto invece che se un’udienza viene rinviata per via del Covid e per l’impossibilità di partecipare da parte di uno dei protagonisti del processo, la prescrizione si ferma per 60 giorni. E qui sorgono ulteriori rimostranze di Costa che potrebbero portare i renziani a votare contro il governo sulla questione. Perché è vero che la Corte costituzionale ha appena respinto i ricorsi contro i decreti Cura Italia sostenendo che il blocco della prescrizione non viola la Costituzione ed è ammissibile visto che anche i processi sono fermi. E quindi, attenzione, stiamo parlando di reati che sono stati commessi “prima” dell’entrata in vigore della legge. Ma, secondo Costa, sarebbe grave se passasse il principio, con i decreti Ristori, che la prescrizione può fermarsi anche solo per l’indisponibilità di un avvocato o di un imputato a partecipare all’udienza. In questo caso, secondo Costa, la norma sarebbe incostituzionale. E c’è da scommettere che i renziani gli andranno dietro. Per questo, solo una settimana fa, Costa è riuscito a far approvare alla Camera un ordine del giorno sulla prescrizione, alla fine votato da tutti, che impegna il governo a prevedere una specifica clausola sui reati commessi “prima” dell’entrata in vigore della legge. Ad essi, dice Costa, la riforma Bonafede non può essere applicata: “È necessaria una norma che ribadisca in modo puntuale che le norme sulla prescrizione non possono essere retroattive, anche di fronte a discutibili interventi del Governo che prevedono, in taluni decreti legge, ipotesi di sospensione della prescrizione applicate a fatti commessi in precedenza”. È evidente che Costa ce l’ha con i decreti Ristori. Per chi ne avesse perso la memoria ricordiamo che, il primo gennaio di quest’anno, è entrata in vigore la riforma di Bonafede, per cui la prescrizione si blocca dopo la sentenza di primo grado. Fu approvata durante il governo gialloverde nella legge Spazzacorrotti dopo un durissimo scontro con Matteo Salvini e Giulia Bongiorno che imposero la sua effettiva entrata in vigore un anno dopo, gennaio 2020, a riforma del processo penale licenziata. Ovviamente, anche se non è scritto nel testo, la norma riguarda i reati commessi dopo quella data. A differenza della precedente riforma dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando che invece conteneva l’espressa clausola di esclusione e non bloccava, ma sospendeva soltanto i termini di prescrizione per complessivi 36 mesi tra Appello e Cassazione, distinguendo tra imputati assolti e condannati. È giusto la riforma a cui, adesso, vorrebbe tornare Costa abolendo la Bonafede. E i renziani non sono affatto alieni dal pensarla nello stesso modo. A loro non è mai piaciuta la formula di compromesso raggiunta a febbraio, il cosiddetto lodo-Conte bis che nasce da un’intuizione di Federico Conte, deputato di Leu, avvocato e omonimo nel cognome al premier, e poi recepita ed elaborata da Giuseppe Conte durante i vertici. L’idea è quella di distinguere il percorso della prescrizione per gli assolti e per i condannati. Per i primi la prescrizione continua a decorrere, con 18 mesi per fare l’appello e sei mesi per la Cassazione. Per i condannati invece la prescrizione si ferma per consentire al processo di non risolversi nel nulla, cioè cancellato da una prescrizione del reato che sopraggiunge. Però, se poi il condannato in primo grado viene assolto in appello, ha diritto di recuperare il tempo di prescrizione perduto tra primo e secondo grado. Una formula che comunque non ha definitivamente convinto i renziani. Tant’è che hanno chiesto una commissione che però è finita nel dimenticatoio in tempi di Covid. Adesso, nel difficile equilibrio della maggioranza, la prescrizione torna come ulteriore tema divisivo e oggetto di scontro. E la scansione dei tempi non è dalla parte di Conte e Bonafede perché il 14 gennaio si avvicina, il voto sugli emendamenti pure, e proprio su questi il governo potrebbe finire per spaccarsi. E il Covid fa persino diventare retroattive le leggi sulla prescrizione di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 dicembre 2020 Depositate mercoledì scorso le motivazioni della sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato legittimo lo stop alla prescrizione introdotto a marzo durante la sospensione dell’attività penale. Una pronuncia che smentisce il “divieto assoluto” sancito a proposito della “Taricco”. La sospensione della prescrizione, disposta dai decreti legge 18 e 23 del 2020, emanati per contrastare l’emergenza coronavirus, “non è costituzionalmente illegittima”. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza estesa dal relatore Giovanni Amoroso e di cui mercoledì scorso sono state depositate le motivazioni. Una pronuncia che, seppur considerata “circoscrivibile” all’emergenza, modifica in modo rilevante la giurisprudenza sul punto. La sospensione dei processi dal 9 marzo all’ 11 maggio del 2020 era stata prevista per fronteggiare l’emergenza sanitaria nel primo lockdown. La cosiddetta “sospensione covid”, per la Consulta, rientra dunque nella causa generale di sospensione della prescrizione stabilita dall’articolo 159 del codice penale, secondo cui “il corso della prescrizione” rimane sospeso “ogni qualvolta la sospensione del procedimento o del processo penale sia imposta da una particolare disposizione di legge”. Pertanto, il blocco introdotto la scorsa primavera “non contrasta con il principio costituzionale di irretroattività della legge penale più sfavorevole”. La Corte costituzionale ha dichiarato in parte “non fondate” e in parte “inammissibili” le questioni che erano state sollevate dai Tribunali di Siena, di Spoleto e di Roma sulla applicabilità della sospensione della prescrizione anche ai processi per reati commessi prima dell’entrata in vigore dei due Dl. In particolare, dichiarando “la non fondatezza delle questioni con riferimento al principio di legalità sancito dall’articolo 25 della Costituzione”, e “l’inammissibilità con riferimento ai parametri europei richiamati dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione”. La sentenza precisa che “il principio di legalità richiede che l’autore del reato non solo debba essere posto in grado di conoscere in anticipo quale sia la condotta penalmente sanzionata e la pena irrogabile”, ma “deve avere anche previa consapevolezza della disciplina concernente la dimensione temporale in cui sarà possibile l’accertamento del processo, con carattere di definitività, della sua responsabilità penale, ossia la durata del tempo di prescrizione, anche se ciò non comporta la precisa determinazione del ‘dies ad quem’ in cui maturerà la prescrizione”. In tema di sospensione della prescrizione, “l’articolo 159 del codice penale ha una funzione di cerniera, perché contiene da un lato una causa generale di sospensione, che scatta quando la sospensione del procedimento o del processo è imposta da una particolare disposizione di legge; e dall’altro lato, un elenco di casi particolari”. Nelle vicende da cui sono nate le questioni portate all’esame della Consulta, opera proprio tale causa generale di sospensione. Secondo la Corte, “la temporanea stasi ex lege del procedimento o del processo determina, in via generale, una parentesi del decorso del tempo della prescrizione, le cui conseguenze investono tutte le parti: la pubblica accusa, la persona offesa costituita parte civile e l’imputato. Così come l’azione penale e la pretesa risarcitoria hanno un temporaneo arresto, per tutelare l’equilibrio dei valori in gioco è sospeso anche il termine per l’indagato o per l’imputato”. La breve durata della sospensione dei processi e quindi del decorso della prescrizione è, inoltre, “pienamente compatibile con il canone della ragionevole durata del processo” e “sul piano della ragionevolezza e della proporzionalità, la norma è giustificata dalla tutela del bene della salute collettiva per contenere il rischio di contagio da coronavirus, in un momento di eccezionale emergenza sanitaria”, si legge infine nella sentenza. Secondo i magistrati che, invece, avevano sollevato la questione di costituzionalità, in plurime occasioni, la Consulta aveva già in precedenza affermato la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione. In particolare, citando la sentenza Cedu “Taricco”, la Corte nel 2017 aveva stabilito che “nell’ordinamento giuridico nazionale il regime legale della prescrizione è soggetto al principio di legalità in materia penale, espresso dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione”, con tutti i corollari in punto di legalità, tassatività e divieto di retroattività dei trattamenti sfavorevoli. Pertanto il regime legale della prescrizione doveva essere “analiticamente descritto, al pari del reato e della pena, da una norma che vige al tempo di commissione del fatto”. I magistrati, nel loro atto alla Consulta, avevano anche ricordato che - sempre nella giurisprudenza costituzionale - si potevano leggere esplicite affermazioni per cui “il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole non può soffrire eccezioni”. Secondo quanto affermato in precedenza dalla Corte, il principio di legalità in materia penale esprime un principio supremo dell’ordinamento, “posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali non abbiano in nessun caso portata retroattiva”. I “principi supremi” espressi dalla Costituzione italiana non possono tollerare deroghe o eccezioni e non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale poiché essi “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”. Di diverso avviso, la sentenza depositata mercoledì scorso. “Chi lascia Md distrugge la sinistra giudiziaria”. La segretaria Guglielmi replica ai fuoriusciti di Errico Novi Il Dubbio, 27 dicembre 2020 Dopo l’ultimo addio, quello del togato Csm Ciccio Zaccaro, lunga nota della pm che guida la storica corrente: “Chi va via lamenta la mancanza di confronto in Magistratura democratica, eppure lo ha sempre rifiutato”. Certo è che con la crisi delle toghe progressiste rischia di allontanarsi ancora una riflessione coraggiosa e non moralistica sul caso Palamara. Certo che se si pensa ai tormenti vissuti nella prima era del dopo Palamara, la lite all’interno della magistratura progressista è in fondo una declinazione attenuata, persino rassicurante. Dal rischio di un armageddon moralistico siamo ora alle scissioni politiche. Tutt’altra roba. L’ultimo tornante della frattura in Md, apertasi con la fuoriuscita di Eugenio Albamonte, Luca Poniz e altri big, è l’addio silenzioso di Francesco “Ciccio” Zaccaro, togato al Csm. Segue il pioniere della rottura con Magistratura democratica, ossia Giuseppe Cascini, che a Palazzo dei Marescialli è il capogruppo della “macro-famiglia” progressista, cioè Area, e che ad agosto era stato il primo a riconsegnare la tessera della corrente originaria, Md appunto, che di Area fa parte. È l’ultimo episodio, l’uscita di Zaccaro, ma viene accompagnato dal severo commento della segretaria di Magistratura democratica Mariarosaria Guglielmi. Una risposta affidata a una lunga nota che parte da un’amara riflessione: la scelta del consigliere Csm “è il disconoscimento del gruppo come comunità politica, la rottura di ogni dialogo con le persone con le quali si è condiviso un percorso e alle quali nessuna spiegazione è dovuta”. Guglielmi assicura che, insieme con il presidente Riccardo De Vito, manterrà fino alla fine del mandato l’impegno di “operare perché Md, con la sua specificità e il suo spirito critico, continui a esprimere capacità di dialogo in magistratura e nella società, e a essere una forza di aggregazione e di unità per tutti i magistrati progressisti”. Ma soprattutto sostiene che chi, come il segretario di Area Albamonte, l’ex presidente Anm Poniz e ora Zaccaro è andato via da Magistratura democratica rischia di provocare conseguenze “distruttive” per l’intero “fronte della magistratura progressista”. Sono preoccupazioni espresse con un tono grave, ma dall’altra parte della barricata si mira proprio a Guglielmi e De Vito come responsabili di un isterilimento di Md, di averla isolata e soprattutto di aver negato ogni effettivo “dibattito interno”. Su tale ultima contestazione Guglielmi replica con argomentazioni forti, di cui si dirà a breve. Ma intanto un fatto sembra chiaro: la fase due del dopo Palamara rischia, per una parte della magistratura, di diventare effettivamente autolesionistica. Quanto avvenuto con il cosiddetto mercato delle nomine e con l’epitome di quel fenomeno - ossia il tentativo compiuto da Palamara e altri di impedire che il passaggio di testimone alla Procura di Roma avvenisse nel segno della continuità con Pignatone - sembra dovere per forza costare una implicita e indiretta autopunizione, peraltro proprio in quel settore della magistratura associata meno coinvolto dalle vicende di maggio 2019. Al di là di quanto un simile esito sia inesorabile, c’è un ulteriore dato che ne deriva, e a cui forse è più difficile rimediare: si rischia cioè di rinviare ancora una volta un’analisi seria all’interno dell’Anm, sul vero significato dal caso Palamara. In parte tale elusione si è realizzata proprio attraverso l’asprezza della sanzione inflitta all’ex presidente Anm e con lo stesso iter procedimentale, in cui si è negato l’ascolto dei testi indicati dall’incolpato. In quella sede l’opportunità dell’analisi è svanita. Adesso la ricostruzione storica e il giudizio distaccato rischiano di essere soppiantati dall’infinita sequenza delle lacerazioni Proprio in quella componente del mondo togato, la sinistra di Area e di Md appunto, che è non solo più estranea al cosiddetto scandalo, ma anche più ricca dal punto di vista dell’abitudine all’approfondimento, al confronto intellettuale. Si rischia così di perdere l’occasione di un riesame della crisi deflagrata nel 2019 il meno possibile moralistico e il più possibile costruttivo e propositivo. Sarebbe invece stato utile compierlo, a costo di opporne gli esiti, anche con un’opportuna dose di sfrontatezza, a quella politica che spesso in questi mesi ha maramaldeggiato sui magistrati. Altro motivo di rammarico, per la perdita di una simile occasione, è nel valore aggiunto che potrebbe assicurare il nuovo presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, a cui vanno riconosciute autorevolezza ma anche franchezza nei toni, capacità di esprimere giudizi senza piegarli all’attesa del politicamente corretto. Intanto è chiaro che all’assemblea di Area, prevista a gennaio, si andrà a un redde rationem tesissimo. Lo lasciano intuire la vicenda Zaccaro e la risposta di Guglielmi. La quale lamenta come detto soprattutto un “vizio”, nell’addio a Md dei 25 firmatari della lettera e poi dal togato Csm: non aver sentito “il bisogno di portare le proprie ragioni nei luoghi di dibattito collettivo del gruppo”. Secondo la segretaria di Magistratura democratica “per alcuni, in realtà, si tratta a ben vedere di un “ultimo atto” del tutto coerente con un’assenza che si protrae da tempo proprio da quei luoghi di confronto politico di Md di cui si lamenta la mancanza. Luoghi che non sono le chat ma i consigli nazionali, sono le sezioni ancora attive e tutte le occasioni nelle quali l’impegno dei singoli riesce a segnare una presenza del gruppo, aperta e inclusiva”. Gli ormai ex compagni del gruppo, che resteranno in Area ma senza più il distintivo della “nobile storia” di Md, compiono, per Guglielmi, un “abbandono “unilaterale” in linea con la scelta di tenere posizioni di “dissenso non espresso” (e certo non soffocato), come accaduto anche all’ultimo congresso di Roma: nessuna presentazione di candidature “alternative” alla linea della dirigenza per l’elezione dei componenti del Consiglio Nazionale; numerose e compatte astensioni sul voto per il rinnovo di segretario e presidente in carica e per l’approvazione della mozione finale, rimasta infatti unitaria perché nessuna proposta alternativa è stata mai presentata”. Ma così, sostiene la segretaria di Md, “non si propone un’alternativa, non si indicano strade diverse nella direzione che si ritiene giusta, ma si decide l’abbandono. Si va via bruciando i ponti, senza possibilità di ripensamenti e chiudendo definitivamente le vie del dialogo. Non si prova a cambiare la “nobile storia” di Md ma si tenta di “rottamare” il gruppo che ne è l’erede. Non ci si limita ad interrompere un percorso individuale ma si mette in mora chi resta”. Può darsi sia un semplice e fisiologico esempio di dialettica politica interna. Certo sarebbe grave se l’esito delle differenze all’interno della sinistra giudiziaria prefigurasse l’implosione di uno tra gli ultimi luoghi di impegno pubblico e civile sopravvissuti alla crisi politica più ampia che, a cominciare dai partiti politici, travolge ormai il Paese e le sue classi dirigenti. “Non parla più ai magistrati, per questo lascio Md” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 dicembre 2020 La scissione delle toghe rosse. Il consigliere del Csm Zaccaro: la corrente è ormai lontana dai problemi della democratizzazione degli uffici e dalla giurisdizione. In questi anni abbiamo fatto più cose di sinistra noi di Area in Consiglio che tutti i comunicati di Magistratura democratica. Ma hanno scelto di non vederlo Giovanni “Ciccio” Zaccaro, giudice non ancora cinquantenne del Tribunale di Bari, eletto nel 2018 nel Consiglio superiore della magistratura nelle liste di Area, racconta di essersi iscritto a Magistratura democratica come reazione alla pretesa di Cesare Previti che nel 2002 voleva fossero resi pubblici i nomi di tutte le “toghe rosse”. Nei giorni scorsi ha deciso di abbandonare Md, come aveva già fatto mesi fa un altro consigliere del Csm, Giuseppe Cascini, e appena poche ore prima che altri venticinque magistrati accompagnassero la loro identica scelta con una lettera di critiche alla dirigenza di Md. Zaccaro invece è andato via in silenzio. Perché? La mia è stata una scelta non belligerante maturata nel tempo. Non ho voluto fare polemiche e non voglio recriminare, mi interessa costruire qualcosa di più ampio e fecondo, resto in Area che è il gruppo nel quale sono stato eletto al Csm. Magistratura democratica con la sua storia è ancora un patrimonio fondamentale, ma da tempo ha rinunciato a parlare dei magistrati e con i magistrati. Negli ultimi anni ha fatto crescere molto la dimensione politica generale e assai meno la pratica nella giurisdizione e nell’organizzazione degli uffici. Vanno bene le tavole rotonde, le interviste e le manifestazioni, ma se Md non riesce a far crescere, poco alla volta, l’uguaglianza sostanziale della giurisdizione e non agisce per democratizzare gli uffici o non si preoccupa di una giurisprudenza orientata alla Costituzione allora serve a poco. Queste cose, invece, Area le fa? Anche Area ha i suoi limiti e Md purtroppo ha rinunciato all’ambizione di prenderne la guida, di esserne il motore culturale. Io scelgo di impegnarmi in quella direzione in un gruppo dichiaratamente progressista. L’intuizione, anni fa, fu quella di proporre un luogo, Area, a tutti i magistrati che vedono la giurisdizione come un modo per attuare i valori della costituzione e la magistratura non come un potere ma come un servizio. Sono convinto che gli spazi per chi vuole rappresentare questo mondo siano ampi. Ma Md si è affezionata ai suoi vessilli e si è rinchiusa nei suoi luoghi, ha perso un’occasione di emancipazione per la magistratura tutta. E adesso si preoccupa di fare concorrenza ad Area. In questi stessi giorni di dicembre, nel 1969 Md subì la sua prima famosa scissione e anche allora era accusata di fare troppa politica... Io non faccio questa accusa. Per me Md può e deve occuparsi di politica generale. Ma se torniamo alla sua storia allora dobbiamo ricordare che Magistratura democratica è nata proprio negli uffici giudiziari oltre che nei tinelli dei fondatori, mischiandosi e ponendo attenzione al lavoro concreto dei magistrati, declinando il pensiero politico generale nella quotidianità della giurisdizione e dell’organizzazione giudiziaria. Oggi a Md non interessa più portare la sua elaborazione al livello della quotidianità dei magistrati e così diventa un doppione di altri soggetti politici. Si sente partecipe di una scissione da destra? Neanche per idea. Noi consiglieri di Area nel Csm, peraltro tutti provenienti da Md, abbiamo fatto cose più di sinistra di tutti i comunicati stampa di Md. Anche il dibattito sul carrierismo rimane una cosa astratta se non produce innovazione. In Consiglio, per esempio, siamo riusciti a far approvare una circolare sull’organizzazione degli uffici che riduce di molto gli incarichi. In un’altra circolare, quella sull’accesso alla Cassazione, abbiamo valorizzato l’esercizio effettivo delle funzioni giudiziarie. Sono modi concreti di affrontare i problemi. Ma di tutto questo nel dibattito interno a Md non c’è stata traccia. Non le è piaciuto che nei suoi comunicati Md criticasse il carrierismo come comportamento deteriore di tutte le correnti, nessuna esclusa? Non mi sono offeso per quello che Md ha detto, casomai mi sono dispiaciuti i suoi silenzi. Vuole un altro esempio? Nella sua storia Magistratura democratica è stata molto attenta all’organizzazione del lavoro nelle procure. Dal 2006 in quegli uffici il potere è concentrato nelle mani del procuratore capo eppure, recentemente, proprio noi rappresentanti di Area nel Csm siamo riusciti a far approvare una circolare per democratizzare l’organizzazione delle procure. Md non ha detto niente. Non è piaciuta invece a Md la scelta di tutti i consiglieri di Area di indicare Raffaele Cantone, reduce dall’incarico all’Anac al quale lo aveva voluto Renzi, alla guida della procura di Perugia... Questa storia è veramente il segno di una grave miopia politica. Si vuole ridurre tutto il nostro lavoro nel Csm in due anni e mezzo a quella nomina, che pure ho condiviso. Noi consiglieri di Area siamo stati a tal punto estranei al tavolo della spartizione degli incarichi che ci è stato rimproverato nelle famose chat di Palamara. Abbiamo lottato da soli contro il rientro in ruolo in posizioni premiali degli ex consiglieri. Abbiamo perso. E poi si è scoperto che esisteva un cartello contro di noi. Violante: “Gli avvocati possono dirci come funziona davvero la giustizia” di Carlo Fusi Il Dubbio, 27 dicembre 2020 Intervista all’ex presidente della Camera. “In vista del Recovery serve un Paese più dinamico: con legislature che durano 4 anziché 5 anni, magari, e forti pensionamenti nella Pa, per avere personale a proprio agio con le nuove tecnologie. Dati sull’efficienza dei Tribunali spesso inattendibili. Potrebbe fornirli solo un’indagine parlamentare seria, i difensori possono dire quali sono gli uffici giudiziari che funzionano meglio e quali peggio, e per quali motivi”. Qualcuno ha una palla di vetro? Così magari possiamo vedere che anno sarà il 2021; se meglio di quello che sta per finire (e ci vuole davvero poco); quali sfide porterà (c’è il Recovery, dai!); quali sbocchi avrà “la rabbia degli onesti”. Provate a chiederlo a Luciano Violante, che ai vaticini preferisce l’analisi razionale, ed ecco cosa vi risponderà. “Guardi, la mia impressione è che ogni volta che si fanno interviste sull’anno che verrà, tutti rispondono con previsioni obbligatoriamente generiche. Perciò sfuggendo la retorica sull’anno nuovo che è sempre un po’ favolistica e scontata, “l’anno che viene sarà diverso da quello trascorso…”, bisogna porsi alcuni interrogativi. Cominciamo dal punto di vista politico. Si terranno o no causa Covid le elezioni amministrative a Roma, Napoli, Torino, Milano, Palermo? Nella Capitale cosa succederà, quali alleanze verranno imbastite? È evidente che le forze politiche saranno obbligatoriamente impegnate su questo campo”. Già. Ma il punto è: oltre che di quelle amministrative sarà anche l’anno delle elezioni politiche? Non credo. Non lo crede, o non lo auspica? Non lo auspico e non lo credo. Non lo auspico perché significherebbe aprire i seggi in piena pandemia: si può fare? E poi che senso ha cambiare i ministri se siamo impegnati nelle trattative con l’Europa? E inoltre io penso ci sia un punto politico-istituzionale dirimente. Tipo? Penso che al giorno d’oggi cinque anni di legislatura siano troppi. I tempi si sono talmente velocizzati che i cinque anni di adesso sono come 15 di ieri. I mutamenti sono ultra accelerati. Faccia caso: la maggior parte delle crisi politiche recenti avvengono intorno al terzo anno di legislatura, che per la politica è come il settimo anno nei matrimoni. È successo con il Conte uno, successe con Prodi e così via. Ridurre a quattro anni, come negli Usa e in Germania, sarebbe molto meglio, renderebbe più dinamica l’azione di governo. Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Veniamo ai fondi del Recovery: il 2021 sarà determinante… Infatti. La domanda è: a che punto siamo su quel fronte? Non so che tipo di anno sarà il 2021. Certamente sarà un anno nel quale avremo risorse e dobbiamo essere capaci di spenderle. Faremo molto debito e dovremo essere capaci di ridimensionarlo. A mio avviso penso sarebbe sbagliato immaginare una sorta di azione sostitutiva dei soggetti che hanno responsabilità istituzionali in materia. Sono lieto che stia tramontando l’ipotesi della mega task force. E invece, presidente, cosa servirebbe? Beh, una forza piccola che controlli l’attuazione dei programmi di ciascun ministero, capace di intervenire per segnalare: qui state indietro, questo non lo state facendo e così via. Una forza che coadiuvi, non che sostituisca. Anche perché non potremo mai avere una Pubblica amministrazione efficiente se quando c’è una cosa importante da fare, la fa qualcun altro. Così si delegittima. E ancora: sarà l’anno della spesa, del debito buono come dice Mario Draghi? Quello che serve a costruire, non a distribuire mance? Me lo auguro. Presidente, anche recentemente la presidente Von der Lyen ha detto che l’Italia deve fare due riforme: Pubblica amministrazione e giustizia. Condivide? Sulla Pubblica amministrazione bisogna segnalare un paradosso. Anche il presidente Conte ha parlato della necessità di sburocratizzare e limitare il peso della burocrazia per un verso; per l’altro però la fase che stiamo vivendo, e quella che caratterizzerà i prossimi anni, saranno contraddistinte da un forte intervento dello Stato nell’economia e nei processi produttivi. E quindi servirà più burocrazia, non meno. È un paradosso che va risolto, rendendo la burocrazia più orientata al risultato che alle procedure. E poi bisogna garantire al pubblico funzionario certezza sui suoi poteri e sulle sue responsabilità. E la giustizia? Si sono levate voci molto critiche: una per tutte quella del presidente Flick proprio sul Dubbio. Devo dire che non condivido tutti i dati e le critiche che circolano. Perché? Perché quelli che circolano sono dati in larga parte non attendibili. Nel senso che si riferiscono a medie oppure fotografano la situazione solo delle grandi capitali. Faccio un esempio. Il World Economic Forum prende in esame i numeri delle capitali. Ora, mentre capita che Parigi funziona meglio di Lione, succede che Milano vada meglio di Roma. Prendere i dati delle capitali perciò rischia di produrre una visione distorta della realtà. Anni fa, come Italia Decide, avevamo effettuato, con Intesa San Paolo, una ricerca sulla giustizia civile in Italia. Era emerso che la produttività di molti uffici giudiziari era più elevata della media europea. Ovviamente c’erano degli uffici che avevano una produttività bassissima e facendo una media il livello complessivo si abbassava. E dunque, cosa si ricava? Stante anche il meccanismo specifico dell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese, individuerei uffici giudiziari del Nord, del Centro e del Sud, grandi e piccoli, e andrei a vedere lì, nel concreto come funzionano le cose. Basta così? No. Proverei a rispondere all’interrogativo: perché, a parità di regole, ci sono Tribunali che funzionano bene e altri che funzionano male? Di fronte a questo scenario, molti dicono: bisogna cambiare le regole. Mi chiedo: serve cambiare le regole oppure c’è qualcosa di più strutturale da modificare? Ho l’impressione che di temi così delicati si discuta un po’ per sentito dire, superficialmente, vittime del principio di autodenigrazione nel quale assai facilmente ci rifugiamo. In sostanza presidente a cosa si riferisce? Con chi ce l’ha? Con nessuno in particolare. Condanno un atteggiamento che a mio avviso è fuorviante. Più volte ho proposto, senza finora alcuna possibilità di ascolto, che le commissioni Giustizia della Camera e del Senato facciano una seria indagine conoscitiva su come funzionano davvero i Tribunali, stabiliscano cosa va e cosa non va. Se c’è un problema di norme o se c’è un problema di strutture, di dirigenti o di singoli magistrati. Per esempio: quante udienze a settimana fa una sezione di tribunale a Milano, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Palermo? Quante sentenze scrivono? E di quale peso? Gli uffici giudiziari non sono tutti uguali. E visto che siamo sul Dubbio, questa indagine si potrebbe fare anche avvalendosi dell’esperienza dell’avvocatura. Gli avvocati possono dire quali a loro avviso sono gli uffici giudiziari che funzionano meglio e quali peggio, e per quali motivi. In questi ambiti è opportuno agire con la bussola del realismo, non inalberando visioni idealistiche. Guardare bene come stanno le cose e poi intervenire. Dunque prima una attività chiamiamola istruttoria su Pubblica amministrazione e giustizia, e poi stabilire come agire con il Recovery. È così? Sì. Riprendiamo il discorso sulla Pa. In questo settore l’età media è molto alta e, diciamo la verità, è difficile riconvertire un certo personale alle nuove tecnologie. Mi domando: è possibile pensare a rotazioni oppure a pensionamenti anticipati molto forti immettendo migliaia di giovani che sono più digitali? Credo che un’operazione del genere sia indispensabile, altrimenti non ne usciamo. Il problema non è di far lavorare di più ma di far lavorare diversamente. Se tu per 25-30 anni hai lavorato in un certo modo non è che negli ultimi cinque anni di servizio puoi cambiare completamente atteggiamento. Ogni mutamento degli strumenti di lavoro richiede un mutamento culturale. Un errore dimenticarlo. Specializzazioni forensi, domani in vigore le nuove regole di Simona Musco Il Dubbio, 27 dicembre 2020 Il decreto 163 emanato dal guardasigilli Bonafede lo scorso 1° ottobre modifica il precedente regolamento del 2015. Tredici le aree individuate. Ministero della Giustizia e Cnf lavoreranno in sinergia per formare la commissione giudicatrice. Entra in vigore domani il nuovo regolamento sulle specializzazioni forensi. O, per essere fedeli alla definizione ufficiale, “per il conseguimento e il mantenimento del titolo di avvocato specialista”. “Un passaggio molto importante per l’avvocatura” e per i cittadini, i quali “avranno maggiori elementi per orientare le scelte di assistenza e di patrocinio”, ha commentato, subito dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale del decreto ministeriale, la presidente del Cnf Maria Masi. Il decreto, il numero 163 del 1° ottobre 2020, diventa efficace dopo un iter impegnativo, che ha richiesto passaggi e “visti” anche successivi alla sua emanazione, risalente appunto a quasi due mesi fa, da parte del guardasigilli Alfonso Bonafede. Gli avvocati che vorranno specializzarsi potranno acquisire il titolo sulla base della formazione specifica insieme con l’esperienza maturata nell’esercizio dell’attività professionale. Il decreto sopprime, per cominciare, quanto previsto dall’articolo 2 del precedente decreto del 12 agosto 2015, numero 144, per il quale “commette illecito disciplinare l’avvocato che spende il titolo di specialista senza averlo conseguito”. Si potrà conseguire il titolo di specialista in non più di due dei settori previsti dal nuovo decreto, che sono in totale 13: diritto civile, diritto penale, diritto amministrativo, diritto del lavoro e della previdenza sociale, diritto tributario, doganale e della fiscalità internazionale, diritto internazionale, diritto dell’Unione europea, diritto dei trasporti e della navigazione, diritto della concorrenza, diritto dell’informazione, della comunicazione digitale e della protezione dei dati personali, diritto della persona, delle relazioni familiari e dei minorenni, tutela dei diritti umani e protezione internazionale, diritto dello sport. Per quanto riguarda i primi tre settori (civile, penale e amministrativo), il titolo di specialista si acquisisce a seguito della frequenza con profitto dei percorsi formativi o dell’accertamento dell’esperienza relativamente ad almeno uno dei sotto-indirizzi di specializzazione. Cambia in parte anche la struttura del colloquio, che ora sarà finalizzato all’esposizione e alla discussione dei titoli presentati e della documentazione prodotta a dimostrazione della comprovata esperienza nei relativi settori e indirizzi di specializzazione. A valutare i “candidati” sarà una commissione composta da tre avvocati iscritti all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori e da due professori universitari di ruolo in materie giuridiche, in possesso di documentata qualificazione nel settore di specializzazione oggetto delle domande sottoposte a valutazione nella singola seduta. Il Cnf nominerà un componente avvocato, i restanti componenti saranno nominati con decreto del ministro della Giustizia. Gli avvocati e i professori universitari rimangono iscritti nell’elenco dei commissari per un periodo di quattro anni. In base all’articolo 8 del vecchio decreto, il titolo di specialista può essere conseguito anche dimostrando di avere maturato un’anzianità di iscrizione all’albo degli avvocati ininterrotta di almeno otto anni e di avere esercitato negli ultimi cinque in modo assiduo, prevalente e continuativo attività di avvocato in uno dei settori di specializzazione, dimostrando di aver trattato nel quinquennio almeno 10 incarichi professionali fiduciari per anno, rilevanti per quantità e qualità. Nel nuovo decreto viene aggiunto un nuovo criterio, ovvero la valutazione della congruenza dei titoli presentati e degli incarichi documentati con il settore e, se necessario, con l’indirizzo di specializzazione indicati dal richiedente. Per quanto riguarda il periodo transitorio, l’avvocato che ha conseguito nei cinque anni precedenti l’entrata in vigore del decreto un attestato di frequenza di un corso almeno biennale di alta formazione specialistica, organizzato dal Cnf, dai Coa o dalle associazioni specialistiche maggiormente rappresentative, può chiedere al Cnf il conferimento del titolo di avvocato specialista, previo superamento di una prova scritta e orale, davanti ad una commissione composta da docenti nominati dal Consiglio stesso. Ciò vale anche se nei cinque anni precedenti l’entrata in vigore del decreto si sia conseguito un attestato di frequenza di un corso avente i requisiti previsti e iniziato prima del 27 dicembre 2020 e alla stessa data non ancora concluso. Infine, il titolo di avvocato specialista può essere conferito dal Cnf anche in ragione del conseguimento del titolo di dottore di ricerca, se riconducibile ad uno dei settori di specializzazione individuati dal decreto. “Il titolo di specialista - ha aggiunto Masi - affianca e non sostituisce il tema della formazione permanente anche in settori nuovi e diversi in cui il Cnf crede e investe. Non si può poi trascurare come l’ulteriore specificazione di settori come quello relativo alla tutela della persona e delle relazioni familiari, così come la tutela dei diritti umani, soddisfi l’esigenza non di maggiore cura ma di adeguata attenzione al ruolo sociale che siamo chiamati a svolgere”. Lazio. Ciani (Demos): “Vaccinazioni, tra le priorità inserire il carcere” farodiroma.it, 27 dicembre 2020 “Come ogni anno, mi sono recato questa mattina al carcere di Regina Coeli (dove sono stato volontario per 15 anni) accompagnando gli amici della Comunità di Sant’Egidio, che nonostante non abbiano potuto organizzare il tradizionale pranzo, hanno comunque portato lasagne ed un regalo alle oltre 900 persone presenti nel penitenziario romano. Durante la visita nelle varie sezioni, accompagnato dalla direttrice Sergi, che ringrazio per l’accoglienza, ho potuto parlare oltre che con i detenuti, con il personale della polizia penitenziaria in servizio”. È quanto dichiara in una nota Paolo Ciani, Segretario di Democrazia Solidale e Vice Presidente della Commissione Sanità alla Regione Lazio. “La seconda ondata della Pandemia purtroppo non ha risparmiato i penitenziari, dove si sono registrati diversi casi di contagio. Per questo la Asl ed il personale sanitario del carcere ha moltiplicato le misure di prevenzione, a partire dai tamponi. Ma l’attenzione deve restare alta: ne ho parlato recentemente anche con il Provveditore Cantone, con cui in questi mesi mi sono confrontato più volte sulle misure da intraprendere per il contenimento della diffusione del virus. Il carcere è per definizione uno spazio chiuso e proprio per proteggere tutte le persone presenti (detenuti, agenti, personale civile, personale sanitario e le rispettive famiglie), ritengo debba essere inserito tra i luoghi prioritari dove effettuare i vaccini quando saranno a disposizione. Con queste finalità ho anche promosso con i colleghi Capriccioli e Bonafoni un Ordine del Giorno in Consiglio Regionale, per impegnare la Giunta ad adottare i necessari provvedimenti”, conclude Ciani. Frosinone. Morte “sospetta” dopo l’arresto, si indaga Corriere dell’Alto Adige, 27 dicembre 2020 Pacifici era in carcere per stalking. La rabbia dei genitori. È morto in circostanze che i suoi familiari considerano sospette, chiedendo che venga fatta chiarezza. Si tratta di Davide Pacifici, 43 anni, di Frosinone ma che viveva da tempo in Alto Adige e lavorava come cassiere in un supermercato a Bolzano. Secondo quanto riferito da “Il Messaggero”, l’uomo da circa 10 giorni si trovava in carcere perché la ex compagna lo aveva denunciato per stalking. Nei giorni scorsi Davide Pacifici aveva accusato delle difficoltà respiratorie ed aveva chiesto di poter essere visitato perché stava molto male. Trasportato presso l’ospedale di Frosinone, l’uomo è morto dopo poche ore. Il padre ha presentato denuncia contro ignoti presso la caserma dei carabinieri chiedendo il sequestro delle cartelle e della salma. Il padre chiede di sapere la verità circa questo decesso improvviso del figlio. Gli inquirenti hanno già sequestrato la cartella clinica dopo la denuncia presentata dai genitori, per cercare di capire il motivo della morte improvvisa del figlio. Pacifici aveva chiesto con urgenza l’intervento del medico a causa di difficoltà nel respirare, ed aveva anche una gamba gonfia con tumefazioni. La situazione poi era precipitata nel giro di poche ore e nemmeno il trasferimento all’ospedale aveva permesso ai sanitari di salvargli la vita. Domani il medico legale incaricato dalla Procura di Frosinone effettuerà l’esame autoptico sulla salma. Trento. Il Covid-19 nel carcere, tra focolai e disagio psicologico rainews.it, 27 dicembre 2020 Oltre 30 i detenuti risultati positivi da fine novembre. ma il rischio più grande è legato alla sfera psicologica e alle patologie psichiatriche. “Abbiamo dedicato ancora più attenzione ad incontrare i detenuti, nell’ascoltarli, nel provare a ridurre l’angoscia che provano e metterli a conoscenza delle informazioni che riguardano la pandemia, il virus”. Il Covid-19 entra anche nel carcere di Spini di Gardolo. Non solo con i contagi, ma con i dubbi, i timori, tanto più pericolosi in una popolazione già a forte rischio di disagio psicologico e patologie psichiatriche. Fondamentale, ricorda lo psichiatra Leone Barlocco, è allora assicurare vicinanza ai detenuti, fornendo loro tutte le informazioni, senza le quali è facile si possano generare “delle mistificazioni - spiega ancora Barlocco - dei timori esagerati, delle condotte non appropriate, che possono sfociare poi sicuramente in un disagio manifesto”. Nella casa circondariale di Trento nord è stato anche implementato il protocollo prevenzione suicidio. Tra le mura del carcere, il Covid-19 incide però anche sugli aspetti sanitari. Tante le precauzioni, dall’isolamento per i nuovi arrivi allo screening periodico. Proprio lo screening ha fatto emergere a fine novembre un caso di positività, che ha poi generato un focolaio. Oltre 30 i contagiati totali, per nessuno è stato necessario il ricovero in ospedale, tutti sono stati assistiti nel reparto Covid realizzato all’interno del carcere, dove vengono seguiti dal personale sanitario del carcere guidato dalla dottoressa Chiara Mazzetti. “C’è l’osservanza di tutte le misure - spiega mazzetti - sia per gli operatori sanitari che penitenziari e tre volte al giorno viene somministrata la terapia, vengono rilevati i parametri vitali, viene fatto un controllo clinico”. Lanciano. Coronavirus, due focolai nel carcere con 89 casi di Walter Cori ekuonews.it, 27 dicembre 2020 Due nuovi focolai di Covid-19 a Lanciano (Chieti), nel carcere e nella residenza anziani ‘Santiago’, un totale di 89 positivi. Lo annuncia il sindaco, Mario Pupillo, aggiornando la situazione in città dove sono complessivamente 185 i positivi. “Purtroppo, l’aumento sensibile è dovuto in larga parte ai contagi dei focolai sviluppatisi nell’istituto per anziani ‘Santiago’ e nella Casa Circondariale. Asl e direzione sanitaria della residenza protetta ci hanno comunicato l’esistenza di un focolaio nella struttura: su 68 ospiti 40 sono risultati positivi al tampone molecolare, uno dubbio, gli altri 27 negativi. Gli ospiti negativi - fa sapere il sindaco - sono isolati in un altro piano della struttura. Sei positivi sono stati trasferiti in ospedali Covid della regione per una migliore assistenza terapeutica. Tra gli operatori si registrano 15 positivi. Il focolaio è emerso da uno screening di controllo avviato il 21 dicembre. Sono stati richiesti l’attivazione del Centro operativo comunale (Coc) e l’intervento delle Usca. Faremo tutto il possibile - aggiunge Pupillo - per aiutare la residenza. La stessa Asl ci ha comunicato la positività al Covid-19 di detenuti della Casa Circondariale di Lanciano, circostanza confermata dalla direzione della struttura: al momento 34 i detenuti positivi, dei quali 33 asintomatici isolati dal resto della struttura e un ricoverato in ospedale. Questi numeri rendono chiaro come sia necessario, specie in questo periodo di festività in cui una piccola disattenzione in ambiente familiare può essere fatale, utilizzare in dosi massicce l’unico vaccino che al momento abbiamo a disposizione: il rispetto delle norme, in attesa che arrivi a tutti quello vero che da domani comincerà ad essere somministrato alle categorie a rischio”. Venezia. La Camera penale scrive al patriarca Moraglia: “Detenuti lasciati soli” Corriere del Veneto, 27 dicembre 2020 Da un lato la denuncia che, con il carcere sostanzialmente “chiuso” verso l’esterno e dunque senza possibilità di essere visitati dai propri parenti, a cui vanno aggiunte anche le enormi difficoltà di dialogo con i difensori, questo è stato un Natale di grande solitudine per i detenuti di Santa Maria Maggiore a Venezia. Dall’altro la richiesta di somministrare “con la massima priorità” il vaccino anti-Covid al personale della Polizia penitenziaria. Il consiglio direttivo della Camera penale veneziana, guidato dall’avvocato Renzo Fogliata, accende una luce sul carcere, dopo che nei giorni scorsi era emersa la positività al virus di 24 detenuti e di 3 agenti. I penalisti hanno scritto una lettera-appello al patriarca Francesco Moraglia (ricordando come per molti detenuti la messa di Natale fosse un momento importante e molto atteso), al governatore Luca Zaia e al sindaco Luigi Brugnaro, ai vari soggetti del sistema giudiziario, ma anche al dg dell’Usl 3 Giuseppe Dal Ben, proprio per sollecitare il vaccino. “Ci pare inutile sottolineare - è scritto - con quanta preoccupazione e quale sofferenza verranno vissute queste festività nella Casa Circondariale di Venezia”. La Camera penale ricorda anche come si fosse cercato di dar vita a un protocollo d’intesa sulle “buone prassi” per permettere adeguati incontri tra detenuti e legali, su cui però da settimane manca il via libera della direttrice. “Una situazione ormai del tutto inaccettabile, pur a fronte della costante attenzione dimostrata dalla presidente del Tribunale di Sorveglianza, la dottoressa Linda Arata - conclude la lettera - e di straordinaria gravità”. Pisa. Natale alla Casa di accoglienza per carcerati e ex detenuti di Riccardo Bigi toscanaoggi.it, 27 dicembre 2020 La celebrazione del Natale a “Misericordia Tua”, la casa d’accoglienza per carcerati ammessi alle misure alternative ed ex detenuti di Sant’Andrea a Lama. Don Morelli: “Qui si sperimenta il senso profondo del Natale”. “In un luogo come questo, in cui si accoglie un’umanità ferita, prendendosene cura e accompagnandola verso percorsi di reinserimento sociale, si può davvero sperimentale il senso profondo di questo Natale, sicuramente diverso perché ci manca qualcosa, ma forse più vero, che ci ha permesso di scoprirci più vicini anche se distanziati, più aperti anche se con il volto in maschera, più disposti a collaborare se scopriamo quanto è importante fare le cose insieme”. Per celebrare il Natale il direttore della Caritas di Pisa don Emanuele Morelli ha scelto “Misericordia Tua”, la casa d’accoglienza della diocesi a Sant’Andrea a Lama (Calci) che da due anni ospita carcerati ammessi alle misure alternative ed ex detenuti, Sette quelli accolti complessivamente dall’inaugurazione ad oggi e quattro quelli presenti in questo periodo. Nella chiesa di Sant’Andrea Apostolo, la più antica del territorio calcesano e attigua alla canonica che ospita la casa d’accoglienza, con loro, ieri mattina (25 dicembre), oltre a don Emanuele Morelli c’erano anche alcuni componenti della “squadra” di Misericordia Tua: dallo psicologo Lorenzo Lemmi, al custode Luciano Zorzi fino ad alcuni dei volontari che svolgono servizio nella struttura, oltre a un gruppo di credenti dei dintorni che hanno voluto celebrare il Natale con i “i vicini di casa” e, ovviamente, a Vittorio Cerri, per 19 anni direttore del “Don Bosco” di Pisa e ora responsabile di “Misericordia Tua”: “La nostra comunità vive in questo luogo da due anni e insieme ce la stiamo mettendo tutta per “fondare la casa sulla roccia” - ha detto. Una roccia spirituale innanzitutto, perché come diceva sempre don Bosco, citando il salmo 126: “Se il Signore non fonda la casa, invano i costruttori si adoperano...”. Per questo ringraziamo l’arcivescovo che continuamente ci mostra la sua vicinanza ed il frutto della sua preghiera, i sacerdoti dell’arcidiocesi, la Caritas e la Cappellania del Carcere. Ma anche - ha proseguito Cerri - una roccia sociale, perché il nostro sviluppo, dovendo essere lento e sicuro, è dovuto alla bella e proficua sinergia con la Magistratura di Sorveglianza, senza la cui fiducia non saremmo andati lontano, con l’Ufficio di Esecuzione penale esterna di Pisa e la relativa direzione generale di Firenze, vera colonna di questa istituzione, il Carcere di Pisa e degli “angeli” locali della legge: i Carabinieri di Calci, sotto il cui occhio competente e vigile si svolge serena la vita di questa casa. Auguri dunque agli abitanti di sant’Andrea e di tutto il territorio calcesano ed infine un coloro abbraccio ai nostri operatori e volontari - ha concluso -: il vicedirettore, il ragioniere, il brigadiere della polizia penitenziaria, il cappellano, la suora, Daniela e Maria Chiara di Controluce e soprattutto Luciano, il prezioso custode, a Paolo, Matteo e Alessio. Il Signore conceda a tutti un santo Natale”. Napoli. Il Natale drammatico della mamma di Ezio: “Ha crisi continue, in carcere può morire” di Rossella Grasso Il Riformista, 27 dicembre 2020 “Mio figlio è epilettico, gli vengono crisi continue e vive in un piccolissimo spazio stretto dove potrebbe farsi seriamente male. Gli manca anche l’aria, può morire ogni volta che ha una crisi”. È così, con questa angoscia nel cuore che mamma Carmela sta passando il Natale. Suo figlio, Ezio Prinno, è rinchiuso a Milano, nel carcere di Opera, lontano da casa, dagli affetti. È gravemente malato e da mesi Carmela Stefanoni chiede che sia semplicemente riavvicinato a casa, trasferito in un carcere napoletano. Ezio ha 44 anni, è stato arrestato nel 2010 durante una retata anticamorra a Napoli, nel dedalo di viuzze della Rua Catalana. Le sue condizioni di salute sono molto precarie. Sua madre è disperata: “Non ho soldi per andare a Milano a trovarlo e ho sue notizie confuse che mi vengono dette in maniera non ufficiale. So solo che è ricoverato e sta talmente male che al telefono non riesce a dire una parola”. Carmela racconta che suo figlio soffre di crisi epilettiche da quando aveva 14 anni e ultimamente in carcere ha le crisi anche 7 volte al giorno. I tanti dottori che lo hanno visitato lo hanno dichiarato non idoneo al regime carcerario. Non è la prima volta che Carmela chiede l’avvicinamento a Napoli di suo figlio. Ma, nonostante il parere dei medici che hanno riconosciuto in più occasioni la precarietà delle sue condizioni di salute, i giudici hanno sempre rigettato la richiesta. Quando è entrato in carcere aveva 24 anni, ma negli anni le sue condizioni sono gravemente peggiorate, tanto che è costretto a indossare sempre un casco per proteggersi durante le convulsioni delle crisi epilettiche che sono sempre più frequenti. “Una volta sono andata a trovarlo e con tutto il casco aveva tanto sangue che scorreva dalla testa - racconta Carmela - e buchi in testa. Mi avevano detto che il casco l’avrebbe protetto, invece gli toglie solo l’aria perché lo stringe sotto il mento”. Ezio ha anche un nipotino di tre anni che non ha mai conosciuto perché nessuno della famiglia ha abbastanza soldi per andare a trovarlo a Milano. Ha quattro figli di cui una minorenne che ha ereditato da lui l’epilessia e non sta bene. “Noi non siamo un clan - dice Carmela - non abbiamo i soldi per fare nulla”. Ezio in passato ha più volte fatto lo sciopero della fame per essere riavvicinato a casa e continua a rifiutare il cibo. “Non chiedo che torni a casa, ma che almeno sia portato in comunità o in un luogo adatto a curarlo - chiede Carmela - hanno aspettato che gli venisse la depressione per toglierselo davanti. Che se ne importano là dentro quando uno muore. Si è anche tagliato le vene e non l’hanno portato all’ospedale. Mi hanno raccontato che lo ha salvato il compagno di cella. Poi quando è andato l’avvocato a trovarlo, aveva preso una infezione alle ferite”. Padova. Polizia penitenziaria: “Il nostro comandante non ha alcuna colpa” Il Gazzettino, 27 dicembre 2020 Gli agenti della Polizia penitenziaria, in forza alla Casa di reclusione Due Palazzi, si sono stretti attorno al loro comandante di reparto finito sotto “processo” da parte del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria. Secondo l’accusa avrebbe trasferito un detenuto di origine magrebine alla Casa circondariale di Belluno, senza sottoporlo prima al tampone per verificare se fosse infetto da Covid-19.1 poliziotti in un comunicato congiunto fanno sapere che: “Tutto il personale di polizia penitenziaria in servizio alla Casa Reclusione di Padova, in questo momento difficile manifesta il proprio sgomento ed è a fianco al proprio Comandante di Reparto, che in questi giorni difficili per tutti è stato oggetto di una ingiusta e inappropriata contestazione di addebiti da parte del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria di Padova. La “colpa” imputata al Comandante di Reparto della C.R. di Padova, sarebbe stata quella di aver messo in partenza il detenuto privo di tampone Covid-19 come da protocolli sanitari regionali, quando in realtà un detenuto non può essere trasferito ad altro istituto se non viene rilasciata la certificazione sanitaria che attesti la sua idoneità al trasferimento e poi esiste una sorta di protocollo tra le varie sanità penitenziarie in Veneto che, previo accordi tra i dirigenti sanitari di sanità penitenziaria, un detenuto può essere trasferito ad altro istituto anche se non ha eseguito il tampone. Alla luce di quanto sopra esposto, si ritiene che la suddetta contestazione sia inappropriata”. Nell’anno della pandemia la parola “Silenzio” è quella più forte di Claudio Magris Corriere della Sera, 27 dicembre 2020 Stiamo vivendo la fine di un mondo plurisecolare. Quando l’incubo del virus sarà finito ci ritroveremo in un mondo radicalmente altro Il numero di 7, eccezionalmente in edicola giovedì 24 e poi per due settimane, prende commiato dal 2020 e guarda alla vita che verrà con un alfabeto d’autore. Ogni lettera è affidata a una grande firma del “Corriere”. Interviste, spigolature, ritratti: ritroverete quello che è accaduto a noi e nel mondo, quello che vi ha colpito e commosso. Con uno sguardo già rivolto ai protagonisti del 2021. Ecco l’editoriale di Claudio Magris che apre il numero. “A proposito di Hitler, non mi viene in mente niente”. A dire queste parole, all’avvento del nazismo, era Karl Kraus, il grande scrittore austriaco che aveva per tanti anni fustigato, con incredibile ferocia satirica e poesia insieme apocalittica e lirica, i mali, le falsità, le menzogne sociali, la perversione della stampa e dell’informazione, la guerra, la violenza materiale e morale. Quel silenzio non era un’abdicazione alla lotta contro la barbarie. Nasceva dal senso di impotenza dinanzi a una nuova forma del male e alla scoperta di vivere gli “ultimi giorni dell’umanità” come dice una sua famosa opera. Fatte le debite differenze, che rendono azzardati confronti e paragoni, anche oggi, dinanzi alla pandemia, è difficile dire qualcosa. Le uniche cose che possiamo e dobbiamo veramente e sempre dire o rispettivamente ascoltare sono le informazioni e le notizie concrete sui decessi, le misure di protezione, i permessi e i limiti di movimento, i vaccini e i piani per la loro distribuzione e così via. L’ininterrotto discutere su ciò che la pandemia significa per la nostra società, il nostro mondo, la nostra vita, l’ossessivo tam tam di opinioni copre e stordisce la verità di quel silenzio. Stiamo vivendo non gli ultimi giorni dell’umanità ma la fine di un mondo plurisecolare. Quando il Covid sarà finito, il mondo non sarà più quello di prima; ci troveremo - chi si troverà - in un mondo radicalmente altro, forse in parte ma solo in parte inimmaginabile. Quest’anno di pandemia ha cambiato il mondo più di quanto l’abbia cambiato la guerra, una guerra mondiale come lo è e forse ancora di più il virus. Ero bambino, ma ricordo la Seconda guerra mondiale, gli allarmi, le sirene, i bombardamenti, le corse di notte a cercare riparo in ridicoli rifugi, le ansie per le persone care al fronte, l’indigenza, la mancanza di tante cose necessarie. Ma anche sotto quel diluvio di sciagure si avvertiva la vita di sempre, aggredita e sfregiata, ma non adulterata nella sua sostanza. Solo alla fine della guerra si è avuta veramente coscienza generale del male assoluto, della Shoah che aveva sfigurato il mondo. Sono grato a chi si batte concretamente per aiutarci a sopravvivere e a vivere. Sono loro, quelli che si sfiancano - come ad esempio Don Mario Vatta nella comunità di San Martino al Campo a Trieste - si sfiancano ad accogliere persone senza tetto e senza pane accogliendoli per la notte e cercando di sfamarli prima di dover espellerli il mattino e affrontando in situazioni indicibili il problema del contagio e dei controlli sanitari. Sono loro, non chi comodamente discetta come me in questo momento, i combattenti e i santi di questa lotta. Spero, come tutti, di vedere la fine di questo incubo del virus, ma ho paura anche di un dopo che non riesco a immaginare ma che intuisco radicalmente altro rispetto al mondo che ho conosciuto e rispetto al quale, anche senza il genio di Karl Kraus, non mi sento di dire nulla. Covid, la decisione dei giudici: “Accogliere i migranti della pandemia” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 dicembre 2020 Le tutele dal Tribunale di Milano: bisogna valutare caso per caso. Ogni Paese viene considerato sulla base di oltre 100 indicatori internazionali. Il rischio Covid nei Paesi d’origine può essere motivo e concausa per concedere in Italia la “protezione umanitaria” a migranti che non abbiano diritto all’asilo politico o alla protezione sussidiaria da guerre o torture: con valutazioni d’ufficio, cioé persino senza istanza delle parti, è questa l’innovativa opzione adottata dal Tribunale civile di Milano in una serie di ordinanze depositate appena prima di Natale. La nuova linea agisce però senza alcun automatismo (a parità di Paese ci sono infatti sia accoglimenti sia rigetti), ma solo su base individualizzante: la protezione umanitaria per Covid viene cioè concessa dalla Sezione specializzata in immigrazione qualora la pandemia - oltre a essere misurata nel suo concreto impatto territoriale da specifici indici internazionali - appaia un rischio (in termini di scarse risorse sanitarie, insicurezza alimentare, disordini sociali, crisi economica) di ulteriore aggravamento di una pregressa vulnerabilità personale. Tale da far ritenere che, in caso di rimpatrio, chi già è vulnerabile sprofonderebbe in condizioni di vita non rispettose del nucleo minimo di diritti della persona. Nei ricorsi alla sezione del presidente Pietro Caccialanza, tutti presentati prima del decreto Salvini del 2018 ora modificato, c’è l’analfabeta che racconta di non poter tornare nel suo villaggio in Bangladesh perché, mentre lavorando dall’Italia può mandare 50 euro al mese a moglie e figli senza più casa spazzata via da un’alluvione, là verrebbe inseguito dai creditori. C’è il giovane mandingo, orfano di padre e di madre in Gambia, terrorizzato dal tornare in patria per timore dei malefici poteri dello zio “stregone”. C’è il 15enne della Guinea, naufragato in Italia (in mezzo a 30 morti) dove ha già preso la licenza media e iniziato un tirocinio lavorativo. C’è il 54enne pachistano cieco, scappato dal Punjab dopo una mortale lite sulla reale capacità di latte di una bufala comprata a caro prezzo. A tutti il Tribunale spiega che questi vissuti non danno loro diritto all’asilo. Ma in via autonoma (sulla scia di sentenze di Corte Ue e Cassazione sul “fatto nuovo”) il Tribunale si sente di dover valutare la pandemia. Non alla buona, ma sulla scorta dell’”Inform Epidemic Global Risk Index” con cui il Joint Research Centre della Commissione Europea sintetizza 100 indicatori di rischio su tre fasce: pericolo di esposizione (dalla densità demografica all’accesso all’acqua corrente), criticità intrinseche (dall’insicurezza alimentare alla variazione dei prezzi), capacità del sistema (a cominciare dalla sanità). Così il vissuto di quei migranti, che da solo non sarebbe motivo di protezione umanitaria, lo diventa una volta combinato al rischio che affronterebbero nel Bangladesh con soli 733 posti di terapia intensiva e 1.800 ventilatori; nel Pakistan dove alcune città hanno appena 10 posti Covid e un laboratorio; o in Costa d’Avorio alle prese con 2,3 medici per 10.000 abitanti a fronte del minimo di 23 raccomandato dall’Oms. E tuttavia non ci sono automatismi nemmeno in questa ottica: pure il Senegal ha un indice composito di rischio medio-alto (tra 5 e 6 in una scala da 0 a 10), eppure il Tribunale non concede la protezione umanitaria a un giovane in fuga da un mutuo acceso a suo nome dal proprietario di un negozio poi dato alle fiamme. Perché no? Un po’ perché “la risposta del Senegal alla pandemia è stata rapida in particolare grazie ad un’ottima strategia di sensibilizzazione della popolazione”; ma molto perché, nella combinazione tra analisi generale e caso concreto, i giudici non ravvisano “specifici fattori di vulnerabilità che esporrebbero il ricorrente ad un rischio individualizzato in caso di rientro, considerato che è un adulto, mediamente scolarizzato, non affetto da patologie, e in costante contatto con la famiglia”. Migranti. Lo scontro sulle navi umanitarie si sposta in Europa di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 dicembre 2020 I ricorsi contro i fermi di Sea-Watch 3 e 4 finiscono alla Corte di giustizia Ue. In ballo la sorte delle altre Ong nel Mediterraneo. La vicenda solleva un paradosso: neanche le motovedette della Guardia costiera hanno i requisiti chiesti alle Ong. Pensate di andare a Berlino ed essere arrestati in aeroporto perché la polizia tedesca non riconosce la vostra carta d’identità. È successo qualcosa di simile alle navi delle Ong sequestrate nei porti italiani. Tra loro ci sono Sea-Watch 3 e Sea-Watch 4: lo Stato di bandiera è la Germania ma la Guardia costiera le tiene in stato di fermo dal 9 luglio e dal 20 settembre. L’Ong ha impugnato i provvedimenti davanti al Tar. Mercoledì 23 dicembre il tribunale amministrativo ha passato la palla alla Corte di giustizia dell’Unione europea. La vicenda è complessa dal punto di vista giuridico e decisiva da quello politico: il suo esito condizionerà inesorabilmente l’ultima strategia messa in campo contro le navi umanitarie. Dall’insediamento del governo Pd-5Stelle le autorità italiane contestano alle Ong che le loro navi non sono classificate come Sar, cioè per attività di ricerca e soccorso. Sarebbe questo il motivo delle continue e dettagliate ispezioni, che normalmente avvengono secondo intervalli stabiliti dalle normative internazionali, e delle richieste di misure di sicurezza aggiuntive, a tutela delle persone a bordo e dell’ambiente marino. In pratica secondo la Guardia costiera la classificazione da parte tedesca delle Sea-Watch 3 e 4 come “navi cargo”, categoria in cui rientrano tutte quelle che non trasportano passeggeri, non corrispondere all’attività svolta effettivamente e “sistematicamente”. Il problema è che la certificazione Sar non è prevista né dal diritto tedesco, né da quello internazionale. Tanto che la Germania ha confermato anche dopo il blocco la corretta classificazione delle due navi. I nodi che il tribunale europeo dovrà sciogliere riguardano l’interpretazione della direttiva comunitaria 2009/16/ce sui poteri di controllo degli Stati di approdo. Semplificando, la Corte di giustizia Ue deve stabilire: se la direttiva si applica a navi classificate come cargo ma utilizzate sistematicamente per un’attività non commerciale, come quella Sar; se le continue ispezioni sono legittime; se lo Stato di approdo può pretendere una riclassificazione delle imbarcazioni da parte dello Stato di bandiera; se questa richiesta è legittima per una categoria non prevista. Sulle attività Sar svolte da navi civili, infatti, esiste un vuoto nel diritto comunitario, richiamato anche dal recente Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo. Resta da capire se in assenza della classificazione formale Sar le navi civili non devono svolgere questa attività o se possono farlo con altre certificazioni. È interessante che il Tar rimandi la decisione alla Corte europea per l’esistenza di “dubbi interpretativi”, ma poi suggerisca letture favorevoli a Sea-Watch su tutti i punti controversi. E che solleciti una procedura d’urgenza in sede europea perché la decisione influirà sulla sorte delle altre cinque navi bloccate in porto e delle due a rischio di provvedimenti analoghi. Al di là del piano giuridico la vicenda solleva due paradossi. Alle navi delle Ong sono richiesti adeguamenti strutturali in base all’equiparazione tra naufraghi e passeggeri (dal momento che l’attività Sar è svolta in maniera sistematica e non occasionale). Ma le navi della Guardia costiera, cioè il soggetto istituzionale che fa ricerca e soccorso, rispettano quelle caratteristiche? “Ovviamente no - afferma Vittorio Alessandro, ammiraglio della Guardia costiera in congedo e membro del Comitato per il soccorso in mare - Le motovedette classe 300, che a Lampedusa hanno svolto la maggior parte dei soccorsi, sono pensate e organizzate per interventi di emergenza: uscire dal porto, soccorrere e portare immediatamente a terra. I problemi e i rischi della permanenza a bordo si pongono solo quando alle navi è impedito di attraccare per molti giorni. Solo così le unità di soccorso possono essere additate come rischio aggiuntivo invece che come risoluzione dell’emergenza”. Il secondo paradosso è che la certificazione Sar richiesta alla Germania non esiste neanche in Italia. O meglio, qui è presente un organo tecnico accreditato alla classificazione e valutazione delle unità navali: si chiama Rina, registro italiano navale, e ha una storia lunga che inizia nel giugno 1861, tre mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia. Il 21 febbraio 2020 ha classificato la nave italiana Mare Jonio, di Mediterranea, come nave di soccorso. Ma la Guardia costiera non ha riconosciuto la certificazione e ha diffidato il rimorchiatore dal realizzare attività di salvataggio “in modo stabile e preordinato”. Ad agosto di quest’anno l’ente ha rilasciato lo stesso certificato alla Ocean Viking, battente bandiera norvegese. La nave della Ong Sos Mediterranée è rimasta comunque sotto sequestro fino al 21 dicembre, liberata solo dopo cinque mesi e numerosi interventi di adeguamento ordinati dalla Guardia costiera. Tra questi, si legge nel comunicato, l’installazione di zattere di salvataggio più grandi, giubbotti salvagente aggiuntivi, tute di immersione ed equipaggiamenti di sicurezza supplementari da utilizzare nel caso in cui la Ocean Viking debba essere evacuata mentre ci sono dei sopravvissuti a bordo (uno dei motivi dei fermi è che le navi delle Ong non avrebbero potuto garantire l’evacuazione dei naufraghi se la loro stessa nave fosse naufragata). Contattato dal manifesto, il Rina ha spiegato che la sua notazione di “Rescue” è “attribuita a navi che, in caso di necessità, hanno le sistemazioni e le dotazioni per soccorrere e accogliere a bordo dei naufraghi in sicurezza. Affinché una nave possa operare in maniera sistematica come unità di soccorso è necessario che risponda anche alle norme statutarie applicabili che vengono definite dall’amministrazione di bandiera”. Punto e daccapo quindi. Cannabis. Storia di Walter, obbligato a soffrire di Roberto Saviano L’Espresso, 27 dicembre 2020 In Italia esiste una legge che autorizza la cannabis per uso terapeutico. Ma viene disattesa. E i malati che la producono vengono denunciati. In Commissione giustizia il Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho ha affermato che, in Italia, la legge sulle droghe è vetusta e va cambiata. La legalizzazione delle droghe leggere toglierebbe terreno e capitali alle mafie, e certamente porterebbe a un apparente aumento dei consumatori per il solo fatto che emergerebbero dall’ombra e dall’illegalità. La parte maggiore di chi oggi fa uso di droghe, se potesse acquistarle legalmente lo farebbe, inizierebbe a essere tracciato, quindi diventerebbe un numero, un numero, appunto, e non un nuovo consumatore. E diventerebbe un consumatore che decide per un consumo responsabile. Sì perché ora il consumo può essere solo irresponsabile (il mercato è nelle mani delle organizzazioni criminali che vendono sostanze tagliate con ogni genere di porcheria perché aumentino i profitti) e ha numeri da capogiro che possiamo solo stimare per difetto dal momento che fotografano il consumo riferito agli arresti e ai sequestri. Questa notizia mi ha colpito insieme a un’altra notizia, raccontata da Roberto Spagnoli nel suo Notiziario antiproibizionista in onda ogni settimana su Radio Radicale; un appuntamento imprescindibile per chiunque voglia prendere parte a un dibattito sulle droghe che non sia ideologico e che parta e resti sempre sull’analisi dei dati. Spagnoli racconta la vicenda di Walter De Benedetto, 49enne aretino malato di artrite reumatoide da quando aveva 15 anni. Quella da cui è affetto Walter è una malattia gravemente invalidante, che colpisce le articolazioni e che comporta una progressiva perdita della capacità di movimento. L’artrite reumatoide è una malattia autoimmune che non ha cure risolutive, si può solo alleviare il dolore, e la cannabis terapeutica è efficace. In Italia, dal 2006 esiste una legge che rende legale l’utilizzo di farmaci cannabinoidi, e dal 2007 siamo (saremmo) indipendenti nella produzione di cannabis a uso terapeutico che fa capo al ministero della Salute. Eppure, i farmaci a base di cannabis sono pressoché indisponibili per le decine di migliaia di ammalati a cui allevierebbe dolori spesso insopportabili. Le Regioni applicano la legge che ne regola il consumo in maniera disomogenea o non la applicano affatto. Mi è capitato spesso di trattare questo argomento, e la sensazione che ho avuto negli anni è che alle persone non fregasse nulla delle sofferenze fisiche altrui, che fino a quando non sono io in pericolo di vita o fino a quando la sofferenza non è quella di una persona a cui sono legato, mi prendo il lusso di fregarmene. Oggi il numero altissimo di morti per Covid nel nostro paese, lo stato di abbandono che denunciano le persone che si sono ammalate e che sono state trascurate dal Sistema Sanitario Nazionale, dovrebbero forse averci aperto gli occhi sul dramma di chi soffre dolori atroci e vede negato il proprio diritto alle cure, un diritto inalienabile. Ma i farmaci cannabinoidi prescritti a Walter dall’Asl non sono sufficienti, e lui decide di produrne in proprio per non rifornirsi da spacciatori legati alle organizzazioni criminali. Ma la legge è legge, e in certi casi è più solerte che in altri. Così arriva una telefonata anonima e i carabinieri che, a casa di Walter, che non è autosufficiente, trovano Marco, un amico che lo aiuta a innaffiare le piante. Walter immediatamente dichiara che la cannabis è sua e che è per uso terapeutico, ma Marco viene arrestato e denunciato per spaccio. Non tarda ad arrivare anche una denuncia per Walter. Possibile che un malato di artrite reumatoide, oltre a soffrire per la sua condizione, debba essere privato delle cure e denunciato se prova a sopperire all’inefficienza del sistema? Sì, è possibile, e di fatto è quel che accade. E la responsabilità è di un approccio alla legalizzazione delle droghe, in Italia, che è solo moralista e proibizionista, che criminalizza e punisce fisicamente con la condanna al dolore, anche chi assume farmaci cannabinoidi per alleviare il dolore, come stabilito da una legge, una legge disattesa. I misteri del caso Pearl, il Pakistan libera il carnefice del reporter di Raimondo Bultrini La Repubblica, 27 dicembre 2020 Ahmed Omar Saeed Sheikh, uno dei quattro estremisti accusati di aver ucciso il reporter Daniel Pearl, sta per essere rilasciato in Pakistan dove era detenuto. A 18 anni dalla sua morte, la vicenda di Daniel Pearl - reporter americano del Wall Street Journal ucciso nel 2002 a Karachi - resta avvolta nel mistero: gli unici quattro uomini finora condannati per la sua agghiacciante decapitazione - ripresa in un video poi inviato alle autorità americane - stanno per uscire dalla prigione pachistana dove sono detenuti. Fra loro un noto estremista islamico di cittadinanza inglese, Ahmed Omar Saeed Sheikh. Pearl fu sequestrato e poi ucciso a Karachi mentre indagava su Richard Reid - l’uomo che voleva far saltare in aria un volo fra Miami e Parigi con esplosivo nascosto nelle scarpe - e sui legami tra Al Qaeda e i servizi segreti pachistani. Nel video gli esecutori lo obbligano a dichiarare la sua religione ebraica prima di decapitarlo. I quattro furono condannati ma ad aprile scorso il verdetto venne capovolto in assoluzione. Sheikh ebbe una nuova sentenza: 7 anni per favoreggiamento del sequestro, un ruolo secondario rispetto a quello che gli era stato attribuito in un primo momento: il governo pachistano aveva ordinato che Sheikh e gli altri restassero in carcere in attesa del ricorso della famiglia Pearl, ma giovedì due giudici dell’Alta corte del Sindh ne hanno ordinato la scarcerazione. La notizia ha suscitato l’indignazione di Washington e della famiglia. Da tempo il padre di Pearl temeva un rilascio di Sheikh che - disse - avrebbe “motivato i militanti in tutto il mondo a sentirsi liberi di giocare impunemente con le vite umane”. Il procuratore generale del Sindh ha annunciato che tenterà fino all’ultimo di impedire l’uscita dal carcere di Sheikh, che potrebbe però essere già avvenuta. Tre anni prima dell’omicidio del giornalista, Sheikh era stato rilasciato dall’India dov’era detenuto dal 2014 per il rapimento di alcuni turisti occidentali, con il capo del gruppo islamico Jaish-e-Mohammad, Masood Azhar e un altro militante. Fu il prezzo dello scambio per i 150 passeggeri di un volo Indian Airlines appositamente dirottato da un gruppo di terroristi. Il nome del militante cresciuto ed educato in Inghilterra tornò alla ribalta con il caso Pearl. Ma la morte del giornalista per mano di estremisti islamici - la prima ad avvenire con una decapitazione ripresa dalle telecamere e immagini poi diffuse su Internet - è sempre stata avvolta dal mistero sia riguardo i sospetti legami tra gruppi estremisti e il servizio d’intelligence pachistano, sia riguardo i reali esecutori: nel 2003, dopo il suo arresto in Pakistan, fu una delle presunte menti dell’11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed, ad autoaccusarsi del delitto, ma la confessione non fu ammessa perché avvenne durante un interrogatorio a Guantanamo, dove è detenuto. A nulla servirono le indagini dei federali sul video, da cui dedussero che le vene della mano di Mohammed corrispondevamo a quelle del killer. Ahmed Omar Saeed Sheikh è rimasto così il principale accusato. Arabia Saudita. Attivista per i diritti delle donne rischia 20 anni di carcere di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 dicembre 2020 Secondo i troll della propaganda dell’Arabia Saudita che da questa mattina stanno infestando l’hashtag #FreeLoujain, è una “spia del Qatar”, una “traditrice” che deve pagare duramente il danno fatto al suo paese. Per le organizzazioni per i diritti umani, per le sue compagne di lotta anch’esse in carcere e per sua sorella Lina che guida la campagna per la sua scarcerazione, Louajain al-Hathloul è una coraggiosa attivista per i diritti delle donne, che rischia di pagare un prezzo altissimo per aver invocato e ottenuto riforme per la parità di genere come la fine del divieto di guida e l’abolizione del sistema del guardiano maschile. Arrestata nel maggio 2018, Loujain ha trascorso mesi in isolamento, ha subito violenza sessuale, ha intrapreso un lungo sciopero della fame per protestare contro il divieto di avere comunicazioni telefoniche regolari con la sua famiglia. Annunciata il 24 dicembre e poi rinviata, lunedì 28 potrebbe tenersi l’ultima udienza del processo nei suoi confronti. La pubblica accusa ha chiesto 20 anni di carcere per “contatti con entità nemiche” e “diffusione di notizie riservate”, esibendo come “prove” alcuni tweet in favore della campagna #Women2Drive e gli scambi avuti con Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel paese. Guerra nel Tigray e non solo, rischio deriva per l’Etiopia di Fabrizio Floris Il Manifesto, 27 dicembre 2020 Crisi federale. 222 morti nella regione di Benishangul-Gumuz dopo la visita del premier Abiy Ahmed. Divisione di terre, potere e risorse alla base delle crescenti violenze in diverse zone del Paese. Da quando è diventato primo ministro Abiy Ahmed ha portato avanti la sua politica del medemer (sinergia) che in sintesi consiste nel promuovere una distribuzione non etnica dei poteri e dei ruoli. E questo ha paradossalmente generato una serie di conflitti di tipo (apparentemente) etnico. Forse perché il cambiamento è stato troppo repentino, ma sono emerse fortissime tensioni in diversi parti dell’Etiopia perché l’etnia è un modo per gestire poteri economici e politici che non possono passare di mano senza che chi viene estromesso non reagisca. A parte il caso più clamoroso del Tigray dove l’allontanamento della classe dirigente del partitolo al potere nella regione (Tplf) è avvenuto al prezzo di una guerra che è stata pagata con la vita da migliaia di persone (non si sa quante perché i canali di comunicazione sono stati chiusi) anche se il premier l’ha definita law enforcement (ripristino della legalità). Vi sono stati continui episodi di violenza: solo per stare ai più recenti il 23 dicembre, successivamente alla visita del premier nella regione di Benishangul-Gumuz (Etiopia occidentale), nel villaggio di Bekoji sono state uccise 222 persone secondo quanto dichiarato alla Reuters da un volontario della Croce Rossa. L’esercito ha ucciso più di 42 assalitori e oltre 40mila persone sono fuggite dalle loro case. L’esercito ha anche arrestato cinque attuali (ed ex) funzionari del governo regionale. La regione ospita diversi gruppi etnici tra i quali vi sono cresciute fortissime tensioni negli ultimi anni sulla distribuzione della terra, in particolare tra gli agricoltori della vicina regione Amhara e i Gumuz. Violenze che si ripetono costantemente in diversi stati della federazione etiope verso le minoranze etniche, spingendo il Paese verso derive balcaniche. Sempre per questioni legate alla terra sono stati uccisi il 15 dicembre in territorio sudanese 4 uomini, tra cui un ufficiale dell’esercito e 27 militari sono rimasti feriti. L’esercito sudanese ha accusato l’esercito etiope e le milizie (Amhara) di aver attaccato un’unità di fanteria all’interno del territorio sudanese. Il problema è che la linea demarcazione è incerta e risale al 1902 quando fu concluso un accordo per tracciare il confine tra la Gran Bretagna, allora potenza coloniale in Sudan, e l’Etiopia. La zona oggetto di contesa è la pianura di al-Fashqa dove contadini Amhara e sudanesi si contendono la coltivazione dei fertili terreni. I premier dei due Paesi Abdalla Hamdok e Abiy Ahmed si sono incontrati a margine del vertice Igad a Gibuti concordando una riunione a Karthoum per definire i problemi del confine. A complessificare le questioni ci sono le istituzioni internazionali che cercano di agire in modo diplomatico, ma i cui effetti potrebbero non essere lineari. L’Unione europea ha deciso di sospendere il versamento di 88,5 milioni di euro di aiuti (60 milioni destinati allo sviluppo delle linee logistiche e di connessione tra l’Etiopia e i Paesi vicini, 17,5 milioni destinati al settore della sanità e 11 milioni per la creazione di posti di lavoro) all’Etiopia previsti per fine anno: a causa “delle circostanze attuali l’Ue non può fornire il sostegno finanziario previsto”. La sospensione non riguarda “i programmi umanitari dell’Ue sul campo o altre misure di sviluppo che continueranno normalmente”, ha precisato la portavoce Pisonero-Hernandez. L’Alto rappresentante degli Esteri dell’Unione europea, Josep Borrell, ha dichiarato che “l’Ue sta seguendo da vicino la crisi in Etiopia ed è preoccupata per la situazione umanitaria, per le violazioni dei diritti umani e di targeting etnico. Le continue segnalazioni sul coinvolgimento continuo di attori non etiopi sollevano ulteriori preoccupazioni”. Dal lato tigrino prosegue il dibatto sull’intervento dell’Eritrea negato dalle autorità, ma ricorrente nei racconti dei rifugiati fuggiti in Sudan e da fonti diplomatiche (Stati uniti in primis), c’è poi la terza via di chi considera possibile che l’Eritrea abbia approfittato della situazione per regolare i conti con membri dell’opposizione residenti nei campi profughi del Tigray. Un rifugiato del campo di Adi Harush, a sud di Hitsats, ha dichiarato al Guardian che “soldati eritrei accompagnati da truppe etiopi hanno pattugliato il campo a caccia di individui, il loro obiettivo principale penso fossero i membri dell’opposizione”. La diplomazia e le istituzioni internazionali sembrano muoversi in ordine sparso, ognuno sembra pensare ai “suoi interessi”, ma è forse tempo di considerare il corno d’Africa nella sua totalità. La nuova via della seta, ha dichiarato Romano Prodi, dovrebbe passare anche da qui. Il 5 giugno 2021 sono previste le prossime elezioni e le rivalità su terra, potere e risorse potrebbero portare ad ulteriori violenze, per questo è quanto mai urgente una via di scambio, collaborazione e progresso. Se non di seta, anche di raion andrebbe bene.