Lettera aperta ai lettori di Ristretti, e a quelli che speriamo lo diventino Ristretti Orizzonti, 26 dicembre 2020 Cari lettori di Ristretti Orizzonti, a fine anno vogliamo chiedervi come state e raccontarvi come stiamo. Di recente un mio amico russo a cui ho insegnato l’italiano, alla domanda “come stai” mi ha risposto “sto insomma…”, forse non è un italiano perfetto, ma io introdurrei questa espressione nella nostra lingua, perché non trovo modo migliore per dire come stiamo, l’incertezza, l’ansia, l’incapacità di definire il nostro stato. Noi di Ristretti “stiamo insomma”: il volontariato a Padova è rientrato in carcere a luglio, così come in altre carceri, ma ci sono carceri in cui da marzo non è più rientrato, ora per lo più ne è uscito nuovamente a dicembre, perché la situazione sanitaria è peggiorata. Si preparano tempi particolarmente duri, ma noi vogliamo esserci in particolare con il nostro giornale, la News letter quotidiana, il progetto con le scuole, con tutto quello che riusciamo a fare sulla questione dell’informazione e della sensibilizzazione della società, anche perché questi tempi hanno portato in primo piano il degrado e la pochezza della “cultura” dominante sulle pene e sul carcere. Con queste condizioni abbiamo faticato tantissimo a rispettare l’impegno dei sette numeri all’anno di Ristretti, ma anche in questo anno crudele ce la stiamo facendo: è quasi pronto per la tipografia il numero 6, e il numero 7 sta per essere impaginato. In aggiunta a questo piccolo miracolo, abbiamo organizzato delle videoconferenze che hanno coinvolto detenuti, persone che hanno finito di scontare la pena, figlie di detenuti, vittime che si sono rese disponibili al dialogo: un piccolo miracolo che documenta che una cultura diversa su questi temi è possibile, ed è possibile riuscire a “farsi ascoltare” dalla società, anche quella più rabbiosa e incattivita. Per questo vi chiediamo di abbonarvi, o di rinnovare l’abbonamento, e magari di regalare qualche abbonamento ai vostri amici: per noi questo vostro aiuto costituirebbe una grande boccata di ossigeno. Con l’augurio che tutti riusciamo a trovare, con il Natale e il nuovo anno, la forza di non mollare e la voglia di scoprire strade nuove. Per abbonarsi: http://www.ristretti.it/abbonamenti.htm Per la redazione di Ristretti Orizzonti Ornella Favero, direttrice Quando i genitori sono rinchiusi in carcere, un problema che riguarda circa 100mila minori di Liana Milella La Repubblica, 26 dicembre 2020 Il progetto “Telefono Giallo”. È un distacco ancor più difficile, perché non può essere compensato da videochiamate, messaggi WhatsApp o lettere, quando l’incontro e di contatto si desidera e se ne avverto il bisogno profondo. Sta accadendo a circa 100 mila bambini in Italia. La pandemia di Covid-19 è stata e continua ad essere - anche in queste ore - più dura e ingiusta per i bambini che hanno la mamma o il papà in carcere, perché li ha privati delle già limitate possibilità di incontro con il proprio genitore. “Ciascuno di noi - si legge in una nota diffusa dall’Associazione Bambini Senza Sbarre” - ha provato sulla propria pelle cosa vuole dire essere privati della possibilità di incontrare le persone più care e quanto l’attesa di quell’incontro sia faticosa e allo stesso tempo desiderata”. Per i bambini con la mamma o il papà in carcere questo distacco è ancora più difficile, perché non può essere compensato da videochiamate quotidiane, messaggi WhatsApp o lettere, quando lo si desidera e se ne sente il bisogno. Il Telefono giallo. In questa situazione, la distanza che si crea rischia di interrompere il legame affettivo tra genitore e figlio e le conseguenze di questa rottura, purtroppo, possono lasciare un segno profondo nella vita di questi bambini. Ma insieme possiamo fare molto per i bambini che hanno la mamma o il papà in carcere, ecco perché ti sto scrivendo. Da sempre, Telefono Giallo di Bambini Senza Sbarre è il servizio telefonico di supporto dedicato ai familiari di coloro che si trovano in carcere, ma ora lo è anche per i loro bambini. Chiamando il Telefono Giallo, infatti, i più piccoli possono raccontare paure, dubbi, emozioni e bisogni, ricevere consigli, confrontare la loro esperienza con quella degli altri figli di detenuti. Uno strumento prezioso a disposizione dei bambini e dell’intera famiglia in questo momento di disorientamento causato dalla sospensione dei colloqui in presenza dentro le carceri. “Una donazione può fare davvero tanto - c’è scritto nel documento dell’Associazione - costruiamo insieme distanze che uniscono”. Il progetto Telefono Giallo è la concreta possibilità per i familiari di non sentirsi soli e di ragionare assieme a specialisti sulle risposte da dare alle difficili domande che ogni giorno i figli pongono e per i bambini, spesso già emarginati e vittime di pregiudizi a causa della loro situazione, di costruire una comunità virtuale con scambio di bisogni e consigli. Frosinone. Si sente male in carcere e muore in ospedale: la famiglia presenta una denuncia di Marina Mingarelli Il Messaggero, 26 dicembre 2020 Muore in ospedale in circostanze sospette, la famiglia vuole che venga fatta chiarezza. Era finito in carcere dopo una denuncia per stalking da parte dell’ex compagna, ma in carcere si è sentito male ed è morto poche ore dopo essere stato ricoverato in ospedale. La vittima è un commesso bolzanino di 43 anni, Davide Pacifici, che ha perso la vita nella sua terra d’origine, a Frosinone. Davide lavorava da anni in un supermercato del capoluogo altoatesino. Una vita apparentemente come tante, una compagna, due figli. Poi qualcosa in quella relazione sentimentale si è rotto, e le strade si erano divise. L’ex compagna aveva denunciato Davide Pacifici per stalking e quel provvedimento era culminato in un arresto. Da una decina di giorni l’uomo era entrato nel carcere di Frosinone, e l’altra mattina ha chiesto con urgenza l’intervento del medico: aveva difficoltà respiratorie e una gamba gonfia con alcune tumefazioni. La situazione è precipitata nel giro di poche ore, e nemmeno il trasferimento all’ospedale di Frosinone ha permesso ai sanitari di salvare la vita di Pacifici. Ora il padre del 43enne ha deciso di presentare una denuncia con la richiesta di sequestro delle cartelle cliniche e della salma, per cercare di capire perché suo figlio sia morto all’improvviso. Salerno: I Radicali: “Buoni spesa per le famiglie dei detenuti” ottopagine.it, 26 dicembre 2020 “Riaprire i termini del bando e far accedere alla domanda a coloro che hanno maturato i requisiti”. Una lettera aperta al Sindaco di Salerno Vincenzo Napoli a firma di Donato Salzano, dell’associazione radicale “Maurizio Provenza” per chiedere alla fascia tricolore di “far visita alla Casa Circondariale di Salerno nei giorni che ci separano dalla fine dell’anno” e riaprire i termini del bando dei buoni spesa far accedere alla domanda le famiglie dei detenuti che hanno maturato i requisiti previsti dal decreto ristori. “Caro Sindaco, caro Enzo. La filosofa ebrea Hannah Arendt sopravvissuta alla Shoah, sosteneva che la frase più rivoluzionaria che aveva mai sentito nella sua vita era quella che ripetevano i cristiani la notte di Natale: “è nato un bambino, è nato per noi”. Credo che l’autrice della “banalità del male” riusciva con capacità eccezionale di sintesi ad esprimere la consapevolezza che dovrebbe essere in ognuno di noi, ma che purtroppo troppo spesso e volentieri viene smarrita. Un bambino che nasce in una mangiatoia al freddo e al gelo, povero, ultimo tra gli ultimi, scartato, appunto da chi è “perbene”, poteva nascere nei palazzi opulenti, nasce invece quale scartato, perché chiunque possa essere consapevole che si è vicini a Dio soltanto quando s’incontra il povero, il reietto, il diseredato, il discriminato, il migrante, il detenuto. Come dire a suo modo evangelica, o chi come l’enciclopedista Voltaire invita a vistare non i palazzi, ma le carceri per misurare il grado di civiltà di un Paese, tale da abbracciare tutta quell’umanità dolente, beata perché perseguitata a causa della giustizia, ancor di più beata perché ha fame e sete di verità, di diritto. Ci preoccupa tantissimo il Covid che si sta diffondendo nelle “Comunità Penitenziarie” e nella nostra di Fuorni, tanto che Rita Bernardini insieme ai detenuti e al Partito Radicale sta conducendo da oltre un mese uno sciopero della fame di dialogo e proposta, che l’ha portata ad avere un proficuo incontro con il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che su sua indicazione prontamente ha fatto visita a Regina Coeli, siamo certi per dipiù che in questo momento terribile i detenuti a Fuorni e le loro famiglie residenti non siano neanche stati ristorati con i buoni spesa di cui pur avrebbero tanto bisogno. Come Ernesto Rossi vogliamo e ci mettiamo al capo della ricostruzione, ti chiediamo per questo con l’amore e la forza della nonviolenza, gandhianmente cara a Marco Pannella, non tanto quale primo cittadino, ma più propriamente nel ruolo di massima autorità sanitaria in città, di far visita alla Casa Circondariale di Salerno nei giorni che ci separano dalla fine dell’anno, e poi mettere una parola definitiva al prossimo Consiglio Comunale sul caso, così da permettere agli uffici delle politiche sociali di riaprire celermente i termini del bando e far accedere alla domanda a coloro che hanno maturato i requisiti previsti dal decreto ristori ter e dalla delibera della giunta municipale. Sai Rosario Livatino amava spesso ripetere che: “non basta essere credenti, ma bisogna essere credibili”. Ti abbraccio, una Felice natività a te e a tutti quelli che ami. Roma. Emergenza Covid nelle carceri, oggi visita a Rebibbia di Bernardini e Giachetti di Rachele Samo it.sputniknews.com, 26 dicembre 2020 Bernardini è stata ricevuta nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio che precedentemente è stato in visita nel carcere romano di Regina Coeli. I radicali denunciano da settimane come il sovraffollamento delle carceri renda “esplosiva” la situazione a fronte della pandemia di Covid-19. In un appello al governo i radicali italiani hanno chiesto “misure immediate” per far fronte a una situazione “che sta diventando in queste ore letteralmente esplosiva”, sottolineando che “se è difficile per chiunque vivere in questo periodo con i provvedimenti di contenimento del virus, lo è a maggior ragione per chi vede ristrette le sue libertà, chi è detenuto”. “La decretazione d’urgenza, spesso utilizzata a sproposito, qui potrebbe consentire il temporaneo ampliamento delle misure alternative al carcere e, a livello delle singole strutture, si dovrebbero estendere di molto le possibilità di contatti telefonici con famigliari e amici che oggi non possono andare a trovare chi è in carcere”, si legge nell’appello. Oggi, rispettando la tradizionale visita nelle carceri del partito radicale in occasione delle festività, Bernardini si è recata in visita nel carcere di Rebibbia insieme a Giachetti. ?Tre giorni fa Bernardini è stata ricevuta dal premier, a cui ha illustrato la necessità di ridurre la popolazione carceraria, per permettere la gestione dell’eventuale contagio con numeri limitati. Pisa. Il presidente del Consiglio regionale e il Garante Fanfani in visita al carcere Don Bosco gonews.it, 26 dicembre 2020 Il presidente del Consiglio regionale, Antonio Mazzeo, e il Garante toscano dei detenuti, Giuseppe Fanfani, saranno in visita alla casa circondariale Don Bosco di Pisa lunedì prossimo, 28 dicembre, alle 12.30. Al termine della visita, alle 13.30, il presidente e il garante incontreranno i media davanti all’ingresso dell’istituto. Nella Casa circondariale ad oggi presenti 252 detenuti, tutti in attesa di giudizio, condannati a pene inferiori ai cinque anni o con un residuo di pena inferiore. L’Istituto, progettato tra il 1928 ed il 1933 e costruito tra il 1934 ed il 1935, fu preso in consegna nel 1941 ed iniziò la sua attività nel 1944. La struttura era inizialmente composta da 8 palazzine collegate da corridoi, nel 1955 ne venne aggiunta un’altra per officina e lavanderia. Le sezioni detentive si trovano prevalentemente nei tre piani del blocco centrale, mentre gli spazi per le attività e i principali spazi comuni sono collocati a piano terreno. Gran parte delle celle misura dai 6 agli 8 metri quadrati. Presso il reparto di reclusione sono collocati generalmente due detenuti per cella e tre presso il reparto giudiziario. L’Istituto è dotato di una cucina centrale, una per il Centro clinico, una per la sezione Prometeo ed una per il polo universitario. Queste ultime due sezioni si caratterizzano per un’organizzazione interna differenziata e finalizzata. La sezione Prometeo accoglie detenuti sieropositivi e detenuti sani che si rendono disponibili sia a condividere quella sezione sia ad assistere i compagni ammalati. Il polo universitario è situato presso una sezione opportunamente ristrutturata ricavata presso il reparto penale; ospita contemporaneamente detenuti studenti universitari e studenti della scuola media superiore. Presso l’Istituto è presente, inoltre, il Centro Diagnostico Terapeutico o Centro clinico in grado di accogliere detenuti di media e di alta sicurezza per un totale di circa 65 persone. Fonte: Consiglio regionale della Toscana - Ufficio stampa Venezia. “Siamo qui”. I volontari della Giudecca scrivono alle detenute di Davide Dionisi vaticannews.va, 26 dicembre 2020 Natale al tempo del Covid nel carcere veneziano. Il racconto dei ragazzi guidati da Suor Franca Busnelli. Un Natale diverso, insolito, certamente meno gioioso quello dei giovani volontari del Carcere della Giudecca. Lontano dalle attività e privati della presenza delle loro “amiche” (le ospiti dell’istituto di pena veneziano), hanno comunque deciso di non far mancare la vicinanza e il supporto che caratterizza il loro prezioso servizio al fianco delle Suore della Carità. In comunione con le detenute - Durante il periodo di Avvento hanno inviato attraverso email le sagome delle loro mani decorate che, unite a quelle delle donne detenute, sono state assemblate in una grande scritta: “Siamo qui…”. L’idea è venuta a Suor Franca Busnelli, religiosa delle Suore di Maria Bambina, che presta servizio da sei anni nel carcere della laguna. Il giorno di Natale, inoltre, ciascuna ospite riceverà una lettera scritta da un volontario e una stella che verrà appesa in cella alle ore 20, in comunione con tutti coloro che decideranno di aderire all’iniziativa promossa attraverso le piattaforme social. “Ogni stella riporta la frase: “sotto la stessa luce!”, che completa il “Siamo qui”. Un segno di speranza, di coraggio verso il futuro, per sentirsi fratelli, per abbattere ogni distanza e barriera, riconoscendo la comunanza di desideri, sogni e speranze” spiega la religiosa. I giovani sono al lavoro per realizzare inoltre un incontro virtuale anche in occasione dell’Epifania: un video, con la lettura di un brano o di una poesia, porterà il loro pensiero ad ogni donna in attesa di poterle riabbracciare. “Dal 24 dicembre al 6 gennaio le giornate hanno un sapore speciale di festa, di pranzi, di famiglia, di calore e vicinanza nelle relazioni. Fino all’anno scorso per noi, come per tanti altri giovani, questo periodo era vissuto anche con il grande desiderio di raggiungere prima possibile la stazione dei treni. Destinazione: Venezia, carcere femminile della Giudecca”, raccontano i volontari. Per loro, infatti, passare i giorni di Capodanno o dell’Epifania dentro quelle mura racchiude sempre un vortice di emozioni. “Dati i legami che si creano con le iniziative estive, ogni volta c’è grande attesa di ritrovarsi dopo tanto tempo per scambiarsi un abbraccio, per vivere insieme i dialoghi e le attività durante le feste” spiegano. Anche in carcere, l’abito migliore della festa - “La mente ripercorre i ricordi di 12 mesi fa”, continuano: “Come in tutte le nostre case, i preparativi per l’ultima notte dell’anno entrano nel vivo subito dopo il Natale: chi pensa ai giochi, chi alle musiche per cantare insieme o per fare balli di gruppo, altre invece si occupano delle decorazioni per il salone dell’istituto… Nulla viene lasciato al caso e ciascuno cerca di sfoggiare il proprio ‘abito migliore’. I sorrisi, le chitarre, l’accoglienza e l’entusiasmo si mischiano con i racconti, le lacrime, il pensiero fisso e doloroso dei cari lontani”. I doni per i bambini - Per l’Epifania invece preparano le calze, con qualche caramella e dolcetto, accompagnate da biglietti scritti a mano con un augurio speciale per ogni donna: un compito delicato e profondo, per restituire speranza, per riprendere al meglio il cammino della vita. “Non possiamo dimenticare anche la scelta dei peluche, da accompagnare alla calza, per i bimbi dell’Icam (Istituto a custodia attenuata per madri ndr): è fenomenale vedere i loro occhi riempirsi di felicità e gioia pura, per una cosa così piccola rispetto alle montagne di giochi presenti nei nostri salotti. La parte più divertente è quando uno di noi volontari si traveste poi da befana per la consegna dei regali: le risate non mancano mai e il clima si distende per qualche ora, anche dentro le mura” continuano Un’esperienza ricca di umanità - Per Chiara Iacuone, una delle volontarie, si tratta di un’esperienza ricca di umanità e di verità “essere volontaria in carcere è un’opportunità unica, in cui si ha l’occasione di trovarsi cuore a cuore con l’errore, il dolore ma anche con la speranza. L’insegnamento più grande che mi hanno dato le donne della Giudecca è che ognuno di noi deve essere vigilante perché il confine che divide il bene dal male è molto labile. Nulla mi dà il diritto di giudicare e, in questi anni, diverse volte mi sono chiesta cosa avrei fatto se mi fossi trovata al loro posto, con la loro storia, la loro cultura” prosegue Chiara “Ogni persona è immensamente altro da ciò che appare e compie. Alla Giudecca riscopro sempre il volto di un’umanità ferita dal male ma che non è sconfitta, vuole e può rialzarsi. Ho visto donne che hanno la possibilità di lavorare, di scrivere, di comporre poesie, di compiere gesti gratuiti di solidarietà. Ho visto donne aiutarsi vicendevolmente, giocare a pallavolo per il solo gusto di divertirsi, ballare per sentirsi libere. Ho sperimentato che solo il bene può vincere il male, che soltanto l’amore vince” Viterbo. Nel Tribunale il primo giardino in Italia curato dai detenuti di Simona Tenentini lamiacittanews.it, 26 dicembre 2020 Un giardino curato dai detenuti all’esterno del Palazzo di Giustizia. Si tratta del primo progetto del genere in Italia ed è stato pensato dalla sinargia tra Tribunale, Procura della Repubblica di Viterbo, Università della Tuscia, Casa Circondariale di Viterbo, Ordine degli avvocati di Viterbo, Unicoop Tirreno e AzzeroCO2. L’accordo, sottoscritto presso l’Azienda Agraria dell’Unitus, prevede la riqualificazione dell’area verde esterna del Palazzo di Giustizia di Viterbo attraverso la progettazione e realizzazione di un giardino sostenibile. L’iniziativa, oltre ad avere finalità di reinserimento, andrà a vantaggio del verde urbano, del contrasto ai cambiamenti climatici e della qualità dell’aria oltre ad avere, appunto, importanti finalità formative. Il progetto prevede la selezione e messa a dimora di specie arboree, arbustive ed erbacee, adatte alle caratteristiche climatiche dell’area ed idonee a sottolineare lo scorrere delle stagioni. Lo spazio verde verrà, inoltre, suddiviso in aree tematiche salvaguardando e valorizzando anche gli esemplari già presenti. Le fasi di progettazione e gestione saranno accompagnate da attività formative che vedranno il coinvolgimento, oltre che degli studenti dell’Università della Tuscia, anche dei detenuti della Casa Circondariale di Viterbo formati e guidati dal personale dell’Orto Botanico, dell’Azienda Agraria e del Dafne. Saranno inclusi nell’iniziativa i detenuti già operanti come giardinieri presso il Palazzo di Giustizia in base ad una precedente convenzione. Tutto il progetto “verde” è stato oggetto della tesi di laurea della neo dottoressa Deila Di Fiordo, discussa qualche giorno fa. “Con il professor Giuseppe Colla e con i suoi bravissimi collaboratori - dichiara la Maria Rosaria Covelli Presidente del Tribunale - abbiamo fortemente voluto la realizzazione di un progetto unico nel suo genere a cui lavoravamo da tempo. La vasta area esterna del Palazzo di Giustizia necessitava di cura e manutenzione, attualmente effettuata da due detenuti della Casa Circondariale di Viterbo, in forza di una Convenzione sottoscritta con Casa Circondariale e altri soggetti pubblici e privati due anni fa. La presente iniziativa si fonda su analoga e proficua collaborazione tra Istituzioni del Territorio e Soggetti pubblici e privati ma aggiunge altri obiettivi e si caratterizza per l’apporto determinante dell’Università della Tuscia e dei promotori di un programma nazionale assai rilevante sotto il profilo ambientale, la Cooperativa Unicoop Tirreno e la società AzzeroCO2. Termoli. Una storia di speranza. Kristian, da detenuto a volontario fra gli “invisibili” di Roberta Morrone e Stefano Di Leonardo primonumero.it, 26 dicembre 2020 L’associazione La Città invisibile di Termoli offre ogni mattina accoglienza e ristoro ai senzatetto. Fra loro anche un giovane passato dall’essere uno degli ‘ultimi’ a primo dei volontari. La radio ad alto volume, il caffè fumante, il via vai di volontari e ospiti. Una mattina qualunque, in un posto che però non è come gli altri. È la sede dell’associazione ‘La Città invisibile’ di Termoli, che da oltre due anni e mezzo accoglie in piazza Olimpia senzatetto del posto o di passaggio in città. Per una tazza di latte e una brioche, un aiuto per compilare i mille documenti della burocrazia italiana, o semplicemente per avere qualcuno con cui fare quattro chiacchiere, per sentirsi persone reali e non ‘invisibili’. È un mattino di dicembre umido ma soleggiato, a Natale mancano pochi giorni e la cucina della struttura di fianco allo stadio ‘Gino Cannarsa’ trabocca di biscotti, succhi di frutta e panettoni. “Forse per via della situazione di difficoltà che tutti stiamo vivendo, ma stavolta le donazioni delle persone sono state veramente tantissime” confessa Francesco, volontario della Città che è invisibile solo nel nome. Sono in tutto circa una decina i volontari che si alternano tutte le mattine dalle 8,30 alle 11,30 in piazza Olimpia. Alcuni lavorano ‘dietro le quinte’, ma ci sono, sempre. Sono invece circa venticinque le persone (ma in media ogni mattina una quindicina), quasi tutte senza fissa dimora e per lo più uomini, a frequentare quel posto un po’ nascosto per mettere qualcosa sotto i denti, scambiare due parole, magari fare una doccia o una lavatrice. La Città invisibile offre questi servizi, oltre a quelli più ‘rognosi’ che riguardano i documenti: il permesso di soggiorno, il passaporto, il reddito di cittadinanza. O magari un appartamento, (un’utopia per tanti di loro) per chi riesce ad avere un lavoro e un reddito. È il caso di Andrej (nome di fantasia), protagonista qualche settimana fa di un appello che l’associazione ha condiviso anche sui giornali. L’obiettivo pare essere stato raggiunto perché qualcuno ha letto l’articolo e contattato ‘La Città invisibile’. Risultato? Un appartamento per lui in un paese del Basso Molise. “A Termoli non ci ha contattato nessuno. I prezzi sono improponibili e c’è molta diffidenza”. Eppure la casa non dovrebbe essere il punto d’arrivo, bensì quello di partenza. È un approccio, nuovo, in qualche modo rivoluzionario, quello del cosiddetto ‘Housing first’, che anche la struttura termolese ha sposato. “Ci sono studi e ricerche che lo dimostrano - afferma Francesco -. Avere una casa aiuta tantissimo a creare una rete sociale e un’integrazione, a differenza dell’approccio paternalistico del ‘se fai questo ti faccio entrare al dormitorio, se fai quest’altro ti do un lavoretto’ e così via”. Dormitorio che sì, a Termoli c’è, ma che oggi è un punto di riferimento solo per alcuni. “Purtroppo le regole d’ingresso sono stringenti. Per dirne una, chi ha la fedina penale macchiata non può entrare. E queste persone, in quasi tutti i casi, hanno avuto qualche problema con la giustizia. Anche perché altrimenti non starebbero così”. Senza contare che anche ‘La Città invisibile’ non ha certezze sul suo futuro. “Abbiamo sulla testa la Spada di Damocle dei lavori che il Comune dovrebbe fare qui per trasformare la sede in Museo del mare. Non sappiamo bene che ne sarà di noi. Il Comune ci aiuta col pagamento delle utenze e ci ha assicurato che un altro posto per noi lo troverà, ma non c’è niente di ufficiale. Anche il fatto che stiamo qui non è mai stato messo nero su bianco”. L’arrivo del Covid-19 inizialmente ha spiazzato anche i volontari, che però col tempo si sono riorganizzati. “Un grosso cambiamento l’abbiamo notato a settembre, quando abbiamo avuto un boom di accessi, anche il 60 per cento in più. Poi piano piano i numeri sono tornati alla normalità”. Mentre Francesco racconta come “l’esperienza del dormitorio alla Schweitzer è stata positiva ma emergenziale. Affrontava una emergenza nell’emergenza. L’approccio dovrebbe però essere diverso, perché la situazione di chi non ha una casa non è un’emergenza ma è cronica”, ecco che viene affiancato da Kristian, un ragazzo grande e grosso che si dà un gran daffare in cucina. Sta in silenzio ma nei suoi occhi si intravede in lui un bisogno di raccontare, di raccontarsi. “Ho conosciuto La Città invisibile dopo un percorso di due anni e mezzo al centro ‘Il noce’, dove sono arrivato da ex detenuto e con problemi di tossicodipendenza”. Tratteggia quello che è stato il suo percorso e confessa: “Ci vuole tanta forza di volontà per rinascere, non è facile, bisogna volerlo davvero”. E la pandemia non aiuta di certo, perché è evidente che il virus ci allontana e alimenta la diffidenza reciproca. “Lo abbiamo notato soprattutto nei primi mesi di pandemia”. Una paura di avvicinarsi, una battuta d’arresto alle donazioni dei cittadini. “In realtà - ci spiegano sia Francesco che Kristian - il senzatetto è la persona per antonomasia che ha meno contatti sociali, e dunque meno rischiosa in un certo senso”. Ora però le cose sembrano essere migliorate, la realtà di questo scrigno di solidarietà inusitata, lontana anni luce dal clamore della città, va avanti, in maniera ostinata e contraria. C’è una espressione che qui sta molto a cuore ai volontari, ed è come una sorta di manifesto. “Nessuno si salva da solo”. Kristian, che ora è passato dall’altra parte (da ‘assistito’ ad ‘assistente’) lo sa bene. Il ‘suo’ Natale è stato qui. Trapani. Dal carcere di Castelvetrano gli auguri dei giovani detenuti castelvetranoselinunte.it, 26 dicembre 2020 Carissimi giovani, siamo un gruppo di detenuti reclusi presso il carcere di Castelvetrano. Nella imminente prossima festività del santo Natale vi vogliamo far giungere i nostri più cari auguri di un felice e santo Natale. Sappiamo che questo non è un bel periodo: questa terribile pandemia è riuscita in parte a rovinare anche le nostre più radicate tradizioni natalizie, che ci facevano riunire nelle nostre famiglie, condividendo i valori più belli che il santo Natale ci fa rivivere ogni anno. Come dicevamo prima è riuscita in parte a rovinare tutto questo, perché comunque, pur rimanendo nelle nostre case e dentro le rispettive nostre famiglie ristrette, avverrà lo stesso il miracolo che ogni anno si perpetua con la nascita del nostro Signore Gesù bambino, con tutto l’amore, la tenerezza e la speranza che questo santo evento comporta. Tutto questo riguarda voi e anche noi che purtroppo non potremo, come vorremmo, stare con le nostre famiglie e nelle nostre case. È proprio in quest’ultima affermazione che ci vogliamo soffermare per cercare di trasmettervi un messaggio di speranza: è quella di non incorrere mai in queste tristissime circostanze nelle quali ci ritroviamo noi. Per far sì che ciò non avvenga bisogna ovviamente non sbagliare mai e rimanere sempre nella legalità, quindi nel rispetto di tutte le leggi; ma, aggiungiamo noi, questo non sempre può bastare perché alle volte per la nostra lontananza dal Signore, il maligno ci tenta e ci fa cadere nelle nostre debolezze, portandoci allo sbaglio, all’errore e a tutte le situazioni nefaste che ne conseguono. Allora è proprio questo l’augurio più forte che vi rivolgiamo e che ci rivolgiamo in questo santo Natale: di non allontanarci mai dal Signore, di stare accorti affinché ciò non avvenga mai o, nel nostro caso, non avvenga mai più. Di pregarlo di starci sempre vicino e di non abbandonarci mai specie nelle tentazioni. Confidiamo che con la preghiera costante il Signore ci conduca ad una vita santa fatta di amore, di carità, di perdono, di pace, di gioia e di serenità. Con l’augurio che tutte queste grazie di Gesù bambino facciano parte della vostra vita e delle vostre famiglie ma anche delle nostre vite e delle nostre famiglie. Vi auguriamo un santo Natale ed un felice Anno Nuovo. I detenuti della Casa Circondariale di Castelvetrano Catanzaro. Il presepe in carcere durante la pandemia calabriamagnifica.it, 26 dicembre 2020 “Il presepe è famiglia, è affetto. E proprio per sentire meno lontani i loro affetti e le loro famiglie, i detenuti del carcere di Siano ogni anno si mettono all’opera per rappresentare una natività diversa, che - già solo per il contesto carcerario che fa da cornice - assume un significato profondo”. Con queste parole la direttrice dell’istituto penitenziario, Angela Paravati, spiega il senso della sesta edizione del concorso “Il Messaggio dei Presepi” alla Casa Circondariale di Catanzaro, la cui premiazione si è svolta ieri, nel corso di una manifestazione “a distanza” organizzata dall’istituzione in collaborazione con l’associazione Consolidal Ets, presieduta dall’architetto Teresa Gualtieri. Mongolfiera / Premio speciale “Il Covid non ha fermato l’evento che è ormai una tradizione” ha commentato l’architetto Teresa Gualtieri, ed infatti la manifestazione ha visto la presenza anche del Garante regionale dei detenuti Agostino Siviglia, intervenuto personalmente, ma anche, in videoconferenza, dell’assessore alla cultura del comune di Catanzaro Concetta Carrozza, del direttore dell’ufficio detenuti del Provveditorato regionale Giuseppina Irrera, della consigliera di parità della Provincia di Catanzaro Elena Morano Cinque, del docente universitario a riposo e pedagogista Nicola De Cumis, da anni volontario presso l’Istituto e del dirigente scolastico dell’istituto Petrucci Maresca Elisabetta Zaccone. Sette presepi sono stati realizzati dalle persone detenute presso la Casa Circondariale: sette sfide per far nascere Gesù in carcere durante la pandemia, in un doppio isolamento. Un significato ancora più autentico, essendo la nascita, secondo i Vangeli, avvenuta in una grotta, al freddo, in un ambiente ostile alla vita proprio come è il mondo intero oggi, afflitto dall’emergenza epidemiologica. E così troviamo personaggi dei presepi con la mascherina, tensostrutture e spazi di emergenza medica rappresentati accanto alla capanna con la sacra famiglia, il bue e l’asinello. Un contrasto che fa riflettere: com’è presente la pandemia, è presente anche, ancora una volta, una nascita che rilancia e vince una sfida, contro tutte le previsioni. E si arriva così al presepe in mongolfiera che poeticamente riesce a vincere i mali del mondo elevandosi al di sopra di essi e che ha avuto un premio speciale. Vincitori a pari merito il presepe intitolato Angeli Di Dio e l’opera “Il presepe con il gruppo di preghiera Rinnovamento dello spirito”. Da notare il “dolce Covid” realizzato nel laboratorio di pasticceria dei detenuti dell’Istituto. Il Garante regionale dei detenuti Agostino Siviglia ha apprezzato l’iniziativa affermando: “È stata la risposta migliore che i detenuti potevano dare a questo periodo di isolamento”. Il Natale “povero” degli italiani: uno su tre ha rinunciato ai regali di Carmine Di Niro Il Riformista, 26 dicembre 2020 Niente regali sotto l’albero quest’anno per un italiano su tre (31%) a causa del clima di sobrietà che ha segnato la festa, delle limitazioni poste allo shopping e soprattutto delle difficoltà economiche e delle preoccupazioni per il futuro causate dalla pandemia. È quanto emerge da un’analisi Coldiretti/Ixè dalla quale si evidenzia che rispetto allo scorso anno è praticamente triplicata la percentuale di quanti non hanno fatto doni a sé stessi o agli altri. Anche il budget di quanti hanno deciso di fare regali è sceso a 175 euro a famiglia, in calo del 23% rispetto allo scorso anno, con la maggioranza del 45% delle famiglie italiane che - sottolinea la Coldiretti - ha speso tra i 100 e i 300 euro, il 41% sotto i 100 euro, il 14% dai 300 ai mille euro. Il risultato della crisi è anche la tendenza a indirizzarsi - continua la Coldiretti - verso regali utili con abbigliamento, giocattoli e cibo tra i più gettonati, davanti a libri, tecnologie e oggetti per la casa. Gli italiani blindati in casa nei giorni clou delle festività - continua la Coldiretti - trovano consolazione nella tavola e il maggior tempo disponibile si traduce, soprattutto, nella tendenza a cucinare di più per sé e per i propri familiari. Una svolta che spiega quest’anno il boom dei cesti enogastronomici personalizzati secondo le diverse preferenze, a chilometro zero, tradizionale, vegano, salutista o green. I cesti sono scelti da un italiano su 3 (34%). Tra le curiosità c’è il fatto che i timori legati all’arrivo della variante inglese del Covid e al proseguire dell’ondata di contagi hanno spinto molti italiani a regalare a parenti e amici mascherine dispositivi di protezione individuale anti-Covid. Come le mascherine, ma anche il gel, a partire dalle varianti green. Dai modelli più fashion realizzati dalle grandi marche a quelli riciclabili che non inquinano, ma anche con forme, scritte e disegni curiosi. Una innovazione che - continua la Coldiretti - riguarda anche i prodotti igienizzanti, con alcune aziende agricole che hanno riconvertito le produzioni usando rosmarino, timo e altre erbe naturali per realizzare soluzioni disinfettanti grazie al matrimonio con l’alcool alimentare di alcuni liquorifici. Nonostante le difficoltà economiche - sottolinea la Coldiretti - il 41% degli italiani quest’anno in occasione delle festività di fine anno ha deciso di fare donazioni o è stato coinvolto in qualche opera di beneficenza o volontariato di fronte a una crisi senza precedenti. La Coldiretti si è impegnata in una capillare operazione di solidarietà nei mercati degli agricoltori di Campagna Amica e negli agriturismi, dove è possibile contribuire alla Spesa sospesa del contadino. Tutti i cittadini che fanno la spesa nei mercati e nelle fattorie di Campagna Amica diffusi lungo la penisola possono decidere di donare cibo e bevande alle famiglie più bisognose sul modello dell’usanza campana del caffè sospeso, quando al bar si lascia pagato un caffè per il cliente che verrà dopo. In questo caso si tratta però di prodotti di alta qualità 100% italiani, a chilometri zero o biologici, resi disponibili anche grazie al contributo del management dei Consorzi agrari D’Italia (Cai) e della Coldiretti. Gabriele Salvatores: “Vedo tante ingiustizie. La sfida più difficile è ritrovare la speranza” di Fulvia Caprara La Stampa, 26 dicembre 2020 Il regista ha raccontato il primo lockdown con il progetto collettivo “Fuori era primavera”. Adesso, alla fine di un anno pieno di prime volte, di scoperte, lavoro, riflessioni, Gabriele Salvatores sta cercando di ritrovare la speranza. E forse, anche per lui che si è ammalato di Covid ed è guarito, che, nei giorni del primo lockdown, ha fatto amicizia con “una quercia e un leccio”, in un bosco vicino Lucca, che si è sentito solo e depresso senza il cinema da fare ogni giorno, che si è arrabbiato sentendo parlare di cenoni “quando c’è un sacco di gente che dorme per strada sotto una coperta”, non è impresa semplice: “La mia speranza è che tutto questo ci aiuti a capire le vere priorità. La parola crisi viene dal greco e significa discernere, cioè capire cosa c’è di buono e cosa di cattivo. Un momento così dovrebbe produrre un cambiamento, sia nel rapporto con il nostro pianeta, sia nel sociale. Il gap tra ricchi e poveri diventa sempre più grande e così non si può più andare avanti, altrimenti finiremo come in Jocker o Parasite”. La ragione per cui quel filo di fiducia sta diventando sempre più sottile è nel panorama che ci circonda: “Vedo tanto menefreghismo, tanti negazionisti, tanto egoismo. Se vogliamo trovare la luce in fondo al tunnel, dobbiamo ricordare che abbiamo bisogno degli altri e allora non è giusto pensare solo a sé stessi. Abbiamo privilegiato i soldi e il guadagno esagerato, convincendoci che l’economia sia la base di tutto, ma è davvero così? In fondo Natale è la festa di un poverello nato in una stalla tra un asino e un bue, uno che, a prescindere dalla fede, era venuto sulla Terra per cambiare il mondo”. Il senso di unità e fratellanza aveva segnato il clima del primo lockdown, quello descritto in Fuori era primavera, che Salvatores ha tratto dai video degli italiani reclusi: “Speravo, in quella fase, che la pandemia potesse servire per far capire, a noi e ai governi, in cosa avevamo sbagliato, ma non è stato così”. Oggi si fanno strada sensazioni diverse: “Non siamo un popolo disciplinato, tendiamo all’individualismo, però è anche vero che siamo bravi a ubbidire e, se necessario, a stringere i denti, sentendo di far parte di una cosa sola. In quel primo periodo ha prevalso la tensione a resistere, pensavamo “passerà”, eravamo più positivi. Adesso vedo, invece, molta rabbia sociale, molta insofferenza, mentre dovremmo capire che nessuno si salva da solo”. A fine estate, Salvatores è tornato sul set per girare, a Trieste, Comedians, basato sulla pièce teatrale del 1975, di Trevor Griffths: “Il mio film più radicale, si svolge tutto in una scuola serale per aspiranti attori comici. Lo avevo messo in scena al teatro dell’Elfo, con Paolo Rossi, Claudio Bisio, Antonio Catania, prima che diventassero famosi, e aveva avuto un grandissimo successo. È un racconto che, partendo dalla comicità, si allarga all’intero contesto sociale, si riferisce alle nostre paure, apre il quesito su se è possibile ridere di tutto oppure no, quindi parla della fedeltà alle proprie idee. Uno degli interpreti è Christian De Sica, bravissimo, sarà un film dolceamaro, a volte si ride, altre si pensa”. A fine riprese Salvatores ha incontrato il suo Covid: “Mi è andata molto bene. Durante la lavorazione non era successo niente, eravamo tutti attenti e seguivamo il protocollo, poi, al montaggio, io e il mio assistente siamo risultati positivi. Ho avuto due giorni di febbre alta, sono andato al distaccamento Covid del San Raffaele e lì mi hanno rivoltato come un calzino, ho fatto tutti gli esami e, per fortuna, il polmone era stato toccato appena. Non ho avuto bisogno di terapia e sono tornato a casa, il problema è che non riuscivo più a negativizzarmi”. La paura vera è arrivata in un preciso attimo: “All’inizio ero asintomatico, poi si è alzata la febbre e allora mi sono spaventato. Ho preparato la mia valigetta, non sapevo ancora se mi avrebbero ricoverato o meno, ecco, quello non è stato un bel momento”. Rimanere a casa, da solo, si è rivelato istruttivo: “Noi che facciamo i film viviamo in un mondo a parte, io senza il cinema divento pazzo, mi sono accorto che, purtroppo, la normalità della vita non mi appartiene e questo non è affatto giusto. Succede che poi, quando devi andare a fare la spesa, sembri un deficiente. In quei giorni ho imparato a passare l’aspirapolvere, a fare la lavatrice e la lavastoviglie, a preparami da mangiare. La cosa più noiosa è levare la polvere. Insomma, ho avuto un’immersione nella normalità ed è stata utile anche quella”. Le altre scoperte legate a malattia e lockdown riguardano la creatività: “L’inizio è stato difficile, ho avvertito un po’ di depressione, ho capito che dovevo darmi delle regole, come i monaci e i samurai, e che era importante trovare un’idea. Così è venuto fuori il progetto di Fuori era primavera”. Eppure stare fermi e chiusi significa perdere la fonte di tutto: “Pensavo di usare il tempo per lavorare e invece, come diceva Zavattini ai suoi allievi “per scrivere belle sceneggiature bisogna prendere il tram”. L’inconscio, che è il nostro mondo interiore, va nutrito dal confronto con la realtà, è importante andare in strada, è lì che incontri le persone e sono loro che ti raccontano le cose”. Quei racconti finiscono al cinema e adesso c’è anche il dubbio sul dove e sul come saranno visti: “Anche se il sistema delle sale era già in crisi, non credo morirà. C’è qualcosa, in noi esseri umani, che continua a chiedere di chiuderci in una caverna buia per ascoltare qualcuno che ci racconti una storia. È un modo per entrare in un altro regno, per sottrarsi a un’epoca totalmente interattiva in cui, se tu non dici la tua, è come se non fossi vivo”. E invece, osserva Salvatores, con la sua maniera lieve e profonda “è meraviglioso potersi abbandonare, assorbire le visioni di un’altra persona, usare solo il cuore e la mente che, in fondo, dovrebbero essere sempre al centro di tutto”. Benedetta la Rete, dove la cultura imprigionata dal virus trasmigra e resiste di Elena Loewenthal La Stampa, 26 dicembre 2020 La direttrice del Circolo dei lettori di Torino e la sfida del virtuale: abbiamo scoperto risorse di energia e creatività che non sapevamo di avere. Tutti abbiamo perso tanto, in questo 2020 talmente inquietante da sembrare surreale: come se il mondo fosse una astronave balzata al di là della barriera del possibile. Quasi tutto è cambiato e ogni giorno che passa ci si domanda quando e come e se tutto tornerà come prima. Al pari di tutto il resto anche la cultura si è trovata di fronte a uno scenario irriconoscibile. Ha sentito il peso del vuoto forse più di altri settori, di altre parti della nostra vita. Come le aule di scuola abbandonate, ha subìto un silenzio prepotente. Quello dei teatri, delle sale da concerto, dei cinema, degli incontri letterari desertificati. Ha dovuto rinunciare a ogni dimensione pubblica, a quel dialogo continuo con il pubblico che è parte essenziale di ogni evento culturale. Il comparto delle arti performative e del cinema sono stati sostanzialmente cancellati a tempo indeterminato. È ancora presto, purtroppo, per fare la conta dei danni, di quel che s’è perso per strada. E quando verrà il momento, quando ci saremo lasciati alle spalle questa tempesta, bisognerà essere pronti per un inventario assai doloroso, con non poche macerie. Sfigurata dalla pandemia, la cultura ha dovuto reinventarsi per galleggiare su questo mare furioso, e in una certa misura ce l’ha fatta. La sfida è stata quella di ripiegarsi per entrare e trovare posto fra le mura di quella casa che, durante il primo lockdown ma in fondo anche dopo, è diventata qualcosa di molto diverso da ciò che era prima. Lo spazio domestico si è tramutato nel territorio preponderante, là dove si faceva - e si fa ancora - quasi tutto. Per sopravvivere, la cultura e le arti espulse dalla realtà fisica si sono avviate a una migrazione di massa. Verso dove? Proviamo a vedere le cose dal lato luminoso, anziché da quello oscuro. Perché in questo mondo, per fortuna, nulla è mai in bianco o nero assoluto. Tutto è nel segno delle sfumature, di quella complessità in cui c’è sempre spazio per una convivenza degli opposti. E allora, che cosa sarebbe stato questo 2020 senza la Rete? Senza la possibilità di comunicare, lavorare, svagarsi, esercitare seppure in forma miniaturizzata quella socialità che è il grosso della nostra vita? Benedetta la Rete globale, seppure al netto di tutte le riserve possibili. La Rete è stata non solo l’unica risorsa che la cultura ha avuto per continuare a fare ed essere quello che è sempre stata. È stata anche il terreno di una resistenza tenace e di scoperte non irrilevanti, che lasceranno il segno. È vero che nulla potrà mai sostituire l’energia e la bellezza di un concerto dal vivo. Però quanti italiani rinchiusi in casa e intenti in uno svogliato zapping sono capitati per caso davanti a un concerto, a una pièce teatrale su un canale di quelli che portano numeri a due cifre e si sono soffermati perché era per loro qualcosa di nuovo? L’arte e la cultura hanno occupato spazi televisivi mai pensati prima di questa pandemia. Il distanziamento è così potuto diventare una sorta di suo contrario, la possibilità di avvicinare un pubblico altrimenti irraggiungibile. E prima ancora, la possibilità di dimostrare che la cultura non è qualcosa di immobile, ancorato alla conservazione di sé. Reinventarsi, e continuare a farlo, può e deve diventare un processo salutare. Trasmigrare sulla Rete non è certo stato innocuo, a moltissimo si è dovuto rinunciare. Come si fa a presentare un libro in diretta Facebook e incontrare i lettori, firmare le copie? Per tenere vivo quel discorso che è la lettura ci sono voluti tenaci sforzi creativi. C’è voluta una costante determinazione a trasformare gli ostacoli in opportunità. Ma quale autore non tra i big che si contano sulle dita di una mano si sarebbe mai sognato di presentare il suo ultimo libro di fronte a duemila persone? È vero che di “visualizzazioni” e non presenze in carne e ossa si tratta, ma proprio come il maledetto virus anche la Rete non ha confini, e così i libri hanno percorso distanze inimmaginabili prima d’ora. Purtroppo nei primi tempi della pandemia è passato il messaggio che il libro era l’ultima spiaggia nella desolazione del lockdown, poi il tiro mediatico s’è corretto e le librerie aperte pure in zona rossa hanno dato il segno opposto: leggere è sempre un’attività fondamentale! Nel disastro economico generale i dati sulla lettura sono moderatamente incoraggianti, e speriamo che questa sia un’onda lunga irreversibile. Perché la lotta al virus è il contrario di una guerra: tutto il mondo è sullo stesso fronte. E questo ha a volte facilitato la comunicazione. In questi mesi si è capito che la cultura è essenziale. Molti che prima non lo sapevano hanno capito che essa dà (dava?) da mangiare a svariate categorie professionali. Nel male della pandemia, nelle privazioni, in quel tanto che s’è perso e chissà se tornerà, insomma, la cultura ha trovato in sé risorse di energia e creatività che non sapeva di avere. Ma soprattutto, è stata un ossigeno provvidenziale e tutti, sia chi già lo sapeva sia chi lo ha scoperto ora, hanno toccato con mano quanto sia indispensabile per respirare. Dal Kosovo all’Italia: quei minori schiavi dei mercanti di uomini di franco giubilei La Stampa, 26 dicembre 2020 Dal Kosovo all’Italia: quei minori schiavi dei mercanti di uomini. Il capo della procura dei minori di Trieste: “Almeno 200 casi l’anno”. Dopo un contratto di lavoro fittizio finiscono nelle fila della criminalità. Arrivano in Italia lungo le rotte clandestine dei Balcani al ritmo di circa duecento all’anno. Sono kosovari o albanesi, ma soprattutto hanno poco meno di 18 anni, il che permette loro di essere accolti nel nostro Paese in quanto minorenni, almeno in un primo tempo. Un’organizzazione criminale basata in Kosovo ne gestisce il traffico al prezzo di 3.500 euro per ogni migrante, ma la cosa non finisce qui: ben presto, al compimento dei 18 anni, un’offerta di lavoro proveniente da imprese edili di dubbia consistenza garantisce a questi ragazzi un requisito fondamentale per ottenere il permesso di soggiorno. A questo punto, col documento in mano, il gioco è fatto e i giovanissimi scompaiono dai radar: dove finiscano e cosa facciano è un mistero, il fatto che in parte siano destinati a circuiti illegali quasi una certezza. L’allarme su una situazione che si protrae da cinque anni viene dal capo della procura dei minori di Trieste, Leonardo Tamborini, competente per la tutela e il collocamento degli under 18 stranieri non accompagnati: “Si è sviluppato questo flusso di minorenni dal Kosovo e, in minor misura, dall’Albania. Hanno tutti poco meno di 17 anni e mezzo, arrivano qui via Serbia, Ungheria e Austria, oppure dalla Slovenia. Non sono ragazzi che scappano, sono loro stessi a raccontarci che pagano 3.500 euro per il viaggio in Italia”. La legge per loro prevedrebbe un percorso di inserimento che, nei pochi mesi che li separa dalla maggiore età, non ha veramente modo di svolgersi, permettendo però il raggiungimento dell’obiettivo principale: “Fanno solo in tempo a fare brevi corsi di alfabetizzazione da qualche decina di ore in cui imparano a mala pena l’abc, tanto che nei processi alcuni hanno bisogno dell’interprete”, aggiunge il magistrato. E così la conoscenza minima dell’italiano, anch’essa determinante per il permesso di soggiorno, sulla carta è garantita. Finché non compiono 18 anni e “magicamente arriva un’offerta di lavoro da un’impresa edile gestita da un connazionale, aziende gestite a loro volta da kosovari che quasi di sicuro non hanno neanche visto il soggetto da assumere”, spiega il capo della procura dei minori. Il permesso di restare in Italia ora è conquistato e i neomaggiorenni svaniscono nel nulla: “Spariscono da tutto, statistiche comprese - dice Tamborini. Sappiamo che una parte va fra Lombardia e Veneto, alcuni restano nel Triestino, alcuni si raggruppano in bande di giovanissimi, a volte pericolose, saldate dalla forte identità nazionale e dal fatto che non sono minimamente integrati nella nostra realtà”. Il magistrato ha portato la vicenda all’attenzione dei ministeri interessati, Interno, Lavoro e Salute, ma senza risultati: “Non ho avuto alcun segnale di inversione di rotta”. Non è neanche questione di norme insufficienti, dipende invece da come le leggi vengono applicate, anche perché “se basta una lettera di offerta di lavoro da un’impresa di cui non si sa niente, questo secondo me è solo un requisito apparente”. Bisognerebbe verificare per chi lavorano questi ragazzi, se lo fanno sul serio e dove vanno a vivere, ma tutto questo resta sconosciuto. Sulle probabilità che entrino in un brutto giro, il procuratore allarga le braccia: “Il fatto di non saperlo è già fonte di preoccupazione”. Le ultime modifiche ai decreti sicurezza non hanno cambiato una virgola, mentre l’organizzazione kosovara continua a fare affari d’oro: il traffico di ragazzi frutta 700 mila euro l’anno e le uniche indagini finora sono state avviate dalle autorità di Pristina Stati Uniti. Cos’è il “presidential pardon”: Trump può graziare chi vuole? di Marilisa Palumbo Corriere della Sera, 26 dicembre 2020 Il presidente uscente ha concesso meno grazie e commutazioni della pena dei suoi predecessori ma quasi tutte a amici e collaboratori. Il potere concessogli dalla Costituzione e i dubbi sui possibili abusi. Amici e sodali, parenti e contractor condannati per una strage di civili in Iraq. Finora Donald Trump ha concesso il “presidential pardon” una settantina di volte: 60 dei beneficiari sono persone che hanno contatti personali con lui o l’hanno aiutato a perseguire i suoi obiettivi politici, secondo una ricerca di Jack Goldsmith, professore della Harvard Law School. Non è certo la prima volta nella Storia che l’utilizzo di questo delicato potere concesso al presidente dalla Costituzione solleva aspre polemiche: era successo con la grazia concessa da Bill Clinton al finanziere fuggitivo Marc Rich e a Gerald Ford che aveva “perdonato” il suo predecessore Richard Nixon, ma la quantità di amici con gravi condanne lasciati liberi da Trump alza il livello di allarme. Da dove deriva e cosa prevede questo potere? - È inscritto nella Costituzione e deriva dal potere dei re inglesi di compiere degli atti di clemenza nei confronti di condannati. Una grazia presidenziale significa che reati federali (non statali quindi) commessi o che il soggetto potrebbe aver commesso vengono condonati. Non cancella il reato dalla fedina penale, ma, oltre alla pena, elimina le conseguenze che comporta, come i limiti al diritto di voto o all’acquisto di armi. George Washington usò questo diritto presidenziale con un gruppo di contadini che avevano guidato la cosiddetta “Whiskey Rebellion”. Oltre alla grazia il presidente può commutare la sentenza, come fece per esempio Barack Obama con Chelsea Manning, accusata di aver passato documenti riservati a Wikileaks e condannata a 35 anni di carcere. Come si riceve un “presidential pardon” - Solitamente una grazia la si chiede, facendo domanda attraverso il dipartimento di Giustizia, ma un presidente può anche concederla a proprio piacimento, e pare sia questo che sta facendo Trump nelle ultime settimane della sua presidenza (Joe Biden, dichiarato presidente eletto dai grandi elettori il 14 dicembre scorso, si insedierà il 20 gennaio). Come si sono comportati gli altri presidenti? - Tra grazie e commutazioni della pena Trump ha esercitato il suo potere meno di cento volte, il numero più basso dalla presidenza McKinley (1897-1901). Obama, nell’arco però di otto anni, aveva concesso 212 grazie e 1715 commutazioni della pena. La differenza, oltre che nel numero, sta nel fatto che Obama come la maggior parte dei presidenti prima di lui, aveva interpretato questo potere presidenziale non in modo personale ma per cancellare sentenze discusse o che rappresentavano alcune delle ingiustizie endemiche del sistema giudiziario americano, come quelle eccessivamente severe per possesso di droga nei confronti di imputati afroamericani o latini. Un altro modo di usare la grazia in passato è stato per sanare alcune delle ferite del Paese, come quando Jimmy Carter decise di perdonare i giovani che erano scappati dagli Stati Uniti per evitare il servizio militare in Vietnam. Trump può graziare se stesso? - Improbabile che sia costituzionale, nonostante lui stesso abbia ventilato l’ipotesi. Qualcuno dice che potrebbe dimettersi in modo che gli subentri il vicepresidente Pence e sia lui a graziarlo come fece Ford con Nixon. Bisogna sottolineare però che anche se Trump fosse graziato o graziasse i suoi figli questo non lo metterebbe al riparo dalle molte inchieste statali che pendono sulla sua testa e sulla Trump organization. Tempo di una riforma - È ora per il presidente eletto Joe Biden - scrive il comitato editoriale del New York Times, di “re-immaginare questo importantissimo e lungamente abusato potere e farlo funzionare per come i padri fondatori lo avevano inteso: come contrappeso a procedimenti giudiziari ingiusti e sentenze eccessive. Se c’è mai stato un momento per riformare il sistema, è adesso. La decennale crisi carceraria americana ha gettato milioni di persone dietro le sbarre, molte delle quali scontano pene enormemente sproporzionate”. Biden dovrà anche decidere se investigare su eventuali abusi di potere commessi da Trump - secondo alcune ricostruzioni i legali del presidente allusero alla possibilità di una grazia con gli avvocati di Manafort quando l’ex responsabile della campagna del presidente, “perdonato” mercoledì, stava valutando se collaborare o no con i procuratori (cosa che poi non fece) - o soprassedere nel nome dell’unità del Paese. Trump ha fatto dell’America uno Stato-Caino: mai così tante esecuzioni in due secoli di Sergio D’Elia Il Riformista, 26 dicembre 2020 È raro che nel corso del mandato un presidente degli Stati Uniti non faccia, ognuno a suo modo, rivivere l’eterna promessa del sogno americano di una migliore qualità della vita, di maggior benessere e sicurezza sociali, successo e felicità individuali. Se è vero come è vero che la civiltà di un Paese si misura anche dal modo in cui teniamo le carceri e trattiamo i detenuti, il presidente Trump ha reso agli americani l’opposto del sogno, della qualità e della felicità della vita americana: nella pena ha dato la morte, con l’odio ha generato la paura, al malessere ha aggiunto un supplemento di dolore. Della terra promessa Trump ha fatto l’impero del male. La pena di morte federale tramite iniezione letale e la morte per contagio in tutti i luoghi di pena statali, hanno connotato l’ultimo anno di una presidenza che ha letteralmente avvelenato la vita democratica, politica e civile americana. Quest’anno, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un presidente ha fatto giustiziare più persone di tutti i 50 stati della federazione. Negli ultimi cinque mesi, l’amministrazione Trump ha messo a morte dieci prigionieri federali, il dato più alto dal 1896 quando governava il Presidente Grover Cleveland, mentre sono state effettuate solo sette esecuzioni a livello statale, il dato più basso in 37 anni. Prima di quest’anno, non c’erano state esecuzioni federali negli Stati Uniti dal 2003 e solo tre detenuti federali erano stati giustiziati da quando la pena di morte federale è stata ripristinata nel 1988. “Nessun presidente nel 20° o 21° secolo prima di questo ha presieduto esecuzioni a due cifre in un anno solare”, ha detto Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center. Non c’è solo la pena di morte “legale”, c’è anche la morte “di fatto” che incombe nei luoghi di pena a causa della pandemia che ha invaso le prigioni statali e federali dove le persone si ammalano molto più che fuori. Anche perché non in tutte le prigioni i detenuti sono testati e non tutti gli ammalati vengono curati. Un prigioniero statale e federale su cinque negli Stati Uniti è risultato positivo al coronavirus, un tasso più di quattro volte superiore alla popolazione generale, ha reso noto il 18 dicembre l’Associated Press e il Marshall Project, un’organizzazione non governativa che si occupa del sistema di giustizia penale. Secondo il rapporto, sono stati infettati almeno 275.000 prigionieri e più di 1.700 sono morti, mentre la diffusione del virus dietro le sbarre non mostra alcun segno di rallentamento. Donte Westmoreland, 26 anni, è stato recentemente rilasciato dal carcere di Lansing in Kansas, dove ha contratto il virus mentre era detenuto per possesso di marijuana. “Era come se fossi stato condannato a morte”. Westmoreland ha vissuto con più di 100 detenuti in un dormitorio aperto dove al mattino si svegliava accanto a uomini malati stesi sul pavimento, incapaci di alzarsi da soli. “Uno spettacolo spaventoso,” ha detto Westmoreland che dopo aver sudato, tremato nella sua cuccetta per sei settimane si è finalmente ripreso. La metà dei prigionieri del Kansas, circa 5.100 persone, è stata infettata da Covid-19, otto volte il tasso di casi tra la popolazione complessiva dello stato. Undici prigionieri sono morti, di cui cinque nella prigione in cui era detenuto Westmoreland. In Arkansas, dove più di 9.700 prigionieri sono risultati positivi e 50 sono morti, quattro su sette hanno avuto il virus, il secondo più alto tasso di infezione carceraria negli Stati Uniti. Tra i morti c’era Derick Coley, un detenuto di 29 anni che stava scontando una pena di 20 anni nel carcere di massima sicurezza di Cummins. Cece Tate, la sua ragazza, gli ha parlato l’ultima volta il 10 aprile quando le ha detto che mostrava i sintomi del virus. “Mi ci è voluta un’eternità per ottenere informazioni.” Il 20 aprile la prigione le ha finalmente detto che Coley era risultato positivo al virus. Meno di due settimane dopo, un cappellano della prigione l’ha chiamata per dirle che era morto. La coppia ha avuto una figlia che ha compiuto nove anni a luglio. Ha pianto e ha detto: “Mio padre non può mandarmi un biglietto di auguri… Mamma, il mio Natale non sarà più lo stesso.” Donald Trump ha superato ogni limite e misura anche a rischio di portare lo stato di diritto americano al suo rovescio. Nessuno nel ventesimo e nel ventunesimo secolo ha ecceduto quanto lui. Nei cinque suoi ultimi mesi da Presidente ha quasi svuotato il braccio della morte federale di Terre Haute e ha cercato di compiere la macabra opera di sgombero anche dopo la sconfitta elettorale. Non ha liberato i condannati a morte, come hanno fatto in questi anni molti governatori statali - democratici e repubblicani - che hanno stabilito moratorie o abolito la pena capitale. Li ha fatti fuori dopo diciassette anni di sospensione delle esecuzioni federali. Dopo venti o trent’anni di attesa nel braccio della morte, li ha messi in croce sul lettino dell’iniezione letale. Erano due secoli che un presidente non ne ammazzava così tanti in pochi mesi. Trump ha poi dato a suo modo un contributo allo sfoltimento della popolazione carceraria che conta quasi due milioni e mezzo di persone - il record mondiale di detenuti per numero di abitanti! Dando il cattivo esempio, ha lasciato che il coronavirus dilagasse anche nelle carceri dove in dieci mesi ha mietuto oltre 1.700 vite. Nel nome di Abele, Trump ha fatto dell’America uno Stato-Caino. Ha ucciso il sogno americano e condannato gli americani tutti, non solo quelli nel braccio della morte, a vivere da testimoni e vittime di un incubo mortifero, avvinti tutti nella catena perpetua del delitto e del castigo, prigionieri tutti della logica allopatica con la quale si pretende di curare il male con un male eguale e contrario. Russia. Sotto inchiesta penale Sobol, l’avvocata di Navalnyj. Rischia due anni di carcere di Rosalba Castelletti La Repubblica, 26 dicembre 2020 Le forze dell’ordine hanno perquisito il suo appartamento e l’hanno portata via per un interrogatorio. È accusata di aver “violato il domicilio” e “minacciato” Kudrjavtsev, il presunto agente dell’Fsb caduto in un tranello telefonico del blogger anti-corruzione e coinvolto nel suo avvelenamento. È stato avviato un procedimento penale contro Ljubov Sobol, l’avvocata della Fondazione anti-corruzione (Fbk) di Aleksej Navalnyj. Ad annunciarlo è stato il direttore di Fbk Ivan Zhdanov. La trentatreenne è accusata di “violazione dell’inviolabilità del domicilio” e “minacce”: il 21 dicembre era stata fermata dalle forze dell’ordine dopo aver provato a suonare all’appartamento di Konstantin Kudrjavtsev, presunto agente dei servizi segreti Fsb coinvolto nell’avvelenamento di Navalnyj. Sobol ora rischia fino a due anni di carcere. La polizia è arrivata nell’appartamento di Sobol alle 7 di stamattina, 25 dicembre, come documentato dalla stessa avvocata con un video. “È la polizia”, dice l’attivista nella registrazione, mentre si sente qualcuno battere contro la porta. Il video di sorveglianza all’esterno dell’appartamento mostra sul pianerottolo uomini con elmetto e incappucciati, che poi sigillano la telecamera con del nastro adesivo. Una decina di minuti dopo Sobol ha smesso di comunicare. Gli agenti hanno perquisito l’abitazione e requisito computer e telefonini anche del marito e della figlia, mentre la donna è stata portata via per un interrogatorio presso il dipartimento di Mosca del Comitato investigativo. Il 21 dicembre scorso Navalnyj, in collaborazione con Bellingcat e Insider.ru, aveva pubblicato una telefonata con il presunto agente dei servizi segreti Kudrjavtsev. Fingendosi un suo superiore, era riuscito a fargli raccontare vari particolari della presunta operazione dei servizi segreti russi che, lo scorso agosto, avrebbe dovuto uccidere l’attivista con l’agente nervino di fabbricazione sovietica Novichok. Nell’audio divulgato, il presunto Kudrjavtsev raccontava che l’agente letale era stato collocato sulle mutande di Navalnyj perché agisse mentre il blogger si trovava in volo tra Tomsk e Mosca. A salvare l’attivista anti-corruzione, sarebbe stato solo l’atterraggio di emergenza a Omsk richiesto dal pilota e un’iniezione effettuata in ambulanza dai medici che gli avevano prestato i primi soccorsi. L’Fsb, erede del Kgb, ha liquidato come “falsa” la telefonata con Kudrjavtsev sostenendo che si tratti di una “provocazione” messa in atto con la complicità di intelligence straniere. Mentre il Cremlino - che ha sempre negato ogni responsabilità nell’avvelenamento, ma ammesso che Navalnyj fosse sorvegliato - ha commentato che l’avvocato anti-corruzione soffre di “manie di persecuzione”. Subito dopo la diffusione della telefonata, Sobol si era recata davanti all’abitazione di Kudrjavtsev e, dopo essere stata barricata per alcune ore in un’auto in sharing, era stata prelevata e trattenuta dalle forze anti-sommossa per ben sei ore in seguito a una denuncia del presunto agente. Come Julija Galjamina, anche Sobol intende candidarsi alle elezioni per il rinnovo della Duma (la Camera bassa del Parlamento russo) che si terranno nel settembre 2021, ma un’eventuale condanna penale la renderebbe ineleggibile.