Uomini o topi? di Sergio Segio dirittiglobali.it, 25 dicembre 2020 Immaginatevi di rimanere bloccati in un vagone della metropolitana affollato, anzi sovraffollato. Le porte sono chiuse, i finestrini anche e sono per giunta oscurati. Le raccomandazioni sul distanziamento suonano beffarde, ci si trova inevitabilmente addossati gli uni agli altri. Gli odori e le paure si mescolano. Passano i giorni, le settimane, i mesi, si avvicina il Natale e siete sempre lì. I telefoni non funzionano, non avete più notizie dei vostri cari. L’unica cosa che funziona è la televisione interna, le notizie giornaliere sulla pandemia sono bollettini di guerra. Alla paura si mescola la rabbia e l’impotenza. Nessuno vi dà risposte. Non sapete più cosa fare, se non sbattere la testa alla parete, come topi in gabbia. E in effetti lo siete diventati. Proprio come per i topi, quelli fuori hanno disprezzo per voi, forse anche loro hanno paura e ve la riversano contro. Vi vedono come diversi e minacciosi; si sentono più sicuri se voi siete chiusi in quel vagone e sperano che non ne usciate più. Immaginatevi tutto questo e sappiate che quella è la condizione quotidiana di chi sta in carcere nel tempo del Covid-19. Potete certo pensare che chi ci sta è perché se l’è cercata; probabilmente lo pensate senz’altro, anche se vi ritenete sensibili e democratici. In ogni caso, siete convinti che non ci sia nulla da fare: così vanno le cose e i problemi urgenti sono ben altri. La pandemia, come prima e assieme la crisi economica e l’impoverimento generale, non consentono generosità verso chi ha sbagliato, a volte pesantemente. Neppure a Natale. Tanto più in questo Natale, in cui ci si sente tutti sacrificati, penalizzati, impossibilitati, preoccupati. C’è da pensare prima alle persone perbene. Il domani, poi, mostra solo nuvole scure. Ma tornate a immaginare, solo per un momento ancora, di essere anche voi chiusi in quel vagone, sia pure per sbaglio, non volevate salirci davvero: vi è capitato, non sapete neppure bene come e perché. Mentre si avvicina il Natale, non potete fare e ricevere alcun regalo o conforto. Il riscaldamento funziona poco e male, assieme alla paura sale il gelo e cresce l’ansia; manca l’aria e sentite la pressione continua degli altri intorno a voi, a contendersi il minuscolo spazio. Adesso chiedetevi se quella sia una condizione umana accettabile, se risponda davvero alla giustizia. O se non si possa, non si debba, invece trovare altri modi per riparare i danni e le offese, per pesanti che siano stati. E non per lo spirito natalizio, non per evanescente bontà, ma perché avete finalmente capito che il carcere è uno specchio, estremo ma reale, della società. È parte di essa, non un mondo alieno; chi ci abita è uguale a voi, ha le vostre stesse paure, desideri, aspirazioni. Avete compreso che se accettate che permanga come luogo senza speranza e senza diritti vorrà dire che scegliete di vivere in una società che ha perso la voglia di cambiare e di costruire un futuro diverso e più giusto. Per sé e per gli altri. Anche per quelli bloccati in quel vagone. Don Grimaldi (cappellani): per i detenuti sarà un “Natale invisibile” agensir.it, 25 dicembre 2020 Quest’anno il Natale nelle carceri è “un Natale invisibile”. Lo ha detto don Raffaele Grimaldi, Ispettore dei cappellani delle carceri d’Italia, ai detenuti e alle loro famiglie, nel corso di una intervista televisiva per l’emittente Teleradio San Pietro di ispirazione cristiana. “Non è un bel Natale nel piatto dei detenuti - ha affermato don Grimaldi - perché molti di loro non faranno colloqui con i loro familiari. Qualcuno avrà la possibilità di fare un collegamento online con i propri familiari e, quindi, anche per loro è un Natale particolare a seguito della emergenza sanitaria. La pandemia ha imprigionato ancor di più i tanti fratelli detenuti che vivono nelle carceri. E lo è anche per i cappellani, per il mondo del volontariato che, come ogni anno e in questo periodo, normalmente sono molto presenti attraverso la convivialità e la comunione reciproca con i pranzi, le celebrazioni, gli eventi artistici, ricreativi, eventi culturali e di catechesi”. “Quest’anno purtroppo - ha proseguito - il Natale è diverso a causa delle ulteriori restrizioni che si vivono all’interno delle carceri, a seguito delle misure di contenimento anti Covid-19”. Negli istituti penitenziari, ha spiegato, “non mancano le difficoltà strutturali di adeguamento per la prevenzione sanitaria e soprattutto per la scoraggiante paura di essere contagiati”. Durante il Natale c’è però “molta solidarietà e vicinanza con le persone che vivono il carcere soprattutto ora che la pandemia ha distanziato maggiormente e ha acuito le criticità”. Don Grimaldi lancia perciò un appello “affinché l’attenzione verso il carcere non sia relegata soltanto a questi momenti, ma ci sia la continuità e la consapevolezza che fuori dal carcere i detenuti devono trovare una società inclusiva e accogliente”. Il messaggio di don Raffaele Grimaldi Per questa vigilia del Santo Natale la realtà delle carceri ha preparato un piatto speciale. Non è un bel Natale nel piatto dei detenuti perché molti di loro non faranno colloqui con i loro familiari. Qualcuno avrà la possibilità di fare un collegamento online con i propri familiari e, quindi, anche per loro è un natale particolare a seguito della emergenza sanitaria. La pandemia ha imprigionato ancor di più i tanti fratelli detenuti che vivono nelle carceri. E lo è anche per i cappellani, per il mondo del volontariato che, come ogni anno e in questo periodo, normalmente sono molto presenti attraverso la convivialità e la comunione reciproca con i pranzi, le celebrazioni, gli eventi artistici, ricreativi, eventi culturali e di catechesi. Quest’anno purtroppo il Natale è diverso a causa delle ulteriori restrizioni i che si vivono all’interno delle carceri, a seguito delle misure di contenimento anti Covid-19. Nel celebrare la Santa Messa di Natale al carcere di Secondigliano, ho incontrato i cappellani, la polizia penitenziaria e il personale dei volontari e dell’area educativa per portare loro il conforto della Fede, ricchezza e approdo sicuro. Tutt’intorno si percepisce nell’aria e nei loro animi, si toccano con mano le difficoltà che la realtà carceraria sta vivendo a causa dei contagi. Seppure sono contenuti, all’interno degli Istituti penitenziari non mancano le difficoltà strutturali di adeguamento per la prevenzione sanitaria e soprattutto per la scoraggiante paura di essere contagiati. Un piatto vuoto, dunque, ma come si può colmare il piatto - gli è stato post nell’intervista - in questa giornata in cui si ricorda e si rinnova la nascita di Gesù che nacque nella umile mangiatoia così carica di Luce? Certamente il cammino che i detenuti hanno fatto con i cappellani è un percorso di Fede. Ma, oggi, Natale è per loro un evento Invisibile. Invisibile perché non ci sono le Celebrazioni liturgiche, non ci sono i contatti, mancano le catechesi. Nonostante tutto però questo Natale è un natale più intimo. Vissuto così ristretto anche per noi che siamo fuori dal carcere, ci aiuta a riscoprire il senso del vero Natale che non è caos, pranzi sovrabbondanti, spreco, regali, divertimento, sballo. Il Natale vissuto così, è un Natale intimo che tocca il cuore di tutti noi. I detenuti da sempre hanno vissuto gli eventi liturgici, le ricorrenze della Fede Cattolica, nella pura semplicità che permette loro di dialogare con Dio e di lasciarsi inondare dall’amore di Dio. Potremo dire che le carceri rappresentano, oggi, un quadro vivente di un presepe vivente, nel quale si vive la Misericordia e si recepisce il messaggio di Speranza. In questo momento vorrei portare un messaggio di conforto alle famiglie dei detenuti; a quei genitori, alle mogli, ai fratelli ai figli che attendono a braccia aperte i fratelli detenuti che sono in attesa di una liberazione piena. Ci sia Speranza innanzitutto per le famiglie perché sappiamo che anche loro nel vedere i loro cari congiunti vivere la sofferenza della solitudine del carcere, chiusi in una cella, anche loro non vivono un Natale sereno. Però un luogo comune dice che la Speranza è l’ultima a morire. Quante volte papa Francesco ha consegnato nelle nostre mani di cappellani il messaggio di speranza dicendo di portare Speranza nei luoghi della disperazione, di portare la speranza del Vangelo. Soltanto Gesù che nasce per noi, ci può dare la vera Speranza. Le carceri sono i nostri presepi viventi perché dentro la nascita di Gesù c’è un’immagine tragica rievocata dall’evangelista Luca che narra “per loro non c’era posto in albergo”. Le porte si erano chiuse davanti al Messia che doveva nascere e quindi anche Maria e Giuseppe – esuli - si sono sentiti emarginati. Questa “rievocazione storica” è quello che avviene per tanti detenuti che, spesso, sono emarginati, gli scartati dalla società. Durante il Natale c’è molta solidarietà e vicinanza con le persone che vivono il carcere soprattutto ora che la Pandemia ha distanziato maggiormente e ha acuito le criticità che si vivono nelle carceri. Perciò vorrei lanciare un appello affinché l’attenzione verso il carcere non sia relegata soltanto in questi momenti, ma ci sia la continuità e la consapevolezza che fuori dal carcere i detenuti devono trovare una società inclusiva e accogliente. Perciò, quel Gesù che non viene accolto nell’albergo è l’esperienza che fanno i nostri fratelli quando escono dal carcere perché fanno fatica ad essere accolti nella società Infine, a Natale troviamo un piatto colmo per il dono della buona notizia sulla beatificazione del magistrato Rosario Livatino in quanto lo scorso 21 dicembre, papa Francesco ha autorizzato la congregazione per la causa dei santi a promulgarne il decreto. È un’attenzione verso la magistratura. Certamente Livatino non era soltanto un magistrato ma un credente che si lasciava illuminare dalla Parola di Dio. Oltre ad essere un magistrato era un uomo giusto. Lui scrutava le storie e le situazioni più difficili prima di giudicare. Per il mondo del carcere la beatificazione di un magistrato è un messaggio forte e attuale per i magistrati. I giudici hanno in mano le sorti di tanti uomini e donne e perciò chiediamo che anche loro che siano illuminati dalla grazia del Vangelo che coniuga Giustizia e Misericordia sull’esempio testimoniale del Servo di Dio, Livatino. Un Santo Natale nella pienezza della Luce e della Speranza, cibo della nostra Fede cristiana”. Ricucire la vita dietro le sbarre di Alessandro Gassmann La Repubblica, 25 dicembre 2020 #GreenHeroes. La nostra eroina di Natale è la top manager Luciana Delle Donne. Che dà una seconda chance ai detenuti. Il primo marzo del 1973 usciva The Dark Side of The Moon, il famoso disco dei Pink Floyd. Un riassunto di quegli aspetti nascosti che, insieme a quelli visibili, compongono l’individuo. Noi vi racconteremo come una top manager ha trovato il modo per far brillare due parti nascoste della società. Leccese trapiantata a Milano, intorno al 2000 Luciana Delle Donne è considerata una delle professioniste più importanti nel mondo della finanza europea. Un élite che la manager decide di abbandonare per tornare in Salento. Luciana, la donna che ha sviluppato e realizzato la prima banca virtuale in Italia, ha capito che l’innovazione si fonda sulla capacità di individuare il valore da altri punti di vista. È nei magazzini di materiale inutilizzato e nelle carceri che trova una grande ricchezza inespressa, una ricchezza economica, sociale e ambientale. Ed è da lì che inizia a realizzare la sua nuova idea, creando Officina Creativa, e subito dopo lanciando due brand: Made in carcere e 2nd chance. Marchi attraverso cui offre package e accessori personalizzati realizzati con tessuti inutilizzati, materiali di recupero, fondi di magazzino impiegando detenute e detenuti. Il dolore è una perdita di tempo che nessuno può permettersi, sostiene Luciana, che vuole che tutti tornino a brillare, persone e cose. Ma quel brillìo, nato da un progetto di economia totalmente circolare, non è solo reddito ma anche una nuova ricchezza misurabile attraverso il Social Impact e il risparmio delle risorse. Un indicatore che concorre a creare il Benessere Interno Lordo del nostro Paese. Oggi in 6 istituti penali e in 10 “sartorie sociali” si produce benessere dando luce al “lato oscuro” della nostra società. Luciana Delle Donne, che ha saputo dar vita a un modello già studiato nelle università, merita di far parte dei #GreenHeroes. Il teatro in carcere: arte tra riscatto e speranza di Giulia Zennaro buonenotizie.it, 25 dicembre 2020 La pandemia ha sbarrato la strada a molti esperimenti, ma fondazioni e privati potrebbero sbloccare l’impasse. Cos’è il teatro in carcere e quali sono i suoi reali benefici? Il teatro in carcere è spesso visto erroneamente come un’evasione (scusate il gioco di parole) imperdonabile per una categoria di persone a cui attribuiamo l’etichetta di “irrecuperabili”. In realtà questa forma d’arte entra dietro le sbarre non solo per dare speranza a chi si avvicina a lei, ma anche per insegnarci qualcosa su un mondo ignorato. Come è nato il teatro in carcere: la storia di Rick Cluchey - Se esiste il teatro in carcere nel nostro paese, il merito è anche di Rick Cluchey: la sua storia è un’incredibile parabola di riscatto e vocazione artistica. Ergastolano detenuto a San Quentin per rapina a mano armata e sequestro di persona, si avvicina al teatro per caso, quando una compagnia mette in scena una rappresentazione per i detenuti di Aspettando Godot di Samuel Beckett. Per Rick è amore a prima vista: la sua sensibilità riconosce nell’assurdità dell’attesa eterna e logorante la sua condizione di emarginato dietro le sbarre. È così che fonda una compagnia amatoriale di teatro in carcere, il San Quentin Drama WorkShop, con cui mette in scena le opere di Beckett. I critici accorrono, forse aspettando di trovarsi davanti attori impacciati e mediocri: invece la genuinità con cui i detenuti mettono in scena le tematiche del drammaturgo irlandese li colpiscono al punto da far arrivare la voce fino a Beckett in persona. Rick Cluchey ebbe dunque la possibilità di lavorare a tu per tu con il suo idolo: e quando fu rilasciato nel 1966 per alti meriti artistici, il sodalizio divenne inscindibile. Nel nostro paese il teatro in carcere ebbe una spinta proprio per merito di Cluchey. Dopo la tournée del 1984 organizzata da Pontedera Teatro in cui la compagnia di San Quentin mise in scena le opere di Beckett, si rinvigorì così l’interesse per l’esperimento sociale che il teatro in carcere rappresentava. Il Living Theatre e l’esperimento sociale di The Brig - Negli anni Sessanta la compagnia americana del Living Theatre aveva indagato il legame tra teatro e carcere con il coraggioso spettacolo The Brig. Basato sulla reale esperienza dietro le sbarre dell’ex marine Kenneth Brown, il testo descriveva in tutta la sua semplice brutalità la giornata tipo dei detenuti. La regista Judith Malina trasformò lo spettacolo in un vero esperimento sociale: rigidamente divisi tra carcerati e secondini, gli attori vivevano e provavano in un clima di costante terrore e ansia. La realtà aveva smarginato nella finzione e la sofferenza degli attori, puniti brutalmente dai loro compagni, era reale e comunicava orrore agli occhi del pubblico. Tanto che Judith Malina sintetizzò così The Brig: “Com’è possibile assistere a The Brig e non voler abbattere le mura di tutte le prigioni?” Il teatro in carcere oggi - Nel nostro paese gli esperimenti di teatro in carcere sono molteplici e il tema ha ricevuto risonanza internazionale: pensiamo all’Orso d’Oro al Festival di Berlino ottenuto dal film Cesare deve morire dei fratelli Taviani. La Compagnia della Fortezza di Volterra, fondata da Armando Punzo, è sicuramente l’esperienza più conosciuta. La formazione teatrale dà la possibilità al detenuto di acquisire un mestiere, oltre ai benefici “immateriali”. Ma quali sono, in sostanza i benefici del teatro per un carcerato? Oltre alla significativa riduzione delle recidive per chi partecipa a queste iniziative, il teatro offre a chi è dietro le sbarre l’occasione di relazionarsi in modo sano con l’altro. La disciplina, l’autocontrollo, il rispetto delle regole, oltre alla possibilità di esprimere se stessi senza giudizio: il teatro può rappresentare la speranza di vedere un futuro oltre le sbarre. O di mantenere il contatto con il mondo esterno e le emozioni umane, per non trasformare il “fine pena mai” in un inferno. Ora il Covid ha chiuso artisti e detenuti in un unico carcere: quello dell’inattività. Ma una speranza arriva per il futuro: quella della generosità dei privati e delle imprese, che rappresentano la principale fonte di sostentamento per il teatro in carcere. Al carcere minorile Beccaria, per esempio, il laboratorio teatrale è stato stroncato dal virus. Ma Fondazione Cariplo ha stanziato 32000 euro per la ripartenza. Correnti e pm narcisi rischiano di demolire l’ordine giudiziario di Salvatore Prisco Il Riformista, 25 dicembre 2020 Prima storia. Sul Corsera Francesco Giavazzi, economista bocconiano (particolare non di poco conto), scrive un editoriale sulle riforme che necessitano all’Italia e, volando di palo in frasca, ma sempre parecchio al di sopra del suo specifico professionale, propone che i magistrati siano controllati da qualcuno che dall’esterno verifichi tra l’altro se sono presenti ogni giorno in ufficio. Un delirio aziendalistico tipico del suo ateneo, il cui rettore Gianmario Savona la pensa allo stesso modo dei colleghi e ha qualche emulo americaneggiante anche alla Federico II. Gli rispondono, prostrandosi alla brillante idea, il nuovo (eletto dopo faticosissimo parto) presidente dell’Anm e un membro del Consiglio nazionale forense: “Siamo pronti - è, in sostanza, il messaggio comune - dateci le risorse e vedete come vi restituiremo una produttività da fabbrica fordista”. A questo punto, cinque davvero egregi magistrati (ne conosco un paio e per loro sono disposto a emulare Muzio Scevola, ma avrete notato che in questo articolo non si fanno nomi, si segnala un problema) prendono il cappello e sbattono la porta: “È troppo aderire a una cultura aziendalistica per una funzione dello Stato, non per questo abbiamo combattuto le nostre battaglie associative”. Poi è venuto il documento dei ventuno: una denuncia forte, vibrante, alta. Non più maretta, ormai una tempesta. Non si potrà minimizzare, da parte dei vertici associativi. Seconda storia. A dimettersi (forse avrebbe dovuto farlo con una lettera alla struttura presso l’ufficio in cui lavora, quello partenopeo, ma per ora ha scritto a Roma agli organi centrali) è stato anche il candidato fantomas a tutto che - sperando che non faccia la fine di sora Camilla, quella che tutti la vogliono e nessuno se la piglia - per il momento è corteggiato dal centrodestra, ieri per la presidenza della Regione, oggi per la carica di sindaco di Napoli, il tutto mentre svolge con una mano un lavoro concettualmente caratterizzato dall’imparzialità e con l’altra saluta da remoto, come oggi necessario, Berlusconi, Meloni e Salvini. Non sentendosi difeso con calore sufficiente dalla vicepresidente dell’Anm, altro magistrato locale, nella sua “criptoambizione”, ha fatto il beau geste riferito. L’Anm è un corpo intermedio essenziale alla dialettica democratica. Fondata agli inizi del Novecento, dopo il delitto Matteotti, piuttosto che arrendersi al regime che voleva scioglierla d’autorità, preferì suicidarsi. Riformatasi nel secondo dopoguerra e dopo una prima fase articolatasi in correnti portatrici di visioni diverse del ruolo e della funzione della corporazione, col tempo è scaduta a palestra di carrierismi destinati a sfociare nel parlamentino dell’ordine, il Csm: quello del caso Palamara, tanto per capirci. Del resto era impensabile che la crisi di senso e di rappresentanza della società italiana non investisse anche i magistrati, che sono cittadini di questa Repubblica, non certo abitanti di Marte. Le storie ricordate segnalano lo Scilla e il Cariddi da cui il corpo deve guardarsi: la chimera sbagliata dell’aziendalizzazione e il narcisismo politicistico di alcuni pubblici ministeri, che già tanti danni ha recato al Paese, ora vellicato qui dalla parte opposta di quella sinistra che negli anni gli ha offerto confortevole dimora, per assecondare il populismo giustizialista di una parte dell’elettorato. La rotta da seguire tra opposte insidie è che i magistrati tornino - come beninteso vogliono tanti fra loro, che però dovrebbero farsi sentire di più - a quello che la Costituzione prescrive debbano essere “soggetti solo alla legge”, ricordando che la moglie di Cesare non dev’essere solo imparziale, ma anche mostrarlo. “Dimettersi dall’Anm non è la soluzione”, Amura replica ai dissidenti di Viviana Lanza Il Riformista, 25 dicembre 2020 La premessa è che i temi sono complessi e le motivazioni alla base delle dimissioni che negli ultimi tempi hanno messo distanza tra alcuni magistrati napoletani e la Anm sono varie, per cui generalizzare rischierebbe di generare errori e confusione. Detto questo, la posizione della giunta esecutiva dell’Associazione nazionale magistrati di fronte alle dimissioni di nove magistrati e al documento sottoscritto da ventuno colleghi (non tutti, quindi, dimissionari) è sintetizzata dal presidente Marcello Amura. “A mio modo di vedere - spiega - il nuovo Csm sta operando meglio del precedente e sicuramente con logiche di maggiore trasparenza e maggiore autoregolamentazione delle scelte. Il tema è complesso - aggiunge, facendo riferimento alle dimissioni di alcuni iscritti - è il tema del rapporto tra le correnti e i consiglieri del Csm, è il tema più ampio della riforma della legge elettorale di cui si sta discutendo ampiamente anche in Parlamento”. Motivazioni che vengono da lontano, dunque. “Io - commenta - non sono per la demonizzazione delle correnti in seno alla magistratura, laddove non si trasformino in luoghi di gestione del potere, in strumenti di elaborazione del consenso e strumenti dove si gestisce il potere. Non bisogna confondere l’importanza di un fenomeno come quello associativo con le sue degenerazioni. La soluzione - afferma il presidente della giunta napoletana - non è abolire le associazioni o dimettersi dall’Anm, ma cercare di riformarle o cercare di riformare la cultura di fare associazione, ed è quello che mi anima e mi auguro animi anche i colleghi che regalano il proprio tempo all’associazione”. Amura fa riferimento al valore dell’associazionismo: “L’associazione va intesa come il luogo dove si elaborano idee di magistratura e si tutela, in chiave anche sindacale, la magistratura”. Il presidente non teme il rischio di un’emorragia di iscritti nel distretto di Napoli, si dice amareggiato per le critiche del dimissionario Paolo Itri e sottolinea l’importanza del dialogo: “Ritengo che le dimissioni non siano mai la soluzione, perché il rifiuto della partecipazione è a priori perdente. L’associazione è su base democratica e si fonda su organi elettivi, per cui chi ha idee nuove e progetti culturali da portare avanti può farlo tranquillamente anche all’interno dell’Anm. La lotta per gli ideali e per la riforma - sostiene il presidente - si fa all’interno dell’associazione, invece come al solito si confonde l’istituzione associazione con coloro che l’hanno rappresentata e non si prova a cambiare insieme l’associazione. Le dimissioni, al di là del clamore mediatico che provocano, non sono una risposta efficace per affrontare i problemi dell’associazione”. In questo contesto risulta caso a sé quello del magistrato Catello Maresca che nei giorni scorsi ha rassegnato le dimissioni dall’Anm ma per motivazioni che, più che a questioni culturali e ideologiche, sembrano attenere alla sua sfera privata e in particolare alle richieste di fare chiarezza sui rumors relativi al suo possibile ingresso in politica come candidato a sindaco di Napoli e sui contatti con esponenti del centrodestra locale e nazionale. Per il resto, gli otto dimissionari sono magistrati che non condividono la linea culturale e politica dell’Anm: qui il dissenso si concentra sui macro-temi della giustizia, sui problemi atavici e quelli provocati dall’attuale pandemia. “Veniamo da un anno in cui c’è stata un’emergenza sanitaria e - precisa Amura - noi, come Associazione magistrati di Napoli, siamo stati sempre presenti e abbiamo interloquito con i capi degli uffici per garantire ai magistrati condizioni di sicurezza”. La struttura verticale del Palazzo di Giustizia non ha aiutato: “Se non ci fosse stata la trattazione scritta con modalità telematica, che ha evitato il grande afflusso di avvocati in tribunale, sarebbe stata una tragedia per il settore civile. Purtroppo il Palazzo di Giustizia di Napoli si sviluppa in verticale ed è inadeguato per la gestione del rischio pandemico”. Il pericoloso virus del carrierismo nella giustizia che infligge calvari a persone innocenti di Lorenzo Diana articolo21.org, 25 dicembre 2020 Da una vita di lotta alla camorra ad indagato innocente, la storia di come un “semplice” indagine avviso di garanzia mi abbia cambiato la vita in un istante ed esposto a cinque anni e mezzo di gogna mediatica. Solo pochi giorni fa il GIP Marco Giordano, su richiesta del pm Catello Maresca della procura di Napoli, ha archiviato l’ultima delle due indagini aperte sul mio conto. Quella relativa ad un presunto abuso d’ufficio nella nomina di un avvocato, che, da presidente del Caan, il Centro Agroalimentare di Napoli (il mercato), avevo dovuto nominare per la difesa nel giudizio contro la società Cesap, appartenente ad un noto camorrista tuttora detenuto. Nell’altra indagine per un presunto concorso esterno in associazione camorristica mi veniva rivolta l’accusa di essere stato “facilitatore” del clan nella realizzazione della metanizzazione del mio territorio da parte della cooperativa Cpl-Concordia, azienda leader del settore, nei primi anni 2000. Accusa quest’ultima più infamante per me, impegnato da una vita a combattere la camorra e scortato da oltre 20 anni per le minacce di morte del cosiddetto “clan dei casalesi”. Tale indagine, basata su fumose accuse, rivelatesi del tutto false, del capoclan casalese, Antonio Iovine, divenuto poi collaboratore, è stata archiviata ad agosto 2019, su richiesta dello stesso pubblico ministero. Nella stessa vicenda i dirigenti dell’impresa cooperativa Cpl, rinviati a giudizio, furono tutti assolti, perché il fatto non sussisteva, a luglio 2017. Già in tale sentenza, che riguardava altri imputati, il Tribunale di Napoli nord valutò l’impegno del senatore Diana per la realizzazione della rete del metano come una corretta azione del ruolo istituzionale per il miglioramento del territorio. Due indagini, due avvisi di garanzia, notificatimi contemporaneamente dai carabinieri all’alba del 3 luglio 2015, con i quali mi furono imposti il divieto di dimora nella regione e l’interdizione annuale dai pubblici uffici. Entro la mezzanotte fui costretto a lasciare casa e spostarmi fuori regione, giusto il tempo di fare una valigia ed abbracciare i miei familiari. Mandato via come un pericoloso criminale. Quella mattina mi trovai di fronte a due facce dello Stato, da una parte quella rappresentata dai miei agenti di scorta, che mi tutelavano dalla camorra e dall’altra quella rappresentata da carabinieri, che invece mi cacciavano da casa come un bandito. Il ricordo di dolore di quella giornata resta come una cicatrice che non si cancella. Allontanato da casa, fui fatto decadere dalla carica di presidente del Caan, dove ero stato chiamato dal sindaco di Napoli per salvare il mercato dal fallimento e dal licenziamento di 140 lavoratori, rientrati al lavoro grazie al mio impegno. Da quel giorno un semplice avviso di garanzia sospese la mia vita privata, sociale, politica, istituzionale e niente potrà restituirmela, nemmeno il sopraggiunto provvedimento di archiviazione delle indagini. In un istante passai da simbolo dell’antimafia a colluso e corrotto. Venivo ridotto a complice della camorra, malgrado la mia vita di lotta contro il clan, che avevo condotto fin dalla gioventù quasi in solitudine, con moltissimi rischi e pochi compagni, fra cui Renato Natale ed un esiguo gruppo, quando lo Stato, la magistratura, giornalisti e scrittori erano del tutto assenti, per quasi un ventennio, dal nostro territorio, sempre più dominato dal clan. Non riuscivo a crederci. Io mi battevo da una vita contro la camorra e lo Stato mi accusava. Era troppo forte il contrasto tra accuse false e vendicative di camorristi, da me sempre combattuti, denunciati e fatti arrestare, e la verità riscontrabile in mille modi, negli atti di procure, prefetture e comandi delle forze di polizia, nelle mie attività istituzionali. Di tutte le mie attività di contrasto alla camorra diedi piena informazione ai pm con una corposa e dettagliata memoria, consegnata dal mio ottimo avvocato, Francesco Picca. Del resto lo Stato sapeva tutto di me, disponendo anche del diario di bordo della scorta che da vent’anni mi accompagnava sempre, tranne le poche ore in cui dormivo. Per quale ragione non sono state riscontrate, come si doveva, quelle assurde incriminazioni rivoltemi, tanto più perché lo Stato mi riteneva in pericolo ed esposto di fronte alla camorra? Le accuse di connivenza, palesemente non verosimili agli occhi di chiunque avesse un po’ di competenza in materia, potevano decadere in poco tempo, se adeguatamente e presto riscontrate. Io stesso avevo chiesto di poter contribuire a far chiarezza, ma fui ascoltato, solo dopo tre anni, nonostante le mie svariate richieste. Nell’interrogatorio anche i pm convennero sulle dichiarazioni da me precedentemente rese, giungendo ad archiviare l’indagine nei mesi successivi. Colpiva la grossolanità delle indagini. Le attività investigative hanno fatto ricorso anche a documentazione fuorviante, prodotta da uomini delle forze di polizia, già allontanati per infedeltà. Ho dovuto segnalare ai pm un uso distorto e parziale di atti pubblici, che capovolgeva la verità. Veniva trasformata in compiacenza la mia ferma opposizione ai tentativi delle famiglie dei boss di riappropriarsi di beni confiscati. Ma il provvedimento di archiviazione dell’indagine, correggendo le indagini, ha dato atto al mio contrasto al clan su tale fronte. Tutto il mio impegno di lotta alla camorra veniva ignorato insieme alla montagna di documentazione probatoria, che spazzava via le bugie dei camorristi. Sembrava scomparire tutto ciò che attestava la mia storia di nemico del clan. Nella valutazione dei fatti venivano oscurati e non presi in considerazioni tanti aspetti: 1) una vita con gravissime intimidazioni del clan, che spinsero il prefetto ad impormi di essere collocato sotto scorta di secondo livello con due auto e cinque agenti, all’indomani dei 150 arresti dell’operazione Spartacus 1 del 5 dicembre 1995. 2) la storia della condanna a morte, decisa in un apposito summit dai capi del clan, fra cui Iovine, Schiavone e Zagaria, che avevano dato ordine ai propri uomini di mettere in atto un attentato dinamitardo contro l’auto della mia scorta, fortunatamente scoperto dalla polizia. 3) la storia di tanti atti intimidatori del clan, messi in atto contro me anche in una plateale sfida allo Stato, in presenza del procuratore Pierluigi Vigna e don Luigi Ciotti. 4) la storia della lettera intimidatoria scritta ed inviata dal capoclan Schiavone (detto Sandokan), da una cella di un carcere di massima sicurezza sotto regime di 41 bis, nell’agosto 1998, minacciando di “interessarsi” ai miei figli, se io non avessi smesso di combatterli. 5) una vita di trentennale collaborazione, gomito a gomito, con lo Stato e le sue massime rappresentanze istituzionali, da magistrati a procuratori, da capi della polizia a prefetti, per arrivare sino a capi di Stato. In tale contesto di sinergie istituzionali significativo fu il forte segnale di sostegno dato dal presidente Ciampi con la sua presenza nel mio Comune natale, San Cipriano d’Aversa (noto ai più solo a seguito di Gomorra), il 9 dicembre 2003, nel giorno del suo compleanno. Ancora oggi non trovo spiegazioni al fatto che negli atti delle indagini siano state inserite le più svariate accuse contro la mia persona, poi tutte decadute, ma non il dirimente interrogatorio del braccio destro del capo Michele Zagaria, il quale dichiarava al pm Giordano che il nemico politico numero uno del clan era Lorenzo Diana, perché inavvicinabile e sempre in “guerra antimafia”. Lo stesso boss Antonio Iovine, incalzato dal presidente Francesco Chiaromonte nell’udienza del 1.4.2016, dovette rinnegarsi riconoscendo che “tutti, capi, aggregati ed affiliati del clan “ritenevano Lorenzo Diana il nemico che li faceva arrestare”. Più volte mi sono posto interrogativi su aspetti e uomini delle indagini sul mio conto, sull’uso di elementi che facevano a pugni con la verità, sui verbali di false accuse di camorristi e delinquenti, arrestati con mie denunce, che dopo qualche giorno apparivano integralmente sulla stampa come verità infamanti della mia persona, senza alcun riscontro. Quanti interrogativi sorti sulle attività investigative della polizia giudiziaria, svolte da uomini del Noe, il nucleo operativo di cui alcuni suoi dirigenti sono stati rinviati a giudizio per depistaggio, dal maggiore Scafarto, fino a poco fa assessore in una giunta di centrodestra, al colonnello Sessa, arrestato mesi fa con accuse gravi. Ulteriori interrogativi pone il racconto del procuratore generale di Modena al Csm sulla visita del colonnello De Caprio e del maggiore Scafarto, intervenuti in strano modo per l’inchiesta CPL. Mi colpiva anche la durezza dell’atto giudiziario, la ferocia delle parole utilizzate negli avvisi di garanzia per descrivermi: “solo formalmente incensurato”, “personalità doppiamente trasgressiva”, “senza remore a commettere reati”. Mi si descriveva come un delinquente, falso paladino della legalità. Più volte mi sono chiesto cosa autorizzasse alcuni magistrati ad utilizzare queste parole, che fanno a pugni con un linguaggio giuridico. A loro spetta accertare reati e non certo assegnare giudizi e pagelle morali agli indagati. Da tempo si manifesta qualche tendenza strisciante a considerarsi tribunale morale, autorità superiore rispetto ad una società corrotta ed ancor più nei confronti delle istituzioni e della politica, considerata tutta criminogena, da colpire e punire comunque. In una tale visione tutti i cittadini possono essere ritenuti colpevoli, a prescindere dalla certezza delle prove, e possono essere sottoposti, appena indagati, ad un anticipato giudizio mediatico, tanto hanno sempre una colpa di peccato originale da espiare. Sembra che siano proprio alcuni pubblici ministeri a non credere essi stessi al processo giudiziario e ad affidarsi invece all’immediato processo mediatico, che diventa la pena inflitta subito all’indagato, anche se innocente. In una tale cultura si affievolisce l’onere della prova e si annienta lo Stato di diritto. Ci ritroviamo di fronte agli effetti devastanti di una deriva culturale, quanto mai velleitaria perché nessun organismo può ritenersi “autorità morale superiore, nemmeno la magistratura, come ha ancor più svelato la vicenda Palamara, in cui compare anche un pm che ha dato avvio alle indagini sul mio conto. Se nemmeno i cardinali hanno mostrato di poter essere estranei alle dinamiche umane ed alle logiche dei poteri, figurarsi se possa esserne esente la magistratura. Una determinata tendenza si configura come un pericoloso virus di autoritarismo, presente in pezzi di polizia giudiziaria e magistratura, che si sentono essi stessi la legge, essi stessi lo Stato e pertanto autorizzati ad agire anche al di sopra della legge. Da tale deriva nasce anche una tendenza di magistrati a sostituirsi ai politici, come se fossero legittimati dall’appartenenza alla funzione inquirente. Un virus di autoritarismo che trova ancor più facile attecchimento nel protagonismo mediatico e nel carrierismo, denunciato anche all’interno della stessa associazione nazionale magistrati. Mi sono state scagliate addosso vergognose accuse false ed ho scelto di difendermi a testa alta, sempre nel pieno rispetto delle funzioni della magistratura e del principio che tutti- io compreso- possano essere sottoposti ad indagine. Non ho mai contestato il principio di sottomissione a controllo di legge ed indagini, ma ho contestato e contesto l’insopportabile ed ingiustificata lunghezza, l’uso abnorme ed ingiustificato di misure cautelari e l’alimentazione di un terrificante un processo mediatico. Si poteva indagare bene e presto, senza misure cautelari, platealmente annunciate sui media, ma revocate poco dopo dal Gip e dal tribunale del riesame. In questi anni sono stato condannato ad un’orribile gogna mediatica, sbattuto come un delinquente su giornali e televisioni, senza che nemmeno fossero completate le indagini. Una gogna del tutto gratuita ed infondata, come poi hanno riconosciuto anche i pm. Allora perché infliggere a persona innocente una tale pena? La mia è una vicenda emblematica, che purtroppo riguarda tantissimi altri italiani. So di non essere l’unica vittima di simili barbarie, indegne di uno Stato di diritto. Troppo spesso il processo mediatico si sostituisce a quello giudiziario e la si smetta di parlare di fuorvianti fughe di notizie. Chi potrà restituire la dignità calpestata dalla gogna mediatica, ad una persona, che gli stessi pubblici ministeri ritengono innocente? Si può ulteriormente tollerare in un paese moderno che una persona incolpevole possa pagare, senza alcun motivo, la sospensione dei propri diritti, il peso di una gogna mediatica e di misure cautelari, che stravolgono la vita? Possono un mero avviso di garanzia ed ipotesi di accuse infondate trasformarsi in una condanna inappellabile di distruzione dell’immagine della persona? Mi dispiace che talvolta sia parte della stessa magistratura a fare un cattivo servizio alla stessa giustizia ed a gettare sfiducia e discredito verso la stessa. Tutta la mia vicenda giudiziaria ha anche indebolito il già fragile fronte di società schierata con la legalità nel regno del clan casalese, perché se lo Stato trasmette il messaggio, immotivato e falso, che sono conniventi anche i nemici del clan, si fa un regalo alla criminalità. Sarebbe come dire tutti camorristi, nessuno camorrista, dando ulteriore brodo alla cultura che fa da principale humus all’illegalità diffusa. Durante questi anni più persone mi hanno chiesto se ne fosse valsa la pena di lottare contro la camorra per poi finire sotto indagine, essere delegittimato dalla magistratura e pericolosamente esposto contro un clan che mi considera nemico. A loro ho risposto: “Rifarei tutto, la lotta alla camorra è un’irrinunciabile battaglia di libertà e di civiltà”. Nella mia vita ho sempre lottato sapendo di dover rimuovere grandi difficoltà e contraddizioni nelle istituzioni”. Oggi sono ancor più convinto che bisogna impegnarsi a riformare la giustizia, che così assolutamente non va: non punisce efficacemente i colpevoli ed arreca problemi e sofferenze anche agli innocenti. Oggi è un ostacolo alla modernizzazione del nostro paese. Per tale ragione aderirò ad associazioni per la riforma della giustizia per dare anche il mio contributo, mentre accoglierò anche l’invito dell’associazionismo antimafia a riprendere il mio impegno, sospeso dopo l’avviso di garanzia. Nulla potrà più restituirmi i cinque anni e mezzo di vita sospesa, ma vorrei che nessun altro cittadino innocente debba subire ancora indagini lunghissime, pene preventive e gogne mediatiche, non più recuperabili nemmeno in caso di proscioglimento o assoluzione. La giustizia va assolutamente riformata per non scivolare sempre più verso la barbarie. Il Parlamento, il Csm e la stampa non possono ulteriormente sottrarsi a tale responsabilità. La crisi della giustizia parte da vari pm di Fabrizio Cicchitto Libero, 25 dicembre 2020 Non è stata una buona settimana per i pubblici ministeri che attivano l’azione penale con evidenti intenzionalità politiche. Il caso più clamoroso è senza dubbio quello di Calogero Mannino. Mannino è un caso di scuola, egli è stato una sorta di ostaggio, di sequestro di persona di lunghissima durata, circa 30 anni. Siccome egli ha avuto il gravissimo torto di essere assolto in ogni processo, poiché le sue assoluzioni contraddicevano il teorema sulla trattativa Stato-mafia costruito da un nucleo militante combattente di pm della procura di Palermo, costoro hanno sempre fatto ricorso in ogni processo percorrendo tutti i gradi di giudizio, dall’Assise fino alla Cassazione. Così gli anni sono diventati circa 30, il numero dei processi si è moltiplicato e Mannino è rimasto sulla graticola perché ogni sua assoluzione è stata vissuta come una provocazione e si è fatto anche qualche anno di galera. A quanto sembra adesso siamo arrivati alla fine del ciclo e questa assoluzione, avvenuta in anticipo rispetto al ramo principale del processo sulla trattativa Stato-mafia perché egli e il suo avvocato Grazia Volo hanno scelto il rito abbreviato, non solo rappresenta un momento fondamentale per la storia personale di Mannino, ma costituisce un’anticipazione di non piccolo conto rispetto alla vicenda processuale principale. Non a caso, per sminuirne l’impatto, l’ex pm Ingroia ha dichiarato che nel rito abbreviato i magistrati giudicanti reggono le carte delle deposizioni dei testimoni e non li sentono direttamente. Con questo criterio allora il rito abbreviato dovrebbe essere eliminato. Comunque oltre a questo caso principale ci sono stati una serie di episodi significativi, l’uno diverso dall’altro, che però si sono conclusi con uno scacco dei pm, dal caso Nunzia De Girolamo (assoluzione a fronte della richiesta di 8 anni di galera), alla vicenda giudiziaria di Diana, a Tallini (arresti domiciliari e relativa demonizzazione) e poi al sindaco di Roma Virginia Raggi. Va detto che a parte quest’ ultimo caso, che ha avuto una notevole eco in tutti gli altri casi, compreso quello di Mannino, c’è stato un enorme squilibrio fra il rilievo dato dalla stampa nel momento dell’accusa, dell’arrivo dell’avviso di garanzia, non parliamo dell’arresto, con la notizia delle successive delibere di proscioglimento o di assoluzione date con il minimo del rilievo possibile. Ciò è determinato anche dall’esistenza di catene di solidarietà o di “circoli mediatici” che legano singoli magistrati inquirenti o nuclei di essi a cronisti giudiziari e a correnti politiche. Ma il potere di questi nuclei di pm è molto rilevante e va al di là di questi aspetti. Siccome alcuni pubblici ministeri hanno forti interconnessioni mediatiche con i cronisti giudiziari essi godono di grande notorietà che pesa anche in occasione delle elezioni all’interno della magistratura per il Csm. Così avviene che malgrado che i magistrati giudicanti sono molto più numerosi degli inquirenti, sono questi ultimi largamente maggioritari nel Csm. Di conseguenza i magistrati inquirenti sono decisivi anche sulle carriere dei magistrati giudicanti, quindi il nesso fra gli uni e gli altri è molto più forte di quello che viene solitamente invocato, cioè l’appartenenza alla stessa corporazione, la consuetudine nei rapporti personali. Questa è la ragione per cui vengono fatte le barricate per evitare l’unico vero provvedimento riformatore della giustizia, quale sarebbe lo sdoppiamento delle carriere, con la conseguenza di due Csm, uno per la magistratura giudicante e l’altro per la magistratura inquirente. In ogni caso si può far finta di non capire e di non sapere, ma riempiremmo le pagine di questo giornale se facessimo l’elenco di magistrati che sono entrati in politica, eletti, e poi magari ritornati in magistratura. Alcuni casi sono stati eclatanti: D’Ambrosio e Di Pietro dal pool di Mani Pulite in parlamento, eletti dal Pds, anche Emiliano non è un caso da poco, da pm inquirente su autorevoli uomini politici pugliesi a sindaco di Bari a presidente della Regione Puglia. Questo è il Paese, unico in Europa, nel quale ben 5 partiti (la Dc, il Psi, il Pli, il Pri, il Psdi) sono stati eliminati dal parlamento non direttamente dagli elettori, ma in seguito ad una serie di unilaterali iniziative giudiziarie (unilaterali perché i massimi dirigenti del Pci-Pds e della sinistra democristiana sono stati salvati perché “potevano non sapere”). Ciò detto, i passaggi di carriera fra la magistratura e la politica vanno valutati negativamente quale che sia lo schieramento politico di riferimento. Su questo terreno certamente Napoli è caratterizzata da una situazione radicalmente negativa a partire dal suo sindaco De Magistris. A nostro avviso, però, non è una buona ragione quella di candidare come contrappasso per il centro-destra un pm che proprio in questa città ha svolto larga parte della sua attività e che con questa qualifica spesso si presenta in trasmissioni televisive. Appello per il vaccino Covid-19 ai detenuti e al personale penitenziario cosenzachannel.it, 25 dicembre 2020 La Giunta e l’Osservatorio Carcere chiedono che, una volta disponibile il vaccino Covid, sia data priorità anche ai detenuti. Il vaccino sembra stia per giungere in Italia anche se, quando arriverà, non sarà disponibile per tutti. Sarà necessario stabilire delle priorità. Da quello che apprendiamo dai media, la precedenza sarà data, giustamente, ai cittadini più vulnerabili e più esposti. Tra questi, i lavoratori del settore sanitario, gli ultra sessantenni, i malati cronici, i pazienti con più malattie, i lavoratori dei servizi essenziali, come insegnanti, forze dell’ordine, in pratica chiunque viva in situazioni dove non possa essere garantito il distanziamento fisico. Non abbiamo letto, né sentito - augurandoci di essere stati distratti - tra i destinatari del vaccino le persone detenute che, da un punto di vista sanitario, erano già vulnerabili ben prima dell’arrivo del Covid 19 e oggi vivono in uno stato di esposizione “naturale” - o meglio “innaturale” - al virus, per il ridottissimo spazio a loro disposizione, nella maggior parte dei casi, estremamente carente dal punto di vista igienico e, quindi, foriero di ogni tipo di malattia. Donne e uomini affidati allo Stato, che deve punirli sì, ma anche “rieducarli”, salvaguardandone l’integrità fisica, assicurando loro piena ed effettiva inclusione nelle misure adottate all’esterno per risolvere, in via definitiva, il flagello virale. Nemmeno il personale dell’amministrazione penitenziaria che, per ragioni di lavoro, è a diretto contatto con la comunità ristretta, sembra essere nell’elenco delle priorità. Dai dati regionali che pervengono all’Osservatorio Carcere dell’Unione dalle Camere Penali, da quelli locali e nazionali che, finalmente, il Ministero della Giustizia ha reso pubblici, l’infezione si sta diffondendo in maniera esponenziale e a macchia di leopardo in tutti gli istituti di pena. Al 7 dicembre scorso, i positivi tra i detenuti erano 958 (868 asintomatici, 52 sintomatici gestiti internamente, 38 gestiti in strutture ospedaliere), tra il personale di polizia penitenziaria 810 (771 in degenza presso il proprio domicilio, 25 presso le caserme, 14 presso strutture ospedaliere), tra il personale amministrativo e la dirigenza 72 (71 in degenza presso il domicilio, 1 in struttura ospedaliera). Va anche ricordato che il pianeta carcere vive di continui contatti con l’esterno. Per quanto siano stati eliminati o comunque limitati i colloqui in presenza tra detenuti e familiari, gli agenti di polizia penitenziaria devono necessariamente, in alcuni momenti, essere vicino ai detenuti e, spesso, in spazi angusti. Agenti che usciranno per tornare alle loro famiglie, con la paura e il concreto pericolo di poter diffondere il virus. La prevenzione all’interno degli istituti di pena risponde, pertanto, non solo al dovere di tutelare la salute dei detenuti, ma anche ad evitare micidiali focolai che possono minacciare, mettendola ancor più a dura prova, la comunità esterna. Senza tener conto della circostanza che il distanziamento personale in carcere è impraticabile e sono pochissimi gli istituti che possono consentire l’isolamento di chi ha contratto il virus. La politica e la stragrande maggioranza dei media ritengono che nei circa 200 istituti di pena italiani vi sia una sorta di extraterritorialità e che coloro che vivono all’interno delle mura - ristretti o comunque lavoratori liberi - non debbano essere presi in considerazione. Un mondo a parte di cui nessuno si vuole fare carico. Non ci meraviglia, pertanto, che nel dibattito sulle modalità di somministrazione del vaccino, il luogo dove vi sono le persone più vulnerabili e più esposte - dopo il personale sanitario e gli anziani chiusi nelle case di riposo - sia stato ignorato, ma ci auguriamo che la presa in carico avvenga in tempi brevi, nel rispetto di quel patto sociale rappresentato dalla nostra Costituzione. Attendiamo che il Ministro della Giustizia, unitamente al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, predisponga immediatamente il piano operativo per la vaccinazione dei detenuti e di tutti coloro che lavorano negli istituti di pena. Si tratta di oltre 100.000 persone, che vanno immediatamente protette perché quotidianamente a rischio personale e in quanto potenziali diffusori del virus. Torino. “Mamme in piazza”: continua il presidio al carcere delle Vallette di Fabrizio Maffioletti pressenza.com, 25 dicembre 2020 Le Mamme in piazza per la libertà di dissenso continuano il loro presidio settimanale sotto il carcere Lorusso e Cotugno di Torino. Il Presidio, che si è riunito ogni settimana, è cominciato l’8 ottobre ed è stato organizzato in sostegno all’attivista No Tav Dana Lauriola, in carcere dal 17 settembre 2020. Il comunicato di Mamme in Piazza: “Ci sembrava necessario essere presenti a ridosso del Natale - commentano le Mamme in Piazza per la Libertà di Dissenso - un momento delicato per tutte e tutti i detenuti. Per noi è un modo concreto di portare tutta la nostra solidarietà e il nostro affetto a Dana, una giovane donna che per la libertà della propria terra, che è anche la nostra, ha dato tutto - proseguono le Mamme in Piazza - essere presenti ogni settimana ci ha permesso di capire quanto può essere potente la sorellanza e in quanto mamme ci sentiamo in dovere di stare vicino ai nostri figli, soprattutto nei momenti più difficili”. Sì, perché le Mamme in Piazza sono tutte madri di figli antifascisti “che si battono per le uguaglianze sociali e la libertà dei territori, contro lo sfruttamento delle risorse, per un futuro libero e dignitoso per tutti e tutte”. Il presidio ha naturalmente raccolto l’adesione del movimento No Tav che, fin dal primo appuntamento, ha partecipato con bandiere e slogan “Quella di Dana è una sentenza ingiusta - dicono dal movimento No Tav - la sua carcerazione appare come un fulmine a ciel sereno, non si è mai visto che qualcuno finisse in galera per un mezzo blocco autostradale. Quella di Dana è una condizione punitiva verso le sue idee e il suo luogo di residenza (Bussoleno ndr) indicato come luogo criminogeno esclusivamente perché popolato da tantissimi No Tav. È ingiusto - hanno concluso - giudicare e punire le idee”. Il Presidio che solitamente si svolgeva di giovedì, questa settimana si terrà mercoledì 23 dicembre per consentire a tutte e tutti di partecipare prima che ricomincino le restrizioni a causa dell’emergenza covid-19. “Con l’arrivo delle feste pensiamo sia necessario tornare sotto quelle mura per rimettere al centro l’importanza del diritto all’affettività per le detenute e i detenuti, diritto che già di suo è molto risicato, solo tre giorni l’anno, che in questo momento subisce un duro attacco vista la continua sospensione delle visite familiari a causa della pandemia” concludono le Mamme in Piazza. “Partecipare al Presidio sarà importante - rilanciano dal Movimento - perché liberare tutti/e significa lottare ancora”. Cuneo. Covid e carceri, i Radicali chiedono interventi laguida.it, 25 dicembre 2020 Dalla segnalazione della moglie di un detenuto, l’allarme per le difficoltà sanitarie nei penitenziari. La situazione sociale e sanitaria legata al Covid presenta risvolti meno noti, su cui però qualcuno cerca di attirare l’attenzione pubblica: nella giornata di oggi (giovedì 24 dicembre), il gruppo cuneese dei Radicali richiama la situazione del carcere di Cuneo, indicandola come esplosiva e puntando il dito contro il trattamento dei detenuti. Il gruppo Radicali Cuneo ha diffuso una nota in cui cita la segnalazione della moglie di un detenuto risultato positivo al test Covid: “La situazione presso il carcere cuneese pare fuori controllo, i detenuti affetti da Covid sono ammassati in spazi ridotti e non idonei”. Il segretario cuneese Filippo Blengino, insieme al presidente di Radicali Italiani Igor Boni, affermano che si tratta di “una situazione surreale, gravissima e molto pericolosa. I detenuti non sono bestie e non c’è virus che tenga. Chiediamo un intervento urgente da parte del ministro della Giustizia affinché le carceri non si trasformino totalmente in macelli e, proprio a Natale, siamo a chiedere alle autorità locali di intervenire affinché situazioni umane e legali siano ripristinate all’interno degli istituti penitenziari cuneesi”. Milano. Bambini in carcere con i genitori dalsociale24.it, 25 dicembre 2020 Il progetto Genitorialità in carcere della cooperativa Spazio Aperto Servizi, attivo nelle carceri milanesi di Bollate, Opera e San Vittore, compie 15 anni. Molto spesso un genitore che finisce in carcere non riesce a vedere i figli per tanto tempo. Talvolta per l’intera durata della pena. In molte carceri gli incontri avvengono in situazioni per niente familiari. In aree comuni, senza un minimo di intimità, sotto l’occhio vigile della polizia penitenziaria. Esistono poi pochi progetti che prevedono percorsi di sostegno a situazioni familiari di particolare fragilità. Percorsi nei quali sono coinvolti psicopedagogisti, psicoterapeuti, criminologi, mediatori familiari. Tra questi c’è il progetto Genitorialità in carcere della cooperativa Spazio Aperto Servizi. Il progetto, attivo nelle carceri milanesi di Bollate, Opera e San Vittore, compie 15 anni. Anni nei quali ha cercato di tenere vivo il legame tra la persona detenuta ed i suoi figli. Partendo proprio da Bollate nel 2005 ricreando la Casetta, ovvero una stanza accogliente, arredata con divano, cucina, tavolo, giochi per permettere alle famiglie di incontrarsi in un ambiente più familiare rispetto alle solite sale colloqui delle case circondariali. Un anniversario importante che ricade nei giorni in cui si è stata prevista l’istituzione di un fondo ministeriale che permettere di sostenere la vita fuori dal carcere di quei bambini che scontavano la pena con le proprie madri. L’emendamento alla legge di Bilancio, proposto dai deputati Bazoli e Siani, prevede il finanziamento di strutture alternative per detenuti con figli al seguito. Una misura apprezzata dalla Comunità Papa Giovanni XXIII che, attraverso il presidente Giovanni Paolo Ramonda, ha sottolineato che “è fondamentale proporre alle mamme con figli di essere accolte presso vere case famiglia e, laddove questo sia impraticabile per le loro mamme, si liberino questi bambini con il collocamento presso parenti idonei o famiglie affidatarie”. Roma. Ristoratore regala 300 pasti a ex detenuti accolti nelle strutture capitoline romatoday.it, 25 dicembre 2020 Trecento pasti completi sono stati donati questa mattina alle persone provenienti dalla detenzione accolte nelle case di accoglienza di Roma Capitale e nelle strutture comunitarie del privato sociale. L’iniziativa, promossa da Roma Capitale con la collaborazione dell’Associazione Isola Solidale, è stata possibile grazie al gesto di solidarietà di un ristoratore romano, titolare dell’Osteria della Carne, che ha deciso di mettere a disposizione la sua cucina e il suo lavoro a favore di chi vive situazioni di disagio sociale. I 300 pasti sono stati consegnati in diverse strutture della città che accolgono persone provenienti dalla detenzione tra cui anche mamme detenute e i loro figli: Casa Don Puglisi, Casa di Leda, Casa di Ulisse, La Casa Alloggio Teseo, Isola Solidale, Associazione Vic-Volontari in Carcere, Fondazione la Sesta Città di Rifugio Onlus. All’iniziativa hanno preso parte la sindaca di Roma Virginia Raggi, l’assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Daniele Frongia, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale Gabriella Stramaccioni, il Presidente di Isola Solidale Alessandro Pinna e Andrea Valeriani del direttivo di Isola Solidale. “Roma dimostra ancora una volta la sua generosità e il suo spirito di comunità, in una situazione molto difficile come quella che stiamo vivendo. Il nostro impegno per le persone più fragili non si ferma ma è anche grazie ai singoli cittadini e alle loro iniziative di solidarietà che si riesce a fare la differenza. Un ringraziamento sentito a questo ristoratore che ha donato qualche sorriso a chi ha più bisogno”, ha dichiarato la Sindaca di Roma Virginia Raggi. Ha aggiunto l’assessore allo Sport, Daniele Frongia: “La macchina solidale nella città di Roma continua a regalare qualche sorriso e contribuisce a illuminare il periodo buio che stiamo attraversando”. La Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni, ha invece affermato: “Prosegue il nostro lavoro in favore delle persone provenienti dalla detenzione. Con il gesto coraggioso di oggi, di un solo cittadino, tante famiglie, che si trovano in una situazione di grave disagio sociale, hanno potuto vivere un momento di serenità. In questi giorni stiamo completando un percorso di iniziative solidali portate avanti da tempo con l’Associazione Isola Solidale e indirizzate non solo in favore dei detenuti ma anche delle persone ospitate nei circuiti di accoglienza capitolini”. Nuoro. L’enciclica “Fratelli tutti” dono di Natale ai detenuti La Nuova Sardegna, 25 dicembre 2020 I cavalieri dell’Ordine di Malta portano i regali al carcere di Badu e Carros Consegnati anche rosari fatti a mano dalle Carmelitane e 6.200 mascherine. Natale dei detenuti di Badu e Carros con i cavalieri dell’Ordine di Malta. Una iniziativa organizzata alla vigilia della festa per donare ai carcerati un gesto di solidarietà e un segnale di vicinanza. È alla presenza della direttrice della casa circondariale di Badu e Carros, Patrizia Incollu, e delle altre cariche dell’amministrazione penitenziaria, che ieri mattina si è svolta la cerimonia di consegna dei regali per le persone detenute. In quest’anno di pandemia, in cui i normali rapporti tra i volontari del Smom (Sovrano militare ordine di Malta) ed i reclusi sono stati condizionati dal distanziamento sociale e dall’impossibilità di un rapporto diretto, l’Ordine ha voluto manifestare la propria vicinanza con un segno di generosità cristiana. A ciascuna delle 280 persone detenute verrà consegnato un sacchetto regalo contenente: una copia dell’ultima enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti” (offerta dalla Caritas diocesana); un rosario fatto a mano dalle Suore Carmelitane del convento di Cuccullio a Nuoro; una tavoletta di cioccolato (offerta dall’imprenditore O. Sedda); prodotti per l’igiene ed una confezione di mascherine chirurgiche. Sono stati inoltre donati una ulteriore fornitura di 6.200 mascherine ed un riunito odontoiatrico (poltrona del dentista). La partecipazione della Caritas diocesana e delle Suore Carmelitane vuole rappresentare una testimonianza in cui tutta la comunità cristiana si stringe in un pensiero di fratellanza verso le persone detenute. “L’Ordine di Malta è attivo da alcuni anni con gli istituti di reclusione di Badu ‘e Carros e Mamone - conferma il delegato regionale dello Smom, Mario Tola Grixoni - per la donazione farmaci da banco e dispositivi di protezione, accompagnamento e accoglienza durante i permessi, varie iniziative di assistenza alla persona e attività collegate al rinnovo delle patenti, un motivo di speranza per le persone recluse”. Recentemente, nel corso della prima ondata della pandemia, i volontari dello Smom hanno partecipato al progetto “Attivi e solidali”, coordinato dal Comune di Nuoro con il conferimento di derrate alimentari e la facilitazione alle cure sanitarie per le persone in difficoltà. Catanzaro. Il presepe in carcere durante la pandemia Corriere della Calabria, 25 dicembre 2020 “Il presepe è famiglia, è affetto. E proprio per sentire meno lontani i loro affetti e le loro famiglie, i detenuti del carcere di Siano ogni anno si mettono all’opera per rappresentare una natività diversa, che - già solo per il contesto carcerario che fa da cornice - assume un significato profondo”. Con queste parole la direttrice dell’istituto penitenziario, Angela Paravati, spiega il senso della sesta edizione del concorso “Il Messaggio dei Presepi” alla Casa Circondariale di Catanzaro, la cui premiazione si è svolta ieri, nel corso di una manifestazione “a distanza” organizzata dall’istituzione in collaborazione con l’associazione Consolidal Ets, presieduta dall’architetto Teresa Gualtieri. “Il Covid non ha fermato l’evento che è ormai una tradizione” ha commentato l’architetto Teresa Gualtieri, e infatti la manifestazione ha visto la presenza anche del Garante regionale dei detenuti Agostino Siviglia, intervenuto personalmente, ma anche, in videoconferenza, dell’assessore alla cultura del comune di Catanzaro Concetta Carrozza, del direttore dell’ufficio detenuti del Provveditorato regionale Giuseppina Irrera, della consigliera di parità della Provincia di Catanzaro Elena Morano Cinque, del docente universitario a riposo e pedagogista Nicola De Cumis, da anni volontario presso l’Istituto e del dirigente scolastico dell’istituto Petrucci Maresca Elisabetta Zaccone. Sette presepi sono stati realizzati dalle persone detenute presso la Casa Circondariale: sette sfide per far nascere Gesù in carcere durante la pandemia, in un doppio isolamento. Un significato ancora più autentico, essendo la nascita, secondo i Vangeli, avvenuta in una grotta, al freddo, in un ambiente ostile alla vita proprio come è il mondo intero oggi, afflitto dall’emergenza epidemiologica. E così troviamo personaggi dei presepi con la mascherina, tensostrutture e spazi di emergenza medica rappresentati accanto alla capanna con la sacra famiglia, il bue e l’asinello. Un contrasto che fa riflettere: com’è presente la pandemia, è presente anche, ancora una volta, una nascita che rilancia e vince una sfida, contro tutte le previsioni. E si arriva così al presepe in mongolfiera che poeticamente riesce a vincere i mali del mondo elevandosi al di sopra di essi e che ha avuto un premio speciale. Vincitori a pari merito il presepe intitolato Angeli Di Dio e l’opera “Il presepe con il gruppo di preghiera Rinnovamento dello spirito”. Da notare il “dolce Covid” realizzato nel laboratorio di pasticceria dei detenuti dell’Istituto. Il Garante regionale dei detenuti Agostino Siviglia ha apprezzato l’iniziativa affermando: “È stata la risposta migliore che i detenuti potevano dare a questo periodo di isolamento”. Voghera (Pv). Messa di Natale in carcere con Mons. Viola, Vescovo di Tortona Ristretti Orizzonti, 25 dicembre 2020 Anche quest’anno Mons. Viola, Vescovo di Tortona, ha voluto essere tra noi. Oggi, alle ore 10:30, presso il Teatro di questa Casa Circondariale ha celebrato la S. Messa di Natale assieme al nostro cappellano, Don Luigi Tibaldo. Hanno partecipato alla celebrazione liturgica il personale penitenziario ed un gruppo di persone detenute, in rappresentanza di tutte le altre presenti in istituto. A differenza degli altri anni la Direzione, suo malgrado, non ha potuto accogliere la comunità esterna a causa dell’emergenza sanitaria in corso. L’iniziativa religiosa è stata caratterizzata da un clima di sobrietà e sentito raccoglimento. Le persone detenute di tutte le sezioni sono riuscite a partecipare simbolicamente alla celebrazione attraverso la voce dei presenti, elaborando pensieri e riflessioni che hanno contribuito a comporre la Preghiera dei Fedeli. Le emozioni prevalenti sono state generate dalla pandemia che ha aggiunto una pena nella pena per chi già vive un’esperienza di privazione della propria libertà, a causa della lontananza dalle famiglie e della preoccupazione che i propri cari possano subire un contagio. È stato espresso un pensiero di gratitudine nei confronti del personale penitenziario e di solidarietà verso tutti gli operatori che quest’anno hanno dedicato tempo ed energie a sostegno dei più bisognosi. Sua Eccellenza ha trasmesso, con la consueta delicatezza e sensibilità, un intenso messaggio d’amore, di vicinanza, conforto e sollievo dal senso di solitudine, ricordando che “è il Messia ad essere venuto per tutti noi”. Le stesse persone detenute hanno definito la sua presenza la migliore carezza al cuore che avessero potuto ricevere. Stelle di Natale colorate e doni a Sua Eccellenza dal laboratorio di falegnameria e dalla sartoria: un presepe in legno e due mascherine confezionate a mano. Un dono molto gradito. Grazie al personale educativo e di polizia per tutta l’organizzazione. In coda un saluto ad alcuni uffici della PolPen che in questo anno hanno prestato servizio con particolare senso del dovere. Il direttore Stefania Mussio Difensori dei diritti umani sotto attacco di Lia Curcio unimondo.org, 25 dicembre 2020 Il nuovo Report del Business & Human Rights Resource Centre è dedicato alle difficoltà affrontate dai difensori dei diritti umani durante la pandemia di Covid-19 e afferma che gli attacchi agli attivisti dei diritti umani sono stati senza sosta, anche perché durante la crisi sanitaria diversi governi con tendenza autoritaria hanno attivato misure che hanno sostanzialmente diminuito i diritti civili, dispiegando anche la forza per reprimere le proteste. “In troppi paesi i difensori dei diritti umani sono stati ridotti al silenzio attraverso minacce, intimidazioni, violenze e uccisioni” denuncia il Report, in base al quale da marzo a settembre 2020 ci sarebbero stati 286 casi di attacchi ad attivisti dei diritti umani - venti in più rispetto alla media degli ultimi cinque anni - con repressioni perpetrate da governi ed attori economici. In particolare, i difensori dei diritti dei lavoratori, gli attivisti ambientali e chi si batte per il diritto alla terra - tra questi ci sono molti leader indigeni - sono stati molto colpiti. Ad esempio, l’8 giugno 2020 Susana Prieto, avvocato messicano impegnata per la tutela dei diritti dei lavoratori, è stata arrestata con l’accusa di resistenza e incitamento alla violenza. Una decisione che i suoi familiari e colleghi hanno denunciato come un tentativo di intimidazione. La donna, infatti, aveva denunciato gli scarsi interventi per prevenire la diffusione del coronavirus nelle fabbriche, sostenendo che all’interno degli stabilimenti produttivi la salute dei lavoratori fosse messa a rischio. Nel corso degli anni, Prieto si è fatta molti nemici rappresentando i lavoratori che lottano per salari più alti e cercando di organizzare sindacati indipendenti presso le maquiladoras, le fabbriche in larga parte di proprietà straniera che producono prodotti per l’esportazione. Quello di Susana Prieto non è un caso isolato. Un altro caso studio descritto nel Report descrive come l’azienda “Ocho Sur P” abbia continuato ad operare nelle piantagioni di palma da olio in Perù, nonostante la pandemia Covid-19 avesse colpito il 90% dei lavoratori e nonostante due ordinanze delle autorità peruviane avessero prescritto delle limitazioni a causa della deforestazione dell’Amazzonia, un processo che sta esponendo le comunità indigene a minacce e attacchi di cui viene accusata anche la compagnia “Ocho sur P”. Un altro caso riporta quanto accade in Indonesia, dove alcune aziende stanno traendo vantaggio dal peso mediatico dato alla pandemia per intensificare il land grabbing, l’accaparramento della terra. “In molti casi - denuncia il Report - nei settori delle costruzioni, delle miniere e dell’agrobusiness, le aziende hanno ricevuto il permesso legale di continuare ad operare durante la pandemia, aumentando i rischi per la salute dei lavoratori e delle comunità locali. Qualche azienda, inoltre, continua ad operare anche senza autorizzazione”. In Zimbabwe vengono riportati altri casi di attacco ad attivisti. “In Zimbabwe, il governo ha usato la pandemia Covid-19 come una scusa per disperdere le proteste di massa contro la corruzione legata all’acquisto di dispositivi di protezione”: Hopewell Chin’ono è un giornalista che ha denunciato la corruzione del governo nell’acquisto di dispositivi di protezione dal coronavirus, denunciando il figlio del presidente. Chin’ono è stato arrestato e tenuto in prigione per parecchie settimane: “Ho vissuto in una cella da 16 posti dove siamo stati stipati in 44, per 17 ore al giorno e senza acqua corrente” denuncia il giornalista. Recentemente, a novembre, è stato nuovamente arrestato con il motivo di aver infranto le condizioni della libertà condizionata, un’accusa che fonti legali descrivono come “senza senso”. In media, tra marzo e settembre 2020 ogni giorno si è registrato un attacco contro un difensore dei diritti umani. Secondo quanto emerge dal Report, un quarto delle vittime è donna, mentre in più di un terzo dei casi si tratta di persone che sono parte di popoli indigeni. Si tratta di un’ulteriore conferma del fatto che queste comunità pagano un prezzo particolarmente elevato nelle loro battaglie per la difesa dei diritti umani. La maggior parte degli attacchi sono avvenuti nell’ambito dell’attivismo contro i settori minerario (circa un terzo) e delle costruzioni (circa il 20%), mentre è l’America Latina a confermarsi il continente più pericoloso. Per quanto riguarda la tipologia degli attacchi, sono state censite 108 detenzioni arbitrarie; gli omicidi sono stati 46, mentre i casi di intimidazioni e minacce sono state 51. Le autorità statali e locali sono state coinvolte in un terzo dei casi, mentre in 39 casi su 286, si legge nel Report, “c’è stato il coinvolgimento di più di un soggetto”. Oltre alle autorità statali, viene segnalato il coinvolgimento delle forze di polizia, di rappresentanti delle aziende, di vigilanza privata, e in alcuni casi di membri della criminalità organizzata. Afghanistan. Omicidi mirati in serie, sullo sfondo le trame dei Talebani di Giuliano Battiston Il Manifesto, 25 dicembre 2020 La lista delle vittime include giornalisti, religiosi, politici, personale sanitario, attivisti e attiviste per i diritti umani. La lista degli omicidi mirati si fa più lunga: Mohammad Yousuf Rashid, il direttore esecutivo della rete Fefa, Free and Fair Election Forum of Afghanistan, è stato ucciso ieri mattina a Kabul. “Ha bevuto una coppa di martirio per promuovere la democrazia”, così il comunicato del Joint Civil Society Working Group, una delle coalizioni della società civile, di cui Rashid era un esponente conosciuto. Da molti anni con la sua associazione monitorava infatti le elezioni, denunciandone irregolarità e brogli, cercando di promuovere quella democratizzazione che in Afghanistan è valsa perlopiù sulla carta, schiacciata da corruzione, interessi di parte, violenza. Rashid è stato ucciso mentre era nel suo veicolo, poco prima che annunciasse la nascita della Coalition for Peace Watch, una coalizione di attivisti con il compito di monitorare gli sviluppi del negoziato di pace tra Talebani e rappresentanti della politica e del governo. Iniziato il 12 settembre a Doha, ha portato finora a un accordo sulle procedure da seguire in caso di controversie e all’intesa preliminare su alcuni punti dell’agenda negoziale vera e propria. Che verrà discussa a gennaio, dopo una pausa di tre settimane. Non c’è stata pausa, però, per il conflitto e per gli omicidi mirati. Non sono affatto una novità, ma negli ultimi mesi e settimane la frequenza e la scelta degli obiettivi sembrano rimandare a una strategia pianificata. Tanto che ieri anche Unama, l’ufficio delle Nazioni Unite a Kabul, è intervenuta denunciando la questione, insieme alla gran parte delle ambasciate in Afghanistan. La lista delle vittime include giornalisti, religiosi, politici, personale sanitario, attivisti e attiviste per i diritti umani. Alcuni esempi: il 21 dicembre Rahmatullah Nekzad, giornalista cinquantenne, alle spalle collaborazioni con Al Jazeera e con l’Associated Press e già a capo dell’Unione dei giornalisti della provincia di Ghazni, è stato ucciso nella sua abitazione con tre colpi in testa. Due giorni prima, a Kabul, era toccato al parlamentare Khan Mohammad Wardak. Il 10 dicembre a Jalalabad veniva uccisa invece Malala Maiwand, giornalista 24enne e attivista. In quest’ultimo caso, l’omicidio è stato rivendicato dalla “Provincia del Khorasan”, la branca locale dello Stato islamico. Per molti altri omicidi non c’è invece rivendicazione, nessuna responsabilità. Una serie di episodi che mette in luce le debolezze dei servizi di sicurezza. Secondo il giornalista Zaki Daryabi, direttore del giornale investigativo Etilaatrooz e vincitore del premio Anti-corruzione 2020 di Transparency International - il ministro degli Interni avrebbe consigliato di chiudere l’impresa agli editori che non possono permettersi di comprare armi per proteggere i propri giornalisti. Da chi vadano protetti, non è chiaro. Ma molti puntano il dito contro i Talebani, che starebbero preparando il terreno per il ritorno al potere. Eliminando tutte le voci dissenzienti e inviando messaggi intimidatori a chi vi si oppone.