Il lockdown estremo del Natale in carcere di Giulia Merlo Il Domani, 24 dicembre 2020 Zona rossa permanente. Dietro le sbarre anche la quarantena dura di più: 20 giorni. Quest’anno nessun conforto ai detenuti per le feste, sospese le attività dei volontari. Isolamento totale. “In carcere, Natale è il giorno più triste dell’anno. Richiama la casa, la famiglia e le tradizioni e non poterle vivere direttamente apre un pozzo buio di malinconia”, dice don Marco Pozza, sacerdote del carcere di Padova. Lui l’antivigilia l’ha trascorsa tra i detenuti, per portare il conforto di una vicinanza tanto più importante in questa fine di 2020 in cui proprio il contatto umano, già difficile nelle carceri, è diventato ancora più un lusso a causa della pandemia. Se per i “liberi” (così i detenuti si riferiscono a chi è fuori) questo sarà un Natale di limitazioni, la zona rossa del carcere è ancora più drammatica perché è fatta di abbandono e di solitudine. A causa delle restrizioni negli spostamenti, le visite dei parenti sono quasi del tutto impossibili e anche i volontari, che proprio durante le festività moltiplicano gli sforzi, non hanno potuto organizzare nulla e anzi sono rimasti fuori dal carcere. “Ogni anno la nostra coop organizza nel carcere di Padova un pranzo con i detenuti che lavorano con noi. Di solito offrivamo una pizza e una fetta di panettone, portavamo ospiti da fuori e proiettavamo il video che mostrava il lavoro dell’anno trascorso. Questo 25 dicembre, invece, per la prima volta in trent’anni non faremo nulla”, dice Nicola Boscoletto, fondatore della cooperativa sociale Giotto che organizza il lavoro esterno. Anche la messa di Natale non potrà essere celebrata. “A San Vittore c’è la tradizione della messa natalizia in rotonda, con il coro e i detenuti che arrivavano da tutti i raggi per partecipare alla celebrazione - racconta suor Anna Donelli, da dieci anni volontaria in carcere. “Quest’anno, non si può nemmeno passare da un piano all’altro e i raggi sono chiusi. Le messe verranno celebrate in qualche reparto, ma solo con quattro o cinque detenuti”. Con enorme fatica, si è riusciti a far arrivare qualche panettone per festeggiare, ma ogni altro conforto è stato impossibile. In carcere a mancare sono le piccole cose, che diventano enormi perché si sommano al carico di sofferenza. L’ora d’aria non viene più trascorsa con detenuti amici, che rimangono bloccati negli altri bracci La scuola è ferma in molte carceri, perché le aule sono piccole e spostare i detenuti è considerato pericoloso per il contagio. A pesare, poi, sono i tempi dilatati: la quarantena è di 20 giorni contro gli 11 all’esterno, perché i risultati dei tamponi sono più lenti. Le attività portate avanti dai volontari, poi, sono per la maggior parte sospese e così le giornate diventano interminabili. L’unico sollievo, allora, rimane sentire la voce dei propri cari. “In questo anno di pandemia, l’istituzione carceraria è stata salvata dal telefono”, dice la presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Ornella Favero. Prima del Covid, ogni detenuto aveva a disposizione 6 ore di colloquio al mese e 10 minuti di telefonata alla settimana, ma in molte carceri i direttori hanno allargato le maglie per compensare la difficoltà di visita. “A San Vittore, il direttore ha permesso videochiamate con Skype e telefonate più volte in settimana. Soprattutto le videochiamate danno un po’ di sollievo perché permettono di vedere i visi delle care che non sono potute venire in visita”, dice suor Anna. Ma una telefonata in più non allarga la cella: i detenuti sono costretti a rimanere molto più a lungo chiusi in spazi strettissimi dove crescono ansia, nervosismo e tanta paura del virus, per sé stessi e per i parenti all’esterno. Accanto al telefono, le cooperative esterne cercano di mantenere disponibile un servizio mail: il volontario entra in carcere, ritira la mail scritta a mano, la scansiona e la manda agli indirizzi dei familiari, poi porta in carcere la risposta. “Il servizio è attivo a Padova, Viterbo, Rebibbia e altre carceri. Stiamo cercando di offrire a tutti un certo numero di mail gratuite, ma non è facile”, spiega Favero, che è anche direttrice della rivista Ristretti Orizzonti, scritta dai detenuti del carcere padovano. Proprio questo, soprattutto per i detenuti stranieri, è l’unico modo per fare avere notizie all’estero. “I non italiani fanno fatica a chiamare a casa. A volte non hanno i soldi per la telefonata”, racconta suor Anna, “Noi volontari ci siamo attrezzati e con il traduttore di Google riusciamo a comunicare coi loro parenti per dare loro una parola di conforto e poi portare qualche notizia in carcere, per far sentire questi detenuti meno soli, almeno un poco”. Nemmeno il carcere, poi, è una livella sociale. I detenuti con qualche soldo in più sono in grado di comprare generi alimentari e organizzano piccoli pranzi in cella coi compagni. Per gli altri, invece, rischia di mancare ogni tipo di conforto. “Alcuni, quando vengono, ci chiedono se per caso abbiamo una caramella o un biscotto”, racconta una psicologa di San Vittore, in prima fila nell’ascoltare i bisogni ma soprattutto le angosce di chi sta scontando la pena. “Questi giorni sono carichi di angoscia, che si manifesta con agitazione e nervosismo. Alcuni detenuti non vogliono tornare in cella, altri avanzano richieste pretestuose”. Il disagio psichico, infatti, è altissimo. “I più gravi si tagliano o commettono atti di autolesionismo, gli altri litigano per sfogare la rabbia, alcuni riescono a trovare sostegno nei nostri colloqui”. A complicare ulteriormente il contesto è anche la confusione: le normative del Covid non permettono di uscire dalle celle, i detenuti vengono divisi con criteri che separano i gruppi di amici, la gestione interna delle carceri è sempre più difficile. Ieri, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha fatto una visita a sorpresa nel carcere romano di Regia Coeli insieme al Garante dei detenuti, Mauro Palma. Un segno di vicinanza che potrebbe far ben sperare per un ordine del giorno presentato da Più Europa con Riccardo Magi, per chiedere al più presto di vaccinare i detenuti per il Covid. Il testo doveva essere votato nei giorni scorsi ma è slittato al 27 dicembre: ha ricevuto adesioni da parte di singoli parlamentari del Partito democratico, ma l’obiettivo è che ottenga il parere favorevole del governo, che ha già fatto sapere di considerare il personale penitenziario tra quelli con priorità di vaccinazione. Anche perché, nelle carceri, non solo i detenuti anziani ma anche i più giovani sono spesso vulnerabili: molti soffrono di tossicodipendenza, che rende il loro fisico molto più fragile. Attualmente i detenuti positivi al coronavirus sono 947, di cui 800 asintomatici e 30 curati in strutture ospedaliere, divisi in 85 istituti. Se i numeri del contagio sembrano relativamente sotto controllo, il problema tuttora irrisolto e che fa aumentare la paura di contagio rimane quello del sovraffollamento: attualmente sono detenute 52.908 persone, per 47.175 posti disponibili. Braccialetti elettronici: il ministero risponde ma il mistero si infittisce di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 dicembre 2020 Il sottosegretario alla Giustizia Ferraresi risponde all’interrogazione di marzo 2020 di Roberto Giachetti, ma non chiarisce i dubbi sulla fornitura dei braccialetti elettronici. “Dopo quasi un anno rispondono all’interrogazione parlamentare sui braccialetti elettronici non chiarendo nulla, temo che questa sia roba da Corte dei Conti!”, tuona così l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini in merito al giallo sulla fornitura dei braccialetti. Lo stesso deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, che ha presentato a marzo scorso l’interrogazione parlamentare su proposta radicale e dopo gli articoli de Il Dubbio, non è per nulla soddisfatto della risposta data. Roberto Giachetti non comprende a quale interrogazione abbia risposto il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, visto che le domande poste sono state chiare. Si conferma che i braccialetti elettronici sono pochi - In effetti la risposta del ministero della Giustizia non fa altro che confermare la penuria dei braccialetti elettronici, tanto che il commissario straordinario Arcuri è dovuto ricorrere, soprattutto per attuare il decreto Cura Italia di marzo scorso, alla formalizzazione di un contratto con Fastweb per la fornitura di 1600 dispostivi. Lo dice, appunto, Ferraresi nella risposta. Sì, ma la domanda posta nell’interrogazione parlamentare è volta soprattutto su questo punto: come mai c’è stata la necessità di ricorrere alla fornitura di ulteriori braccialetti, quando in realtà c’è già un contratto milionario con Fastweb che prevede la fornitura di 1000- 1200 braccialetti elettronici mensili a partire dal 31 dicembre 2018? Non si spiega perché a marzo scorso, secondo la relazione tecnica del decreto Cura Italia, risultavano circa 2600 braccialetti disponibili fino al 15 maggio. Teoricamente, già a partire da quella data, dovrebbero essere disponibili almeno circa 15mila dispostivi. Il governo, nonostante le chiare domande poste dal deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, non ha chiarito sul punto. Eppure c’è un aspetto singolare. Nel decreto Ristori si fa riferimento al contratto di Fastweb - Nel dossier redatto a novembre dal Senato per illustrare il decreto Ristori, si fa proprio menzione del contratto triennale con Fastweb, sottolineando che la fornitura di braccialetti elettronici è partita a dicembre 2018 e che quindi garantisce la piena attuazione del decreto che prevede il braccialetto elettronico per chi ha un residuo di pena da scontare superiore ai sei mesi. Ma allora, ribadiamo, perché a marzo scorso risultavano solamente 2600 dispostivi, tanto che Domenico Arcuri è dovuto ricorrere ad una ulteriore fornitura? “Attualmente - si legge nel dossier di novembre scorso a cura del Senato - sulla base dei dati comunicati dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza, il contratto in essere, di durata triennale, è in scadenza al 31 dicembre 2021 per un importo annuo di circa 7,7 mln di euro ed un onere complessivo di circa 23 mln di euro. Il citato contratto prevede fornitura e servizio di 1.000 – 1.200 braccialetti mese per l’intera durata contrattuale e, pertanto, con la facoltà per l’Amministrazione, nell’ambito della vigenza contrattuale, di installare circa 43.200 braccialetti, dispositivi che risultano sufficienti a garantire l’ordinario impiego degli stessi”. E conclude: “Da rilevare comunque che sia l’entità del numero dei braccialetti disponibili sia la possibilità di riutilizzo di questi dispositivi - in quanto le procedure di controllo vengono disattivate per quei soggetti condannati che stanno eseguendo la pena detentiva presso il proprio domicilio e la cui pena residua da espiare scende sotto la soglia dei sei mesi - assicura la sostenibilità dell’intervento, garantendo la piena attuazione della disposizione in esame e confermando altresì il grado di adeguatezza delle dotazioni tecnologiche rispetto all’effettivo fabbisogno”. Stanziati tanti milioni, ma i dispositivi disponibili sono pochi - In pratica, a quest’ora dovremmo avere così tanti braccialetti che ne avanzerebbero pure. Mentre in realtà, come fa notare Giachetti, ci sono segnalazioni di persone che sono in carcere a causa della mancanza dei dispositivi. Nella riposta all’interrogazione si fa cenno solamente al numero di persone che hanno usufruito di tali dispostivi, ai sensi del decreto Ristori, alla data del 2 dicembre scorso: 50 sono i reclusi ammessi alla detenzione domiciliare con il braccialetto. Difficile quindi capire come stiano effettivamente le cose. A fronte del fatto che parliamo di tanti milioni di euro. Non solo i 23 milioni per il contratto di fornitura. A ciò si aggiunge uno stanziamento al ministero degli Interni per la messa in pratica dei dispositivi elettronici di 11.212.767 euro per l’anno 2020, 21.212.767 euro per l’anno 2021 e di 21.212.767 euro per l’anno 2022. Ma il governo non ha risposto nemmeno alla questione relativa al procedimento del collaudo, utile per dare il via definitivo alla fornitura. Dal sito della Polizia di Stato, risulta che la procedura è ancora aperta. Infatti si ferma alla data del 17/12/2018 quando viene pubblicato il decreto di approvazione del verbale di collaudo positivo relativo alla fase uno. Dal sito della Polizia di Stato non risulta il “Piano di collaudo della fase 2”, che rappresenta la base di tutte le attività di verifica di conformità della fornitura e sottoposto a valutazione e approvazione da parte dall’Amministrazione. Nessun chiarimento nemmeno su questo punto. Rimane in piedi ancora l’interpellanza urgente, sempre presentata dal deputato Roberto Giachetti, e chissà se finalmente si potrà fare chiarezza. L’attesa di una riposta, però, si allunga. Madri e bambini in carcere, un passo per farli uscire di Stefano Anastasia Il Riformista, 24 dicembre 2020 Mentre tutto tace sul fronte del contrasto al Covid nelle carceri (le minime previsioni del decreto ristori tali sono rimaste, la prossima campagna vaccinale ancora non sembra aver preso in considerazione i detenuti), la Commissione bilancio della Camera, su iniziativa del deputato Pd Paolo Siani, ha approvato un emendamento che - per la prima volta, dopo dieci anni - finanzia le case famiglia protette destinate a ospitare le donne in esecuzione di provvedimenti penali con figli piccoli e piccolissimi. Apparentemente è piccola cosa: minimo è il finanziamento (1,5 milioni di euro per ciascuno dei prossimi tre anni) e non si interviene ancora sui vincoli legali che hanno consentito fino a ora la permanenza di bambini in carcere (34 al 30 novembre scorso, con le loro 31 madri; ma erano 59 prima del Covid); vincoli che sono l’oggetto di una specifica proposta di legge, sempre di iniziativa di Siani. Eppure la decisione della Commissione bilancio della Camera è tutt’altro che simbolica. Chi ha seguito le vicende delle Case famiglia protette istituite dalla legge 62 del 2011 sa che il vincolo di invarianza finanziaria, di fatto scaricato sugli Enti locali che avessero deciso di attivarle, ne ha tarpato le ali, causando non pochi problemi anche a chi - grazie all’originario contributo di Fondazione Poste - ne ha consentito l’avvio. E così, dopo dieci anni, le case famiglia protette sono ancora solo due (a Roma e a Milano). Oggi se ne discute anche in Emilia, Toscana e Piemonte, ed è auspicabile che le risorse stanziate (che dovrebbero essere sufficienti all’accoglienza di 50-60 donne con figli) consentano la realizzazione di un circuito nazionale adeguato alle necessità. L’emendamento prevede che entro due mesi dall’approvazione della legge di bilancio, il Ministero della giustizia, sentita la Conferenza Stato-Regioni-Autonomie locali, ripartisca le risorse tra le Regioni interessate a sostenere l’accoglienza delle donne con i loro bambini. Certo, poi i problemi non saranno risolti, perché - come sanno bene le associazioni e gli enti del terzo settore che hanno sollecitato l’iniziativa dell’on. Siani (A Roma Insieme, Cat, Cittadinanzattiva, La Gabbianella e Terre des Hommes) - restano i vincoli legali e - aggiungo io - la cultura dominante, che associa indebitamente e arcaicamente la pena al carcere. Ma si spera che la maggioranza che ha finanziato le Case famiglia protette sia conseguente nell’esame della proposta di legge Siani. La partita più difficile è e resterà quella culturale, da combattere contro il riflesso condizionato carcerocentrico che attanaglia tanto i populisti penali e il loro pubblico, quanto operatori del diritto adagiati su rassicuranti categorie reclusorie. Ma l’obiettivo della liberazione di tutti i bambini e le bambine dalle nostre carceri merita questo sforzo, per quanto impegnativo, lungo e accidentato possa essere. Conte promette interventi urgenti per le carceri di Valter Vecellio lindro.it, 24 dicembre 2020 Il successo dell’iniziativa non violenta di Rita Bernardini che da sempre con coerenza e coraggio conduce una battaglia esemplare per il diritto al diritto e per il diritto alla conoscenza. Numeri, cifre, non opinioni; e quelli snocciolati da Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà rivelano una realtà che sconcerta: “Negli ultimi dieci giorni le persone registrate negli Istituti sono diminuite di 339 unità, passando da 54.195 del 9 dicembre a 53.856; le persone effettivamente presenti sono oggi 53.002 (alla stessa data del 9 dicembre erano 53.266). Tra loro anche 32 donne con 35 figli di età 0-3 anni, di cui 18 donne con 20 bambini nelle cosiddette sezioni nido e 14 donne con 15 bambini in quattro Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). I posti letto disponibili sono circa 47 mila”. Sono dati, osserva Palma, poco incoraggianti rispetto alla diffusione del virus, che richiede invece la possibilità di individuare spazi all’interno degli Istituti per garantire quella indispensabile esigenza di separazione e isolamento non sempre assicurata. Per quel che riguarda la pandemia, accertati focolai nelle carceri di Trieste, Milano-Opera, Milano San Vittore, Bollate, Monza, Busto Arsizio, Bologna, Sulmona, Regina Coeli a Roma e Napoli-Secondigliano. Nelle ultime settimane i contagi nelle carceri sono aumentati rispetto ai mesi scorsi: tra febbraio e agosto, erano state contagiate 568 persone, tra carcerati e lavoratori, quattro sono morte (due agenti e due detenuti). Da questa realtà, da queste cifre, nasce l’appello lanciato dal portavoce dei garanti regionali dei detenuti, Stefano Anastasia, ripreso dalla Senatrice a vita Liliana Segre, dalla Presidente del gruppo Misto del Senato Loredana De Petris e dal Senatore delle Autonomie Gianni Marilotti. Hanno presentato un’interrogazione urgente al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al Ministro di Giustizia Alfonso Bonafede, per chiedere che “la popolazione carceraria, composta sia da detenuti che da agenti della polizia penitenziaria ma anche da tutte le figure professionali che operano nel mondo delle carceri, non possa essere lasciata indietro” nella vaccinazione di massa che inizierà nelle prossime settimane. In parallelo va registrato il lungo incontro-confronto, ieri, tra Rita Bernardini, Presidente di ‘Nessuno tocchi Caino’ e componente del Consiglio Nazionale del Partito Radicale, e il Presidente del Consiglio Conte. Quaranta minuti di colloquio, e già la durata è il segno dell’attenzione che Bernardini ha saputo conquistarsi. Ora naturalmente, dopo le parole, occorrerà vedere come e quando si tradurranno in concreta azione politica. Ad ogni modo, formalmente, e in un luogo istituzionale, palazzo Chigi, si sono poste nell’agenda questioni che fino a oggi si tendeva a eludere e ignorare; e sono le questioni di sempre: quella del carcere, di come si vive all’interno delle comunità penitenziarie; della giustizia, della sua amministrazione. Per questo Bernardini ha dovuto intraprendere un lungo e logorante digiuno durato più di un mese - trentacinque giorni -. Va salutato come un innegabile successo il fatto (dolosamente ignorato dai mezzi di comunicazione), che a questa iniziativa nonviolenta, ancora una volta, si siano affiancati quasi quattromila detenuti e un migliaio di cittadini liberi; che si sono mobilitati oltre duecento professori di diritto e di procedura penale, che hanno sottoscritto gli appelli lanciati da due autorevoli giuristi: Giovanni Fiandaca e Massimo Donini; che si siano registrano le chiare, nette, inequivoche prese di posizione di Gherardo Colombo, Giovanni Maria Flick, Luigi Manconi, Roberto Saviano, Sandro Veronesi. Tutto ciò costituisce un grande patrimonio ideale e culturale, per l’oggi e per il domani. “La prima cosa, la più importante” dichiara Bernardini al termine dell’incontro con Conte, “è quella riguardante la necessità di una deflazione della popolazione detenuta. Gli ho riportato ancora una volta quello schema che contiene, istituto per istituto penitenziario, i dati del sovraffollamento, tenendo presente le stanze detentive, cioè le celle inagibili, e i posti inagibili. Abbiamo fatto diverse ipotesi. La prima riguarda la riduzione dell’applicazione della custodia cautelare in carcere. Conte si è dimostrato molto d’accordo perché è stato il primo a sottolinearlo, sulla proposta Salvi (il procuratore generale della Cassazione, ndr) quella di evitare gli arresti con la detenzione in carcere delle persone non pericolose, soprattutto in questa fase di coronavirus”. Più complicata la questione che riguarda amnistia e indulto. Conte, si limita a dire Bernardini, si “è mostrato attento”. A prescindere da ciò che il Presidente del Consiglio Conte riterrà di fare, si tratta comunque di un indubbio successo dell’iniziativa nonviolenta di una militante rigorosa che da sempre con coerenza e coraggio conduce una battaglia esemplare per il diritto al diritto e per il diritto alla conoscenza. Conte visita Regina Coeli, la prima volta di un presidente del Consiglio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 dicembre 2020 Giuseppe Conte, mantenendo la promessa fatta a Rita Bernardini del Partito Radicale, nella giornata di ieri ha visitato il carcere romano di Regina Coeli. In linea con l’andamento nazionale, gli ultimi dati sulla diffusione del Covid 19 nelle carceri sono più o meno stabili. Ma si aggiunge l’ennesimo decesso per Covid 19 avvenuto ieri. Parliamo di un detenuto, con patologie pregresse, che era recluso al carcere Due Palazzi di Padova. Il secondo recluso morto, dopo Donato Bilancia, del carcere padovano. Ma è l’undicesima persona detenuta morta per Covid della sola seconda ondata. L’emergenza quindi è ancora in atto. Però una luce in fondo al tunnel c’è ed è stato il premier Giuseppe Conte a illuminarlo mantenendo la promessa fatta a Rita Bernardini del Partito Radicale: nella giornata di ieri ha visitato il carcere romano di Regina Coeli. Ad attenderlo c’erano il vice capo dell’Amministrazione penitenziaria Roberto Tartaglia; la direttrice di Regina Coeli Silvana Sergi, il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone e il Garante nazionale Mauro Palma. La visita di Conte è durata circa un’ora nel corso della quale il Premier ha incontrato un gruppo di detenuti e i rappresentanti della polizia penitenziaria. “La visita del premier è un gesto importante - spiega il Garante -, ed è la prima volta che si ricordi, che un Presidente del Consiglio si reca in visita a Regina Coeli”. 943 detenuti e 744 agenti positivi al Covid - Com’è detto, il problema del sovraffollamento è tuttora irrisolto. L’ultimo aggiornamento risalente a lunedì scorso, parla di 943 detenuti e 744 agenti penitenziari positivi. Secondo il punto del Garante nazionale delle persone private della libertà, negli ultimi dieci giorni le persone registrate negli Istituti sono diminuite di 339 unità (passando da 54.195 del 9 dicembre a 53.856) e le persone effettivamente presenti giovedì scorso 17 dicembre sono 53.002 (alla stessa data del 9 dicembre erano 53.266). Tra i presenti anche 32 donne con 35 figli di età 0-3 anni, di cui 18 donne con 20 bambini nelle cosiddette sezioni nido e 14 donne con 15 bambini in quattro Istituti a custodia attenuata per detenute madri. Secondo il Garante, sono dati poco incoraggianti rispetto alla diffusione del virus, che richiede invece - come più volte ribadito - la possibilità di individuare spazi all’interno degli Istituti per garantire quella indispensabile esigenza di separazione e isolamento non sempre assicurata. Riguardo al Covid, si registrano alcuni focolai negli Istituti di Trieste, Milano-Opera, Milano San Vittore, Bollate, Monza, Busto Arsizio, Bologna, Sulmona, Regina Coeli a Roma e Napoli-Secondigliano. Nella mattina del 17 dicembre, il Garante nazionale è stato audito dalla Commissione giustizia della Camera sulle due proposte di modifica della legge sulle droghe leggere e, in particolare, della detenzione e cessione di modiche quantità, indirizzate, in modo antitetico, l’una a inasprire e l’altra a ridurre le conseguenze sanzionatorie, oltre a depenalizzare il semplice possesso. Covid nelle carceri. Nardella (Uil-Pa): “Vaccini solo da luglio, qui si gioca col fuoco” adnkronos.com, 24 dicembre 2020 “Sono venuto a conoscenza del fatto che il personale delle carceri e i detenuti (compresi quindi anche coloro i quali, come nel caso di Sulmona, stanno vivendo il dramma dei tanti positivi attualmente presenti) saranno vaccinati solo a partire dal mese di luglio. Chi ha deciso questo non considera quanto possa essere rischioso vedere ritardare di così tanto l’appuntamento con il vaccino. Il tutto in considerazione della peculiarità che hanno gli attori in campo di vivere in un ambiente fortemente condizionato dalla mancanza di spazi e libertà di movimento”. È la denuncia di Mauro Nardella, segretario generale territoriale Uil-Pa polizia penitenziaria. “Luglio è troppo lontano per pensare di uscire indenni dalla terza ondata che - continua il sindacalista - arrivato a questo punto, mi auguro non ci sia. Non ce lo potremmo davvero permettere. Noi operatori penitenziari arriveremmo all’appuntamento con la stessa devastati dal punto di vista psicologico e questo non andrà a braccetto con l’efficienza e la sicurezza che in ambiti come il carcere non possono mai mancare, pena il collasso definitivo. Solo chi lo sta vivendo sulla propria pelle può capire il rischio che si sta correndo. Mi dispiace ma qui si sta giocando col fuoco”. Dallo scandalo Csm alla prima procuratrice generale: ecco un anno di toghe di Giulia Merlo Il Domani, 24 dicembre 2020 I cinque eventi principali che hanno inciso sulla vita della magistratura, in un 2020 fatto di scontri interni ma anche esterni con il ministero della Giustizia. Dalla bufera scatenata dall’inchiesta sull’ex capo di Unicost alla nomina di Francesca Nanni a Milano fino alla nuova Anm del dopo Palamara. Il 2020 è stato un anno complicato per la magistratura, fatto di scontri interni ma anche esterni con il ministero della Giustizia. Ripercorriamo qui gli eventi principali che hanno condizionato la vita delle toghe e le hanno riportate al centro del dibattito pubblico. Lo scontro tra Nino di Matteo e il ministro Alfonso Bonafede - Lo scontro avviene nel maggio 2020, in diretta televisiva nella trasmissione di Massimo Giletti, Non è l’arena. L’ex pm antimafia Nino di Matteo, ora togato del Consiglio superiore della magistratura, accusa il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede di avergli prima proposto e poi negato il posto al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. I fatti risalirebbero al 2018, all’inizio del governo Movimento 5 Stelle Lega. Di Matteo afferma di aver ricevuto da Bonafede l’offerta di diventare capo del Dap oppure degli Affari penali, di aver chiesto due giorni per riflettere. La voce gira e la polizia penitenziaria registra la reazione di importanti boss che tra di loro in cella dicono “se arriva questo (al Dap ndr) abbiamo chiuso”. Quando Di Matteo avverte il ministro di voler andare al Dap, Bonafede gli avrebbe risposto di aver già scelto per quel posto Francesco Basentini (che nel 2020 si dimette dal ruolo dopo i disordini nelle carceri e alle scarcerazioni, in seguito all’emergenza Covid). Alla telefonata in diretta Bonafede ribatte dicendosi “esterrefatto” ma la polemica politica scoppia e le opposizioni chiedono le dimissioni del ministro, che deve difendersi in parlamento e spiegare che la sua scelta per il vertice del Dap non è stata condizionata dalle intercettazioni ai boss. Luca Palamara viene espulso dalla magistratura - Il caso Palamara inizia nell’estate del 2019, ma la sua conclusione - quantomeno quella sul fronte interno alla magistratura - arriva nel 2020 con la sua espulsione prima dall’Associazione nazionale magistrati (giugno) e poi dall’ordine giudiziario, al termine del procedimento disciplinare davanti al Csm (ottobre). La prima udienza davanti al Csm si svolge in luglio: Palamara è accusato di “comportamento gravemente scorretto” e “strategia di danneggiamento” nella trattativa per la nomina del successore di Giuseppe Pignatone a capo della procura di Roma, per i fatti avvenuti durante il dopocena all’hotel Champagne di Roma, dove Palamara ha incontrato l’allora leader di Magistratura indipendente Cosimo Ferri, Luca Lotti (indagato nel caso Consip) e alcuni togati del Csm. La difesa di Palamara evoca una specie di chiamata in correità dell’intero sistema, allargando l’analisi dei fatti all’intero sistema correntizio e di spartizione delle nomine a capo degli uffici. La logica è: se il magistrato va rimosso, allora lo stesso deve accadere anche a tutti coloro che hanno beneficiato del suo aiuto e hanno contribuito alla spartizione. L’accusa, invece, punta tutto sulle intercettazioni ricavate dal Trojan installato nel cellulare di Palamara (indagato per corruzione dalla procura di Perugia) e limita l’oggetto del procedimento ai soli fatti del dopocena per la scelta del procuratore capo di Roma. Il procedimento lampo si è concluso con l’espulsione di Palamara, che ora dovrà affrontare anche il processo penale a suo carico a Perugia. Piercamillo Davigo va in pensione - L’ex pm di Mani pulite e membro del Csm, Piercamillo Davigo decade dal ruolo di consigliere in ottobre, il giorno dopo il suo compleanno. Davigo ha dovuto andare in pensione in ottobre per aver raggiunto il limite d’età di 70 anni, ma voleva rimanere in carica come consigliere del Csm anche da pensionato, perché nessuna norma vieta esplicitamente a un pensionato di permanere nell’incarico. Il Csm, in una difficilissima seduta, ha invece deciso a maggioranza con il voto anche di Nino di Matteo, eletto nella corrente Autonomia e indipendenza fondata da Davigo, che un magistrato in pensione decade dal suo ruolo nel consiglio, perché il requisito di essere magistrato in attività deve permanere per tutta la durata del mandato. Davigo, tuttavia, ha scelto di fare ricorso al Tar contro la decisione degli ex colleghi: bocciato il ricorso, ha impugnato la decisione davanti al Consiglio di Stato e ha chiesto di essere reimmesso nelle sue funzioni di consigliere togato. L’elezione della nuova Associazione nazionale magistrati - Il 20 ottobre l’Associazione nazionale magistrati ha eletto i nuovi componenti del direttivo, nel primo voto dopo lo scandalo Palamara. L’esito: vittoria delle toghe progressiste di Area con 1.785 preferenze, ma il vero exploit è di chi era dato per perdente. Magistratura indipendente - la corrente del deputato Cosimo Ferri sotto procedimento disciplinare al Csm per lo scandalo sulle nomine pilotate - è arrivata seconda con 1648 voti ed è separata da Area da poco più di cento voti. Terza, invece, Unità per la Costituzione con 1.212 preferenze. Quarta la corrente Autonomia e Indipendenza, dal 20 ottobre orfana del suo leader Piercamillo Davigo, che ha preso 749 preferenze. Ultima, infine, con 651 voti la neonata lista Articolo centouno, formata dai magistrati fuori dalle correnti e capeggiate dal procuratore di Ragusa Andrea Reale. La vittoria non netta ha reso molto complicato formare una maggioranza ed eleggere il nuovo presidente. Sono serviti 50 giorni e un estenuante dibattito interno. Alla fine è stato scelto come nuovo presidente il magistrato di Area, Giuseppe Santalucia, a capo di una giunta quasi unitaria da cui è rimasta fuori solo Articolo 101. Nomina di Francesca Nanni alla procura generale di Milano - Il Csm ha scelto la magistrata Francesca Nanni al vertice della procura generale di Milano, considerata la più importante d’Italia. Nanni, prima donna alla guida della procura di Cuneo, nel dicembre 2018 è diventata la prima donna a capo della procura generale di Cagliari e ora lo è nel capoluogo lombardo. È stata eletta a maggioranza con 14 voti superando Fabio Napoleone, ex consigliere del Csm e sostituto pg milanese noto per l’inchiesta Duomo connection e per il caso Telecom. La sua nomina completa il “terzetto” di cariche che mai prima di questo momento sono state assegnate a una donna: segue alla prima donna presidente del Tribunale, Livia Pomodoro, e alla prima donna presidente della Corte d’Appello, Marina Tavassi. Cassazione: 19mila processi in meno per il Covid di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2020 I dati 2020-2019 a confronto. Nel penale depositate quasi 15mila decisioni in meno rispetto allo stesso periodo del 2019; sono 3.800 invece i provvedimenti ‘mancanti’ nel civile. Al 30 novembre 2020 la Corte di cassazione ha pubblicato 18.700 decisioni in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Lo scostamento è dovuto all’emergenza Covid-19 ed in particolare al fatto che per due mesi le attività non solo della Suprema corte ma anche delle Corti di appello si sono quasi completamente fermate. Un gap che a questo punto non verrà colmato in questo scorcio d’anno. È il penale (che pure formalmente non si è mai interrotto) a soffrire di più: le Sezioni infatti nei primi undici mesi hanno pubblicato ben 14.866 provvedimenti in meno: 9.192 sentenze e 5.676 ordinanze. Mentre lo scorso anno dunque nello stesso periodo i numeri indicavano 48.732 decisioni (28.044 sentenze e 20.688 ordinanze), nel 2020 siamo scesi complessivamente a 33.866 decisioni (18.856 sentenze e 15.010 ordinanze). Il maggior calo si è registrato nella Sezione settima che giudica le inammissibilità passata 19.975 a 14.151 (-5.824), segno che molte cause non sono proprio pervenute al Palazzaccio che infatti non registra un particolare accumulo dell’arretrato nel penale. Nel civile, invece, a fine novembre 2020, i provvedimenti decisi sono stati 27.507, 3.836 in meno rispetto allo stesso arco temporale dello scorso anno quando erano stati 31.343. Quest’anno dunque sono state pubblicate: 3.525 sentenze civili (5.954 nel 2020), 22.226 ordinanze (23mila nel 2020), 1.000 ordinanze interlocutorie (1.756 nel 2020) e 756 decreti (631 nel 2020). Va ricordato che con una serie di eccezioni nel civile (per esempio in materia di minori e famiglia) ma anche nel penale, dove è sempre stato assicurato un presidio per le cause urgenti, il legislatore con il Dl 18 del 2020, ha disposto che “dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 le udienze dei procedimenti civili e penali pendenti presso tutti gli uffici giudiziari sono rinviate d’ufficio a data successiva al 15 aprile 2020”, termine poi “prorogato” dal Dl n. 23 del 2020, all’11 maggio 2020. Successivamente, con la ripresa si sono comunque dovute implementare e seguire una serie di regole e paletti per l’accesso e la trattazione delle cause nei Tribunali e nelle Corti. Tornando al civile, l’impatto non è stato uguale per tutte le Sezioni. A subire di più il blocco sono state: la Sezione Lavoro che ha pronunciato circa 1.300 sentenze in meno; ma anche la Sezione Tributaria, già gravata da un ingente arretrato, che (inclusa la Sottosezione VI) è sotto di circa 1.800 decisioni. La questione dei “carichi” del resto è sotto stretta osservazione, tanto che nel PNRR (cd. Recovery plan) sono stati previsti specifici rinforzi per affrontare “la perdurante criticità che affligge la sezione tributaria della Cassazione”, con la possibilità di assegnare fino a 50 unità di magistrati onorari ausiliari, in via temporanea e contingente. È rimasta indietro anche la VI, la cd “Sezione filtro”, introdotta con la legge 18 giugno 2009 n. 6, ed articolata in 5 Sottosezioni (Prima, Seconda, Terza, Lavoro e Tributaria) che nel complesso è passata da 10.661 decisioni a 8.984. In controtendenza invece la I Sezione civile che ha pubblicato 1.047 decisioni in più rispetto al 2019, anche per via dell’esplosione delle cause in materia di immigrazione. Il ritardo cumulato prima dell’estate non è poi ulteriormente cresciuto considerato che da settembre si è ripreso a depositare a ritmo sostanzialmente ordinario, dal 1/9 al 15/11, per esempio, sono state depositate soltanto 100 sentenze in meno. Giudici onorari ancora in piazza “Basta rinvii, subito la riforma” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 dicembre 2020 “Il governo non può più indugiare, ci riconosca come lavoratori subordinati”: è questo il messaggio che hanno lanciato ieri da piazza Montecitorio a Roma i magistrati onorari, che si sono riuniti nel pomeriggio in un flash mob in toga e con una rosa gialla, simbolo del “tradimento da parte delle Istituzioni”, si legge nella convocazione. “Dopo il recente e inequivocabile monito del presidente della Corte costituzionale, Giancarlo Coraggio, a tutela dei nostri diritti”, dice al Dubbio Raimondo Orrù, presidente di Federmot, tra le associazioni promotrici della mobilitazione, “il governo non può più tergiversare. Occorre subito un decreto legge: non ci sono più scuse”. Come avevamo scritto qualche giorno fa, il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, del Movimento 5 Stelle, aveva mostrato una grande apertura verso le toghe onorarie, ipotizzando una decretazione d’urgenza per dare “tranquillità alla categoria, attraverso una modifica della disciplina attuale, a cui andranno apportati dei correttivi indispensabili, in una situazione già critica”. Poco dopo però l’entusiasmo dei destinatari era svanito perché non erano state fornite indicazioni precise su quei correttivi. E infatti, da indiscrezioni, sembrerebbe che l’inquadramento lavorativo che si vorrebbe proporre per risolvere la questione giuslavoristica della magistratura onoraria sia quello della libera professione e non del lavoro subordinato, come invece richiesto. Quindi ieri le toghe onorarie sono scese in piazza per mantenere vivo l’interesse attorno alla loro battaglia e per sollecitare, ancora una volta, “la maggioranza parlamentare affinché ingiunga al governo di reperire i fondi necessari a procedere, senza tentennamenti, con decreto legge, alla indifferibile riforma della categoria”. A intervenire ieri alla manifestazione anche la leader di Fratelli D’Italia Giorgia Meloni: “Il vostro trattamento va equiparato ai magistrati togati. Diritti fondamentali, come maternità, malattia e ferie, vanno riconosciuti”. Presenti anche il segretario della Lega Matteo Salvini e l’ex sottosegretario alla Giustizia del Carroccio, il deputato Jacopo Morrone, che su Facebook ha scritto: “In piazza insieme ai magistrati onorari che continuano a vivere nell’incertezza e che tutt’ora il governo Conte- Bonafede dimentica e ignora”. Crollano omicidi e rapine. È record di reati informatici: sono 480 al giorno, +32,7% di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 24 dicembre 2020 I dati della polizia criminale: effetto della pandemia. Il cyber-crime sfrutta l’emergenza coronavirus e balza in testa alla classifica dei reati del 2020. Da gennaio a fine novembre infatti a livello nazionale le denunce collegate ad attività informatiche illegali sono aumentate del 32,7% - 160.982, in pratica 480 al giorno, un vero record - a fronte di un calo generalizzato degli episodi criminali, con una flessione dei reati del 20,9% (da oltre due milioni e 100 mila a meno di un milione e 700 mila). Reati informatici che in alcuni casi sono sfociati in minacce e atti intimidatori ad amministratori locali e giornalisti: solo fino a settembre erano stati 462 nei confronti della prima categoria (più della metà a sindaci, anche di aree metropolitane) e 129 della seconda, addirittura con un +48,3%. Quello che emerge dai dati dell’Osservatorio permanente di monitoraggio e analisi della criminalità della Direzione centrale della polizia criminale, diretta dal prefetto Vittorio Rizzi, non è soltanto l’inquietante fotografia di un fenomeno. È anche la conseguenza diretta della pandemia, l’effetto di un maggior utilizzo della tecnologia rispetto agli anni passati da parte della malavita. Già dall’aprile scorso il Servizio di analisi criminale della Dcpc aveva lanciato, con quattro report, segnali d’allarme sul rischio di infiltrazioni criminali nel tessuto economico-finanziario post-emergenza, con episodi che sono stati registrati anche attraverso la Rete. Nell’elenco sono finite 159 segnalazioni alle prefetture da parte dei Gruppi centrali interforze (interni al Sac), con circa 1.600 approfondimenti d’indagine e oltre 22 mila interrogazioni in banca dati relative a possibili infiltrazioni malavitose negli appalti pubblici. Più in generale invece nel 2020 c’è stato - almeno finora - un calo di omicidi (244, 55 in meno rispetto al 2019), 132 dei quali in ambito familiare, ma con 91 donne uccise (l’anno scorso erano state 88), 62 delle quali dal partner o dall’ex. Senza contare il calo di furti del 36% e di rapine del 22% nel periodo gennaio-agosto, in rapporto ai primi otto mesi del 2019. Dall’attività informativa delle scommesse sportive è invece emerso che durante quest’anno ci sono state 28 segnalazioni di anomalie nella stagione 2019/2020 e sei relative a eventi sportivi che si sono tenuti all’estero nel corso del lockdown. E proprio per affrontare questa situazione senza precedenti, che ha stravolto le abitudini di tutti, sul lavoro e in famiglia, la polizia si è dovuta adeguare con quella che il prefetto Rizzi definisce “smart security”. “Ha richiesto grande equilibrio - spiega il direttore della Dcpc - per coniugare fermezza e umanità, e tutta la flessibilità necessaria per intercettare sul nascere le nuove minacce criminali”. Grazie ai rapporti di cooperazione internazionale e alla rete di esperti attivi nei teatri operativi in 62 Paesi, si è così impennato il numero di contatti sulla piattaforma Europol (oltre 24 mila), uno scambio di informazioni in tempo reale fondamentale per affrontare qualsiasi minaccia criminale. Così a fine novembre erano stati catturati oltre 1.400 latitanti, il 58% dei quali all’estero, ricercati per provvedimenti emanati dalle nostre autorità, e il 42% in Italia, su ordine di giudici stranieri. Fra loro 805 i ricercati ritenuti ancora attivi che sono finiti nella rete della polizia, 59 in più rispetto all’anno scorso: 122 sono soggetti appartenenti al crimine organizzato e 48 sono stati rintracciati con la rete Enfast, il network informale che, come in un film, collega le squadre di ricerca di tutta Europa. Giustizia e madri in lutto di Gabriella Ferrari Bravo Corriere del Mezzogiorno, 24 dicembre 2020 È un Natale segnato dal sangue dei bambini, in quest’anno maligno. E anche a Napoli parte su iniziativa del collettivo nazionale DonneInCuranti il flashmob #madriinlutto che chiede l’adesione di associazioni e persone per protestare contro l’indifferenza verso le madri che denunciano, inascoltate, la violenza tra le mura di casa. Solo tre giorni fa due bambini sono stati sgozzati mentre si difendevano dal padre armato di coltello, poi suicidatosi con la stessa arma. La mamma dei ragazzi, che aveva segnalato più volte alla polizia l’ex marito, ha dichiarato: “Gli atteggiamenti che io ritenevo aggressivi non bastavano alle forze dell’ordine. Evidentemente noi donne dobbiamo avere il volto insanguinato per essere credute” (Repubblica 22/12). Ieri, invece, un padre già noto alla Polizia e denunciato per violenza si è suicidato nel corso di una videochiamata con la figlia di sei anni. Un’onda montante di violenza inaudita, che corrisponde all’aumento della violenza in famiglia rilevato ormai da mesi, causata delle convivenze forzate durante la pandemia, un fenomeno portato nelle aule del Parlamento dalla ministra alle Pari Opportunità Bonetti. Assieme alla senatrice Valente presidente della Commissione di contrasto al Femminicidio, alla onorevole Giannone segretaria della Commissione Infanzia e Adolescenza. Ma ancora non basta. Anche se potrà sembrare prosaico e poco nobile, credo che la strada da seguire per contrastare l’aumento di aggressioni e violenze su bambini e madri sia quella della denuncia contro chi ha partecipato alla presa in carico e ai procedimenti giudiziari che li riguardano. Condivido il pensiero di Elvira Reale dell’Associazione Salute Donna, che “sia venuto il momento per chiedere che i giudici e gli operatori che hanno sottoscritto le misure sbagliate (lassiste per i padri violenti e restrittivi per le madri non violente) paghino per gli errori commessi, mettendo mano a procedimenti di impeachment per i professionisti che hanno sottovalutato il problema e il rischio concreto e attuale (non evolutivo e futuribile, di cui tanti Ctu parlano, inseguendo un presunto diritto “primario” alla bigenitorialità). Questi procedimenti dovranno prevedere la valutazione della responsabilità professionale portando a sanzioni economiche, ordinistiche e se del caso anche penali. E questo vale per i magistrati ma anche per la catena di soggetti che hanno cooperato alla decisione, da un lato di esporre i minori a tale rischio sottovalutandolo (servizi sociali, Ctu, polizia); dall’altro, di vietare il rapporto con le madri non solo sovrastimando un rischio ipotetico ma addirittura creandolo ad arte dal nulla”. È urgente che si cominci a valutare la correttezza formale e sostanziale dei procedimenti, segnalando omissioni, incompetenza, imperizia, e chiedendo anche un risarcimento economico. Come, direte, si può monetizzare la perdita dei figli o i traumi che li segneranno a vita? Non solo si può, ma si deve. Perché è importante chiamare a rendere conto professionalmente chi, per il proprio ruolo e incarico, ha partecipato alla gestione fallimentare del malessere di queste famiglie, e ha ignorato o sottovalutato gesti e intenzioni di padri violenti, spianando la strada a esiti tragici, fino al figlicidio. E fin quando il criterio della responsabilità personale non sarà applicato a tutti quelli che sono implicati in casi simili, fin quando anche la condanna a risarcire il danno non colpirà avvocati, consulenti, magistrati e costerà loro l’espulsione dagli ordini professionali e la destituzione dagli incarichi come già accade per i medici, se riconosciuti colpevoli, non cambierà molto nella condizione delle donne che subiscono violenza e in quella dei loro figli. Non basta indignarsi, bisogna pretendere che sia applicata di fatto la Convenzione di Istanbul, legge dello stato per il contrasto alla violenza, e chiedere giustizia. Con l’adesione, si spera, dei tanti onesti magistrati e operatori che dovrebbero avere ogni interesse a isolare e sanzionare chi prende decisioni aberranti e pericolose. Alle #madriinlutto, ai bambini, un buon Natale di giustizia. Prescrizione, per la Consulta la “sospensione Covid” non viola il principio di legalità di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 24 dicembre 2020 La sospensione della prescrizione disposta dai decreti legge Cura Italia e Liquidità non è costituzionalmente illegittima in quanto “è ancorata alla sospensione dei processi”. La sospensione della prescrizione disposta dai decreti legge Cura Italia e Liquidità, emanati tra marzo e aprile scorsi per contrastare l’emergenza Covid-19, non è costituzionalmente illegittima in quanto “è ancorata alla sospensione dei processi” dal 9 marzo all’11 maggio 2020, prevista per fronteggiare l’emergenza sanitaria. La cosiddetta “sospensione Covid” rientra infatti nella causa generale di sospensione della prescrizione stabilita dall’articolo 159 del codice penale, che prevede, appunto, che il corso della prescrizione rimanga sospeso ogniqualvolta la sospensione del procedimento o del processo penale sia imposta da una particolare disposizione di legge, e quindi non contrasta con il principio costituzionale di irretroattività della legge penale più sfavorevole. È uno dei passaggi della sentenza depositata oggi (di cui è redattore Giovanni Amoroso), con cui la Corte costituzionale - come già anticipato il 18 novembre scorso - ha dichiarato in parte non fondate e in parte inammissibili le questioni sollevate dai tribunali di Siena, di Spoleto e di Roma sull’applicabilità della sospensione della prescrizione anche ai processi per reati commessi prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni, per il periodo 9 marzo-11 maggio 2020. In particolare, i “giudici delle leggi” hanno dichiarato la non fondatezza delle questioni con riferimento al principio di legalità sancito dall’articolo 25 della Costituzione, mentre è stata dichiarata l’inammissibilità con riferimento ai parametri europei richiamati dall’articolo 117, primo comma, della Costituzione. Il principio di legalità - ha precisato la Corte - richiede che l’autore del reato non solo debba essere posto in grado di conoscere in anticipo quale sia la condotta penalmente sanzionata e la pena irrogabile, ma, si legge in un passaggio della sentenza, “deve avere anche previa consapevolezza della disciplina concernente la dimensione temporale in cui sarà possibile l’accertamento del processo, con carattere di definitività, della sua responsabilità penale (ossia la durata del tempo di prescrizione) anche se ciò non comporta la precisa determinazione del dies ad quem in cui maturerà la prescrizione”. In tema di sospensione della prescrizione, l’articolo 159 del codice penale “ha una funzione di cerniera”, spiega la sentenza, perché contiene, da un lato, “una causa generale di sospensione” che scatta quando la sospensione del procedimento o del processo è imposta da una particolare disposizione di legge, e, dall’altro lato, un elenco di casi particolari. Nelle vicende da cui sono nate le questioni portate all’esame della Corte, opera proprio tale causa generale di sospensione. La temporanea stasi ex lege del procedimento o del processo determina, in via generale, una parentesi del decorso del tempo della prescrizione, le cui conseguenze investono tutte le parti: la pubblica accusa, la persona offesa costituita parte civile e l’imputato. Così come l’azione penale e la pretesa risarcitoria hanno un temporaneo arresto, per tutelare l’equilibrio dei valori in gioco è sospeso anche il termine per l’indagato o per l’imputato. La Corte, nel ricondurre la nuova causa di sospensione del processo alla causa generale prevista dall’articolo 159 del Codice penale - come tale applicabile anche a condotte pregresse - ha poi precisato che essa non può decorrere da una data anteriore alla legge che la prevede. Nella sentenza si legge, infine, che la breve durata della sospensione dei processi, e quindi del decorso della prescrizione, è pienamente compatibile con il canone della ragionevole durata del processo. Inoltre, sul piano della ragionevolezza e della proporzionalità, la norma è giustificata dalla tutela del bene della salute collettiva per contenere il rischio di contagio da Covid-19 in un momento di eccezionale emergenza sanitaria. Il detenuto-lavoratore “licenziato” all’atto della scarcerazione ha diritto alla Naspi di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 24 dicembre 2020 Piccola premessa: dimenticare i “lavori forzati”, che si vedono nei film ma non esistono più. Ora, anche se non sempre quanto si vorrebbe, tutti le carceri cercano di far lavorare il più possibile i detenuti, in vista di un loro reinserimento una volta che rientreranno nella società. E ora una sentenza del tribunale di Venezia sancisce che quel lavoro è in tutto e per tutto paragonabile a quello “esterno” (o “libero”, come lo definisce il giudice Chiara Coppetta Calzavara), indennità di disoccupazione compresa. Tutto nasce da un detenuto del carcere veneziano di Santa Maria Maggiore, che aveva lavorato per un anno, tra il 2018 e il 2019, assistendo una persona disabile. Il suo “licenziamento” non era stato legato però a qualche problema sul lavoro, ma semplicemente perché aveva finito di scontare la sua pena ed era uscito di cella. Non era però riuscito a trovare un lavoro e aveva dunque fatto una richiesta formale per accedere alla Naspi, che però era stata respinta dall’Inps, sulla base del presupposto contrario rispetto a quello enunciato in sentenza: ovvero che il lavoro da detenuto non potesse essere equiparato a quello “libero”. Il detenuto aveva allora deciso di fare ricorso e si era affidato agli avvocati Marta Capuzzo e Giancarlo Moro, legali di Inca-Cgil, che sono riusciti a convincere il giudice. Nella sentenza si afferma la “natura discriminatoria” di tale rifiuto dell’Inps, poiché contrario all’articolo 3 della Costituzione: “I detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria sarebbero gli unici, nell’ordinamento, a versare la contribuzione atta a finanziare la Naspi senza potersene avvantaggiare”. L’uomo si era trovato nella condizione di “disoccupazione involontaria”, legata appunto alla scarcerazione. “È una sentenza molto importante poiché evidenzia la necessità di non vanificare ogni sforzo affinché si affermi la funzione rieducativa della pena e la prospettiva di un possibile loro reinserimento nella società libera”, afferma Giuseppe Colletti, dell’Area Previdenza dell’Inca-Cgil. Lazio. Carceri più digitali, per rispettare i diritti dei detenuti di Alessandro Capriccioli* Il Manifesto, 24 dicembre 2020 L’emergenza sanitaria legata al Covid, che ha costretto gli istituti a sostituire molte attività in presenza con quelle in collegamento, ha messo in luce l’inadeguatezza degli strumenti digitali e telematici a disposizione delle nostre carceri. Grazie al mio emendamento si potrà iniziare a colmare questa lacuna: i fondi stanziati, infatti, potranno essere utilizzati sia per acquistare nuove strumentazioni, sia per modernizzare le reti. Grazie a questi investimenti sarà possibile potenziare lo svolgimento della formazione, delle attività trattamentali e dei colloqui familiari per via telematica, in modo che nel protrarsi della crisi sanitaria queste attività possano continuare a svolgersi malgrado le misure di distanziamento sociale, e che una volta superata l’emergenza la modalità a distanza possa affiancarsi a quella tradizionale, garantendo ai detenuti un esercizio più pieno dei loro diritti. *Consigliere regionale del Lazio di +Europa Radicali Venezia. Carcere, 23 positivi al Covid in isolamento, c’è preoccupazione tra i detenuti di Francesco Furlan La Nuova Venezia, 24 dicembre 2020 Il virus è entrato nel carcere maschile di Santa Maria Maggiore, sono 23 i detenuti risultati positivi nel braccio sinistro del carcere e messi in isolamento, in parte in uno spazio Covid che era già stato predisposto proprio per far fronte a emergenze di questo tipo, e in una sezione sopra l’infermeria. Ai detenuti si aggiungono tre agenti della polizia penitenziaria. C’è preoccupazione tra i detenuti, raccolta anche dai loro avvocati, in un periodo come il Natale che, se pur in uno spazio di privazione della libertà, serviva a cercare un po’ di serenità. A causa della diffusione del virus, infatti, è saltato il pranzo di Natale che doveva esserci l’altro ieri, solitamente offerto dalla Cooperativa il Cerchio, e sono saltati anche gli appuntamenti per la consegna di alcuni doni, sempre grazie ai volontari che ruotano attorno al carcere, e la messa con il patriarca Francesco Moraglia. Degli oltre venti detenuti trovati positivi al Covid 19 solo due avrebbero lievi sintomi - un po’ di febbre - mentre gli altri sarebbero tutti asintomatici. L’allarme è scattato giovedì quando un detenuto è stato trovato positivo. Nelle ore successive, utilizzando i tamponi rapidi, è stato fatto lo screening tra tutti i carcerati e il personale, e 23 detenuti sono stati trovati positivi. “È stato fatto un lavoro grandissimi grazie al dotto Vincenzo De Nardo e a tutto il personale infermieristico che è riuscito a organizzare lo screening in poco tempo”, commenta Sergio Steffenoni, Garante dei diritti dei detenuti, “e questo ha permesso di isolare subito i detenuti positivi”. Un lavoro non facile, che ha registrato qualche momento di tensione, rimasto però circoscritto a un paio di episodi. Anche tra gli agenti della polizia penitenziaria sono stati risultati positivi, e ora si trovano a casa in isolamento. Tutti i detenuti positivi erano ospiti del braccio sinistro del carcere, e sono stati quindi messi in isolamento per evitare la diffusione del virus in altre aree del carcere veneziano. Del focolaio all’interno del carcere è stato informato il magistrato dell’ufficio di sorveglianza. Un nuovo giro di tamponi è previsto dopo Natale: permetterà di capire sei i detenuti contagiati si sono “negativizzati” - come si dice in gergo - o se sarà necessario aspettare ancora qualche giorno prima di riprendere tutte le attività che nel frattempo è stato necessario sospendere. Lanciano (Ch). Coronavirus, focolaio al carcere: detenuti e lavoratori contagiati di Giulia Antenucci abruzzolive.it, 24 dicembre 2020 I sindacati di Polizia penitenziaria chiedono serie ed immediate garanzie. Sembra non avere fine l’emergenza Covid nelle carceri abruzzesi. Dopo il caso del penitenziario di Sulmona, scoppia un nuovo focolaio a Lanciano, con diversi e preoccupanti contagi. A darne notizia sono le segreterie regionali dei sindacati di categoria dei poliziotti penitenziari Sappe, Osapp, Uil Pa, Uspp, Fns Cisl e Fp Cgil che “esprimono amarezza e solidarietà per quanto sta accadendo in queste ore”. “Chiediamo serie ed immediate garanzie per la comunità penitenziaria lancianese”, chiosano senza mezzi termini i sindacalisti, “affinché vengano arginate ulteriori alterazioni che potrebbero essere nefaste per l’intera collettività. L’amministrazione penitenziaria, le autorità sanitarie e Prefetto avviano impellenti accertamenti con relative attività riparative ed invio di personale in supporto”, concludono, “prima che sia troppo tardi”. Busto Arsizio. “Ho preso la tubercolosi in carcere” La Prealpina, 24 dicembre 2020 La denuncia di un detenuto, ma il direttore replica: “Era asintomatico”. Dopo lo scandalo delle mazzette sul lavoro in carcere, tra gli ex detenuti c’è chi rivendica i diritti negati a favore dei cosiddetti “privilegiati dell’area trattamentale”. Abdelmlek Abdelhak lamenta che in quattro anni e due mesi non abbia avuto un’educatrice e, cartella clinica alla mano, sostiene che in cella abbia contratto la tubercolosi. “È vero che era sano e poi è risultato positivo al test Mantoux, ma non si è mai ammalato”, replica ora il direttore Orazio Sorrentini - Se fosse stato malato, non avrebbe potuto lavorare a lungo come invece ha fatto”. Abdelhak era entrato in via per Cassano nel 2016 senza particolari patologie, a fine del 2017 il test di Mantoux risultava positivo. “Sono stato discriminato dall’assistente sociale del Sert e mi ha negato il programma terapeutico - ha raccontato giorni fa - mi sono rivolto al Prap e al garante dei detenuti, Matteo Tosi, gli ho raccontato la mia situazione, speravamo che denunciando il fatto attraverso La Prealpina qualcosa cambiasse, invece è peggiorato”. “Di fatto - chiarisce il direttore Sorrentini - quel detenuto aveva il bacillo della tubercolosi ma la malattia non si è mai sviluppata, per dirla in termini Covid era in pratica asintomatico. Comunque, a me risulta che abbia lavorato e per farlo aveva ottenuto il nullaosta sanitario. Ci risulta abbia lavorato dall’8 luglio 2019 fino al giorno in cui è uscito di cella. Non è vero che non gli siano state concesse opportunità lavorative, né che non abbia avuto accesso alle graduatorie per l’articolo 21 interno: è stato impegnato per 8-9 mesi”. Le versioni sono contrastati, spetterà agli inquirenti chiarire ogni cosa. Intanto, il via per Cassano, i positivi al coronavirus sono ora 46 e non si registrano situazioni gravi. Trenta attendono il tampone che sancisca la fine della quarantena. Roma. L’Assessore Guerrini: “Aumentare fondi a bilancio per reinserire i detenuti” romadailynews.it, 24 dicembre 2020 “Favorire, con sempre maggiore vigore e impegno, il pieno recupero e il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti in ossequio alle prescrizioni contenute nell’art. 27 della Costituzione italiana, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.” “Una volontà che l’attuale Amministrazione Raggi ha palesato anche nell’anno in corso, come dimostra lo stanziamento di 100.000 euro per l’attivazione di 25 tirocini finalizzati all’inclusione socio-lavorativa di persone sottoposte a tutela giudiziaria o comunque alla fine del percorso detentivo”. “Obiettivo delle esperienze lavorative quali strumenti di risocializzazione responsabile, come dichiarato dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale di Roma Capitale nella propria relazione annuale 2018/2019, è quello di attivare progetti utili per la città che possano, al contempo, offrire un’occasione di riscatto sociale ai detenuti che contribuisca ad aumentare la loro autostima e non li induca ad assumere comportamenti di reato recidivi.” “Proprio in tale ottica, coerentemente con quanto stabilito nella Legge 354/1975 e nella Carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati adottata con decreto del Ministero della Giustizia del 5 dicembre 2012, si pone la mozione approvata all’unanimità in Aula Giulio Cesare, di cui sono la prima firmataria.” “Con tale atto, infatti, l’Assemblea Capitolina impegna la Sindaca e la Giunta capitolina a prevedere, per il prossimo Bilancio Previsionale di Roma Capitale 2021/2023, un incremento delle risorse destinate alla realizzazione dei percorsi di tirocinio finalizzati all’inclusione socio-lavorativa delle persone sottoposte a tutela giudiziaria o comunque alla fine del percorso detentivo. Un tema importante al quale la Commissione per le Pari Opportunità ha dedicato diverse sedute”. “La presente mozione raccoglie l’esortazione, propria dell’assessore competente Carlo Cafarotti e della garante dei detenuti dott.ssa Gabriella Stramaccioni, di promuovere ogni possibile azione affinché’ il progetto, che ha già dato risultati così positivi, possa continuare.” “Ringrazio pertanto i membri della Commissione, di maggioranza e di opposizione, per la pronta e sinergica risposta con cui hanno voluto dar seguito a quelle richieste, a dimostrazione di come la convergenza su temi così importanti sia piena e unanime a prescindere dalle appartenenze politiche”. Così in un comunicato la presidente della Commissione per le Pari Opportunità di Roma Capitale, Gemma Guerrini. Padova. “La pasticceria più ricercata d’Italia”: il riscatto dei detenuti che diventano chef di Veronica Di Benedetto Montaccini tpi.it, 24 dicembre 2020 Il panettone fatto a mano dai detenuti è da 10 anni nella top ten del Gambero Rosso. I risultati di questa esperienza sono incredibili: il tasso di recidiva nella prigione di Padova è sceso dal 75 al 5 per cento. Il panettone è il simbolo del Natale. Ma tra le mille marche del dolce con uvetta e canditi, ce n’è una che ha dietro una storia di riscatto e cambiamento: è quello della pasticceria Giotto del carcere penitenziario Due Palazzi di Padova, che da ben dieci anni rientra stabilmente nella Top Ten nazionale Gambero Rosso. Una storia di successo, con 60.000 panettoni fatti a mano dai detenuti venduti in tutto il mondo. Attualmente nel laboratorio lavorano 40 detenuti, coordinati da quattro pastry chef. Matteo Marchetto, presidente della cooperativa Workcrossing spiega che “gli ultimi mesi sono stati complicati. II carcere è una piccola società dove ci sono molte interazioni: l’università, le iniziative comunitarie, il lavoro. I contatti ora sono ancora più ridotti: i detenuti faticano a vedere i loro cari e chi entra dall’esterno deve prestare molta attenzione. E casi di Covid ce ne sono comunque”. La Workcrossing è nata nel 1992 e ha poi trasferito il laboratorio all’interno del Due Palazzi nel 2005, dopo un progetto pilota di gestione esterna della cucina carceraria nel 2003. Da quindici anni Workcrossing è tra le organizzazioni che si impegnano nella riabilitazione dei detenuti con la cucina. Uno dei pochi casi italiani dove i detenuti delle 195 carceri italiane sono lavoratori regolari: su un totale di 55.000 carcerati, solo 1500 lavorativamente attivi. Come si può leggere sul sito dell’istituto penitenziario, gli aspiranti chef vengono selezionati in base alle qualità e dopo colloqui conoscitivi e psicologici. Dopo il tirocinio, i detenuti vengono assunti regolarmente con contratto nazionale del lavoro: il primo anno al 65 per cento dello stipendio effettivo, per raggiungere al terzo anno il 100 per cento. Con il salario percepito i detenuti possono comprarsi cibo e vestiti all’interno dello spaccio carcerario o inviare la loro busta paga alle loro famiglie. “Non riscattano la propria coscienza nel solo tempo presente ma anche per il futuro personale, dei loro cari, nonché nei confronti dello Stato. Ogni carcerato costa allo stato italiano. Dare loro un lavoro retribuito significa renderli cittadini attivi”, racconta il presidente della cooperativa. Terminato il loro percorso riabilitativo carcerario, infatti, i nuovi pasticceri possono trovare lavoro all’esterno e continuare a costruirsi una vita normale. Alcuni hanno addirittura aperto la loro attività. I risultati sono incredibili: a livello mondiale il tasso di recidiva all’uscita dal carcere è del 75 per cento, mentre nella cooperativa del carcere di Padova solo il 5 per cento. E non è una questione di panettoni o di “a Natale siamo tutti più buoni”. A cambiare la vita di questi detenuti è una ricetta per nulla segreta: una giusta quantità di realizzazione professionale, un mestiere in tasca all’occorrenza e un pizzico di speranza per il futuro. Perugia. Reinserimento detenuti: “Argo”, progetto per la via del riscatto di Michele Tanzi primopiano.news, 24 dicembre 2020 72 i detenuti coinvolti in 5 diversi percorsi formativi. I migliori due assunti in prestigiosi ristoranti locali. C’è chi ha trovato la sua passione nella pasta fresca e nel pane fatto in casa. E sogna il proprio ristorante una volta fuori dal carcere. Chi durante la detenzione ha trovato l’orgoglio di saper fare un mestiere perché prima, in 53 anni, era stata “solo una casalinga” e adesso dice di aver avuto “un’occasione per imparare a lavorare e la speranza di continuare il mestiere della cucina una volta fuori”. Se ben organizzato il carcere può davvero diventare un luogo di recupero. In questo senso l’esperienza formativa presso il Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia si può dire riuscita. 72 i detenuti coinvolti, di cui 15 donne ristrette presso la sezione femminile. Gli allievi che hanno frequentato i 5 percorsi formativi per “Addetto alla cucina” (2 edizioni), “Addetto ai servizi di pulizia”, “Impiantista elettricista” e “Operaio agricolo”, promossi da Frontiera Lavoro, nell’ambito del progetto “Argo: percorsi formativi per il reinserimento dei detenuti”, finanziato dalla Regione Umbria attraverso il Fondo Sociale Europeo, sono soddisfatti della loro nuova o migliorata capacità professionale. E al termine delle 120 ore di lezione i migliori due del corso di cucina sono stati assunti con regolare contratto di lavoro a tempo indeterminato presso prestigiosi ristoranti del territorio perugino. Il corso di cucina, in particolare, è non solo un’occasione professionalizzante, ma anche motivo di incontro e integrazione tra culture. Nell’Istituto penitenziario di Perugia sono infatti presenti molti detenuti stranieri che adesso stanno diventando in un certo senso portavoce della cucina mediterranea e dei piatti della tradizione umbra. Come Elena, 32 anni romena. “Ho imparato tante cose nuove - racconta -, specialmente riguardo gli ingredienti base della cucina italiana e modi di cottura che prima non conoscevo”. O come la sua compagna 26enne toscana Veronica, che però preferirebbe dedicarsi al servizio ai tavoli e dice: “Ora voglio riprendere la mia vita e continuare a fare la cameriera”. Tutti i corsisti che hanno partecipato alla formazione sono coordinati da prestigiosi e rinomati docenti. “Gli allievi, spiega la chef Catia Ciofo, hanno imparato le basi della cucina mediterranea. Dalla pasta fatta in casa ai piatti tradizionali rivisitati. Alcuni non avevano idea della cucina, mentre altri avevano già lavorato nel settore. Tutti hanno affrontato il corso con piacere e ottenendo ottimi risultati. Divisi in piccoli gruppi i partecipanti hanno lavorato in cucina con materiali e prodotti di qualità e al termine di ogni lezione monotematica, la carne, il pesce, l’orto, la pasticceria, i piatti preparati sono stati consumati insieme. Il cibo è un linguaggio comune e un argomento che tocca trasversalmente tutte le culture e le nazionalità, da qui la scelta di metterlo al centro di un progetto che ha un duplice obiettivo: da un lato, creare le condizioni per una migliore integrazione delle donne detenute e migliorare la loro capacità comunicativa, dall’altro acquisire nuove abilità e competenze tecniche che possano costituire il punto di partenza per modificare il proprio percorso di vita”. Il progetto, causa emergenza pandemica, attualmente è sospeso e riprenderà nel prossimo mese di gennaio con il corso per “Impiantista elettricista” in modalità a distanza. I progetti di inclusione sociale, come quello promosso dalla Regione Umbria, sono utili per persone maggiormente vulnerabili, a rischio di discriminazione, per le quali vengono definiti percorsi personalizzati di accompagnamento al lavoro. “Il progetto proposto - dichiara il coordinatore Luca Verdolini - ha l’obiettivo principale di fornire le competenze di base sulle diverse professionalità che possono operare in un contesto lavorativo oltre agli insegnamenti fondamentali, propedeutici ad un successivo reinserimento sociale della persona detenuta. Negare ad una persona detenuta il diritto al lavoro non equivale infatti a sanzionarlo per il delitto che ha commesso ma privarlo uno degli aspetti salienti della vita: la relazione con le persone e con la realtà. L’esperienza lavorativa, infatti, aumenta il grado di stima dei detenuti consentendo una riscoperta della loro dignità, permette il recupero dei legami familiari favorendo una rinnovata socialità e, infine, incide sulla recidiva migliorando i comportamenti individuali e le abitudini sociali. Solo così riusciranno a ricominciare a vivere con dignità”. Lucca. Marcucci e Baccelli (Pd) in visita al carcere: “rendiamolo più vivibile e funzionale” luccaindiretta.it, 24 dicembre 2020 I due esponenti del Partito Democratico ieri mattina (23 dicembre) sono tornati nella Casa circondariale lucchese per il tradizionale incontro di Natale. Anche quest’anno in occasione del periodo natalizio il capogruppo del Partito democratico in senato Andrea Marcucci è tornato a far visita al carcere lucchese accompagnato dall’assessore regionale Stefano Baccelli. Un’occasione per rinnovare gli auguri al personale e ai detenuti ma anche un momento per riportare al centro dell’attenzione l’ipotesi di un ricollocamento della struttura all’esterno delle Mura e una conseguente riqualificazione dell’area alla luce dei limiti della struttura messi in evidenza dall’emergenza sanitaria. “Quando ho iniziato con le visite nelle carceri la situazione era critica. Nel tempo questa emergenza è in gran parte rientrata - ha affermato Marcucci. Ogni anno visito diverse volte le carceri italiane ed almeno due volte, quella della mia zona, Lucca. Torno qui perché credo il momento natalizio sia un’occasione di solidarietà importante per ribadire la presenza e l’attenzione dei rappresentanti parlamentari e locali. All’interno del carcere ci sono condannati e ancora troppe persone stanno dietro le sbarre in attesa di giudizio, una piaga del nostro sistema giudiziario che non riusciamo a correggere definitivamente, quindi l’attenzione della politica deve essere costante. Ma questa può essere anche un’occasione per ipotizzare e rilanciare l’ipotesi di riportare il carcere fuori dalle Mura, per permettere così una sostanziale riqualificazione della struttura”. “Sono anni che accompagno Andrea in questa visita in simbolo di solidarietà per la polizia penitenziaria e per i carcerati che in un momento di pandemia come quello che stiamo attraversando si ritrovano a dover fare i conti con i limiti delle strutture - ha aggiunto Baccelli. Dobbiamo lavorare su un nuovo progetto per il carcere, anche approfittando delle risorse del Recovery Found. Credo che occorra un carcere più moderno e funzionale, più vivibile. È giunto il momento di liberare questo chiostro come facemmo già con lo spazio di Sant’Agostino per restituirlo alla città, magari costruendo un ostello per la Next Generation. Questa è solo un’ipotesi ma quest’anno potrebbe essere l’occasione giusta per rilanciarla”. Verbania. I detenuti-imbianchini colorano di blu il carcere di Pallanza di Beatrice Archesso headtopics.com, 24 dicembre 2020 Il progetto “formativo” nella casa circondariale di Verbania. La pandemia non ha fermato le attività del carcere. L’istituto penitenziario di Verbania ha cambiato faccia all’interno in modo da rendere più accoglienti gli spazi. Un’opera svolta nei mesi scorsi con il coinvolgimento anche dei detenuti. Si è trattato del progetto “Impariamo facendo” che ha visto impegnati cinque carcerati nella tinteggiatura delle aree interne: si è passati dal giallo originario all’azzurro giocando con contrasti blu. “La riqualificazione ha riguardato tutti gli ambienti - spiega la direttrice della casa circondariale Antonella Giordano -: le sezioni interne, incluse le camere detentive, nonché le zone comuni e quelle dei colloqui. L’iniziativa è stata al tempo stesso un percorso formativo per i detenuti coinvolti perché si è trattato di un lavoro “di restituzione” e hanno avuto modo di imparare una mansione che prima non conoscevano”. Al progetto ha partecipato l’azienda Cipir, che ha donato i colori, e l’associazione “Camminare insieme” con un contributo. Quest’ultima si è anche messa in moto per confezionare sacchetti da donare ai detenuti per Natale: all’interno ci sono “vizi” come caffè, cioccolato e datteri, ma anche cose più utili come gel igienizzante, fazzoletti, mascherine e un mini calendario 2021. Non manca un fiore rosso, richiamo al Natale ma pure delicato omaggio alla gentilezza. “Non ci siamo fermati” - La direzione dell’istituto penitenziario ha risposto al gesto solidale dell’associazione di Verbania donando ai volontari i frollini realizzati nell’ambito di un altro progetto partito proprio dal carcere: quello della Banda Biscotti, virtuoso esempio di economia carceraria. “Nonostante la pandemia, i detenuti hanno continuato a lavorare nel pieno rispetto di tutte le norme di sicurezza anti contagio. Alla Banda Biscotti, ma anche altrove dove sono attivi altri inserimenti lavorativi. Nessuno è rimasto senza lavoro” dice Giordano. Rimangono al momento sospese - per evitare rischi di contagio da Covid - solo le proposte culturali che di solito l’associazione Camminare insieme cura all’interno del carcere coinvolgendo i detenuti in iniziative di arte, letteratura, teatro e anche di solidarietà. Salerno. Il carcere di Sala Consilina resta chiuso di Federica Inverso ottopagine.it, 24 dicembre 2020 Il ministero di Giustizia ha confermato il provvedimento di soppressione della Casa circondariale. Nessun dietro front da parte del Ministero della Giustizia. Il carcere di Sala Consilina resterà chiuso. Una decisione presa in virtù del fatto che la struttura “non è ritenuta economicamente conveniente per le dimensioni, potendo accogliere meno di 50 detenuti”. Già il 27 ottobre del 2015, il ministero aveva chiuso la casa circondariale con un decreto. Avverso al provvedimento, il comune di Sala Consilina, affiancato dall’Ordine degli avvocati di Lagonegro, aveva presentato ricorso al Tar Salerno. Il Tar Salerno aveva accolto il ricorso ordinando al Ministero della giustizia di rinnovare l’intero procedimento amministrativo, decisione confermata anche dal Consiglio di Stato che, ritenendo illegittima la procedura adottata, aveva di fatto imposto al Ministero di convocare una conferenza di servizi, coinvolgendo anche il comune di Sala Consilina e l’Ordine degli avvocati. Nel corso della conferenza dei servizi, era anche stato presentato da parte del comune un progetto alternativo in cui sarebbe stato possibile con una spesa di 220 mila euro - a carico del comune stesso - portare a 51 posti la capienza della casa circondariale. Ma il progetto sembrerebbe non esser stato considerato e, a due anni di distanza un nuovo provvedimento ha annunciato la chiusura della struttura carceraria. L’amministrazione di Sala Consilina non vuole, però, darsi per vinta. Il sindaco Francesco Cavallone ha, infatti, deciso di rivolgersi al Tar per chiedere l’annullamento del nuovo provvedimento di soppressione. Massa. I racconti di quaranta cittadini per dare voce a chi è in carcere La Nazione, 24 dicembre 2020 L’iniziativa delle due associazioni Empatheatre ed Experia. Più di quaranta cittadini di Massa hanno dato voce a racconti, biografie, scritti di detenuti in carcere nella iniziativa “Fuori e Dentro le Mura Online”, che ha lo scopo di dare voce a chi non ha voce, organizzata da Empatheatre e da Experia, che cooperano alla realizzazione del laboratorio teatrale nelle case di reclusione di Massa, di Lucca e di San Gimignano. Il Covid-19 - spiegano gli organizzatori dell’iniziativa - impedisce il contatto e gli assembramenti in presenza, ma non online e così più di 190 persone di tutte le età, da Massa, Lucca, San Gimignano, si sono riprese col proprio telefonino mentre interpretavano le storie di persone recluse, operatori e educatori del carcere, persone della polizia penitenziaria e hanno inviato il tutto agli organizzatori”. “Questi video - proseguono i promotori - resteranno online fino al 27 dicembre 2020 su www.fuoriedentrolemura.it insieme alle testimonianze di operatori dei tre istituti carcerari e a frammenti di repertorio delle iniziative organizzate negli anni precedenti”. “Tutto questo - concludono i rappresentanti delle due associazioni - permetterà a tutti quelli che lo vorranno di conoscere più da vicino il mondo del carcere spesso ignorato o considerato solamente per fatti eccezionali di cronaca”. Bolzano. Il Vescovo Muser scrive ai detenuti: “Cercare la strada della rinascita” Alto Adige, 24 dicembre 2020 La tradizionale visita al carcere di via Dante annullata causa Covid. Le misure anti-contagio hanno impedito quest’anno la tradizionale visita prenatalizia del vescovo Ivo Muser nella casa circondariale di Bolzano. Ma il vescovo non ha voluto far mancare la sua vicinanza ai detenuti, al personale e ai volontari: ha inviato loro una lettera di auguri accompagnata da un piccolo dono natalizio. Nella sua lettera monsignor Muser ringrazia dirigenza e personale del carcere, operatori, volontari e il cappellano per l’importante e delicato impegno che svolgono: “La vostra capacità di tendere la mano verso l’altro, di essere pronti all’ascolto e al dialogo, aiuta davvero a cambiare il corso della vita di una persona”, scrive tra l’altro il vescovo. Nel Natale con il Covid si avvertono maggiormente il peso di questo tempo complicato e la lontananza dagli affetti, ma Muser ha parole di incoraggiamento per le persone detenute: “Nessuno è solo. Dio ha speranza per tutti e ha fiducia in tutti. Anche chi ha commesso errori può trovare la forza necessaria per cercare la strada della rinascita e percorrerla giorno dopo giorno”, scrive tra l’altro il vescovo. Nuoro. Il Natale dei detenuti con l’Ordine di Malta ortobene.net, 24 dicembre 2020 Alla presenza della direttrice della Casa Circondariale di Badu e Carros, dottoressa Patrizia Incollu, e delle altre cariche dell’Amministrazione Penitenziaria, si è svolta la cerimonia di consegna dei regali per le persone detenute. In quest’anno di pandemia, in cui i normali rapporti tra i volontari del Smom (Sovrano Militare Ordine di Malta) ed i reclusi sono stati condizionati dal distanziamento sociale e dall’impossibilità di un rapporto diretto, l’Ordine ha voluto manifestare la propria vicinanza con un segno di generosità cristiana. A ciascuna delle 280 persone detenute verrà consegnato un sacchetto regalo contenente: una copia dell’ultima enciclica di Papa Francesco “Fratelli Tutti” (offerta dalla Caritas Diocesana); un rosario costruito a mano dalle Suore Carmelitane del convento di Nuoro; una tavoletta di cioccolato (offerta dall’imprenditore O. Sedda); prodotti per l’igiene ed una confezione di mascherine chirurgiche. Sono stati inoltre donati una ulteriore fornitura di 6200 mascherine ed un riunito odontoiatrico (poltrona del dentista). La partecipazione della Caritas Diocesana e delle Suore Carmelitane vuole rappresentare una testimonianza in cui tutta la comunità cristiana si stringe in un pensiero di fratellanza verso le persone detenute. “L’Ordine di Malta è attivo da alcuni anni con gli istituti di reclusione di Badu ‘e Carros e Mamone”, conferma il Delegato Regionale del Smom, Prof Mario Tola Grixoni, “per la donazione farmaci da banco e dispositivi di protezione, accompagnamento e accoglienza durante i permessi, varie iniziative di assistenza alla persona e attività collegate al rinnovo delle patenti, un motivo di speranza per le persone recluse”. Recentemente, nel corso della prima ondata della pandemia, il Smom ha partecipato al progetto “Attivi e Solidali”, coordinato dal Comune di Nuoro con il conferimento di derrate alimentari e la facilitazione alle cure sanitarie per le persone in difficoltà. Per ulteriori informazioni sulle attività del Smom è possibile contattare: Antonello Uccula, cell: 3313655168, rubio2777@yahoo.it. Paliano (Fr). L’esempio di Maria per essere pienamente mamme di Davide Dionisi osservatoreromano.va, 24 dicembre 2020 Il Progetto Natività realizzato dalle detenute della Casa di reclusione. La data, 13 aprile 2017, è incisa nelle mura ciclopiche dell’antica fortezza Colonna del carcere di Paliano, in provincia di Frosinone. Un giorno memorabile perché Papa Francesco scelse proprio questa struttura risalente al xvi secolo per presiedere la messa in coena Domini, lavare i piedi agli ospiti, tutti collaboratori di giustizia, e condividere con loro l’inizio del triduo pasquale. I segni di quella visita sono ancora oggi visibili e chi ha vissuto quei momenti ha continuato nel tempo a rispondere concretamente all’appello che nell’occasione lanciò Francesco: “Se voi potete dare un aiuto, fare un servizio qui, in carcere, al compagno o alla compagna, fatelo. Perché questo è amore”. Le occasioni per testimoniare l’impegno assunto sono state diverse. A cominciare dalla realizzazione della “Croce della misericordia” realizzata dagli ospiti artigiani per inviare il loro messaggio di solidarietà e di vicinanza a tutti i detenuti italiani che patiscono le loro stesse sofferenze. E poi i numerosi incontri di preghiera e le riflessioni sulla Parola di Dio. Qui ha fatto tappa la Croce della Gmg, la Madonna pellegrina ed è stato realizzato un ciclo di trasmissioni della Radio Vaticana intitolate “Il Vangelo dentro”. Poi è arrivato il covid e la vita degli istituti ha subito un brusco stop, le visite sono state sospese, così come tutte le attività trattamentali. Ma a Paliano non è mai venuta meno la volontà di andare avanti, nonostante il dolore della doppia detenzione - quella della condanna e del coronavirus - e, grazie alla disponibilità dell’amministrazione, è stato portato a termine il Progetto Natività, una iniziativa che ha visto protagoniste le donne detenute. “L’idea ci è venuta all’inizio di gennaio” spiega Anna Angeletti, direttrice dell’istituto del frusinate. “Chi è recluso è in continua attesa. Aspetta il colloquio, il processo, la sentenza, il permesso di scarcerazione, la telefonata dei cari, il turno di lavoro. Tutto questo è un tempo prezioso, soprattutto per le donne che pensano (e attendono) la visita dei figli piccoli da mamme apprensive e premurose quali sono. Per questo ci è venuto in mente di scandire questo tempo, mese per mese, facendo ricorso all’arte e alle opere che rappresentano la Natività. Dodici presepi diversi per tornare a vivere intensamente la maternità”. La direttrice racconta con commozione il giorno in cui sono state comunicate le restrizioni a causa della pandemia. “Era il 9 marzo e mi sono recata personalmente ad annunciare i provvedimenti. Ho visto la disperazione nel volto di una donna, madre di quattro figli e la sua preoccupazione per il loro futuro. Non potevamo abbandonare nello sconforto persone che già stavano pagando un altissimo prezzo a causa del loro passato. Era giusto reagire. Avvicinarsi all’arte è stato per loro un balsamo, una carezza, un messaggio di conforto in un momento drammatico e, al tempo stesso, inedito”. Al di là del tema sacro scelto dalle ospiti, il progetto nasce dunque dall’esigenza di sottolineare e avviare una riflessione sull’essere mamme in carcere, sul ruolo della donna e della famiglia. Il calendario contiene, infatti, anche pensieri e considerazioni delle autrici ispirate alle opere prese in considerazione. “Non dimentichiamo che le condizioni di vita della persona detenuta sono connotate da una distanza relazionale imposta dalla lontananza fisica che mal si armonizza con il bisogno di vicinanza fisica che appartiene ai legami affettivi” rileva Fatima Cesari, responsabile dell’area educativa del carcere. “Le bambine e i bambini che subiscono, loro malgrado, la separazione forzata da un genitore che ha infranto la legge, soprattutto se piccoli, non hanno gli strumenti per elaborare un distacco che non hanno scelto e che fanno fatica a comprendere. Si vive infatti in una dimensione dell’attesa, connotante l’emozione dei legami genitoriali. Quando è possibile, la certezza dell’incontro rappresenta una base sicura a cui fare riferimento. In questo ultimo anno - continua Cesari - neanche questo è stato possibile, se non tramite le videochiamate o i colloqui visivi effettuati dietro pannelli di vetro separatori. La certezza della vicinanza affettiva, data dalla realizzazione del calendario che hanno consegnato ai lori figli, è diventato il motore che ha spinto ad affrontare, nel modo migliore possibile, la quotidianità della carcerazione, per cercare di mantenere una costante e continua connessione emotiva. L’operazione è stata quella di sostenere e rinforzare la relazione genitoriale”. Insieme al calendario, le ragazze hanno realizzato anche un presepe fatto con il sapone e un video multimediale che racconta il loro approccio con i quadri d’autore raffiguranti le Natività più belle della storia dell’arte. “Un salto nel passato che ha mirato alla descrizione del dipinto, allo studio del suo autore, dello stile usato, del periodo storico vissuto, accompagnato da cenni alla filosofia dell’arte. Ulteriore finalità del progetto è stato l’approfondimento della genesi, dell’evoluzione del Presepe nel tempo, nonché la simbologia e l’origine delle ambientazioni” riprende la responsabile dell’area educativa di Paliano. Obiettivo raggiunto, dunque, ad ulteriore conferma che una giustizia veramente a misura d’ uomo comporta lo sviluppo della personalità e la valorizzazione del ruolo di materno o paterno pur nella necessità di una giusta pena e in questo, iniziative così, hanno un compito fondamentale. “Ci siamo detti veramente soddisfatti quando ho visto l’espressione di felicità negli occhi lucidi di commozione delle detenute alla vista del calendario che, orgogliose, non vedevano l’ora di consegnare ai loro figli”, conclude Fatima Cesari “È stata la dimostrazione del continuo pensiero di amore per i loro piccoli. Mamma c’è, nonostante tutto”. Un carcere in forma di Casa di lavoro. De Vanna inquadra il paradosso dei “fine pena forse” di Rosaria Pirosa globalist.it, 24 dicembre 2020 Gli internati non sono più detenuti ma vivono una situazione assurda che impedisce il reinserimento. Uno studio con testimonianze mostra una drammatica realtà. Chi ha finito di scontare una pena, e viene ritenuto ancora socialmente pericoloso, può essere internato in un’istituzione da sempre ignorata: la Casa di lavoro. Si tratta nella sostanza di un contesto che rischia - paradossalmente - di chiedere ancora di più del carcere, perché subordina la fine dell’internamento a una condizione di fatto impossibile per chi non ha un lavoro, solidi riferimenti familiari sul territorio o una residenza. Detenuti, ergastolani definiti “comuni o “ostativi” in relazione alla possibilità di accedere alla liberazione condizionale, ex detenuti, internati nelle cosiddette R.E.M.S (Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza) - che con la legge n. 81 del 30 maggio 2014 hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari - molto spesso, non sono pensati come persone rese vulnerabili e inabili al “reinserimento sociale”, ma più comunemente come “soggetti socialmente pericolosi”. Sugli internati nelle case di lavoro presenti nel territorio nazionale, tuttavia, non incombe neppure questa etichetta, ma solo gli effetti incapacitanti di una misura di sicurezza detentiva, che tutt’ora, attraverso la previsione di cui all’articolo 216 del codice penale vigente, permane nell’ordinamento giuridico italiano, pur essendo stata introdotta nel lontano 1930 in pieno regime fascista. Risponde all’esigenza di portare alla luce questa parte di realtà per la gran parte sconosciuta o ignorata, l’opera curata da Francesco De Vanna “Misure di sicurezza e vulnerabilità: la ‘detenzionè in Casa di lavoro” (Mucchi, 2020, collana “Prassi sociale e teoria giuridica”), che mette a tema - a partire da una tavola rotonda organizzata, il 17 febbraio 2020, dal Crid - Centro di Ricerca Interdipartimentale su Discriminazioni e vulnerabilità presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’università di Modena e Reggio Emilia - quella che nell’ordinamento giuridico italiano rischia di assumere la forma di un “ergastolo bianco”, ovvero l’assegnazione alla casa di lavoro. Più precisamente un “ergastolo traslucido” o “invisibile”, fuori dallo sguardo della società e delle istituzioni come le chances e le esistenze di coloro che vi rimangono trattenuti. L’associazione di una pena - l’ergastolo - ad una misura di sicurezza detentiva - l’assegnazione alla casa di lavoro - sotto un profilo strettamente giuridico, potrebbe suonare come un’espressione atecnica e, in generale, eccessiva. L’esperienza degli internati, che viene restituita con attenzione e rispetto nel libro, dimostra il contrario: sono ben cinque le testimonianze raccolte. “Si entra dopo aver completamente scontato la pena, quindi agli occhi di chi non se ne intende, potremmo semplificare che sei un ex-detenuto ancora detenuto. Ecco, quindi l’altra ipocrisia: diventi ‘internato’, ed è proprio questo che frega perché quei pochi benefici possibili in carcere spariscono. Sei internato? Allora non sei più ufficialmente ‘detenuto’, ma resti in un carcere che si chiama, però, Casa di lavoro” (da La voce di un internato). “Ero l’unico a non essere mai stato in carcere e se qualcuno mi avesse fatto capire “cos’è una Casa di lavoro”, sarei corso in comunità. Nessuno mi ha fatto presente che è una “struttura carceraria” in cui, per di più, il lavoro dovrebbe essere obbligatorio. Se si pensa che io sono riconosciuto inabile al lavoro al 65 % per cui percepisco pure una pensione, questo potrebbe suonare quasi come una ulteriore beffa” (da “La voce di Vittorio”, deceduto subito dopo la fine dell’internamento). “Il lavoro? Nessun lavoro particolare se non i soliti di ordinaria amministrazione che si fanno in qualsiasi carcere (pulizie, scopino, spesino, cucina…ecc). Pochi eletti, a turno, nell’azienda agricola interna. Io mai stato scelto” (Da “Le voci di Marco e Pasquale”, ex internati). La distinzione tra la pena detentiva scontata e l’internamento nella casa di lavoro - il cui presupposto applicativo, oltre all’istanza di difesa sociale dovrebbe essere la “cura” - non sussiste se non quando risulta evidente a chi è vi è ristretto che l’unica via per uscire dal circuito penale para-carcerario è “l’autosufficienza” rispetto alla costruzione di un progetto per il proprio reinserimento sociale. Il libro curato da De Vanna - che dopo la prefazione di Thomas Casadei e Gianfrancesco Zanetti fondatori del Crid, raccoglie i contributi del Presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano Francesco Maisto ma anche quelli di Emilio Santoro e Tatiana Boni, nonché le testimonianze di Fedora Martini e Roberta Elmi e, come si è accennato, anche di ex internati o di persone tutt’ora internate - offre un importante occasione per tornare a discutere di misure di sicurezza dopo la conclusione dei lavori degli Stati Generali sull’esecuzione penale (19 maggio 2015 - 5 febbraio 2016). Il volume indica con molta chiarezza la necessità di una riforma istituzionale, ma attraverso un approccio che sostiene le ragioni di questa urgenza respingendo la marginalizzazione delle persone considerate marginali e che volge la ricerca scientifica, in generale, e la riflessione giusfilosofica, in particolare, al raggiungimento di tale obiettivo. Chi leggerà il libro comprenderà che la pericolosità sociale può essere anche un costrutto mantenuto per puntellare un “fine pena forse”, che alla stregua di “un fine pena mai”, sgretola ogni progettualità esistenziale. E riceverà l’impressione che la vulnerabilità non sia soltanto uno stato comune a tutti gli esseri umani o una caratteristica attribuibile ad alcune categorie di persone, ma anche il risultato di specifiche condizioni di vita (o, di fatto, di non vita). Decreti sicurezza. Una riforma insufficiente contro il razzismo sistemico di Bruno Montesano Il Manifesto, 24 dicembre 2020 Con la riforma, rispetto ai Decreti di Salvini, non scompaiono le sanzioni alle Ong - che diventano penali e non più amministrative - e aumenta la criminalizzazione di chi si ribella nei Cpr. Il Daspo urbano per selezionare e disciplinare la popolazione viene rafforzato. La riforma dei Decreti Sicurezza segna alcuni timidi passi in avanti. Tuttavia, per far fronte al razzismo odierno - che si manifesta tanto nel discorso pubblico, quanto nella pratica istituzionale - servirebbe molto di più. Forse sarebbe stato troppo ambizioso (ma soprattutto ingenuo) aspettarsi che questa condizione cambiasse sotto lo stesso premier che ha condotto il governo più a destra della storia del paese. Così come poco c’era da aspettarsi da un partito nazional-populista come il M5S e da un centro-sinistra che da venticinque anni fa politiche sostanzialmente uguali a quelle della destra, di cui condivide lo spirito securitario ma ne attenua la retorica. L’ultima riforma dei Decreti sicurezza, pur se con qualche luce, rientra all’interno della lunga tradizione di leggi securitarie e repressive che hanno disciplinato le migrazioni. Come specificato da Lamorgese, la “sicurezza” rimane il contraltare con cui bilanciare le timide aperture su alcuni fronti. Infatti, Luigi Manconi e Federica Resta hanno qualificato la normativa italiana sull’immigrazione come un diritto asimmetrico e deformalizzato e, in relazione ai Decreti Minniti-Orlando - che l’attuale riforma non mette in discussione - hanno parlato di un diritto etnico, “minore”. Con la riforma, rispetto ai Decreti di Salvini, non scompaiono le sanzioni alle Ong - che diventano penali e non più amministrative - e aumenta la criminalizzazione di chi si ribella nei Cpr. Il Daspo urbano per selezionare e disciplinare la popolazione viene rafforzato. Rimangono le procedure accelerate di valutazione delle domande d’asilo, secondo l’approccio hotspot proposto dal Patto sull’immigrazione e l’asilo. Così come rimane la norma sulla revocabilità della cittadinanza. Si accorciano “in compenso” i tempi per il rilascio della cittadinanza che però sono comunque più lunghi di quanto lo fossero prima della riforma di Salvini. L’aspetto più importante forse consiste nell’introduzione della protezione speciale e nell’ampliamento dei casi di inespellibilità, che riguarderà chi abbia una vita consolidata nel paese così come chi rischi trattamenti inumani. Inoltre, sarà possibile convertire la protezione speciale, insieme ad altri permessi temporanei, in un permesso per lavoro. È stato inoltre tolto il tetto massimo alle quote del decreto flussi sugli ingressi per motivi di lavoro. Viene ripristinata l’accoglienza per i richiedenti asilo, nonché l’iscrizione anagrafica - che però viene subordinata al volere degli operatori dell’accoglienza. In definitiva, questa riforma, pur introducendo alcune norme positive, non interviene sul razzismo strutturale. Le milizie e le forze di sicurezza libiche continuano a venire pagate per trattenere parte della popolazione “in eccesso” a distanza. Chi arriva in Italia via mare - su navi spesso tenute fuori dai porti anche sotto il governo Conte II - con il pretesto della pandemia, continuerà a venir rinchiuso in navi-lazzaretto, per poi esser messo nei Cpr senza poter fare domanda d’asilo, pronto per l’espulsione. I confini della “Fortezza Europa” sono porosi e le persone non smetteranno di attraversarli ma l’accesso deve rimanere pericoloso e la detenzione e il rischio di venir deportati, devono continuare a segnare l’esperienza di chi accede allo spazio europeo. L’esclusione dai diritti fondamentali, per via legale o de facto da parte della amministrazione o della polizia, dei non-cittadini rimane. D’altronde, la cittadinanza nazionale istituisce una discriminazione legale, che può esser radicalizzata - dietro alla apparente naturalità della differenza nazionale - per via normativa e amministrativa. In quello che sempre più si configura come un’apartheid europeo - come lo hanno chiamato Étienne Balibar e Sandro Mezzadra - le discriminazioni e la retorica dello scontro di civiltà non servono tanto ad impedire l’ingresso dei migranti, quanto piuttosto ad inserirli in una posizione subalterna nelle società europee. Non a caso, anche dopo questa riforma, a resistere è il nesso tra politiche migratorie, di sicurezza e del lavoro. Si vuole, da un lato, produrre forza lavoro precaria e vulnerabile, espellibile all’occorrenza e regolarizzabile nelle emergenze - come con la parziale sanatoria di maggio. Dall’altro, si intende riprodurre un’identità nazionale altrimenti fragile e esposta alla sua contingenza. A tal fine, si strumentalizza il rancore sociale attraverso la logica della priorità nazionale, utile al disciplinamento della società. C’è infine l’esigenza di tranquillizzare la popolazione nazionale sulla persistenza del potere sovrano a fronte dei fenomeni di erosione e trasformazione dello stesso. Si crea così un circuito di reciproca legittimazione tra illegalizzazione, discriminazioni a mezzo di legge e violenza nella società. Per interrompere questa spirale servirebbe una politica dell’eguaglianza radicale, ma si preferisce mantenere lo status quo. Stati Uniti. Torna in Italia Chico Forti di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 24 dicembre 2020 Condannato per omicidio, si è sempre dichiarato innocente. L’annuncio di Di Maio. Chico Forti ora potrà tornare in Italia perché il governatore della Florida ha accettato di trasferirlo. Il detenuto, già campione di windsurf, stava scontando l’ergastolo per il delitto di un giovane americano a Miami. “Ho una bellissima notizia da darvi: Chico Forti tornerà in Italia. L’ho appena comunicato alla famiglia e ho informato il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. Il Governatore della Florida ha infatti accolto l’istanza di Chico di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo e di essere trasferito in Italia”. Lo annuncia il ministro Luigi Di Maio su Facebook. Enrico “Chico” Forti, 61 anni, originario di Trento e più volte campione italiano di windsurf, era rimasto coinvolto alla fine degli anni 90 in una oscura vicenda di criminalità comune: il 15 febbraio del 1998 era stato trovato ucciso su una spiaggia poco lontano da Miami, in Florida, un cittadino americano, Dale Pike. Per quell’omicidio era stato arrestato il cittadino italiano, poi condannato all’ergastolo nel 2000. Il movente del delitto dal quale Forti si è sempre dichiarato del tutto estraneo, sarebbe da ricercarsi in un tentativo di truffa: il padre di Pike e l’italiano erano in trattativa per l’acquisto di un hotel a Ibiza. Appelli per la liberazione dell’ex windsurfer e per la revisione del processo sono fino a oggi caduti nel vuoto. Forti, in base alla convenzione di Strasburgo, tornerà in Italia da detenuto e qui continuerà a scontare la pena salvo pronunciamenti della magistratura italiana. “Si tratta di un risultato estremamente importante, che premia un lungo e paziente lavoro politico e diplomatico. Non ci siamo mai dimenticati di Chico Forti, che potrà finalmente fare ritorno nel suo Paese vicino ai suoi cari - aggiunge il ministro Di Maio. Sono personalmente grato al Governatore De Santis e all’Amministrazione Federale degli Stati Uniti. Un ringraziamento speciale al Segretario di Stato Mike Pompeo, con il quale ho seguito personalmente la vicenda e con il quale ho parlato ancora nel fine settimana, per l’amicizia e la collaborazione che ha offerto per giungere a questo esito così importante. Il Governo seguirà ora i prossimi passi per accelerare il più possibile l’arrivo di Chico. Erano vent’anni che aspettava questo momento e siamo felici per lui, per i suoi cari, per la sua famiglia, per tutta la città di Trento. È un momento commovente anche per noi”. In Libia lascia l’inviato speciale Onu Haftar riprende l’offensiva militare di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 24 dicembre 2020 Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan dettano le regole del gioco tramite i loro militari schierati nel Paese. S’indebolisce la speranza che nasca un governo unitario. In Libia torna la crisi della diplomazia, mentre riprende piede la logica della forza. A meno di tre mesi del cessate il fuoco dichiarato tra Tripolitania e Cirenaica, grazie alla mediazione dell’Onu, sono oggi più che mai Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan a dettare le regole del gioco tramite i loro militari schierati nel Paese. S’indebolisce così la speranza della nascita di un governo unitario e cresce invece l’opzione di una divisione a metà del Paese sotto l’influenza a est russa e ad ovest turca. Almeno tre elementi emersi nelle ultime ore sembrano condurre verso questo scenario. In primo luogo, la rinuncia ieri del diplomatico bulgaro, Nickolay Mladenov, al ruolo di inviato speciale Onu per la Libia. Mladenov avrebbe dovuto cominciare il suo lavoro a gennaio, ma ha gettato la spugna adducendo “motivi personali e famigliari”. In realtà, era già stato criticato con durezza nei circoli legati al premier Fayez Sarraj del governo di Tripoli per essere “troppo legato” agli Emirati Arabi Uniti, che sponsorizzano finanziariamente l’uomo forte della Cirenaica, maresciallo Khalifa Haftar. Prima di lui era stato lo scorso marzo il politologo libanese Ghassan Salamè ad abbandonare l’incarico dopo tre anni di sforzi fallimentari. Resta dunque temporaneamente in carica la numero due della missione Onu, la diplomatica americana Stephanie Williams, che però vede seriamente pregiudicati i suoi tentativi di rilancio del dialogo. A fronte dell’impasse diplomatico, è da seguire invece con attenzione la ripresa dell’offensiva militare da parte di Haftar. Le sue colonne hanno occupato nelle ultime ore la città di Ubari nel deserto sud-occidentale. Al loro fiancò è rilevata la presenza russa. I suoi soldati minacciano adesso le aree petrolifere di Sharara. Nell’aprile 2019 Haftar aveva lanciato proditoriamente una violenta offensiva mirata a conquistare il sud della Tripolitania e poi prendere la stessa capitale. Ma l’intervento turco a fianco delle milizie legate a Sarraj aveva bloccato l’attacco lo scorso giugno. Ora il governo di Ankara rinnova il mandato del proprio contingente di altri 18 mesi. Turchia. La Corte europea incalza Ankara: “Liberare Demirtas” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 24 dicembre 2020 Un nuovo fronte di scontro si è aperto tra l’Europa e la Turchia, dopo la notizia della condanna a 22 anni della deputata curda dell’HDP, Leyla Guven, per ragioni esclusivamente politiche con la presa di posizione fortemente critica delle istituzioni di Bruxelles, ieri la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) ha intimato ad Ankara di rimettere in libertà il leader dello stesso HDP, Selahattin Demirtas. Si tratta del politico che guidava il Partito democratico dei popoli, formazione di sinistra filo- curda il più importante oppositore allo strapotere di Erdogan, capace nel 2015 di ottenere un grande risultato elettorale (il 10% al parlamento turco) tale da attirare intorno a se una coalizione progressista che mise in minoranza il padre padrone della Turchia. L’anno successivo andò in scena il cosiddetto golpe attribuito a Gulen che aprì la strada però ad una repressione generalizzata che portò in carcere anche lo stesso Demirtas, attualmente condannato a 142 anni di prigione. L’ex capo dell’HDP è un avvocato di 47 anni che ha lavorato sui i diritti umani, un volto carismatico che ha cambiato la stessa opposizione anti Erdogan costruendo una coalizione composta da altri partiti di sinistra, ambientalisti e non solo curdi. Nello stesso tempo aveva accreditato il suo partito come forza moderata. Su questa base l’HDP assunse il ruolo di mediazione tra il governo e la guerriglia del PKK. Probabilmente un pericolo troppo grande per Erdogan che ben presto interruppe i colloqui di pace e accusò i mediatori di attività terroristica. Proprio per questo motivo, dopo una prima condanna per propaganda sovversiva, all’inizio del 2017 Demirtas ha dovuto affrontato nuove accuse, tra cui la leadership di un’organizzazione terroristica armata, istigazione e organizzazione di manifestazioni illegali. Imputazioni che lo portarono in carcere ma che non furono mai supportate da prove. La Cedu ha già ordinato alla Turchia di liberare il politico curdo nel 2018, Erdogan rispose che l’istituzione europea non avesse nessuna giurisdizione in merito rifiutando ogni ipotesi di rilascio. Ankara aggiunse che la Corte per i diritti dell’uomo non ha un potere vincolante con le sue sentenze nonostante la Turchia faccia parte del Consiglio d’Europa, in cui gli Stati membri accettano di seguire proprio le decisioni della Cedu. Anche questa volta dunque difficilmente Demirtas potrà uscire dal penitenziario nel quale è rinchiuso e che si trova al confine con la Bulgaria. Una situazione che assume anche contorni paradossali tipici dei regimi autoritari. ù L’HDP infatti continua a rappresentare la terza forza politica all’interno dell’Assemblea Nazionale con 56 seggi su 600. Sicuramente lontana dal predominio dell’AKP di Erdogan ma ancora capace di rappresentare un’alternativa. Non a caso la Corte europea ha scritto nel dispositivo della sua sentenza che la detenzione di Demirtas è completamente illegale. Impossibilitato a partecipare alle competizioni elettorali del 2017 e 2018, ha avuto lo scopo dichiarato di “colpire il pluralismo e ridurre la libertà del dibattito politico” e “ha privato migliaia di elettori della loro rappresentanza nell’assemblea nazionale”. Turchia. Condannato Dundar, scoprì l’”autostrada del jihad” di Alberto Negri Il Manifesto, 24 dicembre 2020 Il tribunale di Istanbul ha condannato Dundar per spionaggio e per aver sostenuto nel 2016 il fallito golpe attribuito all’Imam Gulen: si tratta delle accuse consuete con cui il regime toglie di mezzo giornalisti scomodi, intellettuali e parlamentari delle opposizioni. Fu lui a scoprire le prove, incontrovertibili, sull’”autostrada del jihad”. Can Dundar, ex direttore di Cumhuriyet condannato ieri in Turchia a oltre 27 anni di carcere e ora in esilio in Germania, fu il giornalista che nel 2015 pubblicò le immagini di mezzi dell’intelligence di Ankara che attraversavano il confine con la Siria per rifornire di armi i combattenti islamisti. Che erano impegnati nella guerra civile contro Bashar al-Assad. impegnati nella guerra civile contro Bashar al-Assad. La Turchia di Erdogan, membro della Nato, riforniva Al Qaida, l’Isis e altri gruppi radicali: gli americani lo sapevano perfettamente, come pure i servizi dell’intelligence occidentale e delle monarchie del Golfo che partecipavano alla destabilizzazione del regime siriano. Non solo. La Turchia ha continuato a sostenere i jihadisti nella provincia siriana di Idlib, a usarli contro il curdi del Rojava, quando gli americani nel 2019 si sono ritirati lasciando i loro alleati contro il Califfato al massacro delle truppe filo-turche. Sono gli stessi jihadisti che Erdogan ha lanciato in Libia per appoggiare il “nostro” governo di Tripoli sotto assedio del generale Haftar e che poi sono stati inviati in Nagorno-Karabakh per aiutare l’offensiva azera contro gli armeni. L’autostrada del jihad ha tante diramazioni, almeno quanti sono gli interessi della geopolitica di Erdogan: ma dalle nostre parti si fa finta di niente anche perché in Libia siamo ospiti del Sultano turco che già deve essere assai irritato dall’inchino del nostro governo a Haftar per liberare i pescatori di Mazara del Vallo. Il tribunale di Istanbul ha condannato Dundar per spionaggio e per aver sostenuto nel 2016 il fallito golpe attribuito all’Imam Gulen: si tratta delle accuse consuete con cui il regime toglie di mezzo giornalisti scomodi, intellettuali e parlamentari delle opposizioni. Tanto è vero che la condanna di Dundar è stata preceduta da un’altra, il 21 dicembre, del tribunale di Diyarbakir, contro l’ex deputata del partito filo-curdo Hdp, Leyla Guven, che dovrà scontare 22 anni di prigione per “associazione con un’organizzazione terroristica armata” e “propaganda terroristica”. È la solita farsa: in queste ore la Corte di Strasburgo ha ordinato alla Turchia la liberazione del leader curdo dell’Hdp Selahattin Demirtas, in carcere da 4 anni, riscontrando la violazione dei suoi diritti. I giudici europei hanno stabilito che la sua detenzione è destituita da ogni fondamento. La “colpa” di Dundar è stata quella di aver svelato le forniture di armi all’Isis nella guerra contro Assad. Un segreto di Pulcinella, dal momento che decine di migliaia di jihadisti di tutto il mondo raggiungevano comodamente la Siria e l’Iraq passando dagli aeroporti turchi, come pure l’Isis vendeva il petrolio necessario ad alimentare la sua macchina da guerra proprio attraverso la Turchia. Fu Khaled Meshal, capo di Hamas e allora in esilio a Damasco (e poi in Qatar), a convincere nel 2011 il ministro degli esteri turco Davutoglu e lo stesso Erdogan che la rivolta contro Assad avrebbe avuto successo. Fu allora che si progettò di aprire l’”autostrada del Jihad” dalla Turchia alla Siria che portò migliaia di jihadisti ad affluire nel Levante arabo con gli effetti devastanti che conosciamo. Tutto questo lo hanno scritto i giornalisti turchi come Dundar, lo hanno visto i cronisti che hanno seguito sul campo le battaglie siriane e lo racconta anche in un’intervista in carcere a Homeland Security l’”ambasciatore” del Califfato Abu Mansour al Maghrabi, un ingegnere marocchino che arrivò in Siria del 2013. “Il mio lavoro era ricevere i foreign fighters in Turchia e tenere d’occhio il confine turco-siriano. C’erano accordi tra l’intelligence della Turchia e l’Isis. Mi incontravo direttamente con il Mit, i servizi di sicurezza turchi e anche con rappresentanti delle forze armate. La maggior parte delle riunioni si svolgevano in posti di frontiera, altre volte a Gaziantep o ad Ankara. Ma i loro agenti stavano anche con noi, dentro al Califfato”. L’Isis, racconta Mansour, era nel Nord della Siria e Ankara puntava a controllare la frontiera con Siria e Iraq, da Kessab a Mosul: era funzionale ai piani anti-curdi di Erdogan e alla sua ambizione di inglobare Aleppo, obiettivo perduto con l’intervento di Russia e Iran. E quando il Califfato, dopo la caduta di Mosul, ha negoziato nel 2014 con Erdogan il rilascio dei diplomatici turchi, ha ottenuto in cambio la scarcerazione di 500 jihadisti per combattere nel Siraq. “La Turchia proteggeva la nostra retrovia per 300 chilometri: avevamo una strada sempre aperta per far curare i feriti e avere rifornimenti di ogni tipo, mentre noi vendevamo la maggior parte del nostro petrolio in Turchia e in misura minore anche ad Assad”. Mansour per il suo ruolo era asceso al titolo di emiro nelle gerarchie del Califfato e riceva i finanziamenti direttamente dal Qatar. È questa la storia che Dundar ha raccontato per primo all’opinione pubblica turca e che continua a dare fastidio e non solo alla Turchia di Erdogan.