“Mai più bambini in carcere. Più fondi alle case-famiglia” di Simona Musco Il Dubbio, 22 dicembre 2020 Ok in Commissione giustizia all’emendamento presentato dal deputato dem Bazoli. Bernardini: “Un primo passo, ma serve una riforma strutturale che escluda la detenzione per le madri con figli a seguito. Un milione e mezzo non basta”. Un fondo da un milione e mezzo per garantire l’accoglienza di genitori detenuti con bambini in case-famiglia protette e in case-alloggio. L’emendamento presentato dal deputato dem Alfredo Bazoli incassa il sì in Commissione Giustizia alla Camera, spianando la strada per una futura e più sostanziale riforma sulle norme relative alla detenzione di madri con bambini a seguito. Una realtà tristemente nota in Italia: al 30 novembre 2020, stando alle statistiche di via Arenula, i bambini nelle carceri italiane, tra istituti penitenziari e Icam - istituti a custodia attenuata - sono in totale 34, in stato di detenzione assieme a 31 madri. Una vera e propria ingiustizia, che nonostante le battaglie portate avanti da associazioni e dai Radicali in primis non è ancora stata sanata. “Finalmente non vedremo più bambini innocenti in carcere con le loro madri”, ha esultato il capogruppo dei democratici in commissione Giustizia della Camera. “L’emendamento approvato prevede un investimento di risorse specifico per garantire il finanziamento dell’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case- famiglia protette ai sensi dell’articolo 4 della legge 21 aprile 2011, numero 62, e in case- alloggio per l’accoglienza residenziale dei nuclei mamma- bambino. A tal fine - ha aggiunto - con l’inserimento dell’articolo 56 bis alla presente legge di Bilancio, si crea un Fondo con dotazione pari a 1,5 milioni di euro per ciascuno degli anni del triennio 2021- 2023”. Per Rita Bernardini, storica esponente del Partito radicale e presidente di “Nessuno tocchi Caino”, si tratta di un primo passo verso la soluzione, ma assolutamente “insufficiente” per affrontare il problema in maniera strutturale. E ciò perché “queste strutture alternative dovrebbero essere previste con una modifica di legge che consentirebbe di reperire più facilmente i fondi necessari”. Il giudizio sull’emendamento è, comunque, positivo: “Tutti i ministri della Giustizia dicono “mai più bambini in carcere”, ma questi bambini in carcere continuano ad esserci. Vedremo dove riusciremo ad arrivare con questa soluzione”. Per la Radicale, è necessario prevedere espressamente, per le donne con bambini, l’affidamento a case famiglia anziché la reclusione. Una modifica sostanziale, dunque, che cancellerebbe con un colpo di spugna qualsiasi possibilità di rivedere minori in tenera età dietro le sbarre. Gli Icam stessi, che comunque in Italia sono pochi, ha sottolineato al Dubbio, dovrebbero essere l’estrema ratio nei casi più pericolosi e gravi. “Basterebbe fare un’indagine per scoprire che queste donne, in realtà, partono sempre da un disagio sociale molto profondo - ha aggiunto. Sono quelle che hanno accumulato, ad esempio, tantissimi furti, fin a far scattare la detenzione in carcere. Per queste persone va bene la Casa famiglia, se è organizzata e strutturata in modo da garantire la possibilità di trovare una strada per la loro vita. Insomma, in modo che non sia semplicemente un periodo passato lontano dai problemi, ma che sia volto ad un vero reinserimento sociale”. Una proposta del genere era arrivata dalla stessa Bernardini dieci anni fa, quando sedeva tra i banchi della Commissione Giustizia alla Camera. Una soluzione, quella della custodia nelle Case famiglia, che, tra l’altro, farebbe anche risparmiare lo Stato, costando meno delle carceri. Le cose, però, sono andate diversamente. Ora l’appiglio è un fondo da 1,5 milioni, che però non risulterebbe sufficiente. “Bisogna tenere presente che attualmente i bambini in carcere sono 34, ma nel corso di un anno dagli istituti penitenziari ne passano molti di più, salvo poi riuscire ad accedere a misure alternative”, ha aggiunto Bernardini. Il problema è quello delle strutture: se quei fondi dovessero essere utilizzati per pagare i locali destinati alle Case famiglia allora servirebbero molti più soldi per garantire a quelle madri e a quei bambini tutti i servizi necessari. “Ci dovrebbe essere una collaborazione con le istituzioni locali, in modo tale che vengano messe a disposizione le decine di strutture non utilizzate e di proprietà della pubblica amministrazione. E la stessa strada - ha concluso - andrebbe presa per coloro che hanno reati legati alla tossicodipendenza. Sì, ci sono le comunità, ma più la struttura è piccola meglio è, come se fosse una famiglia. Perché quello che serve, a loro come alle madri con i bambini in carcere, è un percorso individualizzato per risolvere i problemi che li hanno condotti lì”. Gonnella (Antigone): “Dalle prigioni del Kent diffusa la variante inglese del Covid Ristretti Orizzonti, 22 dicembre 2020 Mettere carceri e società in sicurezza. “Evitiamo le tragedie. Proteggiamo la comunità penitenziaria dal virus e dalla demagogia, e con essa tutta la società. Bisogna fare presto. Bisogna ridurre il sovraffollamento. Ci sono settemila persone in più rispetto ai posti disponibili nelle carceri, il distanziamento è impossibile e mancano celle singole. Siamo ancora in tempo per evitare ciò che è accaduto nel Kent, dove a partire dalle prigioni si è diffuso il virus mutato”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Negli ultimi mesi - prosegue Gonnella - la prigionia è stata doppiamente afflittiva a causa dell’isolamento dall’esterno: poche visite, poca o niente scuola, salvo alcune realtà virtuose. In carcere vi sono circa duemila positivi tra detenuti e operatori. Non si sa più come isolarli e tra un po’ mancheranno coloro che possono garantire la sicurezza e la socialità. Vanno evitati nuovi focolai negli istituti e va messa in Italia e in Europa la comunità penitenziaria tra quelle a cui somministrare con priorità il vaccino. I numeri lo consentono. Tra detenuti e operatori in Italia il sistema penitenziario conta circa 100 mila persone, 800 mila in nell’area Ue”. “Chiediamo al Governo di stare a sentire chi, come la senatrice a vita Liliana Segre, ha chiesto che nei confronti dei detenuti siano assunte misure di prevenzione eccezionali. Vanno assicurati dispositivi di protezione individuale, previste informazioni in tutte le lingue, effettuati tamponi, realizzate condizioni igienico-sanitarie adeguate, somministrata la giusta terapia. Ogni minuto perso è un minuto in più di pena afflittiva, dolorosa, inutilmente sofferente. Detenuti e operatori penitenziari devono essere vaccinati il più presto possibile, già a gennaio” conclude il presidente di Antigone. Donato Bilancia scrisse: “Condannato anche all’ergastolo mediatico” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 dicembre 2020 Pubblichiamo un articolo, mai reso pubblico e quindi inedito, a firma di Donato Bilancia. Non servono presentazioni. Parliamo del serial killer che fra il 1997 e il 1998 terrorizzò il Nord Italia con 17 omicidi. Il 6 maggio del 1998 viene arrestato e infine condannato all’ergastolo. Arriva la pandemia, il Covid irrompe anche al carcere di Due Palazzi di Padova dove Bilancia è recluso. Si contagia, lo stato di salute si aggrava e finisce in ospedale. Secondo la ricostruzione del Mattino di Padova avrebbe rifiutato le cure per lasciarsi morire il 17 dicembre scorso. Una sorte, la sua, uguale a quella di un altro serial killer. Parliamo de “Lo squartatore” dello Yorkshire, vicenda trattata da una docuserie appena uscita su Netflix. È incentrata sugli omicidi da lui commessi a fine anni 70 nei confronti di tredici donne. Secondo la polizia britannica di allora complice la loro sottocultura maschilista - le donne che uscivano da sole di notte non potevano che essere delle prostitute. Invece, tante di loro non lo erano affatto. Quindi, sbagliando il profilo del killer, non sono riusciti ad identificarlo subito e per 5 anni ha potuto agire con tranquillità. Solo per un caso fortuito sono riusciti a prenderlo. Peter Sutcliffe, così si chiamava il killer, è risultato positivo al Covid 19 il mese scorso. Si è aggravato, ma anche lui, come Bilancia, ha rifiutato le cure per combattere questa malattia ed è morto. Molto probabilmente entrambi non avevano un motivo sufficiente per lottare per la vita e forse l’ergastolo in questo ha avuto un ruolo determinante. Come ha scritto recentemente Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, non esistono i ‘mostri’, “ma uomini in grado di fare cose mostruose, che però non esauriscono la loro umanità in quei gesti”. Don Marco Pozza, sacerdote del carcere Due Palazzi ha ricordato cosa Donato Bilancia gli disse una volta: “Andrò all’inferno, ma prego Dio che mi dia un istante di tempo per passare da loro a chiedere scusa”. Di recente Bilancia aveva chiesto dei permessi per poter assistere un ragazzo disabile, ma non gli sono stati concessi. La sua è una figura ancora incomprensibile per gli stessi psichiatri e criminologi. Intelligente sopra la media, con un QI di 120, eppure disorganizzato. Nato in Basilicata, ma cresciuto in Liguria, segnato dagli abusi fisici ed emotivi del padre, che lo umiliava in pubblico mostrando i suoi genitali per schernirlo, finisce due volte in coma per due diversi incidenti stradali. Alla fine degli anni Ottanta, a 37 anni, resta scioccato dal suicidio del fratello, lanciatosi sotto un treno con in braccio il figlioletto di 4 anni. Giocatore compulsivo, nell’ambiente delle bische clandestine diventa noto con il nome di Walterino. Vince soldi, li perde, gioca di nuovo. È allora che comincia a uccidere creditori e nemici del mondo delle bische. Cambiando vittimologia e schema per poi passare alle prostitute e infine, ai viaggiatori dei treni. L’ex ergastolano ostativo e scrittore Carmelo Musumeci è stato nello stesso carcere di Bilancia, lo ha conosciuto ed è lui che ha dato a Il Dubbio questo articolo inedito che pubblichiamo integralmente. Di lui parlano libri e serie Tv - per questo nel suo articolo inedito parla dell’ergastolo “mediatico”, senza riuscire a spiegare quello che lui stesso ignorava. A tal proposito l’ex ergastolano Musumeci ci ha raccontato questo aneddoto: “Una volta l’avevo rimproverato per i reati che aveva fatto e lui mi aveva risposto che non lo sapeva neppure lui perché li aveva commessi. L’ho sentito sincero”. L’articolo di Donato Bilancia Qualche tempo fa ho letto un articolo scritto da un compagno di detenzione il cui nome è Carmelo Musumeci. Pur apprezzandone l’esposizione dei contenuti, non mi trovo affatto d’accordo quando sostiene vi siano solo due tipi di ergastolo, quello normale e quello ostativo. Ho ragione di credere che ne esista un terzo che paradossalmente si chiama ergastolo “mediatico”. Senza fare inutili esempi entrando nello specifico, posso comunque affermare con fondata certezza che, dopo aver parlato per i primi anni successivi alla tragedia che mi ha visto responsabile di fatti gravissimi, tutti i mezzi d’informazione hanno continuato e continuano a parlare di me attaccandomi. Da sempre, per qualsiasi cosa che di clamoroso accada a Genova come a Padova, vengo tirato in ballo pur non entrandoci mai per nulla. Sono sicuro che in questi ultimi diciassette anni non siano mai trascorsi ininterrottamente sei mesi senza che giornali, riviste, talk televisivi, persone che hanno scritto libri ed altri, non abbiano parlato di me. Si pensi che addirittura viene persino proiettato periodicamente anche il film realizzato sulla mia storia. Questo tanto feroce quanto ingiustificato accanimento mediatico penalizza ulteriormente in tutto e per tutto il mio già non facile percorso penitenziario. Il continuo parlare di me soprattutto a vanvera, serve soltanto ad acuire l’acrimonia in tutte le persone con le quali a vario titolo devo confrontarmi giornalmente all’interno della struttura penitenziaria, figuriamoci l’impatto che avrà in quelle al di là del muro di cinta. Pur di sottrarmi definitivamente a questa gogna mediatica, qualche anno fa, favorito dalla condizione d’isolamento durato per ben undici anni, durante i quali presi anche coscienza di ciò che mi era capitato, colto da grande sconforto avevo pensato di farla finita ma poi, solo per mera vigliaccheria, mi è mancato il coraggio di mettere in atto il gesto estremo. Come potrò mai dare un briciolo di dignità al rimanente non lunghissimo percorso di vita rimastomi (ho 64 anni) se tutte le possibilità mi verranno precluse a prescindere solo perché mi chiamo Donato Bilancia? Come portò mai porvi anche un piccolo rimedio al male fatto se il muro di mattoncini che riesco a costruire pian pianino mettendone lì uno dopo l’altro con enorme fatica, viene subito abbattuto senza alcuna apparente ragione? Con grande difficoltà ho iniziato da tempo un complicato percorso per riuscire a riconquistare la fede, questo mi porta a credere che perfino il nostro Papa Francesco si ribellerebbe se venisse a conoscenza di questo infinito attanagliamento mediatico posto in atto nei miei confronti. Certo, come già detto, i fatti dei quali mi sono reso responsabile sono gravissimi, questo è indiscutibile, che vi sia poi stata la volontà oppure no, in questo preciso momento non ha alcuna rilevanza. Tuttavia l’Art. 27 della Costituzione italiana parla chiaro in relazione allo scopo che deve avere la detenzione di qualsiasi persona condannata in via definitiva, ed in vero non ricordo di aver letto che in calce vi sia scritto: “Asterisco, Donato Bilancia escluso”. Donato Bilancia Carcere di Padova, luglio 2015 Aumentano stipendi e personale per la Polizia penitenziaria di Antonio Rapisarda Libero, 22 dicembre 2020 Approvato l’emendamento di Angelucci e Biancofiore (Forza Italia). Sono vittime “silenziose” di un’emergenza nell’emergenza, perché cronicamente sotto organico e costretti a dover subire - con tutti gli effetti collaterali del caso - l’annoso problema del sovraffollamento delle carceri. Con il Covid-19 poi, fra i numerosi episodi di ribellione dei detenuti (con un’escalation inquietante nei primi giorni della crisi pandemica) e i contagi che si sono diffusi fra i loro colleghi, la situazione anche e soprattutto per loro è esplosa: parliamo degli agenti della Polizia Penitenziaria. Qualche settimana fa “l’urlo di dolore” proveniente da chi, come attività di servizio, vive metà delle sue giornate dentro le carceri è stato raccolto da Forza Italia che ha presentato - con i deputati Michaela Biancofiore e Antonio Angelucci - due emendamenti alla legge di Bilancio con l’obiettivo di sostenere un principio sacrosanto: incrementare, in tutti i sensi (sia come organico sia dal punto di vista della dotazione finanziaria), i servizi e la sicurezza degli agenti. “Dei problemi della Polizia Penitenziaria non si occupa quasi nessuno: a partire da chi dovrebbe, come il ministro della Giustizia Bonafede - spiega a Libero la Biancofiore È stata premura mia e del collega Angelucci recarci personalmente in visita nelle settimane scorse proprio nel loro luogo di lavoro di questi servitori dello Stato per raccogliere le testimonianze e le loro richieste”. La proposta degli azzurri - che propone anche l’istituzione di un “Fondo di sicurezza” per chi “è impegnato a fronteggiare le agitazioni all’interno degli istituti penitenziari” di cento milioni l’anno, previsto dal 2021 al 2023 - è stata assorbita nel pacchetto di modifiche alla legge Finanziaria (sul quale hanno concordato i capigruppo di tutti i partiti). Precisamente nel capitolo delle risorse aggiuntive stanziate per pagare gli straordinari e le indennità per Forze dell’ordine, Vigili del fuoco e, appunto, agenti della Polizia Penitenziaria: nei confronti di quest’ ultimi è stata autorizzata la spesa di 1,4 milioni per il pagamento, anche in deroga ai limiti vigenti, delle prestazioni di lavoro straordinario svolte nel periodo dal primo al 31 gennaio 2021. “Siamo molto soddisfatti”, commenta la parlamentare, “perché alla Polizia Penitenziaria - composta da coloro che affrontano a “mani nude” quotidianamente il caos Covid nelle carceri - ci abbiamo pensato, fin dal primo momento, proprio noi di Forza Italia”. Per ciò che riguarda il resto della proposta targata Biancofiore-Angelucci - fra cui il tema che riguarda il rafforzamento dell’organico (almeno di 3mila unità) - gli azzurri si augurano che il testo definitivo recepisca le indicazioni e il rispettivo stanziamento. Un primo passo importante, comunque, è stato fatto. “La questione inizia ad essere affrontata, a vantaggio finalmente di uno dei settori più bistrattati del servizio di pubblica sicurezza”, continua Biancofiore che per far capire quanto sia urgente la questione ricorda i due episodi avvenuti nelle ultime ore: quello dell’agente del carcere di San Vittore a Milano aggredito da un detenuto e ha rimediato fratture al naso ma anche l’eroico intervento di un poliziotto che ha salvato un altro detenuto che aveva tentato di suicidarsi, stavolta nel carcere di Perugia. “Gli agenti, dall’inizio della crisi pandemica, affrontano questo: aggressioni, rivolte ma anche situazioni umanamente delicate. Tutto ciò con un organico del tutto inadeguato e una dotazione non all’altezza dei rischi enormi che corrono per un compito fondamentale svolto nell’interesse di tutti”. Appunti per una giustizia nuova, svuotata dalla demagogia punitiva di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 22 dicembre 2020 Serve un nuovo orientamento culturale per ripensare un ruolo meno invasivo del penale nella sfera pubblica. Non ho più l’età per fare sogni a occhi aperti, almeno in un orizzonte di vita personale. Ma come rinunciare a qualche speranza, a qualche auspicio nell’interesse generale, ora che il nuovo anno è alle porte? Certo, al primo posto rimane la preoccupazione che in questo momento accomuna tutti, e ci fa sperare di uscire al più presto dalla persistente emergenza sanitaria. Come c’è la speranza correlata che il nostro paese riprenda progressivamente il suo cammino, lasciandosi alle spalle le plurime crisi provocate dall’emergenza. Speranza che è suscettibile, a sua volta, di articolarsi in speranze o auspici più specifici, che ciascuno di noi vive in base alla propria sensibilità e ai propri interessi anche professionali. Come anziano professore di Diritto penale, e anche come garante siciliano dei diritti dei detenuti, mi piacerebbe in particolare potere confidare che il nuovo anno propizi l’inizio di una fase nuova, di una svolta nel settore della giustizia penale. Una svolta innanzitutto culturale e, dunque, negli atteggiamenti e orientamenti collettivi. Che coinvolga, nello stesso tempo, tutti gli attori del teatro penale: interpreti principali, comprimari, comparse e spettatori. In altre parole, alludo agli addetti ai lavori a partire dai magistrati, ai politici, ai giornalisti televisivi e della carta stampata, inclusi i cittadini comuni. Questo auspicabile riorientamento collettivo dovrebbe, a mio avviso, manifestarsi in una duplice direzione che provo a sintetizzare così: ridurre il ruolo e il peso della giustizia penale nello spazio pubblico e nell’arena politica; prendere una buona volta coscienza - fuori da miopie, opportunismi politici e protagonismi giudiziari - che il processo penale, la condanna e la punizione non sono gli strumenti più adatti a contrastare i mali sociali di turno, e che anzi in non pochi casi rischiano persino di provocare effetti - sia sociali sia individuali - più negativi che positivi. Non c’è bisogno di essere specialisti della materia per accorgersene. Voglio ricordare che espliciti e allarmati ammonimenti contro l’ossessione repressiva e la demagogia punitiva, tipiche dell’oppressivo e regressivo populismo penale odierno, sono stati più volte lanciati anche da Papa Francesco. Per favorire una progressiva ritirata del penale dalla scena pubblica, occorrerebbe una pedagogia collettiva ad ampio spettro e di non breve durata. E, per dire le cose come stanno, non pochi esponenti del mondo politico, della professione giornalistica e, più in generale, del ceto intellettuale nostrano andrebbero subito sottoposti a corsi intensivi di diritto, in modo da essere posti in condizione di interiorizzare i princìpi basilari del costituzionalismo penale e, quindi, di sapere distinguere tra il garantismo “peloso” e il garantismo proprio di una democrazia degna di questo nome. Senza un miglioramento della cultura giuridica dei politici, del ceto colto e dei professionisti dei media, diventa ancora più difficile contrastare il giustizialismo diffuso in alcuni settori popolari e strumentalizzato dai politici populisti per ricavarne consenso elettorale. Quanto alle prospettive di un’auspicabile riforma legislativa, volendo riaprire il cassetto dei sogni tornerebbero alla luce obiettivi ambiziosi, ma per nulla dell’ultima ora, come questi: a) Riformare e ridurre drasticamente il catalogo dei reati, ampliando nel contempo il ventaglio delle sanzioni penali a carattere extra detentivo, in attuazione del principio - da prendere finalmente sul serio! - del carcere come extrema ratio; b) Ripensare il processo penale, ridimensionando i poteri esorbitanti e poco controllabili dei pubblici ministeri; c) Modificare in profondità i canali di accesso alla magistratura e riconcepire la scuola di formazione dei magistrati, introducendo innovazioni atte a controbilanciare l’eccessiva autoreferenzialità della cultura giudiziaria. Obiettivi realistici in questo momento? Invero ancor meno di prima, specie considerando che le priorità politiche in atto riguardano la sanità e l’economia. Ma è altrettanto vero che l’incombere minaccioso di un eccessivo “rischio penale”, e di un controllo giudiziario non di rado arbitrariamente invasivo, non giovano all’efficacia e alla rapidità delle decisioni politiche, al buon funzionamento della Pubblica amministrazione e allo svolgimento delle stesse attività economico-imprenditoriali. Un discorso a parte andrebbe fatto sul livello culturale, sulla capacità progettuale e sul coraggio decisionale dei politici oggi al potere, ossessionati dai sondaggi e dunque inclini più ad assecondare acriticamente le aspettative dei potenziali elettori, che non a orientarli secondo una visione autonoma e lungimirante del bene comune: il che, sullo specifico versante della giustizia penale, rischia purtroppo di perpetuare una sorta di oscurantismo pre-illuminista. Se la fase difficile che stiamo vivendo e la qualità della politica attuale non consentono di mettere prestissimo in agenda un insieme di obiettivi riformistici di grande respiro, ciò non toglie però che qualcosa anche di fortemente simbolico sul terreno della giustizia penale si potrebbe cominciare a fare sin da subito. Come ha ben rilevato l’ex ministro ed ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, nell’ambito di un’intervista rilasciata alcuni mesi fa, questa emergenza da coronavirus ha fatto riaffiorare, con drammatica amplificazione, tutti i gravi e irrisolti problemi del pianeta carcere, a cominciare da quello del sovraffollamento: per cui proprio questa emergenza potrebbe offrire l’occasione per ripensare al carcere, riprendendo il filo delle riforme penitenziarie rimaste incompiute dopo la stagione degli “stati generali” promossa dall’ex Guardasigilli Andrea Orlando. Più di recente, si è anche assistito alla mobilitazione pacifica con sciopero della fame di Rita Bernardini e di centinaia di detenuti, cui hanno poi aderito Luigi Manconi, Sandro Veronesi e Roberto Saviano, e poi ancora 204 professori universitari di discipline penalistiche, e si è altresì aggiunto un ulteriore appello di uomini di cultura di varia matrice tra cui Gustavo Zagrebelsky e Luciano Canfora: da tutti questi fronti si è levata la richiesta, rivolta al governo e al Parlamento, di deliberare provvedimenti deflattivi idonei a prevenire nella maniera più efficace possibile la diffusione del contagio nelle carceri. Da ultimo, un appello nello stesso senso è stato lanciato dal neo-presidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio nel corso della sua prima conferenza stampa (si veda il Dubbio del 19 dicembre scorso). Che sia il caso di riaccendere i riflettori pubblici sulla realtà carceraria, anche al di là delle misure preventive rese necessarie dal contingente rischio pandemico, non lo ritengono soltanto i giuristi di mestiere, i garanti dei detenuti o le anime belle ipersensibili alla tutela dei diritti umani anche negli istituti di pena. Che in carcere ci finiscono molte più persone del necessario, per lo più socialmente deprivate, e per tipi di reato che richiederebbero sanzioni di altra natura; che gli istituti penitenziari italiani in media presentano deficit di funzionamento e problemi di vario genere, tali da rendere abbastanza problematiche e ulteriormente desocializzanti le condizioni di vita intramurarie, e perciò illusoria la finalità rieducativa - tutto questo lo spiegano di recente, e assai bene, due noti direttori di carcere (Luigi Pagano e Giacinto Siciliano) in due bei libri di ricordi professionali pubblicati a poca distanza l’uno dall’altro: ciascun direttore racconta le carceri dall’interno, denunciandone disfunzioni e criticità e, nel contempo, prospettando possibili rimedi. Auspicherei che libri così istruttivi venissero letti fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, e soprattutto da quei politici o giornalisti che discettano di carcere senza saperne in realtà nulla. Non sarebbe un inizio di svolta politico- culturale per il nuovo anno rimettersi a studiare, tornare a documentarsi e ritentare il serio lavoro d’inchiesta in sedi sia politiche sia giornalistiche? Spese legali rimborsate dallo Stato per gli innocenti finiti a processo di Simona Musco Il Dubbio, 22 dicembre 2020 Ok bipartisan in commissione Bilancio per l’emendamento Costa: “Un passo di civiltà giuridica”. Sì anche alle modifiche al fondo per i risparmiatori frodati. Una norma di civiltà. Se pure con un budget piccolo, che spinge molti a definirla una sorta di “elemosina”, ma pur sempre un primo passo per far sì che chi patisce ingiustamente un processo possa trovare un minimo di ristoro economico. Insomma, fa sì che lo Stato paghi se accusa - e processa - ingiustamente qualcuno per un reato mai commesso. Così può riassumersi l’emendamento a prima firma Enrico Costa, ex viceministro della Giustizia oggi in forza ad Azione, alla Camera dei deputati (al quale si sono associati Nunzio Angiola e Flora Frate di Azione, il leader di +Europa Riccardo Magi e Massimo Garavaglia della Lega). E sul senso della norma tutti sono d’accordo, senza distinzioni di colore politico. Tanto che il governo, in prima fila il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha deciso di farlo proprio, apportando giusto qualche modifica rispetto alla formulazione originaria. A sottoscriverlo una platea di deputati bipartisan: da Italia Viva a Forza Italia, passando per Noi per l’Italia e infine anche la Lega, che ha insistito per portare il budget annuale da 5 a 8 milioni. Così alla fine è passato all’unanimità in commissione Bilancio alla Camera, sancendone la ragionevolezza, oltre che l’urgenza. “Con l’approvazione di questo emendamento lo Stato dovrà prendere atto - con un risarcimento concreto - che la vita di molte persone è rovinata da processi che finiscono nel nulla. Ed è un importante passo di civiltà giuridica”, ha commentato Costa. L’emendamento prevede l’introduzione di un nuovo articolo del codice penale, il 177 bis, che segue, dunque, il 177, relativo alla revoca della liberazione condizionale o estinzione della pena. L’articolo - denominato “rimborso delle spese legali per gli imputati assolti con sentenza penale passata in giudicato” - si compone di nove punti, prevedendo tre rate annuali, fino a un massimo di 10.500 euro, tetto limite riconosciuto dallo Stato per risarcire i cittadini ingiustamente perseguiti. Le condizioni sono chiare: l’imputato deve essere stato assolto con sentenza definitiva perché il fatto non sussiste, perché non ha commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Niente da fare nei casi di prescrizione, amnistia o indulto, depenalizzazione dei reati o se si viene assolti per un capo d’imputazione ma non per gli altri per i quali ha subito un processo. Il rimborso partirà dall’anno successivo alla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile e non farà reddito. Per accedere al rimborso sarà necessario che il difensore presenti fattura, con espressa indicazione causale e dell’avvenuto pagamento, corredata da parere di congruità redatto dal competente Consiglio dell’Ordine degli avvocati e da una copia della sentenza di assoluzione con attestazione di cancelleria della sua irrevocabilità. Ciò che fa sorgere dei dubbi è, come detto, il budget a disposizione. Perché destinare 8 milioni di euro l’anno significa presupporre che il numero di assolti sia decisamente basso rispetto alle medie italiane. I dati, infatti, raccontano che ogni anno, in media, si registrano mille ingiuste detenzioni. A queste vanno sommati i casi di assoluzione per imputati non sottoposti a misura cautelare: i numeri lievitano. L’emendamento prova a bypassare questo problema, stabilendo al comma 5 che “con decreto del ministro della Giustizia, di concerto con il ministro dell’Economia e delle finanze, da adottare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono definiti i criteri e le modalità di erogazione dei rimborsi di cui al comma 1, nonché le ulteriori disposizioni ai fini del contenimento della spesa nei limiti di cui al comma 6, attribuendo rilievo al numero di gradi di giudizio cui l’assolto è stato sottoposto e alla durata del giudizio”. L’emendamento Costa riporta alla mente anche una proposta emendativa presentata dal Cnf alla legge di Bilancio 2019, che prevedeva la detrazione delle spese legali sostenute per la difesa, in quanto “il diritto di difesa, infatti, è garantito a livello costituzionale dall’articolo 24, al pari del diritto alla salute, e ricomprende necessariamente l’assistenza tecnica e professionale prestata dall’avvocato”. La commissione Bilancio alla Camera ha anche approvato la modifica del Fondo indennizzo risparmiatori, che permetterà alla commissione tecnica di bonificare direttamente fino al 100% dell’importo stabilito in fase istruttoria. Un emendamento a firma del deputato grillino Raphael Raduzzi a tutela dei risparmiatori frodati, sostengono il sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi, e il sottosegretario all’Economia, Alessio Villarosa. Rimborso spese legali agli assolti, una svolta positiva (senza esagerare) di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 22 dicembre 2020 La legge di Bilancio, per la prima volta, introduce il rimborso delle spese legali, sino a 10.500 euro, all’imputato assolto con sentenza irrevocabile con formula piena. Come un fulmine in testa, il processo, e poi chi s’è visto s’è visto: il malvezzo di assimilarlo a una partita di calcio, dove nella sentenza si “vince” o si “perde”, a lungo ha avuto il paradossale effetto di ritardare la consapevolezza di quanto sull’imputato, pur assolto, possa pesare il danno economico causato dal doversi difendere non da un errore giudiziario o dalla irragionevole durata del processo (già indennizzabili), ma dalla regolare celebrazione di una attività processuale del tutto legittima e perfettamente condotta nel rispetto delle norme. Da tempo la Germania paga le spese difensive all’imputato che, assolto con formula piena, non abbia ostacolato o ritardato il giudizio; e altri Paesi hanno affrontato i “danni da attività processuale”, tema nel 2017 di uno studio (che pareva fantascienza quando qui se ne era trattato) del professore Giorgio Spangher con 5 università di Roma, Salerno, Palermo, Foggia e Bari. Ma ora anche in Italia, nella legge di Bilancio, per la prima volta una norma introduce il rimborso delle spese legali, sino a 10.500 euro, all’imputato assolto con sentenza irrevocabile con formula piena (“non aver commesso il fatto”, “il fatto non sussiste”, “il fatto non costituisce reato”). Bonificata dalle tentazioni punitive della magistratura serpeggianti nei primi disegni di legge dal 2012, la novità ha invece senso in una chiave solidaristica: proprio perché in Italia vige (per fortuna) l’obbligatorietà dell’azione penale, è ragionevole che la collettività, che all’imputato chieda il sacrificio di un processo per accertare un fatto proprio nell’interesse di tutti i cittadini, poi in caso di assoluzione piena si faccia carico del sacrificio economico affrontato dall’imputato per pagarsi la difesa. Si potrà discutere se il tetto di 10.500 euro sia basso, se i 5 milioni l’anno stanziati siano capienti, se sia giusto escludere i prosciolti e gli archiviati in indagini preliminari. Ma intanto conta il principio. Con una sola remora: quella di complessivamente non esagerare nel sistema con i già non pochi rimedi compensativi. Arrestato per sbaglio? C’è il risarcimento per ingiusta detenzione (art. 314). Condannato per errore? C’è la riparazione dell’art. 643. Durato troppo il processo? C’è la legge Pinto. Reclusi in carcere in meno di 3 metri? Ecco la detrazione di pena o gli 8 euro al giorno dell’art. 35 ter dell’ordinamento penitenziario. Sempre meglio che niente, come “compensazioni”. Ma a patto che, a forza di “rimediare”, non certifichino, in una sbiadita copia-standard, la rassegnata rinunzia al diritto-originale leso. “Un primo passo, adesso si rifletta sui pm che arrestano innocenti” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 22 dicembre 2020 Intervista a Enrico Costa, deputato di Azione, primo firmatario della norma sul rimborso delle spese agli assolti. “È un risultato importante atteso da anni”, dichiara soddisfatto Enrico Costa, oggi deputato di Azione dopo essere stato a lungo una colonna della giustizia per Forza Italia e per il centrodestra. Lo scorso fine settimana l’aula di Montecitorio ha approvato l’emendamento alla legge di Bilancio, primo firmatario l’ex viceministro, che prevede per gli assolti con formula piena il diritto al rimborso delle spese legali sostenute per difendersi. L’assoluzione dovrà essere stata pronunciata con sentenza irrevocabile, perché il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. Onorevole Costa, è contento? Certo. L’emendamento, sottoscritto anche da Lucia Annibali di Italia viva e Maurizio Lupi di Noi con l’Italia, prevede un principio di assoluto buonsenso: se lo Stato sottopone un cittadino innocente al lungo, defatigante e spesso umiliante calvario delle indagini e del processo, è giusto che lo risarcisca. Il processo è già una pena… Esatto. Oggi in Italia chi riesce a dimostrare la propria assoluta estraneità al reato o l’insussistenza di qualunque fatto di rilevanza penale, non solo deve sopportare il peso del processo ma anche quello delle spese necessarie per difendersi. E questo non è giusto. Si potrà avere un rimborso fino a diecimila e 500 euro... È un risarcimento concreto dopo che la vita di molte persone è stata rovinata da processi finiti nel nulla. Ed è anche un importante passo verso la vera civiltà giuridica. A quanto ammonta il budget annuale? Adesso ad otto milioni di euro, ma confido che in prossimi provvedimenti possa essere “aggiornato”. Quanti sono gli assolti ogni anno? Purtroppo questo dato non è noto. Si possono conoscere solo le condanne, tramite il casellario. Il ministero della Giustizia non ha un sistema preciso per la raccolta dei dati sui processi che sono stati definiti con l’assoluzione. La strada scelta è stata quella del rimborso delle spese legali. Ci può spiegare? Inizialmente si era pensato alla detrazione delle spese. Nella scorsa legislatura, da parte del senatore Gabriele Albertini, era stata depositata una proposta di questo genere. Poi si è deciso di optare per il rimborso, che è più flessibile. Fino all’ultimo, però, c’è stato da soffrire. Sbaglio? L’ala “giustizialista” del Movimento 5 Stelle, in effetti, ha fatto resistenza. Poi però l’intervento da parte di tutti i gruppi, dalla Lega con Massimo Garavaglia che ha sostenuto l’aumento del fondo a otto milioni dai cinque inizialmente previsti, fino a Italia Viva con Maria Elena Boschi, a Giusi Bartolozzi di Forza Italia ed a Enrico Borghi del Partito Democratico. Quale sarà il passo successivo? Serve una maggiore responsabilità da parte dei magistrati. Può anticiparci qualcosa? C’è una mia proposta che prevede una valutazione di professionalità “ad hoc” per i magistrati requirenti. Se un pm, ad esempio, vede sistematicamente assolti gli imputati che manda a giudizio e andare in fumo le sue indagini, bisognerà tenerne conto ai fini delle progressioni di carriera. Ci sono poi i profili disciplinari... Non è facile arrivare a considerare anche questo aspetto. Difficile che maggioranza attuale possa approvare una norma che prevede il procedimento disciplinare per i magistrati che hanno arrestato ingiustamente una persona. Eppure, come ripeto sempre, serve abbandonare la cultura della comoda “deresponsabilizzazione” secondo la quale al magistrato che arresta un innocente non succede nulla. Il tema degli errori giudiziari è ricorrente... Ricordo sempre che dal 1992 ad oggi 28mila persone sono state arrestate ingiustamente e risarcite per una cifra complessiva che supera gli 800 milioni di euro. Anche se il 90 per cento delle ingiuste detenzioni non viene risarcito sulla base del presupposto che il sottoposto a cautela ha “contribuito” colposamente all’errore avvalendosi, come prevede il codice, della facoltà di non rispondere. Ma tutti zitti sul potere dei magistrati di Iuri Maria Prado Il Riformista, 22 dicembre 2020 Che cos’è successo dopo la sfilza di assoluzioni registrate nelle ultime settimane in favore di politici, amministratori e uomini d’industria fatti fuori dalla giustizia ingiusta? È successo che gli ex colleghi (ma alcuni, mica tutti) hanno elogiato la capacità di sopportazione dimostrata da quelle vittime della violenza di Stato, mentre i giornali (ma ancora una volta soltanto alcuni) si sono limitati a incolonnare qualche considerazione di pietà solidaristica per questa gente che non meritava il colpo di sfiga di un processo campato per aria. È il trattamento di simpatia e compassione che si dimostra alla persona colpita dall’ingiustizia di una brutta malattia: si allargano le braccia quando arriva la diagnosi, dunque si resta in trepidazione e poi, quando infine quello la scampa, baci e abbracci e il riconoscimento del vigore che il poveretto ha saputo opporre all’aggressione della patologia. Il guaio è che l’ingiustizia di anni o decenni, redenta da un’assoluzione che non restituisce la vita perduta e non ripristina la reputazione distrutta, appartiene a un altro rango: non è il coccolone arrivato chissà perché, è invece l’effetto di un dispositivo di potere lasciato libero di schiacciare la vita delle persone senza che in qualunque modo ne rispondano coloro che lo amministrano. È insopportabile che la classe politica - perlopiù proprio quella che durante il “calvario” dei finalmente assolti girava la testa dall’altra parte - rivolga i sensi della propria partecipazione al contegno delle vittime anziché denunciare i fatti che le hanno rese tali: e i fatti sono i processi intrinsecamente ingiusti che hanno inchiodato per anni gli imputati a ipotesi accusatorie evidentemente infondate. Perché un’assoluzione dopo sette, dopo quindici, dopo trent’anni non è la giustizia che infine si compie: è l’ingiustizia che si ferma troppo tardi, quando ormai il danno è fatto. Nemmeno davanti a questa lugubre rassegna di vite e carriere giustiziate si sente non dico l’impellenza di interrompere lo scempio, ma anche solo un vago stimolo civile a denunciarne le cause evidenti. E, alle solite, ciò avviene in forza della più micidiale caratteristica che purtroppo accomuna il grosso delle classi dirigenti di questo Paese, cioè a dire una irrimediabile confusione tra la necessità di salvaguardare lo Stato di diritto e la opportunità, cioè la convenienza, di assolvere le aberrazioni del potere giudiziario. Da qui, da questa confusione, promanano i luoghi comuni del corso giustizialista: che “le sentenze non si commentano”, come se si trattasse di esternazioni oracolari; che “bisogna avere fiducia nella magistratura”, come se la giustizia fosse rispettabile per il lustro di chi la sbriga anziché per quel che dice; che “la giustizia deve fare il suo corso”, come se andasse bene il corso accelerato della prigione prima del processo o, appunto, quello pluridecennale che riconosce infine l’innocenza di una vita massacrata. Le pagine dell’ingiustizia italiana recano in calce nomi e cognomi degli esecutori. Nessuno ha il diritto di metterli alla berlina. Ma tutti avrebbero il dovere di ricordare che la loro ingiustizia è stata fatta in nome del popolo italiano. E le loro vittime sarebbero meglio tutelate in questo modo, piuttosto che con l’ipocrisia della solidarietà tardiva. Il detenuto-lavoratore ha diritto a percepire l’indennità di disoccupazione inca.it, 22 dicembre 2020 La disciplina del lavoro svolto nel carcere, anche in favore dell’Amministrazione penitenziaria, deve essere equiparata a quella riconosciuta al lavoratore in libertà. È quanto ha stabilito il Giudice del Lavoro del Tribunale di Venezia, con una sentenza emessa il 15 dicembre, accogliendo il ricorso promosso dagli avvocati Marta Capuzzo e Giancarlo Moro, legali di Inca, contro l’Inps, che aveva negato l’indennità Naspi ad un detenuto, impegnato nell’assistenza ad un disabile durante il periodo di detenzione fino alla scarcerazione. Per il Tribunale, dunque, è infondata la ragione adottata dall’Inps, secondo cui “ai soggetti detenuti in Istituti penitenziari, che svolgano attività lavorativa retribuita all’interno della struttura e alle dipendenze della stessa, non può essere riconosciuta la prestazione di disoccupazione in occasione dei periodi di inattività in cui essi vengano a trovarsi”. Rigettando le argomentazioni dell’Istituto previdenziale pubblico, la sentenza afferma la natura discriminatoria di tale comportamento, poiché, si legge nel dispositivo: “contrarie alle finalità del lavoro penitenziario e alla tendenziale equiparabilità di tale prestazione lavorativa al cosiddetto lavoro libero, più volte ribadito dalla Corte Costituzionale”. Pertanto, ribadisce il tribunale di Venezia, la cessazione del rapporto di lavoro penitenziario per scarcerazione, come nel caso esaminato, comporta che il detenuto-lavoratore si trovi nella condizione di disoccupazione involontaria, presupposto per il riconoscimento della relativa indennità Naspi. La negazione di tale diritto, continua la sentenza, “confliggerebbe con il principio di uguaglianza con il principio di cui l’articolo 3 della Costituzione”, in quanto i “detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria sarebbero gli unici, nell’ordinamento, a versare la contribuzione atta a finanziare la Naspi senza potersene avvantaggiare”. Per Inca Cgil, spiega Giuseppe Colletti, dell’Area Previdenza, “si tratta di una sentenza molto importante poiché oltre a ribadire il principio di uguaglianza nei trattamenti previdenziali, anche dei cittadini, privati momentaneamente della libertà, evidenzia la necessità di non vanificare ogni sforzo affinché si affermi la funzione rieducativa della pena e la prospettiva di un possibile loro reinserimento nella società libera”. Utilizzabilità intercettazioni anche se il reato non è tra quelli di cui all’articolo 266 c.p.p. di Fabrizio Ventimiglia e Francesco Vivone* Il Sole 24 Ore, 22 dicembre 2020 Nota a ordinanza del 2 novembre 2020, Tribunale Milano, Sez. Riesame, Pres. Rizzardi, est. Alonge. Con l’ordinanza in commento, il Tribunale del Riesame di Milano statuisce che, nell’ambito di un medesimo procedimento, i risultati delle intercettazioni devono essere considerati utilizzabili anche qualora le fattispecie criminose non rientrino nel catalogo di cui all’art. 266 c.p.p. L’ordinanza in questione assume particolare rilevanza ed interesse in quanto si discosta dal principio di diritto enunciato poco meno di un anno fa dalle Sezioni Unite “Cavallo”. Questa, in sintesi, la vicenda processuale. Le indagini preliminari prendevano avvio da segnalazioni anonime aventi ad oggetto il mancato pagamento di alcuni atti e visure da parte di privati cittadini che ne avevano richiesto copia presso l’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate. Il Pubblico Ministero apriva, dunque, un fascicolo per l’ipotesi di corruzione, ottenendo l’autorizzazione a porre in essere intercettazioni telefoniche ed ambientali dalle quali emergeva “un’ampia e diffusa illegalità operativa all’interno degli uffici” nonché “uno stabile asservimento di pubblici ufficiali alle richieste dei privati c.d. visuristi”. Nello specifico, emergevano condotte riconducibili solo in parte al grave reato di corruzione; infatti, per alcune circostanze, mancava “la prova diretta della retribuzione o della sua promessa” e, dunque - limitatamente a queste ultime - il P.M. riqualificava l’ipotesi delittuosa in abuso d’ufficio, chiedendo contestualmente al G.I.P. l’applicazione di misure cautelari per tutti i reati contestati. Il G.I.P., facendo applicazione del principio di diritto affermato dalle note Sezioni Unite “Cavallo” (Cass. Pen., Sez. Un., 2 gennaio 2020, n. 51), non convalidava la richiesta con riferimento alle condotte ex art. 323 c.p. in quanto “trattandosi di un delitto non compreso fra quelli per cui l’art. 266 c.p.p. consente le intercettazioni, i risultati ottenuti non potevano essere utilizzati per disporre una misura cautelare in relazione agli episodi di abuso d’ufficio, ancorché questi fossero connessi a quelli di corruzione.” Non condividendo siffatta conclusione, il P.M. proponeva appello contro l’ordinanza del G.I.P., chiedendo, tra le altre cose, che venisse applicata la richiesta misura cautelare anche nei confronti di uno dei pubblici ufficiali cui erano addebitate unicamente le ipotesi di reato di abuso d’ufficio. Ebbene, i Giudici del Tribunale del Riesame di Milano, nelle motivazioni dell’ordinanza, si soffermano sulla disciplina delle intercettazioni alla luce della giurisprudenza, della dottrina maggioritaria e della recente riforma e, all’esito di un’attenta analisi, si discostano dal recente arresto delle Sezioni Unite. Il Tribunale del Riesame, innanzitutto, esclude che nel caso di specie ci si trovi nell’ipotesi di reati inerenti a procedimenti diversi e, per tale ragione, chiarisce che non si ricade nel perimetro del divieto di cui all’art. 270 c.p.p.; le condotte qualificate ex art. 323 c.p., risultavano, infatti, connesse ex art. 12 c.p.p. ai fatti di corruzione. Sennonché, come noto, le già citate Sez. Unite Cavallo, avevano precisato che l’utilizzo delle comunicazioni intercettate non solo fosse da circoscriversi ai reati connessi ex art. 12 c.p.p., ma che andasse, altresì, rispettata la condizione che i reati contestati fossero tra quelli per i quali l’autorizzazione fosse astrattamente concedibile. È proprio su questo aspetto, però, che il Tribunale de Milano ha espresso talune riserve, argomentate seguendo quattro direttrici logiche. Innanzitutto, a parere dei Giudici milanesi, gli arresti delle Sezioni Unite non avrebbero tenuto conto della consolidata giurisprudenza che, invece, riconosce l’utilizzabilità delle intercettazioni disposte nell’ambito del medesimo procedimento anche in relazione a reati che non erano oggetto di autorizzazione e non rientranti nell’elenco di cui all’art. 266 c.p.p. In secondo luogo, richiamando autorevole dottrina, il Riesame sottolinea che non esiste, nel codice di rito, una disposizione che neghi l’utilizzo del materiale probatorio ottenuto da intercettazioni disposte nel medesimo procedimento per reati diversi, connessi a quelli per i quali era stata data l’autorizzazione, ma non rientranti tra quelli elencati nell’art. 266 c.p.p. Invero, a parere dei Giudici, l’utilizzazione di siffatto materiale probatorio deve essere garantita in applicazione del principio costituzionale della “naturale utilizzabilità del risultato di una legittima attività di indagine”. In terzo luogo, l’applicazione del principio di inutilizzabilità enucleato dalla Suprema Corte determinerebbe delle “distorsioni del tutto incompatibili con il principio costituzionale della non dispersione degli elementi di prova” oltre che “una disparità di trattamento tra indagati nel medesimo procedimento”. Infine, rilevano i Giudici, risulta necessario tenere in debita considerazione la riforma delle intercettazioni entrata in vigore successivamente alla pronuncia della Corte di Cassazione. In particolare, come noto, la riforma del comma 1 dell’art. 270 c.p.p. introduce la previsione secondo cui “I risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’articolo 266, comma 2- bis c.p.p.”. Alla luce del citato dettato normativo, l’applicazione del principio sancito dalla Suprema Corte comporterebbe l’illogica conseguenza della utilizzabilità dei risultati probatori in procedimenti non connessi e l’inutilizzabilità delle intercettazioni per reati diversi nell’ambito di procedimenti connessi. In conclusione, il Tribunale del Riesame, nel caso di specie, ha confermato la piena utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni anche rispetto ad ipotesi di reato - così come da originaria imputazione o come modificate nel corso delle attività investigative - non rientranti nel catalogo di cui all’art. 266 c.p.p. Modena. Il carcere sei mesi dopo la rivolta di Elia De Caro e Alvise Sbraccia* napolimonitor.it, 22 dicembre 2020 La storia dei sommovimenti penitenziari della primavera 2020 deve ancora essere scritta. Le informazioni e i riscontri sulle drammatiche giornate che hanno visto esplodere la conflittualità interna in circa un terzo degli istituti di pena del paese risultano ancora insufficienti per tracciare un bilancio ponderato. La tentazione di offrire chiavi di lettura lineari è forte, visto il momento in cui questi conflitti hanno preso forma, in particolare rispetto ai possibili effetti - percepiti allora nel comparto carcerario - del contagio da Covid-19. Non vi è dubbio che la percezione di insicurezza sviluppata in un contesto chiuso e quindi esposto a meccanismi di diffusione accentuata del virus, abbia giocato un ruolo importante. Chi conosce la realtà del carcere ha inoltre concentrato l’attenzione sulla compressione radicale dei contatti con l’esterno subita dai detenuti per via delle strategie di riduzione del rischio applicate dall’amministrazione penitenziaria durante la “prima ondata”. La sensazione di isolamento abitualmente sofferta da chi si trova in stato di detenzione avrebbe subito una drammatica intensificazione, componendosi con la paura di non veder garantiti standard minimi di sicurezza sanitaria. Non sono mancate interpretazioni degli eventi di matrice complottista e di dubbia tenuta argomentativa, incentrate sull’idea che le organizzazioni criminali di tipo mafioso abbiano assunto un ruolo nel fomentare e dirigere le rivolte. Al di là delle differenze interpretative, il denominatore comune sembra definirsi intorno alla dimensione puramente distruttiva delle azioni collettive di insubordinazione. Tale canovaccio, che implica il ricorso sistematico alle nozioni di rivolta e violenza, si basa su alcuni elementi fattuali. La labilità (o assenza) di rivendicazioni strutturate da parte dei detenuti, le pratiche di devastazione delle strutture (sfondamenti, incendi, saccheggi), l’assunzione fuori controllo di farmaci prelevati dai reclusi che hanno forzato gli accessi alle infermerie. Quest’ultimo aspetto risulta correlato alla gran parte dei decessi avvenuti (overdose), ma appare del tutto indebito collocarlo al vertice delle motivazioni delle rivolte. Esso probabilmente indica che una componente dei rivoltosi, nell’eccitazione e nella paura del momento, abbia perseguito un obiettivo di alterazione psichica attraverso le sostanze disponibili. Una sorta di fuga dalla situazione che, peraltro, dovrebbe invitare alla riflessione sulle modalità del contenimento carcerario di tanti soggetti con problemi di tossicodipendenza. La difficoltà nell’individuare un orizzonte politico delle proteste, accentuata dall’inconsistenza delle rivendicazioni, si traduce in tentativi di analisi incentrati sulla disperazione e sulla irrazionalità dei reclusi, quindi sul loro stato di marginali compromessi (“gente che non ha niente da perdere”), sganciati dalla società e da quelle soggettività politiche che potrebbero sostenere le loro istanze. L’elemento di discontinuità con le rivolte penitenziarie del passato - almeno per quanto riguarda l’Italia tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso, non certo meno distruttive - sarebbe quindi individuato: è il conflitto destrutturato, bellezza! La strutturazione del conflitto è tuttavia un’operazione intellettuale che rimanda a cornici di senso almeno parzialmente condivise, se non pienamente comprensibili per la pubblica opinione. Questa considerazione, a nostro parere, non implica affatto l’automatico disconoscimento di una dimensione politica dei conflitti emersi. Le forme reattive all’oppressione carceraria sono invece sempre situate in tale dimensione. La ricostruzione storica alla quale ci stiamo riferendo dovrà rendere conto della molteplicità delle posizioni assunte, gettando una luce sulle forme differenziate delle proteste, ma anche delle tipologie di comunicazione, mediazione e trattativa che hanno caratterizzato il rapporto tra gruppi di detenuti, agenzie del controllo e personale coinvolto in quei delicati avvenimenti. A quel punto, è probabile che la narrativa della pura distruzione - pur presente - perderà di centralità e che elementi di razionalità situata potranno emergere. D’altra parte, appare evidente che le misure deflattive messe in campo dal governo nella stessa primavera 2020, orientate a decongestionare in parte gli ambienti carcerari e a ridurre il pericolo del contagio, abbiano seguito (e non anticipato) l’esplosione del conflitto di cui stiamo trattando. Gli esiti dei procedimenti penali e disciplinari in corso andranno a integrare le letture delle proteste finora avanzate. In particolare, la speranza è che i riscontri processuali possano illuminare le dinamiche relative al ripristino dell’ordine istituzionale a seguito dei conflitti esplosi; per esempio, in riferimento alla gestione dei trasferimenti dei detenuti che li hanno alimentati e ai possibili atti ritorsivi nei confronti della popolazione reclusa. Questi aspetti andranno poi connessi a un’eventuale gestione più restrittiva della quotidianità carceraria (riduzione della mobilità interna, contrazione del regime a celle aperte, limitazione delle attività ricreative e trattamentali). In particolare, ragioniamo qui sul caso della casa circondariale di Modena, che ha assunto tratti paradigmatici per via dell’intensità dello scontro e dei livelli di devastazione strutturale. A questi tratti si sovrappone la tragica circostanza per la quale, dei quattordici decessi seguiti alle rivolte ben nove abbiano riguardato persone recluse nel carcere modenese. Gli autori di questo contributo hanno visitato questa struttura il 12 ottobre 2020, nell’ambito della ripresa delle attività di monitoraggio dell’Osservatorio Nazionale di Antigone sulle condizioni di detenzione, del quale sono membri. Modena, quindi, come epicentro delle recenti rivolte penitenziarie. La sua provincia è stata epicentro anche del terremoto del 2012, che sollevò il panico nella popolazione (e nella popolazione detenuta) e produsse danni assai rilevanti alle strutture abitative e produttive della zona. Le veloci operazioni della ricostruzione hanno reso conto del dinamismo economico dell’area, ma anche di significativi livelli di compenetrazione tra illegalismi imprenditoriali e criminalità organizzata (nel quadro generale poi emerso nel cosiddetto processo Aemilia). La provincia di Modena, secondo fonti Istat, si colloca al sesto posto nazionale per reddito pro-capite più elevato. Su una popolazione residente di circa 700 mila unità, la Camera di commercio locale ha censito nel 2019 la presenza di 64.611 imprese attive. Per quanto attiene al comparto penitenziario, la provincia ospita la casa circondariale di Modena (area periferica) e la casa di lavoro di Castelfranco Emilia, dopo che per i danni provocati dal sisma del 2012 si è chiusa definitivamente la casa di lavoro di Saliceta San Giuliano. Entrambe si caratterizzano per la sostanziale assenza di opportunità di reinserimento lavorativo dei detenuti in uscita dal carcere e per difficoltà considerevoli nell’attivazione di attività produttive intramurarie che non dipendano dall’amministrazione penitenziaria. Nel corso delle visite degli osservatori di Antigone dell’ultimo decennio, le direzioni che si sono succedute non hanno mai mancato di rimarcare l’indisponibilità del ceto imprenditoriale locale a collaborare col carcere per attivare simili percorsi, nonostante le agevolazioni fiscali garantite. La casa circondariale di Modena (che ospita più di cinquecento detenuti su una capienza regolamentare di 369 unità) ha storicamente presentato livelli molto bassi per le cosiddette attività trattamentali (formazione, sport, percorsi attivati dal volontariato) e per l’accesso al lavoro all’esterno del penitenziario. In sintesi, il rapporto col (ricco) territorio può definirsi debole. Nonostante la recente edificazione del nuovo padiglione e le attività di manutenzione del vecchio, le condizioni strutturali della prigione modenese sono risultate problematiche negli ultimi anni, con seri problemi di infiltrazioni e malfunzionamenti dell’impiantistica. In un contesto regionale caratterizzato - negli ultimi trent’anni - da un’incidenza proporzionale molto elevata di stranieri sulla popolazione detenuta, la casa circondariale di Modena ha fatto registrare valori sistematicamente vicini al settanta per cento, ospitando una quantità impressionante di imputati e condannati provenienti dai paesi del Maghreb, spesso in condizioni di irregolarità giuridica. Tale specificità, al di là della presenza in provincia di consistenti comunità marocchine e tunisine, è stata motivata con il processo di sostituzione che ha comportato l’impiego massiccio di dealer nordafricani nell’economia locale dello spaccio di strada. In anni recenti, soggetti con caratteristiche simili sarebbero giunti in numero consistente all’istituto in virtù degli sfollamenti ciclici delle più piccole strutture carcerarie romagnole. Simili tendenze sono correlate a meccanismi di distribuzione interna dei detenuti sulla base della provenienza geografica con l’istituzione informale delle cosiddette “sezioni etniche”. La concentrazione di persone prive di agganci con la realtà locale e di una relazione con i servizi sociali e sanitari del territorio se non dell’intero paese rende ancor più problematica la carenza di offerta trattamentale dell’istituto. A ciò si aggiunga l’elevato turnover dei detenuti che implica difficoltà gestionali e spesso determina livelli più elevati di conflittualità interna. Tutti aspetti registrati nella storia recente del carcere modenese e che non possono quindi essere letti come fenomeni emergenziali né rappresentare un alibi a fronte di tali carenze. Negli ultimi anni - e in particolare nei mesi che hanno preceduto la rivolta della primavera 2020 - agli appena menzionati tratti di mobilità si sono aggiunti quelli relativi a cruciali funzioni di coordinamento dello staff penitenziario (direzione, comando di polizia penitenziaria, area giuridico-pedagogica). Nel giorno dell’ultima visita per l’Osservatorio di Antigone (12 ottobre 2020, a sei mesi di distanza dalla “rivolta”) gli autori di questo contributo hanno potuto verificare in parte l’entità dei danni prodotti. È importante precisare che la struttura ospitava in quel momento 180 detenuti circa (a fronte dei 550 del marzo 2020), entrati progressivamente a seguito del ripristino di alcune sezioni detentive, tra le quali quella femminile. Dopo la rivolta, infatti, il carcere risultava del tutto inagibile e i reclusi erano stati trasferiti in massa, al di là della loro effettiva partecipazione alla stessa. Il 12 ottobre il vecchio padiglione era quasi interamente transennato per via dei lavori di restauro. Da una parte del piano terra dello stesso, proprio nei pressi dell’infermeria, si potevano osservare angoli e passaggi di scale completamente anneriti dalle fiamme, mentre erano ancora tangibili alcuni segni di effrazione e danneggiamento degli uffici del personale e della stessa infermeria. “Hanno sfasciato tutto”, ci ripetevano i nostri interlocutori dello staff. La dinamica degli eventi ci è stata raccontata sinteticamente dagli stessi operatori. Impossessatisi di un flessibile, alcuni detenuti avrebbero tranciato i cancelli delle celle e di divisione delle sezioni, prendendo il controllo del vecchio padiglione e riuscendo infine a giungere al nuovo, così “liberando” tutti i detenuti maschi, impadronendosi dell’intera area interna dell’istituto e costringendo il personale di polizia a rifugiarsi all’esterno a garanzia del controllo perimetrale. Il nuovo padiglione, completamente ristrutturato e rinforzato con sbarre su tutte le aperture, non era ancora interamente operativo alla data della visita, poiché si attendeva la riparazione di una parte delle serrature delle celle, tutte scardinate nel corso degli eventi. A partire dall’estensione della rivolta e in considerazione del posizionamento delle parti, la riconquista degli spazi interni da parte delle forze dell’ordine si è rivelata impresa assai difficoltosa. In uno scenario che ci è stato descritto come apocalittico (tra le fiamme e i gas lacrimogeni) e saturo di tensione, l’uso della forza ha raggiunto significativi livelli di violenza. Testimonianze anonime e racconti indiretti sono circolati in questi mesi con riferimento a pestaggi e ritorsioni nei confronti dei detenuti, mentre due esposti affini sono stati depositati in Procura. Se i decessi verificatisi sono stati attribuiti all’assunzione di sostanze, inoltre, legittimi dubbi emergono circa la tempestività dei soccorsi, a fronte dello stato di intossicazione palese (fino alla catatonia) di alcuni reclusi. In questo senso, la morte per overdose “differita” nel corso e perfino a seguito di trasferimenti in altri istituti dovrà essere sottoposta a opportuni e precisi accertamenti. Con indagini e procedimenti in corso, preferiamo mantenere un atteggiamento prudente sulla ricostruzione dei fatti per concentrarci su alcune osservazioni legate alle fasi successive al “ripristino” dell’ordine interno. Senza entrare nel dettaglio per motivi di riservatezza, i referenti istituzionali che abbiamo incontrato nel corso della visita hanno sostenuto l’ipotesi che a determinare il successo della rivolta e la conseguente devastazione della struttura fosse stata la capacità della criminalità organizzata di “manipolare detenuti disperati che non hanno niente da perdere”. I nostri ripetuti tentativi di ragionare sull’ipotesi che elementi da tenere in considerazione potessero essere il pericolo di contagio da Covid-19 e la compressione di colloqui e contatti con l’esterno correlata alla pandemia sono stati rigettati (“tanto quelli i colloqui non li facevano comunque”). Nel rimarcare il “trauma” subito dal personale a fronte delle distruzioni operate dai detenuti - attribuito anche al fatto che gran parte degli agenti non avesse esperienza diretta di simili livelli di conflittualità carceraria - la chiave discorsiva della irrazionalità dei rivoltosi è emersa nella considerazione secondo la quale avrebbero “devastato anche gli ambienti dove si gestiscono le loro pratiche amministrative, dove svolgono la socialità, dove vengono assistiti e curati, dove svolgono attività”. A essere rappresentata è dunque una furia fondamentalmente autolesionistica, peraltro suffragata dalla diffusa e imprudentissima ingestione di farmaci anti-astinenziali. La circostanza per la quale la rabbia dei reclusi si sia diretta contro tutti gli spazi carcerari potrebbe comportare anche una riflessione sulla quotidianità detentiva nel suo complesso. La distruzione, infatti, appare legata al desiderio di danneggiare il carcere in sé stesso e in tutte le sue componenti. Un obiettivo che appare irrealistico focalizzare solo sulle celle, auspicando un’improbabile selettività della devastazione e invocando paradossalmente una razionalità della rivolta incentrata sulla valorizzazione delle componenti assistenziali del carcere. Il legame con la messa in discussione del regime a celle aperte, con un suo “ripensamento” nelle parole degli attori istituzionali con funzioni direttive incontrati nel carcere di Modena, si delinea allora nella prospettiva di una gestione dell’istituto che tenga conto dei significati emersi dalla rivolta per come sono stati elaborati da questi stessi attori. Dei 180 detenuti presenti al 12 ottobre, nessuno era stato coinvolto nella rivolta. Tutti (donne incluse) erano tuttavia sottoposti al regime a celle chiuse, con l’eccezione delle ore d’aria e di quelle dedicate alle attività (significativamente ridotte). Tale opzione gestionale veniva giustificata con le necessità imposte dalla fase di transizione organizzativa (ancora in corso) in vista di una prossima stabilizzazione del numero dei detenuti e della stessa amministrazione ordinaria della prigione. Proprio in riferimento a quest’ultima, i nostri interlocutori sembravano però condividere un assetto strategico di fondo. Il regime a celle aperte avrebbe comportato, negli anni della sua applicazione indiscriminata, un innalzamento della confusione e della conflittualità interna. In prospettiva, quindi, andrebbe destinato in chiave premiale a quei detenuti che, in virtù delle loro motivazioni e della loro buona condotta, si dimostreranno meritevoli di beneficiare di quelle risorse (scarse) che il carcere può garantire. Per gli altri, regime chiuso: in attesa che esprimano autentiche istanze di coinvolgimento nel trattamento. Un modello che prevede quindi il trattamento come un premio e che si caratterizza come una sorta di “rieducazione a ostacoli” dove l’accesso è permesso solo a chi ha dimostrato di attenersi alle, strette, regole disciplinari e dove al primo errore si regredisce al regime a celle chiuse perdendo le opportunità faticosamente conseguite. Il piano del discorso evoca a nostro parere scenari inquietanti e si fonda su presupposti ambigui. Appare certo che la sorveglianza dinamica e lo stesso regime a celle aperte siano stati depotenziati per via delle limitate risorse destinate alle attività dei detenuti. Da qui a sacrificarne le valenze di decongestione e di riduzione dei danni da detenzione, riaffermando come modello maggioritario - con venti ore in cella su ventiquattro - quello delle sezioni detentive, il passo è lungo e incerto. Su un terreno evidentemente scivoloso. *Antigone Emilia Romagna Modena. Violenze nel carcere, Magi presenta un’interpellanza a Bonafede di Giunio Panarelli Il Domani, 22 dicembre 2020 Le rivolte avvennero in tutta Italia e costarono la vita tredici detenuti di cui nove ospitati dalla casa circondariale di Modena, Sant’Anna. Il deputato di Più Europa, Riccardo Magi, ha presentato un’interpellanza al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, per sapere siano state attuate azioni conoscitive sui fatti avvenuti durante la rivolta scoppiata nel carcere di Modena l’8 marzo 2020. Le proteste nel carcere esplosero a seguito dell’inizio della pandemia e della paura di molti detenuti di venire isolati e di vedersi negate anche le visite dei propri cari. Le rivolte avvennero in tutta Italia e costarono la vita tredici detenuti di cui nove ospitati dalla casa circondariale di Modena, Sant’Anna. In un primo momento la causa dei decessi è stata attribuiti a overdosi dovute all’assunzione di metadone e altri farmaci di cui i detenuti si erano impossessati durante le proteste. Come raccontato da Domani, cinque detenuti del carcere emiliano hanno però recentemente presentato un esposto per denunciare le torture praticate dagli agenti per sedare la rivolta e in particolare il colpevole disinteresse per le condizioni di Francesco Piscitelli abbandonato a se stesso nonostante si trovasse in condizioni critiche dopo l’assunzione di farmaci e morto in carcere nonostante le proteste dei cinque detenuti. Gli altri casi - Quello di Modena non è l’unico caso poco chiaro sorto in questi ultimi mesi sulle violenze commesse dalla polizia penitenziaria: il 6 aprile trecento agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere hanno picchiato tutti i detenuti della struttura penitenziaria tra cui un disabile. Inoltre, a fine novembre è stato istituito a Siena il primo processo che vede dei membri delle forze dell’ordine imputati per il reato di tortura: si tratta di cinque agenti del carcere di Ranza di San Gimignano accusati di avere pestato un detenuto tunisino nell’ottobre del 2018. Modena. Si faccia luce sulla rivolta del marzo scorso, costata la vita a 9 detenuti cgilmodena.it, 22 dicembre 2020 Il quotidiano Domani riporta oggi, in prima pagina, un articolo che riferisce di un esposto da parte di alcuni detenuti presenti nel carcere di Modena durante la rivolta del marzo scorso. Fu una vicenda tragica, alla fine della quale si registrarono purtroppo ben nove vittime, un epilogo inaccettabile. L’esposto richiamato, che sarebbe stato presentato alla Procura di Ancona, secondo quanto riportato dal quotidiano, denuncerebbe gravissimi episodi avvenuti nel carcere modenese, durante il trasferimento ed anche al momento dell’inserimento dei detenuti nel carcere di Ascoli Piceno, ad opera delle forze di polizia impegnate nell’azione di contenimento della rivolta. È a nostro avviso necessario che la Magistratura appuri al più presto la veridicità dei fatti denunciati. Ciò a garanzia e tutela sia dei detenuti che sarebbero stati vittima degli abusi, sia delle forze dell’ordine coinvolte, impegnate in quella difficilissima fase della vita delle carceri. Non possono su questioni di tale rilevanza e gravità rimanere ombre o dubbi. Ciò detto, esprimemmo anche all’epoca dei fatti la grave preoccupazione per il contesto generale riguardante la condizione complessiva delle carceri nel nostro paese ed anche nel carcere S. Anna di Modena. Alla pesantissima condizione di sovraffollamento si è sommata l’emergenza Covid, senza che nel frattempo siano arrivate a definizioni scelte di natura strutturale ed una improcrastinabile azione riformatrice, in grado di alleggerire la situazione delle carceri, oltre a ricondurla al dettato della nostra Carta Costituzionale. Lo stato di abbandono e la lontananza - come da anni denunciamo - del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dagli istituti penitenziari e da tutte le figure professionali che ci lavorano, produce condizioni di lavoro che troppo spesso vanno ben oltre il livello di tollerabilità. Le mancate risposte rispetto alle richieste di ampliamento degli organici e adeguamento delle strutture pregiudica la possibilità di salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori coinvolti, ed anche quella di chi è detenuto, oltre a comprometterne le condizioni di detenzione e la tutela dei diritti di questi ultimi. Ribadiamo quindi l’assoluta necessità che le istituzioni e le forze politiche, anche della nostra città e della nostra regione, assumano su di sé una diversa volontà di approccio alla situazione carceraria, affinché fatti gravissimi come quelli accaduti a marzo non abbiano più a ripetersi. Cgil Modena Fp Cgil Modena Milano. “Genitorialità in carcere”, il progetto compie 15 anni vita.it, 22 dicembre 2020 La Cooperativa Spazio Aperto Servizi, dal 2005 al fianco di genitori in carcere e dei loro figli grazie al programma, attualmente attivo nelle case di reclusione di Opera e Bollate e nella casa circondariale di San Vittore. Un genitore in carcere, il papà o la mamma, per un bambino è uno spartiacque tra un prima e un dopo: da una parte la quotidianità familiare conosciuta e, dall’altra, l’assenza improvvisa di uno dei genitori e la necessità di trovare risposta alle molte domande e un nuovo equilibrio. “C’è un percorso che sia il bambino sia la famiglia devono attraversare, fatto da difficoltà ad orientarsi, da rabbia, paure e desiderio di non perdere pezzi del proprio mondo, per quanto assai imperfetto sia. Ed è questo che facciamo da 15 anni all’interno degli istituti di pena in cui siamo presenti: accompagnare le famiglie che vivono l’esperienza detentiva, salvaguardando innanzitutto il diritto del bambino a mantenere il legame con il proprio genitore, a sentirsi protetto e rassicurato”. Con queste parole Maria Grazia Campese, presidente di Spazio Aperto Servizi racconta l’impegno della cooperativa che oggi festeggia il 15° anno del progetto “Genitorialità in Carcere”, un percorso di sostegno a situazioni familiari di particolare fragilità e a cui lavorano psicopedagogisti, psicoterapeuti, criminologi, mediatori familiari con una lunga esperienza negli istituti di pena e con una specifica formazione. Un importante anniversario per il programma, attualmente attivo nelle case di reclusione di Opera e Bollate e nella casa circondariale di San Vittore, avviato proprio nel 2005 grazie al sostegno e alla lungimiranza dell’allora Direttrice del Carcere di Bollate e di alcuni operatori di Spazio Aperto Servizi che hanno iniziato a sperimentare nuove modalità per accompagnare le relazioni tra i figli e i papà e/o le mamme detenute. Il progetto “Genitorialità in Carcere” si rivolge a nuclei familiari attraversati dall’esperienza detentiva con l’attenzione a rendere tale esperienza più sostenibile per i minori coinvolti. L’intervento si avvale di psicologi che seguono, attraverso percorsi di sostegno, il genitore detenuto, creando un ponte con il figlio, la famiglia ed eventuali servizi territoriali, al fine di ricreare e/o sostenere la relazione genitoriale, anche attraverso il supporto durante le visite familiari. Dal carcere di Bollate 15 anni fa è nata l’idea della “Casetta”, una stanza accogliente, arredata con divano, cucina, tavolo, giochi per permettere alle famiglie di incontrarsi in un ambiente più “familiare” delle asettiche sale-colloqui delle carceri. “La stanza è costruita con attenzione, la stessa che si dedicherebbe alla disposizione della propria casa. All’interno si svolgono dei colloqui molto speciali, durante i quali è possibile ritrovare o sperimentare in maniera inedita dei momenti di naturale quotidianità come sedersi insieme sul divano, leggere un libro, condividere un gioco, mangiare insieme, funzionali alla possibilità di costruire o rinsaldare il legame genitoriale”, spiegano Teresa Di Stefano e Alessia Valentini, entrambe Funzionario Giuridico Pedagogico della C.R. Bollate. “L’idea è nata 15 anni fa dopo una visita nelle sale colloqui e nella ludoteca della Casa di Reclusione di Bollate dove tante famiglie in contemporanea si incontravano settimanalmente con i propri cari”, racconta Barbara Moretti, criminologa clinica, referente dell’Area Carcere di Spazio Aperto Servizi e una delle prime operatrici del progetto. “Come era possibile creare una situazione di intimità, tranquillità e complicità tra i bambini e i loro genitori nonostante la carcerazione? Per questo è stata pensata quella che viene definita colloquialmente la “casetta”, un luogo all’interno dell’Istituto ideato perché ciascuna famiglia abbia uno spazio privilegiato di incontro. E quello è stato solo l’inizio di un lungo viaggio che dura da 15 anni a favore dei genitori detenuti e del benessere dei loro bambini”. Come spiega Daniela Ambrosi, psicologa, psicoterapeuta coordinatrice del Progetto a Bollate e a San Vittore, negli anni sono aumentati gli interventi a sostegno delle famiglie da parte dall’équipe dell’Area Carcere di Spazio Aperto Servizi, favorendo la costituzione di un virtuoso lavoro di rete con i servizi del territorio nell’ottica di una più globale presa in carico dei nuclei famigliari ed un più accurato inserimento sociale. La conferma arriva anche da chi è stato beneficiario di questo progetto, come testimonia M.C, un ex detenuto. “Gli interventi di supporto alla genitorialità mi sono stati molto utili soprattutto perché in quei momenti uno ha bisogno di confrontarsi e di parlare dei propri problemi e voi avete fatto parte di questo mio percorso. Mi avete aiutato a capire meglio il mio ruolo come papà nel rapporto con i miei figli e a capire come parlare con loro e come parlare con i servizi. Poter vedere i miei figli dentro al carcere è stato bello perché era da tanto che non capitava ed è stato bello poterli incontrare in uno spazio curato che sembra una casa”. Milano. “Pollo volante”, il delivery per la seconda vita degli ex detenuti di Barbara Apicella Il Giorno, 22 dicembre 2020 Ricominciare si può, anche dopo aver sbagliato e aver pagato il proprio debito con la giustizia. Ma non solo si può ricominciare, ma si può anche aiutare a ricominciare chi è stato messo ai margini della società. Il tutto partendo dal lavoro. Questo lo spirito che anima il progetto imprenditoriale e sociale del “Pollo volante”, ideato dal monzese Giovanni Marelli e che a gennaio prenderà il via a Milano, nel quartiere della Barona. Il progetto prevede l’avvio di una vera e propria attività di ristorazione d’asporto: nella grande cucina all’interno della sede dell’associazione “Ci sono anch’io” verranno cucinati polli allo spiedo e patatine al forno. I piatti verranno poi consegnati a domicilio, pedalando per le vie della Zona 6 di Milano. Nel progetto di Marelli, sono coinvolte dieci persone (ex detenuti e persone fragili) impegnate tra ordinazioni, cucina, confezionamento e consegna in bici, con l’intenzione di sfornare un centinaio di polli al giorno. “Credo molto in questo progetto - spiega Giovanni Marelli, 70 anni, ex detenuto, imprenditore del mondo della ristorazione, molto noto nella cosiddetta Milano da bere che ha trascorso diversi anni anche nella casa circondariale di Sanquirico. Gli anni trascorsi nel carcere di Monza sono stati importanti e grazie a Paolo Piffer (che lavora nella casa circondariale ndr) ho riconquistato la mia autostima e ho ritrovato la mia strada”. Ricominciare non è stato facile. “In carcere veniamo marchiati a fuoco, siamo considerati reietti dalla società. Ad oggi non posso avere una licenzia, non per mancanza di requisiti professionali, ma per mancanza di requisiti morali”. Da qui l’idea di costituire l’associazione “Ci sono anch’io” e di cercare di dare una svolta alla sua vita e a quella degli altri ex detenuti. “Il problema non è quando si sta in carcere, ma quando si esce. Una volta fuori c’è il rischio di reiterare il reato”. Oppure, se sostenuto da progetti imprenditoriali e da persone che credono nelle tue potenzialità, iniziare una nuova vita. “Credo molto nel progetto del Pollo Volante: non è stato facile avviarlo, è un progetto pilota e se dovesse andar bene l’idea è di ampliarlo su tutta l Milano”. Anche se il cuore di Giovanni resta in Brianza. “Mi piacerebbe portarlo anche a Monza”. Per realizzarlo Giovanni Marelli ha attinto a quanto appreso dietro le sbarre di Sanquirico: in quegli anni monzesi ha scoperto la sua inclinazione per l’arte, allestendo una mostra al Binario 7 e oggi diventando un artista quotato. “Per ogni donazione a sostegno del Pollo Volante invio al benefattore una cartella con alcune mie litografie”. Cagliari. Carcere di Uta, Sdr: “Un dolce Natale per i detenuti” di Alessandro Congia sardegnalive.net, 22 dicembre 2020 Iniziativa promossa dall’associazione di volontariato Onlus che da anni sostiene chi è privato della libertà. “Un dolce Natale” è l’iniziativa che l’associazione di volontariato Onlus “Socialismo Diritti Riforme” ha destinato alle persone private della libertà della Casa Circondariale “Ettore Scalas”. Trecento confezioni di Pandoro sono state infatti recapitate nei giorni scorsi all’Istituto di Cagliari-Uta per rappresentare la vicinanza della società civile a chi sta vivendo un momento di difficoltà. Le confezioni, che sono state consegnate agli addetti alle cucine del carcere, dopo essere divise, verranno distribuite ai circa 600 detenuti in occasione delle Festività natalizie e d fine anno. “Il Covid19 - sottolinea in una nota la presidente del sodalizio Elisa Montanari - ha accentuato il senso di solitudine di chi sconta una pena avendo determinato la riduzione drastica dei colloqui in presenza e l’impossibilità per i familiari di esprimere fisicamente affettività e partecipazione emotiva. Una condizione che, avendo ampliato il senso di isolamento, incide negativamente, aldilà dell’impegno degli operatori penitenziaria, soprattutto sulle personalità più fragili e/o con disturbi della sfera psicosociale. La nostra iniziativa intende ricordare alle persone private della libertà che il volontariato non le ha dimenticate”. “La ricorrenza delle festività di fine anno ed in particolare il Natale - ricorda Maria Grazia Caligaris di Sdr - è vissuto da chi sconta una pena sempre con particolare sofferenza. Quest’anno le condizioni rendono lo stato di detenzione ancora più difficile anche per le oggettive limitazioni derivanti dalle severe norme di prevenzione anticovid. L’associazione, grazie alla concreta azione della vice presidente Paola Melis, è riuscita a realizzare un progetto che con un positivo messaggio di vicinanza colma un’assenza indotta dalla pandemia”. “L’iniziativa - ha evidenziato Marco Porcu, Direttore della Casa Circondariale di Cagliari-Uta - è stata particolarmente apprezzata per la sua valenza simbolica. I detenuti e i loro familiari hanno dovuto seguire in questi mesi un rigido protocollo per evitare la diffusione del virus. Sapere che nonostante le difficoltà che tutta la comunità sta vivendo non viene dimenticato chi vive dentro un Istituto detentivo incoraggia anche gli operatori che quotidianamente ne condividono ansie e difficoltà”. Piazza Armerina (En). Il carcere tra buon cibo e rieducazione di Elisa Saccullo Quotidiano di Sicilia, 22 dicembre 2020 Si è concluso proprio in questi giorni il progetto “Metti una sera a cena in cella”, che ha coinvolto i detenuti ospiti della Casa circondariale di Piazza Armerina. Un percorso di odori e sapori in cui gli ospiti del penitenziario sono stati guidati da Pierelisa Rizzo, giornalista e appassionata di cucina. Dieci lezioni che hanno coinvolto sei ospiti del carcere per insegnar loro a maneggiare le materie prime, usare le spezie, sperimentare nuovi piatti e riscoprire quelli della tradizione. Nella cucina, allestita in una delle stanze del carcere, i detenuti hanno formato una vera e propria batteria di cucina, imparando a lavorare tutti insieme, come una vera e propria squadra. Sotto l’attenta guida del direttore della Casa circondariale di Piazza Armerina, Antonio Gelardi e degli educatori Ivana La Rocca e Gianni Giannone, con la collaborazione degli agenti della Polizia penitenziaria comandati da Salvatore Puglisi, è stato possibile realizzare il corso per dare un’opportunità in più di socializzazione ai ristretti. Viste le restrizioni imposte per l’emergenza Covid, non è stato possibile organizzare un evento di chiusura del progetto. Per questo, i detenuti corsisti hanno pensato di realizzare dei dolci per tutti gli ospiti del carcere, regalando loro un momento di dolcezza. “È stata una bella esperienza - ha detto Pierelisa Rizzo - e credo che, proprio di questi tempi, sia necessario ricominciare a imparare il rispetto per le materie prime. Chi maneggia gli alimenti ha una grande responsabilità, perché dobbiamo sempre ricordarci che il cibo è Vita. Durante il corso, ci siamo anche divertiti, cucinando insieme, e abbiamo scoperto come realizzare molti piatti con i mezzi di fortuna che si posseggono in cella”. “D’altro canto - ha concluso - il carcere è il luogo per antonomasia in cui si sperimenta l’arte di arrangiarsi”. Asti. In vendita i presepi realizzati dai detenuti del carcere di Quarto gazzettadalba.it, 22 dicembre 2020 Nella casa di reclusione di Quarto, frazione a pochi chilometri da Asti, da diversi anni l’associazione di volontariato Effatà organizza laboratori manuali e corsi per i detenuti. Nelle ultime settimane è stato organizzato il progetto Te piace o’ presepe, una vera e propria officina in cui si sono costruiti bellissimi presepi. Protagonista è stato in modo particolare un detenuto esperto nell’arte del presepe napoletana, che ha condiviso le sue conoscenze con i compagni. L’assessore alle Politiche sociali Mariangela Cotto e il dirigente Roberto Giolito hanno accolto con piacere la presentazione del progetto, dando la possibilità di esporre il book fotografico dei presepi, con indicato il loro valore economico, nelle bacheche dei Servizi sociali nell’atrio di palazzo Mandela e nei locali della Banca del dono di piazza Roma 8. Questi manufatti si potranno anche acquistare: così l’associazione Effatà potrà comprare il materiale per realizzare le prossime attività con i detenuti. Per chiunque fosse interessato, accanto alle foto, sarà indicato il nominativo e il contatto telefonico del referente dell’associazione con il quale concordare una visita guidata tra i presepi. Flick e la via umanistica per uscire dal conflitto fra politica e magistrati di Errico Novi Il Dubbio, 22 dicembre 2020 Dopo trent’anni si può essere ancora prigionieri della guerra fra giustizia e politica? Se ne può uscire, per il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, che affida gli auspici, senza risparmiare analisi impietose, al suo ultimo saggio “Giustizia in crisi (salvo intese). Leggi, giudici, processi e carcere di fronte alla pandemia”. Uno sguardo in fondo ricco di speranza sul conflitto che trascina con sé i destini della democrazia, avviato dalla “palingenesi” di Mani pulite, da cui è venuto quel mood anticasta che rischia di tramortire l’intero sistema. Maramaldeggiare sulla giustizia sarebbe un pelino da vigliacchi. Oggi come oggi significa sparare sulla croce rossa. E per capire com’è che ci siamo arrivati, si dovrebbe risalire molto indietro, fin quasi alla madre di tutte le battaglie perdute dalla Costituzione, cioè alla “mitica” palingenesi di Mani pulite. Certo è che pochi potrebbero guardare le cose dall’alto della loro autorevolezza, fino a potersi permettere, magari, un’invettiva livida, senza sconti, senza speranze. Giovanni Maria Flick però è un signore sotto ogni punto di vista, e ben se ne guarda. C’è fiducia più che catastrofismo, nel suo ultimo saggio, Giustizia in crisi (salvo intese). Leggi, giudici, processi e carcere di fronte alla pandemia (edito da Baldini e Castoldi, 2020, Milano, 176 pagine). Un consueto - per Flick - atto di benevolenza, di discrezione: lucido, impietoso nell’indicare vizi incancreniti ma affabile nell’ottimismo delle soluzioni. In primis il richiamo alla necessità di “riportare la persona al centro”. Il presidente emerito della Consulta è figura assai cara alla redazione del Dubbio. Grazie alle sue interviste, il nostro giornale può permettersi, da alcuni anni, di anticipare letture dei fatti, in materia di processo, carceri e diritti, con qualche mese di vantaggio sugli altri. La riconoscenza verso Flick è notevole perché è appunto difficilissimo evitare la banalità del giudizio liquidatorio, quando si parla di giustizia: d’altronde il Dubbio è il giornale degli avvocati e non potrebbe permettersi di accarezzare la tentazione del qualunquismo. Anche perché, in fondo, chi vuol bene alla giustizia e alla democrazia deve per forza essere ottimista. È proprio la cupa tetraggine dello sfascismo forcaiolo ad averci condotti dove siamo. Cioè, come scrive Flick, a una crisi fortissima del giudice e alla perdita di fiducia nella giurisdizione. Che si aggiungono al già consolidato discredito delle istituzioni rappresentative. Si deve essere ottimisti perché il pessimismo è il trucco perfido che ci ha portati fin qui. Messo in scena con un dramma in due atti. Prima Mani pulite, e le varie tangentopoli “improvvisamente scoperte” dalle magistrature di quasi tutta Italia, sollecitate dall’esempio milanese. Quindi uno strano intervallo, lunghissimo: il discredito della politica era stato sì completo, ma il fenomeno Berlusconi compì un parziale e temporaneo miracolo, fece infatuare di sé mezza Italia e la sfiducia verso la politica trovò un imprevisto narcotico. Il disgusto venne avvolto in quello che Ferdinando Adornato definì, col solito mix d’intelligenza e sarcasmo, “un fascino da rockstar”, che solo il Cavaliere poteva suscitare. Processi e inchieste continuarono ma si diressero in gran percentuale verso il parafulmine di Arcore. Il fatto che lui fosse il bersaglio prediletto dei pm insinuò in quella metà del Paese a lui devota un tale sospetto di faziosità verso le toghe che per un po’ riuscì a beneficiarne l’intera politica. Poi venne Turigliatto: nome che a molti dice nulla ma che costò l’esistenza al secondo governo Prodi. Di fronte alla manciata di senatori che, come il dissidente di Rifondazione, finirono per condizionare i destini di un’intera stagione politica, parte della stampa sparò direttamente contro il sistema politico, contro “la casta”. Il libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella nacque da lì. E da quel libro venne la virulenza dei primi vaffa di Beppe Grillo. Quindi una nuova terribile stagione di discredito per la politica consumata a colpi d’inchieste. Bassolino, Penati, Guidi, Errani, Del Turco, fino a casi più recenti come De Girolamo. Un tritacarne disumano, carburante dell’antipolitica, veicolo di una tesi devastante: il Parlamento è un covo, non un tempio, e bisogna sbarazzarsene. Quando si parla dell’incrocio fra giustizia e politica si parla di questo. La fine della democrazia per come la conosciamo. Nel saggio di Flick la minaccia di un disincanto distruttivo incombe pur senza essere sempre evocata. Si evita di tenerla di continuo al centro dell’inquadratura, si rinuncia a dettagli e dovizia di nomi: la personalizzazione è una cosa che al professore, presidente emerito, ed ex guardasigilli, piace poco. Nomi ne fa quasi mai, se non quando inevitabile. Però all’inizio del primo capitolo, che assimila onomasticamente il saggio di Flick a questo giornale, “Dal dubbio alla certezza: o viceversa?”, si evoca un’osmosi perniciosa. “La fiducia nella legge come unica fonte delle regole e la sfiducia nel giudice sono anche esse via via venute meno per molteplici ragioni”, tra le quali innanzitutto i “problemi interni alla funzionalità e rappresentatività dei parlamenti”. E qui il cerchio terribile dell’anticasta si chiude nel più paradossale dei modi. In quel passaggio d’altra parte Flick spiega come mai sia passato dall’ardore per la certezza vissuto nella prima fase della propria vicenda di giurista fino alla cultura del dubbio, come rivoluzione dell’analisi permanente, del risvolto prospettico di ogni accertamento, processuale o politico che sia. E in fondo già l’invito a coltivare il dubbio con meno esitazioni di quanto sia successo a lui è una prima induzione all’ottimismo. Il dubbio serve anche a sdrammatizzare, ad esempio. A smetterla con la religione dell’anticasta. Se a ogni indagine su un politico è lecito dubitare della colpevolezza, e se persino di fronte a una sentenza definitiva si deve assumere il dubbio come approccio necessario in vista di possibili revisioni, anche quell’ansia nata dal doppio colpo di Mani pulite e della caduta di Prodi potrebbe in futuro vedersi superata. Si potrà forse, con la pazienza e la fiducia, ricomporre la vera frattura, che è innanzitutto fra cittadini e istituzioni, e con essa anche la crisi della giustizia. Certo, i segnali di una notevole e diffusa resistenza possono anche fiaccare l’apertura dello sguardo. Ad esempio, persino tra i magistrati la disillusione si è fatta strada e ha assunto sembianze analoghe all’antipolitica. “Il riflesso prevalente nella magistratura associata non sembra quello di rivendicare il pur prezioso pluralismo delle correnti, ma di infliggere censure sbrigative. Un atteggiamento”, scrive Flick, che “è anche la conseguenza del deserto di autorevolezza lasciato dalla politica”. L delegittimazione di qualsiasi centro di potere o anche solo di influenza è indiscriminata. È una sorta di incendio, che annulla la fiducia in tutto, in ciò attorno a cui ruota la nostra stessa vita. E il propagarsi ha un effetto imprevedibile. Tocca anche la dignità dell’avvocato, di cui pure il presidente emerito della Corte costituzionale si occupa. Lo fa nella parte del libro dedicato alle relazioni “multilevel” tra le giurisdizioni, interne e internazionali. Tra regole dettate da fonti primarie, pronunce della Consulta, interazioni fra giudice delle leggi e Corti europee, diventa così impegnativa la ricerca del diritto vigente (figurarsi quello vivente), che ne dovrebbe derivare almeno “una maggiore dignità anche nella condizione economica dell’avvocato”. Non è così, Flick lo sa bene, e anzi la globalizzazione del lavoro intellettuale, la sua dispersione, la precoce corsa a liberalizzare per prime le attività delle categorie ordinistiche, hanno schiacciato la professione forense nella prospettiva della concorrenza innalzata a nuovo idolo. A pensarci bene, anche l’avvocatura, come le altre libere professioni con cui il saggio di Flick auspica un’alleanza, viene indebolita dall’ostilità collettiva verso ogni presidio. Certo il difensore soffre di tale tensione, dello sguardo obliquo verso l’anticasta, intesa ormai come forma di pensiero, anche perché osa assicurare il diritto a chi è accusato dei reati più odiosi. Ma non c’è solo questo riflesso, c’è in generale la diffidenza verso chiunque detenga una qualche prerogativa speciale. Che si tratti del deputato eletto per approvare le leggi o dell’avvocato che assicura il diritto di cui all’articolo 24 della Costituzione. Come si esce dalla cultura del sospetto verso chiunque eserciti funzioni democratiche? Forse si deve partire da una delle definizioni più belle del libro, riportata da Flick per dare valore al metodo del dubbio: che non è nevrotico amletismo, si tratta piuttosto “del ragionevole dubbio, dell’umiltà di cercare la legge vivente più che quella vigente; di muovere dal diritto per come vive più che per come dovrebbe vivere”. È legittimo avere fede nella legge, ma secondo i limiti che Flick si premura di raccomandare in tutto il libro. Soprattutto, è giusto oltre che legittimo, avere un sano laicismo verso la giustizia come verso la politica, non metterle in conflitto fra loro, non chiedere alla prima di essere fustigatrice della seconda. È necessario accettare gli errori della giustizia penale anche quando il bersaglio indebitamente colpito era un uomo delle istituzioni, È necessario e utile, in ultima analisi, guardare al futuro come a un’esperienza partecipata, senza l’attesa per una vendetta permanente. Nella dialettica fatale e irreparabile, quella iniziata con le inchieste del ‘ 92 fra magistratura e politica, la svolta consisterebbe, d’altra parte, anche in una politica capace di rassegnarsi a non poter “ricomprendere tutto nella legge, in modo tale che l’intervento del giudice sia solo un automatismo e non abbia alcuno spazio di discrezionalità. La tentazione”, secondo l’autore di Giustizia in crisi, nasce dal simulacro di quella “giustizia dell’algoritmo, nella quale non ci dovrebbe essere più bisogno del giudice, perché ci si illude che basterà introdurre nel computer le coordinate giuste (quali?) per ottenere il risultato. È evidente il contrasto con la Costituzione, che ha come profilo fondamentale la difesa dell’identità, della pari dignità e della personalità di ciascuno di fronte all’ondata montante degli effetti patologici della globalizzazione”. Ci mancherebbe solo la scomparsa del processo in favore di un software. Non si può restare indifferenti alla chiusura di tutte le agorà, con la sopravvivenza dei soli social, luogo però in cui ci si trincera nelle proprie convinzioni pregresse, piuttosto che scambiare chiacchiere con chi la pensa diversamente. E si torna sempre alla democrazia intesa come partecipazione, il solo modo perché possa compiersi l’esito umanistico prefigurato da Flick rispetto alla crisi della giustizia. Serve persino un ritorno dei cittadini ai partiti, a quei partiti infangati dalla prima eruzione del cataclisma, sempre Mani pulite. Solo l’aggregazione del partito può essere carburante della democrazia intesa come comunità che si autodetermina. Solo se la politica non sarà più infame impostura, solo se non sarà più considerata come un “colpevole che l’ha fatta franca”, pure la giustizia ritroverà il suo equilibrio. La sua veste, cioè, di accertamento del fatto secondo le regole del processo, senza più pretese di farne il lavacro della democrazia. Il caso Regeni: schiaffo agli italiani che resero l’Egitto uno Stato moderno di Gianantonio Stella Corriere della Sera, 22 dicembre 2020 Un tempo la nostra era la lingua della diplomazia. Poi le troppe raccomandazioni fecero sì che rinunciammo alle buone posizioni in cambio di molti impieghi. Era l’italiano, un tempo, la lingua ufficiale della diplomazia egiziana. In italiano era la rivista antenata della Gazzetta Ufficiale del Cairo. Italiani erano in buona parte gli uomini chiamati laggiù, con ammirazione, per fare dell’Egitto uno stato moderno. E vedere oggi come i nostri diplomatici e i nostri magistrati vengano tutti i giorni presi a ceffoni nella loro richiesta di verità e giustizia su un crimine come le bestiali torture inflitte a Giulio Regeni fa salire la collera. E insieme il rimpianto per quella grande occasione storica che fu data al nostro Paese e venne buttata via. “Uno Stato serio non si lascia trattare così”, ha accusato Giuliano Ferrara. “Non si lascia trattare così”, ha insistito parola per parola Ernesto Galli della Loggia denunciando il senso di impotenza di tutti davanti all’impudenza di un despota come Al Sisi. “Solo schiaffoni per l’Italia in affari con l’Egitto”, ha titolato Il Manifesto. Siamo su “una china che rischia di farci scivolare nell’irrilevanza”, ha scritto Goffredo Buccini, abbiamo “quasi certezza di vedere celebrato un processo in contumacia ad aguzzini che mai sconteranno un giorno di galera”. Colpa dei rapporti di forza internazionali che ci vedono sempre più deboli? Delle incertezze e ambiguità avute sulle rivolte arabe? Della morsa di Putin ed Erdogan? Di Macron e della Legion d’Onore al dittatore del Cairo? Tutto l’insieme. Ma sullo sfondo vale appunto la pena di rileggere quel pezzo di Storia di cui dicevamo. Siamo all’inizio dell’Ottocento. Passata la Campagne d’Égypte di Napoleone, dal “processo di frantumazione” dell’impero turco esce trionfante Muhammad ‘Ali Pascià, un militare ottomano albanese nato nell’attuale Macedonia greca, che sarà ricordato come padre fondatore dell’Egitto moderno. Un uomo, ricorda lo scrittore e diplomatico Ludovico Incisa di Camerana ne “Il grande esodo” edito da Corbaccio, “che apre il paese al mondo occidentale, avvia il suo ammodernamento ed è chiaramente ben disposto verso gli italiani e in particolare gli esuli dei primi moti risorgimentali”. Erano convinti, lui e i successori Abbas e Said fino al 1863, spiega Ibraam Gergis Mansour Abdelsayed nel saggio “Italiani sulle rive del Nilo”, “che solo attraverso l’integrazione tra la società e le varie comunità straniere e attraverso l’inserimento negli affari statali di personale straniero qualificato si potesse concretizzare la necessaria innovazione per uscire dall’arretratezza”. Fu con lui che “la società egiziana d’allora, e fino all’epoca in cui si fu instaurata la repubblica, fino alla metà del Novecento, acquistò un carattere cosmopolita, dove convivevano e collaboravano culture diverse di ogni parte del mondo”. In testa, i nostri nonni. “Italiano l’unico vice-ammiraglio europeo della Marina egiziana; l’ordinamento della milizia secondo i suggerimenti italiani; le costruzioni pubbliche fatte per opera di Italiani, che primi introdussero in Egitto il gusto per le belle arti; le intraprese affidate agli Italiani; attuati per mezzo di Italiani i miglioramenti agricoli; italiani i consulenti legali del Vicerè e perfino esclusivamente italiani gli avvocati patrocinanti nei processi giudiziari”, racconta nel 1937, in “Gli italiani in Egitto”, lo storico Angelo Sammarco. E “la lingua italiana era così diffusa che poteva considerarsi quale la sua seconda lingua tanto che fino a tutto il regno di Mohammed Ali, la nostra lingua era la lingua diplomatica dell’Egitto e la sola usata dal governo egiziano nei rapporti internazionali”. Non basta, scrive lo storico Francesco Surdich nel capitolo “Nel Levante” della “Storia dell’emigrazione italiana” (Donzelli), va a merito dei nostri “avere sviluppato una rete postale, gestita in lingua italiana, capace di operare in maniera capillare sia all’interno che all’esterno dell’Egitto” e l’”altrettanto rilevante” ruolo nell’organizzazione del sistema sanitario”. Di più: “Su impulso del livornese Lorenzo Masi, che nel 1820 ne assunse la direzione, fu costituito ex novo, per finalità fiscali, il catasto...” Di più ancora: “Interamente in mano agli italiani fu anche l’amministrazione della sicurezza pubblica…” Antenata di quella che oggi, sul caso Regeni e altri, mette i brividi. E quando l’architetto livornese Pietro Avoscani costruì al Cairo il Teatro d’Opera, uguale identico alla Scala di Milano sia pure in legno, la cosa fu sottolineata come “il punto culminante della influenza italiana”. Fu anche l’inizio però, insieme con l’apertura del Canale di Suez finito in mani inglesi e francesi con l’Italia tagliata fuori, della decadenza. Già nel 1905, ricorda Incisa di Camerana, l’agente diplomatico presso il sultano e console generale al Cairo Giuseppe Salvago Raggi lamentava: “Nell’epurazione compiuta in questo ventennio, gli italiani vennero per la quasi totalità eliminati e la causa di ciò deve cercarsi nel sistema seguito per reclutarli”. Cioè? Mentre inglesi e francesi cercavano di occupare i ruoli più importanti e delicati “preoccupandosi del prestigio che ne veniva al loro paese (...) l’Agenzia d’Italia invece oppressa dalle numerosissime raccomandazioni rinunciò in pratica a ottener buoni impieghi per gli italiani e si contentò di impiegarne molti”. Traduzione: troppi fratelli, cugini, cognati, amici, parenti... Col risultato, scriverà in un rapporto a Roma lo stesso agente diplomatico e console generale al Cairo, che “le alte posizioni vennero occupate da francesi, da alcuni austriaci, da pochi inglesi e da pochissimi tedeschi, quelle più umili da italiani e le infime da greci”. Un boomerang. Dal quale non riuscimmo più a riprenderci. Come sarebbe andata, se quell’occasione fosse stata gestita meglio? Turchia. Leyla Guven senza giustizia: 22 anni di cella per terrorismo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 dicembre 2020 Durissima condanna per l’ex parlamentare curda dell’Hdp, in sciopero della fame per 200 giorni. Nella Turchia sempre più erdoganizzata, la campagna contro il partito di sinistra prosegue spedita Parlamentari e sostenitori dell’Hdp durante un sit-in a Istanbul in solidarietà con Leyla Guven, all’epoca in sciopero della fame. L’escalation contro Leyla Guven, storica esponente della sinistra curda in Turchia, ieri ha toccato la vetta: una condanna a 22 anni e tre mesi di prigione per terrorismo. Il percorso compiuto fino alla sentenza di ieri contro l’ex parlamentare 56enne del partito di sinistra Hdp e co-leader del Dtk (Democratic Society Congress) ha occupato tutti gli ultimi 10 anni, per inasprirsi a partire dal 2015 con l’esplosione del consenso per la formazione filo-curda, la ripresa della campagna militare turca contro il sud est e poi nel Rojava, il nord-est siriano: prima l’arresto, poi un lungo sciopero della fame, il rilascio in attesa del processo, una prima condanna a sei anni non concretizzata perché protetta dallo status di deputata e infine (lo scorso giugno) il ritiro dell’immunità parlamentare. Una cancellazione che ha aperto alla sentenza più dura, quella comminata ieri dalla corte penale di Diyarbakir: 14 anni e tre mesi per l’accusa di appartenenza a organizzazione terroristica (il Pkk) e altri 8 anni per due diverse accuse di propaganda terroristica (il riferimento è a due discorsi pubblici che Guven ha tenuto a Batman e Diyarbakir). Nello specifico, la procura ha chiesto condanne per fondazione, guida e appartenenza a organizzazione terroristica, incitamento a proteste illegali e partecipazione disarmata a riunioni illegali. Subito è stato spiccato un mandato d’arresto, ma mentre scriviamo non è ancora chiaro dove l’ex deputata si trovi: ieri in tribunale erano presenti solo i suoi due legali, Serdar Celebi e Cemile Turhalli Balsak. Immediata è giunta la condanna dell’Hdp: “La magistratura ha mostrato ancora una volta di agire in linea con gli interessi del partito di governo - si legge in una nota - Non riconosciamo questa punizione illegittima e dannosa”. “Questa decisione ostile - prosegue il comunicato - non va solo contro Leyla Guven e non solo contro il Dtk, ma contro tutti i curdi e tutta l’opposizione. Né lei né noi ci arrenderemo a causa di punizioni e arresti”. Guven è considerata un simbolo della lotta all’autoritarismo che oggi caratterizza la Turchia. Ex sindaca, ex deputata, prigioniera politica tra il 2009 e il 2014, riarrestata a gennaio 2018 per aver criticato l’operazione militare di Ankara nel cantone curdo-siriano di Afrin, nel novembre dello stesso anno ha iniziato uno sciopero della fame durato fino al 26 maggio 2019, sostenuto da migliaia di prigionieri e prigioniere curde nelle carceri turche ma anche da donne esponenti della sinistra mondiale, da Angela Davis a Leila Khaled: 200 giorni a digiuno contro l’isolamento a cui è sottoposto il leader del Pkk Abdullah Ocalan. Ridotta pelle e ossa, era stata rilasciata a gennaio 2019 ma aveva proseguito la protesta nella sua casa di Baglar, a Diyarbakir. Con la mascherina al volto, gli organi vicini al collasso, continuava a chiedere “democrazia, diritti umani e giustizia”. Nulla di nuovo sotto il sole a strisce turco: le accuse mosse sono sempre le stesse, tutte derivazioni varie ed eventuali del reato “terrorismo”, con cui in cinque anni una magistratura sempre più erdoganizzata e un ministero degli interni campione di commissariamento di enti locali hanno devastato l’Hdp. Tanti piccoli golpe Akp-diretti: il Partito democratico dei Popoli ha visto imprigionare i propri leader nazionali, Selahattin Demirtas e Fiden Yukesdag, insieme a una decina di altri parlamentari; arrestate migliaia di amministratori locali, membri di partito e semplici sostenitori; commissariare quasi ogni comune vinto nelle due ultime tornate elettorali municipali. E stracciare l’immunità parlamentare solo al fine di poter procedere contro l’espressione della partecipazione politica curda e di sinistra alla vita nazionale, talmente ristretta da accogliere ben poche forme di espressione politica al di fuori dell’erdoganismo. Una sobria voce biografica su Leyla Guven, curda in Turchia di Adriano Sofri Il Foglio, 22 dicembre 2020 Leyla Guven è stata sindaca di due città, poi deputata nazionale per l’Hdp, il Partito democratico dei popoli, ha 56 anni, già detenuta per anni, è stata reincarcerata a giugno, privata dell’immunità parlamentare, condannata ieri da un tribunale di Diyarbakir a 22 anni e 3 mesi di galera per “appartenenza a un gruppo terrorista” e “propagazione di propaganda terrorista” (il gruppo sarebbe il Pkk, il Partito dei lavoratori curdo). Due anni fa aveva promosso uno sciopero della fame di 200 giorni con il fine di interrompere l’annoso isolamento di Abdullah Ocalan, e permettergli di incontrare i suoi famigliari e i suoi avvocati. Al digiuno si unirono centinaia di detenuti politici. Simili scioperi della fame, che sono diventati un segno distintivo della giustizia turca e hanno più volte portato alla morte dei loro autori, sono condotti nutrendosi di acqua e sale, acqua e zucchero e vitamina B. Guven era già allora in prigione, condannata per aver definito “invasione” l’invasione turca (macabramente chiamata Operazione Ramo d’Ulivo) in Siria contro le Forze democratiche siriane, sigla della coalizione guidata dai curdi siriani. Una voce meno sommaria, ma non aggiornata, su Leyla Giiven scritta da Cristina Cammelli si trova in rete nell’Enciclopedia delle Donne. Egitto. Zaki in carcere alla madre: “Sono fisicamente esausto e depresso” di Marta Serafini Corriere della Sera, 22 dicembre 2020 La vista nella prigione di Tora. Lo studente è detenuto da 318 giorni. La famiglia: “Siamo in lacrime, non sappiamo come aiutarlo”. “Sono esausto fisicamente e mentalmente, non posso continuare a stare qui ancora a lungo e mi deprimo ogni volta che c’è un momento importante nell’anno accademico, mentre io sono qui invece di essere con i miei amici a Bologna”. Sono parole terribili quelle che arrivano dal carcere di Tora. A pronunciarle Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna, in carcere in Egitto dal 7 febbraio scorso, che ha spiegato di uscire molto raramente dalla sua cella. Trecento diciotto giorni, con l’ultimo rinnovo di custodia cautelare stabilito dai giudici egiziani due settimane fa. Una visita “che ci ha spezzato il cuore”, ha raccontato la famiglia in una dichiarazione diffusa su Facebook dalla rete di attivisti che ne chiede la liberazione. La famiglia di Zaki spiega anche che le parole del giovane “ci hanno lasciato in lacrime, dato che siamo incapaci di aiutare nostro figlio in questa situazione straziante”. “Nostro figlio è una persona innocente e un brillante ricercatore, dovrebbe essere valorizzato, non rinchiuso in una cella. Dieci mesi fa, Patrick stava lavorando al suo master e pensava di terminarlo per poi proseguire con il dottorato di ricerca. Ora come ora, il suo futuro è completamente incerto; non sappiamo quando sarà in grado di continuare gli studi, di lavorare e persino di tornare alla sua vita sociale, un tempo ricca”, recita ancora la dichiarazione rilasciata a seguito della visita della madre in carcere. “Era quello che avevamo immaginato e che temevamo. Patrick non ce la fa più. Anche la penultima dichiarazione era stata allarmante, questa lo è ancora di più”. commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, commentando le parole della famiglia di Patrick Zaki. “Mi auguro - aggiunge - che all’interno del Governo italiano questo messaggio della famiglia di Patrick sia letto, circoli e produca una reazione immediata. Non possiamo perdere tempo. Il messaggio che arriva da Patrick è chiaro, bisogna reagire con la massima urgenza”. Zaki aveva già lamentato dolore alla schiena e la necessità di antidolorifici in due lettere diffuse nei giorni scorsi. Così come era stata sottolineata per il giovane l’impossibilità di stare con la sua famiglia di origine copta in occasione delle feste. Zaki si trova rinchiuso da 318 giorni in uno dei peggiori carceri del mondo. A rendere ancora più intollerabile la sua situazione - e quella degli altri 60 mila oppositori politici - il fatto che i governi europei non sembrano intenzionati a rompere le relazioni diplomatiche con l’Egitto. Al contrario, polemiche e accuse ha suscitato la decisione del presidente francese Emmanuel Macron di insignire il presidente egiziano, Abdel Fattah Al Sisi, della Legion d’Onore. Qualche spiraglio però si è aperto nelle ultime ore, in seguito alla risoluzione approvata dal Parlamento europeo in cui si chiede esplicitamente all’Egitto la liberazione di Zaki e la collaborazione sul caso Regeni, così come le parole del ministro degli Esteri di Maio che ha sottolineato di considerare il caso dello studente egiziano, come un caso italiano. Siria. Nella “Guantánamo europea” crescono i figli del Califfato di Andrea Prada Bianchi Il Domani, 22 dicembre 2020 Quando si arriva nella più grande tendopoli al mondo di sfollati provenienti dalle aree dell’ex Califfato è difficile capire se ci si trova in un campo profughi o in una prigione. Per entrare ad Al Hol, nella punta nordorientale della Siria, bisogna passare diversi controlli di sicurezza e avere un pass rilasciato dall’amministrazione del campo. Recinzioni alte 2-3 metri circondano tutta l’area. Ma se nella maggior parte del campo le autorità cercano di mantenere la natura umanitaria dell’accoglienza, all’interno di questa piccola città di 66mila abitanti (in gran parte siriani e iracheni) c’è un settore che non può essere scambiato per nient’altro se non per un vero e proprio centro di detenzione. Si chiama Annex, ed è il reparto in cui vivono segregate circa 10mila persone, le mogli e i figli dei foreign fighter provenienti dall’Europa e dal resto del mondo che si erano uniti all’Isis negli anni dello Stato islamico. La zona è circondata da un terrapieno sopra il quale le guardie armate delle Sdf (Syrian democratic forces, l’alleanza curdo-araba appoggiata dalla coalizione a guida Usa) controllano che nessuno esca. Dietro le recinzioni le donne col niqab sfilano in gruppi vicino ai bambini che giocano. Sono a tutti gli effetti cittadini britannici, tedeschi, belgi, francesi, olandesi, russi (sono 62 le nazionalità, rappresentate nell’Annex) che i rispettivi governi non vogliono riprendersi. Rinchiusi qui negli ultimi due-tre anni - da quando cioè il Califfato ha iniziato a disgregarsi sotto l’offensiva curdo-araba appoggiata dalla coalizione - senza aver ricevuto alcun processo e completamente spogliati di tutti gli essenziali diritti Guantánamo europea” è il termine efficace che l’organizzazione Rights & Security International (Rsi), impegnata nella difesa dei diritti umani, ha utilizzato in un esteso rapporto recentemente pubblicato per descrivere la condizione di illegalità nella quale si trovano queste persone. Se molte delle donne hanno abbracciato consapevolmente gli ideali di Daesh, lo stesso non si può dire per i bambini, che rappresentano più della metà della popolazione del campo. Più della metà dei minorenni ha meno di cinque anni e la maggior parte ne ha meno di 12. Costretti a pagare per le scelte dei loro padri e delle loro madri, senza nessuna possibilità di costruirsi una vita e per i quali la strada più probabile è quella della radicalizzazione. “Nel campo le madri stanno educando i figli alla vendetta”, spiega un alto ufficiale delle Sdf nella città di Qamishli, 80 chilometri a nord di Al Hol. “Ma c’è di più: nonostante i mariti di queste donne siano nelle prigioni, il tasso delle nascite continua a salire. Riteniamo che ci siano stati casi di madri che hanno spinto gli adolescenti a fare figli. Sta crescendo una generazione di soldati che vorrà vendicare il Califfato”. Secondo il rapporto di Rsi, alcune delle gravidanze sarebbero invece attribuibili a violenze sessuali commesse da ufficiali delle Sdf. Dall’Europa per anni si sono alzate voci per la chiusura di Guantánamo, ma ora sono proprio i governi del Vecchio continente ad aver replicato lo stesso scenario. Il numero di bambini nell’Annex è quasi nove volte superiore alla popolazione massima mai raggiunta nella prigione americana a Cuba. In Siria la situazione è ribaltata, tanto che gli Usa hanno già rimpatriato tutti i 27 cittadini americani (tra cui 15 bambini) presenti nelle strutture delle Sdf e stanno facendo pressioni sugli alleati europei perché si muovano sulla stessa linea. L’Italia sembra aver risposto all’appello. Il 29 settembre, Alice Brignoli è stata arrestata dai carabinieri del Ros nel campo di Al Hol e riportata in Italia insieme ai quattro figli. Secondo il ministero dell’Interno, sarebbero ancora due i cittadini italiani sotto tutela delle Sdf. Il 19 dicembre, Germania e Finlandia hanno rimpatriato cinque donne, che saranno indagate al loro rientro a casa, e 18 bambini. Molti paesi europei stanno sfuggendo alle proprie responsabilità. La maggior parte, come la Francia, i Paesi Bassi o la Svezia, stanno rimpatriando solo i bambini orfani o bisognosi di cure specifiche. Alcuni, come il Belgio, hanno fatto tornare giusto un paio di donne con i figli. Il Regno Unito si sta distinguendo in negativo per la pratica di togliere la cittadinanza ai suoi sudditi nei campi e nelle prigioni. L’Amministrazione autonoma della Siria del nordest, che governa la regione conosciuta come Rojava, sta facendo pressioni sulle capitali straniere affinché rimpatrino i loro cittadini, chiarendo che è l’unica via possibile per il loro rilascio. Diversi stati europei sostengono che riportare i propri connazionali in patria sia logisticamente complesso. Oppure che non hanno rappresentanze diplomatiche ufficiali in Siria, e che non vogliono trattare con le autorità curde siriane perché considerate vicine al Pkk. Motivazioni prive di reale sostegno, considerato che funzionari e militari di paesi europei circolano senza difficoltà nel nordest della Siria e che i rapporti tra curdi-siriani e Pkk non hanno mai impedito di allacciare relazioni tra il Rojava e l’occidente. Il timore La verità è che i governi temono di non riuscire ad avere gli strumenti legali per condannare queste donne in patria con la sola accusa di essere state al fianco dei mariti nello Stato islamico. E di ritrovarsi così con persone altamente radicalizzate all’interno del territorio nazionale. “A inizio settembre quattro donne e sei bambini sono stati trovati dalla polizia dentro un camion cisterna per l’acqua”, racconta Fatima, che ha lavorato per diversi mesi nell’Annex e ora fa la traduttrice, “cercavano di scappare, ma stavano soffocando e hanno iniziato a bussare contro la lamiera”. Gli abitanti del campo vivono nella paura: solo nel 2020 sono stati registrati dai 30 ai 35 omicidi ad Al Hol e ultimamente sono sempre più comuni. Non si sa con esattezza in quanti muoiano dentro l’Annex, a volte i corpi vengono seppelliti dentro il reparto. Le donne più vicine all’Isis o uomini coperti dal niqab sparano da sotto il vestito con pistole silenziate o usano il coltello. Le vittime sono per la maggior parte dei casi coloro che sono accusati di collaborazionismo con le forze di sicurezza curde oppure donne considerate dai costumi troppo leggeri. Ad Al Hol si vive un costante scontro tra chi è rimasto legato alle idee dell’Isis e chi invece le ha ripudiate o ne è stato vittima. Alcune aree sono diventate così pericolose che né gli operatori umanitari né le forze di sicurezza possono accedere. Ai problemi legati alla violenza bisogna aggiungere quelli legati all’assistenza sanitaria. L’attività delle strutture ospedaliere è ridotta a sole quattro ore al giorno e l’accesso a servizi specifici per i pazienti al di fuori di Al Hol è frenato dai permessi che le autorità del campo devono rilasciare: nessuno può uscire senza una scorta di sorveglianza. “I pazienti che necessitano di servizi al di fuori del nordest della Siria sono in attesa di trasferimento da quasi un anno”, spiega Maria P., medicai advisor di Un Ponte Per, ong italiana che insieme alla Mezzaluna rossa curda ha messo in piedi il primo centro clinico nel campo quattro anni fa e ne ha aperto un secondo nel 2019. Nella zona di attesa attrezzata tra i container che formano la clinica, decine di donne e bambini aspettano il proprio turno. “Una ragazza che aveva un piccolo nodulo al seno non ha avuto i permessi per andare a curarsi a Damasco”, continua Maria, “e ora il nodulo è diventato un grosso tumore”. I casi sospetti In una spianata adiacente all’Annex, l’Oms ha fatto costruire quattro capannoni per fronteggiare l’ultima emergenza entrata ad Al Hol: il Covid-19. Da settembre sono stati effettuati circa 43 tamponi. Tredici i casi confermati, di cui nove guariti e quattro morti. Attualmente nei capannoni, divisi per maschi e femmine, casi sospetti e confermati, non ci sono pazienti. Ma non bisogna farsi ingannare da questi numeri. “Il 10 dicembre sono usciti i risultati preliminari di un’indagine effettuata sulla popolazione”, spiega Maria, “circa 1’8 per cento delle famiglie intervistate ha riportato almeno tre dei sintomi sospetti per il Covid-19, e la cosa preoccupante è che i dati arrivano da punti sparsi per tutto il campo”. Mahmoud Ali, il responsabile di Krc ad Al Hol, è seduto nel suo ufficio prefabbricato: “Spesso chi ha i sintomi ha paura dello stigma sociale e cerca di nascondere la malattia. Per non parlare del fatto che molti non pensano a prendere alcuna protezione, fatalisticamente convinti di essere nelle mani di Dio”. Coprifuoco e distanziamento sociale sono concetti inapplicabili nel contesto di Al Hol, e la possibilità che il virus inizi a circolare liberamente è alta. “Non siamo assolutamente preparati”, spiega Mahmoud. “Se l’epidemia esplodesse sarebbe un disastro totale”. A partire da inizio ottobre, l’amministrazione del Rojava ha dato il via a un piano di trasferimenti per far tornare gradualmente le famiglie siriane alle loro case. Diversa la situazione per i cittadini provenienti dall’Iraq, che da anni rifiuta i rimpatri. I governi europei hanno i mezzi per garantire alle donne un regolare processo nel paese di origine e ridare ai bambini un futuro. Facciano la loro parte.