Rileggere Tolstoj con un pensiero a Donato Bilancia, morto per Covid di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 21 dicembre 2020 “Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre”. Qualche giorno fa, ho riletto, citata in una bella intervista dal professor Giovanni Fiandaca, una riflessione di Lev Tolstoj tratta dal romanzo Resurrezione. Vale la pena di riportarla, perché pare che nel mondo odierno si sia persa traccia di un pensiero serio sulla complessità della natura umana: “Una delle superstizioni più frequenti e diffuse è che ogni uomo abbia solo certe qualità già definite, che ci sia l’uomo buono, cattivo, intelligente, stupido, energico, apatico eccetera. Ma gli uomini non sono così. Possiamo dire di un uomo che è più spesso buono che cattivo, più spesso intelligente che stupido, e viceversa. Ma non sarebbe la verità se dicessimo di un uomo che è buono o intelligente e di un altro che è cattivo, o stupido. Gli uomini sono come fiumi: l’acqua è in tutti uguale e ovunque la stessa, ma ogni fiume è ora stretto, ora rapido, ora ampio, ora tranquillo, ora limpido, ora freddo, ora torbido, ora tiepido. Così anche gli uomini. Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre lo stesso”. In questi mesi difficili si parla molto di pene e di carcere usando spesso stereotipi, luoghi comuni, semplificazioni. Ci vorrebbe un Tolstoj, mi verrebbe da dire, per spiegare a giornalisti e politici che il mondo non è diviso in “totalmente buoni e assolutamente cattivi”, che le cose stanno diversamente, che bisogna accettare che quando si parla di pene e di carcere non c’è nulla di semplice, nulla di scontato. nulla di rassicurante, anche se piacerebbe a tutti pensare che la galera, tanta galera ci rende più sicuri. Anche perché, come diceva un altro straordinario scrittore russo, Fjodor Dostoevskij, pure ogni uomo perbene ha dentro di sé delle cose, che non vorrebbe neppure raccontare a se stesso: “Ogni uomo ha dei ricordi che racconterebbe solo agli amici. Ha anche cose nella mente che non rivelerebbe neanche agli amici, ma solo a se stesso, e in segreto. Ma ci sono altre cose che un uomo ha paura di rivelare persino a se stesso, e ogni uomo perbene ha un certo numero di cose del genere accantonate nella mente”. Ho scelto di citare due scrittori per parlare, indirettamente, di carcere con un invito e un augurio: dedicare gli ultimi giorni di questo anno crudele alla lettura di quello che Dostoevskij e Tolstoj sanno raccontarci della natura umana, e forse qualcuno capirà qualcosa di più di quello che riguarda il mondo delle pene, qualche giornalista andrà un po’ più a fondo se dovrà parlare di qualche “delinquente!, qualche politico avrà un soprassalto della coscienza quando dovrà mettere mano a qualche legge che riguarda il carcere. Da parte mia, spero che Tolstoj e Dostoevskij ci aiutino anche a ricordarci che non esistono i “mostri”, ma uomini in grado di fare cose mostruose, che però non esauriscono la loro umanità in quei gesti. Penso a Donato Bilancia, ai suoi reati terribili, al dolore dei famigliari delle persone che ha ucciso, agli anni di carcere vissuti nella Casa di reclusione di Padova, alla sua morte di Covid in solitudine all’ospedale, e provo un senso di pena, e spero che nessuno pensi con una specie di sollievo a questa morte. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Bonafede deve rispondere sui 13 morti misteriosi nel carcere di Modena di Enrico Deaglio Il Domani, 21 dicembre 2020 Il 9 marzo 2020 il premier Conte decretò il lockdown totale, primo paese al mondo. Ci furono proteste in tutti i penitenziari italiani. Nel carcere Sant’Anna di Modena si verificarono fatti gravi e misteriosi: la tv mostrò colonne di fumo e venne riferito di scontri con le guardie, di feriti. La mattina dopo, con un’operazione militare top secret, tutti i detenuti del Sant’Anna vennero trasferiti e venne comunicato: “L’ordine regna al S. Anna”. Ma nelle 48 ore che seguirono, strani fiori sbocciarono, sparsi nelle carceri del centro e del nord Italia: erano altri cadaveri, che venivano da Modena. Al Governo Alla Commissione Europea A chiunque sia interessato a conoscere la verità su una storia ignobile accaduta nella civile Italia nel funesto 2020 Il 9 marzo 2020, con un atto di grande coraggio (di cui pochi lo credevano capace), il premier Conte decretò il lockdown totale, primo paese al mondo. Purtroppo, poco o nullo interesse venne dedicato al mondo delle carceri, peraltro il più esposto alla propagazione del contagio. Risultato: in quei giorni ci furono proteste in tutti i penitenziari italiani. Le richieste, oltremodo democratiche: tamponi, colloqui con i famigliari, permessi, sconti di pena, indulto, sanatoria, amnistia. A Foggia ci fu addirittura la breve evasione di alcune decine di detenuti. Nel carcere Sant’Anna di Modena si verificarono fatti gravi e misteriosi: la tv mostrò colonne di fumo e venne riferito di scontri con le guardie, di feriti. Filtrarono notizie di spari, un morto, due morti, tre morti. La mattina dopo, con un’operazione militare top secret, tutti i detenuti del Sant’Anna (548, la capienza era di 369) vennero trasferiti e venne comunicato: “L’ordine regna al S. Anna”. Ma nelle 48 ore che seguirono, strani fiori sbocciarono, sparsi nelle carceri del centro e del nord Italia: erano altri cadaveri, che venivano da Modena. Alla fine, ci dissero che i morti erano tredici, tutti di Modena. Cinque in loco, otto in altre carceri. Ma come ci erano arrivati, in quelle altre carceri? Erano volati? Erano metastasi di un cancro? Era un complotto di Cosa Nostra che aveva suscitato la rivolta per ottenere l’amnistia per i suoi boss? Dare un nome ai morti - Il lettore non mi prenda per pazzo: questa “narrazione”, che le rivolte nelle carceri fossero un piano della mafia per ottenere la libertà dei suoi boss fu la versione praticamente ufficiale del governo, ripresa da magistrati, giornali, trasmissioni televisive. Ci vollero 11 giorni perché “i 13 di Modena” avessero un nome; e non li rivelò il governo, ma Luigi Ferrarella, coraggioso giornalista del Corriere della Sera. Due erano italiani, undici del Maghreb; tutti detenuti per reati legati alla droga, non gravi, diversi di loro erano a “fine pena”; nessuno era un boss. Compare una versione degli eventi: i detenuti hanno scassinato l’armadietto dell’infermeria e preso una bottiglia di metadone: si sono abbeverati, si sono intossicati e sono morti per overdose. Nelle poche parole che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dedicherà loro in parlamento, sono morti “perlopiù per overdose di metadone”. (Quel “perlopiù” dice molto, purtroppo, della moralità del ministro). A distanza di otto mesi le autopsie ancora “sono in corso”, ma i fatti di Modena sono forse uno dei pochi argomenti su cui non si litiga nel governo. E, peraltro, i contagi aumentano nelle carceri. Invece, molte domande dovrebbero essere poste. Tutti sanno che l’overdose da metadone nell’adulto è facilmente curabile: in dotazione da vent’anni in tutte le ambulanze, e ovviamente in tutte le carceri, c’è la fiala (miracolosa) chiamata Narcan, che riporta in vita i morituri. Ma, evidentemente, non venne usata; né a Modena, né nei cellulari che trasferirono i detenuti, probabilmente ammanettati e inconsci, in carceri distanti duecento chilometri. Perché i rivoltosi vennero lasciati morire? Perché gli intossicati non vennero portati in ospedale? Gli agenti carcerari si vendicarono sui detenuti rivoltosi? Chi gestì tutta “l’operazione Modena”? L’Europa ci ha mai chiesto spiegazioni? Mi dispiace di avervi rovinato la giornata, con questa storiaccia. Non la migliore, davanti al caminetto; ma è pur sempre un racconto di Natale. “Così ci hanno torturato e ucciso durante le rivolte in carcere” di Luigi Mastrodonato Il Domani, 21 dicembre 2020 Cinque detenuti denunciano in procura le violenze delle forze dell’ordine durante le rivolte di marzo che sono costate la vita a 13 persone. La versione ufficiale: sono morti di overdose. Sono passate poche settimane da quando è stato fissato il primo processo in Italia per tortura a carico di pubblici ufficiali, riguardo ai fatti nel carcere di San Gimignano. Ora di tortura, abuso di autorità e omissione di soccorso da parte di agenti penitenziari si torna a parlare in un esposto alla Procura di Ancona firmato da cinque detenuti, a proposito di quanto avvenuto nel marzo scorso nell’istituto penitenziario Sant’Anna di Modena e nella casa circondariale di Ascoli Piceno. L’8 marzo, mentre l’Italia entrava nella fase più dura della pandemia, in diverse carceri italiane sono scoppiate violente rivolte a causa di una situazione generale di sovraffollamento e della sospensione di ogni attività esterna e colloquio interno. È stato uno dei capitoli più bui della storia penitenziaria italiana, con 13 decessi, di cui nove solo a Modena. La procura modenese ha aperto un’indagine a carico di ignoti, poi sono arrivati i risultati autoptici su alcuni corpi. “La causa esclusiva dei decessi è collegabile all’abuso di stupefacenti, verosimilmente quelli sottratti dalla farmacia interna del carcere. Non sono stati riscontrati segni di violenza sui corpi”, ha sottolineato il procuratore vicario Giuseppe Di Giorgio. Con il passare dei mesi sono però emerse nuove testimonianze che hanno delineato un quadro più complesso. Questo, mentre il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha continuato a ignorare la questione. Soltanto overdose? Le indagini hanno sottolineato che cinque persone sarebbero morte nell’istituto penitenziario modenese ed è riguardo a queste che l’autopsia ha evidenziato l’overdose. Quattro sono deceduti in momenti successivi, nelle carceri dove sono stati trasferiti o in ospedale. In estate due detenuti che l’8 marzo si trovavano a Modena, poi trasferiti ad Ascoli Piceno, hanno denunciato di aver subito violenze e abusi da parte degli agenti penitenziari, aggiungendo che i detenuti spirati durante o dopo gli spostamenti non avrebbero ricevuto alcuna visita medica che avrebbe certificato l’impossibilità di compiere un viaggio nelle condizioni sanitarie critiche in cui si trovavano. I pestaggi sarebbero andati avanti anche nei pullman e poi a destinazione e dal racconto emerge la figura del 40enne Salvatore Piscitelli, uno dei morti, “buttato dentro la nuova cella come un sacco di patate”, che “non riusciva a camminare” e “stava malissimo”.La storia di Piscitelli e dei suoi compagni è ora tornata sotto i riflettori per un esposto presentato alla procura di Ancona da cinque detenuti che hanno assistito a quei fatti e hanno deciso di denunciarli. Secondo le nuove testimonianze, Piscitelli sarebbe stato “brutalmente picchiato presso la casa circondariale di Modena e durante la traduzione” e sarebbe arrivato ad Ascoli Piceno “in evidente stato di alterazione da farmaci tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti”. “Tutti facemmo presente al commissario in sezione e agli agenti che il ragazzo necessitava di cure immediate. Non vi fu risposta alcuna. La mattina seguente fu fatto nuovamente presente che Piscitelli non stava bene, emetteva dei versi lancinanti e doveva essere visitato, ma nulla fu fatto”. L’agonia sarebbe andata avanti diverse ore, poi il detenuto sarebbe morto solo e senza cure nel letto della sua cella, nonostante “successivamente molti agenti e il garante stesso dei detenuti asserivano che il Piscitelli fosse morto in ospedale”. C’è molta confusione in effetti su quanto avvenuto in quelle ore. La direzione e il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria parlano di decesso in ospedale dopo il soccorso in cella, due relazioni del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del ministro di Giustizia confermano invece la morte in carcere. Il racconto dei cinque firmatari del nuovo esposto e quello degli altri due detenuti che hanno denunciato i fatti in estate combaciano nella gran parte delle descrizioni e dei dettagli. L’esposto poi evidenzia altri aspetti: calci, pugni, sputi e minacce contro detenuti “in palese stato di alterazione psicofisica” che ci sarebbero stati prima, durante e dopo il trasferimento da Modena; spari ad altezza uomo, un elemento che emerge anche in un video girato durante le rivolte; visite mediche nel carcere di trasferimento che sarebbero state sbrigative, senza nemmeno far togliere i vestiti ai detenuti per verificare eventuali segni di violenza. I firmatari denunciano che né loro né altri compagni sono mai stati sentiti come persone informate sui fatti. Finora tutto si è basato sulle dichiarazioni rilasciate da agenti e direzioni penitenziarie, che negano ogni violenza o sottolineano, come ha fatto il segretario nazionale Uil-pa Gennarino De Fazio, che “se c’è stata violenza la possiamo definire legittima perché serviva per ripristinare l’ordine”. Ora però qualcosa potrebbe cambiare. “Questo esposto potrebbe rivelarsi importante, bisogna vedere se la Procura aprirà un’inchiesta”, spiega Sandra Berardi, la presidente di Yairaiha, associazione per i diritti dei detenuti che sta seguendo il caso. “Ci troviamo davanti a una ricostruzione verosimile, che viene da persone ancora in carcere, dunque coraggiosa”. Uno strano trasferimento Nei giorni scorsi i cinque firmatari dell’esposto sono stati trasferiti da Ascoli Piceno proprio a Modena, in un ambiente ostile a loro. “Siamo stati contattati dai familiari perché dopo il trasferimento hanno interrotto tutte le loro comunicazioni con l’esterno. Abbiamo parlato con il garante, che ha portato la questione al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ora le comunicazioni sono riprese”, sottolinea Berardi. “Attualmente i cinque detenuti si trovano isolati l’uno dall’altro, da quando sono arrivati non hanno avuto neanche una coperta. Non è un isolamento sanitario perché avevano già fatto tre tamponi risultati negativi, si tratta piuttosto di un isolamento disciplinare”. Una misura dal sapore ritorsivo, dopo che sono stati riaccesi i riflettori su una serie di decessi sospetti su cui ancora non è stata fatta piena chiarezza. Il Covid in carcere, Segre: “Impossibile arginare il contagio. Vaccinate i detenuti” di Lucia Cappelluzzo bergamonews.it, 21 dicembre 2020 L’interrogazione arriva proprio pochi giorni dopo la notizia di casi Covid anche nel carcere di Bergamo e di un ordine del giorno appena approvato in Consiglio regionale inerente al sovraffollamento nelle carceri. A pochi giorni dalla fine del 2020, tutto il mondo si trova su un filo sospeso e guarda con un misto di apprensione e speranza verso il 27 dicembre, data fissata per l’inizio delle vaccinazioni contro il coronavirus in Italia e in Europa, come riportato in un post Twitter dal ministro della Salute Roberto Speranza. L’inizio delle vaccinazioni il 27 dicembre sarà possibile soltanto dopo che l’Ema, l’Agenzia europea per i medicinali, deciderà di raccomandare il vaccino sviluppato da Pfizer-BioNTech alla Commissione e Si prospetta che il vaccino sarà somministrato nella fase iniziale prioritariamente agli operatori sanitari e socio-sanitari, ai residenti e al personale delle Rsa e alle persone in età avanzata. Ma, tra la persone con precedenza, la senatrice a vita Liliana Segre, con un’interrogazione al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro della Giustizia, ha richiesto che vengano inseriti anche i carcerati. La senatrice è da sempre molto sensibile a questo tema e nelle sue frequenti visite al carcere milanese di San Vittore ha sempre ricordato con riconoscenza come i detenuti furono gli unici che salutarono gli ebrei che venivano avviati ai treni per Auschwitz, nella Milano indifferente alla sorte di tante persone innocenti, fra le quali c’erano anche Segre, 13 enne, e suo padre Alberto. Nell’interrogazione Segre evidenzia che secondo i “dati forniti dal ministero della Giustizia e ripresi dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e dall’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, risultavano a metà dicembre 2020 1.023 persone contagiate, per lo più asintomatiche, di cui solo 31 ospedalizzate. Mentre fra il personale amministrativo e gli agenti di polizia penitenziaria risultano rispettivamente 810 e 72 contagiati”, come riporta La Repubblica. Sottolineando anche come “appare drammaticamente evidente come il carcere, nonostante le misure predisposte per il contenimento, sia uno dei luoghi in cui sono più alte le possibilità di contagio e diffusione, anche all’esterno, del contagio stesso. Per questo motivo l’insieme delle persone che vivono e lavorano nelle carceri devono essere inserite sin dall’inizio fra le categorie con priorità sottoposte alla campagna di vaccinazioni”. L’interrogazione della senatrice Segre arriva proprio pochi giorni dopo la notizia di casi Covid anche nella casa detentiva di Bergamo dove, ad oggi, sono due le sezioni chiuse: il “circondariale”, dove si trovano detenuti in attesa di giudizio, e il “penale” per i carcerati con pena già definitiva. Tanto che molti di loro sono stati trasferiti nel carcere di Bollate e, lì, isolati. Circa venti, invece, sono gli agenti di sorveglianza risultati positivi e, quindi, per il momento, allontanati dal carcere cittadino. Non solo, l’appello di Segre si innesta anche su una situazione più ampia: quello del sovraffollamento delle carceri e il conseguente problema sanitario. Attorno a cui non solo si è esposta l’associazione bergamasca Carcere e Territorio chiedendo ai parlamentari bergamaschi di farsi parte diligente per l’adozione di misure contro il sovraffollamento nelle case circondariali nazionali, ma che è anche al centro di un ordine del giorno approvato giovedì 17 dicembre dal Consiglio regionale della Lombardia promosso dal gruppo +Europa Radicali e da Azione, in cui si impegna la Giunta ad intercedere presso il Governo per avviare una sostanziale riforma dell’ordinamento penitenziario, necessaria per trovare una soluzione al sovraffollamento nelle case circondariali che inizia ad assumere aspetti drammatici a fronte della situazione pandemica in corso. “Mai più bambini in carcere con le mamme” Il Dubbio, 21 dicembre 2020 Il deputato dem Alfredo Bazoli annuncia l’approvazione di un emendamento alla legge di Bilancio che prevede il finanziamento di strutture alternative per detenuti con figli al seguito. “Finalmente non vedremo più bambini innocenti in carcere con le loro madri”. Lo dichiara il deputato dem Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione giustizia della Camera, dopo l’approvazione dell’emendamento, a sua prima firma alla Legge di Bilancio, sostenuto dal Partito Democratico e da molte associazioni che si occupano del sostegno e dell’accoglienza al di fuori del circuito penitenziario di detenute madri con bambini al seguito. “L’emendamento approvato -spiega l’esponente del Pd - prevede un investimento di risorse specifico per garantire il finanziamento dell’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case-famiglia protette ai sensi dell’articolo 4 della legge 21 aprile 2011, n. 62, e in case-alloggio per l’accoglienza residenziale dei nuclei mamma-bambino. A tal fine, con l’inserimento dell’articolo 56 - bis alla presente Legge di Bilancio, si crea un Fondo con dotazione pari a 1,5 milioni di euro per ciascuno degli anni del triennio 2021-2023”. Secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia, al 31 ottobre 2020 all’interno degli istituti penitenziari risultano essere presenti 31 detenute madri con 33 figli al seguito. Di questi, sono 16 le madri e 17 i bambini ristretti nelle sezioni nido delle case circondariali, mentre gli altri risultano collocati all’interno degli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). “Possono sembrare numeri piccoli, ma se si pensa alle conseguenze che la detenzione ha sul piano psicologico, emotivo e fisico di un bambino piccolo, la portata del fenomeno è devastante e inaccettabile”, commentano le associazioni che si occupano dei bimbi dietro le sbarre. Per questo La Gabbianella e Terre des Hommes hanno chiesto nelle scorse settimane di riformare urgentemente la legge 62/2011 che disciplina la materia, con una proposta presentata a firma del parlamentare Pd Paolo Siani. L’Italia deve disporre di una legislazione in materia di infanzia in grado di assicurare sempre il rispetto del superiore interesse del minore e questo, a maggior ragione, se i bambini destinatari delle sue disposizioni vivono una condizione di estrema vulnerabilità, quale quella causata dalla detenzione con la propria mamma. Pur animata da nobili finalità, quella legge - spiegano le organizzazioni - fu un tentativo non riuscito di migliorare la condizione dei bambini a rischio di detenzione, come dimostra il corso dei dieci anni di applicazione della legge. Infatti, a causa di storture e limiti di applicazione della legge, paradossalmente l’hanno per taluni versi aggravata. Oggi ad esempio è previsto che un bambino possa rimanere nel carcere (o in una struttura di detenzione attenuata quali sono gli Icam) sino ai 6 anni, quando prima il limite era 3. Inoltre la legge, pur introducendo, finalmente l’istituto delle Case Famiglia Protette, alternativa concreta alla detenzione, nei fatti non le rende facilmente accessibili, prevedendo, tra le altre cose, che non vi siano oneri a carico dello Stato per il loro sostentamento. “Questi e molti altri sono gli elementi che fanno richiedere una tempestiva riforma dell’attuale disciplina, che permetta finalmente di rispondere ai bisogni di protezione, cura, assistenza e promozione del diritto del bambino di vivere e crescere davvero in un ambiente adatto alle sue necessità”, sottolineano le organizzazioni. La Gabbianella e Terre des Hommes chiedono dunque “che il numero di bambini che ancora oggi varcano la soglia del carcere con la madre detenuta (in misura cautelare o in esecuzione pena) sia il più basso possibile considerando la carcerazione, anche attenuata nelle Icam, l’estrema ratio; che al 3° anno di età i bambini siano obbligatoriamente fatti uscire dal carcere e/o dagli Icam e la madre sia sempre coinvolta nel percorso di uscita del figlio, permettendole di svolgere quel naturale ruolo-ponte con l’esterno, che eviterebbe al bambino un trauma all’atto della separazione; che dal 9° mese di vita i bambini presenti in carcere o Icam siano inseriti in strutture per l’infanzia, esterne al sistema penitenziario; che nell’ottica di ridurre al massimo la frequentazione dei luoghi carcerari da parte del bambino, siano favorite attività ulteriori rispetto al nido e alla scuola dell’infanzia: laboratori, iniziative di svago e gioco etc. In quest’ottica sia quindi promosso e favorito l’istituto dell’affidamento diurno (affidamento ad una famiglia e/o singola persona individuata dal Comune che accoglie il bambino durante il giorno, mentre la sera e in caso di malattia il bambino resta con la madre). Solo ed esclusivamente per le residue ore in cui il bambino è costretto a frequentare il carcere si chiede che tali attività siano previste anche al suo interno”. Il presepe dietro le sbarre nel mondo a misura di Erode di Francesca de Carolis remocontro.it, 21 dicembre 2020 “Buongiorno Gesù, sono Madonna! Una bambina rom incarcerata insieme alla mamma. Sicuramente ti ricordi di me, vero? Ho lo stesso nome della tua mammina e sono certa che stai vedendo tutto quello che ci stanno facendo, anzi credo che conosci bene questa storia perché hanno perseguitato anche te da piccolo… Nel bel mezzo della notte mi sveglio piangendo e sentendo la nostalgia della nonna e dei miei nove fratellini. Caro Gesù, noi sappiamo che le nostre mamme hanno sbagliato, ma noi cos’abbiamo fatto? … e poi come farà Babbo Natale a lasciarci i regali, se alla finestra ci sono le sbarre…? Lo sai Gesù?! Io, Christian, Giosuè e Kimberly abbiamo deciso di fare come gli adulti, lo sciopero del pianto…” Florisbela Inocencio de Jesus e lo sciopero del pianto - Frugando fra carte e cartoline e segni dei natali che furono… ritrovo l’appunto di questa lettera, di due lustri fa, dal racconto di Florisbela Inocencio de Jesus, il suo sguardo di ex detenuta sull’inferno del carcere, quello femminile che brucia nei suoi gironi anche innocentissimi figli di mamme detenute… E ora mi è difficile non pensare alle sbarre che chiudono l’ingresso alle grotte del loro Natale. Sono 35, in Italia, i bambini da 0 a 3 anni di fatto prigionieri con le loro mamme. Quasi la metà, certo, di quelli che erano in carcere all’inizio dell’anno, “liberati” insieme alle madri per effetto delle raccomandazioni dell’Oms e delle misure prese per tutelare in tempi di covid le persone più fragili. 35 piccolissimi, distribuiti fra le cosiddette sezioni nido e Istituti a custodia attenuata per detenute madri. Comunque carcerazioni. E se nessuno li ha ancora portati fuori, devono proprio essere figli di mamme cattivissime, se le colpe dei padri sono tragedie dei figli… Pensando ai due bambini del carcere di Torino, nel novembre scorso positivi al covid… E chissà se anche loro, come la piccola rom della letterina a Gesù, nel mondo adulto al quale sono condannati, hanno deciso di fare uno sciopero. E se il loro è ancora sciopero del pianto… Una grotta sbarrata di grate - Un tempo nei presepi capitava che ci fosse lo spazio di un pensiero anche per i carcerati. A Pompei, appena nel secolo scorso, persino si allestiva il presepe dei figli dei carcerati. Oggi, i figli, come i padri, sono lontani dai nostri pensieri, come i manufatti di cemento che li imprigionano, respinti lontano dagli occhi, fuori dalle città. Bisognerebbe restituire, ai nostri presepi, cenni di verità perdute, e una verità (bisognerebbe suggerirlo ai magici maestri dei presepi di san Gregorio Armeno) potrebbe essere il silenzio del pianto di questi bambini, davanti a una grotta sbarrata di grate. Una piccola grandissima verità che a molte altre rimanda… come la realtà dei tanti minori, bambini, ragazzini, ragazzi, dietro le sbarre di tutto il mondo. Perché l’indecenza non ha confini, e trova mille motivi per rinchiudere vite che non vogliamo fra i piedi. Ma se il Natale, come recita la retorica delle nostre parole, è la festa dei bambini, anche a tutti questi “ultimi” bisogna pensare. E comporre una geografia di domande che attraversa tutto il pianeta. Partendo da quella Terra di Palestina alla quale i nostri presepi pur rimandano… I ragazzini palestinesi e i bambini clandestini Usa - Quanti saranno ancora in carcere, questo Natale, dei 160 bambini palestinesi che in ottobre Save the Children ha denunciato essere in prigione in attesa di interrogatorio? “Soli, inascoltati, esposti ad enormi rischi a cui ora si aggiunge anche il Coronavirus”. E quale sarà il Natale dei 500-600 bambini palestinesi della Cisgiordania che ogni anno, ancora la denuncia, vengono processati e detenuti secondo la legge militare israeliana? Per lo più, per lancio di pietre… Quale Natale per i centomila bambini detenuti negli Stati Uniti “perché immigrati”… E i bambini anche di soli 10 anni che continueranno ad essere condannati e detenuti in Australia, dopo l’ultimo rinvio dell’esame del ricorso che chiedeva l’innalzamento dell’età minima a 14 anni? Sono centinaia in carcere, in grande maggioranza piccoli aborigeni… Secondo il Fondo della Nazioni Unite per l’infanzia nel mondo sono in carcere più di un milione di bambini e bambine. In alcuni paesi arrestati e detenuti, ricorda Human Right Watch, per futili motivi, come scappare di casa, dormire in strada, saltare la scuola, alle volte vengono processati come se fossero adulti, scontano la pena in galere per adulti e come questi vengono trattati. E quale Natale per i minori che si trovano in quella moderna indecenza che sono i centri di detenzione per profughi? Sommando il numero dei ragazzini ospiti di questi e di quelli (centri per profughi, immigrati e istituti per detenuti), in tutto il mondo si arriva all’affollatissima cifra di 7 milioni. Il nostro mondo a misura d’Erode - Mi piacerebbe raccontare a tutti loro, che entri nei loro sogni, la favola che Oscar Wilde scrisse con un gesto. Pagando, per i bambini incontrati nel carcere di Reading, arrestati per furto di conigli, l’ammenda per farli liberare. Ma non sono previste ammende, anche a volerle pagare, per i bambini prigionieri del nostro mondo a misura d’Erode. Come non c’erano ammende, anche a volerle pagare, per Abou Diakite e Abdallah Said, i due ragazzi morti quest’anno, prigionieri sulle navi della nostra quarantena. La verità di un cenno, nei nostri presepi, allo sciopero del pianto di quei bambini, a tante altre verità rimanderebbe. Bambini, e non solo… Non erano minori, ma non posso non pensare anche loro, che pure questo Natale non sono arrivati a vedere. Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahamdi e Slim Agrebi… morti con le rivolte della scorsa primavera (https://www.remocontro.it/2020/03/15/lordine-che-produce-disordine-se-tredici-morti-vi-sembrano-pochi). Questo Natale, non so se avete letto, porta alla loro memoria il dono delle denunce di cinque persone detenute nel carcere di Modena che dicono di aver visto “caricare detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta ad un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi d’informazione all’uso di metadone”. Nella denuncia c’è molto molto di più (leggete questo puntuale articolo de Il Dubbio https://www.ildubbio.news/2020/12/14/detenuti-sulla-rivolta-di-modena). Solo a voler voltarsi dall’altra parte si è potuto credere alle versioni ufficiali senza che un dubbio ci sfiorasse. Certo, sarà la magistratura a vagliare, ma intanto c’è chi ha avuto il coraggio di denunciare, e provate a immaginare quanto coraggio ci voglia. Buon Natale a loro, e a tutti quelli che vogliano prestare un attimo d’attenzione, insieme al silenzio di tanto pianto, anche alle loro parole… Toghe, l’affondo dell’Anm: “No al flirt con la politica” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 21 dicembre 2020 Rivendicano l’importanza di tutelare l’immagine della magistratura, chiedono chiarezza sulla candidatura a sindaco e sulle possibili interlocuzioni con esponenti politici del panorama regionale e nazionale. Tornano sull’argomento principe di ogni campagna elettorale, quello sulla linea di confine che separa magistratura e politica, o meglio, la possibilità di candidare una toga nella stessa città in cui ha esercitato funzioni di inquirenti. Ma proviamo a seguire il ragionamento dei vertici del parlamentino dei magistrati, guidato dal presidente Marcello Amura e dal segretario Marco Puglia, a proposito della posizione di Catello Maresca: “Si avverte il bisogno di esprimere la propria posizione in ordine al battage mediatico alimentato dalle notizie di stampa che riferiscono di una sua possibile candidatura alla carica di sindaco di Napoli e di suoi eventuali contatti con politici, anche di rilevanza nazionale. Sul tema la giunta ha già espresso al diretto interessato, a mezzo del suo Presidente, ed intende ribadire, anche con il presente comunicato, l’opportunità che il dottor Maresca, a tutela dell’immagine professionale sua e della intera magistratura, provveda in tempi brevissimi a far chiarezza sulla questione e ciò sia in ordine alla decisione di accettare la candidatura che in ordine all’esistenza di interlocuzioni con esponenti politici e o partiti che appoggerebbero o favorirebbero la stessa”. Una posizione che cade all’indomani della decisione dello stesso Maresca di inoltrare una lettera di dimissioni all’Anm (notizia riportata ieri dal quotidiano La Repubblica), in segno di dissenso per le strategie dei vertici della stessa associazione. Nessun commento da parte di Catello Maresca, che non è l’unico magistrato napoletano ad aver spedito una lettera di dimissioni al sindacato. Pochi giorni fa infatti erano stati Dario Raffone, Giuseppe Sassone, Paolo Itri, Michele Caccese, Federica Colucci a spedire una nota di dissenso nei confronti del presidente Anm Giuseppe Santalucia, per la sua apertura alla tesi del professor Francesco Giavazzi sull’opportunità di far gestire i Tribunali ai manager. Ai cinque magistrati (si tratta di pm e giudici penali), ora si aggiungono le dimissioni di Maresca, in un periodo in cui il nome dell’ex pm anticamorra (sue le indagini nella cattura dei latitanti Iovine e Zagaria) resta al centro del dibattito mediatico. È di ieri su Il Mattino l’intervento del consigliere del Csm Antonio D’Amato (veterano dell’azione investigativa anticamorra), che sul caso chiarisce un principio di fondo: “Bisogna eliminare zone d’ombra; in linea di principio non trovo giusta la candidatura di un magistrato nel distretto in cui lavora. È un problema di opportunità, in attesa di una legge in grado di disciplinare questo tema (chiaro riferimento al disegno di legge Bonafede)”. Ma torniamo al comunicato della Anm distrettuale: “È esigenza prioritaria mettere il mondo della giustizia al riparo anche solo dal sospetto di impropri condizionamenti e indebite influenze, riaffermando con forza i valori di indipendenza ed imparzialità che la Costituzione affida alla magistratura”. Dunque, torna la questione dell’opportunità: “L’Anm, pur rispettando e riconoscendo la legittimità di scelte che non si pongano in conflitto con il regime delle ineleggibilità e delle incompatibilità stabilite dalle normative in materia, si identifica in un modello di magistrato che evita qualsiasi coinvolgimento in centri di potere partitici o affaristici che possano condizionare l’esercizio delle sue funzioni o comunque appannarne l’immagine e che, nel territorio dove esercita la funzione giudiziaria, evita di accettare candidature e di assumere incarichi politico-amministrativi negli enti locali. L’esigenza di trasparenza e chiarezza è resa, peraltro, ancor più impellente ed improcrastinabile dalle recenti vicende che hanno visto il mondo della politica e della magistratura al centro di dilanianti polemiche (chiaro il riferimento al caso Palamara della primavera del 2019), commistioni e contrapposizioni ed a partire dalle quali l’Anm ha avviato un faticoso percorso volto a favorire il recupero di credibilità e affidabilità nella giustizia da parte dei cittadini, compito di cui tutti i magistrati devono sentirsi responsabili, a prescindere dall’essere o meno iscritti all’Anm”. Intanto, sul caso Maresca (e sullo strepito mediatico di questi giorni), il procuratore generale Luigi Riello ha informato il Ministro, il Csm e il procuratore generale della Cassazione, perché valutino eventuali (e non scontati) profili disciplinari. “I tribunali non sono aziende”, in cinque lasciano l’Anm di Viviana Lanza Il Riformista, 21 dicembre 2020 I magistrati e la politica. È il binomio di cui si parla in questo periodo, a Napoli, in relazione al caso Maresca (in ambito politico si continua a fare il suo nome come candidato a sindaco della città ma lui, sostituto della Procura generale, sceglie di non sbilanciarsi ancora evitando per ora conferme o smentite). Ed è il binomio cui si fa riferimento anche per motivare lo strappo con l’Associazione nazionale magistrati (Anm) da parte di cinque magistrati napoletani che, in una lettera, hanno spiegato il perché della loro scelta di uscire dal sodalizio con “irrevocabili dimissioni”. I magistrati sono Dario Raffone, presidente di sezione, Paolo Itri, pm in forza alla Dda, Giuseppe Sassone, giudice in Corte d’Assise, e i giudici Federica Colucci e Michele Caccese. La miccia è stata innescata dalla risposta del presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, all’intervento di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera a proposito di giustizia e riforme. “Pensavamo, in tanti lustri di servizio in trincea, di avere visto tutto. Ci sbagliavamo. Non conoscevamo l’attuale presidente dell’Anm il quale, evidentemente, per essere stato per troppo tempo lontano dalla trincea, non ha colto la superficialità e l’arroganza delle affermazioni di Giavazzi”, scrivono i cinque dimissionari prendendo le distanze da Santalucia. Ed eccolo il tasto dolente, il nervo scoperto che i cinque magistrati napoletani hanno toccato. “Quello che ha detto Giavazzi è noto ed è la solita tiritera sulla giustizia che non funziona, sulla necessità che i Tribunali debbano essere organizzati come un’impresa al cui vertice sieda un manager che controlli che i giudici vadano in ufficio tutti i giorni e altre amenità del genere”, si legge nella lettera. Ma a completare la frattura, più che le tesi di Giavazzi è la risposta del loro ormai ex presidente. “Fa, a noi, molto più effetto leggere la risposta del presidente dell’Anm il quale, concordando sulla necessità di moduli imprenditoriali per la nostra giustizia, obietta sostanzialmente che noi ci adegueremmo prontamente se solo ci dessero le risorse per farlo. Non una parola sul fatto che esistono settori della convivenza civile che non possono rispondere alla logica della valorizzazione del capitale, non una parola sul contenuto arrogante e offensivo di tali affermazioni per tanti magistrati che ogni giorno sacrificano tanto di sé per fare il proprio dovere. Non una parola per informare Giavazzi che i magistrati in ufficio ci vanno eccome, senza limiti di orario”. L’episodio, a sentire i firmatari della lettera di dimissioni, è espressione di una crisi più ampia. “Purtroppo, il fatto, ormai irrimediabilmente acclarato, è che questa Anm (alla cui recenti elezioni non ha partecipato il 30°% dei magistrati) è irrimediabilmente immersa in scenari e ideologie di tipo giavazziano, senza alcuna capacità di critica e di autonoma elaborazione. E ciò non solo sull’efficienza come strumento di giustizia, e non già come valore in sé, ma, più che altro, per l’incapacità di andare oltre il bla bla sulla questione delle correnti, sul caso Palamara e sulla moralizzazione del fenomeno dei fuori ruolo. Infatti, in perfetta coerenza con ciò, è stato eletto e nominato presidente un magistrato che ha fatto grande esperienza come fuori ruolo a contatto con il sistema politico”. E concludono: “Pertanto, per questa incapacità di un pensiero diverso, per questo sostanziale tradimento dei valori per cui per tanti anni ci siamo battuti, presentiamo le nostre irrevocabili dimissioni dall’Anm”. “Lo stato rimborserà gli assolti con formula piena” Il Dubbio, 21 dicembre 2020 “Gli assolti con formula piena avranno diritto al rimborso delle spese legali sostenute per difendersi. Il rimborso potrà arrivare fino a 10.500 euro e il fondo annuale è pari a 8 milioni di euro”. La notizia arriva da Enrico Costa (Azione), primo firmatario di un emendamento alla manovra approvato in commissione Bilancio, che è stato approvato all’unanimità. La proposta è stata sottoscritta anche da Lucia Annibali (IV) e Maurizio Lupi (NCI) e sostenuta da Lega, Pd e Forza Italia, “prevede un principio di assoluto buonsenso. Se lo Stato sottopone un cittadino innocente al lungo, defatigante e spesso umiliante calvario delle indagini e del processo, è giusto che lo risarcisca. Il budget annuale è di 8 milioni di euro e si prevede un limite massimo di 10.500 euro di rimborso. “Oggi, in Italia, chi riesce a dimostrare la propria assoluta estraneità al reato o l’insussistenza di qualunque fatto di rilevanza penale, non solo deve sopportare il peso del processo (che di per se è una pena), ma anche quello delle spese necessarie per difendersi. E questo non è giusto”, osserva il deputato Costa “Con l’approvazione di questo emendamento lo Stato dovrà prendere atto, con un risarcimento concreto, che la vita di molte persone è rovinata da processi che finiscono nel nulla. Ed è un importante passo di civiltà giuridica”, aggiungono lo stesso Costa e Lucia Annibali. Milano. La finestra rotta di San Vittore. Intervista a Angelo Aparo di Carla Chiappini vocidalponte.it, 21 dicembre 2020 Aparo: sono nato a Ragusa nel 1951, la mia famiglia è piuttosto piccola, quand’ero bambino i pochi parenti di mio padre erano negli Stati Uniti; mia madre, invece, aveva genitori e sorelle che sono stati per me un allargamento della mia famiglia. Sono stato il primo figlio di tre sorelle e, fra l’altro, maschio in una famiglia dove abbondavano le femmine. Quando venivano le feste, Natale, Capodanno, i morti (A Ragusa i giocattoli li portano i morti e non Babbo Natale), avevo tutto l’affetto che un bambino può desiderare; insomma ho vissuto nel lusso. Domanda: sei stato in Sicilia fino a quando? Hai studiato anche in Sicilia? Aparo: Ho studiato in Sicilia fino al liceo, dove ho perso un anno. Dopo il diploma sono andato in Germania a studiare, ma, tra l’anno perso e il tempo speso in Germania per gli esami di lingua, non ho fatto in tempo a chiedere il rinvio per il militare, che ho dovuto iniziare quindi quando avevo ancora 20 anni. L’ho fatto a Roma dove ho frequentato anche l’università. Dopo la laurea, a 26 anni, sono venuto a Milano, dove vivo ancora oggi. Domanda: hai cominciato la tua professione subito in carcere? Aparo: il carcere è arrivato dopo due anni che vivevo a Milano. Conclusa l’università, nel 1977, mi sono dato da fare per lavorare e, tra le tante cose, ho anche avanzato la richiesta per lavorare in carcere. Inserito nell’elenco degli esperti ex art. 80, ho cominciato a fare lo psicologo a San Vittore nel 1979. Prima, per guadagnare qualcosa, avevo fatto ricerche di mercato e supplenze nelle scuole medie. Domanda: cosa hai trovato in carcere? Cosa ti è piaciuto e cosa no di quell’inizio del 1979? Aparo: Per i primi due anni ho fatto delle ore anche nel carcere di Varese, poi solo a San Vittore. Non è che amassi particolarmente lavorare con i detenuti, ma, visto che ero là, ci parlavo e giorno dopo giorno mi sembrava di capirci qualcosa. Degli inizi ricordo qualche conflitto con un direttore, il dott. Cangemi. C’erano i vetri della finestra rotti nella stanza dove incontravo i detenuti e dove stavo 4 ore seduto con 13 gradi a congelare, ma lui diceva che bastava mettere la maglia di lana. Per fortuna c’era una vice direttrice della quale sono stato e sono molto amico, Giovanna Fratantonio; forse è anche responsabilità sua se ho continuato a lavorare in carcere. Negli anni ho sfiorato tanti direttori con cui avevo scarsi rapporti fino a quando è arrivato Luigi Pagano con il quale sono riuscito a comunicare meglio. Tra l’altro, il Gruppo della trasgressione è nato quando c’era lui; non fosse stato così, credo che non sarebbe mai partito. Domanda: in teoria, sei quello che da più tempo frequenta San Vittore quindi è importante per me capire che cosa è cambiato in questi lunghi anni. Cosa ricordi dei primi anni e come è cambiato il tuo lavoro in questi anni in carcere? Aparo: credo che il carcere sia un mondo in cui il direttore incide pesantemente su tutto; non è come un treno che, se deve fare la tratta Milano-Roma, la fa abbastanza indipendentemente dalle idee politiche del capotreno. Detto questo, c’è stato un tempo in cui qualche volta uscivo dall’ufficio e vedevo per terra un laghetto di sangue; era l’epoca in cui i conflitti fra detenuti venivano “risolti” a coltellate, ancor di più i contrasti tra detenuti comuni e detenuti per reati sessuali. I miei primi anni a San Vittore sono stati anche caratterizzati dalla presenza delle BR. Le BR non ammazzavano in carcere le persone, ma contribuivano a mantenere un clima vivace… una volta alcuni di loro mi hanno pure mezzo sequestrato per un paio ore. Poi mi hanno lasciato andare perché abbiamo concordato pacificamente che la cosa avrebbe comportato danni per tutti. Per quello che avveniva a quei tempi, nei miei primi 18 anni ho svolto il mio ruolo più o meno normalmente, cioè facevo con i detenuti dei colloqui in previsione di una relazione finalizzata al programma di trattamento; questo faceva lo psicologo ex art. 80! Oggi ci sono molti più psicologi e con i detenuti si può avere un rapporto meno frettoloso. Negli anni ho visto passare generazioni di psicologi e affini. Dico “affini” perché gli “esperti ex art. 80” potevano essere criminologi, psicologi e sociologi. Ma in pratica questi “esperti”, pur con professionalità nominalmente diverse, facevano la stessa cosa, o meglio, facevano quello che passava loro per la testa, senza alcuna indicazione su come procedere. Una cosa che da subito mi ha molto colpito in carcere è che non c’è mai stato qualcuno che indicasse cosa ci si aspetta da uno psicologo. Si dovevano produrre le relazioni, ma non si è mai discusso né sono mai stati indicati i criteri per scriverle. Non credo che adesso sia molto diverso. In 41 anni di esperienza non ho mai sentito di un gruppo di studio dove ci si chiedesse come procedere nel colloquio con i detenuti e poi nella stesura della relazione. Dopo i primi 18 anni di lavoro, mi sono detto che, per cominciare a capire cosa passava per la testa dei detenuti, sarebbe stato il caso di provare qualcosa di alternativo e da lì è nato il Gruppo della Trasgressione. Domanda: A un certo punto tu hai cominciato a pensare al gruppo ma anche alla società esterna che entrava in carcere Aparo: quello che nei primi 18 anni di esperienza avevo sentito dire ai detenuti mi suggeriva che loro sapessero e si chiedessero ben poco in merito alla vita delle persone che lavorano, tabaccai e cassieri compresi. E dunque, sì, fra i primi obiettivi del gruppo c’era e c’è quello di favorire un confronto costante e battagliero fra detenuti e comuni cittadini. In questo sono stato avvantaggiato dal fatto che nel gruppo c’era Sergio Cusani, che era un polo di attrazione un po’ per tutti, dentro e fuori. Il gruppo era appena nato e già arrivavano persone di ogni genere, cantanti del calibro di Ornella Vanoni, Enzo Jannacci, Roberto Vecchioni; presentatori televisivi con Fabio Fazio o Chiambretti; giornalisti come Enzo Biagi, filosofi come Gianni Vattimo e Massimo Cacciari, genetisti come Edoardo Boncinelli, teologi, medici, antropologi e tanti nomi importanti di diversi settori. Diverse volte era venuto anche un virologo di cui ero amico. Ognuno di loro parlava della propria materia e cercava insieme con me e con i detenuti quali collegamenti si potessero cogliere, quali analogie si potessero far fruttare, in termini di conoscenza o anche solo di pura suggestione, fra alcuni aspetti delle rispettive materie e la spinta dell’uomo a trasgredire. Di certo queste persone non venivano per me; a portarli dentro erano Sergio Cusani ed Emilia Patruno, giornalista di Famiglia Cristiana. Con loro due e con un avvocato, a sua volta detenuto e molto motivato, il gruppo è partito a tutta velocità. Sergio Cusani e l’avv. Spada hanno avuto un ruolo fondamentale nel motivare gli altri detenuti a impegnarsi in modo sistematico. Ogni settimana loro due scrivevano il verbale delle riunioni e ogni settimana, grazie anche a Emilia Patruno, arrivavano al gruppo nuovi stimoli importanti, spesso anche parenti di vittime: Paolucci, il padre di un bambino ucciso da un pedofilo; la Bartocci, moglie di un gioielliere assassinato; la Capalbio, sorella di un tabaccaio ucciso durante una rapina. Domanda: Il carcere non ti ha mai dato obbiettivi perché non li dà mai a nessuno, però tu quando hai pensato al gruppo avevi sicuramente un obbiettivo o più obbiettivi, in particolare cosa volevi da quel gruppo in cui hai investito e investi un sacco di energie e competenze? Aparo: accanto all’obiettivo di favorire il confronto col mondo esterno, direi che il gruppo è nato perché non volevo che i detenuti parlassero con me solo in funzione della relazione da inviare al magistrato. Uno che fa lo psicoterapeuta è abituato a parlare con persone che ti confidano i loro pensieri, le loro paure perché hanno bisogno di essere aiutate, non perché hanno bisogno di uscire dal carcere. Fare psicoterapia significa aiutare le persone a dialogare con i propri conflitti e questo all’epoca in cui a San Vittore c’era uno psicologo per oltre 1000 detenuti era certamente impossibile. Per il detenuto, anche in considerazione del poco tempo che c’era per parlarsi, risultava molto più facile raccontare o inventare quello che nella sua fantasia avrebbe dovuto indurre lo psicologo esaminatore a scrivere una relazione favorevole alla misura alternativa. Mi si potrà osservare che uno psicologo bravo dovrebbe essere capace di andare oltre quello che il paziente gli dice. Sarà pure, rispondo io, ma, fin quando il detenuto è essenzialmente una persona che vuole uscire dal carcere, egli non potrà essere un paziente e lo psicologo non potrà essere uno psicoterapeuta, cioè il partner di una ricerca condotta in due. In pratica, sto dicendo che dovresti riuscire a motivare il detenuto, almeno nel tempo del colloquio, a comportarsi da paziente, nonostante le serrature che egli vede attorno a sé lo inducano a guardare il mondo da carcerato. Ma questo è molto difficile se l’unica ragione per cui detenuto e psicologo entrano in contatto è costituita dalla relazione per il magistrato e se a commissionare la relazione è la direzione del carcere. Proprio per questo, un certo giorno del settembre del ‘97, dopo avere raccolto con l’aiuto di Sergio Cusani una ventina di detenuti attorno a un tavolo, il gruppo è nato con un discorso esplicito e abbastanza rude, che suonava più o meno così: “cari signori, da 18 anni ho colloqui con detenuti di questo carcere, ma vi sento dire cose superficiali, quando non vere e proprie fesserie, e questo perché sapete che devo fare la relazione su di voi. Capisco che ognuno cerca di uscire dal carcere il prima possibile, ma in questo modo non mi diverto io e non ci guadagnate niente voi. Se volete, possiamo fare un gruppo di discussione che ha come scopo quello di entrare nelle vostre storie, di tornare ai tempi delle vostre prime trasgressioni e di provare a capire voi, ancora prima di me, com’è possibile che, pur essendo partiti voi tutti con l’idea di diventare qualcuno e, all’occorrenza, commettere reati per migliorare la vostra condizione, oggi voi siete qua in galera e i vostri figli sono mezzo orfani”. In generale, l’attività del gruppo era anche un modo per far sì che il tempo del carcere non fosse solo il “tempo dell’attesa”. I 18 anni precedenti alla nascita del gruppo mi avevano fatto capire, infatti, che per i detenuti il tempo passato in carcere veniva conteggiato principalmente in relazione alla distanza dal fine pena. Di quegli anni a San Vittore ricordo ben poche iniziative, una era quella della Patruno, Il giornale “Il Due”; ricordo anche l’associazione di “Incontro e presenza”. Ma tornando al gruppo, i primi due obiettivi erano: fare in modo che i detenuti si interessassero a loro stessi e alimentare una comunicazione tra dentro e fuori. Poi c’era anche il terzo obbiettivo, quello di fare in modo che i detenuti, conoscendo meglio se stessi, potessero contribuire a migliorare il funzionamento dell’istituzione. Un obbiettivo ambizioso, forse velleitario, un po’ da don Chisciotte. D’altra parte, come potevo sopportare che sia i detenuti sia le figure istituzionali continuassero a ripetere che dal carcere si esce più delinquenti di quando si è entrati? E così, paradossalmente, un po’ per conoscere se stessi, un po’ per cambiare il carcere, una ventina di detenuti di San Vittore si sono messi a indagare sul perché delle loro prime trasgressioni e sono diventati miei alleati e partner di ricerca molto di più delle figure istituzionali. Alcuni di quei detenuti sono ancora oggi miei amici. L’istituzione, visto che non facevo male a nessuno, me lo ha lasciato fare, pur senza mai interessarsi, almeno per i primi 10/12 anni a quello che facevo. Negli ultimi cinque o sei anni qualche piccolo sostegno è arrivato con Siciliano, fino a tre anni fa direttore del carcere di Opera, e oggi con Di Gregorio, attuale direttore di Opera. Nel carcere di Bollate, l’attività del gruppo è finanziata dall’ASST Santi Paolo e Carlo, di cui sono consulente da una decina d’anni. Domanda: chiunque stando in carcere peggiora, questo vale anche per gli operatori, i direttori. Io spesso mi pongo questa domanda, com’erano prima questi soggetti, prima di fare 10/20 anni dentro il carcere? Aparo: quello del direttore è un mestiere che rischia, anche per le persone equilibrate, di far diventare chiunque una specie di Napoleone che si bea del suo potere, intanto che deve difendersi da attacchi che arrivano da tutte le parti. Ma è anche vero che di questi tempi esistono direttori che si appassionano al loro lavoro, che si adoperano per far si che il tempo del carcere sia di costruzione della propria libertà e non di attesa del fine pena. Anno dopo anno, almeno nelle carceri che frequento io, questo avviene sempre di più. Fino a una ventina d’anni fa, invece, il carcere era in prima istanza controllo, doveva innanzitutto evitare che i detenuti scappassero, si suicidassero, si ammazzassero fra di loro, introducessero all’interno oggetti illeciti, ecc. Insomma, per garantire che non succedesse nulla di male, molti direttori preferivano (e non escludo che in molte parti d’Italia sia ancora così) chiudere quante più porte possibile, pur se, in questo modo, ad essere garantita era soprattutto la morte della mente, la morte emotiva e quindi anche la morte del cittadino, dell’uomo. E’ chiaro che il carcere non può eliminare del tutto il controllo, ma si dovrebbe considerare che se tu affidi il compito di controllare a una persona dall’equilibrio un po’ precario, il controllo diventa una smania, una malattia autorizzata, che esaspera i rapporti e che fa impazzire sia l’agente che controlla sia i detenuti controllati. Insomma, il carcere è stato soprattutto un mondo che induceva operatori e detenuti più a difendersi che a progettare. Oggi si sta cominciando a capire, quantomeno da parte dei direttori che conosco io, che la migliore e più duratura garanzia viene da una progettualità di cui i detenuti stessi siano interpreti e, possibilmente, registi. E io conosco, effettivamente, molti detenuti che sono diventati in carcere registi di attività e delle loro vite, contribuendo in tal modo anche alla stabilità e all’evoluzione di altri detenuti. Domanda: che cosa salvi del carcere e qual è il ricordo più positivo che hai in questi anni? Aparo: del carcere salverei il fatto che dà un confine alle persone che non sanno fare della propria libertà un uso compatibile con quella degli altri, ma trovo indispensabile che, all’interno di questo confine, ci siano dei programmi studiati, organizzati e praticati assiduamente per condurre i ristretti a vivere entro confini più ampi e non imposti dall’esterno. È indispensabile che dopo una necessaria riduzione della libertà di azione, il carcere e le istituzioni ad esso collegate trovino il modo, e facciano assidui studi in tal senso, per motivare il detenuto a interpretare la propria libertà in modo più compatibile con quanto ci viene indicato dalla costituzione, dal buon senso e dalle ferite ricevute da chi aveva avuto in passato la disgrazia di incontrarlo. Come si fa, dopo essere diventati delinquenti, a diventare cittadini? Dove sono gli studi che si occupano di questo? Forse si confida nell’idea che la persona che sta in galera, una volta condannata, possa cominciare a interrogarsi su se stessa e da sola trovare la risposta, ancora meglio se posta in isolamento! Ma se uno è ignorante come una capra e per giunta abituato a comportarsi come un bisonte, da dove dovrebbe arrivargli la scintilla? In altre parole, apprezzo che il carcere riduca la possibilità di scorrazzare nella prateria del delirio d’onnipotenza, ma rilevo una sua colpevole miopia quando constato che l’istituzione si comporta come se dal delirio di onnipotenza, dalla coscienza polverizzata di chi uccide il tabaccaio, si potesse guarire semplicemente stando in cella ad attendere una luce divina che si fa strada fra le sbarre. Tutto l’apparato istituzionale che si occupa del reo (dall’arresto, al giudizio in tribunale, alla restrizione in carcere) sembra partire dal presupposto che chi pratica abitualmente il reato sia completamente consapevole, responsabile e intenzionato nel fare quello che fa e confida nel fatto che il delinquente, parlando con se stesso e con quelli che stanno in cella con lui, possa trovare dentro di sé tutte le risorse per cambiare sensibilità, idee, valori, intenzioni e comportamenti. Magari nessuno lo pensa in modo sistematico, ma nel loro complesso, sembra che le istituzioni che si occupano di devianza facciano riferimento a un adolescente che comincia a drogarsi, a odiare le divise, ad abusare del proprio potere, dopo aver deciso a tavolino che queste debbano essere le sue aspirazioni primarie nella vita. E si trascura che la pratica dell’abuso è il risultato di un complesso di fattori, fra i quali, uno dei principali è costituito da una sensazione fisica, umorale, che galleggia fra le palafitte del cervello dell’adolescente: cioè la sensazione che chi incarna il potere (il padre, chi indossa la divisa, la toga o chi viaggia in macchina blu) non sia degno del suo ruolo e, pertanto, che non esistono impegni verso se stessi, tanto meno verso gli altri, da onorare. Qualcuno, per completare il quadro, si convince che gli unici impegni che vale la pena osservare sono l’omertà e il mantenimento della contrapposizione paranoica con tutto quello che somiglia a una divisa. Per quello che a me pare di aver capito, a far diventare delinquenti sono le sensazioni di un adolescente ferito, sfiduciato, arrabbiato e rancoroso, che poi, strada facendo, diventano idee deliranti, capaci di orientare l’azione di adulti che hanno perso la libertà di sentire, pensare e decidere, già a causa del loro rancore e della conseguente smania di vivere nell’eccitazione del potere e della droga. In Italia abbiamo più di 200 carceri e ho ragione di credere che nella grande maggioranza di questi le problematiche di cui ho appena detto siano del tutto ignorate. E se questo è vero, capisco che tante persone, anche dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, finiscano per dire che il carcere non serve a nulla. Da parte mia, credo che il carcere vada cambiato radicalmente, ma in qualche modo un sistema che impone confini a chi delinque in preda al proprio delirio ci deve essere. E il delirio, lo ribadisco, non è solo quello del boss mafioso; il delirio parte dagli umori dell’adolescenza che, strada facendo, si incancreniscono nello scontro con una realtà istituzionale che non sa motivare a cambiare rotta e che, anzi, contribuisce a rafforzare il delirio e a ossificarlo. E allora quali ricordi buoni ho del carcere, visto che sono così critico? Il fatto che lo vedo cambiare! Collaboro con reciproca stima con un numero crescente di direttori, agenti e magistrati e mi sembra di condividere con loro idee e principi. Ma le cose cambiano troppo lentamente e inoltre è sempre troppo difficile individuare chi ha, in definitiva, la facoltà di decidere e attuare il cambiamento che tutti sembrano auspicare. Nel mio piccolo, ho comunque dei bei ricordi e, ancor più che bei ricordi, ho i risultati che continuo a coltivare ancora oggi in collaborazione proprio con i detenuti che ho conosciuto in questi anni. Hanno nome e cognome e sono tanti; si chiamano Romeo Martel, Luigi Petrilli, Maurizio Piseddu, Roberto Cannavò… e in questo periodo in cui il Covid 19 ci costringe a usare le piattaforme on line per comunicare, ho visto e ho ripreso a lavorare e a giocare con numerosi ex studenti del gruppo e, cosa ancora più gratificante, con questi ex detenuti, oggi nuovi cittadini, che sono passati dal Gruppo della Trasgressione nei suoi 23 anni di attività. Oggi sono questi nuovi cittadini a motivare e a fare appassionare gli studenti universitari attualmente in tirocinio con la nostra associazione: da una parte, si studiano insieme le problematiche, il divenire, la complessità degli intrecci che inducono l’adolescente a scivolare nel degrado; dall’altra, progettiamo iniziative capaci di sostenere il detenuto e l’adolescente a rischio di devianza nel suo cammino, nell’impegno e nella collaborazione con gli altri. Sì, la mia maggiore soddisfazione è quella di constatare che persone che hanno fatto parte del gruppo in carcere 8, 15 o 20 anni fa, oggi, pur avendo una famiglia e un lavoro e senza chiedermi soldi, collaborano con chi è ancora detenuto, con alcuni familiari di chi è morto per mano della criminalità e con gli studenti in tirocinio per trovare le parole e i mezzi per prevenire e contrastare il degrado soggettivo e ambientale che porta ad annichilire la propria coscienza e alla cosificazione dell’altro. Napoli. Manifestazione per i diritti dei detenuti, ma c’è ancora fame di giustizia e sete di verità di Giusy Santella linkabile.it, 21 dicembre 2020 La manifestazione che si è tenuta il 19 dicembre fuori dalle imponenti mura della Casa circondariale di Poggioreale è stata molto partecipata: i promotori hanno trascorso con i volontari e le associazioni intervenute momenti di riflessione collettiva, in cui ciascuno ha raccontato le ragioni che l’hanno spinto ad aderire all’appello lanciato dal Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello e da Don Franco Esposito, cappellano di Poggioreale. Numerosissimi striscioni hanno invaso la strada: il tema comune per tutti era senza dubbio una richiesta di maggiore umanità nell’espiazione della pena e di una tutela reale del diritto alla salute, in particolare in questo momento in cui la pandemia sta scuotendo le nostre vite. “La nostra Costituzione non impone solo che la pena tenda alla rieducazione, ma soprattutto che essa non sia contraria né a giustizia né a umanità” ha sottolineato il professore Ciambriello, rivendicando l’importanza di misure deflattive reali per svuotare le carceri e salvare le persone recluse e il personale penitenziario dal rischio continuo di contagio. Era presente anche una rappresentanza della comunità srilankese, che ha manifestato ricordando le condizioni precarie in cui versano le carceri del loro paese, in cui numerose rivolte sono finite nel sangue, mentre le persone detenute temono per il contagio, a dimostrazione che la visione del carcere come luogo oscuro e separato dalla società non è tipica della sola istituzione penitenziaria italiana. Ed è proprio il disinteresse della classe politica che si voleva ribaltare con la manifestazione messa in campo, come ha ricordato anche Don Franco Esposito, presente in piazza con l’intera Associazione Liberi di Volare Onlus che accoglie detenuti in affidamento, e con la presidentessa Valentina Ilardi. Tra le numerose associazioni che operano nell’ambito erano presenti l’Associazione Carcere Possibile Onlus, Carcere Vivo, Figli di Barabba, Art For Cuozzis. Erano inoltre presenti i giovani dell’Ex Opg ‘Je so pazz e della Rete di Solidarietà popolare, che da qualche anno si occupano di carcere e portano avanti progetti di volontariato. Questi ultimi hanno, durante il loro intervento, posto l’accento sulla necessità di non dimenticare quanto avvenuto a Modena durante le rivolte di marzo. Il Garante Ciambriello ha anche ricordato, in conclusione del suo intervento, la difficile situazione in cui si trovano i detenuti di Santa Maria Capua Vetere, che hanno denunciato le violenze subite ad aprile e ora sono reclusi con gli stessi aguzzini che hanno denunciato, sottoposti a uno stress psicologico ed emotivo che non dovrebbe essere permesso. Incisivi anche gli interventi del Garante napoletano Pietro Ioia, che ha sottolineato l’importanza di una risocializzazione reale per le persone recluse, che devono poter avere una seconda opportunità, e di una rappresentante dello staff del Garante Ciambriello, che ha ricordato che il loro impegno quotidiano in difesa dei diritti dei detenuti e in ascolto costante delle loro famiglie. A benedire l’intera manifestazione una lettera pervenuta dal nuovo arcivescovo di Napoli Mimmo Battaglia, che ha sposato la causa e condiviso la necessità di agire subito. A conclusione della giornata, una delegazione di manifestanti ha potuto incontrare il Ministro Amendola che ha voluto ascoltare all’esterno del carcere di Poggioreale le loro richieste. Anche questa è una piccola vittoria, ma è ancora molta la strada da fare. Bergamo. Il sogno di don Fausto: una cascina ospiterà detenuti e darà loro lavoro bergamonews.it, 21 dicembre 2020 Un investimento complessivo di oltre 1,5 milioni di euro. Accoglierà fino a sei persone offrendo casa e lavoro. L’impegno e lo sforzo messi in campo in questi mesi dalla Fondazione don Lorenzo Milani per continuare l’opera iniziata da don Fausto Resmini - mancato a causa del Covid-19 il 23 marzo scorso - è il modo migliore per rendere onore alla sua memoria. Tale impegno, oggi, consegna alla città un nuovo spazio, una nuova casa per l’accoglienza e l’inserimento lavorativo di persone fragili, in particolare, detenute o sottoposte a provvedimenti di libertà vigilata o in prova. Nella rinnovata Cascina, 400 mq per 3 piani, 20 vani tra stanze e locali comuni per vivere i pasti e la socialità, troveranno ospitalità 6/7 persone contemporaneamente, che saranno coinvolte in progetti “a tempo” funzionali alla loro integrazione sociale ed economica nella società. La Cascina di via Correnti, che un tempo ospitava la Comunità dell’Agro per il recupero di persone tossicodipendenti, era anche la casa in cui ha vissuto don Roberto Pennati, responsabile della Comunità e prete del Patronato San Vincenzo, venuto a mancare nel maggio 2019, dopo vent’anni di Sla. “La casa di don Roberto era una casa del Patronato a tutti gli effetti - afferma don Dario Acquaroli, Direttore del patronato San Vincenzo di Sorisole, Comunità don Lorenzo Milani, e membro del Consiglio di Amministrazione dell’omonima Fondazione. “Qui con lui, fino alla fine assistito dalle persone a lui più vicine e dai ragazzi di Sorisole, don Fausto Resmini e i preti del Patronato si ritrovavano per non rinunciare alla sua presenza nel confronto e condivisione del lavoro. Il legame affettivo con questa casa, la Cascina, è stato fortissimo per don Fausto e per tutti noi. Don Fausto aveva a cuore questo luogo, per dare accoglienza e, insieme, insegnare un mestiere e restituire alla vita “attiva” i detenuti offrendo loro un’occasione per ricominciare. C’è una continuità di missione tra la Comunità dell’Agro di don Pennati e il progetto che don Resmini aveva pensato e voluto per la Cascina”. La Cascina nel quartiere di Redona, sul confine con Gorle, è stata un investimento importante per la Fondazione: 1,5 milioni di euro per l’acquisto di due edifici rurali e una porzione di terreno agricolo rilevati dall’Istituto per il Sostentamento del Clero, e per la ristrutturazione degli edifici. I lavori di ristrutturazione, avviati nel settembre 2020 sotto la direzione dell’architetto Maurizio Rocchi e divisi in lotti, interessano sia l’edificio principale, quello residenziale (primo lotto), sia i locali che un tempo ospitavano le stalle e che saranno adibiti a laboratori di trasformazione dell’attività agricola (secondo lotto). Il primo lotto dei lavori, che si è concluso ad ottobre, ha reso abitabile l’edificio residenziale. Da quel momento la Cascina ospita Yacuba, un giovane di 25 anni, senegalese d’origine, che qui coordina le attività di manutenzione e agricole per conto della Fondazione. Arrivato in Italia in precarie condizioni di salute, Yacuba è stato accolto dalla Comunità di Sorisole e curato anche grazie alla diffusa rete di solidarietà della città. In primavera 2021, è previsto l’avvio del secondo lotto di lavori che coinvolgerà le ex stalle. I terreni agricoli, 30 mila metri quadrati, sono stati concessi in comodato d’uso alla Cooperativa Il Mosaico - di cui la Fondazione don Lorenzo Milani è socia - che si occupa, in particolare, dell’inserimento lavorativo attraverso investimenti in attività, strumenti e attrezzature. Insieme al Mosaico è stata recentemente avviata anche un’altra iniziativa di inserimento lavorativo e sviluppo di professionalità per persone fragili, il forno sociale “Doppio Zero” a Lallio, altro progetto che don Fausto ha voluto fortemente. “La Cascina accoglierà persone detenute o sottoposte a provvedimenti dell’autorità giudiziaria per insegnare loro il lavoro agricolo. L’intenzione - afferma Luigi Zucchinali, presidente della Fondazione don Lorenzo Milani - è di avviare coltivazioni di frutta e ortaggi, e di produrre miele, contando sulla presenza di 20 arnie, che già don Fausto aveva indicato come attività auspicabile in questo luogo. Trentamila metri quadrati di terreno attorno alla nostra proprietà ci consentono di dare un importante impulso allo sviluppo dell’attività agricola”. Progetti così ambiziosi sono possibili grazie ad un’azione sinergica tra Fondazione don Lorenzo Milani, Cooperativa Il Mosaico e il Patronato S. Vincenzo che, per don Dario Acquaroli, “rappresenta una situazione unica nel suo genere”. Più strumenti a disposizione per agire con tempestività ed efficacia nelle situazioni di fragilità, anche estrema, e farsi prossimi al bisogno senza “aspettare che ti venga incontro”, come diceva don Fausto e come si sono scolpiti nel cuore i suoi amici. Bolzano. “Io, chef, insegno cucina in carcere” di Stefano Voltolini salto.bz, 21 dicembre 2020 Marco Cristeli lavora con i detenuti a Bolzano: “Il momento più bello? Un ragazzo africano fa il risotto alla milanese e mi abbraccia. Autostima, l’ingrediente migliore”. La cucina come autostima e riscatto. È la “materia” - fatta non solo di acqua, farina e altro, ma anche di convinzione in se stessi, espiazione, speranza - che insegna Marco Cristeli. Altoatesino di Bolzano, cuoco e istruttore di 45 anni, con una lunga esperienza nella ristorazione organizzata, nella gestione dei locali e in particolare nella formazione, Cristeli è uno che ama le sfide. Come sa esserlo l’insegnamento in un contesto diverso e difficile quale il carcere. Dal 2017 lo chef ha preso in mano il testimone per i corsi che si svolgono - ultimamente con le limitazioni dovute al Covid - all’interno della casa circondariale del capoluogo altoatesino, con il sostegno della direzione della struttura e il contributo dell’ufficio formazione professionale della Provincia. “Quando me l’hanno chiesto - racconta - ho pensato: perché no, perché non mettermi alla prova? Lì dentro non sono lo chef, sono Marco, umano ma sempre professionale. Perché loro, i miei studenti, che io non giudico, quando escono devono essere sicuri di quello che sanno fare, visto che come detenuti partono svantaggiati. Il momento più bello? Un ragazzo del Centro Africa che prepara gli gnocchi di patate, o il risotto alla milanese, e mi abbraccia: perché ha ricominciato a credere in se stesso”. Marco Cristeli, quale è il suo percorso professionale che l’ha portata a fare, tra i diversi impegni, il cuoco-formatore in carcere? Il mio percorso professionale nasce dalla scuola alberghiera Cesare Ritz a Merano e dal diploma nel 1994 a Milano Marittima, perché all’epoca la maturità non era riconosciuta in Alto Adige. Già durante gli anni di studi avevo fatto le stagioni d’estate, poi dopo la fine della scuola e una parentesi da carabiniere nell’anno di leva ho iniziato a lavorare. Dal ‘96 sono rimasto come responsabile per la parte ristorativa della società Plose Group, che si occupava di aree di servizio sull’A22. Nel ‘99 ho preso un ristorante a Bolzano, in via Andreas Hofer, che si chiamava la Locanda e in seguito ha cambiato vari nomi. Ancora, nel 2000 ho iniziato a fare formazione, facevo già i corsi, un po’ alla locanda e un po’ in sedi esterne, per pizzaioli. Lo spazio dedicato alla formazione è cresciuto negli anni? In effetti, nel 2002, quando ho lasciato la Locanda, mi sono dedicato solo all’insegnamento e nei vari settori, cucina, pizzeria e sala. Nel 2004 sono stato assunto come ispettore per Arma ristorazione, fino al 2010, nel frattempo ho sempre tenuto i corsi la sera. Nel 2010 ho preso un locale in centro, il Caffè Seltz, in via Dottor Streiter, fino al 2017, ma anche in quel periodo ho sempre seguito i corsi. Il percorso nel carcere è iniziato proprio quando stavo lasciando il caffè. Per meglio svolgere l’attività formativa ho fondato la F&B, Food & Beverage service, che si occupa di assistenza alle aziende nel mondo della ristorazione, cucina, sala, bar e pizzeria. Accanto a ciò, svolgo le attività di cooking experience per Miele Italia, l’azienda che produce elettrodomestici e ha la sede italiana ad Appiano. Facciamo formazione per le cotture con i forni a vapore, su tutte le nuove modalità di cottura nel mondo del casalingo. Si può definirla cuoco-istruttore... Direi di sì, è quello che faccio. Veniamo al carcere: come si è accostato ai corsi di cucina che a Bolzano sono una realtà consolidata all’interno alla struttura? Quando sono arrivato i corsi c’erano già da diversi anni, almeno un decennio. Gli istruttori dell’epoca mi hanno chiesto se mi sarebbe piaciuto provare. Ho accettato. Perché no, ho pensato, mi piace mettermi alla prova, e inoltre avevo già lavorato con ragazzi con problemi alla scuola alberghiera. È stato interessantissimo. L’utente finale non è visto come il detenuto, ma unicamente come il partecipante al corso. Io non giudico mai il motivo per cui è lì. Sta facendo un percorso nel quale cerco di dargli il più possibile. Come istruttore, da un lato porto dentro le mura la vita esterna, quello che succede fuori, dall’altra cerco di insegnare quello che in un futuro, all’uscita dalla reclusione, potrà servire per mettersi alla prova. È vero che il mondo della ristorazione è forse uno dei più facili. Almeno in entrata ci sono tante possibilità: puoi partire dall’aiuto cucina, cameriere, aiuto pizzaiolo, addetto al buffet, lavapiatti. La quantità di lavoro non spaventa certo coloro che hanno l’esperienza del carcere e sono abituati a “soffrire”. A spaventarli è invece quello che l’opinione pubblica pensa di loro nel momento in cui escono. La formazione diventa importantissima per il reinserimento? È così. La difficoltà per loro è: vengo, mi impegno, imparo, esco e vengo visto come un ex detenuto. L’importante è quindi formarli nel miglior modo possibile in base alle loro esigenze. Inoltre, il fattore psicologico è importantissimo in un contesto del genere. I corsi di cucina sono un’occasione per staccare dalla quotidianità, dallo scontare la pena quale essa sia. Il fattore umano è cruciale. Come si svolgono le lezioni? Le lezioni avvengono in base alle esigenze della pubblica sicurezza, nella cucina del carcere, in piccoli gruppi differenti di circa 6-7 persone per ciascun modulo di circa 30 ore. L’epidemia di coronavirus ha inciso nel senso che per un po’ siamo stati bloccati, poi abbiamo ripreso tenendo conto delle limitazioni che possono cambiare in base alle decisioni governative. Le precauzioni naturalmente sono doverose per tutelare una comunità chiusa come il carcere. Tornando alle lezioni, solitamente i detenuti vengono due, tre, quattro volte in settimana, nel momento del mezzogiorno, nell’arco di un anno scolastico. L’identikit dei suoi studenti? L’utente finale è solitamente un detenuto che ha una pena medio-lunga, che gli permette di poter seguire il corso. La composizione rispecchia la popolazione interna del carcere. Ai corsi c’è sempre un 75-80% di extracomunitari, moltissimi dal Nord Africa, nell’ultimo periodo c’è stata un’affluenza in crescita dal Centro Africa, ancora tanto Est Europa, Paesi come Romania, Albania, Cecenia. Italiani, di tutte le regioni, ce ne sono, ma dipende dal periodo. E solitamente sono pochi gli altoatesini, dato che essendo Bolzano una casa circondariale, dunque riservata a pene minori rispetto alle strutture di alta sicurezza, chi ha la casa ottiene in genere la detenzione domiciliare. Riguardo all’età media, è piuttosto bassa. Ci sono tantissimi giovani, di 20-22-25 anni. Purtroppo quasi tutti coloro che hanno reati legati allo spaccio sono ragazzi. C’è una tensione particolare nelle lezioni per via dell’ambiente in cui si svolgono? Ai corsi non ci sono mai problemi. Per i detenuti sono infatti qualcosa in più, qualcosa di diverso che possono fare e se ci fossero incidenti ci rimetterebbero in prima persona. Come insegnante devi senz’altro essere bravo a gestire il gruppo. Sei tu da solo con più persone. Devi evitare conflitti e devi essere te stesso. Lì dentro io sono Marco, non lo chef. Per loro il rapporto umano che si crea è fondamentale. C’ho messo tanto a impararlo. Una sfida in più per un insegnante? Certamente. I rapporti che si creano hanno bisogno di un tempo più lungo per instaurarsi. Non è come un corso nella vita normale, per l’utente cosiddetto normale. Lì dentro avverti la frustrazione, il momento in cui arriva la lettera sbagliata, una notizia che ti cambia la vita come può essere una condanna di 8, 10 mesi, un anno, due anni in più. È un tempo della vita ‘in più’ che noi diamo per scontato perché siamo sempre all’aria aperta e andiamo dove vogliamo. La cucina: dalla A alla Z? Insegno tutto il percorso formativo per quanto riguarda la cucina, dalle basi in su. Si parte dalla pasta fatta in casa, dalla preparazione di tutti i piatti di pasta, i risotti, le minestre, le salse, e mano a mano che rimangono si va avanti e ci si specializza. Chi partecipa deve risultare pronto per affrontare un lavoro esterno, venendo esaminato da coloro che lo vedranno purtroppo come un ex detenuto. Dunque, devi essere sicuro di quello che fai perché parti svantaggiato rispetto a una persona che ha le tue stesse capacità. Prima devi superare quello scalino a livello psicologico, ma nello stesso tempo devi arrivare preparato. Si pretende dunque qualcosa, a differenza di un corso esterno che può interessare di meno, oppure di un corso a scuola in cui i ragazzi sono coinvolti ma anche no. Come insegnante non puoi prenderli in giro. Devi essere una persona che riesce a stare nel gruppo, senza far emergere conflitti, ma portando professionalità. Questo è fondamentale. Qual è il livello massimo che si raggiunge? Un conto è saper cucinare un piatto di pasta, un altro riuscire a fare un piatto completo, con gli accostamenti, capire ciò che fai, dosare gli equilibri. Se rimani impari a saperti gestire, a saperti presentare in un posto di lavoro e dire: dammi gli ingredienti e io riesco a portare una ricetta alla fine. Che tu debba preparare pasta, riso, gnocchi, vitello, manzo, pesce, devi saper entrare in una cucina ed essere a tuo agio. Non avere paura. La cucina del carcere è equipaggiata? Lavoriamo nella cucina dove cucinano per i detenuti, poi io ho portato l’attrezzatura della mia società, i forni, le cotture a vapore, la nuova concezione di cucina che i partecipanti troveranno quando escono. Vapore, sottovuoto, cotture a bassa temperatura, più sane e più buone, ciò che va di moda adesso. I detenuti con le loro diverse provenienze geografiche portano anche le ricette che conoscono? Assolutamente sì. Tu devi dare tanto spazio alla loro cultura. Nello stesso momento in cui loro sono obbligati a imparare le regole della nostra cucina, della cucina italiana che assieme a quella francese fa da base alla cultura gastronomica internazionale, è importante che nel 2020 o 2021 loro sappiamo valorizzare anche la loro tradizione. Non è che una tradizione diversa dalla nostra, come si pensava una volta, è sbagliata, al contrario arricchisce. Che piatti propongono? Ricette che magari non hanno un nome specifico, che rispecchiano le abitudini e anche l’economicità visto che i tanti detenuti non hanno a disposizione un grosso budget per gli acquisti personali in carcere. Ad esempio, l’Est cucina tanta carne e zuppe, l’Africa riso, pollo, gallina. Chiaro che se avessero la possibilità farebbero agnello, capretto. Tanti non hanno la possibilità di fare una spesa decente. Ecco l’importanza di saper cucinare con poco, di saper riconoscere gli ingredienti e utilizzarli al meglio: un valore aggiunto. Il momento più bello per lei? Momenti bellissimi dentro la casa circondariale ce ne sono stati molti. Vedere un ragazzo del Centro Africa che non ha mai mangiato gli gnocchi e riesce a preparare degli gnocchi di patate fatti a regola d’arte, o un risotto alla milanese, è bellissimo. È una soddisfazione quando ti abbracciano e ti dicono grazie. Grazie di avermi insegnato qualcosa di importante, di avermi fatto passare un periodo bello. Vedi che iniziano a riprendere un po’ di fiducia in se stessi. Noi siamo una goccia nel mare, ma grazie alla direttrice, al comandante delle guardie, si è creato un gruppo coeso, anche con il contributo dell’ufficio formazione professionale della Provincia di Bolzano che finanzia le attività. Il carcere non è sempre muri vecchi e abbandono? Tutt’altro. L’opinione pubblica pensa che perché un muro è rotto il detenuto venga trattato male. Non è così. La struttura è quello che è, ma in quell’edificio riuscire a fare quello che facciamo è un grande risultato. Grazie alla squadra che si è creata, alla direttrice Nuzzaci che fa di tutto e anche di più, e alla dottoressa Pacher della Provincia. C’è una storia personale che l’ha colpita in particolare? Io non posso, come gli altri operatori, tenere contatti con loro o mantenerli dopo, per un’esigenza di tutela. Posso solo dire che tanti ragazzi giovani una volta che escono dal cancello sono sulla strada. Quello sarebbe importante, anche se difficile. Lo step successivo rispetto a quanto già si fa, ovvero riuscire a seguire chi non ha un approdo, una casa. Il problema grande è sempre quello: tu che esci dal cancello, hai capito che hai sbagliato, ed è un riscatto, oppure pensi che hai sbagliato ma non hai altra via e pensi che sia più facile rifarlo? Questa è la sfida. Sondrio. Un presepe in città per l’inclusione sociale di Michele Pusterla Il Giorno, 21 dicembre 2020 Il progetto di Orit Liss (Garante dei diritti dei detenuti) ha coinvolto la popolazione carceraria di via Caimi e Il Gabbiano. La Garante dei diritti dei detenuti del Comune, Orit Liss, ha coordinato l’iniziativa “Il cammino verso l’inclusione sociale”, un progetto che, con la realizzazione di un presepe in Garberia, ha un obiettivo educativo sia nei confronti dei detenuti in via Caimi che nei confronti del pubblico. Si articola in tre macro-aree. L’aspetto socio ambientale, ove il presepe presenta la radice della tradizione Cristiana di accoglienza, illustrata attraverso la rappresentazione della Natività, mentre sullo sfondo c’è la sagoma della Casa circondariale, dalla parte sinistra, e, a destra, un richiamo ad una comunità. Un secondo aspetto che sottolinea la distanza tra le condizioni e i codici sociali ai quali sottostanno quanti si trovano allontanati dalla società per un periodo, e la realtà che trovano quando riacquistano lo status di membro attivo della società (la Natività, nel presepe, funge da tramite tra carcere e comunità attiva, attraverso un percorso di speranza e reciproca fiducia). Un terzo ed ultimo aspetto, racchiuso nel messaggio che la città, seppur in un momento di grave emergenza, non si perde d’animo e si prende cura della necessità sociale delle persone separate dalla società, ma che in essa e da essa sono attese con fiducia e speranza. “Il presepe - spiega la dottoressa Liss - composto da sagome in truciolato di legno, è stato organizzato con la collaborazione dei detenuti che hanno, coordinati dal cappellano don Mariano, realizzato le sagome, il supporto della Comunità Il Gabbiano di Tirano, che ne cura, con l’intervento di alcuni ex detenuti, le finiture e il montaggio e la direzione artistica di Emma Gerosa. L’opera è semplice e ad un costo contenutissimo, visto il doloroso periodo e si avvale del contributo della ditta Tnv di Rogolo che ha fatto omaggio del materiale ferroso necessario”. L’allestimento è visibile al pubblico da ieri, eventuali donazioni possono essere fatte a: Associazione Comunità il Gabbiano (IT57A0306909606100000018327) comunità che da anni aiuta gli ex detenuti nel loro percorso di reinserimento sociale. “Ringrazio il direttore del carcere, la dottoressa Santandrea e il comandante Fusco per il loro sostegno e fattiva collaborazione e il Comune di Sondrio che dimostra, ancora una volta, la sensibilità verso temi sociali importanti, i detenuti, gli ex e quanti visiteranno il presepe”, dice Liss. Palermo. Messa di Natale per i detenuti del Pagliarelli, Lorefice: “Non siete marginali” palermotoday.it, 21 dicembre 2020 L’arcivescovo ha celebrato la funzione nel penitenziario e si è rivolto ai carcerati: “Nella mia vita e in quella della Chiesa di Palermo siete al centro dei nostri pensieri e della nostra attenzione”. “Non riesco a inviare un messaggio o una lettera alla mia Chiesa non ricordando voi: nella mia vita e in quella della Chiesa di Palermo voi non siete marginali, siete al centro dei nostri pensieri e della nostra attenzione; il Vangelo che annunzia la nascita di Gesù in mezzo agli uomini, per gli uomini, è diretto innanzitutto a voi”. Così l’arcivescovo Corrado Lorefice ai detenuti della casa circondariale Pagliarelli, intitolata all’agente Antonio Lorusso, con i quali ha celebrato la messa in preparazione del Natale. Ieri l’Arcivescovo era stato insieme ai detenuti della casa circondariale Cavallacci di Termini Imerese intitolata all’agente Antonino Burrafato. “Per me si rinnova un dono che mi offre il Signore - ha proseguito l’arcivescovo - quello di poter essere qui, in un luogo che mi è caro perché se un Vescovo non ha a cuore quanti sono reclusi, è come se non conoscesse il Vangelo, quel Vangelo che è chiamato ad annunciare. Tutti noi siamo chiamati a celebrare la nascita, il Natale, di Gesù: attraverso il volto di quel bambino nato a Betlemme da Maria noi riconosciamo il volto di Dio e troviamo le risposte che anche Giovanni Battista cercava, chiedendosi se quel Gesù che si accompagnava ai poveri e ai peccatori fosse realmente il Messia. La risposta del Figlio di Dio è arrivata, come sappiamo, attraverso i gesti e le azioni concrete, facendosi carico delle ferite, dei dolori, delle sofferenze di coloro che Gesù incontrava. Ecco perché questo Vescovo sente il bisogno di tornare in mezzo a voi”. L’Arcivescovo ha voluto infine sottolineare come Gesù non sia nato a Gerusalemme, nel tempio o in un palazzo sfarzoso: “È stato deposto in una greppia, in una mangiatoia, riconosciuto subito dai pastori. Il Natale non deve quindi essere una festa “esterna”, deve essere prima di tutto accoglienza della presenza di Dio nella nostra vita, una vita che Dio conosce da sempre e che desidera trasformare in via della luce. Viviamo quindi con questa intenzione il tempo di Avvento che stiamo attraversando, viviamo con questo spirito il Natale che si avvicina, nell’attesa della venuta definitiva del Signore che accenderà cieli nuovi e stabilirà una terra nuova senza ingiustizie, senza divisioni, senza sofferenze. Senza carcere”. Voghera (Pv). La solidarietà della Casa circondariale con gli animali del rifugio Enpa vogheranews.it, 21 dicembre 2020 La Casa circondariale di Voghera esprime particolare sensibilità nei confronti degli animali, ultimi tra gli ultimi, attraverso azioni mirate e gesti concreti. Ciò ha portato ad una sinergia con le strutture del territorio ed in particolare con il Canile/Gattile Rifugio E.N.P.A. Onlus di Voghera, presieduto da Maria Grazia Centelli, con cui da tempo c’è una viva ed importante collaborazione. “Da diversi mesi due persone detenute svolgono, presso il canile vogherese, un tirocinio formativo, sostenuto dall’ente Apolf di Pavia e dalla Regione - spiega il direttore del carcere Stefania Mussio -. La Sig.ra Centelli segnala quanto l’esperienza di collaborazione ed interazione con le due persone detenute, sia “fortemente positiva” perché con “serietà, disponibilità e costanza” i due lavoratori hanno saputo inserirsi ottimamente nel tessuto relazionale composto dai tanti volontari e dagli operatori che portano avanti il lavoro presso la struttura di Strada Folciona”. “I due detenuti - aggiunge la direttrice - hanno sempre dimostrato di percepire l’importanza dell’attività, svolgendola con serietà ed impegno e sono diventati una presenza preziosa e benvoluta. Un’esperienza di crescita e di arricchimento che non avviene mai in modo unilaterale”. Nel mese di ottobre le persone detenute del carcere di Voghera hanno poi aderito anche ad una raccolta fondi in favore del canile vogherese finalizzata ad aiutare due cani bisognosi di interventi chirurgici. La somma donata ammonta ad euro 552,50. Un aiuto anche al canile di Tortona - “Nei giorni scorsi - spiega ancora Stefania Mussio - la Direzione, grazie all’impegno di Fortunata Di Tullio, Adele Ianneo e alla disponibilità dell’assistente capo della Polizia Penitenziaria Nunzio Citro, ha supportato anche il canile di Tortona, accogliendo l’invito ad acquistare prodotti alimentari, eccellenze del territorio, proposti dall’associazione “Animal’s Angels”, responsabile Manuela Scarcella, nell’intento di raccogliere fondi da destinare alla cura, al mantenimento ed al recupero comportamentale dei cani ospiti. “L’associazione - spiega Mussio - da anni lavora anche per migliorare la conoscenza dell’approccio al cane, il rispetto nei confronti degli animali e persegue l’obiettivo di educazione all’assunzione di responsabilità al momento della loro adozione. I prodotti sono stati esposti per i dipendenti e per le persone detenute; tra queste, ben 133 hanno acquistato beni alimentari per un valore di oltre tremila euro - tutti donati grazie al lavoro del personale di Polizia Penitenziaria, Stefano Chittano, Giuseppe Fresca e Aniello Ardolino - che serviranno ad esempio per uno degli ultimi progetti di recupero di una mamma Pitbull sequestrata in stato di gravidanza e dei suoi undici cuccioli. La veterinaria comportamentista Raffaella Tamagnone e le educatrici dello staff del canile, Carla Barbetta e Rebecca Della Pietà, si occuperanno di farli crescere nel migliore dei modi. Ringraziano in maniera particolare la Direzione della Casa Circondariale di Voghera e tutti i suoi collaboratori per l’enorme sensibilità dimostrata. Progetti di Pet Therapy o la possibilità di coinvolgere altre persone detenute in attività di volontariato sono obiettivi sempre fermi”. “La Direzione del carcere - conclude Stefania Mussio - è sensibile a tutelare “gli ultimi” e tra questi anche gli animali, è di certo disponibile a valutare percorsi educativi che prevedano la creazione di un rapporto tra le persone detenute e i cani: progetti attraverso i quali si possa determinare una condizione di reciproco sostegno e migliorare la capacità di prendersi cura dell’altro, di farsi carico dei bisogni dell’altro, favorendo un clima di empatia e benessere”. L’emergenza climatica è un tema di giustizia sociale di Peter Turkson* e Nigel Topping** Corriere della Sera, 21 dicembre 2020 Le molteplici crisi che ci troviamo ad affrontare - sanitarie, economiche, ambientali, sociali - sono anche un’opportunità per creare nuovi sistemi che proteggano i nostri fratelli e sorelle più vulnerabili. Il mondo sta lavorando più che mai per affrontare l’emergenza climatica, con alcune delle più grandi città e regioni del pianeta e di imprese grandi e piccole impegnate ad eliminare le emissioni di carbonio entro la metà del secolo o prima, facendo di questa azione una parte fondamentale della loro ripresa dagli impatti devastanti della pandemia sulla nostra salute, sui nostri mezzi di sussistenza e sul nostro senso di sicurezza. Mentre la corsa verso un’economia a zero emissioni acquista via via slancio, aumentano anche gli effetti del cambiamento climatico, della deforestazione e dell’inquinamento. Dagli incendi in Australia, Siberia e Stati Uniti, al crescente rischio, mentre invadiamo la natura, di contrarre virus zoonotici come Covid-19, non si tratta più di una minacce future, ma di una crisi chiara e presente. Il grido della terra e dei poveri sollecita più che mai a interventi urgenti. Per questo motivo la presidenza britannica della Cop26, l’Onu e la Francia hanno ospitato il 12 dicembre, in occasione del quinquennale dell’accordo di Parigi, un vertice virtuale di alto livello per il raggiungimento degli obiettivi climatici, al fine di fornire una piattaforma per annunciare nuovi contributi più ambiziosi, determinati a livello nazionale, e strategie a lungo termine per raggiungere lo zero netto di emissioni; così come nuovi impegni di finanziamento per la lotta a favore del clima e i connessi piani di adattamento. Nel suo recente discorso all’Assemblea generale dell’Onu, Papa Francesco ha detto che ci troviamo di fronte a una scelta tra due strade. Il modo in cui i governi e le imprese scelgono di riprendersi da Covid-19 e dal collasso economico potrebbe accelerare la nostra trasformazione in un mondo in cui tutti possano sperimentare la dignità e la sicurezza che meritano, o condurci a un aumento del rischio di inondazioni, caldo, siccità, malattie, disuguaglianza e povertà - tutte conseguenze della nostra crisi ambientale. Nella sua enciclica Laudato Sì, Papa Francesco ha detto che dobbiamo sostituire i combustibili fossili “senza indugio”. E come dicono chiaramente gli scienziati e i medici, il miglior futuro possibile, con zero emissioni molto prima della metà del secolo, creerà e garantirà più posti di lavoro e mezzi di sussistenza, ci renderà più sani e costruirà la nostra resistenza a shock futuri simili a questa pandemia. In America Latina, ad esempio, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro e la Banca Interamericana di Sviluppo, i cambiamenti per ridurre le emissioni inquinanti derivanti dal modo in cui produciamo e consumiamo i beni - soprattutto nel settore alimentare e agricolo - potrebbero creare 15 milioni di posti di lavoro in più entro il 2030 rispetto al consueto business as usual. Allo stesso modo, secondo il World Economic Forum, le operazioni orientate a proteggere e ripristinare la natura in tutto il mondo potrebbero generare 395 milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2030. Le molteplici crisi che ci troviamo ad affrontare - sanitarie, economiche, ambientali, sociali - sono anche un’opportunità per creare nuovi sistemi che proteggano i nostri fratelli e sorelle più vulnerabili. Abbiamo la responsabilità di dimostrare che vogliamo perseguire un futuro più sano, più pulito e più sicuro. Se quest’anno i governi e le imprese daranno priorità alla salute pubblica e planetaria, prepareranno il terreno per un obiettivo ancora più grande nell’ottica del bene comune, in vista del summit sul clima Cop26 dell’Onu che si terrà a Glasgow e Milano nel novembre 2021. Questo è ciò che l’Accordo di Parigi del 2015 ha richiesto, fissando un obiettivo a lungo termine per limitare il riscaldamento a 1,5 gradi Celsius, e un meccanismo attraverso il quale i Paesi potrebbero fornire il loro contributo a tale scopo. Il Regno Unito sta dimostrando una grande leadership in questo campo con la sua “rivoluzione industriale verde”, che prevede la fine delle vendite di auto a benzina e diesel entro il 2030. Nella corsa alla ricerca di soluzioni alla crisi climatica, sono necessari i doni e i talenti di tutti. Il progetto di proteggere la nostra casa comune richiede sicuramente la leadership dei governi, ma parla anche al cuore di ciò che i cristiani e gli altri credenti hanno di più caro. Affrontare il cambiamento climatico protegge le persone e i luoghi che amiamo. È un modo per onorare il nostro Creatore curando il creato e tutti coloro che lo condividono. La catechesi settimanale di Papa Francesco sulla “Guarigione del mondo” ci ha offerto nuove riflessioni sulle crisi sociali e ambientali comuni. La Santa Sede ha lanciato un Anno della Laudato Si’ che si trasformerà in un piano settennale della Laudato Si’ e che riunirà milioni di cattolici in tutto il mondo chiamati ad agire. La Commissione Covid-19 della Santa Sede sta guidando la riflessione sui modi in cui dobbiamo cambiare. Lo Stato della Città del Vaticano sta facendo passi concreti per rendere più verde la gestione del Vaticano. La Santa Sede sta convocando amministratori delegati per l’energia e investitori per discutere dei modi in cui possono contribuire. Questo perché, mentre assumere gli impegni è un primo passo cruciale, e necessario, verso la nostra trasformazione verso un’economia a zero emissioni di carbonio, la sfida che inizia ora, e nel prossimo decennio, sarà quella di apportare i cambiamenti necessari per adempiere a tali impegni. In questo contesto, la campagna delle Nazioni Unite “Race to Zero” invita i governi locali, le imprese e altri soggetti a impegnarsi a zero emissioni entro il 2040, e a sostenere questi obiettivi con chiari piani d’azione. Impegni delle imprese e delle istituzioni per la corsa alle zero emissioni coprono ora un terzo della popolazione globale e la metà del Pil. Gli individui hanno un ruolo enorme da svolgere attraverso le loro azioni - come volare di meno, pedalare di più e mangiare più cibo locale e vegetale dove possibile. Tutto ciò ha un impatto positivo sulla nostra salute e sul pianeta. Questo integra, ma non sostituisce, il ruolo essenziale dei governi che devono anche rispettare gli impegni presi a Parigi. Al centro dei nostri sforzi deve esserci la giustizia climatica, prendersi cura di coloro che hanno contribuito meno al cambiamento climatico ma che ne soffrono di più. Si tratta di una questione di giustizia profondamente radicata che richiede anche azioni urgenti per contenere l’inquinamento da carbonio, a cominciare dai Paesi e dalle imprese più responsabili. I nostri sforzi devono essere incentrati anche sul sostegno, anche finanziario, ai più vulnerabili per costruire la resilienza e adattarsi alle perturbazioni climatiche che stanno già vivendo. La pandemia ci ha dimostrato che il mondo è forte solo quanto lo sono i più vulnerabili tra noi, e che è più facile, più sicuro e meno costoso prevenire i disastri piuttosto che reagire. Lo stesso vale per l’azione per il clima; la transizione verso nuovi posti di lavoro e industrie non può lasciare indietro le persone. Papa Francesco ha affermato molto chiaramente che affrontare il cambiamento climatico non riguarda solo l’ambiente, ma anche la giustizia sociale e la nostra salute fisica e spirituale. Con la sua leadership, e lavorando in collaborazione con le nazioni impegnate, possiamo rendere il nostro futuro più sostenibile, inclusivo, sano e giusto. *Cardinale, prefetto del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale **UK High Level Climate Action Champion Quando la pandemia è un pretesto: arresti, torture e uccisioni in 60 stati di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 dicembre 2020 In almeno 60 stati le violenze delle forze di polizia e l’eccessiva delega a queste ultime per attuare le misure di contrasto alla pandemia da Covid-19 hanno causato violazioni dei diritti umani e in alcuni casi peggiorato la crisi sanitaria. In nome della lotta alla pandemia, si legge in un recente rapporto di Amnesty International, molti governi sono andati ben oltre quelle che possono essere considerate misure ragionevoli e giustificate per contenere la diffusione del virus. L’elenco è lungo. In Iran, le forze di polizia hanno usato proiettili veri e gas lacrimogeni per stroncare le proteste nelle carceri, uccidendo e ferendo parecchi detenuti. In Kenya, solo nei primi cinque giorni di coprifuoco, le forze di polizia hanno ucciso almeno sette persone e hanno costretto altre 16 al ricovero in ospedale. In Angola, tra maggio e giugno, sono stati uccisi almeno sette giovani che avevano violato il coprifuoco e in El Salvador un uomo è stato ferito alle gambe mentre era uscito di casa per andare a comprare qualcosa da mangiare. In Etiopia, nella Zona di Wolaita, almeno 16 persone sono state uccise dalle forze di polizia per aver protestato contro l’arresto di dirigenti e attivisti locali accusati di aver manifestato in violazione delle limitazioni adottate per il contrasto alla pandemia. In Sudafrica le forze di polizia hanno sparato proiettili di gomma contro persone che “vagabondavano” in strada durante il primo giorno di lockdown. In Cecenia, alcuni agenti hanno aggredito e preso a calci un uomo che non indossava la mascherina. Nella Repubblica Dominicana, tra il 20 marzo e il 30 giugno, le forze di polizia hanno arrestato circa 85.000 persone accusate di aver violato il coprifuoco. In Turchia, tra marzo e maggio, 510 persone sono state arrestate e interrogate per aver scritto “post provocatori sul coronavirus”, in evidente violazione del diritto alla libertà d’espressione. Inoltre, in numerosi stati le forze di polizia hanno mostrato un’attitudine discriminatoria e razzista nell’applicazione delle norme sul Covid-19. Rifugiati, richiedenti asilo, lavoratori migranti, persone Lgbti o di genere non conforme, lavoratori e lavoratrici del sesso, persone senza dimora e altre a rischio di esserlo sono tra i gruppi marginalizzati che sono stati presi particolarmente di mira. In Slovacchia, durante la quarantena, le forze di polizia e l’esercito hanno isolato gli insediamenti rom, contribuendo ad alimentare lo stigma e il pregiudizio che quelle comunità già subivano. L’aggressiva applicazione delle norme per il contrasto alla pandemia ha causato sgomberi forzati, privando persone già marginalizzate di un luogo dove potersi proteggere dall’emergenza sanitaria. Infine in Francia, tra marzo e maggio, i volontari di “Osservatori sui diritti umani” hanno documentato 175 casi di sgombero forzato di migranti, richiedenti asilo e rifugiati nella zona di Calais. Libia. Il racconto dei pescatori: “In carcere ci hanno detto di scambio tra prigionieri” di Elvira Terranova adnkronos.it, 21 dicembre 2020 Lo scambio tra prigionieri, tra i pescatori italiani e i 4 scafisti libici detenuti in Italia entra nel fascicolo d’inchiesta della Procura di Roma che coordina l’inchiesta sul sequestro dei 18 marittimi. Quella che sembrava una indiscrezione giornalistica dei quotidiani libici vicini a Khalifa Haftar, adesso prende corpo perché a raccontarlo sono gli stessi testimoni. Ascoltati dagli uomini del Ros dei Carabinieri nella Caserma dei carabinieri di Mazara del Vallo (Trapani) su delega della Procura capitolina, hanno raccontato di avere sentito durante la prigionia di uno “scambio tra prigionieri”. Lo raccontano anche ai giornalisti che stazionano davanti alla caserma. “Abbiamo sentito parlare in carcere di uno scambio di prigionieri tra noi e alcuni detenuti libici ma non abbiamo saputo altro. Ne parlavano i detenuti ma i carcerieri non ci dicevano niente. Ci facevano segnale che non dipendeva da loro ma da quelli più in alto di loro e indicavano le stellette militari”, ha detto Pietro Marrone, il comandante del peschereccio ‘Medinea’ uscendo dalla caserma dove è stato interrogato per quasi tre ore dai Carabinieri del Ros sui tre mesi di prigionia in Libia. “All’inizio pensavamo che fosse un sequestro normale - dice - poi abbiamo capito che la cosa era diversa, forse era più una questione politica. Dicevano solo che era una questione Italia-Libia, Italia-Libia, Italia-Libia”. E lo ripete per tre volte consecutive. A pochi passi da lui c’è un altro pescatore, che deve ancora essere ascoltato dai Carabinieri. Si chiama Giovanni Bonomo ed era sulla nave Antartide. “Dopo circa un mese di prigionia in Libia i carcerieri ci hanno detto che la Libia chiedeva uno scambio di prigionieri tra noi e quattro detenuti libici”. Iran. I dissidenti all’estero rapiti, torturati, esibiti in tv e poi giustiziati di Farian Sabahi La Repubblica, 21 dicembre 2020 Tecniche simili a quelle che utilizzava la polizia segreta dello scià. La storia di Habib Chaab, rifugiato politico in Svezia, è stato sedotto da una 007 iraniana che gli ha dato appuntamento a Istanbul. Qui sarebbe stato drogato e trasportato a Teheran. I protagonisti di questa brutta storia sono tre oppositori iraniani. Mandate in onda sulla tv di stato della Repubblica islamica, le loro vicende vogliono incutere terrore tra i dissidenti rifugiati in Occidente e, al tempo stesso, far credere agli iraniani in patria che i pasdaran sono gente in gamba. In realtà, le tecniche per reprimere il dissenso sono le stesse della Savak, la polizia segreta dello scià negli anni Sessanta e Settanta. Il dissidente scappa e un paese europeo gli concede lo status di rifugiato. Dopodiché, cede alla tentazione di tornare in Medio Oriente, anche se non proprio in patria, e gli viene tesa una trappola. Nella scena successiva lo vediamo in carcere a Teheran, dove viene torturato e costretto a rilasciare una video-intervista in cui confessa di essere una spia. Nell’ultima scena, il dissidente pentito sale sul patibolo. La corda al collo, viene impiccato. In sottofondo, una musica inquietante. A ripetere lo stesso copione è la magistratura di Teheran. Per catturare l’attenzione, nel macabro spettacolo di ottobre sono state inserite immagini di esplosioni e di persone insanguinate, tratte dall’attacco alla parata militare del settembre 2018 nella città sudoccidentale di Ahvaz, in cui 25 persone erano morte in un attentato rivendicato dal Movimento arabo di lotta per la liberazione di Ahvaz (Asmla). Protagonista del video è l’oppositore Habib Chaab, cittadino iraniano di etnia araba. Sullo schermo è bendato, nella seconda scena rimuove la benda e racconta i dettagli di quella “operazione terroristica” e dei finanziamenti sauditi. Rifugiato politico in Svezia, è stato sedotto da una 007 iraniana che gli ha dato appuntamento a Istanbul. Qui, sarebbe stato rapito, drogato e trasportato in un camioncino per 1.600 km attraverso la Turchia, fino a Van. Al confine con l’Iran, sarebbe stato consegnato ad agenti della Repubblica islamica. Alcuni giorni fa, i servizi di intelligence turchi hanno arrestato undici cittadini turchi accusati di spionaggio a favore dell’Iran e del sequestro del dissidente. Oltre a Chaab, recentemente il pubblico della televisione iraniana ha visto scorrere sullo schermo anche le immagini del giornalista dissidente Ruhollah Zam, direttore del sito Amad News che diffondeva notizie sui politici iraniani e che aveva contribuito a fomentare il dissenso durante le proteste di fine 2017 e del 2018. Rifugiato in Francia, era stato rapito dai pasdaran a ottobre 2019 mentre si trovava in Iraq, dove si era recato per incontrare il Grande Ayatollah Ali Sistani. Deportato in Iran, è stato condannato per “corruzione sulla terra” e sabato 12 dicembre è morto impiccato. In segno di protesta, le diplomazie dell’Ue hanno mandato a monte un atteso business forum. La Cina userà il riconoscimento facciale per identificare gli uiguri? ilpost.it, 21 dicembre 2020 Un software testato da Huawei e da un’altra società cinese sarebbe in grado di individuarli e di mandare un avviso alla polizia. La grossa azienda di telecomunicazioni Huawei e la start-up tecnologica Megvii - entrambe cinesi - hanno testato un software per i sistemi di videosorveglianza che sarebbe in grado di riconoscere età, sesso ed etnia di ogni persona attraverso le immagini scansionate. Il software sarebbe stato programmato per mandare una sorta di “allarme” alla polizia ogni qualvolta il sistema di sorveglianza scansioni una persona di etnia uigura, la minoranza di religione islamica sistematicamente discriminata e perseguitata dal governo cinese. Le due aziende hanno negato che gli scopi delle loro tecnologie siano questi, ma sia in Cina che in altri paesi software simili vengono già utilizzati per controllare le persone o reprimere i dissidenti, con grosse implicazioni etiche e giuridiche. Della vicenda si sono occupati due giornalisti del Washington Post, che hanno visto il rapporto dei test sul software ottenuto tramite Ipvm, un’organizzazione indipendente che si occupa di analizzare e valutare i sistemi di videosorveglianza. Il documento, firmato dai funzionari di Huawei, si trovava sul sito dell’azienda e chiariva che il software era stato sviluppato nel 2018, e testato di recente. Dopo la pubblicazione dell’articolo sul Washington Post, lo scorso 8 dicembre, il documento è stato tolto dal sito di Huawei. Il caso ha tuttavia riacceso il dibattito sull’uso controverso dei sistemi di videosorveglianza, che in Cina sono sempre più diffusi. Funzionari del governo cinese citati dal Washington Post hanno sostenuto che i sofisticati sistemi di riconoscimento facciale riflettano l’avanzamento tecnologico della Cina e agevolino il lavoro della polizia nel garantire il livello di sicurezza nelle città. Per le ong e gli osservatori internazionali, invece, sono strumenti che consentono di reprimere coloro che vengono visti come un pericolo per il mantenimento del controllo esercitato dal governo sui cittadini. Secondo John Honovich, il fondatore di IPVM, si tratta di tecnologie “spaventose” e “assolutamente normalizzate” che vengono impiegate anche per discriminare. Secondo Amnesty, negli ultimi anni almeno 1 milione di uiguri sono stati perseguitati e detenuti in diversi “campi di rieducazione”, come li chiama la Cina. Il governo cinese ha sempre negato di aver represso o trattato diversamente la minoranza uigura, descrivendo spesso le testimonianze sulle loro condizioni di vita “fake news” e definendo semmai la repressione di questa minoranza come una campagna antiterroristica. L’esistenza di campi di detenzione per gli uiguri è stata però verificata da inchieste giornalistiche e rapporti dell’Onu. Le ricostruzioni hanno mostrato come gli uiguri vengano rinchiusi nei campi senza avere possibilità di difendersi, né di sostenere un processo; come siano sottoposti a indottrinamento, lavori forzati, e in alcuni casi anche a torture. Nel 2018 alcuni ricercatori cinesi avevano progettato un algoritmo che era in grado di riconoscere, distinguendoli, i “tratti distintivi” dei volti degli uiguri, dei tibetani e dei coreani. Come aveva raccontato il New York Times, inoltre, l’anno scorso un software per il riconoscimento facciale impiegato dal dipartimento di polizia della città di Sanmenxia - circa 1.200 chilometri a nord-ovest di Shanghai - aveva individuato i volti degli uiguri 500mila volte in un solo mese. Diversi software impiegati per la videosorveglianza sviluppati da Megvii sono utilizzati in più di 110 cittadine cinesi. Secondo quanto ha raccontato Maya Wang, osservatrice della ong Human Rights Watch, in Cina questi software sono sempre più diffusi anche per controllare i dissidenti e reprimere le proteste. Wang ha aggiunto che le ambizioni del governo cinese vanno ben oltre la persecuzione delle minoranze: il vero obiettivo sarebbe utilizzare i sistemi di riconoscimento facciale per criminalizzarle. Oltre alle implicazioni etiche dell’utilizzo sistematico della videosorveglianza per controllare i cittadini, però, c’è anche un altro tipo di problema: i software infatti potrebbero fornire risultati inaccurati perché il funzionamento dei programmi dipende da alcuni fattori, come l’intensità della luce o la qualità delle immagini scansionate; in più, non è detto che i tratti somatici delle persone siano nettamente distinguibili o attribuibili con totale certezza a una o all’altra etnia. Sia Huawei che Megvii hanno confermato di aver lavorato insieme per sviluppare in tutto tre software per il riconoscimento facciale e hanno detto che il rapporto su quello testato di recente era vero. Tuttavia il portavoce di Huawei, Glenn Schloss, ha detto che il documento faceva riferimento “soltanto a un test e non ha alcuna applicazione nel mondo reale”; Schloss ha anche specificato che l’azienda “vende solo prodotti dagli utilizzi generici per questo tipo di sperimentazione ma non fornisce algoritmi o applicazioni personalizzati”. Un portavoce di Megvii ha detto che i software sviluppati dall’azienda “non sono programmati per individuare specifici gruppi etnici”. Jonathan Frankle, ricercatore del Laboratorio di Computer Science e Artificial Intelligence del MIT (Massachusetts Institute of Technology), ha spiegato che le società di sviluppo software stanno investendo parecchio sui sistemi di riconoscimento facciale perché sono molto redditizi. Negli Stati Uniti e in altri paesi, per esempio, vengono utilizzati da alcuni anni durante le indagini criminali; il loro uso è ritenuto comunque controverso, perché secondo alcuni violerebbe le leggi che tutelano i cittadini sotto indagine. In altri paesi, come l’Uganda, è stato confermato che sistemi simili vengono usati per sorvegliare gli oppositori politici e identificare chi partecipa alle proteste. Nel 2019 otto società cinesi furono sanzionate dagli Stati Uniti per il loro coinvolgimento in attività che “violavano i diritti umani” e per “abusi relativi all’implementazione di campagne di repressione, detenzione arbitraria di massa e sorveglianza con sistemi altamente tecnologici” nei confronti degli uiguri e di altre minoranze. Tra queste società c’era anche Megvii. Tra le altre cose, da qualche tempo gli Stati Uniti stanno anche cercando di limitare l’influenza di Huawei in Europa e tra i paesi alleati perché, sostiene l’amministrazione americana, Huawei è vicina al governo cinese e pone un rischio per la sicurezza.