Rileggere Tolstoj con un pensiero a Donato Bilancia, morto per Covid di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 20 dicembre 2020 “Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre”. Qualche giorno fa, ho riletto, citata in una bella intervista dal professor Giovanni Fiandaca, una riflessione di Lev Tolstoj tratta dal romanzo Resurrezione. Vale la pena di riportarla, perché pare che nel mondo odierno si sia persa traccia di un pensiero serio sulla complessità della natura umana: “Una delle superstizioni più frequenti e diffuse è che ogni uomo abbia solo certe qualità già definite, che ci sia l’uomo buono, cattivo, intelligente, stupido, energico, apatico eccetera. Ma gli uomini non sono così. Possiamo dire di un uomo che è più spesso buono che cattivo, più spesso intelligente che stupido, e viceversa. Ma non sarebbe la verità se dicessimo di un uomo che è buono o intelligente e di un altro che è cattivo, o stupido. Gli uomini sono come fiumi: l’acqua è in tutti uguale e ovunque la stessa, ma ogni fiume è ora stretto, ora rapido, ora ampio, ora tranquillo, ora limpido, ora freddo, ora torbido, ora tiepido. Così anche gli uomini. Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre lo stesso”. In questi mesi difficili si parla molto di pene e di carcere usando spesso stereotipi, luoghi comuni, semplificazioni. Ci vorrebbe un Tolstoj, mi verrebbe da dire, per spiegare a giornalisti e politici che il mondo non è diviso in “totalmente buoni e assolutamente cattivi”, che le cose stanno diversamente, che bisogna accettare che quando si parla di pene e di carcere non c’è nulla di semplice, nulla di scontato. nulla di rassicurante, anche se piacerebbe a tutti pensare che la galera, tanta galera ci rende più sicuri. Anche perché, come diceva un altro straordinario scrittore russo, Fjodor Dostoevskij, pure ogni uomo perbene ha dentro di sé delle cose, che non vorrebbe neppure raccontare a se stesso: “Ogni uomo ha dei ricordi che racconterebbe solo agli amici. Ha anche cose nella mente che non rivelerebbe neanche agli amici, ma solo a se stesso, e in segreto. Ma ci sono altre cose che un uomo ha paura di rivelare persino a se stesso, e ogni uomo perbene ha un certo numero di cose del genere accantonate nella mente”. Ho scelto di citare due scrittori per parlare, indirettamente, di carcere con un invito e un augurio: dedicare gli ultimi giorni di questo anno crudele alla lettura di quello che Dostoevskij e Tolstoj sanno raccontarci della natura umana, e forse qualcuno capirà qualcosa di più di quello che riguarda il mondo delle pene, qualche giornalista andrà un po’ più a fondo se dovrà parlare di qualche “delinquente!, qualche politico avrà un soprassalto della coscienza quando dovrà mettere mano a qualche legge che riguarda il carcere. Da parte mia, spero che Tolstoj e Dostoevskij ci aiutino anche a ricordarci che non esistono i “mostri”, ma uomini in grado di fare cose mostruose, che però non esauriscono la loro umanità in quei gesti. Penso a Donato Bilancia, ai suoi reati terribili, al dolore dei famigliari delle persone che ha ucciso, agli anni di carcere vissuti nella Casa di reclusione di Padova, alla sua morte di Covid in solitudine all’ospedale, e provo un senso di pena, e spero che nessuno pensi con una specie di sollievo a questa morte. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti L’epidemia e il distanziamento fisico in un carcere sovraffollato zic.it, 20 dicembre 2020 L’inchiesta autogestita di Zic.it sulla sanità pubblica durante la seconda ondata pandemica non poteva non soffermarsi anche sulla situazione della Casa circondariale cittadina dove, nelle ultime settimane, il numero dei contagiati Covid-19 è salito in modo preoccupante. Verso la fine di novembre il garante dei detenuti di Bologna comunicava che, all’interno del carcere della Dozza, vi erano almeno 12 i detenuti contagiati ed altri casi di positività erano presenti tra gli operatori penitenziari. Ammoniva che, in una situazione in cui “la capienza massima di 500 persone era ampiamente superata dalle circa 700 presenze”, con la seconda ondata pandemica in corso, “il rischio di una diffusione del contagio all’interno dell’istituto penitenziario era molto concreto”. Il 30 novembre era il garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna a sottolineare che “la patologica situazione di sovraffollamento che caratterizza le nostre carceri contribuisce ad accrescere il rischio di diffusione del contagio. E’ quindi necessario incidere significativamente sul numero delle presenze in carcere, per la tutela del diritto alla salute di detenuti e operatori penitenziari”. Il 12 dicembre è stato ancora il garante comunale a rivelare che la situazione, in poche settimane, si è parecchio aggravata: “Il problema del sovraffollamento complica la gestione dei casi di Covid all’interno del carcere di Bologna, dove circa 50 persone sono risultate positive al virus”. Il garante ha riferito pure che ci sono detenuti ricoverati in ospedale e non ha nascosto la sua preoccupazione per un ulteriore aggravamento della situazione, anche in prospettiva di una terza ondata di Coronavirus nei primi mesi del nuovo anno. Ieri, infine, è intervenuto di nuovo il garante regionale per affermare che tra i penitenziari dell’Emilia-Romagna il carcere di Bologna resta “quello più problematico, con un numero di positivi tra i 50 e i 70 che è stabile da qualche giorno”. Insomma, in questa seconda ondata pandemica l’impatto del virus è indiscutibilmente più grave sul carcere rispetto agli scorsi mesi primaverili, ma sembra che la cosa interessi pochissime persone. Oltre ai famigliari che mandano lettere ai giornali, che scrivono ai propri avvocati o ai garanti o alle associazioni, ci sono le poche realtà che si occupano di questioni detentive (come Antigone o l’Associazione Yairaiha Onlus), i collettivi anarchici o antagonisti che denunciano (come nel caso dei morti delle rivolte di marzo) e, adesso, anche direttamente i detenuti che si prendono la responsabilità di fare esposti. Della stampa mainstream è meglio non parlare, salvo due piccole eccezioni (Il Dubbio e Il Riformista), tutti i quotidiani sembrano molto distratti quando si parla dell’epidemia da Covid nelle carceri italiana. E i casi sono già parecchi: da Poggioreale a Tolmezzo, da Pesaro a Sulmona, a cui si è aggiunto più di recente anche Bologna. La politica istituzionale poi è “non pervenuta” ormai da tempo. Il silenzio delle istituzioni - Sull’aggravamento della situazione sanitaria della Casa circondariale bolognese, però, è il caso di inchiodare il ceto politico di Palazzo d’Accursio alle sue responsabilità. Anche perché, è bene ricordarlo il “garante comunale delle persone private della libertà personale” è una figura la cui nomina è votata dal Consiglio comunale e le sue relazioni dovrebbero servire ai consiglieri e alla Giunta per produrre azioni politiche conseguenti. Bene, dopo le due recenti uscite del garante comunale solo due consiglieri hanno preso parola per esprimere preoccupazione e chiedere politiche di “decarcerizzazione” (Francesco Errani e Dora Palumbo), da tutti gli altri un assordante silenzio. Anche dalla Giunta nebbia fitta; per non parlare del Sindaco Merola che, in quanto “massima autorità sanitaria” cittadina, un occhio su quello che sta accadendo in via del Gomito 2 dovrebbe buttarlo. La salute dei cittadini (di tutti i cittadini) non è una questione che si può trattare come il traffico, ciòé “a targhe alterne”. In effetti, è un po’ bizzarro occuparsi dei rischi da Covid solo per gli assembramenti da movida o da manifestazione, dare un’occhiata di sfuggita alla calca nei trasporti pubblici, adattarsi all’addossarsi “necessario” delle attività lavorative, tapparsi naso occhi e orecchie per quella “contiguità obbligata” che quotidianamente si verifica presso l’istituto detentivo della città. L’ultima volta che il sindaco fece sentire “esplicitamente” la sua voce sulle condizioni di vita nel carcere della Dozza risale al lontano 11 luglio del 2011. Dopo una visita insieme a un gruppo di parlamentari della Commissione diritti umani del Senato, riscontrando sovraffollamento, celle che scoppiavano, l’alto numero di detenuti tossicodipendenti o con problemi psichiatri e una situazione grave dal punto di vista igienico-sanitario, gli venne da dichiarare: “Ho un forte imbarazzo come amministratore pubblico nel vedere un mondo così al contrario”. Poi promise: “Verificherò se ci saranno gli estremi per un’ordinanza sindacale, simile a quella firmata nel 2007 dal mio predecessore Sergio Cofferati” (in quell’ordinanza si prescriveva di intervenire sulle condizioni igienico-sanitarie della struttura, oltre a disporre disinfestazioni da blatte e derattizzazioni). Dopo di che, per Merola solo partecipazioni a qualche spettacolo e a qualche concerto del coro dei detenuti, o presenza di prammatica a qualche convegno e niente più. Del resto, in questi anni, le visite dei parlamentari e dei consiglieri regionali si sono sempre più diradate fino a sparire del tutto. I tempi della proposta di legge (mai approvata) dell’ex senatore Luigi Manconi per “rendere il carcere una casa di vetro” sono stati cancellati dall’oblio, oggi vanno molto più di moda e trovano il consenso di quasi tutte le forze politiche gli editorialisti del “manette daily”. E a proposito di Regione Emilia-Romagna, in materia di detenzione il coraggio della “coraggiosa” vice-presidente Elly Schlein sembra essersi affievolito abbastanza rapidamente. Nella primavera scorsa, subito dopo la sua elezione, fu protagonista di un provvedimento (finanziato complessivamente con 472.000 euro), teso a reperire alloggi da destinare ai detenuti vicini al termine della pena da scontare, ma privi di risorse economiche, casa e lavoro. L’iniziativa regionale faceva seguito al Dpcm del governo rivolto a detenuti con un residuo di pena inferiore ai 18 mesi, varato per alleggerire il sovraffollamento carcerario e favorire così il contenimento delle situazioni a rischio di contagio da Covid-19. Sarebbe cosa buona conoscere quanti detenuti hanno potuto usufruire di questo bando regionale e di quante amministrazioni comunali e quante associazioni hanno partecipato. Mica per altro, sapere se il provvedimento ha funzionato sarebbe utile a tutti. Su cosa fare invece, rispetto a questa seconda ondata pandemica e per non assistere impotentemente alla crescita esponenziale numero dei contagi, seguendo anche la sollecitazione del garante regionale dei detenuti, non abbiamo il piacere di sapere cosa intenda fare la Regione Emilia-Romagna. Anche in questo caso è abbastanza strano che il “protagonismo dei governatori” (finanche esagerato in epoca di Covid) abbia ritrovato improvvisamente una silenziosa sobrietà sulla questione delle carceri. E pure la Schlein, che sui giornali di tutte le periodicità, sia cartacei che online, ci è finita un’infinità di volte, di pensieri dedicati alle condizioni dei detenuti e delle detenute ne ha dedicati veramente pochi… E dire che, in fin dei conti, tra le tante deleghe che le sono assegnate, ci sono anche quella del welfare e del contrasto delle diseguaglianze. Ed avendo pure la delega ai rapporti con l’UE dovrebbe sapere che la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato diverse volte l’Italia per trattamento inumano e degradante nei confronti di detenuti. Perciò le condizioni di detenzione dovrebbero essere un argomento a cui dedicare un po’ di attenzione Cosa significa “distanziamento fisico” dietro le sbarre - Ritornando agli effetti dell’epidemia da Coronavirus dentro il carcere della Dozza occorre dire che, dal punto di vista degli operatori sanitari, la situazione è molto diversa rispetto al marzo scorso. All’epoca c’era disorientamento e paura. Le disposizioni sanitarie per affrontare il Covid-19 erano insufficienti, i dispositivi di protezione individuali erano scarsi, c’era la preoccupazione di non avere gli strumenti e il personale idonei ad affrontare una situazione difficile. C’era stata la rivolta e, nel corso di quelle giornate di rabbia dei detenuti, erano rimaste distrutte le infermerie, gli ambulatori, i carrelli delle terapie e molta strumentazione. Terminata la protesta, vennero diagnosticati positivi al Covid quindici detenuti. Queste persone andavano isolate e assistite. Poi, tra aprile e maggio, furono due i detenuti deceduti per Coronavirus, entrambi morirono in ospedale dopo qualche giorno dal trasferimento dal carcere. L’altro fatto molto grave e angoscioso fu la positività del personale infermieristico e medico, più della metà degli operatori sanitari si ammalarono. Se si chiede se è stato fatto quello che era necessario per affrontare una situazione così complessa e pericolosa, per i nostri interlocutori, le misure di prevenzione che furono introdotte a maggio sarebbero servite a marzo. Un esempio su tutti: il protocollo per la gestione dei positivi. Lo stesso protocollo, però, viene considerato uno dei più avanzati tra gli istituti italiani (questo non significa automaticamente che sia risolutivo dei problemi che si incontrano). Elencando gli interventi effettuati o che vengono approntati per creare percorsi differenti per i detenuti, si parte dagli spazi che sono stati destinati all’isolamento dei positivi e di coloro che sono entrati in contatto con essi (infermeria, reparto 1°C, “RH”). Tutti i nuovi giunti devono fare una quarantena di 10 giorni. Alla fine di questo periodo si effettua un tampone che, se risulta negativo, determina la fine dell’isolamento e l’inserimento del detenuto nelle sezioni”normali”. La stessa cosa è stata fatta ai pochi detenuti che sono andati in permesso in questi mesi. Coloro che presentano sintomi riconducibili al Covid, come febbre o diarrea, vengono sottoposti al tampone e isolati per il periodo necessario, dopodiché si effettua nuovamente il tampone. Coloro che risultano positivi vengono isolati in una sezione chiamata “RH” costituita da un corridoio con 5 celle. Nel cortile esterno è stata montata una tenda della protezione civile per la misurazione della temperatura all’ingresso. Prima dell’esplosione degli ultimi casi, con i numeri che arrivano ormai a una settantina di detenuti contagiati, la capienza delle aule scolastiche era stata ridotta del 50 per cento (con l’aula più grande che poteva contenere al massimo 8 persone). La possibilità di seguire le lezioni era consentita solo a detenuti che provenivano dalle medesime sezioni per evitare contatti tra soggetti rinchiusi in sezioni diverse. Adesso le lezioni sono state sospese, così come l’attività dell’officina meccanica. Queste chiusure si sono aggiunte alle precedenti che riguardavano tutte le attività di gruppo (culturali, sportive, ricreative) che vedevano la presenza dei volontari esterni. Ora anche i religiosi non possono più entrare. Fino ad alcune settimane fa i colloqui in presenza si svolgevano una volta al mese, alla presenza di un solo famigliare, nelle sale dedicate dove, su ogni tavolo, sono stati montati dei pannelli in plexiglass. Nell’ultimo periodo il maggior numero di colloqui si svolge via Skype. Altri modi per comunicare con l’esterno sono il servizio mail e le telefonate. Gli orari all’aperto nei “passeggi” erano stati organizzati a turno tra le diverse sezioni in modo da evitare contatti. Ora, probabilmente, anche questi spazi sono ancora più limitati, così come, in generale, il regime a celle aperte che, comunque, in tutte le sezioni, venivano già chiuse durante i pasti. Il garante dei detenuti ha annunciato che, negli ultimi giorni, “la direzione del carcere ha deciso di sospendere i nuovi ingressi, almeno sino a quando non verrà raggiunta la piena stabilizzazione del quadro epidemiologico”. All’inizio di questa “seconda ondata” gli operatori sanitari si sono sentiti maggiormente preparati e più informati rispetto all’epidemia di primavera, ma il numero altissimo di casi di queste settimane, il contagio che prima aveva toccato solo alcune sezioni e poi si è esteso molto velocemente anche ad altre, dimostra che, al di là dei provvedimenti interni utili e necessari, i problemi strutturali del carcere della Dozza, così come degli altri istituti penitenziari italiani, rimangono e, certamente, non aiutano a contenere la diffusione del virus. Ancora una volta il problema principale è il sovraffollamento. Se aumentano le persone contagiate che devono essere messe in isolamento dovrebbe aumentare anche il numero delle celle (o come le chiamano “stanze per il pernottamento”) vuote per essere destinate alla quarantena, ma se queste non ci sono tutto il discorso dei protocolli salta. In Italia c’è troppa custodia cautelare, ci sono troppe pene brevi che potrebbero essere gestite diversamente. Quindi la cosa principale è far diminuire la popolazione detenuta soprattutto per avere spazio, non solo per mantenere in via ordinaria un minimo di distanza tra le persone, ma anche per gestire gli isolamenti per i contagiati da Covid. In particolare, sarebbe importante far uscire le persone che in caso di contagio rischiano di più. L’ultimo decreto “Ristori” che prevede la possibilità della detenzione domiciliare per gli ultimi 18 mesi di pena, con braccialetto elettronico per i residui sopra i 6 mesi, non ha prodotto effetti significativi. Nei mesi precedenti c’erano stati i Dpcm di “Cura Italia” che qualcosa avevano fatto, ma non nei termini che si poteva prevedere, non tutti quelli che ne potevano usufruire ne hanno goduto. Gli scioperi della fame e gli appelli - Contro il sovraffollamento, per l’approvazione di misure per diminuire il numero dei detenuti, per potere affrontare in maniera più adeguata i rischi dell’epidemia da Covid, per avere la garanzia di un accesso idoneo alle cure per chi ne ha bisogno, in diversi istituti sono partiti scioperi della fame. Sono forme di protesta diverse dalle rivolte esplose a marzo, durante le quali morirono 13 detenuti. Sono abbastanza rituali e, periodicamente, vengono sostenute dai radicali di Rita Bernardini. Proprio perché, in qualche modo, fanno parte della quotidianità delle carceri (ogni anno ce ne sono migliaia individuali ed è uno dei pochi modi per protestare e lamentarsi), all’esterno vengono scarsamente presi in considerazione. Questa volta in una sorta di “staffetta ideale “allo sciopero della Bernardini si sono associati Luigi Manconi, Roberto Saviano e Sandro Veronesi con i tre editoriali (sulla Stampa, La Repubblica e Il Corriere della Sera) e il loro digiuno per la “salute nelle carceri”. A questo passaggio si è aggiunto un ulteriore appello di 117 docenti universitari che chiedono al Governo e alle autorità competenti di “adottare provvedimenti idonei a ridurre il più possibile il sovraffollamento delle carceri italiane, così da prevenire il rischio di un’ulteriore diffusione del contagio da Coronavirus al loro interno”. Queste prese di posizione non hanno avuto nessuna risposta e la benché minima considerazione dalla Politica nazionale e locale. Pure la stampa e la televisione hanno dato scarsissimo risalto. L’unico che ha preso carta e penna e si è preso la briga di rispondere “puntualmente” è stato Marco Travaglio sulle pagine del Fatto Quotidiano: “I numeri dimostrano che in carcere si è molto più controllati e sicuri, quanto al Covid, che fuori… Mi pare che questo basti per spazzare via digiuni contro la “strage” da Covid nelle carceri, campagne per amnistie, indulti e altre misure svuota-celle, accuse al governo di “condannare a morte” i detenuti… Gli attuali 53.000 detenuti costituiscono il minor affollamento da molti anni: non proprio un’emergenza da affrontare con urgenza… La popolazione carceraria dipende anzitutto dall’alto numero di delinquenti, non da leggi liberticide o dal destino cinico e baro… Uno degli scopi della pena è proprio punire, perché chi ha commesso un reato paghi il conto, liberi la società della sua presenza per un po’ e a lui e ai suoi simili passi la voglia di riprovarci. Poi, certo, la pena deve anche rieducare: ma dev’essere, appunto, una pena. Non una finzione o una barzelletta”. Insomma, per l’algido Travaglio il “fresco” del carcere è molto più salutare dell’aria fresca di montagna, questa sua frigida ghiacciosità che lo ha portato ad essere il principe dei manettari, sembrerebbe una divertente imitazione di Crozza. Invece, purtroppo, lo smilzo col maglioncino a collo alto è l’attuale ispiratore di tutte le politiche giudiziarie del nostro paese… E se lui ha giocato a stringere la sua anima tra le ganasce di una morsa, a noi non resta altro che dire: avanti di questo passo c’è proprio da stare freschi. Giancarlo Coraggio: “Mai invadere l’autonomia del legislatore” di Liana Milella La Repubblica, 20 dicembre 2020 Il nuovo presidente della Corte costituzionale nella prima conferenza stampa parla della “difficile collaborazione tra Stato e Regioni”, dice sì all’obbligo dei vaccini, e parla dello sciopero della fame dei giudici onorari che “svolgono la stessa funzione di quelli ordinari”. Vicepresidente è il giudice Giuliano Amato, ex leader socialista. La Consulta ha il suo 44esimo presidente. È Giancarlo Coraggio, 80 anni, ex presidente del Consiglio di Stato, alla Corte dal 28 gennaio 2013, quando è stato votato a sua volta dai giudici amministrativi proprio quando era al vertice di quella istituzione. Nella sua vita professionale ha svolto molti ruoli nella magistratura, anche quelli di toga ordinaria, tributaria, sportiva, all’insegna di una curiosità verso il mondo del diritto che non è certo usuale. A dare l’annuncio della nomina è stato il segretario generale della Consulta Carlo Visconti. Che ha parlato di una votazione avvenuta all’unanimità. Appena eletto Coraggio, di fronte al consesso dei suoi colleghi, ha indicato come suo vicepresidente l’ex leader socialista Giuliano Amato. Coraggio ha di fronte a sé una presidenza lunga, 13 mesi, fino al gennaio del 2023. Amato invece resterà giudice costituzionale fino a settembre dello stesso anno. Coraggio riceve il testimone dal presidente uscente Mario Rosario Morelli, eletto lo scorso settembre, quindi in carica da tre mesi, nei quali ha proseguito lo sforzo di chi l’aveva preceduto - la prima presidente donna della Consulta Marta Cartabia - di proseguire con costanza il lavoro della Corte nonostante l’emergenza del Covid. Numerose le udienze da remoto che hanno consentito alla Corte di non accumulare arretrato con il pieno consenso degli avvocati. Alla votazione per Coraggio ha partecipato anche l’ultima giudice giunta alla Consulta, Maria Rosaria San Giorgio, appena eletta dalla Cassazione, che ha giurato giovedì pomeriggio davanti al presidente Mattarella e alla presenza del premier Conte. È la prima volta che la Suprema corte sceglie una donna, anche con una votazione significativa (183 voti). A questo punto la presenza femminile alla Consulta conta ben quattro donne su 15 giudici. Un segnale molto significativo rispetto a una istituzione che per anni è stata composta di soli uomini e dove la prima donna, Fernanda Contri, è entrata negli anni Novanta: la Corte nata nel 1956. La prima conferenza stampa - Ad elezione avvenuta il neo presidente Giancarlo Coraggio non nasconde l’emozione. Dice di averla provata soprattutto entrando nella sua stanza con il grande ritratto di Enrico De Nicola, il primo presidente della Corte. Ma risponde a tutte le domande, rivoltegli dai giornalisti in diretta oppure via pc. Anche le più delicate, come quelle che riguardano i rapporti con la politica. “Non invadere l’autonomia del legislatore” - Anzi, proprio della politica parla lui stesso per primo, e si capisce come la pensa e dove mette l’asticella. “La mia vita - dice Coraggio - si è sempre svolta nelle magistrature. Ma c’è una grande differenza tra le ‘altre’ magistrature e la Corte costituzionale perché questa si muove sullo stesso terreno del Parlamento, il che comporta una connotazione politica. Significa essere giudice, ma anche svolgere un ruolo politico. Un ruolo svolto con imparzialità. Anche se siamo condizionati dalla nostra formazione”. Coraggio conclude all’insegna dell’equilibrio: “Il fatto che ci si muova su un terreno delicato deve portarci ad avere il senso del limite, a non interferire e a rispettare l’autonomia e la legittimazione del legislatore. Per me, come uomo delle istituzioni, è un punto di particolare importanza quello di non invadere il campo dell’autonomia del legislatore”. Dalla Corte sì all’obbligo dei vaccini - Già due anni fa la Corte aveva detto sì all’obbligo dei vaccini. Oggi Coraggio dice: “Non vorrei essere nei panni di chi deve decidere chi vaccinare perché sono decisioni che fanno tremare le vene e i polsi. È difficilissimo. Speriamo che la saggezza illumini chi deve farlo. L’immunità di gregge è un dato di fatto, se non si arriva a un’immunità del 70% il rischio è che il virus continui a circolare”. “Il punto di equilibrio tra salute e libertà” - È il tema del giorno. E Coraggio lo affronta così: “Ogni volta bisogna trovare il giusto equilibrio tra gli interessi in gioco. Non c’è uno scontro tra diritto alla salute e libertà individuali, ma bisogna trovare un punto di equilibrio. Ci sono parlamentari che parlano di lesione dei loro diritti per l’impossibilità di arrivare in Parlamento. Il problema è dibattuto in tutti i Paesi, quando le questioni arriveranno alla Corte le affronteremo”. “Leale collaborazione tra Stato e Regioni” - Impossibile sottrarsi alla caldissima e attualissima questione del conflitto tra Stato e Regioni. Coraggio dice: “La riforma del Titolo V è apprezzabile, ma ha lasciato sul campo molti problemi, come dimostra l’esplosione del contenzioso che ha avuto un picco nel 2012, ma con un trend a ribasso per l’impegno sia della Consulta, che dello Stato nel chiarire in certi ambiti i rispettivi ruoli. Ma uno degli strumenti cardine per risolvere i problemi resta la leale collaborazione che la Consulta ha valorizzato. Essa richiede un certo tempo. Soprattutto se si va oltre il semplice parere. Ma in un momento emergenziale, da cittadino, vedo che questa leale collaborazione fatica a realizzarsi. È una questione altamente politica e il problema c’è”. “L’obbrobrio dei maxi emendamenti” - Anche su un altro tema bollente, la legge di bilancio, arriva puntuale la domanda per Coraggio. Anche su questo la risposta è netta: “Qualche tempo fa ho ascoltato una conferenza di Giuliano Amato - che è veramente il massimo avere adesso come vice presidente - e lui ha detto che i Parlamenti sono nati in funzione della gestione finanziaria, che però è attribuita al governo. In Italia il problema è stato risolto all’italiana con i maxi emendamenti e le questioni di fiducia. I primi sono quell’obbrobrio che sono, mentre la fiducia comporta di per sé la compressione dei tempi. Capisco come un senatore avverta la sensazione di non poter esperire appieno il suo ruolo. È necessario però che non si arrivi a ledere il diritto di un parlamentare”. “Stessa funzione tra giudici onorari e ordinari” - Il neo presidente della Consulta prende di petto la questione dei giudici onorari. “Certo, lo sciopero della fame colpisce. La Corte quello che poteva fare lo ha fatto. Anche se intervenendo su un caso marginale (quello del rimborso delle spese legali, ndr). Però ha affermato un principio importante. La funzione è la stessa, sia che si giudichi su materie di minore o maggiore rilevanza economica, i criteri sono sempre identici, la serenità rispetto alle parti. Ma bisogna riflettere fino a che punto l’identità di funzione si traduce poi nel rapporto di impiego. L’Italia è inadempiente rispetto all’Europa, anche se si era impegnata a intervenire. Adesso un passo è urgente. Ma i tempi e l’oggetto della partita vanno rimessi al Parlamento”. “Interventi improcrastinabili sul carcere” - Sul tema caldo delle carceri, alla vigilia dell’incontro il 22 dicembre tra la radicale Rita Bernardini, in sciopero della fame per un mese, e il premier Giuseppe Conte, Coraggio spezza una lancia contro il sovraffollamento. “La Corte ha avuto particolare attenzione alle carceri. Io all’inizio avevo delle perplessità sui viaggi, mi chiedevo che cosa potesse dire un giudice costituzionale che, a differenza dei politici, poi non può fare niente. Ma ho scoperto un mondo. Ricordo un messaggio di Napolitano sul sovraffollamento. Servono interventi improcrastinabili, ma questo è il caso classico di un problema politico nel senso più alto del termine”. Un pensiero per Morelli e Cartabia - Infine un duplice saluto. Al presidente uscente Mario Rosario Morelli, “per il suo curriculum straordinario e per la sua vita che ha dedicato alla Cassazione e alla Consulta”. E poi “un pensiero per la carissima Marta”. Marta Cartabia, la prima presidente donna della Consulta, che la lasciato la Corte ed è tornata all’insegnamento da settembre. Dice Coraggio: “L’ingresso trionfale delle donne è un fatto acquisto, così come il loro apporto alla giustizia. Cartabia ha sempre avuto una grande capacità di porgere le sue argomentazioni. Ma bisogna andare al di là del fatto specifico della sua elezione, ma guardare alle cose che ha portato alla Corte in termini di dottrina e di valori. Marta mi manca”. La carriera - Presidente del Consiglio di Stato nel 2012 su nomina dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, ma prima ancora presidente del Tar delle Marche e della Campania. È fatta di tanti ruoli prestigiosi la carriera del nuovo presidente della Consulta Giancarlo Coraggio, non solo nella giustizia amministrativa. Ha ricoperto anche rilevanti incarichi di collaborazione con diversi Governi della Repubblica e ha così collaborato alla stesura di importanti interventi legislativi: dalla riforma sanitaria del 1978 (legge n. 833); alla prima legge quadro sul pubblico impiego (n. 93 del 1983) e nel 1994 a quella sui lavori pubblici (n 109). Nato a Napoli il 16 dicembre 1940, sposato con tre figli, dopo la laurea in Giurisprudenza, Coraggio è diventato nel 1963 procuratore legale. Poi l’accesso in magistratura, che lo ha portato ad attraversare tutte le giurisdizioni. Prima di approdare alla giustizia amministrativa, inizialmente come consigliere di Stato, è stato giudice ordinario, dal 1965 al 1969, e poi sostituto procuratore generale della Corte dei Conti, fino al 1973. È stato anche giudice sportivo e ha presieduto, dal 2007 al 2012, la Corte di giustizia della federazione gioco calcio. Alle funzioni giurisdizionali, Coraggio ha alternato esperienze in ruoli chiave in diversi ministeri. È stato capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Sanità e del ministero dei Trasporti; capo di gabinetto nel ministero dei Lavori pubblici e in quelli del Lavoro e delle Finanze nonché con i ministri per le Politiche comunitarie e delle Regioni. È stato anche Capo dell’ufficio coordinamento amministrativo alla Presidenza del consiglio dei ministri e, dal 1988 al 1992, Vice Segretario generale. Eletto giudice costituzionale il 29 novembre 2012 dal Consiglio di Stato - di cui era presidente dal gennaio dello stesso anno - vice presidente della Consulta dal settembre scorso, Coraggio alla Corte ha redatto 168 decisioni. È autore di numerosi scritti sul diritto e sul processo amministrativo. E nel dicembre 1996 gli è stata conferita l’Onorificenza di Cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana. “Anche i giudici sono vittime del processo mediatico, che trasforma le loro sentenze in opinioni” di Giulia Merlo Il Domani, 20 dicembre 2020 Intervista a Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’università di Bologna, sulla deriva mediatica dei processi e sulle possibili soluzioni. “La prima vittima del processo mediatico è la presunzione di innocenza, la seconda sono i giudici, che devono dire da che parte stanno, se dalla parte della pubblica opinione oppure dalla parte di un imputato che ormai si presume colpevole”. All’indomani dell’ennesimo caso di processo mediatico, quello dell’uxoricida di Brescia, Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’università di Bologna, analizza la deriva mediatica dei processi e le possibili soluzioni. “La giustizia mediatica è uno specchio che deforma la realtà e nuoce a tutti: al giudice che decide, all’imputato e alla difesa”, spiega Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’università di Bologna, sulla deriva mediatica dei processi e sulle possibili soluzioni. Il caso di Brescia è solo l’ultimo in ordine di tempo: la corte d’assise ha riconosciuto il vizio di mente per un uxoricida, ma per le cronache l’uomo è stato assolto grazie alla scriminante della gelosia. Di chi è colpa questo travisamento? Temo sia una sinergia di fattori, che negli ultimi anni hanno interagito con intensità crescente: disinformazione, giustizialismo dilagante, ossessione punitivista, crescente sfiducia nella magistratura e subcultura del processo mediatico, un processo parallelo celebrato - in modo veloce e frugale - su quel “palcoscenico catodico di verità di pronto consumo” - che sono i media. Ma la giustizia mediatica e uno specchio che non riflette la realtà, ma la deforma, pesantemente e spesso irreversibilmente. Successivamente è arrivata notizia, poi smentita da parte del ministero, dell’invio di ispettori in tribunale anche se non è ancora stata depositata la sentenza. Come si è generato questo cortocircuito? E’ un ulteriore epifenomeno di questo contesto culturale degenerato. La premessa è che il giudice che prende una decisione ritenuta “troppo favorevole” per l’imputato sbaglia, e quindi la sua attività va verificata, “revisionata”. Nel caso concreto la notizia dell’iniziativa è stata smentita, ma in altri casi recenti - come le iniziative disciplinari in occasione di “scarcerazioni” (che in realtà erano decisioni di detenzione domiciliare) durante l’emergenza Covid - la notizia era vera. Un simile cortocircuito è molto grave: e si comprende la preoccupazione espressa da Magistratura democratica, perché in gioco ci sono davvero l’indipendenza della magistratura e l’autonomia della giurisdizione. Lei dice che una decisione “troppo favorevole per l’imputato” viene percepita come sbagliata. Il giustizialismo è diventato sempre più un tratto culturale del paese? Temo di sì, nostro malgrado: e si tratta di una subcultura diffusa, che trova una straordinaria cassa di risonanza nei media. Del resto, la prima vittima del processo mediatico è la presunzione di innocenza, intesa come regola di trattamento: e l’opzione costituzionale che impone di considerare l’imputato innocente sino a condanna definitiva è una opzione culturale, oltre che un presidio tecnico a garanzia dell’individuo contro il rischio sempre vivo di errori giudiziari, e - dato su ci si riflette troppo poco - un presidio per la stessa giurisdizione. Ci sono altre vittime, oltre all’imputato che diventa colpevole fino a prova contraria? La seconda vittima del processo mediatico è proprio la magistratura giudicante, che subisce una espropriazione della propria giurisdizione - come ha scritto acutamente il Presidente del Tribunale di Torino, Massimo Terzi - e vede ridotte le proprie “sentenze” a semplici “opinioni”, che peraltro arrivano dopo una presunta “verità” già anticipata e conclamata nel proscenio dei media, con i format più disparati: dall’infotainment, al docufiction, al vero e proprio talk show. Il giudice che non si conformi a questa verità preconfezionata è destinato a soccombere nel “baccanale delle opinioni”. Cioè rischia di essere il giudice a doversi omologare alla sentenza dei media? Una volta rovesciata la presunzione di innocenza e presentato l’indagato come colpevole - come fanno i media - la stessa giurisdizione subisce una mortificazione, perché il giudice deve dire da che parte sta, se dalla parte della pubblica opinione e della pur becera vox populi oppure, all’opposto, dalla parte di un imputato che ormai si presume colpevole. E se sceglierà la seconda opzione, con ogni probabilità verrà ritenuto corresponsabile, se non protagonista, di un diniego di giustizia. Questa deriva mediatica è un fenomeno arginabile? Il problema è culturale, e senza una palingenesi culturale ogni misura rischierebbe di avere effetti puramente sintomatici. Tuttavia l’urgenza di predisporre rimedi si fa più stringente per chi patisce la “catabasi mediatica”, una discesa agli inferi che spesso sfigura vite professionali, carriere politiche, storie familiari, come recenti vicende testimoniano dolorosamente. E’ pensabile introdurre dei meccanismi di garanzia? Si può forse ipotizzare qualche misura rimediale, consapevoli però che queste non rimuovono il problema. Provo a ipotizzare, riprendendo una proposta già avanzata tempo fa: chi, da imputato, ha subito un processo mediatico, dovrebbe essere introdotto un contrappeso adeguato, ossia un meccanismo di risarcimento o indennizzo se viene poi riconosciuto innocente, giacché ha subito una condanna ingiusta - ed una gravissima lesione della reputazione e della stessa dignità - sulla platea dei media. Ma anche per l’imputato poi giudicato colpevole dovrebbe essere preciso un meccanismo di riduzione della sanzione, perché la spettacolarizzazione del processo ha una forte connotazione afflittiva che deve essere scomputata dalla pena inflitta, che altrimenti sarebbe duplicata con violazione del canone di proporzionalità. Quanto tutto questo è colpa delle fughe di notizie sulla stampa e come si coniuga il diritto di cronaca con il presidio della giurisdizione? Il diritto di cronaca è una proiezione della libertà di espressione, e questa libertà ha un valore primordiale per una democrazia. Ma l’esercizio della libertà di espressione, come recita l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, “comporta doveri e responsabilità”, che sono certamente in capo ai professionisti dell’informazione giudiziaria. A questo livello, anzitutto, dovrebbe misurarsi - anche e soprattutto in sede deontologica - la cultura del giornalista, la sua sensibilità e il rispetto delle garanzie costituzionali, in primis la presunzione di innocenza, come accennato, che oggi è mortificata da una informazione sensazionalistica e colpevolista, con effetti devastanti anche sui processi. Questo meccanismo esercita pressione anche sui giudici, che rischiano di essere influenzati? Difficile negare, francamente, che i giudici siano influenzati, più o meno consapevolmente. La Corte di Cassazione in diverse occasioni ha sostenuto che i giudici sarebbero protetti da influenze in ragione del loro corredo professionale, che li immunizzerebbe da condizionamenti, e in ragione di una progressiva assuefazione che li avrebbe ormai immunizzati gradualmente. Secondo lei è un argomento convincente? Mi pare che quella della Cassazione sia una posizione che pecca di astrattismo ed idealismo, e non si confronta affatto con la attuale magnitudo del problema, e con i devastanti effetti di diffusività che caratterizzano gli odierni mezzi di informazione. Anche perché i giudici non sono gli unici a rischiare condizionamenti. Chi altro viene influenzato? Oltre al giudice, che spesso subisce condizionamenti inconsci, anche un teste non sarà più in grado di distinguere quel che ha visto direttamente o quel che ha appreso dai media, da cui viene inconsapevolmente subornato; lo stesso pubblico ministero rischia di essere fuorviato da piste investigative anticipate dai media, o pregiudicato da fughe di notizie nello svolgimento delle indagini. Per molte ragioni, dunque, un processo che ha una elevata attenzione mediatica è estremamente complesso anche per la difesa, che deve sempre impegnarsi anche a contrastare e correggere le deformazioni della realtà che il processo ha subito sui media o sui social. Il peso di una pena che va dà pace di Michela Marzano La Repubblica, 20 dicembre 2020 Era la notte tra il 21 e il 22 dicembre del 2019 quando Gaia Von Freymann e Camilla Romagnoli, due adolescenti romane di 16 anni, furono travolte e uccise su Corso Francia dall’auto guidata da Pietro, figlio ventenne del regista Paolo Genovese. A un anno esatto di distanza da quel dramma, Pietro è stato ieri condannato a otto anni per duplice omicidio stradale, nonostante la richiesta di condanna da parte del pubblico ministero fosse stata di cinque anni. Il giudice Gaspare Sturzo ha però escluso qualsiasi concorso di colpa da parte delle due adolescenti e ha deciso di aumentare la pena. Sono troppi otto anni? Forse qualcuno, ascoltando la notizia, se l’è chiesto. Ma se si pensa alla morte di Gaia e di Camilla, allo strazio dei parenti e degli amici, e alla vita dei genitori che si è fermata quella tragica notte, otto anni non sono nulla: non servono a rimarginare alcuna ferita, non colmano il vuoto che si è spalancato, non permettono di tornare indietro nel tempo ed evitare il dramma. Ma non sono pochi? Si chiederà allora qualcun altro, che magari trema ogniqualvolta i propri figli escono di casa la sera e rientrano tardi, oppure ha vissuto sulla propria pelle la tragedia della perdita, il mondo che si squarcia, la fine di tutto. Ma se si pensa che Pietro, quella sera, aveva 20 anni e che, come accade a tantissimi giovani, si era certo messo al volante un po’ brillo ma convinto di potercela fare e sicuro di avere tutto sotto controllo, una sentenza di condanna a otto anni per duplice omicidio stradale non è poco, anzi è un marchio di infamia a vita che viene ad aggiungersi a un rimorso che non passa e al dolore e all’impotenza di un padre che assiste, pure lui, all’infrangersi di sogni e progetti. Nonostante le vere vittime di quell’infame notte romana dello scorso dicembre siano senz’ombra di dubbio Gaia e Camilla, morte sul colpo a 16 anni dopo essere state investite, questo dramma, di famiglie, ne distrugge tante. Non solo i Von Freymann e i Romagnoli, ma pure i Genovese. E riapre vecchie ferite per le famiglie di tutte quelle vittime che non hanno mai ottenuto giustizia. Il reato di omicidio stradale è stato introdotto nel nostro ordinamento nel marzo del 2016, sei anni dopo che in Parlamento era stata depositata una proposta di legge di iniziativa popolare. Troppe erano le vittime della strada. Eppure, se si controllano i dati, che nella loro crudezza obbligano a guardare in faccia la realtà, i pedoni morti sulle strade italiane nel 2018 sono stati 612, ossia circa due al giorno, con un incremento del 7,4% rispetto al 2016. Nonostante le nuove norme, í nuovi processi, i nuovi controlli, le nuove procedure, le nuove pene, le tragedie sono continuate. Spesso senza che nessuno ne abbia parlato, complici ime - dia sempre a caccia di notizie che brillano. E che infatti hanno riempito pagine e pagine nel momento in cui le vittime e il colpevole non erano più solo anonimi cittadini, ma due ragazze della “Roma bene” e il figlio di un celebre regista. Ma non è allora forse anche per questo che ieri la giustizia si è mostrata inflessibile? Oppure è solo arrivato il momento opportuno per dare un esempio, e quindi trasformare questo caso in emblematico per fare in modo che in futuro le cose cambino? Anche se il problema della guida spericolata o in stato di ebrezza, molto probabilmente, non lo si risolve solo con la punizione esemplare, ma sempre e solo, come già nel caso delle violenze contro le donne, con un’educazione appropriata, capace di far capire che esistono drammi che cambiano per sempre l’esistenza di tante persone, che ne distruggono parecchie, che spetta a ognuno di noi fare in modo che non accada, che non ci si può mai permettere superficialità o leggerezza quando si guida e che, dopo aver bevuto, è non solo illegale ma soprattutto immorale prendere il volante, anche se poi, talvolta, è anche il destino a metterci lo zampino, e a rendere inutile non solo ogni precauzione, ma anche ogni pentimento e ogni condanna. Lotta all’omertà, il prezzo del coraggio di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 20 dicembre 2020 In una recentissima serie tv che ha catturato l’attenzione di milioni di spettatori, Giuseppe Fiorello interpreta il ruolo di un cittadino che per ragioni di lavoro entra casualmente in contatto con una rete di narcotrafficanti e accetta, pur controvoglia, di agire da infiltrato nell’organizzazione, consentendo così, tra mille pericoli, il sequestro di un enorme quantitativo di droga. Egli vede, però, travolta la sua vita precedente ed è costretto tra difficoltà e sofferenze a cominciarne una nuova, con una diversa identità fornitagli dalla polizia (nell’ambito di un programma di protezione, peraltro, che è stato poi molto migliorato da una legge del 2018). La sceneggiatura della fiction si ispira a una storia realmente accaduta, con l’ovvia aggiunta di forzature drammatizzanti e spettacolarizzatati necessarie allo share. Se ne parliamo qui è perché il modello di collaborazione Stato-cittadino proposto dalla tv potrebbe far sorgere nel telespettatore un dubbio non peregrino: è giusto che il prezzo del dovere civico sia lo stravolgimento di un’intera esistenza, anche per chi non ha scelto di fare il poliziotto, né tanto meno il delinquente? Per rispondere a questa domanda - che sintetizza il dilemma di tante persone oneste costrette a decidere se chinare il capo oppure ribellarsi e denunciare le pretese mafiose-occorre uscire dal caso estremo, direi eccezionale, dello sceneggiato Rai e calarsi nella realtà molto meno eroica che raccontano i processi e l’informazione che ne dà conto, di solito e salvo rarissime eccezioni nelle cronache locali (e anche questo scarso rilievo non è un bel segnale). Queste cronache confermano che l’omertà rimane un fenomeno diffuso e non solo al Sud. Un esempio? Al termine di un processo contro una cosca di ndrangheta insediatasi in provincia di Varese, il pubblico ministero ha richiesto la trasmissione degli atti relativi a 14 persone offese (cioè quasi tutte le vittime dei mafiosi) ipotizzando altrettanti casi di falsa testimonianza, dato che esse hanno negato persino i fatti che emergevano con tutta evidenza dalle indagini. Per fortuna le eccezioni esistono, come per esempio quella dei commercianti e imprenditori palermitani che hanno fatto arrestare i loro estortori (si veda questo giornale del 2 novembre: “i ribelli di Palermo”) o la condotta, nello stesso processo varesino di cui s’è detto, di un giovane imprenditore che ha prima respinto le richieste di denaro e poi i tentativi di imporsi come socio da parte del boss del paese in cui il giovane intendeva avviare una nuova attività. Denuncia che ha portato agli arresti degli ndranghetisti e, dopo la con ferma in udienza, anche alla sentenza di condanna. Nelle intercettazioni di quell’inchiesta risuonano le stesse frasi che vengono ascoltate in Calabria o in Sicilia: “qualunque cosa lui fa in quella zona lì, avrà solo problemi”, e ancora “sono io che vado lì e scasso tutto”. Infatti, ai capi opposti del Paese, la pretesa dei mafiosi è la stessa: impadronirsi del territorio e lucrare su ogni attività che vi si svolga. Con l’aggravante che ben diversi sono, tra Nord e Sud, il contesto economico e le ricchezze in gioco. Per quanto coinvolgente sia l’esempio proposto dalla tv, è certo che ai cittadini viene richiesto qualcosa di molto lontano dall’infiltrarsi in contesti criminali per conto delle forze dell’ordine (che per questo genere di azioni possono contare su professionisti ben addestrati). Agli imprenditori, per esempio, specie quelli che guidano realtà di notevole rilievo, lo Stato chiede semplicemente di restare nel campo della legalità senza cedere alla tentazione di scorciatoie che aprano la porta a gruppi mafiosi in grado di porsi come agenzie di servizi, ovviamente illegali. Una storia emblematica di simili derive illecite, emerge da una recentissima sentenza del tribunale di Bologna relativa a un importante operatore del settore alimentare che, trovandosi in difficoltà finanziarie e gestionali, si era rivolto a un gruppo ndranghetista, di cui faceva parte anche un politico locale, perché lo “agevolasse” nei rapporti coni fornitori, con gli enti pubblici e perfino con le banche. Ma c’è di più. La stessa azienda, impegnata in una controversia civile con un altro grosso operatore economico lombardo, ha rimesso la risoluzione della vertenza alla decisione delle cosche di ndrangheta presenti nei due territori. Ovvero la mafia è stata chiamata a sostituire lo Stato in una delle sue funzioni essenziali, la giurisdizione. Naturalmente tutto questo ha avuto un prezzo salato: in denaro, in forniture, in assunzioni di personale e - in prospettiva - nell’ingresso della cosca nella compagine societaria. Questo percorso perverso, purtroppo non inedito, è stato rallentato dapprima dal fallimento della società provvidenziale, in questo caso e poi dall’arresto degli ndraghetisti, che ha finalmente convinto gli imprenditori a confermare quanto già emerso dalle intercettazioni, riferendo nei dettagli l’intera vicenda ai magistrati. Credo sia di importanza decisiva che i cittadini, e gli imprenditori in particolare, Mantengano salda la fiducia negli organi dello Stato, che hanno già dimostrato di saper rispondere alle denunce con azioni repressive rapide, concrete ed efficaci, preoccupandosi anche, e prima di tutto, di tutelare - secondo moduli operativi ormai collaudati le persone offese. Ed è altrettanto necessario che gli operatori economici, ma anche i pubblici funzionari, i professionisti, i politici e tutte le categorie sociali, siano pienamente consapevoli che allacciare rapporti con le mafie, supponendo di sfruttarne il potenziale economico e di violenza, non solo origina possibili responsabilità penali, ma è sempre un “affare” estremamente pericoloso perché - come viene detto in una intercettazione - “alla fine quelli si vogliono prendere tutto, anche la vita”. Ottaviano Del Turco: evaporate le accuse, restano solo i silenzi di Paolo Franchi Corriere della Sera, 20 dicembre 2020 Anno dopo anno la “valanga di prove” contro di lui si è squagliata. Il Senato discute se togliergli il vitalizio. Tace la Cgil di cui fu numero due al tempo di Luciano Lama. Contro di lui c’era “una valanga di prove”. E la carcerazione preventiva era inevitabile, visto il suo “profilo delinquenziale non comune che lascia ritenere pressoché certa la reiterazione degli stessi reati per cui si procede”. L’uomo che così veniva rappresentato, lasciando incredulo almeno chi, come me e tanti altri giornalisti politici e sindacali, lo conosce da una vita, si chiamava, e si chiama ancora, Ottaviano Del Turco. Socialista fin da ragazzino. Numero due della Cgil ai tempi di Luciano Lama. Senatore. Ministro della Repubblica. E, al momento dell’arresto, il 14 luglio 2008, presidente (di centro-sinistra) della Regione Abruzzo. Dodici anni dopo, Del Turco, malato di cancro e afflitto dall’Alzheimer, non riconosce più neanche i suoi cari. Non sono un medico, ma mi permetto lo stesso di pensare che tra il suo stato attuale e il suo calvario giudiziario qualche nesso ci sia. Anno dopo anno, sentenza dopo sentenza, la “valanga di prove” contro di lui si è quasi del tutto squagliata. Via l’associazione a delinquere, via la corruzione e il falso, via altri reati minori, resta alla fine solo una condanna della Cassazione a tre anni per induzione indiretta. Sul fatto che una legge possa avere una applicazione retroattiva ci sarebbe parecchio da discutere. Non c’è da discutere, invece, ma solo da restare allibiti di fronte alla decisione del Senato di togliere a Del Turco il vitalizio di cui, si fa per dire, gode. E da prendere atto con (moderata) soddisfazione della successiva decisione di prendersi un mese di tempo per stabilire se procedere o no. Quanto alle reazioni suscitate dal caso, colpiscono soprattutto i silenzi. In particolare quello della Cgil, evidentemente immemore della propria lunga storia, e del ruolo per nulla secondario che il socialista autonomista (non è una parolaccia) Del Turco vi ebbe. Specie quando si trattò, correva l’anno 1983, Craxi e Berlinguer duellavano all’ultimo sangue sulla scala mobile, di salvarne nonostante tutto l’unità. Ennesimo schiaffo a Battisti: confermata la censura della posta di Tiziana Maiolo Il Riformista, 20 dicembre 2020 Cesare Battisti ha fatto parte di un movimento eversivo (i Pac, che non esistono più da quarant’anni) che ha esercitato la propria violenza soprattutto nei confronti di appartenenti all’amministrazione penitenziaria. Durante i suoi lunghi anni di latitanza è stato appoggiato da persone sicuramente della sua stessa risma (gli intellettuali francesi che lo hanno sempre difeso, piuttosto che il presidente Lula in Brasile?). Ancora oggi il suo atteggiamento nei confronti dell’istituzione carceraria è quello di scontro frontale, tratta quella di Rossano come fosse un luogo di tortura, una sorta di Guantánamo dove si stia verificando una vera vendetta nei suoi confronti. Tutti questi motivi fanno temere che, anche solo per la sua violenza verbale, ed essendo Battisti comunque un personaggio mediatico, egli possa costituire un pericolo per la sicurezza dentro e fuori dal carcere. Le sue parole, i suoi scritti potrebbero avere addirittura il ruolo di scintilla, vista la situazione grave determinata anche dalla pandemia da Covid-19 e dalle rivolte che si sono già verificate nelle carceri italiane nel marzo scorso. Per tutti questi motivi il tribunale di sorveglianza di Catanzaro ha confermato la censura sulla corrispondenza dell’ex esponente dei Pac. L’ennesimo schiaffo in faccia, dopo che per ben due volte erano state rigettate le richieste di declassificazione dai reparti speciali AS2 presentate dai suoi legali Davide Steccanella e Maurizio Nucci. Respinte senza motivazione, precisano gli avvocati. Secretate? Polemizza lo stesso Battisti in una lettera inviata a qualcuno che, possiamo garantirlo, non è né estremista né violento. Un clima che sa un po’ di persecuzione, non si può negarlo. Il “visto di controllo” sui suoi scritti è una novità del carcere di Rossano, dove Battisti è detenuto da pochi mesi. Ora, avrà anche un brutto carattere l’ex esponente dei Pac che sta scontando l’ergastolo per quattro omicidi, ma sicuramente non è più la stessa persona di quarant’anni fa, cosa che gli è stata riconosciuta nel primo anno e mezzo di detenzione. Tanto che il giudice di sorveglianza gli aveva concesso novanta giorni di liberazione anticipata e due giudizi che comprovavano il suo comportamento esemplare nel carcere di Oristano. Tutto è cambiato da quando il detenuto è arrivato in Calabria, nell’istituto di pena di Rossano, dove esiste un settore che porta la classificazione di AS2, l’alta sicurezza relativa ai condannati per fatti di terrorismo. La prima difficoltà è dovuta al fatto che quest’area non è di tipo omogeneo, come denunciato dopo una visita ai quattro istituti esistenti con questa tipologia dal garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. La gran parte di questi carcerati è costituita da terroristi islamici. Poi c’è un’area di sovversione costituita dagli anarchici. Il terzo gruppo è costituito dai “rivoluzionari” degli anni settanta del secolo scorso. Presenze inesistenti, nei fatti. Con l’esclusione di Cesare Battisti, i cui compagni sono tutti ormai liberi. Non essendo quindi l’alta sicurezza AS2 un’area omogenea, è impossibile applicare il percorso di trattamento previsto dalla legge e fondato sull’articolo 27 della Costituzione. Nel reparto speciale del carcere di Rossano sono ospitati solo terroristi islamici di vari Paesi, oltre a un italiano condannato per gli stessi reati degli stranieri. Cesare Battisti è quindi, di fatto, ancora in isolamento, dopo due anni dal suo arresto. Non si capisce bene che cosa gli si chiede, dicono i suoi avvocati difensori. Si è dissociato dal terrorismo fin dal 1981, quando era in Francia e questa presa di distanza veniva richiesta dalla “dottrina Mitterand” sulla cui base moltissimi italiani furono accettati e ospitati benché ricercati dalla magistratura del nostro Paese. Inoltre Battisti, poco dopo esser stato arrestato due anni fa, ha sollecitato un incontro con la Procura della repubblica di Milano e nel corso dell’interrogatorio ha ammesso ogni reato che gli era stato contestato e per cui era stato condannato dalla corte d’assise di Milano. Una scelta spontanea di lealtà nei confronti della giustizia, ma anche delle vittime e dell’intera società. Nell’ultima ordinanza della corte d’appello di Milano, quella che nel maggio scorso aveva respinto la sua richiesta di scontare trent’anni di pena in luogo dell’ergastolo, i giudici avevano sottolineato il fatto che il percorso di Battisti in carcere avrebbe dovuto essere di tipo ordinario, con il trattamento previsto per i detenuti “normali”. Cosa che non sta accadendo, soprattutto nel carcere di Rossano, dove vive isolato e anche guardato male dagli agenti. Non è una novità il fatto che i Pac abbiano ucciso anche agenti penitenziari, il che può spiegare un certo risentimento da parte dei suoi custodi di oggi. Ma sono fatti di quarant’anni fa, rispetto ai quali il detenuto sta appunto scontando la pena. Che non può consistere in altro se non nella privazione della libertà. Ed è stupefacente che proprio un tribunale di sorveglianza, composto da quei giudici che dovrebbero essere il fiore all’occhiello nelle pratiche di reinserimento dei detenuti nella società, voglia ancorare un ex terrorista alla sua immagine di allora, invece di essere in prima fila, come hanno fatto i magistrati sardi, nell’incoraggiare e valorizzare il suo cambiamento. Il ricorso Cedu non blocca lo sgombero del bene confiscato alla criminalità organizzata di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2020 In caso di accoglimento del ricorso l’adeguamento alla pronuncia internazionale non obbliga automaticamente alla revoca. Se in base alle regole dell’ordinamento italiano il decreto di confisca è definitivo nulla impedisce di procedere allo sgombero del bene, neanche il ricorso pendente davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro la misura di prevenzione. Il Consiglio di Stato lo afferma con la sentenza n. 7866/2020. L’acquisizione del bene a cui viene impressa una nuova destinazione in base agli articoli 45 e 45 bis del Dlgs 159/2011 è legittimata dalla definitività del provvedimento di confisca come stabilito dall’articolo 27 del medesimo Dlgs. Definitivo - cioè passato in giudicato - è il decreto non impugnato nei termini, ormai ricorribile solo attraverso il meccanismo della revisione, o contro il quale il ricorso per cassazione sia stato rigettato o dichiarato inammissibile. La definitività dipende quindi dall’applicazione delle norme interne statali e non dall’eventuale prosecuzione della contestazione della misura per violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per cui la pendenza di un giudizio davanti alla Corte Cedu non può bloccare la diretta conseguenza della confisca: lo sgombero. E non è neanche detto che, in caso di accoglimento del ricorso, la conseguenza di doversi adeguare alla pronuncia sia quella della restituzione dell’immobile sgomberato. Nuova pronuncia della Cassazione sulla nozione di amministratore di fatto di Fabrizio Ventimiglia e Laura Acutis Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2020 Nota a margine della sentenza, Cass. Pen., Sez. V, 3.12.2020., n. 34508. Con la decisione in commento la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale e, in particolare, sui requisiti oggettivi minimi in base ai quali è ascrivibile ad un soggetto la qualifica di “amministratore di fatto”, qualifica che, ad avviso dei Giudici di legittimità, come diffusamente si esporrà nel prosieguo, può essere desunta da “elementi logici - quali la successione nella carica a carattere meramente fittizio - e rappresentativi - quali la disponibilità e la consegna delle scritture contabili al curatore fallimentare”. Questa in sintesi la vicenda processuale - La Corte di Appello di Perugia confermava l’affermazione di responsabilità di un soggetto imputato dei reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e preferenziale, per avere lo stesso, in qualità di amministratore unico di una s.p.a., successivamente fallita, distratto la cassa contante ed eseguito pagamenti preferenziali in favore della società controllante. L’imputato ricorreva per Cassazione deducendo, tra l’altro, violazione di legge e vizio di motivazione in relazione tanto all’affermazione di responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale quanto al ruolo di amministratore di fatto attribuito allo stesso. Il ricorrente lamentava, infatti, che l’asserita condotta di distrazione della cassa societaria non fosse a lui imputabile in quanto temporalmente verificatasi in un periodo in cui lo stesso non era amministratore di diritto. Percorrendo l’iter motivazionale della sentenza, i Giudici affermano che, oltre a proporre una non consentita rilettura degli elementi di fatto, le doglianze sono manifestamente infondate, in quanto “sollecitano, ictu oculi, una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità”; infatti, pur essendo riferite a vizi formalmente riconducibili alle categorie del vizio di motivazione e della violazione di legge “sono in realtà dirette a richiedere [alla Corte] un inammissibile sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte territoriale”. In particolare, “il ricorrente non lamenta una motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica […], ma una decisione erronea in quanto fondata su una valutazione asseritamente sbagliata”. La Corte afferma, inoltre che dalla ricostruzione dei fatti operata dai Giudici di merito era emerso come la Società fosse stata amministrata dall’imputato sino all’inizio del novembre 2009 e che la cassa contante, che alla fine del 2009 presentava un valore di euro 141.536, non fosse stata rinvenuta dal Curatore Fallimentare in sede di inventario. Nel confermare le sentenze di merito, i Giudici di legittimità, sottolineano inoltre come l’assunzione formale della carica gestoria da parte dell’amministratore subentrato all’imputato fosse da ritenersi fittizia “in quanto relativa ad una società ormai inattiva e priva di ricchezza patrimoniale”. Conclusione quest’ultima avvalorata, ad avviso della Corte, anche dalla circostanza che era stato l’amministratore uscente a consegnare materialmente i libri e le scritture contabili al Curatore Fallimentare. In sostanza, ad avviso della Suprema Corte sulla scorta di quanto già affermato dalle sentenze di merito, era pacificamente emerso come l’imputato, anche in seguito alla dismissione della carica formale di amministratore unico della fallita, “ha continuato ad esercitare di fatto i poteri di amministrazione”, essendo il ruolo del successivo amministratore meramente fittizio. La pronuncia in commento si inserisce, dunque, nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale più rigido e fortemente ancorato alla valutazione, da effettuarsi - sotto i profili fattuali e iure - caso per caso, per la verifica della concreta e reale operatività dei soggetti che gestiscono la società, amministratori formalmente in carica e/o meri manager fittizi, di comodo. Reato di invasione per chi ospitato in casa Ater continua ad abitarla dopo rilascio del titolare di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2020 Nessuna buona fede è presunta per la continuazione del pagamento del canone e la richiesta di sanatoria conferma il dolo. Scatta il reato di invasione di edifici per chi, invitato dall’assegnatario di un appartamento Ater ad abitarvi, vi permane anche dopo la fuoriuscita del titolare. Diventa automaticamente un occupante abusivo, anche se continua in proprio a pagare il canone e ha domandato di sanare la propria posizione attraverso l’assegnazione a sé dell’appartamento popolare. Come dice la Cassazione con la sentenza n. 36557/2020 in una tale situazione scatta il reato dal momento in cui l’occupante si comporta come dominus sul bene di cui ha di fatto il possesso. La Cassazione contesta l’affermazione della buona fede e della conseguente assenza di dolo. Non è, infatti, prova di un incolpevole comportamento la circostanza che la ricorrente inizialmente ospitata nell’appartamento popolare vi sia rimasta dopo la fine della coabitazione col titolare al fine di assistere il figlio disabile. E anzi la domanda di sanare la propria posizione afferma la consapevolezza dell’abusività della condotta di permanenza nell’appartamento dopo il rilascio da parte del titolare. Piemonte. “Vaccini per il carcere”, situazione ancora delicata: l’appello del Garante torinotoday.it, 20 dicembre 2020 “Considerare la comunità penitenziaria tra i destinatari prioritari della somministrazione del vaccino anti Covid”. È quanto chiede il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano nella lettera indirizzata al presidente della Giunta regionale Alberto Cirio, all’assessore alla Sanità Luigi Icardi e al commissario generale dell’Unità di crisi Vincenzo Coccolo. “Come tutti i luoghi chiusi, a cominciare dalle Rsa - spiega - anche il carcere è un ambiente particolarmente a rischio per il diffondersi del Covid-19. Si tratterebbe, quindi, di tutelare i circa 4.300 detenuti e i circa 3.500 operatori penitenziari tra agenti e collaboratori amministrativi: un’azione per prevenire l’esplosione di focolai di contagio assai difficili da gestire per la mancanza di spazi d’isolamento e di distanziamento sociale e per disinnescare possibili tensioni e timori che facilmente possono innescarsi nell’ambiente penitenziario”. Il Gruppo tecnico interistituzionale sanità penitenziaria (Gtisp) - organismo istituzionale dell’Assessorato alla Sanità cui partecipano la Magistratura, l’Amministrazione penitenziaria e i responsabili sanitari e regionali del settore - ha formalmente condiviso l’appello di Mellano. “I detenuti al momento positivi nelle carceri piemontesi - conclude - sono al momento 37: 13 a Cuneo, 12 a Saluzzo, 11 a Torino e 1 ad Alessandria; gli operatori penitenziari sono invece 22: i 9 a Torino, 7 ad Alessandria, 3 a Cuneo e 1 rispettivamente a Fossano, Biella e Verbania”. Campania. Il Garante dei detenuti: “Il Covid fa paura, i detenuti vanno vaccinati” di Chiara Carlino cronachedellacampania.it, 20 dicembre 2020 “Subito un piano di vaccinazioni per i detenuti delle carceri di Poggioreale e Secondigliano dove sono reclusi più della metà dei detenuti della Campania e dove in questi mesi si è registrato il più alto numero di contagi e si è verificato, purtroppo, anche il decesso di detenuti, di un medico e di un agente della polizia penitenziaria”. Il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello torna a sottolineare l’importanza di un piano di vaccinazioni contro il Covid che includa, tra le priorità, anche chi vive e chi lavora all’interno degli istituti di pena e chiede l’intervento concreto della politica. “Venite ad ascoltare le nostre ragioni sabato mattina, in occasione del presidio davanti a Poggioreale. Venite a comprendere il disagio del mondo penitenziario. Il mio invito - afferma Ciambriello - è di venire ed entrare anche nel carcere. Perché non si può più perdere tempo per adottare provvedimenti che possono ridurre la presenza nelle carceri sovraffollate e consentire a quante più persone possibile di scontare, con misure alternative al carcere, la propria pena. Si può fare - sostiene il garante - senza alcun pericolo sociale, allarmismi e falso giustizialismo, nel rispetto della Costituzione e anche di tutte le vittime perché la pena non deve essere mai vendetta e non può essere contraria al senso di umanità e di giustizia”. Così, mentre sul piano politico è già iniziato lo scontro per il piano di attribuzione dei vaccini nella prima fase e per la ripartizione fra le Regioni (ripartizione che ha sollevato il dissenso del governatore De Luca che insisterà nella richiesta di commisurare il piano di attribuzione dei vaccini a criteri oggettivi per evitare disparità di trattamenti e competizioni territoriali), sul piano locale si continua a fare i conti con i bollettini Covid anche all’interno delle carceri. Per quel che riguarda il mondo dietro le sbarre, i dati più aggiornati fanno riferimento a un totale di 73 detenuti positivi (due dei quali ricoverati in ospedale) e 93 contagi fra il personale che lavora all’interno degli istituti di pena. In particolare, ci sono 10 positivi nel carcere di Poggioreale, 61 nel carcere di Secondigliano, 2 in quello di Benevento. Garante e penalisti da tempo sostengono la necessità di considerare tra le priorità, oltre a medici, infermieri e anziani ricoverati nelle residenze sanitarie assistenziali come finora previsto dal piano nazionale, anche un piano di vaccinazioni in tempi rapidi all’interno delle carceri. “Il presidente del Consiglio regionale Gennaro Oliviero l’ha chiesto per tutti i detenuti e il personale delle carceri campane - spiega Ciambriello - Propongo di cominciare almeno dai due principali istituti cittadini dove i contagi hanno provocato già dei decessi”. Sicurezza, salute e dignità in carcere, di questo si parla. In nome di questi diritti domani alle 11 scatteranno un presidio davanti a Poggioreale e una giornata di sciopero della fame a cui ha già aderito la Diocesi di Napoli e a cui Ciambriello chiede che si uniscano anche i politici. All’appello del garante Ciambriello, della pastorale carceraria e di don Franco Esposito, cappellano di Poggioreale, hanno finora aderito il cardinale Crescenzio Sepe, frati e parroci di frontiera, cappellani delle carceri e volontari. “Sarà un giorno di digiuno per la dignità dei detenuti, affinché nessuno sia dimenticato, affinché chi ha sbagliato possa pagare il suo debito ma non a prezzo della vita, affinché chi è detenuto abbia diritto alla tutela della propria vita e affinché il carcere non sia un luogo separato dalla società”. “Ogni vita - conclude il garante - dev’essere salvata da un virus che non conosce limiti né barriere”. Genova. Come evitare che un carcere diventi un focolaio di contagi. Il caso di Marassi di Alessandra Rossi agi.it, 20 dicembre 2020 Il direttore del penitenziario di Genova racconta come ha fronteggiato il Covid, Nella struttura che conta 650 detenuti e 370 tra agenti e dipendenti civili, registrati solo 16 casi. Seicentocinquanta detenuti, di cui 637 in carcere e i restanti al momento fuori (il decreto Ristori a fine ottobre ha introdotto la possibilità di uscire fino al 31 dicembre per chi ha un residuo di pena di 18 mesi e il permesso di non rientrare in cella di notte per i detenuti in semilibertà, ndr). Un personale che, tra polizia penitenziaria e civili, oscilla tra le 350 e le 370 unità. Un sovraffollamento che insiste anche in questo anno di pandemia Covid, visto che la casa circondariale di Marassi, a Genova, ha una capienza ottimale di 450 detenuti. Nonostante questo, il carcere, pur con mille difficoltà, ha cercato di tenere sotto controllo il virus, arrivando a registrare tra prima e seconda ondata un solo picco di 16 casi di positività che, ad oggi, si è ridotto ad un solo caso tra detenuti e zero tra il personale: “Il monitoraggio da parte della Asl è stato eccellente. In più noi siamo stati molto prudenti”, dice all’Agi Maria Milano, dal 2015 direttore della casa circondariale di Genova. Con lei abbiamo ripercorso questo quasi anno di emergenza sanitaria per capire come la pandemia, che ha stravolto tutto il mondo, sia stata vissuta tra le mura sorvegliate del carcere. Subito sospesi i colloqui, contatti solo da remoto - “Appena è scattato il lockdown, sono stati sospesi i colloqui con l’esterno - racconta Milano - Abbiamo immediatamente dato la possibilità ai detenuti di avere colloqui da remoto. Ci siamo attrezzati da subito con telefonini, prima con i nostri in sede, poi utilizzando quelli forniti il Dipartimento. In questo modo siamo riusciti a traghettare questa situazione”. Non è stato semplice: “Noi non sapevamo nulla: c’era un nemico invisibile di cui non conoscevamo le dimensioni. E anche i detenuti erano in grosse difficoltà - spiega il direttore di Marassi - Per questo abbiamo attivato un’opera capillare di informazione ai detenuti e si è cercato di arginare le situazioni più complicate, dando magari la possibilità di telefonare un po’ più spesso”. I colloqui in remoto, come quelli in presenza, durano un’ora, e le telefonate 10 minuti: la tempistica è rimasta invariata rispetto al pre-covid. “Per i non abbienti, abbiamo messo a disposizione i telefonini dell’amministrazione penitenziaria”, dice Milano. E così Marassi ha alzato le prime difese contro il virus, chiudendosi in una specie di “bolla”, come nelle Rsa. Ma il “nemico invisibile” poteva in qualche modo valicare anche le mura della struttura e insinuarsi tra le celle, nei laboratori, negli spazi comuni: “Le docce, ad esempio, sono in stanza in tutto l’istituto, tranne che in un piano di una sezione. Qui il problema non c’è stato. Le celle sono rimaste con una capienza massima di 6 detenuti. Quando facciamo la domiciliazione fiduciaria, i detenuti sono massimo 4 in cella. Abbiamo l’isolamento quando si presentano sintomatologie legate al Covid e, in questo caso, mettiamo insieme detenuti positivi dalla stessa data”. Per quanto riguarda i Dpi, ci sono state varie fasi: “In un primo momento venivano utilizzati solo dal personale e dai detenuti che svolgevano attività lavorativa - spiega Milano - Poi in una seconda fase, quando il Dap ha stabilito che per uscire dalla propria sezione tutti dovevano avere mascherina, abbiamo raccolto i dpi necessari, con una grandissima risposta anche dal territorio. La grande attenzione si è rivolta ai nuovi detenuti, che provenivano da una situazione di libertà, e per tutti coloro che incontravano persone provenienti dall’esterno quali avvocati, magistrati, interpreti, parenti”. Aumentati i controlli: arrestata una 80enne che portava droga a un detenuto - A maggio poi sono ripresi i colloqui in presenza, ben monitorati e con le giuste precauzioni, in primis i parafiati: “Ma abbiamo notato un abbattimento dei colloqui - sottolinea Milano - Si è passati da 50-60 al giorno, a 10, massimo 18. Responsabilmente, come si fa con gli ospiti delle Rsa, molti parenti hanno scelto di non venire. Alcuni di quelli che vengono, abbiamo notato, di solito sono ‘costretti’. Qualcuno magari si comporta da corriere, provando a portare stupefacenti, e dietro ci sono storie tragiche, donne costrette a farlo: ci è capitato di arrestare una signora di 80 anni, per esempio. Venendo meno persone i controlli sono ancor più capillari”. Ma le misure messe in atto per arginare il Covid hanno portato anche a qualche piccolo miglioramento: “Di fronte all’esplosione della pandemia - racconta il direttore di Marassi - molti detenuti hanno manifestato la propria preoccupazione, perché da un lato, sebbene avessero a disposizione i mezzi di informazione, non riuscivano a capire cosa stesse succedendo fuori, un po’ come tutti noi. Dall’altro temevano per i propri parenti. I colloqui da remoto, le telefonate, hanno in questo senso aiutato tante persone a ristabilire contatti con familiari che non vedevano da tempo, perché magari in Nord Africa, in altri stati. Qualcuno, tramite quel video, poteva entrare di nuovo a casa sua, vedere che magari erano state fatte ristrutturazioni. Un detenuto ci ha mostrato la sua abitazione, un altro il suo gatto che aveva lasciato cucciolo e che ora era un bel micione. Insomma, abbiamo conosciuto tante piccole storie di quotidianità”. Ad aiutare Marassi a tenere sotto controllo il virus è stata anche l’applicazione di protocolli ben più rigidi di quelli stabiliti a livello centrale: “Siamo stati molto prudenti, anche se è stato complicato riuscire a far capire come mai ci fosse una nota governativa che diceva una cosa e da noi invece venivano applicate misure ancor più restrittive”, dice Milano. In particolare, “quando un detenuto risultava debolmente positivo, o anche il personale, ed erano passati 21 giorni, la persona continuava ad essere isolata e l’agente non rientrava in servizio. Anche per quanto riguarda lo screening, abbiamo vissuto due fasi: una prima in cui sono stati fatti test sierologici a tutti. È stata una parte molto faticosa, perché erano emersi diversi casi di positività. La seconda fase ha visto invece la creazione di un protocollo con la Asl, secondo il quale i detenuti all’ingresso sono sottoposti a tamponi e poi vengono messi in domiciliazione fiduciaria per 8 giorni”. “Il tampone viene fatto sia all’inizio che alla fine dell’isolamento. Inoltre, tutte le volte che i detenuti vengono trasferiti in una comunità terapeutica o in un luogo esterno, vengono tamponati sia all’uscita che nel caso in cui rientrino. Per quanto riguarda il personale -prosegue - è altamente consigliato che dopo 7 giorni all’esterno si sottopongano a tampone. Essendo su base volontaria, nel caso in cui non facessero il tampone, devono lavorare con mascherine ffp2. A corollario di questo, vi è uno screening sul personale ogni 15 giorni”. Il coronavirus ha colpito più duramente la popolazione anziana, non da meno quella del carcere: “In realtà abbiamo avuto solo un anziano ricoverato con Covid - ha precisato Milano - poi è tornato in carcere. Quel che abbiamo constatato è che molto spesso i detenuti anziani non hanno familiari. E anche quando avrebbero potuto usufruire del differimento della pena nella forma della detenzione domiciliare, non avendo domicilio o parente che li accogliesse, a pensare a loro siamo rimasto solo noi”. Il carcere non è solo pena, ma rieducazione: Marassi ha tantissimi laboratori attivi e un teatro. Il Covid ha però rallentato tutto questo: “Le attività di contatto si svolgono per via telematica - ha spiegato Milano - Molte delle iniziative vanno avanti coinvolgendo detenuti che appartengono alla stessa sezione, con l’obiettivo di evitare promiscuità. Anzi, in alcuni casi si svolgono con detenuti dello stesso piano. Vi è un afflusso minore di volontari: arrivano uno per volta perché cerchiamo di ridurre al massimo i contatti con l’esterno”. Per Natale un pacco dono a ogni detenuto - E anche per quanto riguarda il Natale, “sarà ridimensionato, come in tutto il mondo - fa notare Milano - Il tradizionale pranzo di sant’Egidio non ci sarà, ma la Comunità regalerà un pacco dono con generi alimentari più speciali per ogni detenuto. Da Coop e Caritas sono arrivati i panettoni. Poi ci sarà la tradizionale Messa con l’arcivescovo di Genova, Mons. Tasca. Consentiremo anche un po’ di socialità, ovvero la possibilità per i detenuti di andare sullo stesso piano nella cella di un altro detenuto, a mangiare insieme”. Il 2021 invece è visto come l’anno del vaccino, con l’obiettivo di mettere fine all’incubo pandemia. In questo senso, Marassi - paragonato ad una Rsa, quindi teoricamente tra le prime realtà ad usufruire dei vaccini a gennaio - in realtà attende indicazioni sulla tempistica. Napoli. “Fame di giustizia e sete di verità”, presidio a Poggioreale di Oscar De Simone Il Mattino, 20 dicembre 2020 “Fame di giustizia e sete di verità” è questo l’appello lanciato dal presidio, promosso dalla Pastorale carceraria della Diocesi di Napoli e dal garante campano Samuele Ciambriello, che stamattina dalle 11 si è tenuto davanti al carcere di Poggioreale a Napoli. Un giorno di digiuno perché “nessuno sia dimenticato, perché chi ha sbagliato possa pagare non a prezzo della vita e perché il carcere non sia un luogo oscuro e separato dalla società”. Queste - in sintesi - le ragioni alla base della manifestazione organizzata dalla Pastorale carceraria della Diocesi di Napoli, presieduta da Don Franco Esposito cappellano del carcere di Poggioreale, e dal Garante campano per i detenuti Samuele Ciambriello. Un presidio, tramutatosi poi in marcia attorno le mura della casa circondariale, che ha visto la partecipazione di associazioni territoriali, rappresentanti del mondo della chiesa e dei familiari dei reclusi. Ma non solo. Durante la giornata di solidarietà, anche il ministro per gli affari europei Vincenzo Amendola ha visitato la struttura, ribadendo l’importanza della prossima vaccinazione anti-covid per gli operatori carcerari. “La condizione carceraria - ha affermato il ministro - è al centro dell’azione di questo governo. Anche in questa campagna di vaccinazione il personale sanitario e delle carceri, entrerà nelle categorie di protezione. Ecco perché bisogna essere, soprattutto in questo momento, molto uniti e coesi in ogni settore in cui ci troviamo ad operare. Inoltre pensiamo che si debba investire nella qualità delle carceri e nella ricchezza umana che già da tempo, vediamo all’opera proprio all’interno degli istituti di pena”. Qualità della vita che proprio adesso, è particolarmente attenzionata dai garanti per i detenuti Samuele Ciambriello e Pietro Ioia che chiedono attenzione sui numeri. Sono 73 infatti, i detenuti attualmente positivi in Campania. 5 a Poggioreale ed 1 esterno in ospedale, 66 a Secondigliano e 2 a Benevento. “Proprio sui numeri non bisogna minimizzare - ricorda il garante per i detenuti campani Samuele Ciambriello - perché se sono morti 4 detenuti in regione, un agente di polizia penitenziari (a Santa Maria Capua Vetere) ed un medico a Secondigliano mi chiedo cosa sia stato fatto per evitare questa situazione. Noi oggi vogliamo dire che il carcere non può essere la vendetta della giustizia e che si può coniugare la certezza della pena con la sua qualità. Ecco perché oggi digiuneremo. Per far sentire la nostra voce insieme a quella di chi sembra averne per questa società. Anche per questo siamo felici dell’adesione alla nostra causa, dell’arcivescovo di Napoli Mons. Domenico Battaglia”. Milano. Storia della “Pane quotidiano”, associazione che pensa ai più deboli in una città distratta di Gioacchino Criaco Il Riformista, 20 dicembre 2020 Tre-quattrocento grammi di pane, un litro di latte, la pasta, il formaggio, la verdura. Per Natale ci sarà pure il panettone. Fra 3.500 e 4.000 sono le persone a cui la Onlus Pane Quotidiano, fornisce un pacco alimentare a ogni giornata, in Lombardia, fra le sedi di Monza e Milano. In viale Toscana la strada sale leggermente, in basso, dal semaforo, si può osservare il sinuoso tracciato del marciapiede che porta alla sede milanese della organizzazione umanitaria: per anni gli automobilisti la strada la hanno percorsa in fretta, pure se c’era il rosso stavano distratti, non guardavano al travaglio umano che si dipanava sul rialzo di lato alla carreggiata. Di chi fosse quella gente non importava tanto, nemmeno la si notava, i pochi a scorgerla tiravano su i finestrini anche se fosse agosto: le facce di quelli in coda erano di un altrove che un mare del sud aveva scaricato a Milano, magari da un altro pianeta. C’erano i migranti, un po’ di clochard. Ora le foto delle file, davanti al Pane Quotidiano per il pacco alimentare, montano le pagine dei giornali, si lasciano cliccare sui siti online. Adesso lo sanno tutti che la fila è fatta di affamati. I finestrini, anche se è dicembre, vanno giù, per vedere meglio, quasi per sentire l’odore della povertà che proviene dalla fila. Tutto ha una sua dignità, ogni gesto umano, dipende da come lo si porge. Anche nel chiedere, nell’accettare c’è nobiltà, se ci si rivolge o si acconsente con la risolutezza del non dovere nulla in cambio se non la riconoscenza. La fila in viale Toscana, insieme all’altro, comprende un mondo nostrano che molti vorrebbero venisse anch’esso da un pianeta lontano. Invece gli occhi di chi passa incrociano nella fila sguardi familiari: sembrano quelli di un qualunque vicino, di un amico con cui i contatti si sono persi da un po’. I migranti, i soliti clochard, e sempre più gente come chi ancora monta su una macchina per passare sul viale, gente che qualche tempo fa passava distratta, teneva il finestrino su. Eravamo noi anche prima, in quella fila, ma non ci riconoscevamo, perché avevamo volti più scuri, pelle cotta dal sole, vestiti laceri. È cambiato che ora ci riconosciamo facilmente, negli abiti che sono esattamente come i nostri, nei visi perfettamente identici ai nostri. Non ci distraiamo più. Siamo talmente concentrati che se qualcuno non ci suona da dietro, restiamo inchiodati all’asfalto anche col verde. È una fila che c’è da anni, che ogni anno nuovo si ingrossa, che il covid19 sta allungando a dismisura, così, fra qualche mese si dovrà impegnare pure il marciapiede che arriva dall’altro viale, Tibaldi. Così fra qualche mese saranno più i nostri degli altri, che magari riusciremo a sentire anch’essi nostri ché il bisogno è la colla sociale più forte, il più grande demolitore di muri. Sul viale Toscana si dipana un’umanità che è un atto d’accusa, la prova di un meccanismo sociale rotto, che si occulta da anni: un ruscello che è diventato fiume e che adesso svanisce nel letto carsico di una pandemia che dopo i vaccini mostrerà un disastro a cui non siamo preparati. L’ascensore sociale è caduto fragorosamente giù dall’ultimo piano e si sono aperte infinite porte girevoli fra la sussistenza e la povertà. Ne nascerà un dramma che colpirà forte, sarà l’ultima ondata dell’infezione. Ancona. Studenti e detenuti tra gli stand del mercato natalizio di Campagna Amica anconatoday.it, 20 dicembre 2020 Per i consumatori ci sarà la possibilità di creare il proprio pacco di Natale per un regalo all’insegna del gusto e della qualità. Tutte le novità previste. L’orto sociale del carcere di Barcaglione e l’azienda agricola dell’Istituto Agrario Morea Vivarelli di Fabriano tra i protagonisti del mercato di Natale che Coldiretti Ancona allestirà domani, dalle 9 alle 19, in piazza Cavour (angolo lato Inps). Oltre 20 aziende agricole con tutti i prodotti di qualità dal campo alla tavola: salumi, olio extravergine di oliva, vino, miele, legumi, cereali, verdure, formaggi, visciola e dolci natalizi alla visciola con la possibilità anche di allestire pacchi natalizi da mettere sotto l’albero. Per i consumatori ci sarà la possibilità di creare il proprio pacco di Natale per un regalo all’insegna del gusto e della qualità. Acquisto che significa anche aiutare l’economia locale. Se da un lato la vendita diretta cresce del 26%, con una spesa media passata nel 2020 da 27 euro a 34 euro secondo uno studio Coldiretti/Ixé, trainata da una riscoperta dei cibi salutari da parte degli italiani, è anche vero che questo aumento non riesce a compensare le perdite subite a causa delle chiusure di bar e ristoranti bar, ristoranti e trattorie che realizzano quasi 1/5 del fatturato durante le feste di fine anno. Un calo drastico che si ripercuote poi su tutta la filiera agroalimentare e che i consumatori possono alleviare preferendo i prodotti locali e Made in Italy: oltre ad avere maggiori garanzie di qualità in tavola, possono così aiutare l’economia nazionale e garantire maggiori opportunità di lavoro a sostegno della ripresa in un momento di grande difficoltà”. Foggia. Una catena di solidarietà per il carcere quotidianodifoggia.it, 20 dicembre 2020 Un ponte di solidarietà sempre più solido unisce la città di Foggia al carcere, grazie all’associazione Genoveffa De Troia. Il 17 dicembre i volontari hanno donato al cappellano Fr. Eduardo Giglia beni di prima necessità per l’igiene personale. “Abbiamo acquistato un quantitativo importante di lamette per la barba, dentifricio, spazzolini, detergente e shampoo. Saranno custoditi - spiega la volontaria Francesca Idea - nel ‘magazzino della solidarietà’, fondato oltre 50 anni fa dalla nostra compianta presidente, Anna Rita Nicoletti, modello esemplare di altruismo e di amore per i poveri”. Ma non saranno le uniche donazioni previste per il mese di dicembre. “Purtroppo, a causa della pandemia, noi volontari non possiamo entrare in carcere, nel rispetto della normativa anticovid: il cappellano è il nostro messaggero di solidarietà in questo momento. A lui consegneremo, prossimamente, anche centinaia di paia di scarpe e indumenti donati - con grande generosità - dalla signora Antonella Pepe della ditta ‘L’AutoSport’ di Lucera”. Un gesto nobile che segue, di poche settimane, la consegna di abiti e biancheria acquistati dalla Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, con la collaborazione del CSV Foggia. “Oggi i nostri volontari - continua Francesca idea - in primis gli storici collaboratori Remo Del Sordo, Potito Grandone e Flora Pistacchio e, di recente, Emanuele Scopece, forniscono il loro prezioso contributo a distanza, come è giusto che sia in questo difficile momento”. Una catena di solidarietà per i cittadini indigenti che trova un anello solido anche nel Club Rotary Foggia Capitanata, che - nelle persone del Presidente Gianni Cerisano e della Past President Antonella Riccardo - ha deciso di acquistare indumenti per i cittadini in condizione di fragilità e di consegnarli nelle mani dei volontari della Genoveffa De Troia. Un acquisto fatto presso la ditta Lucas di Foggia che, a sua volta, ha deciso di fornire un proprio contributo alla causa. L’Associazione, ispirata al modello di vita della venerabile e costituita nel 1985 (pur operando attivamente dal 1968), ha da sempre mostrato il suo impegno negli Istituti penitenziari e nei confronti dei ragazzi a rischio, favorendone una socializzazione alternativa e aiutandoli nel recupero scolastico. I volontari, inoltre, sono impegnati quotidianamente nel sostegno materiale e spirituale alle persone fragili come anziani, migranti, famiglie indigenti. “L’impegno del carcere - sottolinea il presidente, Mario Cusenza - è sempre presente in noi perché vediamo nell’uomo e nelle donne detenuti, al di là delle colpe e degli errori, la dignità, i bisogni, i sentimenti”. Roma. I detenuti di Rebibbia portano in scena Dante, una lezione per la nostra classe politica di Guido Vitiello Il Foglio, 20 dicembre 2020 Inscatolare senza distinzioni i propri simili in un generico inferno, variando la data di scadenza, è, prima che inumano, spaventosamente privo di fantasia. Cos’ha da dirci Leopardi sull’apocalisse climatica? E Foscolo sul dramma dei migranti? Niente, non hanno da dirci niente. Dio, che tormento le attualizzazioni dei classici, peggio ancora se a danno di incolpevoli scolaresche deportate in un teatro, con tanto di predica civile di qualche vip del mercato della pubblica indignazione. Che intollerabile strazio, con una sola eccezione: le carceri, la cui popolazione è refrattaria a certi osceni esibizionismi della virtù e quotidianamente alle prese con la stessa materia magmatica da cui è germinata la grande letteratura. Nel 1984 cinquanta detenuti di Rebibbia portarono in scena l’Antigone davanti alle alte cariche dello stato, e c’è da immaginare la tensione esistenziale serpeggiante sul palco o tra i creonti in platea, dove a ogni rintocco di Sofocle qualcuno si sarà sentito chiamare per nome e per cognome. Ieri pomeriggio - un passato che è ancora futuro, per me che scrivo - i detenuti del reparto di Alta sicurezza G12 di Rebibbia hanno trasmesso in streaming le prove dello spettacolo “Dante Alighieri il latitante”. Leggo nel comunicato che “i detenuti-attori inventano un confronto ardito fra peccati e reati, gironi infernali e bracci penitenziari”. Non so se qualcuno degli sciagurati che calcano la scena politica nazionale li abbia ascoltati. Mi auguro che dalle sottigliezze del contrappasso e dall’arte di calibrare la pena sulla colpa avrà capito che inscatolare senza troppe distinzioni i propri simili in un generico inferno, variando la data di scadenza e poco altro, è, prima che inumano, spaventosamente privo di fantasia. Roma. Nuova vita per il carcere di Santo Stefano, i lavori finiranno entro il 2025 di Giada Nocella ilfaroonline.it, 20 dicembre 2020 In un’ottica di sviluppo sostenibile e integrato il progetto non riguarderà soltanto il carcere e l’isolotto di Santo Stefano, ma anche l’isola madre, ovvero Ventotene. “Un luogo simbolico di memoria e visione dei valori e del futuro dell’Europa e del Mediterraneo che dalla storia del carcere trarrà ispirazione per una “Scuola di alti pensieri” dove saranno ospitate esperienze di cittadinanza, di formazione e di creatività artistica” è così che il commissario straordinario del Governo, Silvia Costa, ha definito il progetto di recupero che riguarderà, in quello spazio sospeso tra cielo e terra, l’ex carcere borbonico di Santo Stefano. Un ambizioso progetto che ha un duplice obiettivo: in primis, rivolgersi alle nuove generazioni, attraverso un campus europeo, che offra un’esperienza di cittadinanza e di ricerca, ricordando il passato, insegnando loro il peso specifico della memoria, insegnando loro cosa ha significato quel luogo, poi diventato culla dell’Europa che oggi conosciamo. Ma anche quello di trasformare il carcere in un polo di attrazione turistica e culturale (con eventi e spettacoli) ma anche in una residenza spirituale. Un ambizioso progetto che servirà anche a celebrare gli 80 anni, nel 2021, del Manifesto di Spinelli, Rossi e Colorni, scritto nel confino dell’isola di Ventotene. Una data che ancor più cementerà questa storia a quella forse meno nota ma significativa dell’ex carcere di Santo Stefano, dove per 200 anni sono stati imprigionati anche oppositori politici come Settembrini e Spaventa fino agli antifascisti e padri costituenti Pertini e Terracini. Tempi e costi del progetto - La Presidenza del Consiglio ha voluto che il progetto di recupero diventasse il simbolo anche di quelle che sono le priorità politiche presenti nell’agenda del Governo. Per questo, tra gli obiettivi principali è stata posta la tutela dell’ambiente e della biodiversità, la promozione di forme di sviluppo economico sostenibile, la valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico e la formazione e alla ricerca. Ma se il progetto è ambizioso e vuole essere anche il fiore all’occhiello di questo Governo, è lecito chiedersi: quanto verrà a costare? Ebbene, il progetto conta su un finanziamento per complessivi 70 milioni di euro, destinato dal CIPE agli interventi necessari per preservare la struttura e consentirne la valorizzazione. Per quanto riguarda i tempi, invece, durante la conferenza, la Costa ha spiegato che i lavori potrebbero terminare non prima del 2025. Le difficoltà del progetto - Un progetto ambizioso e appassionante, che, però, non è scevro di difficoltà. Santo Stefano, che fa parte con la vicina isola di Ventotene della Riserva Naturale Statale e dell’Area Marina Protetta, infatti, è un’isola non abitata, senza approdi, acqua e luce (vi sono solo cisterne per l’acqua piovana), con numerosi vincoli paesaggistici, ambientali e idrogeologici, dove sorge il Complesso carcerario borbonico dalla straordinaria forma del Panopticon, chiuso dal 1965 e in avanzato stato di degrado. “Per questo - ha sottolineato la Costa -, sono state chiamate le maggiori aziende italiane più avanzate per farne un vero e proprio modello di sviluppo sostenibile”. Non solo. In un’ottica di sviluppo sostenibile e integrato il progetto non riguarderà soltanto il carcere e l’isolotto di Santo Stefano, ma anche l’isola madre, ovvero Ventotene. “Ventotene - ha sottolineato la Costa - passa dai 300 abitanti invernali, ai 5mila d’estate, con carenze infrastrutturali e difficoltà economiche. Per questo, abbiamo deciso di adottare un modello di intervento che permetterà di mettere al centro la comunità isolana, anche grazie al supporto delle associazioni locali e della Regione, che interverrà con risorse aggiuntive.” Poi la Costa ha anticipato che, sempre in quest’ottica, si sta per firmare un Protocollo per sostenere l’imprenditorialità dei giovani. Il cronoprogramma - Consapevole delle difficoltà, appena nominata, a febbraio, la Costa si era adoperata per riattivare il progetto, lanciato tre anni fa, sia salvaguardando le risorse stanziate (70 milioni di euro) sia approvando il Piano Operativo e il Cronoprogramma insieme alle Istituzioni del Tavolo che presiedo e a Invitalia, quale soggetto attuatore. Per quanto riguarda il cronoprogramma dei lavori, è bene sottolineare che, già dallo scorso mese di novembre sono stati avviati i primi lavori “in somma urgenza” su alcune parti della struttura ritenute a rischio crollo e sullo sbarco della Marinella, per garantire la sicurezza delle maestranze impegnate nei lavori. Ed è stato approvato il progetto degli interventi di messa in sicurezza dell’intero complesso carcerario e dell’approdo. A gennaio, invece, partirà una gara di appalto di quasi 10milioni di euro per la realizzazione della messa in sicurezza di tutti gli edifici e di restauro conservativo del nucleo storico, che inizieranno nella primavera 2021. E, sulla base del documento presentato ieri, sarà approvato lo Studio di Fattibilità affidato a Invitalia e subito dopo partirà il Concorso internazionale di progettazione dell’intero complesso. Inoltre, c’è la speranza che il Ministero dell’Ambiente approvi il progetto del nuovo approdo entro l’estate prossima, così da consentire di indire la gara per la sua realizzazione. Per il 2022, invece, si prevede che, durante i lavori, potranno partire le prime visite guidate e i primi cantieri scuola. Previsti, inoltre, i lavori di riqualificazione dei giardini e del paesaggio e gli interventi artistici. Infine, secondo il cronoprogramma presentato ieri, per il 2023 sono previsti la costruzione di residenze formative, artistiche e giovanili. E ancora: sono previsti i lavori per l’allestimento museale e servizi, di eventi, spettacoli e percorsi ambientali. Nel complesso, il progetto di recupero permetterà il recupero in primis e il restauro poi di tutti gli edifici dell’ex carcere (compresi chiesa e cimitero), come anche è prevista anche la riqualificazione ambientale degli spazi esterni e in particolare della Piazza della Redenzione, nonché la realizzazione di un Giardino Mediterraneo emblematico, il restauro del giardino della Casa del Direttore e del Cimitero, il restauro del paesaggio dell’area dell’ex campo di calcio, la riqualificazione dei percorsi di arrivo al complesso monumentale. Infine, previsto anche il recupero funzionale dei terrazzamenti, con un progetto pilota per la gestione sostenibile dell’ambiente terrestre e della agricoltura innovativa. Nel futuro con la bussola delle disuguaglianze di Filippo Barbera Il Manifesto, 20 dicembre 2020 Il Recovery Fund ci pone di fronte alla scomoda domanda: “chi desideriamo essere?” Non solo o non tanto come individui, ma come collettività organizzata. Non è facile ammettere che il Recovery Fund ci obbliga a occuparci del nostro futuro e, soprattutto, ci chiede di fare conti con le implicazioni che questo, come fatto sociale e culturale, comporta per il nostro vivere in comune. Il Recovery Fund ci pone di fronte alla scomoda domanda: “chi desideriamo essere?” Non solo o non tanto come individui, ma come collettività organizzata. Il timore più grande non è per il “futuro incerto”, ma anzitutto per le condizioni necessarie a immaginare un futuro condiviso. Condizioni che obbligano a chiederci con chi costruire il futuro, attraverso quali conflitti, per il tramite di quali confronti pubblici, mediante quali impegni credibili. Il futuro è un fatto culturale, sostiene l’antropologo Arjun Appadurai, e dipende dalla capacità di aspirare delle persone. Chiederci come usiamo il nostro tempo e interrogarci se lo stiamo utilizzando bene, facendo i conti con la finitezza e caducità delle nostre vite, è “l’essere generico” che ci caratterizza come esseri umani, scrive Martin Hagglund in Questa vita (Neri Pozza 2020). Qualità, questa, che non ha nulla di naturale e non è data una volta per tutte, ma dipende dalle condizioni materiali e dalla libertà sostanziale di cui godiamo. Così, la capacità di aspirare è fortemente segnata dalle diseguaglianze materiali e immateriali relative a ricchezza, capitale culturale, autostima e senso del controllo. Il futuro non è di tutti, ma solo di chi ha il potere di immaginarlo. Fare i conti con le condizioni necessarie per immaginare chi vogliamo essere insieme significa non chiudere gli occhi di fronte alle diseguaglianze che impediscono una reale democratizzazione del futuro. Nelle società in cui la capacità di aspirare è privilegio di pochi, appannaggio di “élite del tempo”, i progetti biografici, la scala delle priorità e le immagini del futuro di una minoranza diventano i repertori culturali che danno forma alle aspirazioni legittime per tutti, anche di chi non ha le risorse per ottemperare alle false promesse di un domani immaginato da e per i pochi. Ciò genera delusione, aspirazioni mancate, disallineamento tra desideri e risultati e, quindi, rabbia, risentimento, apatia e distopie quotidiane. Non c’è futuro senza la costruzione condivisa di un “noi” proiettato nel tempo a venire: chi vogliamo essere come collettività? A cosa aspiriamo? La pervasiva carenza di meccanismi politico-istituzionali di costruzione del “noi” lascia spazio a ripiegamenti sulla propria individualità disperata, facile preda di una politica della nostalgia da parte degli imprenditori della paura. Senza un progetto comune, non c’è un vero “noi” proteso verso il domani. Ma solo una somma di “io” orientata al passato. E da una somma di “io” nativisti, come dai diamanti, non nasce niente. Non ogni tipo di società è ugualmente adatta a esprimere un orientamento collettivo al futuro, così come non lo è ogni tipo di organizzazione economica o politica. A fare la differenza è la presenza di luoghi concreti, di ramificazioni territoriali della sfera pubblica, di corpi intermedi e delle loro necessarie intermediazioni. Ci sentiamo parte di qualcosa di collettivo orientato al futuro solo se esistono luoghi terzi dove i problemi e i bisogni individuali qui e ora diventano impegni condivisi, proiettati nel futuro e accessibili a tutti. In quali occasioni, oggi, abbiamo questa possibilità? Quante “opportunità di futuro” ci offre lo spazio pubblico? Quanto spesso abbiamo occasione di sperimentarci, insieme ad altri, in azioni e riflessioni dove i nostri bisogni trovano soluzioni che chiamano in causa gli assetti sociali più generali? Dove i futuri possibili prendono di petto le diseguaglianze, i poteri, le diversità individuali e territoriali che ci connotano qui e ora come collettività? Dove, cioè, un problema privato - occupazionale, di abitazione, di salute, di qualità della vita - si traduce in una soluzione futura che coinvolge idee, valori e meccanismi di funzionamento potenzialmente validi per tutti? E dove questa messa a tema si confronta con l’alterità e le diseguaglianze di potere riconoscendo i bisogni, i valori e gli interessi di cui sono portatori i soggetti marginali? Riconoscendo cioè la “voce” di chi occupa una posizione periferica, o perché privo di cittadinanza pur vivendo da anni nel nostro Paese, oppure perché residente in uno dei tanti luoghi che non contano, o in quanto vittima di diseguaglianze di classe. I marginali, gli “altri”, in queste e altre accezioni, devono essere riconosciuti, nella loro capacità di futuro, anzitutto come persone morali. Soggetti marginali i cui comportamenti testimoniano la validità di un sistema di valori e interessi da cui dipende il futuro di tutti. Pensiamoci: quanta paura abbiamo di confrontarci in modo radicale con le diseguaglianze e le diversità che costituiscono le condizioni necessarie per immaginare, oggi, il nostro futuro? Da qui, più che vuote parole chiave in ossequio allo spirito del tempo, deve partire la discussione pubblica sulle risorse del Next Generation Europe. Migranti. L’orrore nascosto lungo la rotta balcanica di Marinella Salvi Il Manifesto, 20 dicembre 2020 Si cerca di nasconderli sotto il tappeto, come se questi esseri umani fossero polvere” ha detto ieri Nello Scavo alla conferenza stampa di Grei 250, rete di Ong medici giornalisti avvocati per i diritti dei migranti. Arrivano a Trieste piagati, affamati, terrorizzati. Lungo la rotta balcanica hanno subito pestaggi e ruberie, sono stati riportati in Bosnia una due tre dieci volte; adesso sono qua. A piccoli gruppi, ogni giorno, alla ricerca di un treno che li porti più dentro all’Europa, al nord, via, dove forse c’è una vita possibile anche per loro. I corpi martoriati, solo negli occhi quella scintilla che non si spegne: la speranza, la voglia di vivere. A Trieste non c’è nulla per chi arriva a piedi, per chi vuole continuare il viaggio, solo i volontari davanti alla Stazione che, ogni pomeriggio, offrono un pasto, una coperta, un paio di scarpe e un primo intervento per curare le ferite. Il Comune, quest’anno, non ha nemmeno organizzato il solito “piano freddo”: chiuso da un anno l’Help Center, chiusi tutti i centri diurni, chi non ha un tetto dorme in strada. O sotto le enormi arcate dell’ex Silos, tra immondizie, ratti, fango ghiacciato. Quel che succede lungo il confine è ben documentato: migranti restituiti alla Slovenia che li riporta in Croazia che li riporta in Bosnia. Poco importa se hanno diritto alla protezione internazionale, se fuggono dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iraq. Nessuno permette loro di presentare una domanda, nessuno chiede loro chi siano. Quel che succede in Croazia si conosce da anni: brutalità, sevizie, sequestro di qualsiasi cosa, dal cellulare alla bottiglia d’acqua, persino le scarpe e sono documentati i casi di morti con necrosi ai piedi. Dormono nei boschi, mangiano quel niente che trovano, bevono dalle pozzanghere. A decine annegano nei fiumi che tentano di attraversare. Pare che molti non vedano, nonostante le foto, i video, i tanti documenti. Pare che a molti non interessino le pesanti responsabilità occidentali che hanno determinato questo esodo di popoli. Si è tanto discusso sui pullman che avevano riportato in Italia gruppi di migranti a Ventimiglia ma ben poco sulle centinaia di persone che l’Italia riconsegna nelle mani dei carnefici sul confine orientale. “Si cerca di nasconderli sotto il tappeto, come se questi esseri umani fossero polvere” ha detto ieri Nello Scavo alla conferenza stampa di Grei250, rete di ong medici giornalisti avvocati per i diritti dei migranti. Sono anni che Scavo, dalle pagine di Avvenire, documenta le violazioni dei diritti umani e le situazioni disumane in cui si trova chi si mette in viaggio e sta per uscire una nuova puntata della sua inchiesta “per sensibilizzare le autorità italiane e l’opinione pubblica”. Perché quel che succede sul confine orientale è addirittura più grave di quel che sappiamo della Libia e della rotta mediterranea: perché qui è Europa, qui si parla di Paesi europei, questo avviene dentro la nostra civile Europa. Sembra indigeribile eppure l’Italia viola consapevolmente qualsiasi legalità, in modo duraturo e strutturato e, di più, lo dichiara apertamente. “Non era mai successo ed è la parte più inquietante di questa orribile realtà: l’Italia ammette l’illegalità anzi la rivendica” dice Giancarlo Schiavone per Asgi ricordando la risposta scritta fornita dal Ministero dell’Interno l’estate scorsa: i migranti rintracciati entro dieci chilometri dalla fascia confinaria vengono respinti in Slovenia. E non può la ministra Lamorgese, né alcun altro, sostenere di non essere a conoscenza che questo vuol dire poi Croazia e poi Bosnia e piena violazione dei diritti umani. Bosnia! Dove persino il capo missione dell’organizzazione intergovernativa Oim ha annunciato di ritirarsi dal campo di Lipa perché ingestibile. Vede solo due scenari possibili: “Il primo è che all’ultimo minuto Sarajevo prenda la decisione che le persone vengano spostate in luoghi dove poter accedere a condizioni di vita adeguate e che si trovi un centro aggiuntivo per le 1500 persone che dormono ora all’aperto”. Altrimenti, aggiunge, c’è da aspettarsi solo una catastrofe umanitaria. Perché le migliaia di migranti ammassati in Bosnia sono in tende addossate a una discarica, perché troppi dormono all’addiaccio, perché il Governo vuole spostarli da un campo senza assistenza ad un altro dove non c’è nemmeno l’acqua. Onoriamo il Natale, ormai è vicino, ascoltiamo Papa Francesco ha chiesto don De Robertis di Fondazione Migrantes, nella consapevolezza che la Notte Santa è stata una notte di angoscia: una giovane coppia che non trovava un posto dove riposare, costretta a deporre il proprio neonato dove mangiavano gli animali. “Non può dirsi cristiano chi chiude la porta in faccia a un fratello”. E parliamo, denunciamo, non smettiamo di indagare. “Sulla rotta balcanica va acceso un faro, i giornalisti devono andare in quei luoghi e vedere dove si consuma la violazione dei diritti umani, Facciamo rete per impedire bavagli e oscurità” le parole di Beppe Giulietti. Abusi sui migranti della rotta balcanica, scende in campo l’Ue di Nello Scavo Avvenire, 20 dicembre 2020 Dopo le denunce su violenze e respingimenti, l’Agenzia Ue per i diritti umani: monitorare i comportamenti della polizia. Zagabria: violenze presunte. A Trieste con i volontari che curano le ferite. La lavanda dei piedi comincia all’ora del vespro. È il quotidiano rito dei volontari che ogni sera, nel piccolo parco tra la stazione e il vecchio porto, dai loro zaini da studente estraggono garze, cerotti, unguenti. Passano da lì gli impavidi del game, i superstiti della roulette russa dei respingimenti a catena, e a bastonate, verso la Bosnia. Cacciati fuori dai confini Ue. Dopo le nuove denunce di queste settimane, qualcosa tra Bruxelles e Zagabria si muove. L’agenzia Ue per i diritti fondamentali è pronta a monitorare i comportamenti delle polizie lungo i confini. Ma manca una data per l’avvio del piano di prevenzione degli abusi. Pochi giorni fa a Bruxelles hanno chiuso un rapporto che racconta di vicende sfuggite alle cronache e conferma che nella Commissione Ue tutti sanno. Nelle scorse settimane “una bambina afghana di sei anni, Madina Hosseini, è stata uccisa da un treno in transito al confine tra Croazia e Serbia” si legge nel dossier, che precisa: “Secondo il rapporto del difensore civico croato, Madina e la sua famiglia erano arrivate in Croazia e avevano chiesto asilo, quando è stato detto loro di tornare in Serbia”. Una violazione delle norme sul diritto d’asilo finita in dramma. La famiglia è stata trasferita “in un veicolo della polizia vicino alla ferrovia e istruita a seguire i binari fino alla Serbia. Poco dopo, la bambina di sei anni è stata uccisa da un treno”. Da Kabul a Trieste sono 4mila chilometri. Da qui il villaggio di casa è lontano, la guerra anche. C’è chi l’ultimo tratto lo ha percorso cinque volte. Perché acciuffato dagli agenti sloveni, infine riportato in Bosnia dopo una lezione della polizia croata. E c’è chi a Trieste invece c’era quasi arrivato, ma è stato colto dalla polizia italiana sulla fascia di confine, e poco dopo “riammesso” in Slovenia, come prevede un vecchio accordo tra Roma e Lubiana siglato quando implodeva la ex Jugoslavia. Scarpe sfondate, vestiti rotti, le caviglie gonfie e gli occhi troppo stanchi di chi l’ultima volta che s’è accucciato su un materasso era in un qualche posto di polizia. Per Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), è più che “anomalo che la riammissione possa avvenire senza l’emanazione di un provvedimento amministrativo”. Anche perché “è indiscutibile che l’azione posta in essere dalla pubblica sicurezza attraverso l’accompagnamento forzato in Slovenia produce effetti rilevantissimi - aggiunge - sulla situazione giuridica dei soggetti interessati”. Ricacciati indietro senza neanche poter presentare la domanda di protezione, molti passano per le mani delle guardie croate. Anche qui, però, il compatto muro di omertà tra uomini in divisa comincia a incrinarsi. La diffusione di immagini e filmati che documentano la presenza di gendarmi tra i picchiatori di migranti sta convincendo diversi agenti a denunciare anche i loro superiori. Gli ordini, infatti, arrivano dall’alto. Il merito è dell’Ufficio per la protezione dei diritti umani di Zagabria, dotato di poteri investigativi che stanno aprendo la strada a indagini della magistratura, garantendo l’anonimato ai poliziotti che collaborano con le indagini. Il ministero dell’Interno di Zagabria respinge le accuse arrivate nelle ultime settimane da testate come Der Spiegel, The Guardian e Avvenire, riguardo le violenze commesse dalle autorità lungo i confini. Foto e filmati mostrano uomini in divisa armati di spranghe e fruste. “Non si può confermare con certezza che siano membri regolari della polizia croata”, si legge in una nota. “La polizia croata protegge il confine dalla migrazione illegale, lo protegge dalle azioni illegali e dai pericoli - aggiunge - che possono portare con sé persone senza documenti e senza identità, e lo fa per fornire pace e sicurezza al popolo croato”. Tuttavia “non tolleriamo alcuna violenza nella protezione delle frontiere né (la violenza) è parte integrante delle nostre azioni”. Riguardo al filmato e alla ricostruzione di Border Violence Monitoring “concludiamo che non abbiamo registrato azioni in base alla data e al luogo dichiarati nell’annuncio”. Quali indagini siano state condotte non è però dato saperlo. “Controlleremo accuratamente i presunti eventi”. Mentre dal Carso i primi refoli della sera si scontrano con quelli che soffiano dal mare, i volontari appostati nei dintorni della statua della principessa Sissi si preparano a un’altra serata con dolori da alleviare e lamenti da ascoltare. Lorena Fornasier, 67 anni, psicoterapeuta, e suo marito Gian Andrea Franchi, 83 anni, professore di filosofia in pensione, passano spesso di qua. Raccolgono quelli messi peggio. Lo fanno da anni, senza clamore, e si devono a loro le prime denunce sui maltrattamenti subiti dove finiscono i Balcani e comincia la Mitteleuropa. “Bisogna portare in tribunale dei casi individuali con l’intento di definire un precedente che sia valido per tutti, per attivare dei cambiamenti normativi che permettano un maggiore rispetto dei diritti fondamentali”, osserva Giulia Spagna, direttrice per l’Italia del Danish refugee council, le cui squadre continuano a raccogliere prove di abusi lungo tutta la dorsale balcanica. “Da una parte - aggiunge - si devono offrire soluzioni concrete alle persone che hanno subito soprusi, attraverso supporto legale, oltre che medico e psicologico. Dall’altra usare questi episodi per influenzare le politiche europee e nazionali”. Stati Uniti. L’eredità peggiore di Trump sono le condanne a morte di Salvatore Vassallo* Il Domani, 20 dicembre 2020 Nel 1972 la Corte suprema dichiarò incostituzionale la pena di morte, che fu reintrodotta nel 1988. Tuttavia, tolte le 3 esecuzioni autorizzate da George W. Bush tra il 2001 e il 2003, è stata sempre mantenuta una moratoria, al livello federale. Nel solo anno elettorale 2020 Trump ha invece autorizzato il maggior numero di esecuzioni di qualsiasi altro presidente dagli anni Quaranta. Dieci sono state già effettuare, nonostante nei singoli Stati questa pratica medioevale sia in declino e sia stata ulteriormente limitata per il Covid. Per capire l’America divisa di oggi, gli eccessi di Donald Trump e il consenso che li ha alimentati, si deve considerare il ciclo aperto dalle presidenziali del 2008. La polarizzazione politica su basi razziali è anche una reazione alle innovazioni rappresentate dalla presidenza Obama. La circostanza che un leader e una famiglia nera (colta, popolare, cool) si siano insediati alla Casa Bianca ha riattivato pregiudizi latenti che Trump ha sfruttato nel 2016 con cinismo, gettando vari ami verso quella fetta di elettori bianchi, soprattutto maschi, evangelici, residenti in aree rurali, che sono poi diventati la frangia più intensa dei suoi sostenitori. Per tenere mobilitato quell’elettorato, Trump ha voluto completare il primo mandato con un record, che rappresenta la sua eredità più duratura: lo spostamento degli equilibri all’interno del sistema giudiziario federale. Un sistema che si affianca a quello degli stati e opera non solo per amministrare il diritto: lo produce. Soprattutto la Corte Suprema, ma anche le Corti d’appello, dove si concludono molti giudizi che non superano il filtro della prima. Le nomine dei giudici sono nelle mani del presidente (che le propone) e della maggioranza senatoriale (che le conferma). Nel 2008 i giudici di nomina repubblicana prevalevano in 10 Corti di appello su 13, dopo otto anni di Obama in 4. In un solo mandato di Trump sono state confermate 54 nomine e l’equilibrio è stato ribaltato in 3 casi. Con 3 nomine per la Corte Suprema la maggioranza conservatrice rimarrà blindata per una intera generazione. Con i 176 giudici nominati nelle Corti distrettuali è cambiato il volto di più di un quarto dell’organico complessivo. La reazione a Obama - Obama aveva intrapreso la strada della diversità nominando neri, latinos, asiatici, donne, gay in una quota mai vista. Anche per questo i repubblicani, allora in minoranza, usarono come non mai l’ostruzionismo, consentito dal regolamento del Senato. Nel 2013 i democratici decisero quindi di modificarlo tra le proteste dei repubblicani. Ma alle elezioni del 2014 i repubblicani ottennero la maggioranza e Mitch McConnell passò da minority a majority leader. Da quel momento le conferme sostanzialmente si bloccano. Così, all’avvio della sua presidenza Trump si ritrova con un gran numero di posizioni vacanti e pochi vincoli. I nuovi giudici sono, ovviamente, in larga parte maschi, bianchi, di provata fede iper-conservatrice. Anche il 6 a 3 nella Corte Suprema segnato da Trump è frutto di una sequenza simile. La giudice liberal Ruth Bader Ginsburg avrebbe potuto chiedere di andare in pensione in un momento in cui la nomina per sostituirla sarebbe stata proposta da Obama. Nel 2014, allora ottantunenne, spiegò perché non lo avrebbe fatto. Poiché il filibustering era stato disattivato solo per le corti di livello inferiore, a suo avviso Obama non sarebbe riuscito a far passare nessuna candidatura apprezzabile. Bader Ginsburg è stata sostituita nel 2020 da una giovane seguace del giudice Antonin Scalia, collega e amico di Ginsburg per una intera vita professionale, ma su posizioni ideologiche opposte. La buona notizia è che le tre nomine di super-conservatori alla Corte Suprema non sono servite al delirio di sovvertire il risultato elettorale. C’è però un altro triste record che Trump ha già battuto e ora si propone di migliorare. Il ritorno delle esecuzioni - Nel 1972 la Corte suprema dichiarò incostituzionale la pena di morte, che fu reintrodotta nel 1988. Tuttavia, tolte le 3 esecuzioni autorizzate da George W. Bush tra il 2001 e il 2003, è stata sempre mantenuta una moratoria, al livello federale. Nel solo anno elettorale 2020 Trump ha invece autorizzato il maggior numero di esecuzioni di qualsiasi altro presidente dagli anni Quaranta. Dieci sono state già effettuare, nonostante nei singoli Stati questa pratica medioevale sia in declino e sia stata ulteriormente limitata per il Covid. E’ dalla fine dell’800 che i presidenti uscenti sospendono decisioni del genere. Trump ha invece autorizzato l’uccisione di altri tre detenuti programmata per metà gennaio, pochi giorni prima dell’insediamento di Biden. Un gruppo di 51 diplomatici italiani si è attivato per fermare questo assurdo colpo di coda. Hanno scritto chiedendo il suo intervento a Callista Gingrich, ambasciatrice Usa presso la Santa Sede. Cattolica, moglie di Newt Gingrich, capo della maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti al tempo della presidenza Clinton, convertito anche lui al cattolicesimo dopo il matrimonio. Potrebbero entrambi spiegare a Trump che non ha senso sacrificare tre vite umane sull’altare di una battaglia elettorale persa e di una rivincita che forse non ci sarà. *Professore ordinario di Scienza politica e Analisi dell’Opinione Pubblica nell’Università di Bologna. Direttore dell’Istituto Cattaneo. Giulio, Patrick e i diritti negati in Egitto. L’approfondimento del Giornale Radio Sociale redattoresociale.it, 20 dicembre 2020 I casi di Giulio Regeni e di Patrick Zaki meritano giustizia e provvedimenti che facciano in modo che questa spirale di violenza e sopraffazione venga interrotta. Sono passati quasi cinque anni senza che sia stata fatta giustizia sulla vicenda di Giulio Regeni e senza che la verità su quanto accaduto sia emersa in maniera chiara. Una storia tornata di stretta attualità dopo che nei giorni scorsi la procura di Roma ha chiuso le indagini mettendo sotto accusa quattro membri dei servizi segreti egiziani. La scorsa settimana, intanto, è stata prolungata la detenzione di Patrick Zaki, attivista egiziano e studente dell’Università di Bologna da dieci mesi in carcere. Due vicende che hanno a che fare con la complessa questione dei diritti umani in Egitto e sul quale il Parlamento Europeo si è espresso proprio in queste ore attraverso l’approvazione di un’importante risoluzione. Su Giornale Radio Sociale è dedicato a questo l’approfondimento settimanale condotto da Fabio Piccolino, che si apre con la scheda di Elena Fiorani. “La ricerca della verità sul rapimento, la tortura e l’assassinio di un cittadino europeo non appartiene solo alla famiglia, ma è un dovere imperativo per le istituzioni nazionali ed europee che richiede di intraprendere tutte le azioni e le conseguenze diplomatiche necessarie”. Sono le parole della risoluzione presentata al Parlamento Europeo che chiede al governo egiziano di collaborare con le indagini in corso in Italia. Il testo sollecita inoltre una forte reazione diplomatica all’arresto e alla detenzione prolungata di Patrick Zaki. Al centro della discussione c’è poi il rapporto tra l’Egitto e l’Unione Europea, che non può continuare a rimanere indifferente alla costante violazione dei diritti umani. “La popolazione egiziana è oggetto di una repressione senza precedenti e la realtà continua a peggiorare ogni giorno in termini di diritti dell’uomo”, ha dichiarato l’europarlamentare belga Marie Arena durante la discussione in aula. Sul Giornale Radio sociale anche il commento della giornalista Antonella Napoli, direttrice di Focus on Africa. Le persone giustiziate dal governo del Cairo nel 2020 sono almeno 110, di cui 66 soltanto negli ultimi due mesi. La Ong americana Committee for Justice ha calcolato che da quando Abdel Fatah al-Sisi ha preso il potere nel 2013, sono state 1.058 le persone morte in carcere per torture, maltrattamenti, cure mediche negate. Una situazione di allarme costante, come spiegano ancora al Grs Antonella Napoli e Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. I casi di Giulio Regeni e di Patrick Zaki meritano giustizia e provvedimenti che facciano in modo che questa spirale di violenza e sopraffazione venga interrotta. Ascolta le notizie e gli approfondimenti su www.giornaleradiosociale.it. Regeni, l’avvocata Ballerini: “Sogno Giulio che cammina, gli daremo giustizia” di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 20 dicembre 2020 Alessandra Ballerini, 50 anni, si dedica al caso del ricercatore torturato e ucciso al Cairo: “Con i suoi genitori abbiamo imparato a volerci bene”. Tra Italia ed Egitto “rapporti di convenienza, affari, vendita di armi. Ma nonostante tutto continuo ad avere fiducia”. Dice con pudore che Giulio è diventato un pensiero costante, da quando alle 7 e mezza si sveglia. Dice anche che in casa non tiene foto sue (“ne ho tante ma stanno nei vari faldoni dell’inchiesta”), poi si corregge, incapace a mentire, e confessa di aver appeso un poster di Mauro Biani, con Giulio trasfigurato in una collina verde, su cui giocano dei bambini guardando una colomba che vola. “Mi capita di sognarlo, sì. Sempre felice, in quelli che immagino i suoi posti, per esempio a Duino, tra Trieste e Monfalcone, lungo la passeggiata cara a Rilke”. Nella dolente tragedia di Giulio Regeni, c’è una donna che non l’ha mai visto né conosciuto ma lo spirito di lui le si è conficcato nella vita come un dolore e un dovere. Si chiama Alessandra Ballerini, avvocato votato alla difesa dei diritti umani, genovese, 50 anni appena compiuti, gli ultimi prevalentemente dedicati al primo civile italiano torturato e ammazzato all’estero in tempo di pace. Di lei esistono solo dichiarazioni riguardanti il caso Regeni. Per il resto, sempre di lato, un passo indietro ai familiari. “Se non ci fossero stati loro, papà Claudio e mamma Paola, saremmo ancora all’incidente stradale dove ha perso la vita un ragazzo di Fiumicello, provincia di Udine. Prima versione dell’Egitto e fine della storia”. E invece Giulio continua a fare cose, anche se ormai sono quasi cinque anni che l’hanno straziato. Continua a farne grazie alla forza ostinata e instancabile di tre persone. Le prime due sono proprio i genitori: Claudio, pensionato, e Paola, ex insegnante. La terza è lei, Alessandra, avvocato da battaglia, difensore dei deboli (dai migranti alle donne maltrattate ai senza dimora) e adesso guerriera legale di una causa data per persa mille volte e mille volte riacciuffata prima che venisse inghiottita nelle sabbie mobili della convenienza diplomatica. Se il Parlamento europeo si è finalmente deciso a votare una risoluzione per pretendere dall’Egitto la verità sull’atroce fine di Regeni e la consegna all’Italia dei suoi assassini (e insieme a chiedere l’immediata liberazione di Patrick Zaki, lo studente egiziano adottato da Bologna, non per caso gemello di Giulio per età e passione civile), il merito è di quelle tre persone. Se ad aprile si celebrerà a Roma il processo a carico dei quattro ufficiali del Cairo che avrebbero rapito e per nove giorni torturato fino alla morte un ragazzo che era stato mandato lì dall’Università di Cambridge per una ricerca sui sindacati, il merito è ancora e soltanto di quelle tre persone. Per due di loro, i genitori, è una questione di sopravvivenza a un lutto insostenibile: giustizia, almeno quella, per un figlio bellissimo e perduto. Per l’avvocato Ballerini, non è più un lavoro, posto che lo sia mai stato: anche per lei, calarsi nel pozzo dove è stato precipitato Giulio e fare luce su una pena indicibile, ricostruendola stazione per stazione come in un calvario, è diventato qualcosa che va al di là dell’impegno professionale. “Parliamo di una storia come non ce n’è. Quando hanno fatto ritrovare il cadavere, il 3 febbraio 2016, dopo nove giorni dove l’hanno sfigurato, la madre l’ha riconosciuto dalla punta del naso. Capisce, la punta del naso”. Quando è cominciata per lei questa storia come non ce n’è? “Il 31 gennaio mi ha chiamato una grande amica di Giulio, preoccupatissima. Faccio qualche telefonata, contatti con politici e giornalisti per provare a capirci qualcosa. Poi mi cercano i genitori, che erano già al Cairo. Accolgo la loro richiesta e da allora non ci siamo più lasciati. Ricordo un collega che mi disse: difensore dei Regeni, sarai contenta… Forse lo faceva per gentilezza, ma trovai molto stonata la parola contenta”. Poi è diventata una di famiglia... “Loro non sono la mia famiglia né io la loro figlia. Nessun transfert. Certo non sono dei clienti, ma io non considero nessuno un cliente. Li assisto, accompagno il loro viaggio. Ecco, abbiamo imparato a volerci bene: condividere tante emozioni nello stesso momento è una forma d’amore. Ridiamo anche, sa? Un po’ di ironia allenta la tensione. Abbiamo dato dei soprannomi in codice ai vari personaggi che ci siamo trovati sulla strada: Cicciobomba, i Magnifici 7, la Bionda, Sancho Panza, ma non mi chieda a chi corrispondono”. Che persone sono, i Regeni? “Sono due esseri straordinari e perfettamente complementari. Sanno benissimo che niente colmerà il vuoto di Giulio. Ma un’altra cosa sanno: che non vogliono adesso targhe nelle vie. Non è ancora il momento della memoria. Questo è ancora il momento della lotta. Come per la scarcerazione di Patrick Zaki, ma è meglio non dire perché temo che ogni volta che il suo nome viene accostato a quello di Regeni la sua situazione rischi di peggiorare”. E lei perché lotta? “Perché mi farebbe male assistere inerme a un’ingiustizia. Provare a riparare dei torti è una cosa che dà senso al vivere. E poi Giulio era Giulio. Dolce, educato, cittadino del mondo, aveva studiato ovunque, dal New Mexico all’Inghilterra. Ed era sveglio. Quella era la terza volta che andava in Egitto. Conosceva i pericoli. No foto, perché magari riprendi un obiettivo sensibile e ti fermano subito. Mai due volte con lo stesso tassista”. Perché proprio lui, allora? “È la domanda che ci tormenta. Metti insieme tanti tasselli ma il quadro non torna mai. I colleghi del Cairo me l’hanno detto tante volte: smettila o diventi pazza, tu sei nativa democratica, qui la vita conta zero, eliminare qualcuno non ha lo stesso valore come da voi, e poi il regime è paranoico, vede spie dappertutto, elimina tre o quattro persone al giorno magari giusto per un sospetto, e Regeni era sospettabile, raccoglieva informazioni sui sindacati governativi e indipendenti, e cosa vuoi che interessi se lo faceva per studio o perché lavorava per qualche nemico, nel dubbio lo cancellano”. Prima di cancellarlo, però, sono passati nove giorni. Possibile che il nostro governo non sia riuscito a liberarlo prima? “Il presidente del Consiglio era Renzi, in buoni rapporti con Al Sisi, il comandante in capo egiziano. In un’audizione parlamentare dirà di aver saputo della sparizione di Regeni il 31 gennaio, sei giorni dopo. Mi pare poco credibile, e se fosse vero sarebbe ancora più grave. Torniamo sempre ai rapporti di convenienza, agli accordi economico-militari, armi in cambio di soldi. Come l’ultimo: a noi un miliardo di dollari, a loro 6 fregate, 40 jet, un satellite a scopi bellici, più i sistemi di spionaggio. E questa è proprio pazzesca: gli vendiamo gli strumenti per individuare le persone che poi catturano e torturano grazie a noi”. La cosa che le ha fatto più male in questi anni? “Sono tante. Quando il premier Gentiloni rimandò al Cairo l’ambasciatore Gianpaolo Cantini dopo averlo richiamato. La non risposta ai genitori di Giulio di ritirarlo adesso. Ma su tutte il pensiero che più angoscia i signori Regeni è che cosa deve aver provato loro figlio quando ha realizzato che non ne sarebbe uscito vivo, che l’avevano abbandonato e mai più nessuno sarebbe venuto a salvarlo”. L’ingresso nella stanza numero 13, quella dei supplizi, in una delle caserme del servizio segreto civile egiziano... “Non voglio essere costretta a vedermelo dentro quella stanza. Un paio d’anni fa, ero al Cairo per delle indagini, quando mi prelevano e mi portano in una camera con una scusa di un problema sul passaporto. I poliziotti mi stanno addosso, mi fumano in faccia, sono grossi e brutti, hanno gli occhi come se fossero drogati, parlano arabo in modo concitato. Venti minuti dura il trattamento, li ricordo uno per uno, e sono uscita senza un graffio. Faccia lei il paragone con i nove giorni di Giulio”. Che cosa l’ha spinta a diventare quello che è diventata, avvocato per i diritti civili? “L’esempio di mia madre, una casalinga. Aiutava tutti, dava l’elemosina a chiunque incontrasse, i mendicanti venivano direttamente a casa nostra a chiedere, e la porta si apriva sempre”. Bilancio dei suoi primi 50 anni? “Quando li ho compiuti, a fine novembre, ho pensato: speriamo di arrivare fino alla fine del processo di Giulio. La signora Alpi e suo marito sono morti prima di avere giustizia per Ilaria. I processi, specialmente questi, sono lunghi. Il nostro comincerà con gli imputati in assenza, rappresentati da avvocati d’ufficio. Poi ci saranno i vari gradi e chissà quante interferenze. Ma nonostante tutto io continuo ad avere fiducia. Sono state le confessioni di persone che hanno sentito di non poter più tacere a portarci alle quattro incriminazioni. E altre ancora forse parleranno. Se lo faranno davvero, ciò che resta del muro della vergogna cadrà giù”. E quando cadrà? La tomba di Giulio si trasformerà in una collina verde come nel disegno che tiene in casa? “Io non ho figli, ma non credo sia necessario averli per intuire, almeno intuire, che cosa significherebbe per i genitori di Giulio arrivare, dopo questo immenso dolore, alla verità. Basta un po’ di cuore per capirlo”. L’Egitto vuole il silenzio sui processi. Carcere a chi diffonde articoli o immagini dai tribunali di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2020 Il testo di legge è in discussione al Consiglio dei Ministri ed è abbastanza improbabile che possa subire una marcia indietro. Il governo fa sapere che l’intento della nuova norma è quello di garantire i diritti degli imputati. “Sappiamo già come rispettare i loro diritti, rispettiamo i codici deontologici”, protesta un reporter egiziano a Ilfatttoquotidiano.it. “La legge è incostituzionale - dicono dalla ong Eipr - per questo ne chiediamo il ritiro”. Dopo averne arrestati e lasciati nelle prigioni di Stato a decine negli ultimi anni, adesso il regime di Abdel Fattah al-Sisi ai giornalisti mette il bavaglio: è in fase di approvazione una modifica del codice penale egiziano che prevede pene detentive e pesanti sanzioni pecuniarie per chi pubblicherà foto, riprese video, in generale parole e immagini all’interno delle aule di tribunale. Un qualsiasi operatore dell’informazione rischia una pena fino a un anno e una multa non inferiore a 100mila sterline egiziane (circa 5.200 euro). Con l’aria che tira e la crisi dell’editoria, durissima anche in Egitto, saranno pochi gli audaci giornalisti disposti a rischiare simili conseguenze. Così Il Cairo compie un passo ulteriore verso l’isolamento internazionale in materia di diritti inalienabili dopo aver firmato e controfirmato accordi e trattati internazionali in materia giuridica. Il testo di legge è in discussione al Consiglio dei Ministri ed è abbastanza improbabile che il provvedimento possa subire una marcia indietro. Anzi, tutt’altro, considerato l’uso preliminare già tacitamente in vigore: “Di recente io stesso mi sono trovato davanti ad una simile restrizione - racconta a Ilfattoquotidiano.it un giornalista di una testata vicina al regime che preferisce rimanere anonimo - Accade sempre più spesso ormai durante le udienze che il giudice impedisca ai professionisti dell’informazione di lavorare e tutti fanno riferimento proprio a quella che per ora è una bozza di legge. Quasi si stiano adeguando ad un modo di fare anche se il testo non è ancora ufficiale. La bozza di legge l’ho letta, è confusa, scritta male, in alcuni punti davvero povera. Il governo giustifica l’adozione di un simile disegno di legge per tutelare i diritti dell’imputato, ma è chiaro che si tratta di una banale scusa perché noi stessi abbiamo piena consapevolezza di come garantire le tutele a chi non rispetta la legge. Esistono regole di deontologia chiare, sappiamo da soli fin dove poterci spingere, non abbiamo bisogno di ulteriori giri di vite”. Se, come prevedibile, il disegno di legge dovesse passare, oltre ad un colpo alla libertà di stampa a pagarne le conseguenze sarebbe, al contrario di quanto pensa il governo, proprio la tutela dei diritti degli imputati. Sono in molti a ritenere che la misura sia stata cucita su misura per limitare al massimo la conoscenza di quanto accade dentro le aule dei tribunali egiziani, specie agli imputati passati per le mani della Nsa, la Sicurezza nazionale. Sui cosiddetti reati di coscienza, meglio silenziare ogni spiraglio di libertà, specie in un periodo in cui il regime si sente gli occhi di molti Paesi e organismi internazionali addosso. Su detenuti ‘scomodi’, come Patrick Zaki e Alaa Abdel Fattah, premiati proprio in questi giorni con la cittadinanza onoraria del Comune di Parigi, sarà sempre più difficile avere informazioni di prima mano se non attraverso gli sparuti colloqui con i rispettivi legali. Cosa diranno e in quali condizioni andranno alla sbarra durante le singole udienze, in particolar modo gli attivisti per i diritti umani, sarà sempre più difficile da rendere noto. In Egitto i processi sono pubblici, a meno che sia necessario garantire alcune tutele in materia di ordine pubblico e decenza morale. È lo stesso giudice a stabilirne i criteri, ma la regola base, ossia il fatto che le udienze siano pubbliche, non è un semplice punto di vista, bensì un dettame della stessa Costituzione egiziana: “Deve essere chiaro, il principio fondamentale delle udienze è che sono pubbliche - afferma l’avvocato Reda Marei dell’Eipr - Lo specifico articolo che si vuole introdurre nel codice penale prevede la richiesta da parte del giornalista di una serie di autorizzazioni prima di pubblicare notizia e immagini. Cosa praticamente impossibile in quanto per ottenerle tutte servirebbe troppo tempo. Il legislatore vuole oscurare ciò che accade nelle aule di tribunale. Il provvedimento va contro la Costituzione egiziana e vìola trattati e accordi internazionali firmati dal nostro Paese. I processi debbono essere pubblici per garantirne l’equità e adesso si vuole impedire alla stampa di entrare in aula. A livello di fattibilità, la bozza governativa si scontra con la Costituzione, tecnicamente la promulgazione non è possibile e dunque ne chiediamo la revoca”. Sud Sudan, la Chiesa contro lo spargimento di sangue di Luciano Zanardini La Stampa, 20 dicembre 2020 Continuano le uccisioni, nonostante la fine del lungo conflitto che ha insanguinato il Paese dal 1983 al 2005. La testimonianza di padre Christian Carlassare, missionario comboniano. Juliano Ambrose è solo l’ultimo di una lunga lista. Colpito alle spalle dagli spari, è morto insieme a un ufficiale dell’esercito. Catechista, era arrivato nella diocesi di Malakal, in Sud Sudan, per partecipare all’assemblea pastorale (una sessantina tra laici, preti e religiosi coinvolti), ma ha perso la vita nella strada tra Malakia e Muderia. Uccisioni sommarie che sono diventate una terribile “routine”, come afferma padre Christian Carlassare, missionario comboniano. I colpevoli, secondo la polizia, sono “uomini armati sconosciuti. Monta la paura motivata da tanta diffidenza causata dagli ultimi anni di conflitto”. La regione dell’Alto Nilo è stata divisa tra governo e opposizione: i Dinka sono schierati con il governo e gli Scilluk con l’opposizione. I due gruppi vivono separati: i Dinka in città, mentre gli Scilluk nel campo di protezione dei civili allestito dall’Onu. “Viviamo un momento di transizione in seguito ai trattati di pace dello scorso anno, ma i passi fatti sono ancora pochi e deludenti”. La Regione rimane l’unica senza governatore: la persona proposta dall’opposizione non è stata accettata perché viene considerata pericolosa dal governo per il processo di riconciliazione; per l’opposizione è, invece, la sola in grado di proteggere e dare fiducia alla parte debole della cittadinanza, a chi ha perso tutto. Non si sa quando questa situazione di stallo finirà. Sembra che le due parti non siano in grado di scegliere una terza figura neutra in grado di promuovere il bene di tutti. A novembre si è svolta l’assemblea per promuovere il dialogo nazionale, ma il risultato è stato messo in discussione dalla società civile. Un ruolo autorevole è esercitato dalla Chiesa che “mantiene il compito profetico di radunare tutti insieme, aiutando a superare”, spiega padre Christian, “le frammentazioni per scoprire una nuova fraternità, promuovendo la riconciliazione e lavorando insieme per il bene comune”. In prima linea ci sono i comboniani. “Qui a Malakal, oltre alla predicazione e alle tante celebrazioni, ci sono progetti concreti sia nel campo umanitario con la Caritas sia nel campo educativo con l’intenzione di recuperare tre importanti scuole (elementare, media e superiore) e riaprire le lezioni con il nuovo anno scolastico a marzo 2021”. Fra tutte queste difficoltà, la speranza è di riuscire “comunque a fare dei passi in avanti. In fondo, come diceva Comboni, “l’opera di Dio nasce sempre ai piedi della croce”. Carlassare ha dato da poco alle stampe il suo ultimo libro “La capanna di padre Carlo. Comboniano tra i Nuer”. È un romanzo nel quale padre Carlo rappresenta il modello del missionario odierno. “Ogni personaggio appare immerso nelle proprie contraddittorietà che non annientano la bontà di ciascuno. Se nessuno può essere innalzato, nessuno può al contempo essere condannato: il Signore sa scrivere dritto nelle righe storte di ognuno. E in tutto questo si percepisce quanto se da un lato la gente si discosta da un certo modello di cristianesimo, in verità ne vive alcuni valori fondanti nella sincerità e nella solidarietà”. Il conflitto che ha insanguinato il Sud Sudan (1983-2005) rimane di sottofondo a tutta la storia facendo emergere quanto la violenza abbia marcato il vissuto della società. Il testo, pubblicato da Fondazione Nigrizia, “vuole incoraggiare i lettori ad impegnarsi nella costruzione di una società più umana e fraterna, superando tutti quegli ostacoli che dividono le persone: l’ignoranza, la paura e il pregiudizio”.