Carceri, cresce la mobilitazione di Ida Bozzi Corriere della Sera, 1 dicembre 2020 117 studiosi si uniscono alla lotta contro il sovraffollamento. Cresce l’adesione alla protesta civile contro il sovraffollamento delle carceri, tanto più grave in epoca di Covid-19, lanciata dal 10 novembre da Rita Bernardini, leader del Partito Radicale e di Nessuno tocchi Caino con uno sciopero della fame. Dopo che alla protesta si è unito lo scrittore Sandro Veronesi, che sul “Corriere” ha annunciato uno sciopero della fame di 48 ore in contemporanea con Roberto Saviano su “Repubblica” e Luigi Manconi sulla “Stampa”, ora l’adesione all’iniziativa viene dal mondo accademico, con un documento che porta le firme di 117 noti docenti e studiosi di diritto penale e penitenziario da tutt’Italia, e ha come primi firmatari Giovanni Fiandaca dell’Università di Palermo e Massimo Donini dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e si rivolge al governo per chiedere “provvedimenti idonei a ridurre il più possibile il sovraffollamento delle carceri italiane”. “Come studiosi - spiega Fiandaca - siamo particolarmente sensibili a due principi: il primo è l’umanizzazione della pena, con un livello accettabile di protezione dei diritti dei detenuti, tra i quali prioritario il diritto alla salute”. I dati parlano di quasi duemila positivi tra detenuti e personali; Fiandaca ricorda l’elevata presenza nelle carceri di soggetti che accusano pluripatologie, con aumento del rischio di mortalità. “Il secondo - aggiunge Fiandaca - è questo: auspicheremmo che l’emergenza possa riaccendere i riflettori sul pianeta carcere e indurre il mondo politico a riprendere il cammino delle riforme”. Emergenza Covid in carcere e c’è chi minimizza… di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 dicembre 2020 Il Covid in carcere c’è, lo dimostrano i numeri: i detenuti che risultano contagiati sono 897, mentre il personale penitenziario è oltre i mille. Grazie all’intervista di Liana Milella fatta a Walter Verini, tesoriere del Pd e da sempre impegnato sui temi della giustizia, sappiamo che rispetto all’emergenza Covid in carcere per la posizione di chiusura del M5S non c’è nessuna speranza che passi la “liberazione anticipata” chiesta da Roberto Saviano, Luigi Manconi e Sandro Veronesi e per cui Rita Bernardini del Partito Radicale è in sciopero della fame da 21 giorni assieme ad altri 611 cittadini liberi e gli oltre 700 detenuti. Al massimo, se tutto va bene, potrebbero accogliere l’emendamento proposto da Franco Mirabelli, quello di portare da sei mesi a un anno i domiciliari senza braccialetto. Contagiati 987 detenuti e oltre mille operatori penitenziari - Il ministro Alfonso Bonafede, d’altronde, ha recentemente risposto al question time della Camera spiegando che per il Covid in carcere è tutto sotto controllo, il protocollo sanitario viene applicato e che comunque la maggior parte dei contagiati sono asintomatici. Tutto bene? Neanche per sogno. I detenuti che risultano contagiati sono 897, mentre il personale penitenziario è oltre i mille. Su Il Dubbio abbiamo parlato della situazione di Tolmezzo, ancor prima di Opera dove il virus ha contagiato per prima i 41 bis - uno è oramai in fin di vita - per poi diffondersi anche in As. Ma in questo momento altri penitenziari presentano forti disagi con relativi ricoveri gravi. A Sulmona ci sono 51 positivi, di cui 2 ricoverati gravi. Senza parlare dei tanti familiari che non vengono avvertiti dalle direzioni delle carceri sul ricovero per Covid dei loro cari. L’angoscia permane e ciò provoca anche l’altro allarme: il numero di contagi percepiti. Non avvisare i familiari, fa pensare sempre al peggio ed inevitabilmente arriva il passa parola ingigantendo i numeri. L’emergenza però non è percepita, ma vera. C’è chi sostiene che il Covid in carcere non è un problema - Però come accade nel mondo libero, c’è chi minimizza dicendo che addirittura nei penitenziari si è al più sicuro e non c’è il problema di ridurre la popolazione penitenziaria. “Solo una mente disturbata può pensare di difendere i detenuti dal Covid mandandoli a casa”, ha scritto recentemente Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Ovviamente non ha compreso il motivo della richiesta di introdurre misure deflattive più efficaci. D’altronde è colui che tempo fa scrisse che il sovraffollamento era “virtuale” e che addirittura avanzassero posti in cella. Quindi ci si augura che il ministro Bonafede non lo prenda in considerazione, ma che ascolti ad esempio le osservazioni del Garante nazionale delle persone private della libertà. Sì, perché nell’editoriale, Travaglio ha anche perso un po’ di numeri per strada, compreso le cinque morti attuali (non tre come scrive) provocate dalla seconda ondata. Ma quindi perché chiedere al più presto la riduzione del numero dei detenuti? Le misure deflattive del decreto Ristori non bastano - I luoghi chiusi e affollati sono bombe sanitarie. Se mancano gli spazi per attuare i protocolli e fare quindi gli isolamenti necessari, il contagio si diffonde. Ci sono casi - come Tolmezzo - dove la situazione è sfuggita di mano, perché per mancanza di spazio avrebbero messo i detenuti postivi con quelli negativi. I reclusi anziani e con gravi patologie sono quelli più vulnerabili e le carceri, perfino i luoghi considerati sicuri come il 41 bis, non sono in grado di proteggerli. Infatti ne sono morti già alcuni. Le misure deflattive del decreto Ristori non bastano e per questo il mondo civile, associazioni, garanti, giuristi e persone come la Bernardini che conosce il sistema penitenziario da una vita, stanno chiedendo al governo di intervenire efficacemente. Gli asintomatici sono la stragrande maggioranza dei detenuti contagiati? Vero, ma così è anche nel mondo libero, eppure l’emergenza c’è per evidenti motivi. Il carcere non è da meno. Anzi, per motivi appena elencati, ne è di più. Carceri: il Covid corre più veloce del Parlamento di Liana Milella La Repubblica, 1 dicembre 2020 Nessuna speranza che passi la “liberazione anticipata speciale” chiesta da Roberto Saviano e per cui Rita Bernardini è in sciopero della fame da 20 giorni. Sotto l’albero di Natale non ci saranno le piccole misure per alleggerire le carceri in tempi di Covid. Parlare di “clemenza” sarebbe fare dell’ironia. E tantomeno si può usare un’espressione, da sempre in voga, come norme “svuota carceri”. Il “pacchettino” Bonafede non è né l’uno, né l’altro. E comunque per Capodanno non ci sarà. Vittima, anche lui, del susseguirsi dei decreti Ristori, uno ad emendamento dell’altro. E resterà nel libro dei sogni la “liberazione anticipata speciale”, che non è né un indulto, né tantomeno un’amnistia, ma solo uno sconto di 30 giorni in più, rispetto ai 45 attuali ogni sei mesi, per quei detenuti che non solo si comportano bene, ma seguono un percorso di riabilitazione per reinserirsi al meglio nella società. Si batte per ottenerla la Radicale Rita Bernardini, giunta al ventesimo giorno di sciopero della fame assieme ad altri 611 cittadini liberi e 699 detenuti, e che lo scrittore Roberto Saviano ha rilanciato sabato dalle pagine di Repubblica. Ma - come dice sempre a Repubblica, il capogruppo del Pd in commissione Giustizia Franco Mirabelli, “su questa misura che abbiamo proposto anche noi c’è una netta chiusura del M5S”. Così, mentre l’Italia s’avvia a diventare gialla, le carceri invece resteranno grigie. Cioè quello che sono sempre state. Luogo di repressione e di pena, come piace dire alla destra. Luogo di recupero e di ravvedimento, come sognano tutti coloro che da anni portano avanti una battaglia per una detenzione umana, giusta, che recupera il detenuto anziché farlo diventare peggiore di quello che era quando è entrato in cella. Le carceri che vorrebbe Rita Bernardini, che ogni giorno riceve notizie di penitenziari che si aggiungono alla sua battaglia, l’ultimo è quello di Tolmezzo, dove tutti i detenuti sono orientati a fare uno sciopero della fame a staffetta. Si muovono anche i docenti di diritto penale che, con Giovanni Fiandaca, hanno promosso un appello per diffondere i messaggi di Bernardini. Il punto sui numeri ad oggi - Ma partiamo dai numeri. Quelli forniti oggi dal Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, che settimanalmente aggiorna il bollettino del Covid. I detenuti presenti nelle 192 prigioni italiane sono 53.830. I detenuti che risultano contagiati sono 897. E coinvolgono 83 penitenziari, rispetto al totale dei 192. Il Garante fornisce anche la distinzione rispetto al virus: 806 detenuti risultano asintomatici e si trovano all’interno degli istituti di pena; 20 sono ugualmente asintomatici, ma non sono mai entrati in carcere perché trovati positivi già all’ingresso; altri 2, sempre in entrata, sono risultati sintomatici. Infine 31 detenuti sono già stati ospedalizzati. Più alto il numero dei contagiati tra chi lavora in carcere, ben 1.012 tra agenti di polizia penitenziaria e operatori. Le misure per il carcere in Parlamento - Sono contenute nei decreti Ristori gli interventi del Guardasigilli Alfonso Bonafede per alleggerire il peso del Covid in cella. Riassumibili in due filoni. Del tutto fuori dal carcere chi già oggi gode, ma solo contemporaneamente, di un permesso premio e anche di un permesso per lavoro, quindi già passa all’esterno metà della giornata. Mirabelli ha già proposto un emendamento che trasformi una “e” in una “o”, cioè fuori dal carcere chi ha il permesso di lavoro ma anche chi ha il permesso premio, senza che le due misure agiscano contemporaneamente. Solo in questo caso la misura potrebbe riguardare 1.300 persone, perché sono 700 i detenuti con un permesso di lavoro e 600 quelli con un permesso premio. La seconda misura chiesta da Bonafede riguarda la possibilità di scontare la pena a casa per chi ha ancora 18 mesi di residuo, ma con l’obbligo del braccialetto elettronico per tutti quelli che superano i sei mesi. Una misura che potrebbe riguardare 3.400 detenuti. E per la quale sempre Mirabelli ha proposto di portare da sei mesi a un anno i domiciliari senza braccialetto. Mentre Rita Bernardini, sostenuta da Saviano, chiede che i 18 mesi salgano a 24. Anche sui tempi il Pd emenda Bonafede. Perché il ministro della Giustizia mette come scadenza delle misure anti Covid il 31 dicembre, mentre i Dem propongono il 31 gennaio, o comunque il termine dell’effettiva emergenza. Ovviamente i numeri dei domiciliari, come spiegano sia Palma che Mirabelli, vanno contestualizzati, perché ottenere i domiciliari significa avere un domicilio. Quindi sono esclusi tutti coloro che non ne hanno uno. E qui si apre una trattativa con i Comuni per trovare un’alternativa. E c’è l’emendamento sempre del Pd alla Camera - di cui ha parlato con Repubblica il responsabile Giustizia del Pd Walter Verini - sul Recovery Fund per inserire una posta anche per far fronte a questa esigenza. Il che non vuol dire comprare case, ma per esempio mettere i Comuni nella condizione di utilizzare degli alloggi esistenti. La chimera della “liberazione anticipata” - Che vuol dire “liberazione anticipata speciale”? Significa portare dagli attuali 30 a 45 giorni ogni sei mesi lo sconto per i detenuti che, seguendo effettivi percorsi di recupero, dimostrano la loro volontà di reinserirsi nella società. Buoni detenuti, per intenderci. Se oggi, uno sconto di 45 giorni ogni sei mesi, frutta in un anno tre mesi di pena in meno, con uno sconto di 75 giorni il bonus passerebbe a 5 mesi di sconto ogni anno. Secondo calcoli approssimativi questo porterebbe a far uscire dalle prigioni circa 2mila persone. Quindi, solo se si realizzassero tutte queste misure, nella versione più ampia possibile, si potrebbe arrivare a circa 5mila detenuti in meno. Ma si tratta di numeri del tutto approssimativi. Che comunque farebbero scendere la popolazione carceraria sotto le 50mila unità attuali. In ogni caso, sulla liberazione anticipala c’è il no di M5S. E quindi non passerà. Le richieste di Rita Bernardini e di Saviano - A smuovere il problema delle carceri, da 20 giorni, c’è la Radicale Rita Bernardini e con lei l’associazione Nessuno tocchi Caino. Bernardini è giunta al ventesimo giorno di sciopero della fame, mentre chi sostiene il suo progetto, come Saviano su Repubblica, Luigi Manconi sulla Stampa e Sandro Veronesi sul Corriere, lo fanno in segno di solidarietà solo per 48 ore. Bernardini dice oggi di “stare relativamente bene” e ironizza su un mal di schiena che non le passa. Nel pallottoliere delle adesioni segna che ci sono a oggi “611 cittadini liberi e 699 detenuti” in sciopero della fame. È notizia di oggi anche che tutto il carcere di Tolmezzo - uno degli istituti di massima sicurezza con numerosi reclusi al 41bis - starebbe per aderire allo sciopero, tenendo conto che tutte le misure escludono dai benefici chi ha commesso reati gravi e gravissimi, dalla violenza sessuale, al terrorismo, alla mafia. E c’è l’appello dei docenti di diritto lanciato da Fiandaca. Bernardini, che si è sempre battuta sin dai tempi di Marco Pannella per amnistia e indulto, li considera “provvedimenti da varare immediatamente non solo per l’emergenza carceri, ma anche per quella dei tribunali ancora più paralizzati del passato a causa della pandemia”. Ma sa bene che questa strada è politicamente del tutto non percorribile perché l’attuale Parlamento non raggiungerebbe mai i due terzi dei voti necessari, senza contare i tempi molto lunghi di approvazione. Le misure che chiede Bernardini sono “la liberazione anticipata, il blocco dell’esecutività delle sentenze passate in giudicato, a meno che la Procura valuti che il condannato possa mettere in pericolo la vita o l’incolumità delle persone, proposta dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, e portare a 24 mesi la platea dei beneficiari della detenzione domiciliare speciale”. Ma, come abbiamo visto, gli ostacoli politici su questo percorso sembrano al momento del tutto insormontabili. “Ora la riforma del carcere”. Il Pd chiede la svolta al M5S di Errico Novi Il Dubbio, 1 dicembre 2020 Estendere i benefici ai detenuti, al di là dell’emergenza: dossier riaperto con Bonafede. Verini: “Importante come le riforme del processo e del Csm”. La novità è che i dossier giustizia ora sono quattro. “E hanno tutti la stessa importanza”, spiega al Dubbio Walter Verini. “La riforma del processo penale, quella sul civile, il ddl sul Csm e la riapertura del progetto Orlando sul carcere”. Da alcuni mesi tesoriere del Pd, Verini è nel suo partito una figura chiave anche sulla giustizia. Negli ultimi due anni ha seguito, insieme con il sottosegretario Andrea Giorgis, gran parte delle discussioni aperte col guardasigilli Alfonso Bonafede. Non era scontato che in una legislatura prossima al giro di boia potesse riaprirsi il confronto sull’ordinamento penitenziario. E invece il partito di Nicola Zingaretti è intenzionato a non assecondare la posizione del ministro della Giustizia. Gli ha già chiarito che non bastano le due direttrici individuate da via Arenula, cioè l’edilizia penitenziaria, che sarà finanziata dal Recovery, e il rafforzamento delle opportunità di lavoro per i detenuti, prevalentemente inframurarie con poche concessioni all’attività esterna, più che altro in campo minorile. Il Pd non la pensa così. In materia di carcere ha idee esposte in gran parte proprio da Verini nell’intervista di ieri a Repubblica. Il deputato della commissione Giustizia ha anche chiarito la linea dem sulla questione più urgente: il sovraffollamento in tempo di covid: “Non siamo a febbraio quando c’erano oltre 62mila detenuti, oggi sono 9mila di meno. Grazie a misure del governo che il Pd vuole migliorare, come fa in Senato con gli emendamenti al decreto Ristori”. Cioè “domiciliari senza braccialetto a chi deve scontare solo 12 mesi e ha tenuto una buona condotta (oggi la misura è prevista solo fino alla soglia dei 6 mesi di pena, anche residua, ndr)” e aumento della riduzione “di 30 giorni rispetto ai 45 attuali ogni sei mesi a chi ha seguito percorsi rieducativi”. Si tratta di modifiche all’impianto deflattivo, veramente molto blando, previsto nel decreto Ristori bis. Se ne discuterà a Palazzo Madama sabato e domenica prossimi, quando si concentrerà l’esame degli emendamenti nelle commissioni congiunte Bilancio e Finanze. Non si parlerà solo di sostegni economici alle imprese colpite dalle restrizioni (e non ai professionisti, per ora) ma appunto anche di giustizia. Carceri comprese. Il Pd prova a ottenere dall’alleato 5 stelle un passo più deciso sulla decongestione dei penitenziari. Obiettivo immediato, che le opposizioni vorrebbero veder realizzato in modo anche più ambizioso. Anche se sul fronte del centrodestra è solo Forza Italia ad aver depositato emendamenti per ampliare gli effetti delle norme già inserite nel Ristori bis: anziché prevedere uno sbarramento rigido per evitare i braccialetti, araba fenice del sistema carcerario, gli azzurri propongono che sia il giudice di sorveglianza a valutare caso per caso se il detenuto può andare ai domiciliari comunque o se il suo profilo impone il ricorso al dispositivo elettronico. Quasi certamente passerà la proposta del Pd, condizionata dalla buona condotta formalmente riconosciuta al carcerato. Ma il respiro di questi correttivi è limitato all’emergenza Covid. La convinzione manifestata dai democratici a Bonafede è che in prospettiva si debba uscire dalla visione carcerocentrica. Battaglia non facile. Anche perché troverà sponde, dalle parti del centrodestra, solo tra i berlusconiani. Lega e Fratelli d’Italia non vogliono sentir parlare di maggiori benefici per la popolazione carceraria. Ma ci sono alcuni nodi da tenere presenti. Primo: la riforma del carcere è una partita che proprio il Pd aveva aperto e poi sospeso, dopo che Andrea Orlando a inizio 2018, da ministro della Giustizia, decise con l’allora premier Paolo Gentiloni di non affondare il colpo e di tenere in freezer il decreto legislativo chiave del suo progetto. Si tratta delle misure che avrebbero superato le rigidità e, almeno in parte, le preclusioni ostative nella concessione dei benefici ai detenuti. Dai permessi al lavoro esterno. Il cuore della riforma Orlando, archiviato da Bonafede. In realtà proprio il Pd ci rinunciò, all’epoca. Adesso sembra cambiato il vento. Sicuramente per l’incubo dei contagi in carcere, che ha finalmente portato in primo piano il dramma del sovraffollamento. Sono finalmente venuti allo scoperto opinion leader popolari anche fra la sinistra meno garantista, primo fra tutti Roberto Saviano. Il suo articolo su Repubblica di sabato scorso ha annunciato 48 ore di sciopero della fame a sostegno dell’iniziativa nonviolenta di Rita Bernardini, che la porta avanti da quasi un mese. Con Saviano, hanno aderito alla lotta della leader radicale Luigi Manconi e Sandro Veronesi. Chiedono misure deflattive immediate per scongiurare la catastrofe del covid negli istituti di pena. Il Pd non si muove sulla sollecitazione dello scrittore di Gomorra, ovviamente. Ma un’iniziativa come quella annunciata con l’articolo di sabato può favorire un contesto favorevole, come finora non era avvenuto, a una svolta sull’esecuzione penale. L’inferno delle “loro prigioni” di Guido Neppi Modona* Il Dubbio, 1 dicembre 2020 In questi tempi di pandemia le carceri stanno vivendo una situazione assolutamente paradossale. Il distanziamento è la prima essenziale misura per difendere sé stessi dal contagio e per evitare che i positivi asintomatici inconsapevolmente lo diffondano, ma il carcere è per definizione un luogo affollato, ove centinaia di detenuti e di agenti di custodia sono coattivamente rinchiusi e trascorrono chi l’intera giornata, chi le ore del turno di lavoro, gli uni vicini o vicinissimi agli altri. In particolare, le carceri italiane sono affollatissime, al punto che in più occasioni il Consiglio d’Europa ha condannato l’Italia per l’eccessivo superaffollamento, e tuttora i detenuti sono quasi 54.000, numero di gran lunga superiore all’ordinaria capienza degli istituti. Attualmente i positivi al contagio sono 882 e gli agenti di custodia 1042, cioè numeri proporzionalmente molto più alti rispetto alla percentuale della popolazione libera. È dunque prioritaria l’esigenza di diminuire sensibilmente il numero dei detenuti, onde evitare che le carceri continuino ad essere, come sono attualmente, un perfetto focolaio patogeno di trasmissione del contagio sia all’interno del carcere stesso che all’esterno, attraverso i detenuti dimessi e gli agenti di custodia. Alla fine di ottobre 2020 è intervenuto il decreto legge n. 137, contenente alcune misure volte a diminuire la popolazione carceraria per tentare di contenere la diffusione del contagio. Avranno durata superiore sia le licenze premio ai detenuti in semilibertà (cioè quelli che trascorrono la giornata fuori del carcere per motivi di studio o di lavoro), sia i premessi premio per i detenuti che hanno tenuto regolare condotta: per entrambi è ora prevista la durata massima di 45 giorni all’anno. Si stabilisce inoltre che i condannati a pena non superiore a 18 mesi di reclusione, anche se costituente residuo di maggior pena, possono esser ammessi alla detenzione domiciliare, accompagnata da controlli mediante il braccialetto o altri mezzi elettronici. Si tratta in realtà di misure molto timide, che non produrranno sensibili riduzioni della popolazione carceraria. Al fine di ottenere un’effettiva riduzione del sovraffollamento Rita Bernardini, presidente dell’associazione contro la pena di morte “Nessuno tocchi Caino”, e insieme a lei Luigi Manconi, Roberto Saviano, Sandro Veronesi, nonché circa 700 detenuti e centinaia di cittadini si sono impegnati in un’azione non violenta di protesta mediante uno sciopero della fame “a staffetta”. Ne dà ampia notizia Luigi Manconi in un articolo su La Stampa del 28 novembre, e contemporaneamente analoghi articoli di Veronesi e Saviano sono comparsi sul Corriere della Sera e su Repubblica. Gli obiettivi dello sciopero della fame sono concreti e realistici, ampiamente condivisibili. In primo luogo bloccare per tutta la durata dell’emergenza da Coronavirus l’esecuzione delle sentenze definitive di condanna a pena detentiva, al fine di evitare l’ingresso in carcere di nuovi detenuti, “a meno che il condannato possa mettere in pericolo la vita propria o altrui”. La soluzione è stata indicata da un magistrato illuminato quale è il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Si propone inoltre l’aumento da 45 a 75 giorni della liberazione anticipata prima della scadenza della pena, sempreché il condannato abbia tenuto buona condotta e abbia avviato un percorso di reinserimento sociale, nonché l’aumento sino a 24 mesi del periodo di pena detentiva in carcere che può essere permutata in detenzione domiciliare. A fronte di queste iniziative e proposte volte a diminuire il sovraffollamento carcerario il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, intervistato da La Stampa del 29 novembre, non ha preso alcuna posizione, limitandosi a ringraziare genericamente l’amministrazione penitenziaria che sta facendo tutto il possibile e gli agenti della polizia penitenziaria per la loro abnegazione e professionalità. Ha preso molto più a cuore la drammatica situazione delle nostre carceri l’associazione “Medici senza frontiere”, ben consapevole che la pandemia le sta trasformando in un mortifero e incontrollabile serbatoio di contagio. Esperti dell’Associazione Msf hanno elaborato un articolato progetto per contenere la propagazione del virus e proteggere i detenuti e tutte le categorie di operatori impegnati in carcere. Msf ha così organizzato in quattro istituti penitenziari della Lombardia dei veri e propri corsi di formazione rivolti ai rappresentanti dei detenuti, che poi divulgano i contenuti agli altri, e agli agenti di custodia, ai quali è riservata particolare attenzione perché “entrano ed escono continuamente dal carcere e quindi possono essere un facile veicolo di contagio”. Oggetto delle lezioni sono, ad esempio, il corretto uso delle mascherine e dei gel disinfettanti, le modalità per sanificare i locali con alcol e cloro, le regole igieniche per la somministrazione dei pasti, la pulizia delle lenzuola in lavanderia, e via dicendo. Allarga il cuore sapere che vi sono anche dei volontari che si stanno concretamente e efficacemente impegnando per rendere meno drammatica la situazione delle carceri, con modalità che, tra l’altro, si propongono di coinvolgere e di responsabilizzare direttamente le due categorie più esposte. Detenuti e agenti di custodia divengono così, grazie a Msf, diretti protagonisti delle misure volte a contenere e contrastare il contagio. A uno dei corsi organizzati da Msf potrebbe partecipare Alfonso Bonafede, posto che tutto ciò che accade negli istituti penitenziari non riguarda un lontano pianeta, ma rientra nelle italianissime competenze del ministro della giustizia della Repubblica italiana. Il ministro dovrebbe comunque esserne informato, posto che il progetto di Msf comprende la distribuzione di un opuscolo di una settantina di pagine, che riguarda anche gli interventi in alcuni istituti penitenziari del Piemonte e della Liguria e che certamente sarà stato inviato anche al titolare del dicastero della giustizia. *Ex giudice costituzionale L’ossessione nella testa di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 1 dicembre 2020 Come spesso capita a chi coltiva cattivi pensieri, anche Marco Travaglio è intrappolato nella sua ossessione di sempre, lo scherno tignoso che contiene “la verità”, e per distinguere il falso dal vero non si esime dall’irrisione di chi la pensa diversamente da lui. È accaduto, da ultimo, lo scorso 29 novembre, col suo “Tana libera tutti”. Secondo una tecnica ormai invalsa (di cui hanno dato ampio esempio Luigi Manconi e Federica Graziani nel libro “Per il tuo bene ti mozzerò la testa”, in particolare nel capitolo 2, “Onomastica dello scherno”), il ricorso ad un linguaggio greve e deformante non rileva per il gusto dell’iperbole, ma per sminuire il ragionamento altrui semplificandolo, banalizzandolo, per proporre una lettura semplicistica, un sillogismo preconcetto, qualcosa che induca all’atto di fede. Per molte persone è così: ragionare stanca, più semplice farsi trascinare dalla suggestione. Per questo, le parole scritte da Luigi Manconi, Roberto Saviano e Sandro Veronesi diventano “tre articolesse” (con l’evidente utilizzo di un improprio, dispregiativo e sessista femminile). Una penna che è una pena. Non è possibile qui inseguire il senso illogico delle considerazioni del bravo moralista, peraltro a tratti semanticamente oscure (“che, trattandosi di gente perlopiù povera, è di solito un ambiente altrettanto esiguo, promiscuo, sovraffollato, ma per giunta incontrollato”....l’ha scritto lui, chissà che vuol dire); più utile disvelare che accanto alla deformazione della lingua (chissà perché il ricorso ad uno storpiato femminile) si pone una profonda ignoranza della realtà, quella vera, non dei numeri su un foglio. La galera (quella vera, appunto), di questi tempi è fredda da morire; vetri rotti, umido che entra nelle ossa, corpi su corpi. Fuori a un metro di distanza, in galera 8 in una stanza. Ovviamente, con unico cesso, alla turca, dove organizzi la tua vita (caghi, lavi, se ci riesci ti regali innocenti evasioni). Una manna per il virus. Comunque uno schifo. Il coraggio che Saviano evocava per parlare di questo non è quello dei “tre tenori” (secondo la definizione del nostro), ma quello mancato alla Politica (al PD in primo luogo, nel caso di specie) per portare a termine la riforma dell’ordinamento penitenziario promossa da Andrea Orlando. Che il carcere sia luogo con copertura di screening pressoché totale è un’invenzione. Che i penitenziari, in quanto chiusi, siano il posto più sicuro, è un’amenità che non merita altri commenti, utile solo a quelli che il Prof. Glauco Giostra ha chiamato “forapaglie..., preoccupati e capaci soltanto di catturare elettori considerati insetti”. E certo, la ricetta è semplice, che l’overcrowding penitenziario non si spiega con la bulimia repressiva, ma con “la carenza di posti cella in rapporto al numero dei delinquenti”. E giù ad andare, per finire (in difesa del Ministro, more solito) con la giravolta dei soli tre boss “messi fuori”, quando invece solo qualche mese fa il giornale diretto da Travaglio (in buona compagnia di Repubblica) sventolava la lista. Quanto basta. Naturalmente nessuno cambierà idea, non certo il Fatto; io vado in galera ogni settimana, e qualcosa ne so. Se ne avrà tempo, sarebbe utile andarci insieme una volta, Direttore. *Avvocato Sulle carceri restiamo umani: è una tragedia di Gad Lerner Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2020 Sarò ingenuo, ma credo che chi per amore di giustizia e di pubblica sicurezza persegue l’obiettivo della certezza della pena, e perciò mal sopporta l’indulgenza mascherata col garantismo di cui godono i potenti, proprio lui dovrebbe avere più degli altri a cuore la sorte dei detenuti. Per questo mi è dispiaciuto che il direttore Marco Travaglio abbia indirizzato domenica scorsa il suo ben noto sarcasmo non solo nei confronti di Luigi Manconi, Roberto Saviano e Sandro Veronesi - che hanno la scorza dura - ma anche delle persone recluse in carcere al tempo del Covid. L’articolo spiritosamente intitolato “Tana liberi tutti” sosteneva che dal punto di vista sanitario “le carceri restano il luogo più sicuro, protetto e controllato del Paese”. E, richiamandosi al “buonsenso” (parola viziata dall’abuso che ne fa Salvini), aggiungeva che “contro un virus che si combatte con l’isolamento, chi è già isolato è avvantaggiato rispetto a chi non lo è”. Non è materia su cui scherzerei. Immagino cosa significhi condividere una cella sovraffollata con dei positivi, per quanto a sintomatici. Tanto più quando la pandemia determinalo stop ai colloqui con i familiari e alle attività di formazione e lavoro; lasciando fuori operatori sociali e volontari. Non voglio attribuire a Marco un sentimento di rivalsa - il tipico “ben gli sta, a quei criminali” - che nel suo scritto non compariva. Sappiamo entrambi quanto è diffuso nell’opinione pubblica, e chi lo cavalca: anche per questo la situazione delle carceri italiane è una tragedia nella tragedia. Basti pensare ai 13 detenuti morti nelle rivolte del marzo scorso per cause diverse legate alla loro disperazione. Se nel frattempo si è provveduto al rilascio anticipato o alla carcerazione domiciliare per circa settemila reclusi, vuol dire che le autorità l’hanno ben presente: le prigioni erano troppo piene, anche di persone non pericolose. Proviamo, allora, a uscire dal logoro schema per cui tu ti compiaci a figurare “carogna” di fronte a noi “anime belle” del garantismo di sinistra? Lo ripeto: proprio chi ha a cuore la certezza della pena dovrebbe essere il primo a tener presenti le finalità di reinserimento sociale della pena stessa, apprezzare le buone pratiche che riducono la probabilità di recidiva dei reati, studiare misure alternative alla detenzione, e infine denunciare il sovraffollamento delle carceri per quello che è: una realtà incivile e criminogena. Se non chiedo troppo, l’emergenza Covid potrebbe offrirci la possibilità di allargare lo sguardo e, forse, di capirci. É vero, infatti, come tu scrivi, che il virus ha causato un numero relativamente basso di morti dentro le carceri. A differenza di quanto avvenuto in altre “istituzioni totali” come le Rsa. Ciò dipende solo dall’età media assai più bassa dei detenuti rispetto agli anziani ricoverati. Ma allora andiamo a vedere quantità e qualità di cui è composta l’umanità delle carceri. Leggo le cifre pubblicate sul sito del ministero della Giustizia: il numero dei detenuti è raddoppiato negli ultimi vent’anni. Erano 31mila nel 1991, più di 60 mila alla fine del 2019. Nel 2010 avevano raggiunto la cifra record di oltre 68 mila. Si basi bene: tale poderoso incremento del tasso d’incarcerazione non è in alcun modo correlato a un incremento della criminalità e della delinquenza. Nel corso dello stesso ventennio il numero degli omicidi volontari è crollato dell’80%. Le carceri italiane si sono riempite in seguito a ben precise scelte legislative di politica criminale che hanno selezionato chi e come deve essere punito. Per capirci: terroristi e mafiosi (non parliamo dei corrotti) sono una piccola minoranza della popolazione detenuta. Lo stesso sito del ministero ci informa che dal 1991 a oggi è più che raddoppiato il numero degli stranieri incarcerati, in genere “pesci piccoli” dello spaccio di droga. Siamo passati dal 15% fino a oltre il 37%, per stabilizzarci sul 33%. Certo, qui il discorso dovrebbe allargarsi all’efficacia delle normative vigenti in materia di “guerra alla droga”. Certo, il boom delle incarcerazioni è un fenomeno mondiale, non solo italiano, se è vero che oggi nel mondo ci sono più di dieci milioni di detenuti, un quarto dei quali nei soli Usa. Fermiamoci qui. Ma per favore evitiamo di titillare l’impulso di chi prova soddisfazione nel sapere che il colpevole soffre. Ti ricordi, Marco, il giorno in cui due ministri, uno dei quali in divisa da poliziotto, accorsero a Ciampino festanti per accogliere un latitante catturato? Almeno noi, restiamo umani. “Restiamo umani”. Ma con pene certe di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 1 dicembre 2020 Caro Gad, non starò qui a smentire chi mi dipinge come un sadico aguzzino che gode per le sofferenze dei detenuti. Smentire i pregiudizi, in questo Paese di ultrà, è inutile. Tu scrivi che io ho “scherzato” sulle “persone recluse in carcere al tempo del Covid”. Ma io non scherzavo affatto. Ho citato i dati dei morti per Covid dentro e fuori dal carcere in nove mesi di pandemia: 5 su circa 100mila persone passate o rimaste nelle carceri (i 52-53mila detenuti medi non sono sempre gli stessi: ogni anno entrano circa 50mila “nuovi giunti” ed escono quasi altrettanti reclusi per fine pena o misure alternative); e 55.500 su 60 milioni di italiani (i paragoni con i positivi sono impossibili, perché si sa quanti sono nelle carceri, ma non quanti sono fuori). Quindi chi sta fuori rischia il Covid almeno il doppio di chi sta dentro. Ed è del tutto insensato pensare di proteggere i detenuti mandandoli fuori: cioè a spasso se non hanno una casa e in ambienti perlopiù angusti e affollati se ne hanno una. Sovraffollamento per sovraffollamento, chi sta in cella ha il doppio vantaggio di incontrare meno potenziali infetti e di ricevere più controlli di chi abita in un bilocale. Non esiste chi “condivide una cella sovraffollata con dei positivi, per quanto asintomatici”. In carcere i nuovi giunti vengono isolati fino al doppio tampone negativo e solo dopo trasferiti in cella con gli altri. E, appena si scopre un positivo, scatta l’isolamento col “tamponamento” di tutti gli altri ospiti dell’istituto. Altro che Rsa. Sgombrato il campo dal tema Covid - ultimo pretesto per invocare altre amnistie, indulti e “liberi tutti” nel Paese che ne detiene il record mondiale - parliamo delle carceri. É vero: sono “una tragedia nella tragedia”, “incivile e criminogena” per la fatiscenza delle strutture, il sovraffollamento, la penuria di agenti ed educatori. Ma la soluzione, per me, è costruirne di nuove per garantire ai detenuti condizioni di minima decenza. Per te e altri è mandare e tener fuori decine di migliaia di condannati. Come se il numero dei detenuti fosse una variabile indipendente da quello dei reati e dei delinquenti. Sfido io che nel 1991 era molto inferiore: l’amnistia del ‘90 ne aveva liberati 6mila e lasciati fuori il doppio o il triplo. E gli immigrati erano 625mila, contro gli attuali 5,3 milioni (più gli irregolari). Ma da allora non c’è stato alcun “poderoso incremento del tasso di incarcerazione”, anzi, tutto il contrario: nel 1992 entrarono in carcere 93mila nuovi detenuti, nel 1993 e nel 1994 98 mila l’anno, mentre negli ultimi anni sono scesi a 48-50mila (metà). L’aumento dei reclusi medi non dipende dai maggiori ingressi, ma dalle permanenze più lunghe, dovute alle leggi “securitarie” di destra e sinistra. Criticabilissime, ma non fino a trovare strano se chi spaccia droga, italiano o straniero, sta al fresco per un po’. Il guaio delle carceri non è un eccesso di detenuti, ma un difetto di posti cella. Infatti gli altri Paesi Ue hanno quasi tutti un rapporto detenuti/abitanti uguale o superiore al nostro. Tu vorresti liberare le “persone non pericolose”. Ma il Codice penale commina la “reclusione” ai colpevoli di una lunga serie di reati, non solo a chi minaccia l’incolumità altrui. Sia che rubi col grimaldello, sia che rubi in guanti gialli. I B., i Formigoni, i Verdini sono pericolosi e dovrebbero stare in carcere anche se non torcono un capello a nessuno. Anch’io ho a cuore la sorte dei detenuti, purché restino tali. E ho a cuore la pena “rieducativa”, purché sia una pena: non finta, ma certa ed espiata fino all’ultimo giorno. Poi c’è chi, come Manconi & C., vuole abolire il carcere (spero non Saviano, altrimenti stenterei a capire il senso delle sue sacrosante denunce contro i camorristi, se poi vanno lasciati liberi). Posizione per me assurda, in mancanza di alternative praticabili, ma rispettabile. A tre condizioni, però: 1) chi vuole abolire il carcere non usi come scusa il Covid, taroccando i dati; 2) se gli svaligiano la casa, non chiami la polizia; 3) non si meravigli se le destre più becere spopolano, perché chi semina impunità è da sempre il migliore alleato delle forche. Di carcere, chiavi e persone di Fabio Gianfilippi areopago.net, 1 dicembre 2020 “…il movimento per liberarsi da questa trappola dovrebbe essere duplice. Bisognerebbe amare la vittima senza bisogno di sapere nulla di lei. Bisognerebbe sapere molto del carnefice per capire che la distanza che ci separa da lui è minore di quanto crediamo. Questo secondo movimento si impara, è frutto di una educazione. Il primo è assai più misterioso.” Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, 2020. La nebbia nasconde, e sbianca tutto un po’. Precipita i viali e gli edifici in un indistinto lattiginoso, che porta fuori strada, persino quando stai ripercorrendo ancora una volta la stessa strada, dopo infinite altre. Mi si presenta così, sovente, il tragitto che, attraverso un’area di capannoni industriali, porta all’ingresso della Casa Circondariale di cui mi occupo. Parcheggio la macchina, raccolgo le carte che mi servono, calpesto rumorosamente l’erba anemica che prova a crescere nel piazzale, irrigidita dalla gelata mattutina. Ed entro. Scambio saluti e qualche commento sul tempo inclemente con gli agenti di polizia penitenziaria. In fondo al cortile il Cappellano, con il saio marrone e i calzettoni pesanti sugli immancabili sandali, scherza con un detenuto ammesso al lavoro nell’intercinta. Un’educatrice sale le scale in fretta verso gli uffici. Ancora un cancello cigola e ancora una chiave è girata. Mi aspettano i colloqui con i detenuti. Li svolgo in una stanza di cui un condannato, molti anni fa, ha dipinto le pareti. Un improbabile paesaggio di montagne impervie e fiumi e cascate, e cavalli selvaggi in lontananza, e persino una città, ardita e traballante per posizione e strutture, appollaiata sopra un termosifone. Mi inquieta, e lo fisso di continuo. Ci passerò qualche ora, come ogni volta. Ascolterò le doglianze che mi sottopongono, raccoglierò le istanze che ritengono di presentare al magistrato di sorveglianza, metterò insieme, forse, qualche frammento delle loro storie. Quel che hanno voglia di raccontarmi, quel che sono capaci di ricostruire. I fascicoli, che ho studiato, nascondono persone. Le mura, affondate nella piana nebbiosa, custodiscono, non viste, tanta umanità reclusa, piena ancora di rabbia, spesso di incomprensione, di dolore, di speranza, a volte senza aderenza al piano di realtà, e soprattutto di domande, che sembrano aver bisogno più di ogni altra cosa di un ascoltatore. La risposta, se viene, è un di più. Nel nostro paese l’attenzione alle vicende penali è in genere molto alta. I processi sono spesso seguiti con interesse, e una buona dose di morbosità, dalle comunità e dai media. Tutto si spegne, in un certo senso, alle porte del carcere. Quando la condanna è irrogata, sembra che la parola fine si possa pronunciare. Il condannato inizia l’espiazione della sua pena dietro le sbarre, e la società tira il fatidico sospiro di sollievo, allontanando da sé ogni riflessione su cosa sia effettivamente la detenzione. Nell’art. 27 comma 3 della nostra Costituzione, come è noto frutto dell’incredibile lungimiranza dei padri costituenti, che ben conoscevano le galere fasciste, sono contenute le inderogabili linee guida per l’esecuzione delle pene: mai possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (e dunque occorre preservare i diritti fondamentali di chi sia privato della libertà personale) e sempre debbono tendere verso la rieducazione (oggi diciamo: il reinserimento sociale) delle persone condannate. Dal riferimento plurale alle pene deduciamo che il carcere non è l’unico modo di espiarle. Nel nostro ordinamento, quindi, sono previste da molti decenni le misure alternative, che si eseguono con grande profitto nei territori, accompagnando le persone mediante il contributo essenziale dei servizi sociali. Il carcere però è ancora una necessità, quando la pericolosità sociale di un condannato è tale da non poter essere altrimenti contenuta. La reclusione, dunque, non può mai essere, nell’approccio costituzionale, soltanto tempo sottratto alla libertà, a prescindere dalle modalità di impiego. Non può limitarsi a contenere per un tempo dato, ma deve consentire una possibile evoluzione alla persona condannata, mediante un’offerta, il più possibile individualizzata, di opportunità di crescita personale, dalla scuola alla formazione professionale, alla riflessione critica sul reato e sulle sue conseguenze negative, per sé e per la società. Di recente la Corte Costituzionale ha ribadito, con parole che illuminano i difficili percorsi che si fanno in carcere, che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento.” (cfr. Corte Cost. sent. 149/2018). A leggersi così, sembrerebbe che il tempo non basti mai. C’è tanto da fare. E invece, spesso, dentro le mura manca molto di quel che dovrebbe esserci, a cominciare dagli educatori, dagli psicologici e dai medici, e sovrabbondano le persone recluse, stipate ben oltre i limiti minimi dettati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo (3 mq procapite). Tutto questo, però, non sembra essere un tema che affascina l’opinione pubblica. Nella bulimia di penalità, che si riscontra, la chiave delle celle serve a serrarle la prima volta, per poi essere, come si dice, gettata via. E questo anche quando, invece, le pene sono soltanto temporanee, e conoscere in che modo si stia lavorando per restituire alla società persone migliori, e maggiormente in grado di offrire un contributo positivo alla stessa, sarebbe fondamentale per capire se l’intero sistema penale che ha il suo cuore nel processo, sia in grado di raggiungere i risultati che si prefigge. D’altra parte è evidente che un condannato con cui si è lavorato proficuamente, consentendogli di leggere la realtà con strumenti per affrontarla diversi e migliori rispetto a quelli di cui disponeva quando ha offeso la società con il delinquere, è una persona che costituisce un minor rischio per la sicurezza della collettività, e dunque per ciascuno di noi. Si dice spesso che gli Italiani non hanno mai digerito il portato dell’art. 27 co. 3 della Costituzione. Mi pare ingeneroso generalizzare, perché sono molti, in realtà, i segnali di un impegno concreto di alcuni cittadini a sostegno del lavoro che si svolge in carcere. Il volontariato non manca, neppure in questo settore così complesso. Esistono associazioni che sostengono iniziative in favore delle persone detenute. C’è un dibattito illuminato in cui la dottrina penalistica e l’avvocatura fanno sentire la loro voce, consci che dall’umanità delle nostre carceri si misura la temperatura democratica della nostra società. Ci sono le istituzioni, naturalmente, e tra queste la magistratura di sorveglianza cui, progressivamente, si sono aggiunte l’autorità Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e i Garanti territoriali. C’è però qualcosa in più, che mi pare manchi, almeno nella gran parte dell’opinione pubblica. E, nonostante il tanto parlare di riforme, mai poi concretizzatesi, che riportino l’intero sistema penitenziario in un solco di maggior aderenza all’insegnamento costituzionale, a me pare che la sfida di interessare i cittadini ai destini degli autori dei reati resti ardua, pur non potendosi smettere di tentarla. Il carcere, poi, attraversa in questi tempi un’emergenza nell’emergenza. Si è chiuso su se stesso, rendendo più difficile quell’osmosi tra dentro e fuori, tra territori e detenzione, che è così importante per costruire percorsi di reinserimento. Si pensi alla scuola, sospesa senza che la didattica a distanza possa trovare modalità di attuazione efficaci, come si sta tendando di fare, non senza difficoltà, all’esterno. Ha dovuto farlo, a causa dell’emergenza epidemica, ma questo ha contribuito, pur senza che nessuno lo volesse, a renderlo ancor di più un contenitore di persone, per altro non esenti, a causa del sovraffollamento, dal rischio di dover permanere in spazi privi del distanziamento sociale che servirebbe a preservarsi dal virus, in cui nulla di rieducativo può accadere, salvo attendere l’azione del tempo, che può lenire o aiutare a sanare, ma può anche lavorare in senso opposto, approfondendo ferite difficili da rimarginare e scavando solchi troppo profondi da valicare. Cosa rappresenta dunque il muro del carcere? Perché non si sente alcun bisogno di guardarci dentro? C’è senz’altro la difficoltà di percepire che si tratta di un luogo che ci appartiene, come collettività. Una istituzione dove si spende denaro nostro con uno scopo, che sarebbe nostro interesse verificare che sia perseguito. C’è però anche una simbolica separazione tra bene e male, tra me e quelli come me (buoni) e gli altri, i diversi da me (e cattivi), che trova infinite sponde nelle molteplici marginalità sociali che riempiono le nostre carceri. È vero, nel nostro paese ci sono un buon numero di detenuti per gravissimi reati di criminalità organizzata, ma sono comunque una minoranza nettissima, rispetto agli autori di altri reati, che spesso sono persone straniere, o affette da disagi psichici, o tossico-alcoldipendenti, o tutte queste ed altre cose insieme. Il carcere diventa allora necessario in una dimensione simbolica che si adatta benissimo, oggi, ad una società sempre più spinta a scartare (Bauman docet!), senza offrire dialogo e una possibile via alternativa di risoluzione del conflitto. Un mondo in cui è facile uscire dalla partita, senza che sia previsto un meccanismo per rimettersi in gioco. Una società che, in definitiva, è assai efficace nell’escludere, ma sembra aver smarrito la volontà di includere e la capacità di interrogarsi sulle ragioni dell’altro. Di queste ultime priorità, e di molto altro, si occupano paradigmi alternativi alla giustizia penale, per come noi la conosciamo, che pure si studiano con sempre maggior attenzione a livello internazionale, e che sono noti con il nome di “giustizia riparativa”, dove l’accento torna sulle persone: sulle vittime dei reati e sugli autori e sulla volontà di entrambe le parti, ove esista, di ricucire la ferita apertasi. Entra in sala colloqui un giovane. Ha trentatré anni e occhi confusi. Parla male italiano, anche se è nato e cresciuto qui. È stato trasferito da poche settimane nel carcere di cui mi occupo, per “sfollamento”, come si dice in linguaggio penitenziario. Tra un mese finisce la sua pena: tre anni e due mesi di reclusione per violazione di domicilio. Qualche anno fa, non sapendo dove dormire, si è introdotto in un canile e, trovata vuota una delle casette di legno destinate ad ospitare gli animali, vi ha preso alloggio per qualche giorno, mangiandoci quel che ha trovato, e quindi imbrattandola. Non ha avuto attenuanti, perché annovera un precedente per furto. Mi racconta la sua storia, ma non sa dirla, né sa dove andrà a stare al fine pena. Nessuna misura alternativa si è potuta impostare in suo favore, proprio per questa carenza di riferimenti esterni e per i molti trasferimenti che, nel tempo, ha subito da un istituto penitenziario all’altro. Il magistrato di sorveglianza pone qualche domanda, tenta di capire le risposte. In questo caso non gli resta molto da fare, ma ha ascoltato. Ci sono anche persone così nelle nostre carceri. E questo nonostante spesso l’opinione pubblica creda che sia difficile, nel nostro paese, finirci. Claudia Mazzucato, studiosa esperta di giustizia riparativa, ha scritto che: “a cambiare i colpevoli sono stati - e sono tutt’ora - gli incontri, specialmente gli incontri con persone significative. Persone, cioè, che hanno sovvertito la logica scontata della mimesi e del colpo restituito, e hanno invece innovato per prime la realtà, precisamente comportandosi all’opposto di ciò che ci si sarebbe attesi: rivolgersi agli autori dei delitti in modo imprevisto e insperato, riconoscendo in loro umanità e dignità dove tutti vedevano (e cercavano) mostruosità, pericolo e inimicizia” (Il libro dell’incontro, il Saggiatore, 2015). Valicare le mura del carcere aiuta a diradare la nebbia fitta che c’è sulle persone che hanno commesso i reati. La conoscenza, l’ascolto, l’incontro, in questa progressione, fanno chiarezza sulla non sovrapponibilità del reato al suo autore. È su tutto ciò che non è reato che occorre lavorare, perché prenda il sopravvento sulle spinte a commetterlo, che in passato hanno prevalso. È un cammino controcorrente, che richiede di voler sovvertire la logica dello scarto e dell’esclusione. La logica dell’indifferenza verso l’altro. Quando lascio la sala colloqui, sento la chiave dietro di me, che serra l’ultima porta del carcere, ritorno alla mia autovettura, e di solito la nebbia si è diradata. Il lavoro proseguirà altrove, e la Casa Circondariale continuerà la sua routine di nuovi ingressi, di detenuti che terminano la pena ed escono, con il loro carico di oggetti personali nel bustone, di lavoratori che in quel luogo spendono gran parte della giornata e poi tornano alla loro vita. Se non fosse così fuori città, mi dico, forse qualcuno in più potrebbe domandarsi come va la vita là dentro, o vedendo chi entra ed esce, potrebbe scoprire che ci somigliano più di quanto non ci spaventi immaginare, o persino interrogarsi su cosa si può fare perché il sistema funzioni meglio e ci consegni persone effettivamente cambiate (le statistiche segnalano che i detenuti che non accedono a misure alternative alla detenzione tornano a delinquere nel 70% dei casi). È una riflessione per gli urbanisti, ma forse la responsabilità non è soltanto loro, ma di ciascuno di noi. Dopo il carcere: una colpevole indifferenza di Donatella Ventre areopago.net, 1 dicembre 2020 Voglio condividere con voi un breve ricordo di una mia esperienza vissuta molti anni fa, che ha lasciato un segno nel mio percorso di vita professionale. N. era un detenuto con alle spalle una lunga storia di tossicodipendenza, il viso segnato e l’aria stanca di chi è invecchiato precocemente, e a dispetto dei suoi soli 25 anni, quando lo conobbi, aveva già inanellato una lunga serie di condanne per furti e altri reati contro il patrimonio commessi sin da quando era minorenne, necessari a procurarsi il danaro per l’acquisto delle dosi. Dopo un periodo di detenzione trascorso presso l’istituto penale minorile di Nisida, era stato trasferito presso l’ICATT di Lauro, un piccolo istituto destinato ad accogliere poco più di una cinquantina al massimo di reclusi, di cui io ero all’epoca il magistrato di sorveglianza referente. Per chiarirlo ai non addetti ai lavori, gli ICATT sono istituti a custodia attenuata riservati ai detenuti tossicodipendenti; istituti di pena, cioè, dove ad una custodia appunto meno rigida di quella applicata negli istituti ordinari (i detenuti possono circolare liberamente nelle sezioni ad eccezione della fascia oraria notturna), si abbina in genere una maggiore offerta trattamentale, utile al loro recupero. Nei tossicodipendenti infatti, la devianza è strettamente collegata alla loro problematica, per cui il trattamento rieducativo previsto per questa categoria di detenuti è improntato ad un approccio essenzialmente di tipo terapeutico, destinato a culminare con l’ammissione all’affidamento in prova presso una Comunità terapeutica o presso il Sert. Accadde qualcosa di simile anche per N Cresciuto in un quartiere di Napoli altamente degradato dove lo spaccio rappresentava e rappresenta praticamente il pane quotidiano, e abituato a vivere in una realtà molto dura, N. era uno di quei detenuti dotati di una vivace intelligenza e, ad onta dei reati commessi, anche di una spiccata sensibilità; le esperienze dolorose vissute non avevano del tutto reciso questa sua parte sensibile e quasi giocosa, che a volte si manifestava con un entusiasmo quasi infantile. Attraverso i colloqui in istituto si instaurò subito una buona comunicazione tra noi, ed io avvertii chiaramente la presenza di parti sane del suo io sulle quali poter lavorare per rafforzare la sua motivazione al cambiamento. Fu così che in quella piccola “oasi felice” che fu la casa circondariale di Lauro,- che oggi non esiste più come ICATT, ma è stata trasformata in un ICAM, cioè un istituto a custodia attenuata per detenute madri- anche grazie alla costante ed infaticabile opera della Direttrice e di tutto il gruppo degli educatori, N. riuscì a svolgere un eccellente percorso trattamentale impegnandosi con profitto in tutta una serie di attività rieducative, ed in particolare nel laboratorio teatrale, dove ebbe modo di sviluppare e migliorare le sue già innate capacità di attore. Intanto il tempo passò, ed N. terminò di “pagare”, come si dice nel gergo carcerario, le condanne per i reati più gravi; e nel frattempo la pena residua, grazie alla liberazione anticipata costantemente ottenuta, scese al di sotto dei quattro anni; le relazioni del carcere attestavano buoni progressi, una presa di coscienza degli errori commessi e la maturazione di una forte volontà di cambiamento; insomma, i tempi erano maturi per poter finalmente accedere ad una misura alternativa alla detenzione, il “piccolo miracolo” era compiuto. Fu così che arrivò anche per lui la tanto agognata misura alternativa dell’affidamento in prova con un programma di recupero presso il Sert territorialmente competente. Durante l’udienza dinanzi al collegio, N. rimase per tutto il tempo accanto al suo avvocato in silenzio, ma attento. Era fatta, ed era arrivato il momento di raccogliere i frutti. Ed io ero così soddisfatta del lavoro svolto, che mai mi sarei immaginata l’amara sorpresa che mi attendeva, quando due giorni dopo, trovai sulla mia scrivania la nota con cui la Direzione dell’istituto mi comunicava che N, all’atto della notifica del provvedimento di concessione, aveva rinunciato alla misura. Ero incredula, e in fondo, umanamente delusa. Rimasi un po’ di tempo a pensare, e non riuscivo proprio a spiegarmi come mai N., dopo aver tanto aspettato, sofferto e lottato per ottenere quel beneficio, sul più bello avesse gettato la spugna. Solo lui, io e gli operatori del carcere potevamo sapere quanta trepidante attesa lo aveva preceduto! Qualche giorno dopo, nella saletta dei colloqui del carcere di Lauro, N., di fronte a me a testa bassa, e con gli occhi umidi, mi spiegò: “…dottorè, io finché sto qua dentro sto tranquillo, ma fuori… no, fuori è un’altra cosa!.”. Scosse la testa, e seguì un interminabile minuto di silenzio, poi interrotto solo dal suo pianto. Quel “fuori è un’altra cosa” sintetizzava mirabilmente tutto. Compresi in quell’istante tutta la drammaticità della sua vicenda: N, vissuto per anni come un randagio e in preda alla tossicodipendenza, aveva trovato nel carcere di Lauro una vera e propria famiglia, quella che probabilmente gli era mancata, e all’interno della quale si sentiva protetto. Ma al tempo stesso, non era sicuro di avere definitivamente spezzato quelle catene interiori che lo tenevano legato; non sapeva come avrebbe reagito una volta libero e lontano dai controlli che un carcere, sia pure a custodia attenuata, è deputato a svolgere ed assicurare, a fronte di una realtà esterna molto buia. Mi sorpresi allora a pensare al carcere non come luogo di espiazione di una pena, ma, paradossalmente, come luogo di riparo. Riparo per i senza tetto e senza fissa dimora, per gli stranieri, i poveri, gli emarginati, i tossicodipendenti e i soggetti affetti da disturbi psichiatrici; per tutti coloro che fuori dal penitenziario non hanno alcuna possibilità di salvezza perché in luogo di una reale opportunità di recupero, trovano una società ostile, indifferente, rispetto alla quale il carcere diventa il minore dei mali, e talvolta, addirittura un riparo. Come scriveva una volta Albert Einstein, “il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che compiono azioni malvagie, ma per quelli che osservano senza fare nulla”. La storia che vi ho appena raccontato mi induce a qualche breve riflessione sul tema di oggi, l’indifferenza; indifferenza in questo caso intesa come inerzia rispetto ad una problematica troppo spesso ignorata e sottovalutata, o peggio, vista erroneamente come qualcosa che riguardi solo altri e non noi stessi; come se le conseguenze negative di un cattivo funzionamento della giustizia nella sua fase saliente dell’esecuzione della pena non riguardasse alla fine tutti noi. Quanto poco si faccia per i detenuti che al termine della pena dovrebbero fare reingresso nella società libera e con quali presupposti, è purtroppo un tema assai dolente che riguarda tutta l’esecuzione penale, a causa dell’endemica carenza di risorse umane e materiali dedicate a questo settore, e della contraddittorietà degli scarni e frettolosi interventi normativi troppo spesso dettati sull’onda dell’emergenza; tuttavia il tema si aggrava quando l’esecuzione si affianca o addirittura scaturisce da problematiche come la tossicodipendenza o il disagio psichico, per i quali le possibilità offerte dalla normativa vigente suonano più come slogan propagandistici che come reali soluzioni concrete. Per i detenuti tossicodipendenti la soluzione più facilmente praticabile è quella del programma presso il Sert, dal momento che poche sono le Comunità Terapeutiche riconosciute ed accreditate ed ancor meno lo sono le Comunità c.d. “a doppia diagnosi”; destinate cioè ad accogliere soggetti che associano alla problematica tossicomanica anche un disturbo di personalità o un disturbo psicotico, come le paranoie e o le schizofrenie. Ma la più moderna letteratura scientifica è ricca di questi esempi e la realtà concreta altrettanto. Tuttavia il percorso presso il Sert, non sostenuto da un regime residenziale e conseguentemente da un più assiduo controllo sulla persona del condannato, è anche quello più “rischioso” e meno in linea con il principio di gradualità che dovrebbe ispirare il percorso trattamentale di un condannato ed il suo graduale progressivo affrancamento dal carcere. Le carceri oggi sono pieni di detenuti che associano alla tossicodipendenza dei disturbi mentali, ma le Articolazioni per La Tutela della salute mentale ad essi destinate sono pochissime e anch’esse con pochi posti disponibili, e con la riforma penitenziaria del 2018 si è persa un’ottima occasione per intervenire efficacemente su questo problema, che ad oggi resta in larghissima parte irrisolto. I disturbi mentali poi riguardano molto da vicino anche i soggetti destinatari di una misura di sicurezza in conseguenza di una assoluzione per vizio di mente. Si tratta di soggetti privi di una solida rete familiare di supporto; senza contare che quando poi ci sono, i familiari facilmente sono le stesse persone offese dai reati, per cui esistono relazioni conflittuali che impediscono una presa in carico da parte loro. È in questo tema che si inserisce la delicatissima problematica delle REMS. Introdotte nel 2014 con il dichiarato scopo di sostituirsi ai vecchi ed obsoleti OPG al fine di realizzare un approccio terapeutico anziché custodialistico degli infermi di mente così come esigono le più recenti acquisizioni scientifiche, sono in realtà rimaste un ibrido, e in ogni caso hanno pochissimi posti disponibili. Ciò ha prodotto come risultato l’impossibilità di dare esecuzione alle ordinanze di ricovero o di aggravamento di libertà vigilate “psichiatriche”, e ciò che e più grave è che a volte tale impossibilità si protrae per mesi o addirittura anni, con intuibili gravissimi danni sia per la salute mentale dei destinatari che di fatto si trovano a circolare liberi senza una precisa collocazione e andando incontro ai rischi della c.d. “finestra terapeutica”, sia per la collettività che si trova esposta al rischio di subire le possibili condotte etero aggressive. Ora, personalmente io non credo, francamente, che le problematiche appena accennate - e sulle quali non mi dilungo per non tediarvi oltre, ma ognuna poi richiederebbe ben altro approfondimento - possano essere affrontate e risolte senza un reale impegno ed un investimento concreto di risorse economiche. Senza un reale investimento dello Stato, le opportunità di cura, di recupero e di reinserimento sociale resteranno limitate. Ma penso anche che per arrivare ad una scelta “politica” di reale presa in carico dei problemi dell’esecuzione penale, occorra a monte lavorare per un mutamento culturale, in seguito al quale la pena con la sua funzione rieducativa possa finalmente riacquistare la sua centralità. I nostri Padri Costituenti lo avevano ben capito per primi inserendo nella Costituzione una norma quale è quella contenuta nell’art. 27 comma 3, in base al quale, “la pena non può essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato”; non ignorando peraltro, il carattere puramente programmatico di quel principio, e la necessità di darvi concreta attuazione con un preciso impegno e con chiara consapevolezza. Chiudo questi miei brevi appunti ricordando la splendida metafora con cui Piero Calamandrei, nel suo celebre discorso agli studenti milanesi, paragonò la nostra Costituzione ad una bellissima macchina, ma non in grado di camminare senza il necessario carburante, pensando che mai come in questi tempi difficili di pandemia che tutti stiamo vivendo, e che ha finito per mettere ancora più a nudo le molteplici criticità del sistema giustizia, sarebbe quanto mai necessaria una buona dose di carburante, morale e materiale…. Buona riflessione a tutti. Le persone senza dimora spesso restano in carcere solo perché non hanno casa redattoresociale.it, 1 dicembre 2020 Report dell’associazione “Avvocato di Strada” sulla condizione dei senza tetto sottoposti a procedimenti giudiziari. Spesso autori di reati lievi, scontano tutta la pena in cella perché non hanno un domicilio. “È una violazione del diritto di uguaglianza dell’articolo 3 della Costituzione”. “Sempre più spesso le persone senza dimora sono vittime di reati e sempre meno autori degli stessi. In quest’ultimo caso poi, la tipologia dei reati è quasi sempre la stessa: piccoli furti commessi per sopravvivere alle giornate di strada”. È uno dei passaggi fondamentali del nuovo report “Fine pena: la strada” redatto dall’associazione Avvocato di Strada, perché fotografa la situazione in cui si trovano i senza tetto che incappano in un procedimento giudiziario. Imputati spesso per reati minori, rimangono in cella, per il semplice motivo che non hanno altro luogo in cui scontare la custodia cautelare o la pena. Il report è il frutto del progetto dedicato al tema del carcere e delle persone senza dimora realizzato da Avvocato di strada grazie al sostegno dei fondi 8×1000 della Chiesa Evangelica Valdese e in collaborazione con L’Altro Diritto Bologna, Associazione Sesta Opera San Fedele Onlus Milano e Granello di Senape Padova. “Cosa succede quando una persona senza dimora finisce in carcere? Ha gli stessi diritti degli altri detenuti e le stesse possibilità di accedere alle misure alternative? Sono queste - afferma Antonio Mumolo, presidente dell’Associazione Avvocato di strada - le domande che ci siamo fatti quando abbiamo deciso di portare avanti il progetto “Fine pena: la strada”, che nel corso del 2020 ha previsto numerosi momenti di formazione e approfondimento, meeting e webinar on line con numerosi esperti del settore”. Le persone senza dimora con tutti i requisiti legislativamente previsti per evitare la custodia cautelare in carcere o la detenzione, vengono sostanzialmente private di questo diritto per il solo fatto di non avere la disponibilità di un’abitazione o l’appoggio di una rete familiare e/o amicale che possa sostenerle. “Subordinare il godimento di diritti fondamentali alla condizione economica e sociale di una persona viola il diritto di uguaglianza sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione -si legge nel report- oltre a frustrare la funzione rieducativa della pena riconosciuta all’art. 27 della Carta costituzionale”. Nel report di ricerca, inoltre, vengono riportate le prassi che vengono seguite dai servizi che si occupano di persone senza dimora detenute nei territori di Bologna, Padova e Milano e le risposte che vengono date nei vari casi. “L’obiettivo di questa ricerca - conclude Antonio Mumolo - era offrire un nuovo punto di vista su un argomento che viene affrontato molto raramente, dare uno spunto di riflessione alle istituzioni e alle realtà che si occupano di esclusione, affinché i diritti e le garanzie previsti nel nostro ordinamento non restino lettera morta per chi vive in una condizione di forte disagio economico e sociale e dovrebbe per questo stesso motivo ricevere maggiore aiuto dalle istituzioni. Il report è scaricabile dal sito di Avvocato di Strada: https://www.avvocatodistrada.it L’Ucpi contro l’appello da remoto: “La morte della collegialità” di Simona Musco Il Dubbio, 1 dicembre 2020 La morte della collegialità. Col rischio - paradossale - di aumentare le udienze in presenza, anziché ridurle. A denunciarlo è il presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, che in una lettera indirizzata al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede chiede un intervento affinché “questa insensata e pericolosa norma” venga cancellata, “condividendo l’esigenza che, anche in tempi di emergenza sanitaria, sia possibile raggiungere l’obiettivo comune di una forte riduzione delle presenze fisiche nelle aule, senza mettere in discussione gli intangibili principi della collegialità e della segretezza del giudizio in camera di consiglio”. La norma incriminata è quella contenuta del dl Ristori bis, che prevede una Camera di consiglio da remoto per i giudizi in appello. Giudizi che, il più delle volte, avverranno in maniera cartolare, con lo scambio di documenti, anziché l’intervento fisico di avvocati e pubblici ministeri. L’articolo 23 prevede infatti che fino alla scadenza dello stato d’emergenza, fuori dai casi di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, la decisione avvenga senza l’intervento del pm e dei difensori, salvo che una delle parti faccia richiesta di discussione orale o che l’imputato manifesti la volontà di comparire. E proprio questa possibilità, sottolinea Caiazza, provocherà l’effetto contrario rispetto a quello per il quale tale norma era stata pensata. Il punto è fondamentale: a poter visionare gli atti sarà solo il relatore, data la lontananza dalla Cancelleria della sezione. E nei casi più impegnativi per dimensione, denuncia Caiazza, “nemmeno lui”. L’immediata conseguenza è che la maggior parte degli avvocati, per evitare “un simile scempio”, chiederanno la trattazione orale, anche nei casi in cui sarebbe stato possibile farne a meno. Con l’effetto, dunque, di aumentare, anziché diminuire, le presenze nelle aule. Caiazza porta come esempio positivo quello della Corte d’Appello di Roma dove, nei giorni scorsi, le Camere penali del distretto, capitanate da quelle della Capitale, hanno sottoscritto un protocollo affinché le Camere di consiglio vengano celebrate sempre e comunque in aula, in presenza. “A conferma che certe forzature ideologiche, volte a seminare - con il pretesto della pandemia - velenosi anticorpi negli attuali assetti costituzionali del processo penale - conclude Caiazza - sono estranee alla cultura della giurisdizione di larga parte della magistratura italiana”. I dati attualmente in possesso descrivono un largo ricorso al cartolare, ad esempio, a Milano: tra il 25 novembre e per i primi dieci giorni di dicembre, stando all’ultimo approfondimento, tra le cinque sezioni penali e l’assise d’appello i tre quarti dei processi (in totale sono 584) sono stati o verranno trattati tutti cartolarmente con il consenso o la mancata opposizione di difensori e imputati. Ma la questione preoccupa comunque i penalisti di tutta Italia. Che ora contano sui lavori parlamentari: l’esame del dl Ristori bis, attualmente, è infatti fermo al Senato, dove sono stati presentati già diversi emendamenti per scongiurare il rischio di cartolarizzazione. Ed è da lì che, eventualmente, potranno arrivare risposte alle richieste di Caiazza. La vera difficoltà è nell’iter: i tempi strettissimi e l’enormità delle questioni contenute nel provvedimento - economiche innanzitutto - hanno indotto un esame ristretto alla congiunta Bilancio e Finanze fissato per sabato e domenica prossimi. Nessun passaggio dunque in altre commissioni, come la Giustizia. La trattazione omnibus potrebbe mettere in ombra problemi come quelli posti da Caiazza. Ma le richieste di modifiche sono già arrivate da Italia viva, in particolare da Giuseppe Cucca, Forza Italia e Lega. “Ci aspettiamo un cambio di rotta da parte del governo”, dice Andrea Ostellari, del Carroccio, presidente della commissione Giustizia. “Faremo la nostra battaglia”, assicura il senatore renziano. “Gli emendamenti del centrodestra prevedono un’abrogazione tout court della norma sulla celebrazione da remoto del processo d’appello”, chiarisce a propria volta il senatore di FI Franco Dal Mas, avvocato come Cucca e Ostellari. “C’è un problema sottovalutato: adesso il testo del decreto stabilisce che il giudizio di secondo grado è addirittura cartolare, con conclusioni da depositare 5 giorni prima, a meno che il difensore non chieda di svolgerlo in presenza. Ma non è chiarissimo se resti uno spazio di discrezionalità per la Corte che ritenesse non motivata la richiesta del difensore, e che perciò decidesse di respingerla. In un caso del genere, il diniego è impugnabile? E se sì, dinanzi a chi?”, si chiede Dal Mas. Gli emendamenti prevedono anche l’esclusione dell’incidente probatorio con modalità a distanza, oltre che il ricorso al portale telematico venga reso non una modalità esclusiva ma concorrente con la posta elettronica certificata. “Già ora il ricorso a modalità telematiche si scontra con un sistema informatico che non opera uniformemente sul territorio nazionale, rendendo complicata l’attività forense”, aggiunge il forzista. Un problema, quello tecnologico, sollevato anche dalla Lega. Il punto di caduta nell’esame del dl potrebbe anche consistere in una richiesta di riformulazione da parte del governo, che al Senato ha numeri risicati: anziché cancellare la norma sui processi d’appello, prevedere che lo svolgimento sia in presenza salvo che la stessa difesa non chieda di celebrarlo da remoto, con le modalità ora previste di default. Perché non si può giudicare il lavoro di un magistrato? di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 1 dicembre 2020 Inchieste roboanti svanite nel nulla dopo anni, arresti eclatanti annullati quando il danno è fatto. Tutte le professioni e le attività umane vengono valutate in base ai risultati che raggiungono, tranne quella dei magistrati. Siamo ormai assuefatti alla lettura, in genere in trafiletti di poche righe, di inchieste penali roboanti e devastanti per gli indagati, svanite anni dopo nel nulla, tra archiviazioni ed assoluzioni variamente motivate. Lo stesso vale per arresti eclatanti (ma anche non eclatanti), poi annullati quando il danno è fatto. Ancora pochi giorni fa Il Riformista, quotidiano tra i pochi sensibili al tema, apriva sull’ennesimo annullamento dell’ennesimo arrestato senza ragione in una roboante inchiesta della Procura di Catanzaro, nel frattempo celebrata come la liberazione della Calabria dalla ‘ndrangheta. Un povero cancelliere sbattuto in carcere per cinque mesi e per un altro paio ai domiciliari, quando infine la sesta sezione della Corte di Cassazione (come già per un lungo elenco di altri sventurati indagati di quella inchiesta), ha annullato senza rinvio l’ordinanza cautelare, prendendo atto che non vi fosse la benché minima traccia di una ragione qualsivoglia per la quale quel povero cristo avesse dovuto subire una simile infamia. Ma appena qualche settimana fa Pierluigi Battista (uno dei pochi giornalisti che su questo tema mostri coraggio ed indipendenza di giudizio) sul Corriere della Sera si era esercitato nella davvero impressionante elencazione delle inchieste giudiziarie che, impegnando fiumi di inchiostro, aperture di telegiornali e peana per la salvifica funzione moralizzatrice della Magistratura, avevano negli ultimi decenni segnato la fine brutale, immediata ed irrimediabile di carriere politiche e professionali o di imprese economiche, poi risoltesi a babbo morto con assoluzioni che hanno meritato, come dicevo, appena qualche distratta citazione. È una vecchia storia, che interessa a pochi; fino a quando la cosa non ti tocca nella persona o negli affetti, ai più il tema non interessa. E quando non si può fare a meno di affrontarlo, ci tocca ascoltare -dopo mille premesse encomiastiche sulla nostra magistratura, la migliore del mondo e bla bla bla- il solito rosario dell’errore come fisiologica evenienza del giudizio, errare humanum est e idiozie del genere. È ovvio infatti che l’errore sia parte naturale del giudizio; ed è altrettanto ovvio che non tutte le modificazioni di un giudizio implichino un errore o una responsabilità. I processi si fanno apposta, il contributo dialettico della difesa o la sopravvenienza di prove prima non disponibili è parte essenziale e fisiologica della giurisdizione. Il fatto è però che su questa drammatica questione non si farà mai un passo avanti se non si comprenderà che occorre mettere mano, con urgenza e determinazione, al problema del controllo sulla qualità del magistrato, oggi reso semplicemente impossibile dalla automaticità della progressione in carriera. In Italia - unico esempio nel mondo civile - è preclusa la possibilità di una valutazione reale, ovviamente ancorata a parametri oggettivi e predefiniti, della qualità professionale del magistrato. Il giudizio di merito è considerato farina del diavolo, perché costituirebbe - questo lo stupefacente ragionamento strumento di condizionamento della sacra ed intangibile indipendenza della magistratura. Dunque nessuno può chiedere conto ad un Pubblico Ministero, per fare un esempio, di quante volte l’azione penale da lui esercitata abbia trovato conferma in una sentenza definitiva di condanna; nessuno può chiedere conto al Gip di quante sue ordinanze cautelari si siano poi dimostrate legittime; o al Giudice del dibattimento di quante sue sentenze siano state riformate, e così via discorrendo. Tutte le professioni e le attività umane vengono giudicate dai risultati che esse raggiungono, ad eccezione di quella dei magistrati. Né pretenderemmo chissà quali processi di piazza, o quali tremende sanzioni disciplinari. Ma se un Pm ed un Gip determinano l’arresto di centinaia di persone, metà delle quali verranno poi giudicate estranee; o sequestrano ingiustamente intere aziende determinandone il default, è una pretesa così blasfema, un attentato alla indipendenza della magistratura così eversivo, quello di pretendere almeno che quei magistrati vengano assegnati a compiti e funzioni meno complesse, dove sia loro precluso di continuare a nuocere? È così oltraggioso ritenere che un magistrato che dimostri per fatti concludenti di non essere all’altezza di svolgere compiti di peculiare delicatezza e difficoltà, debba essere assegnato a compiti meno rischiosi per la comunità sociale? Mi piacerebbe che qualcuno almeno rispondesse a queste semplici, civili domande. Chiedo troppo? *Presidente Unione camere penali italiane Giustizia e furore ideologico di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 1 dicembre 2020 Avevo deciso di non scrivere più del nostro sistema di giustizia. Per sfinimento. Mi ero ben guardato dal commentare l’ennesima assoluzione di Bassolino. Quel che avevo da dire l’avevo già detto infinite volte nel passato. La meritoria iniziativa del Corriere del Mezzogiorno e soprattutto il lucido editoriale di Demarco mi impediscono di stare zitto. Sarò ruvido e franco. Dovremmo smetterla, tutti, di rivolgerci ai pubblici ministeri, quasi che siano santuari in cui riposa la verità e l’onestà. Dovremmo smetterla di rivolgerci loro per chiedere pareri e opinioni quando si tratta di questioni di giustizia, di offrire loro la vetrina delle trasmissioni televisive e radiofoniche, di fare ricorso a loro per candidature di prestigio o per incarichi di responsabilità. Se riuscissimo a farlo, sarebbe un bel modo per affrancare la società civile da una sorta di complesso di inferiorità. E ciò va detto senza considerare che quando un pubblico ministero o un ex pubblico ministero accetta di candidarsi per un partito politico, compromette l’attuale e la passata sua attività, che è intrisa di discrezionalità e che, pertanto, non può non essere o non può non essere stata influenzata dalla ideologia. Anch’io sono rimasto basito dalle dichiarazioni del procuratore Lepore. Ma non meno mi preoccupano le convinzioni espresse dall’eurodeputato Roberti. Egli riconosce che quando arriva una “informativa” il sostituto è tenuto ad aprire un fascicolo, ma non esclude che “per un motivo o per l’altro, si proceda con troppa leggerezza a iscrivere nel registro degli indagati”. Ammette, perciò, che vi è e non può non esservi una inevitabile (e guai se non fosse così) necessità di selezionare l’indagine che va coltivata da quella che va messa da parte. Quale è, tuttavia, la garanzia che la selezione sia fatta in maniera corretta? “Lavorando con scrupolo e con distacco”, dice Roberti. Ma è possibile, mi chiedo da anni, che ci possiamo accontentare della assicurazione che i pubblici ministeri (che svolgono, lo ripeto fino alla noia, un’attività tutta intrisa di valutazioni) lavorino “con scrupolo e con distacco”, là dove i sistemi di controllo sul loro operato sono tutti interni allo stesso corpo dei magistrati? E lo stesso Roberti, che ha svolto tutta la vita queste funzioni, di sicuro con “scrupolo e distacco”, non pensa che il cittadino, ripercorrendo la sua vita professionale, possa essere attraversato dal dubbio che l’ideologia, oggi apertamente da lui professata, abbia talora influito sulle sue scelte inevitabilmente discrezionali? Mentre scrivo queste note ho sotto gli occhi una notizia. La Procura generale presso la Corte di cassazione ha iniziato o sta per iniziare 27 procedimenti disciplinari nei confronti di 27 magistrati per comportamenti disdicevoli. La Procura ha appreso le notizie su cui ha fondato le incolpazioni dalle trascrizioni delle conversazioni conservati nel o nei cellulari sequestrati dalla procura di Perugia a Palamara. Erano conversazioni private che, in un Paese civile, avrebbero dovuto essere distrutte, perché prive di qualsiasi rilevanza penale. La procura di Perugia le ha rese ostensibili (a suo dire, perché, attesa la mole, non era in grado di fare selezione) e la Procura generale ne ha amplificato la diffusione, mettendo alla gogna 27 magistrati e non facendo un bel servizio alla stessa magistratura. Trovo il tutto di un’incredibile inciviltà e sono davvero preoccupato che il massimo vertice dell’organismo titolare dell’azione penale si vanti dell’iniziativa. Se ciò fosse capitato quando ero al Consiglio superiore avrei chiesto un intervento del Capo dello Stato, per segnalare la pericolosa deriva delle nostre istituzioni (e, forse e paradossalmente, un intervento della prima commissione). Un potere del tutto incontrollato e incontrollabile, quale è quello delle Procure, può esser utilizzato non solo perché, anche se inavvertitamente, si cede alla propria ideologia (come lamentano i politici), ma anche per una sorta di “furore ideologico” (come può lamentare un qualsiasi cittadino e, anche, un magistrato colpito nel proprio “io”). È da tempo che denuncio che il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è un’autentica ipocrisia inserita nella nostra Costituzione. È da tempo che denuncio che su questa ipocrisia è costruita l’impalcatura del Titolo quarto della nostra Costituzione, che ha dato protezione costituzionale all’unificazione in un unico corpo, la magistratura, dei giudici e dei pubblici ministeri. Un’impalcatura che finché rimane come è attualmente, renderebbe inutile e addirittura pericolosa la separazione delle carriere. Pochi condividono le mie idee. Si obietta che l’obbligatorietà è il precipitato del principio di eguaglianza. Ma l’eguaglianza è imprescindibile nel momento del giudizio. Nel momento dell’azione ciò che si può pretendere è, come dice Roberti, lo “scrupolo e il distacco”. Ce lo insegnano quasi tutte le Nazioni che si sono ben guardata dall’inserire nelle loro Costituzioni un analogo principio. E non penso che siano nazioni meno civili della nostra. I colleghi penalisti sono sempre stati tiepidi nei riguardi di queste mie idee. Non vorrei che per loro l’attuale sistema vada bene, perché a loro più che la giustizia, interessa il processo. Processo penale, lo Stato paghi le spese di chi viene assolto di Enrico Costa* Il Riformista, 1 dicembre 2020 Lettera al ministro Bonafede: insieme ai colleghi di Azione e Più Europa ho presentato un emendamento alla legge di Bilancio. Ne tenga conto. Gentile Ministro, come le ho anticipato nei giorni scorsi, insieme ai colleghi di Azione e +Europa ho presentato un emendamento alla legge di bilancio che confido possa essere accolto del Governo e da un’ampia base parlamentare. Sono ottimista perché si tratta di una idea di buonsenso, sganciata da ogni profilo ideologico. Proponiamo che nel processo penale, in caso di proscioglimento o di assoluzione con formula piena, le spese legali non restino a carico dell’imputato, ma siano ristorate - entro certi limiti - dallo Stato. Da quello Stato che ha esercitato la propria pretesa punitiva, sottoponendo la persona al lungo, defatigante e spesso umiliante calvario delle indagini e del processo. Oggi, chi riesce a dimostrare la propria assoluta estraneità al reato o l’insussistenza di qualunque fatto di rilevanza penale, non solo deve sopportare il peso del processo (che di per se è una pena), ma anche quello delle spese necessarie per difendersi. E questo non è giusto. E non è considerato giusto in 28 ventotto Stati in cui sono previste, pur con accezioni diverse, forme di ristoro delle spese legali a beneficio del soggetto assolto con una formula ampiamente liberatoria (Albania, Austria, Bosnia- Erzegovina, Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Macedonia, Malta, Moldavia, Monaco, Montenegro, Norvegia, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Turchia e Ungheria). Nel processo civile il pagamento delle spese di giustizia segue la regola della soccombenza. Nel vigente sistema penale, prevedere la rifusione delle spese processuali per l’imputato assolto con formula piena, sarebbe rispettoso di princìpi fondamentali sanciti dalla Costituzione. Il principio enunciato dell’articolo 2, in base al quale la Repubblica riconosce e garantisce a ciascuno i propri diritti, senza ostacolarli o “farli pagare” indebitamente. L’articolo 24, che definisce il diritto di agire e difendersi in giudizio un diritto fondamentale, un tratto caratterizzante della nostra forma di Stato, il quale non può tollerare di essere “tassato” o condizionato in maniera irragionevole. L’articolo 27, che collega la pena a un accertamento di colpevolezza, il quale mostra con ogni evidenza i suoi limiti laddove l’imputato, pur scagionato con formula piena, si trovi di fatto sanzionato, perché costretto a pagare un’ingente somma pecuniaria che, per entità, di poco differirebbe da multe o ammende. L’articolo 111, relativo ai diritti e alle situazioni giuridiche che nel complesso delineano il giusto processo e precludono la persistente vigenza di questo “privilegio della parte pubblica”. Questa “eccezionalità” del processo penale appare del tutto priva di ragionevolezza e quindi in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione. Non si comprende, infatti, perché la parte pubblica, ove soccombente, non possa essere chiamata a rifondere le spese processuali, almeno nel caso di assoluzione con una formula ampiamente liberatoria. Come potrà osservare, signor Ministro, si tratta di una proposta di equità, costituzionalmente fondata, senza accenti ideologici, presentata da forze politiche di opposizione in chiave costruttiva. Siamo certi che potrà prenderla in considerazione. Sarebbe un gesto molto significativo. *Deputato di Azione Donne e violenza, Italia “primitiva”. E stiamo ancora al “se l’è cercata” di Susanna Turco L’Espresso, 1 dicembre 2020 Violenze di gruppo, stupri nei festini, revenge porn. In maniera tutto sommato sorprendente viste le circostanze eccezionali della pandemia, del coprifuoco, dei mezzi lockdown, in questi giorni nelle pagine della cronaca sono comparse notizie apparentemente slegate fra loro, e che però raccontano un genere, una tendenza, un clima un mondo di violenza nel quale siamo quotidianamente immersi, dai connotati abbastanza precisi, evidentemente anche a dispetto della pandemia. Notizie mescolate a casi non penalmente rilevanti - come la polemica sul video-tutorial per essere sexy al supermercato poi non trasmesso da Raidue, o quella sull’intervista non ritrasmessa di Franca Leosini a Luca Varani - tre notizie legate a reati, o presunti reati, compiuti da maschi su femmine, uomini tutti abbastanza giovani (dai 43 ai 20 anni) donne giovanissime, ragazze (18-20 anni in due casi su tre). Tutte vicende che raccontano un mondo, diverso anche da quello che raccontiamo nelle giornate di celebrazione. La prima, in ordine cronologico, riguarda la violenza di gruppo per la quale la Procura di Tempio Pausania si prepara a chiedere il rinvio a giudizio per il figlio di Beppe Grillo, Ciro Grillo, e i suoi tre amici (Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria): risale al 16 luglio 2019, ma le indagini sono state chiuse solo in questi giorni, dopo un tempo che è stato di un terzo più lungo rispetto alla media certificata delle statistiche del ministero della Giustizia (di solito tra il fatto e l’eventuale rinvio a giudizio passsano 400 giorni, in questo caso siamo già a 493 e ancora non è stata fissata l’udienza nella quale il Gup deciderà sul futuro del procedimento). Una vicenda nella quale - con modalità che ad alcuni hanno ricordato il caso Montesi del lontano 1953 - l’intreccio tra accadimenti politici e presunti reati sessuali è inestricabile, come testimonia non solo la tempistica ma anche l’assoluto silenzio che ha circondato la vicenda, un tacere generale di tutti nel quale il dibattito italiano di solito così irriguardoso ha toccato il suo vertice di garantismo, ad essere ottimisti. C’è da dire, sempre per stare nel clima in cui stiamo immersi, che un anno fa, prima che la coltre di silenzio avvolgesse tutto, le primissime notizie relative al caso Grillo parlavano (in automatico?) di “modelle”, mentre si trattava di studentesse dell’alta borghesia milanese, e si soffermavano a sottolineare i dieci giorni trascorsi tra la presunta violenza e la sua denuncia da parte di una delle due ragazze: come se poi l’urgenza di andare dai carabinieri fosse un metro di valutazione per la veridicità dei fatti, o comunque una priorità, per una vittima. Questioni in teoria secondarie hanno ammantato il secondo episodio che ha dominato le cronache di questi giorni, anche in questo caso una violenza di classe che non riguarda certo contesti poveri, degradati, o ai margini della società: quello di Alberto Genovese, startupper milionario ora in carcere per violenza sessuale su una diciottenne, durante uno dei festini a base di droghe che teneva da anni nel suo appartamento di Milano, soprannominato per le occasioni “Terrazza Sentimento”, versione appena più upper class delle feste analoghe a Bologna, che coinvolgevano professionisti vari in quella che era stata ribattezzata “Villa Inferno” (un caso per il quale, a differenza di quello milanese, la procura non contesta violenze, ma procede per spaccio e induzione e diffusione di materiale pornografico). Bene, anche nel caso di Genovese, sono saltati in primo piano nelle cronache elementi per lo meno decisamente secondari, rispetto a una violenza considerata efferata persino dagli inquirenti, su una persona anche qui semi-incosciente. Si è invece insistito, in vari articoli, sulle grandi capacità imprenditoriali dell’autore del reato: “Un vulcano di idee, che per il momento è stato spento”, ha scritto il Sole 24 Ore, che si è poi scusato. L’apoteosi è stata raggiunta però dal fondo su Libero di Vittorio Feltri, del quale è sufficiente citare il titolo: “La ragazza stuprata da Genovese è stata ingenua”; l’occhiello: “I cocainomani vanno evitati”; e la conclusione: a Genovese “auguriamo almeno di disintossicarsi in carcere. Alla sua vittima concediamo le attenuanti generiche. Ai suoi genitori tiriamo le orecchie”. Una inedita versione del “se l’è cercata”: le attenuanti alla vittima, da eventualmente concedere. L’ostinazione di vedere, in chi subisce una azione violenta, una qualche forma invece di azione, riluce anche nel terzo caso, quello della maestra che a Torino ha perso il posto dopo che il suo ex ha condiviso con il gruppo del calcetto immagini e video hard che gli aveva mandato lei: in questo caso il reato di lui, che si chiama revenge porn - in un anno la “diffusione illecita di video” si è verificata 781 volte, due al giorno, secondo i dati raccolti dalla direzione centrale della polizia criminale, e ha causato l’apertura di oltre mille indagini secondo il report del ministero della Giustizia - un reato che ha prodotto un effetto immediato sulla realtà di lei, la maestra incensurata, ma adesso anche senza lavoro. Cosa hanno in comune questi tre casi? “Sono indicatori di un sentire che è tutto sbagliato, di un dibattito pubblico che in Italia è primitivo, di livello inferiore a uno standard di civiltà accettabile”, dice Pina Picierno, europarlamentare dem che da quando è a Bruxelles si è specializzata nei temi che riguardano i diritti individuali e la parità di genere. Il suo punto di vista è particolarmente interessante perché guarda il nostro Paese anche da fuori. Picierno è in grado di raccontare ad esempio con quale differenza sia stato accolta la petizione HalfOfit, in Italia “giustomezzo”, che chiede che metà dei finanziamenti del Recovery Fund sia destinata a misure che abbiano effetti concreti sulla vita delle donne: “In altri Paesi europei questa proposta è stata accettata in modo pacifico, in Italia sono stata ricoperta di insulti incredibili. Mi si accusava: vuoi che i soldi del Recovery fund siano utilizzati per estetiste, uncinetto e parrucchieri!”. Il tema, racconta Picierno - così come altre elette alla Camera e al Senato - è che arrivati al 2020 da un punto di vista legislativo non siamo più a zero. La politica ha in parte recuperato il gap che la caratterizzava fino a una decina di anni fa. In questi anni leggi sono state fatte. Non si può neanche più dire che siamo a zero, dallo stalking alla legge sull’omofobia, passando per il reato di diffusione illegale di immagini hard, contenuto nel cosiddetto codice rosso. Anche se ovviamente molto resta da fare. A questo punto, dice Picierno, “poiché, come è nello spirito della Convenzione di Istanbul, la piena uguaglianza è la chiave per prevenire la violenza, bisogna agire pezzo a pezzo: ad esempio adesso concentrarsi per conquistare la sulla parità salariale, che in Europa ha tutt’ora un dislivello del 16 per cento tra uomini e donne”. A fianco della legislazione c’è tuttavia un drammatico ritardo culturale, nella parola pubblica, e anche nella rappresentanza. “Se è cambiato tutto questo in dieci anni? direi di no, molto poco”, sospira Picierno. Lo stesso Pd, del resto, è un partito dove la rappresentanza femminile stenta a raggiungere i livelli di vertice, come dimostra l’eccezione di Valentina Cuppi, presidente dem di nomina zingarettiana. Un paradosso, questo del maschilismo nei vertici, che si riproduce in modo capovolto nella destra. Là le donne ci sono, e invece manca l’attenzione che c’è a sinistra alle lotte per l’uguaglianza, ridotte quasi soltanto alla tradizionale difesa della famiglia. Un caso quasi unico, ma appunto singolo, è quello rappresentato dall’avvocato Giulia Bongiorno, senatrice della Lega, ma anche impegnata da oltre un decennio (con l’associazione Doppia Difesa) nella causa delle vittime di violenze, nonché in ultimo legale della ragazza che ha denunciato Grillo jr. “Un paradosso vero”, dice Flavia Perina, ex parlamentare e direttrice del Secolo d’Italia: “A destra abbiamo l’unica capa partito, Giorgia Meloni, l’unica governatrice è leghista, Donatella Tesei, in Forza Italia sono donne le due capogruppo e una come Mara Carfagna è in prima linea sui temi dell’uguaglianza. Nel giornalismo di destra, al contrario, siamo a un livello estremamente arretrato”. E, aggiunge, la costruzione culturale “la fanno molto i giornali, dove gli opinion leader sono in genere maschi anziani. Più che le leggi, mancano - dice - atti esemplari, promozione di una cultura diversa anche da parte delle istituzioni che stanno a contatto coi cittadini, come le forze di sicurezza, i tribunali”. Basterebbe ad esempio, continua, il caso Manduca, di cui è prevista la prossima udienza il 9 dicembre, per il processo di appello di un caso che la Cassazione ha riaperto sei mesi fa: tecnicamente qui è lo Stato, attraverso la sua Avvocatura, a ostinarsi a voler recuperare dagli zii dei tre orfani per femminicidio, i 259 mila euro riconosciuti in primo grado come risarcimento. All’inizio (eravamo ancora nella scorsa legislatura) si disse che la procedura si era avviata in automatico: adesso c’è Conte che assicura un intervento imminente, tre governi dopo, e sin qui nessuno l’ha fermata. Processo senza prove, per il Pm Raffaele Lombardo “Aveva la mafia dentro…” di Antonio Coniglio e Sergio D’Elia Il Riformista, 1 dicembre 2020 È il 29 marzo 2010 e sull’Esa, la sede catanese della presidenza della regione, come in un romanzo gotico, cala improvvisamente un velo di inquietudine. La vicenda giudiziaria, che condurrà alle dimissioni da presidente della regione Raffaele Lombardo, si abbatte improvvisa sulla terra di Sciascia. È la stampa a notificarla, per pubblici proclami, ai siciliani. L’indagato, che allora è l’inquilino di palazzo d’Orleans, apprende dalla carta stampata di rischiare l’arresto. Non basterà la smentita della procura intenta a negare ipotesi di misure cautelari. L’informazione plasma, orienta, crea, divide. I titoli sensazionalistici vanno in scena per mesi, per anni. Serpeggiano come un crocchio di manzoniana memoria. Ben 16 titoli di apertura del Tg1 delle ore 20 vengono dedicati al processo Lombardo e il direttore Minzolini viene censurato dal comitato di redazione per accanimento. I magistrati catanesi appaiono in disaccordo: un procuratore capo e un aggiunto (attuale procuratore capo di Catania) derubricano il reato a voto di scambio ma i sostituti non ci stanno. La questione finisce dinnanzi al Consiglio superiore della magistratura. Sull’imputazione decide un Gup che dispone l’imputazione coatta per concorso esterno in associazione mafiosa. Lombardo si ritrova coinvolto in un doppio binario, sotto processo per concorso esterno e per voto di scambio, con buona pace del ne bis in idem. Oggi, dopo una condanna di primo grado, una assoluzione in appello, un annullamento con rinvio della suprema corte di cassazione, l’appello bis di quel processo è alle battute finali. In quel sacco dalle pareti elastiche, manca sempre il tassello principale: qual è il fatto di reato commesso dall’ex presidente della regione siciliana? In cosa Lombardo avrebbe favorito la mafia e in cosa la mafia sarebbe stata favorita da Lombardo? È un processo indiziario che si fonda sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che irrompono nel bel mezzo del bailamme mediatico. I collaboratori raccontano di vecchi incontri, di summit, di collegamenti con il presidente della regione. Non c’è però una sola intercettazione telefonica o ambientale, nonostante il politico siciliano sia finito nel grande fratello di Gioacchino Genchi, nella quale si trovi un riscontro fattuale, che configuri il fatto di reato. I pentiti parlano, accusano ed entrano nel romanzo. Marco Pannella avvisava che, quando i giornali anticipano le notizie, c’è sempre il rischio che scatti la presunzione utilitaristica in chi collabora. Il collaboratore arriva dopo la notizia, sa di servire al processo e diventa egli stesso l’unica ancora del fatto di reato. I Pm argomentano che Lombardo sarebbe nato in un contesto mafioso e avrebbe studiato dai salesiani. Come il boss dei boss: Nitto Santapaola. Una sorta di destino cinico e baro, di predestinazione alle relazioni pericolose. Lombardo mafioso perché nato nel territorio di Ciccio La Rocca (che poi è pure il territorio di don Luigi Sturzo), Lombardo mafioso perché conosce il boss Rosario Di Dio che però è stato pure sindaco e avrà incontrato pure prefetti, vescovi e procuratori. Il boss si sarebbe presentato a un consorzio di bonifica, raccomandato da Lombardo, per regolare una sua situazione debitoria. Particolare non di poco conto: non sarebbe neanche stato ricevuto dai dipendenti della struttura. Lombardo mafioso perché i pentiti dicono che è amico loro ma forse ha pure tradito la mafia. E il fatto, il re del diritto penale? Pare per esempio, secondo l’accusa, che Lombardo avrebbe agevolato l’organizzazione criminale nell’assegnazione di un appalto per la realizzazione di alloggi per i militari di Sigonella. Il tentativo ipotetico, mai provato, non sarebbe andato a buon fine ma basta ciò per aprire le porte al sospetto. Il geologo Barbagallo, in odore di mafia, si lamenta telefonicamente di essere stato penalizzato da Lombardo e, per le elezioni regionali, giura di non esser passato neanche dalla sua porta ma è un altro elemento chiave del processo. Lombardo avrebbe avuto rapporti con il boss Bevilacqua talmente stretti da redarguire un tale Bonfirraro perché quest’ultimo sostiene alle elezioni il candidato vicino a Bevilacqua e non il suo. Il pentito Caruana parla del misterioso summit di Barrafranca che non lascia traccia come i beati paoli, il mafioso Palio dice che il clan cercava voti per il politico di Grammichele da prima del ‘98, tesi confermata dal super pentito Santo La Causa. C’è da interrogarsi su come sia possibile che le accuse del pentito D’Aquino agli uomini di Lombardo, per le quali questi hanno raggiunto l’assoluzione, possano ricadere misteriosamente sull’ex presidente della regione. E ancora se possano, in uno stato di diritto, assumere rilevanza i racconti del collaboratore Francesco Schillaci che avrebbe appreso, affacciatosi come Romeo dalle finestre del carcere di massima sicurezza di Opera, dal boss La Rocca che Lombardo era un fidato amico di quest’ultimo. Sembra di trovarsi dinnanzi alla preoccupazione paventata da Luigi Ferrajoli in La mutazione sostanzialistica del modello di legalità penale. Sembra di assistere a un reato di status e non a un reato di azione o di evento. Per cosa si dovrebbe punire Lombardo, quale fatto ha commesso? Per un summit nel quale non c’è traccia della sua presenza, un favore alla mafia mai provato? È come se, nella terra nella quale si è passati dalla “mafia non esiste” al “tutto è mafia”, il consenso debba essere sempre e comunque inficiato dalla mano mafiosa. E Lombardo di voti ha fatto man bassa in ogni competizione elettorale. Raffaele Lombardo è diventato un tipo d’autore. È il taterschuld, la colpa d’autore, la colpa per il modo d’essere. Ciò che conta è il modo di essere dell’agente, ciò che si ritiene l’agente sia. L’essenza della colpa d’autore sta nel rivolgersi alla psiche dell’uomo, alla sua mentalità. Lo stato non si interessa soltanto dell’azione esterna ma si arroga finanche il diritto di assurgere a stato etico. La potestà punitiva incide sulla sfera spirituale dell’individuo. È la fine della separazione tra diritto e morale: il tramonto dello stato di diritto. Come ha scritto Tullio Padovani: “L’oggetto del rimprovero di colpevolezza consiste nell’aver plasmato la propria vita in modo da acquisire una presunta personalità delinquenziale”. Quando il caso giudiziario è esploso Raffaele Lombardo compiva 60 anni. Qualche giorno fa ha festeggiato il suo 70° compleanno. L’esperienza di un governo regionale venne interrotta ex abrupto e, per dieci anni, un uomo è stato sottoposto alla potestà punitiva dello Stato accompagnato dallo stigma della mafiosità. Il punto non è se l’ex presidente della regione siciliana abbia governato bene o male, se sia simpatico o antipatico, se sia gelido o affabile, se sia un riformatore o una macchina di consensi clientelari. La questione è il fatto: indicateci il fatto di reato! Sarebbe possibile condannare un uomo, chiunque esso sia, solo sulla base delle dichiarazioni dei pentiti? No, non è possibile. I posteri ci diranno quanto nell’affaire Lombardo, nel suo crucifige, abbia inciso la sua scelta di bloccare i termovalorizzatori in Sicilia, di scontrarsi con poteri più forti di lui. Questo è il giudizio storico ma la potestà punitiva deve attenersi rigorosamente al fatto e non può trattare i fatti come pesci sul banco del pescivendolo. A colpi di mannaia, di giudizi moralistici un tanto al chilo. Il giudice deve stare lontano dal verminaio delle passioni. Solo così non si scriveranno romanzi gotici ma si recupererà il senso più profondo dello “ius dicere”, dell’affermare il diritto. Oggi, sul processo Lombardo, a un passo dalla sentenza, occorre finalmente esercitare la virtù del dubbio. Senza la virtù del dubbio, il finale è già scritto. La chiusa non sarà una manifestazione di forza della prova giuridica, ma una prova di forza del “diritto del nemico”. È la terribilità - come ammoniva Sciascia - nemica del diritto e della giustizia, che condanna non per quel che si è fatto ma per quel che si è, che non ci libera dal male, ma ci libera dai “cattivi”. Lombardia. Msf: “I detenuti ci chiedono quando potranno rivedere la famiglia” adnkronos.com, 1 dicembre 2020 L’impegno del team Medici Senza Frontiere negli istituti lombardi racconta una realtà tra contagi e criticità: “nostro compito è quello di disinnescare i focolai”. “Quel che procura parecchio stress è la mancanza di percezione di quanto accade fuori. La domanda che ci fanno più spesso è “quando potremo rivedere la famiglia?”. L’assenza di colloqui in presenza è una forma di tutela in epoca di coronavirus, ma psicologicamente molto dura da sopportare per chi vive dietro le sbarre”. Federico Franconi, water and sanitation manager per Medici Senza Frontiere (in pratica si occupa di tutte le attività logistiche relative alla salute e ai servizi igienico-sanitari), quotidianamente, in coppia con un infermiere, Mario Ferrara, varca la soglia di uno degli istituti penitenziari lombardi. Un giorno Lodi, l’altro Busto Arsizio, l’altro ancora Monza. Un tour continuo, da che l’Italia è stata investita dalla seconda ondata di pandemia di Covid-19, con l’obiettivo di proteggere detenuti, agenti di Polizia Penitenziaria ed operatori sanitari da eventuali contagi e scongiurare il rischio focolai. Dalla sanificazione delle manette alla macchinetta del caffè, dalle celle agli spazi comuni, dalla prevenzione all’individuazione dei positivi: è un lavoro minuzioso, e piuttosto silenzioso, quello per cui il team di Medici Senza Frontiere è stato chiamato ad operare a fianco della Direzione delle varie strutture. Una mission cominciata già a marzo e che ha visto l’impegno di Msf non solo in Lombardia, ma anche nelle Marche in Piemonte e in Liguria. In Italia, secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Giustizia, sui 53.720 detenuti presenti negli istituti di pena del Paese sono stati registrati 826 casi di positività al Covid-19. Mentre sono 1.042 i positivi fra gli operatori penitenziari. Nelle carceri lombarde la cifra dei detenuti positivi sfiora quota 300, la maggior parte è accolta nei Covid hub di San Vittore e Bollate. Proprio lì dove inizialmente ha cominciato a lavorare il team di Msf. “Ma presto l’obiettivo è cambiato: dagli hub di San Vittore e Bollate, ci siamo spostati dove era più urgente la risposta, negli istituti più piccoli con meno risorse e mezzi per confrontarsi con l’epidemia in modo adeguato. Il nostro compito è stato, ed è tutt’oggi, quello di disinnescare i focolai più critici”, racconta all’Adnkronos Federico Franconi. Tra preoccupazione, scioperi della fame per sensibilizzare sul sovraffollamento e focolai importanti (vedi Lodi e Busto Arsizio), il team di Msf di situazioni problematiche, durante la seconda ondata, ne ha viste. “Ogni istituto è una realtà a sé, in alcuni ci sono criticità evidenti ma in questo momento specifico bisogna tenere alto il senso di responsabilità per non creare ulteriori pressioni sulla componente sanitaria che sta facendo ogni sforzo per monitorare la situazione e tenerla sotto controllo”, dice Franconi riferendosi agli scioperi della fame, a suo avviso “legittimi e comprensibili”, ma al contempo pone l’accento anche sul fatto di “non strumentalizzare il tema carceri”. Il viaggio all’interno delle prigioni, ad ogni modo, mostra “che servono interventi più mirati, sia per quanto riguarda gli spazi fisici, che nell’ambito della socialità, per esempio la diminuzione delle ore d’aria grava parecchio sui detenuti”, specifica Franconi. Nonostante diverse criticità, quel che invece non manca è la collaborazione. “La migliore risposta per contrastare la diffusione del virus nelle carceri. Abbiamo - evidenzia Franconi - un ottimo dialogo con tutti gli operatori sanitari, la polizia penitenziaria e la direzione degli istituti. Un lavoro di squadra fa una grandissima differenza” per la sfida più importante contro un virus silenzioso che si è pericolosamente insinuato tra le celle. Marche. Antigone: “Niente politici, il prossimo Garante sia una figura indipendente” anconatoday.it, 1 dicembre 2020 Fra pochi giorni la nuova amministrazione regionale nominerà quello che sarà il Garante Regionale dei Diritti della Persona e l’associazione Antigone Marche vorrebbe che fosse una persona libera, imparziale e pronta a denunciare quanto ancora nel nostro sistema detentivo rende inapplicato l’Articolo 27 della Costituzione Italiana. Nelle Marche il Garante è una figura a tutela dei diritti dei più deboli, siano essi minori, detenuti, migranti o chiunque, si legge in una nota - veda un proprio diritto calpestato. Il suo ruolo dunque è estremamente delicato e sarebbe un errore confonderlo con quello di un amministratore, un direttore di servizio o un consigliere regionale. Il Garante dei Diritti della Persona non deve essere niente di tutto questo, perché è molto di più: è un’Autorità indipendente che avvia istruttorie, scrive chiarimenti, scova magagne, sorveglia, decide, segnala e, qualche volta, ha il dovere di mettere l’amministrazione con le spalle al muro. Per tutto questo, chi ricoprirà questo ruolo non può mancare di indipendenza, per cui chiediamo che non venga scelto fra i politici, tanto meno fra quelli attivi. Il Garante è indipendente o non è. Serve una persona che abbia anche solidissime competenze giuridiche, che sia equidistante, sensibile ed equilibrata. Già, l’equilibrio nell’attenzione a tutte le persone più deboli che avranno bisogno del suo aiuto, detenuti inclusi, sarà fondamentale. Proprio perché anche la popolazione carceraria non venga lasciata indietro, l’Associazione Antigone si augura che il percorso che porterà alla scelta del Garante sia pubblico e condiviso con la società civile e con gli operatori che da anni si occupano del mondo detentivo”. Tolmezzo. La “bomba-Covid” in carcere: solo una decina i negativi ed è sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 dicembre 2020 Ancora critica l’emergenza Covid al carcere di Tolmezzo. Su un totale di oltre 200 detenuti, solo una decina sono negativi. Nel frattempo risultano contagiati tutti gli altri pochi 41bis rimasti fino a poco tempo fa negativi. A questo si aggiunge il fatto che cinque detenuti sono ricoverati in ospedale, mentre due sono finiti in terapia intensiva. Il carcere di massima sicurezza di Tolmezzo è diventato l’esempio concreto di come l’emergenza può essere solo arginata tramite una riduzione immediata della popolazione detenuta, in maniera tale di isolare subito i positivi ed evitare che il Covid dilaghi fino a colpire le persone più vulnerabili. Richiesta che proviene da più parti, persino dalla ong “Medici senza frontiere” - abituata nei campi di guerra - che sta attualmente operando nelle carceri lombarde per far fronte all’emergenza sanitaria. Ed è proprio nel carcere di Tolmezzo che i detenuti di due intere sezioni - oltre ad iniziare la battitura - hanno intrapreso lo sciopero della fame per sostenere l’azione non violenta di Rita Bernardini del Partito Radicale arrivata oramai a 21 giorni di digiuno. Tanti, troppi giorni di sciopero e per ora nessun segnale da parte del governo, in particolar modo dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Per quanto riguarda Tolmezzo, giungono nuovi esposti nelle procure, questa volta chiedendo di mettere al vaglio la posizione del magistrato di sorveglianza di Udine. Uno è quello depositato nella procura di Bologna dall’avvocata Sara Peresson con il suo collega Cesare Vanzetti in relazione ai detenuti di Alta Sicurezza; mentre l’altro, sottoscritto sempre dalla Peresson e dall’avvocata Maria Teresa Pintus, attiene ai 41 bis ed è stato depositato presso la procura di Roma. Entrambi gli esposti, tra le altre questioni, chiedono di verificare se il Magistrato di Sorveglianza di Udine, tenuto ai sensi dell’art. 69 dell’ordinamento penitenziario a vigilare sull’istituto di pena, con il suo comportamento sia incorso in qualche responsabilità penale. Oppure, viceversa, se possa essere definito come “persona offesa”. Secondo gli avvocati, come si legge nell’esposto depositato nella procura di Bologna, “qualora si dovesse accertare che il contagio di taluni detenuti ha avuto come causa o concausa l’inadeguata gestione, da parte dei soggetti preposti, delle pratiche necessarie per evitare il diffondersi dell’infezione, ne discenderebbe che i responsabili della mala gestio (e con essi, in ipotesi, coloro che avrebbero dovuto predisporre piani di emergenza adeguati, qualora non l’abbiano fatto) avrebbero causato loro per colpa una malattia e potrebbero quindi rispondere del reato di lesioni colpose (auspicando che il male non abbia esito fatale per nessuno)”. La denuncia viene inviata alla Procura, poiché gli avvocati ritengono che “persona offesa (o, in denegata ipotesi, che si ritiene inverosimile, indagato) possa essere con elevatissima probabilità anche il Magistrato di Sorveglianza di Udine”. I legali sono stati chiari nell’esposto. Il primo compito del Magistrato è di vigilare sull’organizzazione degli istituti di pena e di esercitare la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti. Come gli avvocati hanno già ben evidenziato, l’isolamento del detenuto malato e contagioso è un preciso dovere imposto dalla legge, con la conseguenza che il Magistrato di Sorveglianza aveva il diritto- dovere di vigilare sull’isolamento dei detenuti colpiti dal Coronavirus. “E pertanto - si legge nell’esposto - o la Casa Circondariale ha taciuto la circostanza del mancato isolamento (ovvero, peggio ha dato informazioni false), ed in questo caso si è verificata un’ulteriore omissione di atti d’ufficio (o un falso ideologico in atto pubblico), o in alternativa, ipotesi a cui chi scrive non vuole credere, il Magistrato di Sorveglianza è venuto meno ai suoi doveri di vigilanza”. Quindi, secondo gli avvocati, nell’uno come nell’altro caso, il coinvolgimento del Magistrato di Sorveglianza, seppur in veste diversa, è evidente. Bologna. Covid e carcere, Errani (Pd): “12 contagi tra i detenuti, si intervenga” dire.it, 1 dicembre 2020 Continuano gli appelli per trovare una soluzione preventiva al sovraffollamento del penitenziario, che a marzo scatenò una rivolta in piena prima ondata da Covid. Con la seconda ondata di Covid in corso, a Bologna “il rischio di una diffusione del contagio all’interno dell’istituto penitenziario è molto concreto”: bisogna quindi intervenire per ridurre il sovraffollamento e garantire test e tamponi per tutti i detenuti e il personale. Lo dichiara Francesco Errani (Pd) oggi in Consiglio comunale. “Il carcere è una realtà in cui il rischio della diffusione del Coronavirus è molto alto: non è previsto il distanziamento sociale, impossibile da applicare nei casi di sovraffollamento”, sottolinea Errani, aggiungendo che “all’interno del carcere della Dozza sono almeno 12 i detenuti contagiati” in una situazione che vede “la capienza massima di 500 persone ampiamente superata dalle circa 700 presenze”. Per il dem “bisogna prevenire l’epidemia, non cercare rimedio dopo. Bisogna ricorrere alle misure alternative e aumentare la detenzione domiciliare per le persone che sono a fine pena, per rispondere così sia alla crisi legata al sovraffollamento che all’epidemia Covid-19”. Bisogna intervenire “prima che l’epidemia entri dentro le carceri, causando problemi sanitari e di sicurezza sociale enormi per il Paese - continua Errani - aumentando la pressione per il nostro sistema sanitario nazionale”. Il Comune, insieme all’Ausl e alla direzione del carcere, “deve programmare di test sierologici e tamponi da destinare a tutto il personale penitenziario e a tutte le detenute e i detenuti, al fine di effettuare un costante monitoraggio della situazione - afferma il consigliere Pd - e perseguire l’obiettivo di alleggerimento degli attuali numeri delle presenze in carcere, anche partendo dalle persone che presentano maggiori fragilità”. Del resto, “in uno Stato democratico, vista l’emergenza coronavirus - aggiunge il dem - l’amnistia e l’indulto sarebbero provvedimenti necessari”. Trento. Spini di Gardolo diventa carcere Covid: in arrivo 34 detenuti di Nicola Chiarini Corriere del Trentino, 1 dicembre 2020 La casa circondariale di Spini di Gardolo individuata come struttura per ospitare detenuti positivi al Covid19, in esubero da altri carceri del Triveneto. Trento dovrebbe accogliere fino a 34 tra donne e uomini ristretti, con esigenza di sorveglianza di media sicurezza, integrando gli altri 34 posti previsti a Rovigo per soli uomini, con sorveglianza media e alta. Una prospettiva che preoccupa la Fp Cgil Polizia penitenziaria che ha già scritto una lettera ufficiale ai vertici della Direzione dell’amministrazione penitenziaria (Dap) a Roma che, presto, dovrebbe essere integrata da una comunicazione al Commissario del governo, Sandro Lombardi, e al sindaco, Franco Ianeselli. L’ipotesi sarebbe delineata nel Piano operativo per la prevenzione e il contenimento dell’emergenza sanitaria varato, a quanto riferiscono in Cgil, lo scorso 23 novembre senza alcun confronto con le organizzazioni sindacali. “Questa proposta è da bocciare - spiega Gianpietro Pegoraro, coordinatore in Veneto di Fp Cgil Polizia penitenziaria - a tutela tanto di noi lavoratori, quanto delle persone detenute. Non ci risulta che a Trento vi siano né sezioni attrezzate con ventilatori, né il supporto di sufficiente personale infermieristico”. Le strade da percorrere per proteggere la salute di chi vive il carcere sono altre, secondo il dirigente sindacale. “Noi agenti - prosegue Pegoraro - se risultiamo positivi non dobbiamo in alcun modo spostarci da casa. Non capisco perché un detenuto, invece, possa essere spostato anche con lunghi tragitti, per esempio, da Trieste a Trento. Credo vadano studiati piani specifici, territorio per territorio, con le Asl di riferimento. Nel contempo, i detenuti che hanno maturato i requisiti per accedere a benefici o a misure alternative alla carcerazione, siano avviati a quei percorsi”. Peraltro, l’affidamento dei detenuti agli ospedali risulta spesso problematico, dato che i reparti non sempre sono attrezzati per contemperare le esigenze di cura e sorveglianza del paziente, che deve essere seguito anche in struttura sanitaria da poliziotti penitenziari. Sulmona (Aq). Emergenza dietro le sbarre: 66 detenuti e 6 agenti positivi al Covid ilgerme.it, 1 dicembre 2020 Si profila un’emergenza di difficile gestione dietro le sbarre di via Lamaccio: dopo i primi tamponi molecolari eseguiti nei giorni scorsi, visti anche l’insorgere di sintomi in altri detenuti, infatti, la direzione del carcere e quella sanitaria, hanno deciso di eseguire subito questa mattina su tutti gli ospiti della struttura test rapidi antigenici. Il risultato è stato quello temuto, con quasi il 18% dei detenuti risultato positivo. Ai 32 nuovi casi accertati con test molecolare (e il cui responso è arrivato stamattina) e ai 16 verificati nei giorni scorsi (tra cui 2 ricoverati nell’area Covid dell’ospedale di Sulmona, piantonati da agenti di polizia penitenziaria), se ne aggiungono a loro volta una quindicina circa risultati positivi al test rapido. Il totale dei contagiati in via Lamaccio tra i detenuti è di 66 persone e a questi vanno aggiunti 6 agenti di polizia penitenziaria, su cui però lo screening va ancora completato. Una situazione di estrema preoccupazione che potrebbe diventare ingestibile nelle prossime ore se, come nella statistica, una parte di questi positivi dovesse aver bisogno di cure ospedaliere. D’altronde ad oggi, dopo tre giorni, non ancora si trova una soluzione per i due già ricoverati, nonostante l’ordinanza regionale preveda nel piano il trasferimento della popolazione carceraria positiva al San Salvatore dell’Aquila. Intanto in via Lamaccio si è provveduto a fare quello che era possibile: per i detenuti della cosiddetta sezione verde il problema è relativo, perché si trovano in celle singole con bagno personale; diversa la situazione per le altre sezioni dove si è dovuto procedere alla divisione per coorte: ovvero nelle celle doppie sono stati sistemati solo detenuti positivi o solo detenuti negativi. Interrotta, ovviamente, ogni forma di socializzazione: ora d’aria e attività lavorative, incontri e colloqui. Verbania. Proteste in carcere per lo stop alle visite dei familiari di Cristina Pastore La Stampa, 1 dicembre 2020 È tornata la calma nelle celle dopo l’incontro dei detenuti con il comandante della polizia penitenziaria. Per un’ora ininterrottamente venerdì sera hanno sbattuto pentole e mestoli contro le inferriate delle celle. Una situazione che nel tranquillo carcere di Verbania non si era mai verificata. È stato un modo per i detenuti per richiamare l’attenzione sulla loro richiesta. Vogliono tornare a incontrare i familiari, che prima dell’emergenza Covid potevano far visita loro una volta alla settimana. Il rumore, forte e persistente, della protesta è arrivato anche alle case e ai condomini che stanno attorno alla casa circondariale di via Castelli a Pallanza. L’allarme tra i cittadini - In molti, allarmati, si sono chiesti che cosa stesse succedendo dentro la prigione. I detenuti hanno desistito dal manifestare il loro dissenso contro la misura adottata per abbattere il rischio di trasmissione del virus all’interno delle comunità carcerarie solo dopo aver parlato con il coordinatore della struttura. “Ci siamo confrontati a lungo, ho spiegato le ragioni per cui dobbiamo al momento mantenere questa precauzione” analizza il comandante Domenico La Gala, che si occupa anche del carcere di Ivrea oltre a quello di Verbania. “Revocare il divieto non è nelle nostre possibilità: è una disposizione del governo e del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Durante l’estate, con la netta riduzione dei contagi, eravamo tornati gradualmente ad ammettere le visite in presenza - spiega il commissario - ma con l’esplosione della seconda ondata sono state nuovamente sospese. Sono concesse, in alcuni casi anche più volte alla settimana, le videochiamate”. Sono 65 i detenuti - La protesta di venerdì sera è una delle tante inscenate in questi giorni in diverse carceri italiane. La casa circondariale di Pallanza ha una capienza di 88 posti: al momento è occupata da 65 detenuti. “A Verbania attualmente non ci sono problemi di sovraffollamento - sottolinea il commissario La Gala - e già da marzo ci siamo organizzati con un reparto dedicato all’isolamento di chi si scopre positivo al virus. Abbiamo anche lo spazio per celle singole nel caso qualcuno sviluppi sintomi sospetti e vada tenuto separato dagli altri in attesa dei tamponi”. Il personale adibito al carcere di Verbania è di 50 unità: impiegati amministrativi e soprattutto agenti di polizia penitenziaria che si stanno sottoponendo a screening con i test rapidi. Bologna. Carcere e persona senza dimora, come risponde la città bolognatoday.it, 1 dicembre 2020 Lo rivela il report “Fine pena: la strada”. “Cosa succede quando una persona senza dimora finisce in carcere? Ha gli stessi diritti degli altri detenuti e le stesse possibilità di accedere alle misure alternative?” Nella città di Bologna esistono diverse associazioni di privati, laiche o confessionali. Ecco il report “Fine pena: la strada”, realizzato da Avvocato di strada. È stato pubblicato il report di ricerca “Fine pena: la strada”, frutto del progetto dedicato al tema del carcere e delle persone senza dimora realizzato da Avvocato di strada, grazie al sostegno dei fondi 8x1000 della Chiesa Evangelica Valdese e in collaborazione con L’Altro Diritto Bologna, Associazione Sesta Opera San Fedele Onlus Milano e Granello di Senape Padova. “Cosa succede quando una persona senza dimora finisce in carcere? ha gli stessi diritti degli altri detenuti e le stesse possibilità di accedere alle misure alternative? Sono queste - afferma il consigliere regionale Antonio Mumolo, in veste di presidente dell’Associazione Avvocato di strada - le domande che ci siamo fatti quando abbiamo deciso di portare avanti il progetto, che nel corso del 2020 ha previsto numerosi momenti di formazione e approfondimento, meeting e webinar on line con numerosi esperti del settore”. “L’obiettivo di questa ricerca - continua Mumolo, presidente dell’Associazione Avvocato di strada - era offrire un nuovo punto di vista su un argomento che viene affrontato molto raramente, dare uno spunto di riflessione alle istituzioni e alle realtà che si occupano di esclusione, affinché i diritti e le garanzie previsti nel nostro ordinamento non restino lettera morta per chi vive in una condizione di forte disagio economico e sociale e dovrebbe per questo stesso motivo ricevere maggiore aiuto dalle istituzioni”. Persone senza dimora sottoposte a misura cautelare - Il report finale analizza nel dettaglio quali sono le difficoltà incontrate dalle persone senza dimora quando vengono sottoposte ad una misura cautelare o, in seguito ad una condanna, in fase di esecuzione della pena. Non avere una casa, nei fatti, comporta di fatto l’impossibilità di poter beneficiare della misura degli arresti domiciliari in fase cautelare o la preclusione del beneficio di misure alternative alla detenzione in fase esecutiva come, ad esempio, la detenzione domiciliare. Questo significa che le persone senza dimora con tutti i requisiti legislativamente previsti per evitare la custodia cautelare in carcere o la detenzione, vengono sostanzialmente private di questo diritto per il solo fatto di non avere la disponibilità di un’abitazione o l’appoggio di una rete familiare e/o amicale che possa sostenerle. Subordinare il godimento di diritti fondamentali alla condizione economica e sociale di una persona viola il diritto di uguaglianza sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione oltre a frustrare la funzione rieducativa della pena riconosciuta all’art. 27 della Carta costituzionale. Nel report di ricerca, vengono riportate le prassi che vengono seguite dai servizi che si occupano di persone senza dimora detenute nei territori di Bologna, Padova e Milano e le risposte che vengono date nei vari casi. La Regione Emilia-Romagna si è interessata al tema detenuti in dimissioni “provando a finanziare progetti specifici e a supportare l’autorganizzazione delle realtà cittadine” mentre “il Comune di Bologna, in particolare, ha investito su un’azione di sistema chiamata Progetto dimittendi attivo dal novembre 2014. La funzione principale, in un assetto sperimentale, è quella di costruire relazioni tra l’interno della struttura detentiva e l’esterno, inclusi i servizi sociali del comune di residenza, qualora esista una regolare residenza, o il Servizio sociale bassa soglia del Comune di Bologna, nei casi in cui la persona fosse senza residenza o irregolare”. L’Altro Diritto di Bologna - Dall’1° dicembre 2012 svolge presso la Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna attività di consulenza extra-giudiziale, in favore delle persone ristrette, in collaborazione con l’Ufficio del Garante, nell’ambito di due Convenzioni sottoscritte con il Comune di Bologna. Nel corso del 2020, gli operatori dell’Associazione “L’Altro Diritto Bologna” hanno svolto e svolgeranno l’attività di consulenza legale extragiudiziale anche presso la Casa Circondariale di Ferrara in forza di un protocollo sottoscritto tra l’Associazione, la C.C. di Ferrara e il Centro interuniversitario di ricerca su carcere, marginalità, devianza e governo delle migrazioni di Firenze. Da alcuni anni gli operatori dell’Associazione svolgono all’interno dell’Istituto Penale Minorenni “Pietro Siciliani” di Bologna attività di approfondimento di tematiche economiche e giuridiche a supporto ed in accordo con gli insegnanti, seguendo, nella scelta degli argomenti, non solo le proposte dei ragazzi ristretti, ma anche i loro più immediati bisogni sociali. L’obiettivo è quello di fornire gli strumenti per una maggiore consapevolezza. Attività all’interno del carcere a Bologna - Nella città di Bologna esistono diverse associazioni di privati, laiche o confessionali, che svolgono attività all’interno del carcere a diverso titolo. Come riporta il rapporto, alcune di queste hanno anche la possibilità di ospitare nelle loro strutture persone che svolgano grazie al loro aiuto una misura alternativa al carcere (ad esempio domiciliari) o possano ospitarli una volta scontata la pena. Nella delicata fase che precede la scarcerazione all’interno della Casa Circondariale Dozza di Bologna si tiene un importante progetto, denominato “Progetto dimittendi”, che rientra all’interno degli interventi della città di Bologna rivolti alle persone detenute. Il progetto si rivolge non solamente alle persone senza dimora, ma a tutte quelle prossime alla liberazione e con un residuo di pena non superiore ad un anno, cioè quelli che vengono chiamati dimittendi. “L’uscita dal carcere, momento inevitabile della detenzione (ad esclusione del solo caso riguardante l’ergastolo ostativo, ovvero l’ergastolo senza condizionale, equivalente alla reclusione a vita) e il reinserimento sociale sono la direzione a cui dovrebbe tendere l’intero trattamento rieducativo (art. 1 o.p.). Per l’attuale assetto del sistema penitenziario, il detenuto in dimissione dal carcere da coinvolgere in attività specifiche, svolte all’interno di appositi e distinti spazi detentivi - si legge nel rapporto - non è chiunque si trovi in prossimità di uscire dal carcere, ma solo colui che ha mostrato una adesione responsabile al programma di trattamento, escluse a priori alcune situazioni”. Il Servizio Sociale di Bassa Soglia a Bologna - È rivolto a persone maggiorenni che si trovano in condizioni estreme di emarginazione e prive di punti di riferimento e di risorse, temporaneamente presenti sul territorio, e non residenti anagraficamente a Bologna. Al Servizio accedono anche i cittadini che hanno la residenza fittizia in via Tuccella e quelli residenti nei Centri di accoglienza gestiti da Asp Città di Bologna. In particolare, il Servizio si occupa di persone che conducono “vita di strada”: persone senza dimora, che hanno una condizione di estrema povertà e/o prive di reti affettive e familiari. Il “Progetto Dimittendi” - Il “Progetto Dimittendi” si occupa di tutti coloro che sono detenuti, in un grave stato di marginalità e povertà, anche se non necessariamente senza dimora, in prossimità alla data di scarcerazione e, non avendo avuto accesso a misure alternative in quanto mancanti dei requisiti minimi (es. un alloggio), risultano totalmente privi di un sostegno all’uscita dal carcere. Come caratteristica comune, l’Uepe e il “Progetto Dimittendi” sono formati anche da assistenti sociali che curano i progetti sulle persone che, ai sensi dell’art. 46 (“Assistenza Post-penitenziaria”) e 72 (“Uffici locali di esecuzione penale esterna”) dell’Ordinamento Penitenziario, curano la fase di dimissione e di reinserimento sociale del detenuto: i detenuti e gli internati ricevono un particolare aiuto nel periodo di tempo che immediatamente precede la loro dimissione e per un congruo periodo a questa successivo. Il definitivo reinserimento nella società è agevolato da interventi di servizio sociale svolti anche in collaborazione con gli enti indicati nell’articolo precedente. I dimessi affetti da gravi infermità fisiche o da infermità o anormalità psichiche sono segnalati, per la necessaria assistenza, anche agli organi preposti alla tutela della sanità pubblica. (art. 46 o.p.). Al momento gli agenti di polizia penitenziaria non hanno ancora preso parte a questo progetto anche se la loro partecipazione è vivamente sentita e richiesta dal servizio. Al Progetto vengono segnalate determinate persone con le quali vengono fissati uno o più colloqui per parlare e conoscere le loro necessità. Parallelamente, viene raccolto il maggior numero di informazioni sulla loro storia detentiva, in raccordo a tutti gli attori coinvolti nel percorso trattamentale e nella tutela sanitaria. L’obiettivo è di individuare una risposta il più possibile completa ai bisogni che si presenteranno al momento dell’uscita dal carcere. Non è infatti escluso che i percorsi educativi, quando presenti, quelli sanitari, quelli formativi e lavorativi, così come quelli creati dal volontariato, siano in realtà non in dialogo fra loro. Associazione Volontari del Carcere Bologna - È un’organizzazione di volontariato nata nel 1993 con l’obiettivo di migliorare la vita dei detenuti e favorirne il recupero ed il reinserimento sociale. In particolare, mira ad offrire assistenza morale, materiale e psicologica ai detenuti, ex detenuti ed alle loro famiglie. L’Associazione dispone anche di alcuni appartamenti dati in comodato d’uso gratuito dal Comune di Bologna all’interno dei quali ospitano ed hanno ospitato detenuti in misura alternativa o persone appena uscite dal carcere. I volontari entrano personalmente all’interno della struttura e conoscono i detenuti di persona e, attraverso questa conoscenza sviluppata anche su più incontri, propongono ad alcuni di loro i progetti di accoglienza in appartamento. La più grande difficoltà che l’Associazione incontra è relativa alla disponibilità degli appartamenti: poiché la maggior parte di questi sono concessi dal Comune, la loro attribuzione deve passare attraverso un bando di assegnazione. Il bando per l’assegnazione degli immobili presuppone che l’Amministrazione comunale abbia intenzione di non ricevere alcun canone di locazione per un determinato numero di appartamenti. È’ possibile, quindi, che il Comune, in un periodo di ristrettezza di risorse economiche, preferisca destinare tali immobili ad altri usi come la vendita o come edilizia residenziale pubblica. La scadenza del contratto di comodato di un alloggio, stante l’incertezza di un suo possibile rinnovo, pregiudica inevitabilmente la possibilità di prendere parte al progetto di accoglienza. Pertanto, in questo caso l’alternativa potrebbe essere di accogliere un detenuto con un residuo di pena estremamente esiguo, con il rischio di pregiudicare la correttezza dello sviluppo di un progetto volto al reinserimento sociale dell’individuo. Un’altra associazione che tra le altre attività si occupa di accoglienza è il Villaggio del Fanciullo, cooperativa sociale che attraverso il Progetto Voce del verbo accogliere,in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria del Carcere Dozza di Bologna, ha destinato all’accoglienza residenziale temporanea di detenuti giunti a fine pena un appartamento. Questo alloggio, nonostante sia unico per più persone, riesce comunque a garantire la coesistenza di spazi individuali e spazi comuni di modo che la persona possa sviluppare un proprio livello di autonomia che, durante il periodo di detenzione, ha visto quasi annullarsi. La possibilità offerta al dimittendo o alla persona appena uscita dal carcere di ritagliarsi un nuovo spazio dove accudire e far crescere la propria intimità e personalità rappresenta l’opportunità di riottenere quanto perso durante la detenzione. D’altro canto, però i progetti hanno una fine e sebbene il lavoro individuale svolto sull’autonomia potrebbe aver dato ottimi frutti, nel caso delle persone senza dimora dovrebbe porsi l’attenzione su di un elemento non da poco. La persona senza dimora uscita da questo progetto, non avendo un luogo presso cui alloggiare, si troverebbe costretta ad essere ospitata in un dormitorio pubblico e quindi a rivivere la stessa condizione di promiscuità di spazi vissuta durante la detenzione, seppure in forma decisamente più lieve. Anche la Cooperativa Sociale del Villaggio del Fanciullo, per individuare le persone che potrebbero essere inserite all’interno del loro progetto, si avvalgono della loro esperienza diretta, in particolare attraverso il cappellano del carcere. Alle disponibilità di questi servizi, si aggiungono quelli del settore pubblico per i quali si accede tramite l’incontro con gli assistenti sociali del progetto dimittendi in carcere. Emerge quindi una coesistenza di due operatori, il pubblico e privato, che affrontano lo stesso tema ma con due approcci differenti. Il pubblico, che avrebbe la necessità di affidarsi ai privati per l’individuazione di posti per alloggi, potrebbe mettere a disposizione le proprie conoscenze di progettazione individuale e l’ampia disponibilità dei servizi sul territorio in maniera sinergica tra di loro. Il privato che, pur con le difficoltà di disponibilità di spazi sopra accennate, individua i soggetti da inserire nei loro progetti con modalità loro proprie e non in sinergia con i servizi sociali. Le considerazioni fin qui svolte riguardano l’accesso alle misure alternative alla detenzione con riferimento all’intera popolazione carceraria. Avendo invece un occhio di riguardo alla fragile categoria delle persone senza dimora, queste difficoltà vengono ampliate anche per la mancanza di progetti specifici e la difficoltà di elaborare progetti a lungo periodo, cioè oltre il termine residuo di pena. Con le persone senza fissa dimora “dimittende”, in assenza di progetti specifici, è sicuramente più difficile progettare percorsi di largo respiro: scontata la pena, diventa di primaria importanza la necessità di individuare un alloggio che difficilmente potrà essere lo stesso del periodo della misura alternativa. I percorsi di reintegrazione delle persone senza fissa dimora non di rado richiedono un periodo di progettualità ben più lungo dei due anni previsti per le misure alternative. Le cause che hanno portato all’insorgenza della grave emarginazione dell’individuo, infatti, sono spesso riconducibili a più fattori eterogenei e che necessitano ciascuno di adeguato supporto. Sassari. Progetto “Dentiera sospesa”: un giovane ex detenuto ritrova il sorriso La Nuova Sardegna, 1 dicembre 2020 Il progetto di solidarietà sociale di un gruppo di medici e odontoiatri. Vedere il sorriso sul volto di chi per tanto tempo non ha potuto farlo, può essere un’esperienza meravigliosa. Accade a Sassari, dove la cooperativa sociale “Saludade” Onlus, formata da un gruppo di medici specialisti e odontoiatri con l’obiettivo di condividere professione e impegno sociale, ha deciso di mettere a disposizione dei meno fortunati la “Dentiera sospesa”, una proposta ispirata al più ben noto “caffè sospeso”. La prima protesi di questo genere è stata consegnata nei giorni scorsi a un giovane ex detenuto affidato alla cooperativa sociale “Don Graziano Muntoni” diretta da don Gaetano Galia. Come funziona. Proprio come avviene per il caffè messo a disposizione in diversi bar a beneficio di persone in difficoltà economica, l’iniziativa in versione odontoiatrica permette di destinare gratuitamente protesi dentarie attraverso un fondo di libere donazioni. “Chiunque può contribuire al progetto, mettendo a disposizione una somma, anche piccola, affinché si riesca a coprire le spese per i materiali - spiegano gli ideatori -. L’impegno dei dentisti invece è del tutto gratuito. Purtroppo ai livelli assistenziali non è prevista la copertura dei costi maggiori della protesi odontoiatrica”. La scelta dei “candidati per il sorriso” è affidata ad enti accreditati, associazioni, Onlus, cooperative sociali che toccano quotidianamente con mano le problematiche legate alla povertà. Il futuro del volontariato? “Abbattere i nostri steccati” di Giulio Sensi Corriere della Sera, 1 dicembre 2020 La chiusura delle celebrazioni da Padova Capitale europea del volontariato: ora la staffetta passa a Berlino. L’inattesa pandemia da affrontare. La prova di resilienza partita dal Veneto è arrivata in Europa. Doveva essere un anno di eventi celebrativi quello che la città di Padova aveva preparato dopo essere stata scelta come Capitale europea del Volontariato 2020: la pandemia l’ha trasformato in una sperimentazione che ha abbattuto tutti i confini e ha aperto al dialogo con tutta Italia e l’Europa. E il 5 dicembre, con il passaggio di testimone a Berlino, si chiude. Con quale eredità? “Ci incontriamo di continuo - racconta Emanuele Alecci, il presidente del Centro Servizi al Volontariato (Csv) di Padova, ente coordinatore - con le grandi città europee. Vogliamo ricostruire insieme un’Europa chiedendo ai leader di mettere il volontariato al centro delle strategie politiche”. Per un anno Padova è stata il crocevia di iniziative e azioni che da tutta Italia e Europa sono confluite per ridisegnare la solidarietà. Un lavoro che porterà anche alla riscrittura della Carta Italiana dei Valori del volontariato con centinaia di audizioni a tutti i livelli. “Stiamo riscrivendo - prosegue Alecci - il senso della solidarietà dentro le nostre città, in un momento di pandemia che è diventata l’occasione per metterci in gioco e migliorare. Tutta Italia guarda a Padova come laboratorio per uscire dalla crisi e rimettere i volontari al centro”. Un anno tormentato, comunque: quando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella arriva ad inizio febbraio a inaugurare l’evento, i volontari gli chiedono di aiutarli a convincere il Paese ad indossare gli occhiali del volontariato, perché solo da lì può partire un risveglio civico. Nel giro di poche settimane l’Italia è all’improvviso travolta dal Covid-19: Padova insieme ad altre zone del Veneto diventa “rossa”, il lockdown isola col tempo il virus, ma anche le persone; le fragilità diventano ancora più acute e urgenti. “Abbiamo risposto - racconta ancora Alecci - attivando il grande giacimento di solidarietà che è presente in tutta Italia e che ci fa capire quale sia la vera funzione del volontariato: la forza di civilizzazione, la capacità di tenere in relazione le persone”. Il fermento di Padova Capitale europea si trasforma in un laboratorio inarrestabile. “Al suo interno -spiega il direttore del CSV di Padova, Niccolò Gennaro - non ci sono solo le associazioni, ma anche le imprese, le istituzioni, i mezzi di informazione. Tutte relazioni e collaborazioni che ci permettono di affrontare l’emergenza sociale acuita da quella sanitaria”. La macchina organizzativa degli eventi inizia a lavorare sulla solidarietà concreta. “Il primo pensiero - prosegue Gennaro - è la fragilità estrema, le vite ai margini: il volontariato è il solo che riesce a starci in relazione. Insieme alle Caritas e alle associazioni troviamo un alloggio a decine e decine di homeless che rischiano addirittura di essere multati perché sono in giro. Con una raccolta fondi attiviamo per loro Casa Arcella, una dimora per le settimane più dure”. La rete di associazioni che vogliono dimostrare all’Italia e all’Europa che dal volontariato e dai suoi valori bisogna sempre ripartire entra con il cuore nelle case di chi ha bisogno: anziani soli che non possono muoversi, persone che rimangono senza un lavoro, famiglie che non hanno il cibo sufficiente a mettere insieme i pasti della giornata. Nasce così “Per Padova noi ci siamo”, una raccolta di fondi e di forze unisce più di 2000 volontari con la pettorina di Padova Capitale e raccoglie quasi 100.000 euro. Ognuno di loro viene geolocalizzato e chiamato all’azione col criterio della prossimità, anche per evitare spostamenti inutili: quando vicino a casa sua c’è un bisogno da affrontare -come una spesa da portare a casa o dispositivi di sicurezza da lasciare alla porta- il volontario iscritto si attiva con un click. E si mette in relazione con vicini prima sconosciuti, adesso volti e nomi. Il Comune di Padova coordina le operazioni e tante imprese, fra cui tutte quelle della grande distribuzione, aiutano con cibo e donazioni. “L’80% dei volontari che si propongono - spiega Gennaro - sono persone alla prima esperienza in questo campo. La maggioranza giovani, molti stranieri, tanti studenti e lavoratori fuori sede. Un patrimonio di solidarietà immenso che sta facendo tantissimo per Padova”. Così la nuova fiammata del virus non trova impreparata la città. “Stiamo facendo un passo avanti. In ognuno dei sei quartieri stanno nascendo tavoli di co-progettazione con tutte le associazioni, le consulte, le parrocchie, i gruppi informali, gli scout che progettano modalità di risposta specifiche. Grazie anche all’originale iniziativa “Va’Buono” - un cofanetto da regalare che dona a chi lo riceve la possibilità di fare volontariato con formazione e assicurazione inclusi - in questi giorni stiamo attivando centinaia di nuovi volontari per rispondere al meglio alla nuova situazione”. Nel frattempo - complice anche la tregua estiva del virus e la possibilità di svolgerli online- gli eventi non si sono fermati, ma l’azione concreta ha reso più forte il 2020 di Padova. “L’aspetto più rilevante - conclude Alecci - è che abbiamo imparato tutti a lavorare insieme, mentre uno dei grandi limiti del volontariato in Italia è proprio l’operare per compartimenti stagni”. Padova 2020 lascia, in un momento difficile, un ricco testimone ad un’altra grande città europea che sarà Capitale del Volontariato 2021. “Siamo onorati di riceverlo in occasione della Giornata Internazionale del Volontariato il 5 dicembre - afferma Sawsan Chebli, Segretario permanente per la cittadinanza attiva di Berlino - e non vediamo l’ora di mostrare la varietà e l’impatto della società civile di Berlino. Puntiamo a rendere visibile e apprezzata la diversità della partecipazione civica esistente a Berlino e ad ispirare le persone a impegnarsi e a partecipare alla nostra vivace comunità”. Dl sicurezza, sì della Camera alla fiducia di Carlo Lania Il Manifesto, 1 dicembre 2020 I voti a favore sono stati 298, ma il via libera finale potrebbe non arrivare prima di sabato per l’ostruzionismo del centrodestra. È un primo colpo ai decreti sicurezza di Matteo Salvini, anche se per mandarli definitivamente in soffitta bisognerà probabilmente aspettare la fine della settimana. Con 298 voti a favore e 224 contrari la Camera ha approvato ieri il voto di fiducia al decreto immigrazione e sicurezza pubblicato il 21 ottobre scorso in Gazzetta ufficiale dopo essere stato licenziato dal consiglio dei ministri. Perché il provvedimento possa passare al Senato deve però superare il voto finale previsto in teoria per oggi ma destinato a slittare per l’ostruzionismo del centrodestra che ha presentato quasi 300 ordini del giorno nel tentativo di ritardare il più possibile un esito che, almeno a Montecitorio, appare scontato. “I decreti di Salvini hanno creato solo problemi all’Italia”, è stato comunque il commento al voto del viceministro dell’Interno Matteo Mauri. “Sull’immigrazione non serve né propaganda né demagogia ma saper gestire il fenomeno con razionalità e nel rispetto del diritto internazionale”. Per oggi alle 13,30 è prevista la riunione dei capigruppo per decidere il calendario dei lavori, ma è inevitabile che per il decreto i tempi si allunghino a dismisura. Per discutere i 284 ordini del giorno presentati da Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia (una trentina dei quali esaminati ieri) non basteranno infatti 23 ore. A queste va aggiunto il tempo per le dichiarazioni di voto finale, ma anche le pause per la sanificazione dell’aula, senza contare che per mercoledì alle 16 alla Camera è previsto l’intervento del ministro della Salute Roberto Speranza. A meno che la maggioranza non chieda di procedere in notturna, la possibilità che slitti tutto a sabato prossimo si fa più concreta. “Il capo della lega con il sostengo del centrodestra sceglie la via dell’ostruzionismo. Si tranquillizzi, supereremo anche quest’ultimo ostacolo”, spiega nel pomeriggio la dem Barbara Pollastrini. Il voto di ieri ha escluso la possibilità che una volta al dunque possano esserci brutte sorprese per il governo. Anche i malumori espressi da una ventina di deputati 5 Stelle, che in commissione Affari costituzionali avevano presentato un emendamento in controtendenza rispetto agli orientamenti della maggioranza, sembra essere rientrato. Una situazione di tranquillità che non è detto che si ripeta al Senato, dove i numeri sui quali l’esecutivo può contare sono decisamente diversi e dove possibili dissidenti del Movimento 5 Stelle farebbero certamente la differenza. Quando i decreti Salvini arrivarono in parlamento, vennero accompagnati da alcuni rilievi sollevati dal presidente Mattarella. Tra questi le maxi multe per le navi delle ong, cancellate in seguito anche per non aver rispettato il divieto del Viminale di entrare nelle acque territoriali italiane è comunque prevista una sanzione compresa tra i 10 e i 50 mila euro (solo dopo l’intervento di un giudice). Inoltre viene di nuovo prevista la possibilità per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe comunale e di chiedere la casta di identità e il ripristino di un sistema di accoglienza per i richiedenti asilo. Altre tre novità importanti riguardano il decreto flussi, per il quale viene cancellato il numero di immigrati regolari che possono entrare in Italia per motivi di lavoro, la possibilità di trasformare in permessi di soggiorno per motivi di lavoro anche i permessi sanitari e la riduzione di tempi per la risposta alle domande di cittadinanza, che passano dai 48 previsti dai decreti salviniani a 24 prorogabili a 36. Prevista infine anche una cosiddetta “norma Willy” con cui vengono puniti atti violenti compiuti all’interno o all’esterno dei locali. Caso Regeni, l’Italia vuole processare gli 007 egiziani. La replica: “Prove insufficienti” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 1 dicembre 2020 La procura di Roma chiude le indagini su 5 appartenenti ai servizi segreti ma il Cairo ritiene che il quadro probatorio non possa reggere a un giudizio. Si profila un nuovo scontro giudiziario tra Italia ed Egitto sulla morte dello studente Giulio Regeni. Da un lato la procura di Roma ha annunciato di voler processare alcuni 007 egiziani ritenuti responsabili dell’uccisione del giovane studente; dall’altro la magistratura del Cairo ritiene che le prove a carico degli agenti egiziani siano insufficienti e che il responsabile dell’omicidio è ancora ignoto. I procuratori dei due Paesi, incaricati delle indagini hanno dialogato oggi in videoconferenza e in quella circostanza è emersa l’opposta differenza di vedute. Il pm romano Michele Prestipino ha affermato di voler chiudere le indagini a carico di cinque appartenenti ai servizi segreti egiziani ma in una nota congiunta emessa con il suo omologo al Cairo Hamada al Sawi emerge la differente valutazione: “Il procuratore generale egiziano, nel prendere atto della conclusione delle indagini italiane, avanza riserve sulla solidità del quadro probatorio che ritiene costituito da prove insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio. In ogni caso la procura generale d’Egitto rispetta le decisioni che verranno assunte nella sua autonomia dalla procura di Roma”. La magistratura egiziana, anzi, rincara la dose dichiarando che, dopo cinque anni “l’esecutore materiale dell’assassinio di Giulio Regeni è ancora ignoto”. Il procuratore Hamada al Sawi ha comunicato di “avere raccolto prove sufficienti nei confronti di una banda criminale accusata di furto aggravato degli effetti di Regeni che sono stati rinvenuti nell’abitazione di uno dei membri della banda criminale”. La frattura tra i due fronti giudiziari non poteva che provocare che l’amarezza da parte della famiglia Regeni: “Prendiamo atto dell’ennesimo incontro infruttuoso tra le due procure - dice una dichiarazione rilasciata da papà e mamma di Giulio e dal loro avvocato Alessandra Ballerini. Le strade tra le due procure non sono mai state così divise. In questi anni abbiamo subito ferite e oltraggi di ogni genere da parte egiziana, ci hanno sequestrato, torturato e ucciso un figlio, hanno gettato fango e discredito su di lui, hanno mentito, oltraggiato e ingannato non solo noi ma l’intero Paese”. E infine la richiesta: “l’Italia richiami il nostro ambasciatore al Cairo”. Alla memoria di Ebru e agli avvocati egiziani il premio degli Ordini forensi d’Europa di Roberto Giovene Di Girasole Il Dubbio, 1 dicembre 2020 Il 27 novembre scorso è stato attribuito a sette avvocati egiziani attualmente detenuti, Haytham Mohammadein, Hoda Abdelmoniem, Ibrahim Metwally Hegazy, Mahienour El Massry, Mohamed El Baqer, Mohamed Ramadan, Zyad El Eleimy, il Premio Ccbe 2020 per i Diritti umani, assegnato ogni anno dal Consiglio degli Ordini forensi europei. Scopo del premio è la sensibilizzazione ai valori della professione di avvocato, ponendo all’attenzione dell’opinione pubblica l’impegno e il sacrificio degli avvocati che si battono a favore dei diritti umani. Una scelta non casuale quella dell’Egitto, considerato quanto accade in quel Paese, come tristemente sappiamo qui in Italia per il caso Regeni e l’illegittimo protrarsi della detenzione cautelare di Patrick Zaki, studente di nazionalità egiziana presso l’Università di Bologna, arrestato il 7 febbraio 2020 con l’accusa di “propaganda sovversiva”, che rischia fino a 25 anni di carcere. Su proposta della delegazione italiana al Ccbe, un premio straordinario alla memoria è stato assegnato all’avvocata turca Ebru Timtik, morta in stato di detenzione il 27 agosto 2020, dopo 238 giorni di sciopero della fame, intrapreso per richiedere alle autorità turche il rispetto dello Stato di diritto e dei principi dell’equo processo, a seguito del rigetto di tutti gli appelli e le istanze per la sua liberazione, avanzate dai suoi difensori e dalle istituzioni e associazioni forensi del mondo intero. Era una collega valorosa e stimata, alla quale tutti riconoscevano una grande cultura e talento, non solo in ambito giuridico. Al termine di un processo farsa, caratterizzato da gravissime violazioni delle più elementari regole processuali e del diritto di difesa, Ebru Timtik era stata condannata a 13 anni e sei mesi di reclusione. Alla delegazione internazionale di avvocati che l’aveva visitata nel carcere di Sliviri nell’ottobre 2019, aveva lamentato non soltanto la condizione di isolamento dagli altri detenuti e dal mondo esterno ma anche grande sofferenza, perché le veniva impedito di leggere quotidiani libri e riviste. Nel 2019 il premio era stato assegnato agli avvocati iraniani Nasrin Sotoudeh, Abdolfattah Soltani, Mohammad Najafi e Amir Salar Davoodi per il loro coraggio, la determinazione e l’impegno nella difesa dei diritti umani in Iran. Ma chi sono gli avvocati egiziani vincitori del Premio 2020? Haytham Mohammadein è un avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani, arrestato diverse volte, in custodia cautelare dal maggio 2019. Hoda Abdelmoniem è una avvocata, già componente del Consiglio Nazionale per i diritti umani, portavoce della Coalizione rivoluzionaria delle donne egiziane e consulente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecfr). È stata brutalmente arrestatala notte del 1° novembre 2020 da venti agenti che hanno forzato la porta del suo appartamento facendovi irruzione. Ibrahim Metawally Hegazy è un avvocato specializzato nella difesa dei diritti fondamentali e membro della Commissione egiziana per i diritti e le libertà. Dalla scomparsa nel 2013 del figlio Abdelmoneim, durante sanguinose repressioni, si è occupato delle innumerevoli sparizioni forzate. Ha fondato nel 2016 l’Associazione egiziana delle famiglie delle persone scomparse che ha registrato 1.300 casi negli anni 2016 e 2017. È stato arrestato il 10 settembre 2017, all’aeroporto del Cairo, mentre si recava a Ginevra per incontrare il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate e involontarie. È detenuto nella prigione di Aqrab. Mahienour E- Massry è un’avvocata egiziana che difende i diritti umani. Più volte arrestata sotto il regime del presidente Hosni Mubarak, è stata perseguitata anche sotto i regimi di Mohamed Morsi e Abdel Fattah al- Sissi. Ha difeso i diritti degli studenti, i diritti delle donne, il diritto allo sciopero, il diritto all’assistenza legale. Nel 2014 ha ricevuto il premio Ludovic Trarieux, assegnato ogni anno ad un avvocato che si è distinto nella difesa dei diritti umani. Il premio le è stato assegnato mentre scontava una pena detentiva di due anni per “aver partecipato a una manifestazione non autorizzata”. El- Massry è stata di nuovo arrestata dalla polizia il 22 settembre 2019 al Cairo, dopo aver partecipato agli interrogatori di persone che avevano manifestato contro il presidente Al- Sisi, ed è detenuta nella prigione femminile di Al Qanatar. Mohamed El Baqer è un avvocato, direttore del centro per i diritti e le libertà di Adalah, arrestato il 29 settembre 2019 e ancora in stato di custodia cautelare. Mohamed Ramadan ha difeso molti attivisti per i diritti umani, è in stato di custodia caitelare dal dicembre 2018. Zyad El- Eleimy è un avvocato, ex parlamentare egiziano, arrestato il 25 giugno 2019 a Il Cairo, in custodia cautelare presso la prigione di Tora. Le loro vicende sono tristemente emblematiche di quanto accade in Egitto. Ricercatori e scienziati a rischio in Iran. Contro l’esecuzione “imminente” di Ahmad Djalali Il Foglio Quotidiano, 1 dicembre 2020 Ahmad Djalali è stato condannato a morte in Iran nell’ottobre del 2017 per aver “seminato corruzione sulla terra”, c’è scritto nella sentenza: l’accusa era di spionaggio a favore di Israele. Il 24 novembre scorso, Amnesty International ha fatto sapere: “Siamo orripilati dalla notizia che le autorità iraniane hanno dato ordine di trasferire Ahmadreza Djalali in isolamento e di eseguire la condanna a morte non oltre una settimana da oggi”. La fonte della notizia è la moglie di Jalali. Jalali, 49 anni, è uno scienziato che si occupa di medicina delle catastrofi. è iraniano naturalizzato svedese, ha svolto le sue ricerche in Svezia, in Belgio e anche al Crimedim di Novara, ha pubblicato molte analisi sui livelli di preparazione delle strutture ospedaliere europee in caso di catastrofi. È stato arrestato nel 2016 mentre partecipava a un seminario all’Università di Teheran (che lo aveva invitato), dopo due settimane di detenzione senza poter dare notizie è stato accusato di spionaggio per conto di Israele, costretto - con torture e minacce - a confessare in filmati che sono stati trasmessi in tv e infine condannato a morte. Lui ha detto di essere stato punito perché si era rifiutato di fare la spia per conto dell’Iran in Europa. Le sue condizioni di salute sono peggiorate durante la detenzione a Evin ed è dal 2018 che le Nazioni unite, il Parlamento europeo, gli istituti scientifici per cui Djalali ha lavorato, molte associazioni per i diritti umani e anche 121 premi Nobel si battono perché venga prima curato e poi liberato. Molte organizzazioni, non da oggi, consigliano a scienziati e ricercatori di non andare in Iran perché potrebbero essere catturati e utilizzati negli scambi di prigionieri. È accaduto qualche giorno fa: Kylie Moore-Gilbert, ricercatrice anglo-australiana di 33 anni, è stata liberata in cambio di tre cittadini iraniani detenuti in Thailandia: erano accusati di aver partecipato a un tentato attacco contro obiettivi israeliani a Bangkok. Nelle ultime ore, gli appelli e le richieste a Teheran sono aumentati: molti temono che il regime iraniano voglia utilizzare l’esecuzione di Djalali come la vendetta per l’uccisione dello scienziato-padre della bomba atomica iraniana, Mohsen Fakhrizadeh. Nello Sri Lanka caos-carceri: imperversano le rivolte di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 1 dicembre 2020 Sovraffollamento ed emergenza pandemia nei penitenziari. A Mahahara otto morti e 55 feriti, disordini in tutto il Paese. Come in altre prigioni del pianeta la pandemia di Covid 19 è causa indiretta, ma determinante, della morte di detenuti. Le cronache riferiscono di molte rivolte sanguinose scoppiate per le condizioni di vita degli internati e la paura di contrarre la malattia. E mentre non si è ancora spenta l’eco per l’inchiesta relativa all’uccisione di 24 prigionieri in Colombia, durante una sollevazione avvenuta lo scorso marzo, ecco che dallo Sri Lanka arrivano ancora notizie drammatiche. Cambia dunque latitudine ma non il copione; tra domenica notte e ieri mattina infatti, sono esplosi disordini nel penitenziario di massima sicurezza di Mahahara, vicino la capitale Colombo. Il risultato della rivolta è stato tragico: almeno 8 morti e 55 feriti di cui molti in modo grave. Tutti sono rimasti vittima dei colpi sparati dalle forze di sicurezza intervenute per sedare la rivolta. La protesta era stata lanciata a seguito delle notizie che parlano di un’ondata di contagi nelle carceri srilankesi, le autorità hanno riferito su circa un migliaio di casi. I detenuti hanno cominciato a scontrarsi con gli agenti dopo aver visto rispondere negativamente alle loro richieste di rilascio anticipato e strutture migliori. È stato appiccato il fuoco alle cucine e sono stati presi in ostaggio 2 agenti poi portati in salvo. Il portavoce della polizia, Ajith Rohana, ha detto che le guardie hanno “usato la forza per controllare una situazione indisciplinata”. Un eufemismo visto che a 600 uomini della polizia hanno circondato la prigione e, almeno secondo la versione ufficiale, ripreso il totale controllo della situazione. I feriti invece sono stati ricoverati presso l’ospedale di Ragama. La situazione è però diventata esplosiva in tutti gli istituti del paese. Quella di Mahahara infatti è solo l’ultima di una serie di proteste man mano che il numero dei contagi sale. Sempre a Colombo manifestanti del carcere di Welikada sono saliti sul tetto di un’altra prigione chiedendo la liberazione su cauzione. Un altro gruppo di detenuti ad Agunakolapalassa è in agitazione da 8 giorni, sostenendo che le loro condizioni sono peggiorate. La scorsa settimana, un detenuto è stato ucciso cadendo mentre cercava di scalare le mura di un carcere nella regione centrale di Bogambara durante altri disordini. Circa 26mila persone sono ospitate in strutture che hanno una capacità di non più di 10mila. Il numero di morti per Covid è aumentato di 6 volte questo mese raggiungendo le 116 vittime, mentre le infezioni sono più che raddoppiate e ora sono 23.484. A ottobre i decessi erano stati appena 19. Il virus è stato rilevato per la prima volta il 27 gennaio scorso, a giugno è stato allentato il coprifuoco ma una seconda ondata ha ripreso vigore. Secondo le autorità sanitarie si tratterebbe di un ceppo infettivo più virulento rispetto al precedente.