Rileggere Tolstoj con un pensiero a Donato Bilancia, morto per Covid di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 19 dicembre 2020 “Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre”. Qualche giorno fa, ho riletto, citata in una bella intervista dal professor Giovanni Fiandaca, una riflessione di Lev Tolstoj tratta dal romanzo Resurrezione. Vale la pena di riportarla, perché pare che nel mondo odierno si sia persa traccia di un pensiero serio sulla complessità della natura umana: “Una delle superstizioni più frequenti e diffuse è che ogni uomo abbia solo certe qualità già definite, che ci sia l’uomo buono, cattivo, intelligente, stupido, energico, apatico eccetera. Ma gli uomini non sono così. Possiamo dire di un uomo che è più spesso buono che cattivo, più spesso intelligente che stupido, e viceversa. Ma non sarebbe la verità se dicessimo di un uomo che è buono o intelligente e di un altro che è cattivo, o stupido. Gli uomini sono come fiumi: l’acqua è in tutti uguale e ovunque la stessa, ma ogni fiume è ora stretto, ora rapido, ora ampio, ora tranquillo, ora limpido, ora freddo, ora torbido, ora tiepido. Così anche gli uomini. Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre lo stesso”. In questi mesi difficili si parla molto di pene e di carcere usando spesso stereotipi, luoghi comuni, semplificazioni. Ci vorrebbe un Tolstoj, mi verrebbe da dire, per spiegare a giornalisti e politici che il mondo non è diviso in “totalmente buoni e assolutamente cattivi”, che le cose stanno diversamente, che bisogna accettare che quando si parla di pene e di carcere non c’è nulla di semplice, nulla di scontato. nulla di rassicurante, anche se piacerebbe a tutti pensare che la galera, tanta galera ci rende più sicuri. Anche perché, come diceva un altro straordinario scrittore russo, Fjodor Dostoevskij, pure ogni uomo perbene ha dentro di sé delle cose, che non vorrebbe neppure raccontare a se stesso: “Ogni uomo ha dei ricordi che racconterebbe solo agli amici. Ha anche cose nella mente che non rivelerebbe neanche agli amici, ma solo a se stesso, e in segreto. Ma ci sono altre cose che un uomo ha paura di rivelare persino a se stesso, e ogni uomo perbene ha un certo numero di cose del genere accantonate nella mente”. Ho scelto di citare due scrittori per parlare, indirettamente, di carcere con un invito e un augurio: dedicare gli ultimi giorni di questo anno crudele alla lettura di quello che Dostoevskij e Tolstoj sanno raccontarci della natura umana, e forse qualcuno capirà qualcosa di più di quello che riguarda il mondo delle pene, qualche giornalista andrà un po’ più a fondo se dovrà parlare di qualche “delinquente!, qualche politico avrà un soprassalto della coscienza quando dovrà mettere mano a qualche legge che riguarda il carcere. Da parte mia, spero che Tolstoj e Dostoevskij ci aiutino anche a ricordarci che non esistono i “mostri”, ma uomini in grado di fare cose mostruose, che però non esauriscono la loro umanità in quei gesti. Penso a Donato Bilancia, ai suoi reati terribili, al dolore dei famigliari delle persone che ha ucciso, agli anni di carcere vissuti nella Casa di reclusione di Padova, alla sua morte di Covid in solitudine all’ospedale, e provo un senso di pena, e spero che nessuno pensi con una specie di sollievo a questa morte. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Celle affollate e contagiose, l’allarme del garante Palma di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 dicembre 2020 Carcere e virus. Appello di Liliana Segre, De Petris e Marilotti: “Vaccini, detenuti e agenti tra i primi”. Al contrario di quanto avvenuto nella prima ondata, il contagio da Covid-19 nelle carceri non ha trovato definitivi ostacoli, soprattutto perché la densità di popolazione “è grosso modo stabile”, come ha sottolineato ieri il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà. “Negli ultimi dieci giorni le persone registrate negli Istituti sono diminuite di 339 unità (passando da 54.195 del 9 dicembre a 53.856) e le persone effettivamente presenti sono oggi 53.002 (alla stessa data del 9 dicembre erano 53.266). Tra i presenti - nota l’ufficio di Mauro Palma - anche 32 donne con 35 figli di età 0-3 anni, di cui 18 donne con 20 bambini nelle cosiddette sezioni nido e 14 donne con 15 bambini in quattro Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam)”. I posti letto disponibili sono circa 47 mila. “Sono dati - commenta il Garante - poco incoraggianti rispetto alla diffusione del virus, che richiede invece la possibilità di individuare spazi all’interno degli Istituti per garantire quella indispensabile esigenza di separazione e isolamento non sempre assicurata. Riguardo al Covid, si registrano alcuni focolai negli Istituti di Trieste, Milano-Opera, Milano San Vittore, Bollate, Monza, Busto Arsizio, Bologna, Sulmona, Regina Coeli a Roma e Napoli-Secondigliano”. E infatti nelle ultime settimane i contagi nelle carceri sono molto aumentati rispetto ai mesi scorsi: tra febbraio e agosto, erano state contagiate 568 persone, tra carcerati e lavoratori, e 4 sono morte (2 agenti e 2 detenuti); al 14 dicembre invece il ministero di Giustizia conta 1.030 detenuti positivi, di cui 951 asintomatici, 44 sintomatici, 35 ricoverati. Tra il personale di polizia penitenziaria i positivi sono 754 su 37.153 unità. Ecco perché l’appello lanciato la scorsa settimana dal portavoce dei garanti regionali dei detenuti, Stefano Anastasia, è stato ripetuto anche dalla senatrice a vita Liliana Segre, dalla presidente del gruppo Misto del Senato Loredana De Petris e dal senatore delle Autonomie Gianni Marilotti. I tre parlamentari hanno rivolto un’interrogazione urgente al presidente del Consiglio e al ministro di Giustizia per chiedere che “la popolazione carceraria, composta sia da detenuti che da agenti della polizia penitenziaria ma anche da tutte le figure professionali che operano nel mondo delle carceri, non possa essere lasciata indietro” nella vaccinazione di massa che inizierà nelle prossime settimane. E proprio di queste condizioni in cui versano le carceri italiane, riferirà al premier Conte che la riceverà il 22 dicembre prossimo la radicale Rita Bernardini che, in segno di fiducia nei confronti del presidente del consiglio ha deciso di sospendere l’iniziativa nonviolenta di digiuno che portava avanti da oltre un mese. “Sul carcere servono interventi strutturali: non si può procrastinare” di Simona Musco Il Dubbio, 19 dicembre 2020 Giancarlo Coraggio lancia l’appello appena eletto presidente della Consulta. Il numero uno della Consulta invoca soluzioni contro il sovraffollamento e aggiunge: “Mai invadere l’autonomia del legislatore. Ma il maxi-emendamento è un obbrobrio”. Il primo intervento è importante, nonché pieno di emozione. Giancarlo Coraggio, 44esimo presidente della Corte costituzionale, eletto ieri all’unanimità, ha indicato la via dei diritti, come da sempre fa la Consulta. Come nel caso del carcere per i giornalisti o del suicidio assistito, temi sui quali la Corte si è spinta fino al limite dell’interferenza con il legislatore, stabilendo l’incompatibilità delle norme con il sistema dei diritti e lasciando poi la palla alla politica, che spesso ha deciso di temporeggiare. E come nel caso del sovraffollamento delle carceri, problema cronicizzato, per il quale è tempo di mettere mano alle norme in maniera seria. “Servono interventi strutturali - ha dichiarato ieri nel corso della sua prima conferenza stampa da presidente -, ma questo è il caso classico di un problema politico nel senso più alto del termine”. Bisogna però ricordare che “ci muoviamo su un terreno delicato”, quello della legislazione, e “ciò ci deve indurre ad avere il senso del limite: non interferire e far rispettare la discrezionalità del legislatore e la sua fortissima legittimazione politica”. Coraggio, 80 anni, ex presidente del Consiglio di Stato, alla Corte dal 28 gennaio 2013, rimarrà in carica fino al 28 gennaio 2022, quando scadrà il mandato di nove anni di giudice costituzionale. Il suo primo atto da Presidente è stata la conferma del giudice Giuliano Amato come suo vice. Il sovraffollamento - “La Corte ha avuto particolare attenzione alle carceri”, ha sottolineato Coraggio. Che ha ricordato il viaggio della Consulta lungo l’Italia, per raccontare nei penitenziari la Costituzione, iniziativa sulla quale, all’inizio, ha ammesso di aver nutrito delle perplessità. “Mi chiedevo che cosa potesse dire un giudice costituzionale, che a differenza di un parlamentare, che poi può tornare alla Camera e fare delle proposte concrete, rischia di andare lì, ascoltare e manifestare i limiti della propria funzione, perché in effetti proprio questo abbiamo constatato”, ha sottolineato. Il campo d’azione è limitato ai casi sottoposti alla Corte, alcuni anche in tema di sovraffollamento, e dunque alle indicazioni che il giudice delle leggi può dare al Parlamento. “Ci siamo resi conto che il problema è risolvibile in un quadro molto più vasto - ha aggiunto. Tempo fa c’è stato un messaggio di Napolitano proprio sul sovraffollamento e a seguito di questo una serie di iniziative vennero intraprese. Ma è una panoplia di iniziative che devono essere prese, di carattere strutturale, sulla pena, le pene alternative, il lavoro possibilmente fuori (dal carcere, ndr) - i rapporti con la famiglia, un complesso di interventi che sono improcrastinabili, questo è pacifico. Le Corti sovranazionali ce l’hanno detto in tutti i modi. Però purtroppo è un caso classico di problemi che non possiamo risolvere noi, possiamo favorire nei limiti del possibile, ma è un problema politico nel più ampio senso del termine”. Il Titolo V e i Dpcm - La pandemia e i Dpcm hanno rispolverato questioni non risolte. Come il problema del rapporto tra Stato e Regioni, sul quale Coraggio ha invitato alla leale collaborazione, primo strumento di risoluzione dei conflitti. Ma la sensazione, ha sottolineato, è che “in un momento di emergenziale il meccanismo fatica a rendersi operativo”. Un problema c’è, ha aggiunto, invitando all’equilibrio nell’utilizzo dei Dpcm. E criticando anche l’obbrobrio” del maxiemendamento in tema di legge di Bilancio. “Qualche tempo fa Giuliano Amato ha detto che i Parlamenti sono nati in funzione della gestione finanziaria, che però è attribuita al governo ha sottolineato. In Italia il problema è stato risolto all’italiana con i maxi emendamenti e le questioni di fiducia. I primi sono quell’obbrobrio che sono, mentre la fiducia comporta di per sé la compressione dei tempi. Capisco come un senatore avverta la frustrazione di non poter esperire appieno il suo ruolo. È necessario però che non si arrivi a ledere il diritto di un parlamentare”. La magistratura onoraria - Coraggio ha anche invocato un intervento per la magistratura onoraria, definendolo “assolutamente urgente”. Il presidente ha dichiarato che “fa impressione” sentire che c’è chi “fa lo sciopero della fame”, ricordando la recente sentenza che ha riconosciuto il diritto dei giudici onorari al rimborso delle spese processuali relative a cause su responsabilità civili nell’esercizio delle funzioni. “Per la Corte - ha spiegato - è stata l’occasione per affermare un principio importante, ossia che giudicare è la stessa cosa sia che si giudichi di reati minori o di questioni di più grande impatto. I criteri sono gli stessi, poi bisogna vedere fino a che punto l’identità di funzioni deve riflettersi sul rapporto di lavoro”. Gli auguri - “Esprimo vivissime congratulazioni, a nome di tutto il Consiglio nazionale forense, al presidente Giancarlo Coraggio per l’alto incarico alla guida della Corte costituzionale e gli auguri per un sereno e proficuo lavoro nel comune interesse per la tutela dei valori costituzionali”. A dirlo la presidente facente funzioni del Cnf, Maria Masi. Gli auguri sono arrivati anche da David Ermini, vice presidente del Csm, secondo cui “il nuovo presidente saprà guidare al meglio la Corte nel prezioso ruolo di difesa dei valori del diritto e dei principi fondamentali”. Il presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, ha rimarcato le doti professionali e umane di Coraggio, con cui “la Corte proseguirà l’opera di custode dei diritti e di garante delle attribuzioni costituzionali dei poteri pubblici”. Auguri di buon lavoro anche da Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera. I magistrati di sorveglianza: “Vaccinare prima i reclusi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 dicembre 2020 Il coordinamento delle toghe: i nostri uffici al collasso. “La situazione non è più sostenibile con le forze umane e le risorse materiali a disposizione, anche valutato il sempre in crescita sovraffollamento nelle carceri”. È quanto denuncia il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza (Conams), rappresentando la “grave situazione in cui versano” gli uffici per la “carenza di risorse umane e materiali che già impediva di fronteggiare adeguatamente l’attività ordinaria ma che, nell’attuale prolungata pandemia, sta rendendone ulteriormente difficile la gestione, con dirette e gravi ricadute sui tempi di evasione delle istanze”, ed esprimendo “preoccupazione per l’attuale situazione delle carceri” per cui auspica che “la popolazione detenuta e tutto il personale amministrativo e di polizia impiegato negli istituti siano inseriti tra i primi destinatari, con priorità pari a quella delle altre categorie già individuate come più prossime, dell’ormai imminente campagna di vaccinazione da Covid- 19”. Le scoperture degli organici del personale amministrativo, che si collocano generalmente tra il 20 e il 50%, inoltre vengono evidenziate le “carenze materiali”, quali “l’inadeguatezza strutturale ed edilizia di molte sedi”, la “mancata previsione, salvo rare eccezioni, di aule di udienza assegnate o coassegnate agli uffici e ai tribunali di sorveglianza”, l’”assenza per lo più di sistemi di videoconferenza specificamente assegnati agli uffici”. Dunque, l’attuale “contesto emergenziale”, secondo le toghe di sorveglianza, “dovrebbe essere l’occasione per affrontare, in modo definitivo e strutturale, le plurime e più volte segnalate criticità degli uffici”. Covid-19 e vaccini nelle carceri. Anastasìa: “Un grazie alla senatrice Segre” Ristretti Orizzonti, 19 dicembre 2020 Il Portavoce della Conferenza sull’interrogazione urgente con cui la senatrice Liliana Segre sollecita un piano prioritario di vaccinazioni nelle carceri, per detenuti e personale “Siamo grati alla senatrice Liliana Segre, per l’attenzione che ha voluto portare al mondo del carcere e alla necessità di inserire le detenute e i detenuti tra le categorie prioritarie della prossima campagna vaccinale contro il Covid-19”. Così il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Stefano Anastasìa, in merito all’interrogazione parlamentare, con la quale la senatrice Segre chiede al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, “se non ritengano urgente la predisposizione di un piano vaccinale per detenuti e personale che lavora nelle carceri”. “Solo ieri sono stato nel carcere di Terni - prosegue Anastasìa - dove da qualche giorno si è finalmente spento un focolaio che ha interessato 75 detenuti, di cui uno è morto, dopo una lunga degenza in ospedale. Gli stessi dirigenti della polizia penitenziaria mi hanno rappresentato la necessità e l’urgenza della vaccinazione dei detenuti, oltre che - naturalmente - del personale sanitario e di polizia. Le carceri, come le Rsa, sono strutture di vita comunitaria in cui la diffusione del virus può essere particolarmente facile e particolarmente grave, come stiamo vedendo in queste settimane”. Speriamo che il Governo, il Ministro della salute e il Commissario straordinario per l’emergenza Covid vogliano ascoltare e raccogliere l’appello della Senatrice Segre”. Anastasìa è intervenuto sul tema la scorsa settimana, dopo aver appreso che i detenuti e le detenute non sono elencati tra le categorie prioritarie della campagna vaccinale contro il Covid-19. La Conferenza dei Garanti territoriali è sempre impegnata, per una riduzione del sovraffollamento. “Il carcere - sostengono i Garanti delle persone private della libertà nominati dalle regioni, dalle province e dai comuni italiani - è una realtà in cui il rischio della diffusione del Covid-19 è molto alto: l’inevitabile assembramento di un numero considerevole di persone in uno spazio angusto non permette, infatti, di rispettare le regole minime di distanziamento fisico e di igiene funzionali alla prevenzione del virus. La patologica situazione di sovraffollamento che caratterizza le nostre carceri contribuisce inoltre fatalmente ad accrescere il rischio di diffusione del contagio”. Più colloqui telefonici tra minori di 12 anni e genitori detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 dicembre 2020 L’Osservatorio Lucio Bertè propone l’adozione di un protocollo per i colloqui telefonici in questo periodo in cui non sono possibili le visite. “Un anno senza te” è il titolo di un evento organizzato dall’Osservatorio Lucio Bertè che si terrà lunedì prossimo, 21 dicembre, alle 20 e 30 tramite webinar. Ha un doppio significato: un anno senza il militante radicale scomparso il 24 dicembre del 2019, ma è anche un anno che in quasi tutte le carceri lombarde i minori di 12 anni non svolgono più i colloqui in persona con i genitori reclusi. Ed è proprio di questo che parleranno, assieme alla partecipazione di Rita Bernardini del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino, Luigi Pagano, già Provveditore lombardo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e Lia Sacerdote, presidente di” Bambini Senza Sbarre”. Ricordiamo che l’Osservatorio, dedicato appunto al militante radicale Lucio Bertè, scomparso oramai un anno fa e da sempre impegnato nella difesa dei diritti del detenuto ignoto, si propone di monitorare le condizioni delle carceri lombarde nello spirito della storica battaglia di Marco Pannella “Spes contra Spem”, attraverso la partecipazione delle diverse anime radicali del territorio accomunate dall’intento di tenere accesa l’attenzione sulle condizioni della comunità carceraria e sulle sue criticità. Il tutto sotto l’ala dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. E non è quindi un caso che si occupino anche dell’affettività in carcere. In questa pandemia è negata soprattutto ai minori, i quali inevitabilmente subiscono una ripercussione psicologica non indifferente. Che fare quindi? Da qui l’iniziativa di spedire, lunedì prossimo, una lettera al Provveditore Dap Lombardia e a tutti i direttori delle carceri Lombarde. La lettera propone l’adozione di un protocollo per attivare una serie di colloqui telefonici quotidiani, fra i minori e i genitori detenuti, ai quali è impedita - in questo periodo - qualsiasi visita. Questa proposta elaborata nella lettera nasce sulla scorta di un’esperienza già fatta dall’avvocata e componente dell’Osservatorio Simona Giannetti, per la minore figlia di un suo assistito detenuto. Per questo ha pensato che sia doveroso estenderla a tutti i minori. La proposta è innovativa, ma in realtà si adegua perfettamente su ciò che è scritto sulla Carta dei Diritti dei figli dei genitori detenuti dove il ministro della Giustizia si impegna a favorire il mantenimento dei rapporti tra i genitori detenuti e i loro figli nella salvaguardia dell’interesse del minore; a promuovere provvedimenti, che tengano conto della necessità della relazione genitoriale e affettiva di questi minori senza creare stigmatizzazioni o discriminazioni; a tutelare il diritto dei minori al legame continuativo e affettivo con il genitore anche se sia detenuto. Non solo, nella lettera si fa anche una osservazione importante: è previsto che i contatti aggiuntivi (telefonia mobile, chat e webcam), riconosciuti nella Carta dei Diritti dei figli di genitori detenuti, non sono considerati “premi”, assegnati in base al comportamento del detenuto, in quanto - si sottolinea nella lettera dell’osservatorio Lucio Bertè - “esclusivamente rivolti alla tutela del diritto del minore: per questo motivo dovranno essere riconosciuti a tutti i detenuti, anche a coloro che si trovino in regimi di alta sorveglianza. L’obiettivo è la tutela del minore, della sua salute, del diritto di affettività col genitore, della non discriminazione rispetto ai coetanei”. Quindi cosa si propone per garantire l’affettività recisa a causa della pandemia? L’attivazione di un protocollo che preveda almeno 5 colloqui telefonici aggiuntivi a settimana per i minori da utilizzare con il genitore, secondo tempi e modalità previste dal singolo Istituto Penitenziario. Sempre secondo la proposta dell’osservatorio, il genitore detenuto, avvisato con una circolare del carcere, potrà farne richiesta e ottenerne l’autorizzazione senza ritardo: l’osservatorio ci tiene a sottolineare che l’autorizzazione non dovrà avere fonte discrezionale ma riguardare tutti i figli dei detenuti, che sono inibiti al colloquio in presenza. “Sollecitiamo - scrive l’osservatorio Bertè nella lettera sottoscritta anche da Rita Bernardini e Luigi Pagano - che la realizzazione del presente protocollo, in attuazione del sopra citato art.3 della Carta dei Diritti dei figli di genitori detenuti, avvenga senza ritardo nell’interesse supremo dei minori coinvolti, che per le festività natalizie potranno fin da subito iniziare a usufruire della restituzione del loro Diritto alla continuità affettiva col genitore”. Ovviamente, come precisa sempre l’osservatorio, il protocollo dovrà restare in vigore per tutto il tempo in cui i colloqui saranno vietati in presenza. Si rimarca il fatto che i colloqui telefonici aggiuntivi non dovranno essere concessi come premio, cioè con riguardo al comportamento del detenuto, ma automatici. La colpa dei padri non può ricadere su quella dei figli piccoli. I bambini non devono scontare alcuna pena. “Le montagne dei pm partoriscono topolini”. Il pentimento postumo di Ingroia e Di Pietro di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 19 dicembre 2020 Trovarsi dall’altro lato della “barricata” deve aver allargato gli orizzonti agli ex pm Antonio Di Pietro e Antonio Ingroia. Dismessa la toga per intraprendere, dopo alterne esperienze politiche, l’attività forense, i due magistrati hanno cambiato opinione in tema di giustizialismo “spinto”, di cui Di Pietro, in particolare, è stato il più celebre portabandiera. Il primo a intervenire nei giorni scorsi sull’argomento era stato proprio l’ex pm di Mani pulite: “Io ho fatto politica sulla paura che le manette incutono agli altri - aveva dichiarato in una intervista ai microfoni di Radio Cusano - purtroppo, spesso, nel nostro Paese, chi sbaglia non paga, anche perché tante volte il magistrato parte con la montagna di accuse, per poi partorire il topolino”. “Io sono consapevole di avere creato dei dipietrini nella magistratura e me ne pento”, aveva poi aggiunto, evidentemente consapevole dei danni che il populismo giudiziario, quello per intenderci del “non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca”, ha causato in questi decenni nella società italiana. Sul punto è quindi intervenuto ieri l’ex procuratore aggiunto di Palermo, il magistrato che ha incardinato la discussa indagine sulla “trattativa Stato- mafia”. “Che ci siano stati e ci siano spesso provvedimenti di qualche pm un po’ avventati che rubano la scena mediatica e poi si rivelano inconsistenti, purtroppo è una realtà cui assistiamo in questi ultimi anni, che sono anni, obiettivamente, di declino e non di progresso della magistratura. “Non so se Di Pietro si riferisca a qualcuno in particolare - ha poi aggiunto Ingroia - non faccio l’interprete delle sue intenzioni più o meno occulte, però non credo sia lontano dalla verità, lo vedo oggi nella pratica quotidiana mia di avvocato. Forse c’erano in nuce anche quando facevo il pm, per carità, ma oggi sono più eclatanti”. A dire il vero Ingroia da tempo, da quando è diventato avvocato, ha avviato un percorso di “resipiscenza”. In una intervista di qualche anno fa a questo giornale, infatti, aveva affermato che “da avvocato” vede “cose che prima faticavo ad immaginare”, criticando il fatto che i gip accoglievano nella quasi totalità dei casi le richieste del pm. “Il giudice ormai svolge una funzione notarile rispetto alle Procure”, aveva precisato Ingroia, forse dimenticandosi che il “copia& incolla” è una prassi - purtroppo consolidata da molto tempo. Tensioni “postdatate” e tra le toghe in servizio - I pentimenti tardivi, che giungono anche in una età matura - Di Pietro ha recentemente compiuto i settanta anni - possono essere letti come conseguenza di una perdita di autorevolezza della magistratura, perdita che ha comunque come positivo risvolto uno sforzo autocritico a cui in passatoi si è assistito raramente. E per rispondere alla profonda crisi delle toghe, messa in luce dal caso Palamara, si segnala la risposta, tutta interna alla magistratura, del gruppo “Articolo 101”, la lista nata per andare contro il sistema delle correnti e che è all’opposizione nel Comitato direttivo centrale dell’Anm. La disaffezione per l’associazionismo giudiziario, invece, è un fenomeno in crescita nell’ultimo periodo. Dopo l’astensione circa il 30 per cento degli aventi diritto non ha votato alle recenti elezioni dell’Anm - il dissenso contro l’attuale compagine associativa è l’ultima frontiera. Secondo una lettera aperta, che sta facendo molto discutere, di alcuni magistrati in servizio al Tribunale di Napoli, che hanno deciso in questa settimana di lasciare l’associazione, l’Anm sarebbe incapace di andare “oltre il bla bla sulla questione delle correnti, sul caso Palamara e sulla moralizzazione del fenomeno dei fuori ruolo”. Dopo anni arrivano le assoluzioni, ma per i Pm l’innocenza è una sconfitta di Iuri Maria Prado Il Riformista, 19 dicembre 2020 Nelle ultime settimane c’è stata una pioggia di sentenze assolutorie: personaggi cosiddetti eccellenti hanno visto infine dichiarata la loro estraneità ai fatti che, secondo l’accusa pubblica, avrebbero denunciato la loro responsabilità. Si è trattato spesso di tribolazioni durate anni: sette anni, quindici anni, trent’anni… Ma questo perché? Perché era difficile raccogliere le prove? Perché era complicato istruire i processi? Perché eserciti di garantisti pelosi disseminavano di ostacoli il corso della giustizia? No. In molti casi l’irrevocabilità di quelle assoluzioni tardava a venire perché l’accusa pubblica, già responsabile di aver accusato senza fondamento, si incaparbiva nel suo intento persecutorio impugnando i provvedimenti favorevoli all’imputato. E infatti sono stati questi i titoli di giornale a descrizione e dell’esito: “La Cassazione conferma l’estraneità…”, “Riaffermata l’innocenza…”, e simili. Vuol dire che all’ultimo grado di giudizio non si è arrivati per il ricorso del colpevole che tentava di farla franca, ma per la pervicacia punitiva dell’accusa pubblica che non si arrendeva davanti agli accertamenti di giustizia del giudice di merito. È ben strano che il diritto di confidare nella valutazione di un giudice superiore sia trattato come un espediente da mascalzoni quando a ricorrervi è la vittima di una condanna, mentre rappresenta una sacrosanta affermazione di giustizia quando l’impugnazione è fatta dal candore togato del pubblico ministero. Ed è anche più strano considerando il ruolo che l’accusa pubblica rivendica a sé nell’amministrazione della giustizia, vale a dire il ruolo di contribuzione giurisdizionale che obbliga a tenere conto degli elementi di prova a favore dell’imputato e anzi persino a ricercarne. Un compito di portata più che altro teorica nel sistema della giustizia militante che non riconosce innocenti ma solo colpevoli ancor da scoprire. Di fatto, il cittadino che nei giorni scorsi abbia appreso di quelle definitive riabilitazioni e dei massacri umani che le hanno precedute, sappia che una simile giustizia, che interviene così tardi a denunciare di essersi esercitata malamente per così tanto tempo, è l’effetto dell’impuntatura inquirente che resiste, resiste, resiste pur quando è evidente l’inconsistenza dell’accusa, e quindi impugna e ricorre perché vuole carcere, carcere, carcere anche se vi si rinchiude l’innocenza. Perché quello, il carcere, è la loro vittoria e l’altra, l’innocenza, è la loro sconfitta. Cinque anni di gogna. Archiviato il caso Lorenzo Diana di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 dicembre 2020 Oggi si chiede: “Come rimedierò al fango che mi hanno gettato addosso?” È finito dopo cinque anni e mezzo il calvario mediatico-giudiziario di Lorenzo Diana, tre volte parlamentare per il centrosinistra dal 1994 al 2006, ex segretario della commissione Antimafia, paladino della lotta alla criminalità organizzata, costretto a vivere sotto scorta per vent’anni a causa delle minacce di morte dei casalesi. Nel luglio 2015 nei suoi confronti si era abbattuta l’accusa più infamante per un simbolo della lotta alle cosche: concorso esterno in associazione mafiosa. Per l’allora pm della Dda di Napoli, Catello Maresca, Diana aveva agito da “facilitatore” di un presunto patto tra la coop Cpl Concordia e i clan mafiosi nel progetto di metanizzazione dell’agro aversano. Dopo quattro anni di sofferenze e umiliazioni, nel maggio 2019 Diana ha ottenuto l’archiviazione della propria posizione su richiesta della stessa procura. L’accusa si basava sulle rivelazioni di due pentiti, poi rivelatesi del tutto infondate. Pochi giorni fa si è chiuso con un’archiviazione anche l’altro filone di indagine che vedeva coinvolto Diana, incentrato su un presunto abuso d’ufficio compiuto dall’ex senatore in qualità di amministratore del Centro agroalimentare di Napoli. Per questa accusa, Diana era stato interdetto per un anno dai pubblici uffici e aveva subito un divieto di dimora in Campania. “Per cinque anni e mezzo la mia vita privata, sociale, politica e istituzionale è stata sospesa - racconta Diana al Foglio - Nessuno mi potrà restituire questi cinque anni e mezzo. Ma può la vita di un cittadino essere sospesa per un semplice avviso di garanzia?”. “All’inizio ho fatto fatica a crederci, anche perché per quindici anni avevo combattuto per il mio territorio, al fianco delle forze dell’ordine, dei magistrati, delle istituzioni. Passare da un giorno all’altro da simbolo della lotta alla mafia a sospetto colluso è stato terrificante”, aggiunge l’ex senatore. “Per affrontare le spese legali ho dovuto vendere due immobili. Una sera ho dovuto fare le valigie in mezz’ora perché dovevo abbandonare la Campania. Queste sono cicatrici che non scompariranno mai”. Per l’ex simbolo antimafia, la vicenda che lo ha visto protagonista dovrebbe imporre riflessioni su diversi fronti. “La mia rabbia è prima di tutto nei confronti del legislatore, che non trova il modo di fare una seria riforma della giustizia per renderla efficiente e garantista”, spiega Diana. “Una seconda riflessione si impone alla stessa magistratura. C’è un uso abnorme delle misure cautelari e la lentezza del sistema giudiziario determina una sospensione lunghissima dei diritti di molti cittadini. È normale che un procedimento venga archiviato cinque anni dopo un avviso di garanzia? Se invece di essere archiviato fossi finito a processo, il mio calvario giudiziario sarebbe durato più di un decennio”. Un’ulteriore riflessione si impone agli organi di informazione: “L’avviso di garanzia si è trasformato in una sentenza di condanna mediatica, senza possibilità di appello e di difesa. Quale spazio mi sarà offerto ora per pareggiare il conto del fango mediatico che mi è stato gettato addosso in tutti questi anni?”, si chiede Diana, che non risparmia critiche neanche al mondo dell’associazionismo antimafia, che durante la vicenda giudiziaria lo ha abbandonato. “Qualcuno mi ha sostenuto, ma in tanti hanno preferito l’attendismo e l’allontanamento. L’esaltazione acritica della magistratura fa un brutto servizio allo stesso mondo antimafia. Tutti i corpi istituzionali sono fatti di essere umani, sono luoghi di potere, pertanto soggetti a tutte le contraddizioni umane. Se persino il Papa ha dovuto fare pulizia fra i cardinali, che sono votati alla santità, figuriamoci se possono essere esenti da fenomeni del genere gli altri corpi, compresa la magistratura. Bisognerebbe avere una visione più realista ed esercitare fino in fondo il principio di presunzione di innocenza”. La vicenda che ha travolto Diana, tuttavia, rischia di avere risvolti ancora più paradossali. Uno dei pm che ha svolto le indagini nei suoi confronti, poi finite nel nulla, vale a dire Catello Maresca (oggi sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Napoli), sembra infatti destinato a diventare il candidato sindaco di Napoli per il centrodestra. “Mi astengo dal valutare le scelte personali del dottor Maresca - afferma Diana - Resto convinto, però, che i magistrati non dovrebbero candidarsi nel territorio in cui hanno esercitato il proprio ruolo, fosse anche per un solo giorno”. Emilia Romagna. Carceri e pandemia, il Garante in commissione: “Situazione sotto controllo” romagnaoggi.it, 19 dicembre 2020 A commentare i riflessi dell’emergenza Covid nelle carceri dell’Emilia-Romagna è il Garante dei detenuti Marcello Marighelli, che ha portato in commissione Parità (presieduta da Federico Amico) i numeri del panorama detentivo regionale. “Dopo le rivolte di marzo e le prime difficoltà nella gestione della pandemia, possiamo dire che oggi la situazione in tutti gli istituti penitenziari è sotto controllo e i casi di positività sono in linea con i numeri dell’esterno. Il carcere della Dozza di Bologna è quello più problematico, con un numero di positivi tra i 50 e i 70 che è stabile da qualche giorno”. A commentare i riflessi dell’emergenza Covid nelle carceri dell’Emilia-Romagna è il Garante dei detenuti Marcello Marighelli, che ha portato in commissione Parità (presieduta da Federico Amico) i numeri del panorama detentivo regionale. Al 30 novembre sono 3.176 le persone detenute in tutta la regione, di cui 421 in attesa di primo giudizio. “Sono numeri importanti, perché durante una pandemia il distanziamento fisico è fondamentale per il contenimento del virus”, ha spiegato Marighelli. “Considerato che Modena non è al massimo della sua capienza - la struttura ha visto danneggiamenti e riduzione degli spazi dopo la rivolta - fatta qualche eccezione, le presenze in diversi istituti non si discostano molto dalle capienze regolamentari”. Il carcere durante la pandemia. Rispetto alla prima fase dell’emergenza Covid, spiega il Garante, la situazione si sta stabilizzando e molte criticità sono risolte: sono stati adottati protocolli dall’amministrazione penitenziaria con le Ausl per organizzare la presenza di detenuti negli spazi e per garantire l’isolamento di quelli che entrano o che vengono trasferiti, con tamponi all’ingresso, quarantena obbligatoria, screening costante sugli operatori e dispositivi di protezione per il personale. Diversi istituti della regione hanno mantenuto alcune attività rieducative e scolastiche con partecipazione dall’esterno e le attività di volontariato (rispettando le raccomandazioni anticovid) e assicurato i colloqui con i familiari: “Fin dalla prima ondata ci si è attrezzati con la possibilità di effettuare videocolloqui - ha raccontato Marighelli - all’inizio con alcune perplessità e poi con buonissimi risultati, riuscendo a garantire incontri online soprattutto a chi ha la famiglia lontana. Anzi ci auguriamo che si continueranno a fare anche in futuro”. Parma e Reggio Emilia, le realtà più complesse. L’ultima visita in regione del Garante nazionale dei detenuti ha restituito nel complesso un bilancio abbastanza positivo, ma ha evidenziato alcune criticità nelle strutture di Parma e Reggio Emilia: Parma è un centro clinico per detenuti con patologie gravi e croniche, che accoglie detenuti da tutta Italia e per questo ospita molte persone vulnerabili; a Reggio Emilia è presente una articolazione di salute mentale, ma che al momento ospita più delle persone previste. “Siamo stati tra i primi a chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari, ma la riforma è rimasta incompleta. Così succede che oggi a Reggio i progetti riabilitativi non abbiano un reale sbocco verso l’alleggerimento detentivo, perché non tutti hanno gli adeguati collegamenti con il nostro territorio. Servono nuovi spazi pensati per le attività di riabilitazione psichiatrica,” rimarca Marighelli. Mancano spazi e personale. Il Garante ha poi sottolineato come tutti gli istituti penitenziari abbiano forte necessità di spazi e di personale: “Servono strutture e attrezzature per le attività sanitarie, impianti di climatizzazione, spazi verdi e luoghi dove svolgere progetti e laboratori. Possiamo dire che a oggi l’offerta di formazione professionale per i detenuti c’è, ma il carcere non ha gli spazi per poterla accogliere tutta. E poi manca personale, operatori penitenziari e soprattutto educatori: cinque o sei educatori per struttura come possono seguire centinaia di detenuti? Il diritto alla salute è un diritto fondamentale riconosciuto a tutti, a prescindere dalla loro condizione di libertà o di reclusione”. L’attività del Garante. Sono 191 le segnalazioni gestite dal Garante al 30 novembre 2020, di cui il 31 per cento (59) tra marzo e aprile in pieno lockdown: in questo contesto le richieste hanno riguardato anche soprattutto familiari preoccupati per la situazione dei propri cari all’interno e la ripresa delle comunicazioni tra familiari e detenuti del carcere di Modena dopo le rivolte e l’evacuazione. I colloqui effettuati sono stati 54, 46 in modalità telematica. Grande attenzione da parte dell’ufficio del Garante anche alle detenute donne, alle sezioni femminili e alla presenza di minori (nel 2020 sono state 10 le presenze di bambini in carcere insieme alle madri con tempi di permanenza fino a 30 giorni). “È un dato migliore di quello del 2019 conclude il Garante - in stretta collaborazione con l’assessorato ai Servizi sociali e con la Garante per l’infanzia della Regione siamo molto impegnati per la ricerca di soluzioni che possano superare questa situazione, come l’istituzione di una casa famiglia protetta”. Roberta Mori (Pd) ha elogiato l’attività del Garante, la grande capacità di resilienza e il monitoraggio attento delle situazioni: “Ha un ruolo importante di rappresentanza di chi non ha voce e di tutela dei diritti. Ci sono criticità importanti, dovremo intervenire. La Regione interviene già all’interno del carcere per formazione, scuola e cultura con progettualità specifiche. Poi abbiamo scoperto che la tecnologia può accorciare le distanze, bisogna investire sull’innovazione.” Soddisfatto dell’informativa anche Simone Pelloni (Lega): “C’eravamo visti dopo le rivolte e siamo contenti che, nonostante la pandemia, la situazione sia migliorata e in parte rientrata”. Poi un’attenzione particolare agli operatori penitenziari: “Alcuni lamentano la mancanza di dispositivi di protezione e di non ricevere ristori come le altre forze dell’ordine. E rimangono problemi strutturali, una sola casa lavoro in tutta la regione è troppo poco se la pena deve tendere alla rieducazione”. Emilia Romagna. Carceri, il dramma dei “bimbi galeotti”: dietro le sbarre con le madri detenute di Evaristo Sparvieri Gazzetta di Reggio, 19 dicembre 2020 Il Garante regionale: “Casi non conformi all’ordinamento”. Il consigliere regionale Amico presenta un’interrogazione: “È un fatto intollerabile”. Non solo il problema del sovraffollamento, indicato da tempo fra le criticità croniche di diverse carceri in Emilia, compreso l’istituto penitenziario di Reggio, dove ci sono 375 detenuti su una capienza che ne prevedrebbe un massimo di 294. Dietro le sbarre, nei primi dieci mesi del 2020, in Emilia-Romagna ci sono stati anche dieci bambini. C’è chi li chiama i “bambini galeotti”, accostando due parole stridenti in una sorta di triste ossimoro, che tuttavia aiuta bene a descrivere una difficile realtà: minori, spesso molto piccoli, che non hanno commesso alcun reato. Ma che si trovano a trascorrere periodi in carcere al fianco delle proprie madri detenute. È uno degli aspetti più delicati su cui si è concentrata l’ultima riunione della Commissione regionale Parità e Diritti, presieduta dal consigliere regionale reggiano di Er Coraggiosa, Federico Amico, durante la quale è stata illustrata l’informativa del Garante regionale dei detenuti, Marcello Marighelli, con i dati 2020 delle realtà carcerarie emiliano-romagnole, mettendo in rilievo anche i riflessi dell’emergenza Covid sulla situazione penitenziaria in regione. Il Garante ha fatto il punto della situazione per i nove istituti presenti nei capoluoghi emiliani, ai quali si aggiungono un istituto minorile, due residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza sanitarie e una casa di lavoro a Castelfranco Emilia, nel Modenese. Sono stati 1.643 i detenuti usciti in libertà nel 2020, contro i 1.831 entrati negli istituti di pena regionali, per un totale che lo scorso 30 novembre era di 3.176 ristretti presenti nelle strutture carcerarie della regione. Di questi 421 ancora in attesa di primo giudizio. “Una situazione non dissimile a quella di un anno fa - ha ricordato Marighelli - Ma questi numeri sono significativi perché in tempo di pandemia il distanziamento fisico è fondamentale per garantire la non diffusione del virus. La situazione della nostra regione è penalizzata anche dal fatto che a Modena, dopo la rivolta dell’anno scorso, la capienza sia stata ridotta da 366 a 238 detenuti. Al 30 novembre gli istituti di Piacenza, Parma e Modena rispettano la capienza regolamentare, mentre il sovraffollamento carcerario è particolarmente critico a Bologna (731 detenuti per una capienza di 500), Ferrara (345 detenuti anziché 244) e Reggio Emilia (375 detenuti contro una capienza regolamentare di 294)”. Un’emergenza nel pieno dell’emergenza sanitaria, che tuttavia - stando ai dati diffusi - fortunatamente all’interno degli istituti penitenziari non si è tradotta in un aumento esponenziale dei contagi, con la sola eccezione del carcere bolognese della Dozza, dove le persone risultate positive tra detenuti e personale sono oltre 50. “Dal mio punto di vista la situazione si sta stabilizzando, anche grazie al protocollo adottato per riorganizzare la logistica dei detenuti - ha spiegato il garante - Attualmente la situazione è buona, grazie alla possibilità di sottoporre al tampone le persone che arrivano nelle sezioni di comunità in una condizione di sicurezza”. A essere irrisolta invece è proprio la preoccupante situazione dei minori: 10 bambini che da gennaio alla fine di ottobre, con un periodo di permanenza durato anche oltre 30 giorni, hanno seguito le madri all’interno degli istituti di pena. “Sono periodi abbastanza brevi, ma comunque lesivi dei diritti del bambino e non conformi all’ordinamento”, ha commentato Marighelli. Sui casi di minori le cui madri sono in carcere, l’ordinamento prevede forme alternative di detenzione, con lo scopo di limitare ai bambini la percezione di trovarsi in una condizione restrittiva e garantire una convivenza serena con la madre detenuta. Norme spesso di difficile applicazione, nel tentativo di trovare una sorta di equilibrio fra tutela dell’infanzia, della maternità e certezza dell’espiazione della pena. “I “bambini galeotti” rappresentano un fenomeno molto grave - afferma Federico Amico, che sull’argomento ha presentato un’interrogazione urgente in Assemblea legislativa - È un tema estremamente delicato se si considera che si parla di bambini in tenerissima età. Un bambino in carcere è un fatto intollerabile”. Padova. “Cluster in carcere, servono i tamponi” di Nicola Cesaro Il Mattino di Padova, 19 dicembre 2020 Sono 33 i detenuti infettati a cui si aggiungono 18 lavoratori. Scoppia la protesta, anche un tentativo di sollevazione. Se si esclude la Casa circondariale di Trieste, il Due Palazzi di Padova si conferma la struttura del Triveneto che sta vivendo la più importante emergenza Covid di questa seconda ondata. L’altro ieri il carcere padovano ha registrato anche la prima vittima: un nome che ha inevitabilmente proiettato la situazione patavina alla ribalta nazionale, visto che a perdere la vita è stato Donato Bilancia, 69 anni, noto come il “killer dei treni”. Stava scontando al Due Palazzi tredici ergastoli per diciassette omicidi, avvenuti tra il 1997 e il 1998 dalla Liguria al Piemonte. Bilancia è l’unico detenuto contagiato dal Covid trasferito in ospedale, nel reparto di Pneumologia: qui avrebbe rifiutato le cure con l’ossigeno, morendo in pochi giorni. Il cluster di Coronavirus del carcere padovano ha ormai numeri importanti: il report diffuso giovedì sera dal Ministero della Giustizia, che attraverso il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria monitora la gestione del Coronavirus nei vari Provveditorati, parla di 32 detenuti positivi al Covid-19 nella casa di reclusione di Padova e di 1 nella casa circondariale. Stando al bollettino, sarebbero tutti asintomatici. Ai carcerati vanno aggiunte anche 15 guardie di sicurezza, di cui 3 sintomatiche, nella casa di reclusione, e altre 3 asintomatiche in casa circondariale. Nel Triveneto, per numero di contagi, Padova è seconda solo a Trieste (69 detenuti positivi) ed è davanti a Trento (31) e Tolmezzo (17). Proprio in fatto di personale contagiato, quella padovana è la situazione più critica dell’intero Provveditorato del Triveneto. Il nervosismo, inevitabilmente, serpeggia tra le sezioni: una prima rivolta era stata sedata in occasione della prima ondata, un’altra ha preso forma in un piano del carcere appena la settimana scorsa. “Dobbiamo considerare il carcere alla stregua di un ospedale e di una casa di riposo” denuncia da tempo Giampietro Pegoraro della Cgil Penitenziaria “e dunque dobbiamo garantire un piano di monitoraggio continuo ed efficace”. Tamponi, dunque. “Non possiamo pensare di scongiurare i contagi se i tamponi vengono effettuati una volta al mese: ne servono almeno ogni due settimane, e non solo quando si rileva una positività. È già troppo tardi. Lasciare troppo tempo al virus prima di essere individuato significa creare dei cluster importanti”. Incalza il sindacalista: “Le carceri sono bombe a orologeria, e non solo per i detenuti ma per le città stesse: chi ci lavora, rischia di portare fuori il virus se questo non viene monitorato e intercettato per tempo”. Un piano operativo regionale prevede di far convogliare verso il carcere di Rovigo i detenuti positivi al Covid-19 di tutto il Triveneto. Qui sarebbero stati individuati poco più di quaranta posti. “Abbiamo scritto in queste ore al presidente veneto Luca Zaia per scongiurare questo percorso” sottolineano dalla Cgil “A Rovigo lo spazio per i detenuti Covid-19 non è perfettamente isolato rispetto a quello destinato ai carcerati non contagiati, e mancano peraltro garanzie per lo stesso personale. Prima di attuare un simile piano, forse l’amministrazione penitenziaria avrebbe dovuto coinvolgerci, anche per condividere dei protocolli di sicurezza”. parla lo psicologo del serial killer ucciso dal virus Padova. La rinuncia di Bilancia alle cure. Lo psicologo: “Una forma di responsabilità” di Nicola Cesaro Il Mattino di Padova, 19 dicembre 2020 “Il venir meno alle cure è stato forse un modo per sentire la responsabilità di ciò che non era ancora riuscito a mettere a posto”. Antonio Iudici è lo psicologo che ha accompagnato negli ultimi due anni il percorso di Donato Bilancia, il serial killer che stava scontando 13 ergastoli per 17 omicidi al Due Palazzi di Padova, morto l’altro ieri per Covid-19 in ospedale a Padova. Iudici ha avuto modo di scrivere a Bilancia pochi giorni prima del contagio: “Sto attendendo indicazioni dallo pneumologo che lo aveva in cura, perché anche io ho appreso che Bilancia avrebbe voluto evitare le cure”. Se così fosse, per lo psicologo non si tratterebbe “di una disaffezione alla vita, ma di un modo per dare una forma di concretezza a quella responsabilità che ancora si sentiva addosso”. Aggiunge: “Se avesse voluto uccidersi, ne avrebbe avuto più volte l’occasione. Non l’hai mai fatto, forse proprio perché non era contro la vita”. In questo caso, però, “l’occasione” è arrivata senza ricercarla. Iudici parla di un percorso psicologico molto serio affrontato da Bilancia in questi ultimi tempi: “Aveva in mente davvero tanti progetti di riparazione. Mi aveva dato incarico di contattare i famigliari di quelle persone a cui aveva tolto la vita: voleva in qualche modo mettersi a disposizione di queste famiglie, e stava ancora malissimo per quanto compiuto oltre vent’anni fa”. E ancora: “Ci sono tante iniziative volute da Bilancia come vie di riparazione: si è saputo del sostegno economico a un ragazzo disabile, ma in realtà i progetti erano tanti altri. La gravità di quanto ha fatto resta tale, ma la prova di riscatto è stata evidente”. Anche Nicola Boscoletto, presidente di Officina Giotto, vuole lasciare un’immagine forte in questo lutto: “Fin dall’inizio, per oltre dieci anni, Donato è stato seguito da Bianca Maria Vianello, per tutti Biki, scomparsa nel 2017. In silenzio, con discrezione e fedeltà, Biki è stata al fianco di Donato. Sono sicuro che ora, lassù, si adopererà per venire in qualche modo incontro all’uomo che l’ha raggiunta, per proseguire quel percorso così importante fatto in carcere”. La data del funerale di Bilancia non è ancora stata decisa. Padova. Il pm Enrico Zucca: “Bilancia un manipolatore che non doveva morire così” di Marco Preve La Repubblica, 19 dicembre 2020 “Donato Bilancia era soprattutto un manipolatore. Non era un serial killer ma voleva interpretare quel ruolo”. Fu una lunga caccia resa difficile non solo dall’assenza di uno schema nei delitti ma anche da alcuni contesti esterni che, prima e dopo l’arresto rischiarono, più o meno intenzionalmente di inquinare l’indagine. Enrico Zucca - oggi sostituto procuratore generale - in quel sanguinoso 1998 divenne uno dei protagonisti del più truce caso di cronaca nera del dopoguerra italia. Dottor Zucca la sua prima reazione dopo aver saputo della morte di Donato Bilancia in prigione? “La cosa che più mi colpisce è che una persona è morta di Covid in carcere, in un luogo che dovrebbe essere sicuro per definizione e che invece dimostra di non esserlo. Ancor di più colpisce se pensiamo che Bilancia era non un detenuto di passaggio ma un pluriergastolano”. Che ricordi ha di quel periodo, prima dell’arresto? “Mi sono spesso chiesto cosa sarebbe accaduto oggi con breaking news e internet onnipresente con aggiornamenti e coperture continue. All’epoca le notizie si aspettava di leggerle il giorno dopo sui giornali o ai telegiornali della sera”. Però fu un evento mediaticamente molto seguito... “Eccome e io all’epoca mi lamentavo perché mi ero accorto che i dati investigativi non riuscivamo a tenerli segreti per più di 48 ore. Penso in particolare alla vicenda della Mercedes nera con cui si spostava o altri episodi”. Aspetti critici e di forza dell’inchiesta? “Fra i primi la complessità del coordinamento delle forze dell’ordine (ci furono fortissime contrapposizioni fra la polizia e i carabinieri, ndr) anche nelle loro diramazioni territoriali e di ben cinque procure interessate. Dall’altro lato fu uno dei primi casi in cui le nuove tecniche investigative dei Ris di Parma vennero utilizzate ampiamente e benissimo sfruttate in sede locale dai carabinieri guidati dall’allora maggiore Ricciarelli”. A delitti in corso venendo formulate diverse ipotesi, si parlò anche di mafia... “Fu una sorpresa anche per noi scoprire che si trattava di un uomo solo, scoprire per così dire la banalità dei crimini. Ma nel processo che seguì e anche dopo le sentenze definitive emersero interessi spuri, c’era chi aveva interesse a sostenere teorie che tiravano in ballo altre piste, misteriosi quanto fantasiosi complici, anche perché la vicenda Bilancia fece venire alla luce il giro di bische cittadine e questo diede fastidio ad alcuni ambienti criminali”. Bilancia davanti a lei confessò. Che legame si stabilì fra di voi? “Nessuno. Il serial killer che si confida con il magistrato appartiene alla mitologia, alla letteratura noir, alla fiction, nella realtà non può esserci alcun rapporto, la confessione non nasce per persone disturbate”. Criminalmente che personaggio è stato Donato Bilancia? “Non un serial killer. Anche se i suoi delitti tennero in ansia la popolazione per mesi, lui non aveva le caratteristiche di scuola del serial killer. Non c’era lo sfondo sessuale tipico. Lui interpretò il ruolo di serial killer, come dissero i periti, anche quando oltraggiò le vittime a bordo dei treni. Bilancia ha sempre recitato anche in carcere”. Bilancia le scrisse nel 2011 per chiedere un suo intervento sul giudice di sorveglianza e lasciando intendere che ci fossero verità ancora non emerse... “Era un manipolatore, e lo dimostrò soprattutto con quella strampalata intervista televisiva con Bonolis. Ed era utile a chi voleva sviluppare teorie complottistiche. Voleva la ribalta e sentirsi al centro dell’attenzione, ricordo che parlava del personale del carcere definendolo il suo “staff”. Purtroppo devo rilevare che il carcere ha rinsaldato e non attenuato certi suoi atteggiamenti patologici. Anche il continuo cambio di avvocati alla ricerca di attenzione mediatica lo conferma”. Albenga (Sv). “In caserma hanno picchiato anche me. Sentivo Emanuel gridare Aiuto! Basta!” di Marco Grasso Il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2020 La rivelazione choc avviene durante un colloquio che si è tenuto in gran segreto ieri presso il carcere di Imperia: “Sono stato picchiato all’interno della caserma dei carabinieri di Albenga. Mi hanno preso a calci e a pugni sul costato. Un militare, che ricordo bene, perché era alto e muscoloso, mi ha colpito con un bastone avvolto in un giornale rosa. Ho perso un dente”. Paolo Pelusi ha 57 anni e un passato difficile, costellato di tossicodipendenza e problemi con la giustizia. Il 4 dicembre scorso è stato catturato durante la stessa operazione antidroga che ha portato all’arresto di Emanuel Scalabrin. La sua testimonianza, se trovasse riscontri e fosse ritenuta attendibile, potrebbe essere dirompente per l’inchiesta aperta dalla Procura di Savona per omicidio colposo. Scalabrin, 33 anni, è stato trovato morto la mattina del 5 dicembre nella branda della cella di sicurezza all’interno della stazione. Fra l’ora della morte stimata dal medico legale, intorno alle 8, e il suo ritrovamento, alle 11, c’è un buco nero di tre ore. Un intervallo su cui non possono fare chiarezza le telecamere: il consulente dei pm ha rilevato che il sistema non ha registrato, era senza hard disk. Pelusi, insomma, potrebbe essere l’ultimo testimone non appartenente all’Arma dei carabinieri a poter raccontare qualcosa su quanto avvenuto nella stazione. Ciò che racconta ai magistrati contraddice di fatto i rapporti di servizio. A cominciare da un episodio riferito come un’anomalia: “A metà pomeriggio sono stato prelevato dalla mia cella e portato in una sala d’attesa. Mi ero convinto che mi volessero rilasciare. A un certo punto ho sentito delle urla provenire dalla cella di Scalabrin. Ho riconosciuto la sua voce, diceva: “Aiuto! Aiuto! Basta! Basta”. Davanti a me c’erano due carabinieri, li ho guardati, ma non ho ricevuto alcun cenno di risposta”. Il colloquio, cominciato alle 12 di ieri, è durato due ore abbondanti. Pelusi è stato interrogato dalle due pm Chiara Venturi ed Elisa Milocco, alla presenza del suo avvocato Andrea Cechini, senza polizia giudiziaria. “È stato sentito in qualità di testimone, non possiamo rivelare nulla del contenuto delle sue dichiarazioni”, spiega il legale. La famiglia, assistita dall’avvocato Branca e sostenuta dalla Comunità di San Benedetto, chiede di fare chiarezza. Sul caso ha presentato un’interrogazione parlamentare il deputato di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. Napoli. Giornata di digiuno per la dignità dei detenuti a Poggioreale di Alessandra Di Dio Corriere del Mezzogiorno, 19 dicembre 2020 Associazioni e volontari hanno aderito alla manifestazione. Ciambriello: “Evitiamo morti dietro le sbarre”. “Fame di giustizia e sete di verità”. Queste le parole chiave e l’appello che si vuol chiedere alle istituzioni con un giorno di digiuno per la dignità dei detenuti. Sabato 19 dicembre ci sarà un presidio simbolico davanti al carcere di Poggioreale. “Dalle 11 alle 15 avverrà un momento di riflessione e digiuno per preservare la dignità di ogni detenuto”, dice Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti della Campania. “Stiamo attraversando una fase delicata, durante la quale abbiamo assistito a molti decessi, dovuti soprattutto al Covid - insiste - un virus che si è diffuso molto nella struttura di Poggioreale e in altre case circondariali campane. Di recente c’è stata la scomparsa del direttore sanitario del carcere di Secondigliano, De Iasio, a causa del coronavirus. Inoltre Vincenzo Irollo, è uscito da poco dalla medesima malattia. Se parlare è un bisogno, ascoltare è un’arte. È giusto che chi commette reati paghi e sia sottoposto alla giustizia, ma non a prezzo della vita”. A luglio scorso, al Complesso Donnaregina, Museo Diocesano di Napoli, era stato presentato il libro di Ciambriello sulle vicissitudini del sistema detentivo dal titolo “Carcere” edito da Rogiosi. “Un libro che mi ha permesso di segnalare la precarietà delle condizioni fisiche e mentali di molti detenuti - dice Ciambriello - abbandonati a se stessi e dalle politiche locali. L’anagramma del termine “carcere” è cercare. Cerco di dar voce a loro e di aiutarli a svolgere un percorso di rieducazione ma anche di rinascita. Lunedì vi sarà il pranzo di Natale dei detenuti a Salerno e si svolgerà con distanziamenti anticovid. Nella giornata di domani speriamo di essere ascoltati dal ministero della Giustizia. La scorsa settimana ho assistito a 4 decessi di detenuti per Covid a causa dell’eccessivo sovraffollamento nelle singole celle. Chiediamo che le pene non vengano trasformate in condanne a morte silenziose”. La pastorale carceraria di Napoli e il cappellano di Poggioreale don Franco Esposito saranno domani al presidio. “La manifestazione si svolgerà in piena sicurezza anticovid - dice il sacerdote - è giusto far sentire la nostra voce. Hanno aderito alla giornata varie associazioni, il cardinale Sepe, il nuovo vescovo Battaglia, don Tonino Palmese e padre Alex Zanotelli. Faremo un giro intorno alle mura del carcere di Poggioreale e poi ci ritroveremo al centro direzionale davanti gli uffici della Regione Campania. Il nostro appello è più misure alternative, meno carcere. Chi sbaglia deve sottoporsi alla giustizia. Ma la dignità umana ci auguriamo sia sempre tutelata”. Napoli. Antonio rischia il Natale in carcere perché non c’è il braccialetto elettronico di Rossella Grasso Il Riformista, 19 dicembre 2020 Antonio Castellucci ha 25 anni. Un mese fa è entrato in carcere a Poggioreale. Non aveva mai avuto problemi con la giustizia finché una sera ha fatto salire sul suo motorino un amico che era in possesso di una pistola. Fermati dalla polizia per un controllo sono finiti entrambi in carcere. “Mio nipote è un bravo ragazzo che ha sempre fatto il pizzaiolo - dice suo zio - ora si trova in carcere da innocente e per di più dopo che gli hanno dato i domiciliari non può tornare a casa perché i braccialetti elettronici non ci sono. E adesso rischia di passare il Natale in carcere”. I familiari del ragazzo raccontano che 16 giorni fa il giudice ha stabilito che Antonio potesse andare a casa ai domiciliari con il braccialetto. “Mio nipote è ancora in carcere in attesa di questo braccialetto elettronico che non c’è. La Giustizia vanta di aver messo in atto le scarcerazioni per alleggerire il sovraffollamento con i braccialetti ma di fatto non esiste niente”, dice lo zio di Antonio. A preoccupare lo zio di Antonio c’è anche un’altra questione: “Anche io purtroppo ho vissuto il carcere - racconta - So bene che non è altro che una scuola che insegna come fare una rapina fatta bene, come vendere la droga senza essere arrestati… un ragazzo giovane che entra in carcere e che non sa nulla di questo mondo potrebbe uscire peggiore. Io spero che mio nipote quando uscirà da questa storia, riprenderà a fare il pizzaiolo anche se il lavoro non c’è. Il carcere a volte crea criminali. È anche questo: chi entra per la prima volta sta andando a un college per imparare quello che sono i reati”. “Questa è una giustizia finta - continua lo zio - Non capisco che senso ha che un giudice manda ai domiciliari un ragazzo e poi la burocrazia e la giustizia che non funziona lo tengono comunque in carcere. La giustizia è fallita”. Normalmente un detenuto nella stessa situazione di Antonio ci metterebbe due giorni a tornare a casa. Ne è consapevole Pietro Ioia, Garante dei detenuti del Comune di Napoli. “Invece qui si aspetta settimane e settimane - dice Ioia. Ovviamente non dipende dal carcere ma dalla funzionalità del Ministero di Grazia e Giustizia che tanto si è vantato di questi braccialetti ma alla fine non ci sono. Un cavallo di battaglia di Bonafede che ha detto che i detenuti che devono scontare gli ultimi mesi lo potevano fare con il braccialetto a casa. Peccato che non ci sono. Che fine hanno fatto? Perché non accordare comunque i domiciliari in attesa che arrivino?”. Ora Antonio dovrà probabilmente rimanere in carcere anche a Natale. “Passare le feste in carcere per un detenuto che è stato scarcerato ma ci deve rimanere solo perché il braccialetto non arriva, è veramente devastante”. Sulmona (Aq). Covid, scendono i contagi in carcere: da 93 a 67 casi di Claudio Lattanzio Il Centro, 19 dicembre 2020 Tornano in cella i detenuti ricoverati nei giorni scorsi, intanto è stato annunciato l’arrivo di altri 27 agenti. Trovati 4 positivi tra chi è rientrato in città per le feste. Dopo giorni di preoccupazione arrivano buone notizie dal carcere di Sulmona, dove scende il numero dei contagi e sale quello dei guariti nella giornata che fa registrare 23 nuovi contagi nel Centro Abruzzo e altre classi in quarantena. Nel carcere restano 67 i detenuti positivi a fronte dei 93 contagi accertati all’interno della struttura penitenziaria più grande d’Abruzzo. I tamponi di verifica hanno liberato dal virus una ventina di reclusi mentre tornano in cella anche i detenuti che nei giorni scorsi erano stati ricoverati negli ospedali Covid abruzzesi perché affetti da patologie più gravi. Ieri un altro detenuto ha fatto rientro nel carcere di via Lamaccio mentre in cinque restano ricoverati in corsia. Le loro condizioni non sembrano destare preoccupazione e nei prossimi giorni anche per loro dovrebbe scattare il rientro in cella per avvenuta guarigione. Insomma, il preoccupante focolaio che si era acceso in carcere pian piano sta affievolendo il suo vigore anche se i vertici dell’amministrazione penitenziaria invitano alla calma perché ritengono che sia ancora troppo presto per parlare di allarme rientrato. Di certo la situazione è sicuramente meno pesante rispetto alle scorse settimane quando si temeva una vera e propria epidemia all’interno del carcere che invece è stata limitata grazie all’intervento tempestivo sia dei medici del carcere che del direttore Sergio Romice che ha saputo tenere sotto controllo una situazione a dir poco esplosiva. Nel frattempo il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, dopo la sollecitazione arrivata dalla senatrice Gabriella Di Girolamo, ha fatto sapere di aver disposto l’assegnazione al carcere di Sulmona di altri 27 poliziotti penitenziari che vanno a coprire le carenze e le falle che si sono aperte nell’organico dopo l’improvvisa ondata di contagi. Dei 23 casi accertati ieri nel Centro Abruzzo 13 sono residenti a Sulmona, quattro a Villetta Barrea, tre a Pescocostanzo, uno a Barrea, uno a Opi e uno a Vittorito. Tra i contagiati di Sulmona ciò sono anche quattro alunni per cui la Asl ha la sorveglianza attiva per la classi di riferimento. Nel frattempo va avanti lo screening riservato prevalentemente alle persone che fanno rientro in città per le festività natalizie. Su 112 test effettuati in quattro sono risultati positivi al tampone. Un numero alto, che conferma la validità dell’iniziativa per cercare di individuare le persone asintomatiche possibili fonti di contagio. Dal Comune fanno sapere che è ancora possibile prenotarsi per sottoporsi allo screening fino a domenica nella postazione dell’ex caserma Cesare Battisti. Salerno. Una casa per i detenuti rimasti da soli di Carmen Autuori La Città di Salerno, 19 dicembre 2020 Pontecagnano, il progetto di housing sociale in favore dei reclusi prossimi al fine pena. A Salerno la struttura per le donne. “Restart”, ripartenza, è il nome della housing sociale inaugurata lo scorso 16 dicembre nel comune di Pontecagnano Faiano e destinata all’accoglienza dei detenuti senza fissa dimora. Presenti alla cerimonia: Antonietta Scafuti e Roberto Romano della cooperativa San Paolo, don Gianfranco Pasquariello assistente spirituale dei detenuti nelle carceri di Eboli e Salerno, Gerarda Sica consigliere comunale, Giancarla Del Mese di Legambiente e Livia Bonfrisco educatrice della Casa Circondariale di Salerno. Il progetto è destinato ai detenuti che hanno una condanna inferiore ai 18 mesi e possono beneficiare della misura di detenzione domiciliare. La struttura si erge su tre piani. Al piano terra è prevista una cucina con annessa una sala che funge da soggiorno, mentre il piano superiore ospita le camere da letto con annessi servizi igienici. Il progetto della cooperativa San Paolo è finanziato da Casse e Ammende ed è promosso dalla Regione Campania, dal Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria, dal Ufficio esecuzioni penali esterne in accordo con l’ufficio del Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello. “In queste ultime settimane il mondo penitenziario sta pagando un alto prezzo a causa dell’emergenza sanitaria. Migliaia di contagi tra i detenuti, agenti e personale socio sanitario. In quella struttura grigia che è il carcere, ci sono i detenuti ignoti, quelli senza fissa dimora, i poveri tra i poveri. Ben vengano dunque questi progetti che tendono ad alleggerire una realtà esplosiva quale è quella del carcere”, ha detto Ciambriello. Invece, Romano, responsabile della cooperativa San Paolo, nata nel 2009 in seno alla Caritas diocesana, si è detto molto soddisfatto del progetto di “Restart”. “Solo con la collaborazione si possono ottenere importanti risultati. Ringrazio Casse e Ammende, il dottor Ciambriello e il direttore del carcere Rita Romano per la grande sensibilità verso gli ultimi che la contraddistingue e per la condivisione d’intenti. Per ora saranno ospitati nella struttura di Pontecagnano 6 detenuti, mentre a breve a Matierno, frazione di Salerno, sarà inaugurata una struttura analoga, nell’ambito dello stesso progetto, che ospiterà 4 donne”, spiega Roberto Romano. A padre Pasquariello è stata affidata la benedizione della nuova struttura: “Quando saremo chiamati a miglior vita, non saremo giudicati per quante volte abbiamo adorato il Signore, bensì per quanto del nostro tempo avremo dedicato agli ultimi soprattutto in termini di ascolto, astenendoci completamente dal giudizio. Per questo ci sono i tribunali, noi dobbiamo accogliere, ed accogliere con il cuore”. E i detenuti che saranno ospitati nella struttura di Pontecagnano oltre a non avere un domicilio non hanno neppure riferimenti affettivi. Gli sforzi degli operatori penitenziari, diretti dalla direttrice Romano, in questo periodo di Covid, si sono ancor più intensificati al fine “alleggerire” la tensione interna vissuta dai detenuti e riversatasi sul personale che, a sua volta, ha subito ripercussioni in termini di malattie e quarantene, garantendo, allo stesso tempo, la sicurezza sociale. “Nonostante ciò, già da diversi mesi, gli operatori della Casa Circondariale di Salerno hanno avviato un’intensa attività di collaborazione con le otto cooperative coinvolte nel progetto e, da ieri, si può affermare di aver posta una prima ed importante pietra per costruire ‘ponti’ di inclusione sociale”, dice la Bonfrisco. Castelfranco (Mo). I detenuti nella Casa-lavoro fanno ostie per le messe di Francesco Dondi Gazzetta di Modena, 19 dicembre 2020 Tanti progetti per gli internati che curano anche un servizio di call center Prosegue l’attività agricola nell’azienda di 22 ettari. In arrivo le bottiglie di vino. Il lavoro che nobilita e offre uno strumento di riscossa; il lavoro come mezzo per sognare qualcosa di diverso e migliore; il lavoro come attività socialmente utile e capace di occupare quel tempo che in un carcere scorre ancora più lento. Da alcuni mesi la casa di reclusione di Castelfranco, diretta da Maria Martone, ha inserito una serie di progetti occupazionali che stanno germogliando. È infatti iniziata l’attività di produzione delle ostie gestita dalla cooperativa sociale Giorni Nuovi con il finanziamento della Curia di Bologna, destinato principalmente all’acquisto dei macchinari necessari per il funzionamento del laboratorio produttivo. Un unicum nel suo genere, ma che dà la portata della voglia di innovare ed esplorare nuovi orizzonti. La convenzione sottoscritta con la cooperativa prevede sia la fase di produzione delle ostie che quella della commercializzazione all’esterno. In questo primo momento di avviamento sono stati assunti due internati scelti dall’equipè in base alla loro idoneità e alla loro capacità lavorativa, con possibilità di incremento del numero dei lavoratori. Anche il processo di confezionamento delle ostie in sacchetti recanti il logo della Casa di reclusione di Castelfranco (una stella che ricalca la topografia settecentesca della struttura) è gestito all’interno del carcere. Il panorama produttivo dei detenuti si è ulteriormente diversificato con l’avvio dell’attività di call center promossa ed organizzata da Icall Work Calls You. Il progetto ha assicurato la formazione e l’assunzione di internati come operai telefonici OUT Bound ed è realizzato in modo da garantire le esigenze di sicurezza. Gli addetti prendono posto nella sala opportunamente attrezzata e interagiscono con il mondo esterno, garantendo professionalità e attenzione. Il call center diventa quindi una plastica dimostrazione di come sia possibile investire economicamente in carcere, con imprese che affiancano le finalità di profitto produttivo con il valore aggiunto dell’attenzione al sociale e al percorso di recupero dei detenuti. Non manca poi una speciale dedizione alla lavanderia industriale gestita dalla cooperativa sociale “L’angolo” in cui attualmente lavorano due detenuti e un internato. L’attività eroga il servizio di lavaggio delle lenzuola anche per la casa circondariale di Modena, mentre è ormai storico il percorso sui 22 ettari di azienda agricola, composta da serre, stalla, apiario e vigneto. Vi lavorano anche persone provenienti da altri istituti penitenziari e tutti godono di una graduale autonomia di movimento nel perimetro della campagna. Per garantire, altresì, una maggiore professionalità qualificata, sono stati organizzati corsi professionali mirati in viticoltura e orticoltura, orticoltura base e scelte d’impianto e potatura per una viticoltura di qualità, conduzione delle macchine agricole e apicolture di base visto che l’azienda produce anche quantitativi significativi di miele che viene venduto all’esterno. Ma i prodotti della terra finiscono anche sulle tavole dei castelfranchesi grazie alla possibilità concessa dal Comune che accoglie detenuti e internati con il loro banchetto nei vari mercati settimanali, senza scordare lo spaccio aziendale diventato un punto vendita stabile per i clienti. E per finire sono in arrivo le bottiglie di vino con uve nate dal vigneto interno. Milano. San Vittore, il carcere che vuole cambiare aprendo alla bellezza di Antonella Barone gnewsonline.it, 19 dicembre 2020 Scade oggi il termine per la partecipazione al concorso d’idee San Vittore, spazio alla bellezza rivolto a progettisti, architetti, designer, urbanisti e ingegneri, promosso da Triennale Milano e dalla casa circondariale milanese. La collaborazione tra le due realtà che, come ha sottolineato Stefano Boeri, presidente di Triennale, “si trovano a poche centinaia di metri l’una dall’altra, ma sono separate da una distanza enorme”, è iniziata nel 2018 con la mostra fotografica Ti porto in prigione ed è proseguito nel 2019 con PosSession, un progetto di fotografia e teatro per indagare sulle potenzialità dell’arte come strumento di recupero. L’iniziativa di quest’anno - realizzata insieme a Fondazione Maimeri con il supporto di Shifton e dell’Associazione Amici della Nave - è dedicata a interventi per modificare la percezione del carcere iniziando dall’estetica degli spazi che lo ospitano. Un cambiamento che, secondo il direttore della casa circondariale Giacinto Siciliano deve essere “guidato da un pensiero complessivo sulla consapevolezza che la bellezza possa suscitare spontanee sensazioni piacevoli, provocare suggestioni ed emozioni positive e generare un senso di riflessione costruttiva”. I casi di studio proposti ai candidati comprendono sei ambiti spaziali: le aree verdi e per i colloqui, i locali abitativi maschili e femminili, i cortili passeggio e le zone per la ricreatività e il benessere del personale. La prima fase progettuale prevede l’individuazione di criticità e la proposta di soluzioni relative a due tra gli spazi proposti. Nella successiva fase saranno selezionati un massimo di sei progettisti o gruppi di progetto cui saranno assegnati i casi studio che dovranno sviluppare seguendo precise linee guida. Gli elaborati confluiranno in un processo di progettazione integrato che prevede studi di fattibilità tecnico-economica condivisi per assicurare organicità e concretezza agli interventi. Il risultato finale atteso è una proposta flessibile e replicabile in altri contesti. I progetti saranno presentati pubblicamente presso gli spazi di Triennale e della Casa Circondariale di San Vittore a giugno 2021. Lecce. Detenuti e studenti per l’arte in carcere di Sabina Leonetti Avvenire, 19 dicembre 2020 “Uno spiraglio di luce in una mente buia. Ora mi sento più libero!”. È il messaggio che campeggia sul murale realizzato all’interno del carcere di Lecce nell’ambito di “Arte in libertà... oltre le sbarre”, progetto di arte-terapia coordinato dall’Ufficio Integrazione Disabili dell’Università del Salento e promosso in collaborazione con la Casa Circondariale di Borgo San Nicola (Lecce). Il racconto del percorso condiviso da studenti e detenuti è stato anche oggetto di un incontro online. Il progetto è stato ideato dagli dieci studentesse selezionate con apposito avviso pubblico del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo dell’Ateneo salentino (che ha finanziato l’acquisto dei materiali), e ha visto l’organizzazione di alcuni laboratori di arte-terapia che hanno condotto alla realizzazione del murale. Dopo incontri in presenza, il programma si è spostato online per l’emergenza sanitaria e si è potuto concludere in ottobre in presenza tra le mura del carcere. In diversi video pubblicati sul canale YouTube dell’Ateneo, i partecipanti hanno raccontato il progetto condividendo idee ed emozioni. Brescia. Il Covid non ferma la solidarietà dei volontari nelle carceri bresciane quibrescia.it, 19 dicembre 2020 Il Covid ha dato un duro colpo anche alle attività che il territorio bresciano offriva all’interno degli Istituti di pena. Da febbraio sembra siano stati cancellati decenni di iniziative e attività che il volontariato penitenziario e le realtà del terzo settore offrivano alle persone detenute. E, se ancora oggi le cautele inerenti il contagio non consentono la ripresa di molte attività interne, chi da sempre opera in favore dei reclusi non ha comunque smesso di occuparsene. Nell’ultimo anno l’associazione di Volontariato Carcere (Vol.Ca.) e la Cooperativa Sociale di Bessimo hanno continuato a rifornire di vestiario, biancheria, calzature, prodotti per l’igiene i due istituti di pena bresciani. Lo hanno fatto su richiesta diretta della direzione e con fondi propri ma anche grazie al contributo del progetto “Insieme contro l’emarginazione”, sostenuto con i fondi PON / FSE a titolarità del Comune di Brescia, che si occupa, in collaborazione con le realtà cittadine che si impegnano nell’ambito della grave marginalità, proprio della distribuzione di generi di prima necessità per le fasce di popolazione più vulnerabili. Così centinaia di mutande, calze, spazzolini, dentifrici, giubbini, tute, scarpe hanno raggiunto le molte persone detenute che non hanno modo di acquistarli direttamente o non hanno famigliari che possono inviarli da fuori. Nel periodo del Covid anche le famiglie dei detenuti hanno potuto vedere pochissimo i loro congiunti privati della libertà: video-colloqui e lettere non possono sostituire un colloquio in presenza, non solo perché manchevoli di contatto fisico, ma anche perché un cambio di vestiti non può essere inviato via Whatsapp. Se a questo si aggiunge la chiusura del servizio guardaroba da anni gestito da volontari Vol.Ca. si può facilmente intuire come il personale di Polizia Penitenziaria si sia dovuto, purtroppo, sobbarcare anche problematiche prima non di loro competenza. Da qui le richieste, molto più voluminose del solito, di supporto esterno nel rifornire dei molti generi di cui necessita la quotidianità. Oltre a rivolgersi all’interno del carcere, i volontari e gli operatori di Vol.Ca e Bessimo si stanno occupando anche della distribuzione di uno zaino per quei detenuti scarcerandi che, usciti dalla cella, non possono tornare a casa semplicemente perché non ce l’hanno. Per loro, doppiamente segnati dagli squilibri di questo sistema sociale in quanto ex detenuti e senza dimora, un kit con beni di prima necessità verrà consegnato presso la sede dell’associazione di via Pulusella: sacco a pelo, materassino, zaino con alcuni generi di prima necessità ma soprattutto un contatto, un consiglio, un supporto per cercare, insieme, una via di affrancamento ed emancipazione. La Cooperativa di Bessimo Onlus è una cooperativa sociale che opera dal 1976 nel campo del recupero e reinserimento di soggetti tossicodipendenti. Gestisce 15 Comunità Terapeutiche, 1 comunità educativa per minori e madri in difficoltà, 1 servizio specialistico residenziale per disturbi da gioco d’azzardo patologico, servizi di prevenzione e di riduzione del danno, servizi e progetti in area penale, attività e progetti sulle province di Brescia, Bergamo, Cremona e Mantova. Dal 1976 la cooperativa ha accolto 7.180 persone realizzando oltre 10.100 programmi terapeutici ed educativi. Il Vol.Ca (Volontariato Carcere) è nato a Brescia nel 1987 per volontà dell’allora vescovo, mons. Bruno Foresti, come gruppo di persone laiche impegnate nel volontariato e come espressione ed appoggio della Pastorale Carceraria della nostra Diocesi, che opera nei due istituti carcerari della città. Era il 1994 quando il gruppo si costituì come associazione Onlus. Roma. Al carcere di Rebibbia si continua a far teatro con Fabio Cavalli e il suo Dante di Alessia de Antoniis globalist.it, 19 dicembre 2020 I detenuti il 18 dicembre, hanno messo in scena, guidati da Fabio Cavalli, l’inferno Dantesco. Un confronto fra peccati e reati, gironi infernali e bracci penitenziari, nell’infinito sforzo di riuscire “a riveder le stelle”. Il 16 e il 18 dicembre, gli attori-detenuti del carcere di Rebibbia hanno messo le ali come Icaro per uscire a riveder le stelle. Nonostante il Covid e le carceri sovraffollate, grazie alla fibra ottica, il teatro libero di Rebibbia ha raccontato, ancora una volta, storie di uomini che hanno provato a volare, con ali troppo fragili, dentro la tempesta di vite al limite. Il 16 dicembre “Icaro e altre Meraviglie”, è stato presentato da Laura Andreini Salerno come prova aperta - una sorta di lezione di volo - del nuovo spettacolo che ha coinvolto i reclusi del Reparto G8. Il 18 è stata la volta dei detenuti-attori dell’Alta Sicurezza che si sono avventurati, guidati da Fabio Cavalli, nel Progetto su Dante, con un confronto ardito fra peccati e reati, gironi infernali e bracci penitenziari, nell’infinito sforzo che accomuna tutti, liberi e reclusi, di riuscire alla fine di questo drammatico momento dell’umanità, “a riveder le stelle”. Parliamo di teatro in carcere con Fabio Cavalli, produttore teatrale e cinematografico, regista, autore, sceneggiatore, docente all’Università Roma3, membro della Giuria dei David di Donatello e della European Film Academy. Con il film Cesare deve morire, di Paolo e Vittorio Taviani, ha vinto la 62° Edizione del Festival del cinema di Berlino e cinque David di Donatello. Torna in scena nel teatro del carcere di Rebibbia. Prima Shakespeare, con Amleto e Cesare, ora Dante con l’Inferno. Due pilastri della cultura europea riletti da chi è in regime di detenzione. Perché Dante? Nel 2021 ricorrono i settecento anni dalla morte di Dante e mi sembrava interessante ricordarlo. Il teatro che facciamo ha uno stretto contatto con la realtà dei detenuti. Sonata a Kreutzer di Toslstoj, ad esempio, è la storia di un femminicidio. Amleto, La Tempesta e Giulio Cesare, di Shakespeare, parlano di vendetta, del perdono, della libertà. In Dante c’è il tema formidabile del rapporto tra peccato e reato e tra inferno, purgatorio e carcere. La domanda è: il carcere è un inferno o un purgatorio? Le anime che sono là dentro, sono come quelle dantesche che non hanno la speranza di riveder le stelle? Forse, in chiave contemporanea, rivedere le stelle è insito nell’art. 27 della nostra Costituzione, che non prevede la punizione ma la rieducazione. Per gli attori è più facile immedesimarsi in alcuni personaggi. Il dramma di Paolo e Francesca rappresenta la situazione di un marito detenuto e una moglie libera che, una volta la settimana, per un’ora, riescono a stringersi le mani separati dal bancone di metallo. Adesso, causa Covid, separati dal plexiglas. Tutti i detenuti sono Paolo e tutte le mogli sono Francesca. C’è poi il tema del tradimento, quindi l’infamia del conte Ugolino; il desiderio di conoscenza al quale si sacrifica anche la vita, che è di Ulisse. I nostri detenuti-attori non sono dei martiri, sono più che altro dei carnefici, ma che tentano di mostrarsi persone più che detenuti. Non rappresentano il loro reato, ma le loro speranze, il loro impegno per cambiare, per uscire da quell’inferno. Dante però non scrisse la divina tragedia, ma la Commedia, per cui ci sono anche momenti in cui si sorride. Un altro dei temi fondamentali è quello del libero arbitrio: cos’è e cos’è la libertà per chi non la conosceva nemmeno prima? Un affiliato a un’organizzazione di tipo mafioso, si assoggetta a dei criteri che nulla hanno a che fare con la libertà culturale, politica, sociale. Ha citato l’art. 27 della Costituzione che parla di rieducazione. Uscimmo a riveder le stelle lo dice Dante dopo aver affrontato ben 9 cerchi, Lucifero ed essere passato per lo pertugio tondo, dopo un percorso di conoscenza e trasformazione. Ne I Miserabili, Hugo scrive: “Prima della galera ero un povero contadino, una specie di idiota, e la galera mi ha cambiato. Ero stupido e sono diventato malvagio”. Davvero crede nella funzione rieducativa del carcere, almeno com’è in Italia? Ho visto le carceri europee in occasione della mia partecipazione agli Stati Generali sull’esecuzione penale, promossi dall’allora Ministro della Giustizia Orlando e la situazione delle carceri in Italia, sulla carta, è una delle migliori. I Costituenti, per un terzo, erano persone che avevano conosciuto il carcere sotto il fascismo e sapevano di cosa parlavano. Le nostre leggi parlano di “pene”: non solo il carcere, ma anche i servizi sociali, i domiciliari, i lavori socialmente utili, e tendono alla rieducazione del condannato, non al risarcimento della società. Questo è un principio fondamentale. La legge del 1975 e la sua riforma del 1986, hanno offerto alla società civile uno strumento che molti altri Paesi non hanno: il terzo settore come una delle strutture portanti della rieducazione nel trattamento penitenziario. Il problema riguarda l’attuazione delle leggi. Però, come dice la Presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, nel mio ultimo film Viaggio in Italia - la Corte Costituzionale nelle Carceri, se la realtà non si adegua agli ideali, non è che gli ideali devono scendere a patti con la realtà. È la realtà che deve scendere a patti con gli ideali. Quali sono i risultati del progetto teatro in carcere? Il tasso di recidiva nel nostro Paese, in linea con la media europea, è del 68%. Per chi svolge un’attività lavorativa adeguata, creativa, dati dell’Istituto Einaudi 2015, la recidiva scende attorno al 22-24%. Negli 800 casi che ho seguito personalmente, dal 2003 ad oggi nel carcere di Rebibbia, trattati con la cosiddetta terapia teatrale, il tasso di recidiva scende sotto il 12%. Chi incontra l’arte non vuol più tornare là dentro. In un articolo su Corsera della Gabbanelli (Dataroom - Corsera.it - 3 nov. 2019- nda), si legge che la recidiva scende all’1% nei casi di inserimento dei detenuti nel ciclo produttivo. Lei e Laura Andreini, con Teatro in carcere, non avete risultati simili... Ho scritto un articolo su quei dati. Sostenere che, per chi lavora, il tasso di recidiva si riduca quasi a zero, non è assolutamente reale. Lo ribadisco. Paesi come la Svezia o la Norvegia hanno un tasso di criminalità bassissimo, ma parliamo dell’avanguardia mondiale del welfare state. Però vorrei anche ricordare che in Italia c’è il tasso di omicidi più basso d’Europa. Circa 290 omicidi nel 2019. Anche il tasso di recidiva come lo consideriamo? Ci sono soggetti che hanno problemi di natura psicologica o psichiatrica, casi in genere non recuperabili. Sui social molti gridano “gettate la chiave”. Lei sembra avere un punto di vista diverso... Nel corso delle lunghe pene, la spavalderia dei detenuti finisce. Quando poi arrivano al teatro, pensando a loro stessi, dicono: la realtà è più forte di me perché mi sovrasta come carcere, ma il teatro è più forte del carcere perché quando io sto nel teatro sono libero. Quando entri in teatro, non vedi il detenuto, vedi l’artista. Anche quando pensi a Caravaggio, vedi l’artista non il delinquente. Gramsci era un martire, ma Dante è stato latitante vent’anni per reati comuni. Il titolo dello spettacolo al quale stiamo ancora lavorando, sarà “Dante Alighieri latitante fiorentino”. Quindi quando vedi i detenuti che si esibiscono con grande bravura, vedi l’artista che è in loro. L’uomo che ha ucciso rimane indelebile, ma questo non deforma l’immagine. Nel finale di Cesare deve morire, un detenuto dice “da quando ho conosciuto l’arte, questa cella è diventata una prigione”. Non è una frase scritta da noi sceneggiatori, ma da lui. “Mi sono reso conto di cos’è una cella - dice - di cos’è il mio destino di carcerato, da quando ho conosciuto l’arte. Prima non lo sapevo. Prima quello era il mio destino. Ora il mio destino è di sopportare il dolore di aver perso l’occasione di essere libero veramente”. Insieme a Laura Andreini Salerno, dirige il teatro libero di Rebibbia. Come lavorate? Io lavoro con i detenuti di Alta Sicurezza, quelli soggetti al 416bis del codice penale per reati di mafia. Laura ha la responsabilità del reparto G8, lunghe pene: reati gravi, ma privi del vincolo associativo. Il metodo di lavoro è uguale. Lavoriamo con persone destinate a una detenzione lunga, perché in questi casi c’è un grande bisogno di sostegno, di offrire loro una visione del mondo alternativa. Un paio di anni di impegno teatrale continuo è il minimo perché, anche dal punto di vista della recidiva, ci sia un miglioramento. Laura svolge anche un lavoro di counseling e mindfulness, perché ha una vocazione a non affrontare il teatro solo dal punto di vista della rappresentazione, ma anche dell’introspezione. Si dedica molto al movimento scenico, mentre io lavoro più sulla parola. Dai primi di maggio, poi, quando grazie alla fibra siamo riusciti a riprendere i contatti con i nostri attori, li abbiamo sostenuti e incontrati anche senza fare teatro. Semplicemente per mantenere relazioni umane. Se il lockdown per noi è stato terribile, dentro è stato devastante. Isolati totalmente. La resistenza teatrale, a Rebibbia, è anche questo. Livorno. Stringara dalla serie A ai detenuti: “Il calcio è libertà provvisoria” di Furio Zara La Repubblica, 19 dicembre 2020 L’ex di Inter e Bologna allena la “Liberi dentro”, squadra della Casa Circondariale di Livorno. Condannati per reati gravi, omicidio, rapine: “Non li giudico per loro è un’opportunità e anch’io imparo qualcosa”. “Una volta durante una partita do indicazioni a un difensore e gli urlo: Aspetta a uscire! Aspetta a uscire! Arriva un suo compagno e mi fa: mister, questo c’ha due ergastoli, hai voja, ce n’ha da aspettà. Ci siamo messi tutti a ridere, non ci fermavamo più”. Si può ridere anche in carcere, questa è la seconda notizia. La prima è che si può giocare a calcio. Da cinque anni Paolo Stringara allena la squadra della Casa Circondariale di Livorno “Le Sughere”. “Quando andai dall’allora direttrice Santina Savoca e le proposi di formare una squadra, lei cercò di dissuadermi: ci hanno provato in tanti, vengono la prima volta, poi mollano, lasci perdere. Insistetti: mi lasci provare. Il primo giorno al campo ai ragazzi dissi: possiamo fare due cose, o rincorrere un pallone come si fa in cortile oppure provare a giocare a calcio seriamente. Decidete voi”. Erano poco più di una decina, ora sono sessanta. La squadra si chiama “Liberi dentro”. Partecipa al campionato Uisp di calciotto, due allenamenti alla settimana e - va da sé - partite sempre in casa. Aspettano la fine del lockdown per tornare a giocare. Sono tutti detenuti di alta sicurezza. E quindi: associazione di stampo mafioso, omicidio, rapina a mano armata, 20-30 anni sul groppone, ci sono anche tre-quattro ergastolani. Triplice fischio finale, fine pena mai. “Ma il campo livella tutto. Io non ti giudico, ti alleno”. Tre dribbling, due tackle, forse un percorso di riabilitazione. “Il calcio ti migliora, ti dà un’identità. Non c’è tanto da fare i filosofi, mi fa star bene passare qualche ora con loro e tanto basta, è volontariato e mi riempie la vita. Ci tengo a dirlo: siamo una squadra vera, con gli scazzi, gli scherzi, la voglia di dimostrare che sei bravo”. Paolo Stringara, 58 anni, il capello argentato, lo sguardo sveglio e disincantato, quarto figlio di un maresciallo di marina e di una infermiera, toscano di Orbetello, casa a Livorno, una moglie, due figli - Vittoria di 11 anni e Aurelio di 18 - quarant’anni di calcio attraversati con la serietà di chi ama il pallone e la consapevolezza del privilegio. Da calciatore: Siena, Bologna, l’Inter all’alba dei ‘90. Da allenatore: 16 squadre in 20 anni, col Livorno le stagioni migliori, oggi è nello staff dell’ex compagno Jurgen Klinsmann, prima con la nazionale americana e poi con l’Hertha Berlino. “Nella vita me la sono “sminestrata” bene - dice - ma quando vedo questi ragazzi ho la conferma che il confine tra dentro e fuori è minimo. Dipende da dove nasci, dal destino, dalle scelte che fai. Detesto chi punta il dito. Ho litigato di brutto con un paio di amici, ma amici da una vita, perché mi dicevano: oh Paolo, ma che vai a fare con quei delinquenti?”. I delinquenti lo hanno fatto felice quando gli hanno detto “Paolo, non puoi capire cosa significhi questa squadra per noi. Alla prima partita arrivano l’arbitro e la squadra avversaria e i miei ragazzi li accolgono con un applauso: è stata una cosa bellissima. Qui ho trovato una forma di rispetto che nel calcio che ho frequentato è sparita da tempo. Ok, hanno fatto le loro cazzate, hanno causato dolore, ma in fondo non sono uomini anche loro? Ripeto: io non giudico, provo solo a capire. Ho portato qui dentro Klinsmann e mio figlio, credo sia importante mischiarsi, dare un senso alle cose che facciamo”. Ogni tanto a Stringara capita di incrociare qualche detenuto in permesso sul lungomare di Livorno. “Un giorno ne trovo uno, ci facciamo un caffè. Avevo il cuore in tumulto, lo guardavo e pensavo che era la sua prima uscita dopo vent’anni di carcere. Vent’anni, ti rendi conto? A cosa stava pensando? Come lo vedeva questo mondo? Cosa si aspettava?”. Troppe domande, il giorno dopo erano in campo, uno a spiegare come si difende a tre, l’altro in libertà provvisoria sulla fascia destra. Pena di morte, all’Onu cresce il fronte del no di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 19 dicembre 2020 L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiesto a gran voce la moratoria delle esecuzioni capitali. Lo ha fatto mercoledì sera (16 dicembre) quando 123 Stati, sui 193 membri dell’ONU, hanno votato la Risoluzione che chiede siano sospese impiccagioni, fucilazioni e decapitazioni in modo da andare verso l’abolizione definitiva della pena di morte. I rimanenti Stati sono andati in ordine sparso: 38 contrari, 24 astenuti e 8 assenti. Positivo che, per la prima volta, due Paesi mediorientali, la monarchia di re Abd All?h II di Giordania e il Libano, abbiano votato a favore. Lo hanno fatto insieme a Gibuti e Corea del Sud. E poi, come un magnete, la Risoluzione ha richiamato a sé il voto favorevole di 4 Stati - le Filippine del “cattivo” Rodrigo Duterte, il Congo, la Guinea e Nauru - che la volta precedente avevano votato contro. Va apprezzato anche chi ha voluto andare incontro alla Risoluzione passando da un voto contrario all’astensione, come lo Yemen e lo Zimbabwe del Presidente Mnangagwa con cui tanto abbiamo dialogato. Certo, alcuni Stati, 6, sono passati a un voto contrario nonostante si fossero precedentemente astenuti o avessero votato a favore. Ma sono certa che si recupereranno. Perché l’abolizione della pena di morte è un processo inesorabile e ogni volta che la Risoluzione va al voto guadagna consensi. Questa volta, l’ottava, ne ha guadagnati due rispetto al 2018 quando 121 Paesi votarono a favore. Ne ha guadagnati una ventina rispetto al 2007 quando per la prima volta il testo fu approvato con 104 sì. Questa Risoluzione è una pietra miliare dell’abolizione della pena di morte e un fiore all’occhiello dell’Italia che nel mondo è riconosciuta per questa battaglia grazie alla quale brilla ancora un riflesso di patria e culla del diritto. Una battaglia nella quale anche il Ministro Di Maio si è riconosciuto e si è impegnato, con la Vice Ministra Marina Sereni, per assicurarne il successo. La concepirono poche persone, Marco Pannella, Sergio D’Elia, Maria Teresa di Lascia, quando nel 1993 fondarono Nessuno tocchi Caino. Scelsero Caino, il colpevole per eccellenza per far dire al mondo: basta pena di morte! Fecero avverare la profezia biblica che vuole Caino trasformarsi in costruttore, in questo caso costruttore di un nuovo diritto umano, quello a non essere uccisi per mano dello Stato. Convinsero così nel 2007 il Governo italiano a dar seguito alle richieste unanimi del Parlamento italiano ed europeo a presentare la Risoluzione con un’azione nonviolenta che comportò per Pannella uno sciopero della sete di quasi otto giorni a cui poi aggiunse, insieme a D’Elia, uno sciopero della fame di tre mesi. Si trattò di aiutare a far superare più che la resistenza dei Paesi mantenitori, quella del conformismo sostenuto da prestigiose ONG per cui l’abolizione sarebbe stata meglio della moratoria e che comunque il mondo non era pronto a votare neppure la moratoria. Oggi la Risoluzione arriva in un mondo in cui assistiamo, da un lato, a decisioni colme di grazia come quella del Presidente della Tanzania John Magufuli che nel giorno dell’Indipendenza, il 9 dicembre, ha commutato tutte le 256 condanne a morte. Dall’altro, all’impiccagione in Iran di liberi pensatori come di recente quella di Ruhollah Zam. Si tratta dunque di usarla questa risoluzione, di usarne la forza politica, la forza morale e chiedere sempre a quei Paesi che ancora mandano sul patibolo uomini e donne di fare la grazia di non farlo più. Perché la pena di morte è un ferro vecchio della storia, un anacronismo intollerabile di cui l’umanità si deve liberare. Perché Caino più che farlo penzolare al cappio è meglio per tutti che diventi costruttore di città. Migranti. Dl sicurezza, finisce nel caos l’era Salvini di Carlo Lania Il Manifesto, 19 dicembre 2020 Con 153 voti a favore il Senato approva le nuove norme. Scontri in aula con la Lega, due feriti. Un assistente parlamentare e un senatore questore, Antonio De Poli dell’Udc, finiti in infermeria per gli spintoni ricevuti, De Poli con una spalla lussata. Fischietti, striscioni contro gli ex alleati del M5S, urla e i richiami inutili del presidente di turno per ripristinare un minimo d’ordine. È finita come era cominciata la discussione al Senato sulla fiducia al decreto Sicurezza, vale a dire con la Lega scatenata pur di evitare che dopo il voto della Camera, anche quello del Senato mandasse definitivamente in soffitta i decreti anti immigrazione e anti ong di Matteo Salvini. Alla fine quello che doveva essere è stato, con l’aula di palazzo Madama che quasi in zona Cesarini (il decreto sarebbe scaduto domani), ha approvato il nuovo testo con 153 voti a favore, 2 contrari e 4 astenuti, tra i quali la senatrice di +Europa Emma Bonino, critica con la scelta del governo per quello che ha definito un “uso e abuso dei decreti omnibus accompagnati dall’immancabile voto di fiducia”. Il centrodestra ha invece deciso di non partecipare al voto. Sugli scontri avvenuti ieri e giovedì, la presidente Casellati ha annunciato che verrà aperta un’istruttoria per stabile le responsabilità di quanto avvenuto. Intanto non si smorzano le polemiche. “Le sceneggiate di queste ore della Lega in aula sono semplicemente vergognose. Parlano di legalità e sono i primi a non rispettare le regole” ha scritto su Facebook Matteo Renzi, mentre il Pd Andrea Marcucci parla di “atteggiamenti senza precedenti dagli anni ‘20”: “Commessi spintonati, il senatore questore De Poli costretto ad andare in infermeria e buttato giù dai banchi - è il commento a fine seduta. L’atteggiamento della Lega è intimidatorio e vuole a tutti i costi impedire l’esercizio democratico del voto”. Anche se da ieri i decreti salviniani sono definitivamente in soffitta, le nuove norme mantengono delle riserve nei confronti delle navi delle ong. Non ci sono più le maxi multe da 150 mila euro a un milione, ma le sanzioni rimangono anche se più contenute (tra i 10 mila e i 50 mila euro) per quelle imbarcazioni che non rispettano l’eventuale divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane (imposto dal Viminale in accordo con i ministeri dei Trasporti e della Difesa). Sarà però un giudice, e questa è una novità, a infliggere eventualmente la multa. Un altro punto controverso riguarda le operazioni di soccorso. Le nuove norme ovviamente le consentono a patto che la nave impegnata nei salvataggi abbia prima avvertito il Paese di bandiera e il Centro di coordinamento dei soccorsi competente, comprendendo tra questi anche quello libico. Altra novità: è prevista la creazione dei Sai, il Sistema di accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo che riforma il precedente Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e minori non accompagnati (Siproimi) voluto da Salvini in sostituzione del precedente Sprar. Il nuovo Sai si articola in due livelli di prestazioni: il primo per i richiedenti asilo, il secondo destinato a coloro i quali è stata accolta la domanda, con servizi aggiuntivi finalizzati all’integrazione. Ai richiedenti asilo è inoltre di nuovo consentita l’iscrizione all’anagrafe comunale con la possibilità di richiedere la carta di identità. Inoltre i migranti presenti sul territorio con permessi umanitari possono vedersi trasformato il permesso in quello per lavoro se hanno un impiego, mentre non si potranno respingere gli stranieri che in patria rischiano persecuzioni politiche, tortura o per ragioni di razza, sesso e religione ma anche se corrono rischi per “l’orientamento sessuale o l’identità di genere”. Queste persone possono chiedere un permesso umanitario. Cambia inoltre il decreto flussi, per il quale è previsto che se nel corso dell’anno non viene pubblicato il Decreto programmatico con il numero massimo di immigrati regolari che possono entrare per lavoro, il presidente del Consiglio può emanare comunque (in qualsiasi momento dell’anno) il decreto flussi senza doversi attenere per forza al tetto dell’anno precedente. Infine la cittadinanza: le domande di cittadinanza (per matrimonio o dopo residenza regolare di 10 anni), devono avere risposta entro 24 mesi, prorogabili a 36. Migranti. L’Europa chiude gli occhi su respingimenti e torture di Francesca De Benedetti Il Domani, 19 dicembre 2020 Invece di dare asilo, l’Italia manda i migranti in Slovenia. Le violenze sono la prassi alle frontiere. Un report inchioda Bruxelles alle sue responsabilità. Non sono casi isolati, ma un grande scandalo a cielo aperto che la politica non può più fare finta di non vedere. L’Europa respinge illegalmente i migranti che avrebbero diritto alla protezione umanitaria, mette in atto violenze e persino torture. I respingimenti illegali sono fatti in modo crescente e sistematico da diversi stati, compreso il nostro. E sono pure minuziosamente coordinati, con la complicità e il tacito consenso, se non il ruolo attivo, dell’Unione europea. Mille e cinquecento pagine dimostrano che la violazione dei diritti non è un’eccezione ma la prassi: pagine che parlano di respingimenti illegali, di torture, di umiliazioni, di cani che sbranano uomini, donne e bambini, di spedizioni punitive, di teste che vengono rasate, di persone derubate, denudate, violentate. Le violenze sono così tante che non è bastato un solo libro per contenerle tutte. I due Black books ofpushbacks, i libri neri dei respingimenti, sono una massiccia opera di raccolta di dati e testimonianze condotta dal Border violence monitoring network (Bvmn), una rete di 14 organizzazioni attive sul campo. La sinistra (The Left) dell’Europarlamento ha commissionato questa collezione di dati e di scandali per costringere Bruxelles a fare i conti con il tema, finora negato o derubricato a fenomeno episodico. Ieri Malin Bjork, europarlamentare della sinistra, ha consegnato i due volumi alla commissaria agli Affari interni, Ylva Johansson. “Non può far finta di non vedere e non sapere”, dice Bjork, che sta negoziando l’avvio di una commissione di inchiesta dell’Europarlamento sul tema. Il fatto è che la Commissione non ha “azzerato Dublino”, come ha annunciato questo autunno: non c’è alcuna svolta solidale in corso. Ma in un certo senso è vero che Dublino è stato azzerato: i migranti non riescono più neppure a presentare la loro richiesta di asilo. Scandalo su larga scala Quanti sono i migranti che vengono respinti senza poter esercitare il loro diritto di asilo? Gli autori del dossier possono provare con verifiche sul campo e testimonianze oltre 12.600 casi (nel senso di persone coinvolte) dal 2017 a oggi, e la tendenza è in aumento. Quattro anni fa i casi erano circa 1.200, l’anno scorso 3.300, nel 2020 più di 6mila. Raddoppiano di anno in anno. Oltre il 40 per cento dei casi riguarda minorenni. I migranti che in Europa cercano protezione vengono non solo respinti, ma molto spesso durante i respingimenti subiscono anche violenze dalla polizia di frontiera. Le subiscono quasi tutti: solo uno su dieci è risparmiato. Otto migranti su dieci sono privati degli oggetti personali, sette su dieci vengono picchiati. Tre su dieci sono costretti a denudarsi. Qualcuno è minacciato con le pistole, altri sono attaccati dai cani o con scosse elettriche: un’ampia gamma di torture. I respingimenti via mare operati nel Mediterraneo dal governo italiano, con la partnership della Guardia costiera libica, sono solo una delle pratiche sistematiche denunciate nel dossier, che riferisce di oltre 420 persone respinte illegalmente dal nostro paese tra gennaio e metà aprile. Il porto di Bari è in testa, con 311 casi. Anna Brambilla, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, ha curato la parte dei libri che riguarda l’Italia. Dice che “la prassi dei respingimenti in mare è nota da tempo, mentre quelli via terra alla frontiera italo-slovena sono aumentati di recente. L’Italia rinvia i migranti in Slovenia, da qui vengono rispediti in Croazia, dove la polizia usa violenza, come è noto a tutti e anche al nostro governo; dalla Croazia vengono mandati in Bosnia, in una catena collaudata di respingimenti. Il ministro dell’Interno ha persino rivendicato la scelta”. Il Viminale si appella a un accordo bilaterale firmato ne11996, senza neppure la ratifica del parlamento, e le chiama “riammissioni di migranti in Slovenia”. A maggio ha pure annunciato di voler incrementare il numero di “riammissioni”. Il parlamentare di +Europa Riccardo Magi a luglio ha fatto una interrogazione parlamentare: dice che “la ministra Luciana Lamorgese ha ammesso la prassi dei respingimenti, giustificandola con questo accordo de11996. Ma non c’è niente di legale nel rimandare i migranti fuori dal nostro paese senza neppure notificare le loro richieste di asilo”. Brambilla sta portando avanti un ricorso sul tema. “Intanto però - dice Magi - tutto va avanti come se nulla fosse. Spediamo i migranti verso le torture croate ma nessuno si scandalizza”. Non si scandalizza il governatore leghista del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, sodale del premier populista sloveno; e non si scandalizza il governo, che “rialloca” sempre più risorse per la “difesa” dei confini. Le torture d’Europa Dall’Italia parte una catena ben collaudata di respingimenti. La tappa croata è la più sconvolgente: è servito l’intero secondo volume per riferire tutte le testimomanze. Milena Zajovic è presidente della Ong croata Are You Syrious e ha contribuito al report. Dice che “a inizio 2016 abbiamo iniziato a scoprire i respingimenti al confine con la Serbia. Inizialmente erano casi sporadici, illegali ma non violenti. Poi tutto è cambiato: i respingimenti sono diventati sistematici, quest’anno conto oltre 1.600 casi, e pure la violenza. Nel 2020 la gravità delle torture si è intensificata”. Zajovic riferisce di minorenni uccisi a colpi di pistola, spedizioni punitive, violenze sessuali, trattamenti degradanti. La sezione del libro che raccoglie le testimonianze è una antologia di Spoon River delle violenze croate: “La polizia ha picchiato mia madre”, “il cane ci aggrediva e la polizia rideva”, “ci trattano come animali”, “sembrava di essere in guerra”. Il governo croato continua così, l’Ue fa finta di nulla e anzi, premia persino la polizia croata: nel dicembre del 2018 Bruxelles ha dato 7 milioni di euro aggiuntivi al paese per il controllo della frontiera. In una lettera dello scorso luglio, la commissaria Johansson fa riferimento a un progetto recente da 11 milioni a beneficio del ministero dell’Interno croato; parte del budget è proprio per l’addestramento della polizia di frontiera. I soldi a chi respinge e tortura aumentano, i controlli no. Droghe. Garante dei detenuti favorevole a una gradazione dell’intervento dello Stato redattoresociale.it, 19 dicembre 2020 Ieri l’audizione alla Camera: la richiesta è quella di tenere distinti i fatti di lieve entità da quelli del traffico organizzato. Sono 53 mila le persone presenti nelle carceri italiane, quasi il 30% per detenzione e spaccio di droga (più di 3 mila scontano pene inferiori a due anni). Continuano le visite del Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà personale ai diversi luoghi di privazione della libertà. Nei giorni scorsi, tre delegazioni hanno visitato in parallelo la Val d’Aosta e la parte orientale del Friuli-Venezia Giulia, monitorando strutture differenti per ambito, tipologia e motivazione della privazione della libertà. “Luoghi diversi tra loro, ma accomunati da un unico punto di osservazione, quello della tutela dei diritti: quelli incomprimibili della persona, quelli di cittadinanza non direttamente toccati nella possibile espressione dalla contingente situazione di privazione della libertà e quelli soggettivi specifici di chi vive tali situazioni”, scrive il Garante nel suo tradizionale bollettino. In questa prospettiva, il Garante nazionale ha visitato il Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, che ospitava 88 persone. “Un Centro che rispecchia i limiti di tutti i Cpr - scrive il Garante -: l’essere cioè un luogo vuoto privo di qualsiasi elemento che non siano sbarre e muri, in cui scorre un tempo vuoto in attesa di un rimpatrio che nella metà dei casi non avviene. In tale contesto, tuttavia, va dato atto che la gestione del Cpr di Gradisca è più accurata rispetto a quella di altri Centri analoghi in Italia. Va rilevato però che dal punto di vista dell’emergenza Covid, anche il Cpr di Gradisca soffre di carenze di personale che a volte possono non consentire di utilizzare tutti gli spazi”. Sempre nell’ambito dei migranti, il Garante nazionale ha visitato i locali della Polizia di frontiera di Gorizia e Trieste, dove affluiscono persone provenienti dalla rotta dei Balcani: “Solo a Trieste nel 2020 sono state intercettate 3514 persone - ricorda. Di queste, oltre 900 sono state avviate alla riammissione in Slovenia sulla base dell’accordo bilaterale con il nostro Paese. Una procedura che comunque deve tenere conto del rischio, già denunciato da alcune organizzazioni, costituito da una serie successiva di riammissioni da un Paese all’altro (Italia, Slovenia, Croazia, Bosnia) che può portare i migranti a trovarsi in situazioni di estrema difficoltà. Qualche criticità è emersa poi relativamente alla procedura di accertamento dell’età dei minori, quasi mai rispettosa della legge Zampa sui minori stranieri non accompagnati”. Positiva viene definita anche la visita al carcere di Gorizia, una visita di follow up a seguito di precedenti monitoraggi: “Le condizioni materiali dell’Istituto sono radicalmente migliorate con la ristrutturazione delle sezioni, delle camere detentive, delle sale di socialità. Permane tuttavia una carenza di spazi, resa ancora più evidente in questo periodo dalle esigenze di carattere sanitario. Nell’Istituto di Tolmezzo, il focolaio che nei giorni scorsi era emerso appare ora sotto controllo: i casi di positività sono scesi tra le persone detenute da 158 il primo dicembre a 18 oggi (di cui uno sintomatico e uno in ospedale), ma va registrato il decesso di una persona detenuta”. La visita ha interessato anche la Residenza per le misure di sicurezza (Rems) di Udine, una Rems provvisoria da due posti, in cui le persone sono accolte e inserite nella struttura come tappa di un percorso di reinserimento, in una prospettiva di presa in carico da parte dei servizi territoriali, affrontando pur evidenti resistenze di taluni servizi. Sono state visitate anche le camere di sicurezza della Questura di Trieste (che saranno rese operative a gennaio 2021) e del Comando stazione dei Carabinieri di Udine. Nella regione della Val d’Aosta la visita ha interessato il carcere di Aosta-Brissogne. “Un Istituto profondamente segnato dall’assenza, perdurante da oltre cinque anni, di una Direzione e di un Comando del corpo di polizia stabili e da un particolare turn-over nella popolazione detenuta - ricorda il Garante -. Questa, infatti, è formata in larga parte da persone, per quasi il 70% straniere, che arrivano alla Casa circondariale da altri Istituti dell’area del Provveditorato del Piemonte-Valle d’Aosta-Liguria per scontare brevi residui di pena, per lo più segnate da problematicità manifestate nelle sedi di provenienza. Circostanze che, insieme con la paralisi determinata dall’emergenza sanitaria, rendono estremamente critica la realizzazione di programmi individualizzati di trattamento e di attività finalizzate al reinserimento sociale”. La situazione complessiva rilevata dal Garante nazionale è quella di un “carcere immobile, in cui la quasi totalità delle persone trascorrono il tempo senza impegnarlo utilmente”. In questo quadro si distingue l’impegno del personale di Polizia penitenziaria nell’ascolto delle persone detenute e nell’attivazione a risolvere, per quanto possibile, i bisogni essenziali. Il Garante nazionale, inoltre, ha potuto rilevare il primo avvio del progetto “So stare fuori” finalizzato a creare disponibilità di domicilio a quanti ne sono privi e sono prossimi alla fine della pena o hanno titolo per accedere alle misure alternative alla detenzione. Visitato, inoltre, il Comando provinciale della Compagnia dei Carabinieri di Aosta che risulta l’unica forza di Polizia ad avere la disponibilità di camere di sicurezza: due, nelle quali si è comunque registrato l’esiguo numero di passaggi di 4 in tutto il 2020. Carcere, gli ultimi numeri - Per quanto riguarda il carcere in generale, il Garante rende noto che la situazione permane grosso modo stabile: “Negli ultimi dieci giorni le persone registrate negli Istituti sono diminuite di 339 unità (passando da 54.195 del 9 dicembre a 53.856) e le persone effettivamente presenti sono oggi 53.002 (alla stessa data del 9 dicembre erano 53.266). Tra i presenti anche 32 donne con 35 figli di età 0-3 anni, di cui 18 donne con 20 bambini nelle cosiddette sezioni nido e 14 donne con 15 bambini in quattro Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Sono dati poco incoraggianti rispetto alla diffusione del virus, che richiede invece - come più volte ribadito - la possibilità di individuare spazi all’interno degli Istituti per garantire quella indispensabile esigenza di separazione e isolamento non sempre assicurata. Riguardo al Covid, si registrano alcuni focolai negli Istituti di Trieste, Milano-Opera, Milano San Vittore, Bollate, Monza, Busto Arsizio, Bologna, Sulmona, Regina Coeli a Roma e Napoli-Secondigliano”. Negli Istituti penali per minorenni i numeri si mantengono bassi: sono attualmente ristretti 291 minori o giovani adulti su una capienza di 481 posti (pari al 60,50% di occupazione) e non risultano casi di positività. In questi giorni, il Garante nazionale prosegue con alcune visite mirate in Lombardia. In particolare, il monitoraggio riguarderà un Cpr, quello di Via Corelli a Milano, l’ultimo aperto in ordine di tempo e recentemente anche riportato dalla cronaca per una serie di forti proteste, nonché una Residenza sanitaria assistenziale, nello specifico la Rsa “Istituti riuniti Airoldi e Muzzi” di Lecco, un insieme di più nuclei abitativi che costituiscono una complessiva struttura con 350 posti letto, convenzionata con la Regione. Con l’occasione, il Garante nazionale esaminerà anche un caso emerso nel corso di un programma televisivo i cui contorni richiedono maggiori approfondimenti. L’audizione alla Camera - Nella mattina di ieri, 17 dicembre, il Garante nazionale è stato audito dalla Commissione giustizia della Camera sulle due proposte di modifica della legge sulle droghe leggere e, in particolare, della detenzione e cessione di modiche quantità, indirizzate, in modo antitetico, l’una a inasprire e l’altra a ridurre le conseguenze sanzionatorie, oltre a depenalizzare il semplice possesso. Segnalando il dato che attualmente il 29,7% delle presenze in carcere è formato da persone detenute per detenzione e spaccio di droga e che più di 3.000 scontano pene inferiori a due anni, il Garante nazionale ha affermato il valore della gradazione dell’intervento dello Stato che tenga distinti i fatti di lieve entità da quelli del traffico organizzato, in assonanza con i pareri espressi dal Procuratore nazionale antimafia, Cafiero De Raho, e dal Direttore centrale per i servizi antidroga presso il Ministero dell’interno, Antonino Maggiore, auditi nella stessa seduta. “Il 16 dicembre è stato assegnato all’esame della Camera il disegno di legge di conversione del decreto-legge 137/2020, cosiddetto Ristori, che comprende alcune misure sulla detenzione penale indirizzate a produrre effetti deflattivi sull’affollamento carcerario - conclude il Garante -. Con il disegno di legge approvato dal Senato sono stati inseriti due emendamenti alle norme relative ai permessi premio e alla detenzione domiciliare, finalizzati a protrarne l’efficacia alla data del 31 gennaio 2021 e, per quanto riguarda i primi, a estenderne la portata considerando disgiuntamente i presupposti della concessione precedente di permessi e del lavoro esterno. Si tratta soltanto di due del più ampio articolato di proposte emendative presentate dal Garante nazionale e, in parte, condivise da esponenti della maggioranza parlamentare, il cui concreto effetto deflattivo, pur da non trascurare, risulta nelle prospettive inferiore a quanto necessario per affrontare le emergenze dettate dalla crisi pandemica negli Istituti penitenziari”. Infine, il Garante nazionale ha concluso un accordo di cooperazione con il suo omologo argentino, il Comitato nazionale per la prevenzione della tortura (Cnpt). Il National preventive mechanism argentino coordina un sistema reticolare di prevenzione della tortura che prevede l’istituzione di figure di garanzia (i local preventive mechanism) per ognuna delle province in cui è diviso il Paese sudamericano. L’accordo di cooperazione, nell’ottica di promuovere i diritti e la dignità delle persone private della libertà personale, principalmente mira a scambiare e condividere buone prassi, strumenti formativi e di ricerca nonché tecniche di visita e monitoraggio. L’idea è quella di rafforzare le rispettive istituzioni, promuovendo sinergie e innalzando i livelli complessivi di tutela. Egitto. “Zaky libero subito. E il Cairo risponda su Giulio Regeni” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 19 dicembre 2020 Il parlamento Ue approva la risoluzione contro l’Egitto. Pisapia: “Sui diritti umani l’Europa c’è. Ora si blocchino le esportazioni di armi e attrezzature”. “Giustizia per Giulio Regeni e scarcerazione immediata di Patrick Zaki”. A chiederlo con forza adesso è il Parlamento Europeo, che ieri ha approvato la risoluzione sulla violazione dei diritti umani in Egitto con 434 voti a favore, 49 contrari e 202 astenuti. Nel testo si fa esplicito riferimento all’assassinio di Giulio Regeni, morto al Cairo nel 2016, e alla detenzione di Patrick Zaky, lo studente egiziano dell’Università di Bologna che si trova nel carcere di Tora dallo scorso febbraio con l’accusa di propaganda sovversiva, istigazione alla protesta e istigazione al terrorismo. L’Eurocamera chiede all’Egitto la sua “liberazione immediata e incondizionata” e fa appello all’Unione Europea affinché esorti “le autorità egiziane a collaborare pienamente con le autorità giudiziarie italiane” nel caso Regeni. Per gli eurodeputati si tratta di un “dovere imperativo delle istituzioni nazionali e dell’Ue”, chiamata ad adottare le azioni diplomatiche necessarie. Per quanto riguarda l’omicidio del ricercatore friulano, l’Eurocamera cita l’inchiesta della Procura di Roma, chiusa il 10 dicembre: in quell’occasione i magistrati hanno affermato di disporre di “prove inequivocabili” sul coinvolgimento di quattro agenti delle forze di sicurezza dello Stato egiziano nel rapimento e nell’omicidio di Giulio Regeni, nonostante i numerosi tentativi di ostacolare le indagini da parte delle autorità egiziane. In particolare, i deputati chiedono all’Ue di esortare l’Egitto a fornire gli indirizzi di residenza dei quattro 007 indagati, come vuole la legge italiana, ed esprimono “sostegno politico e umano” alla famiglia Regeni nella ricerca della verità. Per Zaki, la cui detenzione è stata costantemente prorogata negli ultimi 10 mesi - l’ultima volta il 6 dicembre per ulteriori 45 giorni - il Parlamento Europeo chiede di ritirare tutte le accuse a carico del ricercatore e impegna l’Europa ad adottare una reazione diplomatica ferma e rapida. “Il Parlamento europeo ha detto all’Egitto: nessun compromesso su verità, giustizia e diritti umani”, scrive su twitter il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. “Dopo il Recovery Fund, dopo le sanzioni per i Paesi europei che violano lo Stato di Diritto si dimostra una volta di più che l’Europa c’è”, commenta l’eurodeputato Giuliano Pisapia. Il voto di ieri “è il sigillo delle battaglie portate avanti dal parlamento europeo, mentre gli stati nazionali continuano ad avere comportamenti non lineari troppo spesso condizionati da presunti interessi nazionali”, sottolinea l’ex sindaco di Milano senza fare sconti al governo italiano di cui “solo ora - precisa si coglie quel cambio di passo lungamente atteso e sollecitato”. “Adesso è fondamentale - conclude Pisapia - che Parlamento e Commissione parlino sempre più con una voce sola e che si attui quanto previsto al punto 18 della Risoluzione: “il blocco di tutte le esportazioni verso l’Egitto di armi, tecnologie di sorveglianza e qualsiasi attrezzatura che possa essere utilizzata per reprimere le minoranze e i difensori dei diritti umani”. “Basta armi all’Egitto di al-Sisi, i governi non ignorino il voto” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 19 dicembre 2020 Con 434 sì, l’Europarlamento approva la risoluzione sulle violazioni dei diritti umani del regime egiziano e chiede sanzioni ai responsabili. Il deputato Pierfrancesco Majorino (S&D): “Un messaggio chiaro”. Sul regime egiziano più brutale che la storia contemporanea ricordi ieri l’Europarlamento si è espresso con voce forte e chiara: con 434 voti favorevoli, 49 contrari e 202 astenuti ha approvato la risoluzione sulle violazioni dei diritti umani nel paese nordafricano, un testo avanzato, coraggioso, che supera nelle richieste le risoluzioni precedenti, adottate dal marzo 2016 in poi a seguito del sequestro e l’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni. Un testo che raccoglie alcuni dei capitoli più amari della natura di un regime nato violando le istanze democratiche e di giustizia sociale che milioni di egiziani portarono nelle strade del loro paese esattamente 10 anni fa. I deputati hanno votato un testo che chiede espressamente alle istituzioni europee di intervenire. Non con condanne a parole, come spesso avvenuto dal 2013, anno del golpe dell’atuale presidente al-Sisi, ma con azioni concrete che delegittimo un regime finora fin troppo legittimato: un’indagine indipendente sugli abusi di Stato (partendo dai casi di Giulio Regeni e dello studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki), sanzioni e misure restrittive nei confronti dei responsabili di violazioni dei diritti umani e sospensione della vendita di armi, tasto dolente che tocca paesi fondatori della Ue, come Italia e Francia. Capitoli centrali quelli riguardanti Regeni e Zaki: l’Europarlamento chiede alla Ue di esortare Il Cairo a collaborare nella procedura giudiziaria avviata dalla Procura di Roma contro quattro agenti dei servizi segreti, ritenuti responsabili del sequestro, le torture e l’omicidio del ricercatore, e chiede pressioni che conducano al rilascio dello studente egiziano. Ne abbiamo parlato con Pierfrancesco Majorino, deputato del gruppo S&D, che insieme a Renew e Verdi ha promosso la risoluzione. Un commento sul voto? Il parlamento europeo ha dato un segnale molto chiaro. Non è una risoluzione generica o una dichiarazione di principi all’acqua di rose. La risoluzione più coraggiosa votata finora... È un pacchetto molto nutrito: fa riferimento alla necessità di sanzioni mirate a funzionari responsabili di violazioni di diritti umani e allo stop alla vendita di armamenti, un richiamo rivolto ai governi; condanna l’attribuzione di onorificenze a chi si macchia di abusi dei diritti umani; chiede la liberazione di Zaki e sostiene lo sforzo della famiglia Regeni e della Procura di Roma. Chiede cioè una svolta netta nei rapporti con l’Egitto alle istituzioni europee e agli Stati membri. Si sono astenuti in 202... Non ci sono state barricate, un fatto positivo. Avevamo qualche timore alla vigilia, ma anche chi astenendosi ha garantito che passasse si è assunto una responsabilità. Non è vincolante, le istituzioni Ue ne terranno conto? È un messaggio politico rivolto innanzitutto all’Egitto di al-Sisi e a chi vuole la libertà. E poi alla Ue. È importante che il Consiglio d’Europa non lo lasci cadere nel vuoto e che la Commissione non ignori il parlamento. E chiede coerenza ai governi. Rivendichiamo e rivendicheremo il messaggio politico: vedremo cosa faranno i governi rispetto a una decisione condivisa su sanzioni e armi. Anche il nostro governo sia coerente, metta in campo azioni ineludibili di una pressione che giunga forte in Egitto. Può stupire è che gli stessi partiti che in Europa promuovono un voto così forte, in Italia approvino vendite militari senza precedenti... Il parlamento europeo ha espresso un messaggio forte anche grazie al dialogo continuo con cittadini, ong, associazioni di cui abbiamo ben interpretato la riflessione. Su Regeni non si può esibire una solidarietà a giorni alterni, ci vuole un’assunzione di responsabilità continua. Blitz in Libia, scelte tensioni e retroscena di Francesco Verderami Corriere della Sera, 19 dicembre 2020 Quarantott’ore prima che Conte e Di Maio volassero da Haftar, il premier della Libia al Serraj era ancora a Roma. Così la storia che ruota attorno alla liberazione dei pescatori italiani rischia di trasformarsi in una pochade. Non è chiaro il motivo per cui il rappresentante del governo libico riconosciuto dall’Onu abbia soggiornato “vari giorni” nella capitale: la tesi sostenuta da fonti accreditate è che le autorità italiane abbiano voluto informarlo per tempo dell’operazione in programma a Bengasi. Chissà se sapeva anche che la missione sarebbe stata guidata dal premier e dal ministro degli Esteri della settima potenza mondiale, che i due avrebbero stretto la mano al suo acerrimo rivale in Cirenaica e che addirittura l’incontro sarebbe stato ufficializzato. L’irritazione del premier libico in ogni caso non sarà superiore allo sconcerto che si avverte nel governo, nelle istituzioni e nelle forze politiche italiane per come è stata gestita la vicenda. Autorevoli esponenti del Pd spiegano che “con un gesto senza precedenti Conte e Di Maio hanno procurato in un solo colpo uno smacco diplomatico, politico e militare al Paese”, rendendo evidente che l’Italia ha perso il ruolo di potenza regionale nel Mediterraneo, esponendo ingiustamente i servizi segreti nazionali al ludibrio degli altri servizi segreti, e mettendo persino a repentaglio la sicurezza della missione. Ecco qual è il prezzo pagato per quella stretta di mano. Ed è vero che bisognava restituire alla libertà i diciotto pescatori detenuti illegalmente per tre mesi dai libici, ma non è così che si gestiscono certi dossier. Già il titolare della Difesa si era opposto all’idea di “assoggettarsi ai voleri di Haftar”, additato come regista di un atto di pirateria orchestrato nel tentativo di riscattarsi, dopo esser stato sconfitto sul campo e nelle trattative per gli assetti di potere in Libia. E insieme a Guerini altri ministri del Pd si domandavano se fosse necessaria questa delegazione: “Perché muoversi in due? È già troppo mandarcene uno”. I vertici dem lamentano una drammatica spettacolarizzazione della sfida politica lanciata da Renzi nell’Aula del Senato e raccolta da Conte senza badare ai contraccolpi. In Parlamento il leader di Iv la scorsa settimana aveva ricordato al premier che, quando sedeva a Palazzo Chigi nel 2015, aveva riportato in Italia un peschereccio bloccato dai libici: “Nel giro di sei ore il caso fu risolto grazie all’intervento dell’autorità delegata”, allora gestita da Minniti. Renzi aveva messo il dito nella piaga, sollevando pubblicamente un problema che il Pd pone fin dall’inizio del governo giallo-rosso: l’accentramento dei poteri da parte di Conte sui servizi segreti. È questo il tema più delicato nel governo, più della gestione del Recovery fund. E la missione a Bengasi ha fatto da detonatore anche negli apparati. Come riferisce un rappresentante dem al governo, “i vertici delle nostre Agenzie sono neri come la cromatina per le scarpe”. E chissà quale sarà l’umore alla Farnesina, che già aveva dovuto mettere una toppa all’incidente diplomatico provocato a gennaio, quando Conte pensò di incontrare lo stesso giorno Haftar e Sarraj, e subì il rifiuto sdegnato del premier libico. Ora che il Mare Nostrum non è più nostro, l’epicentro della crisi si sposta nelle istituzioni. Il gesto del presidente del Copasir Volpi di ringraziare per la missione solo il direttore dell’Aise, glissando sul governo, segna nel Comitato per i servizi la rottura della coesione nazionale, che pure aveva resistito alla guerra fredda, al bipolarismo muscolare e persino all’avvento del grillismo: “Un tale punto di conflitto sul piano operativo - dicono nel Pd - non si era mai registrato”. E adesso che il Copasir vuole convocare Conte per conoscere i dettagli del caso, i dem minacciano di abbandonare i lavori se il premier mandasse ancora una volta in sua vece il capo del Dis Vecchione. Altro che una banale crisi di governo. Libia, troppi pescano nel torbido di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 19 dicembre 2020 Quel che risulta davvero sbagliato di fronte ai sequestri internazionali di persone, è il vanto governativo per la loro liberazione e, insieme, le accuse urlate dalla destra - più forti se xenofoba e sovranista - per i “ritardi” e per i “tradimenti patrii”. Sia dietro il vanto che dietro l’accusa di “tradimento” si nasconde infatti il fallimento bipartisan della politica estera italiana, meglio, la sua inesistenza. Quando ci sono in gioco vite umane sequestrate, non c’è prezzo che tenga. Lo sappiamo bene noi de il manifesto e lo rivendichiamo, avendo a mente, e dentro di noi, la drammatica vicenda che ha riguardato il rapimento della nostra inviata Giuliana Sgrena in Iraq nel 2005 - come i rapimenti in zone di guerra di tante e tanti cooperanti in questi anni - per la quale si sono sprecate ricostruzioni e accuse indegne quanto fasulle. Ogni trattativa anche “costosa” per liberare vite umane nelle mani di sequestratori è una mediazione di pace, una eccezione preziosa dentro la guerra dominante. Dunque è davvero buona cosa la liberazione di 18 pescatori, non solo italiani, sequestrati per sconfinamento in acque territoriali, vale a dire perché lavoravano in condizioni proibitive pescando fin dove è possibile. Né bisogna sorprendersi che nel Mediterraneo dalle sponde in guerra e dove impera la disperazione dei migranti cacciati da tutte le parti quando non sequestrati e usati come merce di scambio, regni anche sulla pesca la militarizzazione del mare: più a nord il democratico Boris Johnson, cammin facendo sulla scellerata Brexit, ha schierato in questi giorni la Marina militare britannica “a difesa delle zone di pesca”. Ma quel che risulta davvero sbagliato di fronte ai sequestri internazionali di persone, è il vanto governativo per la loro liberazione e, insieme, le accuse urlate dalla destra - più forti se xenofoba e sovranista - per i “ritardi” e per i “tradimenti patrii”. Sia dietro il vanto che dietro l’accusa di “tradimento” si nasconde infatti il fallimento bipartisan della politica estera italiana, meglio, la sua inesistenza. La rivendicazione del governo Conte e della sua coalizione se corrisponde alla felicità delle famiglie di Mazara Del Vallo, è comprensibile e perfino condivisibile: è una gioia immensa quello che stanno provando in questo momento, difficile non esserne contagiati. Ma se vuol essere un fiore all’occhiello da gettare sul piatto della bilancia dell’agone politico e della a dir poco, ambigua crisi di governo in corso, il gioco non regge né vale la candela. Certo un plauso va al lavorio dei Servizi segreti, ma poi c’è da mettere in conto pure le scarse capacità “segrete” emerse con la gaffe del portavoce del premier. Soprattutto il governo sa bene che stavolta il prezzo che ha dovuto pagare è politico - trattando non con terroristi clandestini ma con un terrorista di Stato - con il riconoscimento del ruolo del nemico del “nostro” governo libico alleato, guidato a Tripoli dal fatiscente Serraj. Vale a dire il generale della Cirenaica Khalifa Haftar, sostenuto, perché dimenticarlo, dal golpista Al Sisi, dalla Francia, dagli Stati uniti, dalla Russia e soprattutto dall’Arabia saudita. Perché c’è una guerra intestina nella Libia divisa in tanti fronti e devastata, che dura da quasi nove anni dopo la caduta di Gheddafi ad opera dei bombardamenti della Nato - voluti da Francia in primis ma poi anche dagli Usa e con contributo decisivo delle basi italiane. Lì l’Italia ha accreditato e protetto militarmente i vari governi che via via si sono succeduti, sempre “riconosciuti dalla comunità internazionale” e sempre alle prese con la guerra e i ripetuti fallimenti delle Nazioni Unite. La Libia, a differenza delle altre rivolte arabe di dieci anni fa, da subito è diventata una guerra per procura. Ora alla fine il nostro vero interlocutore nell’area è il “democratico” Sultano atlantico che si chiama Erdogan, arrivato armi e bagagli a partecipare alla guerra contro Haftar per rilanciare sulle sponde del Mediterraneo la sua strategia ottomana e ad occupare la Tripolitania: è lui che abbiamo “tradito”? Con due obiettivi libici nemmeno malcelati dall’Italia: difendere le fonti primarie di approvvigionamento energetico e contenere la tragedia dei migranti in fuga da guerre e miserie dell’Africa dell’interno. Concedendo al fatiscente Serraj il controllo dei confini italiani ed europei, abbiamo in buona sostanza esternalizzato la questione migranti offrendo soldi alla mano alle milizie libiche, coordinate dal governo “ufficiale” di Tripoli, la falsa veste di “guardia costiera”. Così il governo libico “buono” è diventato, per l’Italia ma anche per l’Unione europea, il garante del “posto sicuro”, la Libia in guerra e con i suoi campi di concentramento e carceri. Questo orrore e questa nefasta pratica di governo, che dura tuttora, è stata elaborata dall’ex ministro degli interni Minniti, quando governava Renzi, ed è diventata pratica eletta del “signor voglio i pieni poteri”, Matteo Salvini. Come fa ora a parlare criticando i troppi mesi della detenzione dei pescatori, ci si chiede, un ex ministro che dal Viminale scelse di sequestrare a mare per una settimana 133 persone stremate e alla fame su una nave della Marina militare italiana e in un porto italiano, per gettare questa iniziativa criminale sul tavolo dello scontro e del potere politico? E la Meloni perché parla, lei che ad ogni pié sospinto chiede il “blocco navale”, cioè una azione di guerra contro i disperati a mare fortunatamente soccorsi dalla flotta di navi delle Ong e ancora, a volte, da navi internazionali e militari? Qualcun si ricorda le parole di Salvini sulle menzogne e i ricatti di Al Sisi per la verità su Giulio Regeni, sequestrato, torturato, assassinato dagli organismi polizieschi di Stato dell’Egitto? Disse che “è soltanto una questione di famiglia” e che per l’Italia è “fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto”. Cioè con un golpista sanguinario: altro che subalternità e riconoscimento di ruolo. Un aperto disprezzo dei diritti umani. “Sceneggiata libica” ha titolato un “giornale” della destra, quella che batteva le mani quando partivano i jet della Nato a bombardare nella “sceneggiata” dell’ultima guerra nella “nostra” Libia? Quello è stato tra i più grandi disastri della nostra politica estera che si ripercuote fino ai nostri giorni; chi applaudiva alla nuova avventura militare non ha davvero alcun “titolo”. E pesca nel torbido. Libia. I pescatori di Mazara accusano i libici: “Picchiati e umiliati” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 19 dicembre 2020 I marinai di altre due imbarcazioni che erano riuscite a scappare pestati per vendicare l’affronto. “Trattati come terroristi. Domani a casa”. “All’inizio, ci hanno rinchiusi in un bunker sottoterra, ma Giacomo e Bernardo non c’erano. “Che gli è successo?”, ci siamo detti. All’improvviso, li abbiamo visti arrivare con il volto insanguinato”. La voce di Fabio Giacalone rimbalza via radio dal peschereccio Antartide in navigazione al largo della Libia fino al porto di Mazara. “Li hanno picchiati - dice - perché le loro barche erano riuscite a scappare. Un affronto per i libici”. Quel drammatico primo settembre, furono fermati non solo Medinea e Antartide, ma anche Anna Madre e Natalino. I comandanti vennero convocati sulla motovedetta con i documenti delle imbarcazioni. Poco dopo, due pescherecci riuscirono a fuggire. “E se la sono presa con Giacomo e Bernardo”, sussurra Marika Calandrino, la moglie di Giacomo Giacalone, il comandante di Anna Madre: “Già quando era arrivata la prima fotografia dalla Libia dopo il sequestro avevo capito. Mio marito aveva il volto gonfio, un occhio quasi chiuso, e il collo rosso. Quando ci siamo sentiti dopo la liberazione gli ho chiesto subito: “Tutto bene?”. E mi ha fatto capire che era successo qualcosa di brutto”. Il cognato di Bernardo Salvo, Vito Gancitano, è amareggiato: “Lui non è neanche il comandante del Natalino, è il timoniere. Quando i libici li hanno fermati, si è ritrovato ad andare a bordo della motovedetta. Lo avranno scambiato per il comandante, e su di lui si sono vendicati”. Anche la famiglia di Bernardo Salvo ha capito guardando le prime fotografie giunte in Italia dopo il sequestro: “Fino ad oggi non abbiamo detto nulla - spiega Vito - il momento era delicato, ma in quelle immagini si vedono chiaramente il viso gonfio e un braccio nero. Ora vogliamo sapere cos’è successo”. Il padre di Fabio Giacalone, Pietro, anche lui pescatore per tanti anni, stringe i pugni mentre il figlio racconta ancora dei suoi compagni col volto insanguinato. “Perché dalla Farnesina continuavano a dirci che i nostri ragazzi erano trattati bene? - si arrabbia - Non era vero”. Il fruscio delle “onde corte” porta altri racconti drammatici. “Gli italiani li hanno infilati tutti in una stanza buia, larga quattro metri per quattro”, dice ancora Fabio Giacalone. “Subivamo continue umiliazioni e violenze psicologiche. Arrivavano nel cuore della notte e ci urlavano: “Adesso, vi liberiamo”. E invece ci portavano in un’altra prigione. Quattro ne abbiamo cambiate, i tunisini di più. Solo nell’ultimo mese, ci hanno trasferiti in un palazzo, che era un posto più decente”. La voce va e viene, la comunicazione è disturbata. Il papà di Fabio non si dà pace: “L’avevo detto a mio figlio che non dovevano spingersi fin lì, è troppo pericoloso. L’avevo detto la sera prima della partenza. E, poi, mentre erano in viaggio, ho visto sul computer dov’erano arrivati, ho subito chiamato il comandante per metterlo in guardia”. Ora, sulla stessa frequenza corrono anche i racconti di Piero Marrone, il comandante del Medinea: “Ce la siamo fatta addosso per lo spavento - dice all’armatore, Marco Marrone - pensavamo di non farcela. Dentro quelle celle buie ci hanno trattato come se fossimo dei terroristi, umiliazioni su umiliazioni. Adesso, siamo tanto stanchi e abbiamo solo bisogno di tornare a casa”. L’armatore chiede: “Vi facevano mangiare?”. Risponde: “Solo un pasto decente abbiamo fatto, la mattina che è arrivato Conte”. E con i vestiti come vi siete organizzati? “Siamo rimasti con le stesse cose per settimane. Poi qualche detenuto, che era lì chissà per cosa, ci ha dato magliette, mutandine e un pezzo di sapone”. La navigazione è ancora lunga. “Arriveranno domenica mattina - spiega Marco Marrone - e sarà una grande gioia”. Prima di riabbracciare i loro familiari, però, i pescatori dovranno essere sottoposti al tampone per il Covid. Solo se positivi, ci sarà una quarantena. “Sarà il Natale che abbiamo desiderato per cento giorni, tutti insieme a casa”, dice Marika Calandrino.