Giustizia non è sinonimo di vendetta di Simona Maggiorelli Left, 18 dicembre 2020 “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni” scriveva Dostoevskij. In Italia dunque è bassissimo. Trascuratezza, abbandono, violazione di diritti umani ancora segnano la condizione carceraria, come denuncia Rita Bernardini. Mentre scriviamo arriva la notizia che la leader radicale ha interrotto lo sciopero della fame “come atto di fiducia nei confronti del presidente Conte” fino al 22 dicembre data del loro incontro. Siamo sollevati perché eravamo preoccupati per la sua salute. Anche se, insieme a lei, ben sappiamo che sarà ancora lunga la lotta per umanizzare le carceri e per chiedere un maggior ricorso alle pene alternative ma anche provvedimenti di amnistia e di indulto. La situazione è sotto gli occhi di tutti. Le carceri italiane stanno scoppiando. Il problema del sovraffollamento è annoso ed è rimasto irrisolto anche dopo la condanna da parte della Corte europea dei diritti umani. La pandemia ha reso le condizioni di vita nelle carceri ancor più drammatiche. Come documenta Bernardini in una lettera consegnata al presidente Mattarella di cui riportiamo stralci e che potete leggere integralmente sul sito del Partito radicale. Basti dire che il 30 novembre quando il tasso di positività al Covid-19 della popolazione italiana era dell’1,30%, quello della popolazione carceraria negli istituti sovraffollati era pari al doppio: 2,63%. La situazione è tre volte più grave oggi rispetto alla prima ondata, come scrive Alessio Scandurra della associazione Antigone che su Left traccia un quadro comparativo fra quel che succede nelle carceri italiane e quel che accade in quelle del resto di Europa. Le tensioni generate dalle necessarie restrizioni e dalla paura dei contagi sono state enormi, e nel nostro Paese hanno causato numerose rivolte che sono costate la vita a ben 14 detenuti. Perché si è arrivati a tutto questo? Il governo socialista portoghese ha adottato una misura straordinaria di amnistia, perché non avviare questo percorso anche in Italia? “A partire dall’articolo 79 della Costituzione le condizioni si potrebbero creare” propone Bernardini intervista per Left da Valentina Angela Stella. E fin da adesso perché non procedere per la strada che prevede la possibilità di un maggiore accesso a pene alternative? Molti studi e ricerche internazionali mostrano ormai che il grado di recidiva è estremamente più basso quando non si sconta la pena restando in quel luogo dei “sepolti vivi” che è il carcere (per dirla con un’espressione di Turati). Condizione tanto più inaccettabile se si pensa che in Italia ci sono ben 34 bambini costretti a vivere in stato di detenzione per poter stare con le proprie madri come scrive qui Susanna Marietti di Antigone. Il diritto all’affettività in carcere oggi appare del tutto negato. Così come, nonostante l’impegno e la professionalità di operatori, psichiatri e psicoterapeuti, la salute mentale in carcere resta una questione aperta, delicatissima e urgente, alla quale la politica e le istituzioni non possono restare sorde. L’inchiesta di Carmine Gazzanni ci rivela un quadro drammatico. Nei primi 11 mesi del 2020 55 detenuti si sono tolti la vita; alcuni di loro erano giovanissimi. Per capire come stanno davvero le cose, al di là dei titoli di cronaca, abbiamo chiesto a tre psichiatri che lavorano in carcere di aiutarci a capire. A partire dall’importante approfondimento di Claudia Dario, Alessio Giampà e Francesca Padrevecchi, che pubblichiamo in questo sfoglio di copertina, abbiamo interrogato la politica, intervistando Andrea Orlando, che di questi temi si era molto occupato quando era ministro della Giustizia. Autore di una riforma che, purtroppo, è rimasta incompiuta nel 2018, Orlando invita indirettamente a riflettere sui danni che hanno prodotto in Italia forze politiche e media che propongono soluzioni “facili” di populismo penale. A questo proposito a dir poco sconcertante ci appare il risultato di un’indagine Censis che ci parla di un 43,7 per cento di italiani favorevoli alla pena di morte; percentuale che è ancora più alta fra i giovani. Ci appare come il frutto perverso di una più ampia e inaccettabile idea di pena come vendetta, come carcere a vita, per cancellare chi è stato condannato dalla vista, buttando via le chiavi. Idea che oltre ad essere inumana è incostituzionale. La nostra Carta parla di recupero della persona. L’obiettivo è la reintegrazione nella società di chi è stato condannato per aver commesso un reato. La Costituzione non contiene una antropologia negativa, un’idea di colpa come peccato originario che condanna all’immutabilità, come ha detto la costituzionalista Gabriella Millea al recente convegno “La Furia di Aiace” a cui abbiamo partecipato. Proprio in quel contesto, aprendo i lavori lo psichiatra Andrea Masini ci ha ricordato la provocazione avanzata anni fa dallo psichiatra Massimo Fagioli: abolire il carcere. Quella sua proposizione spiazzante e avanguardistica lanciata nel 2006 dalle pagine di Left suscitò un forte dibattito e aprì un interessante dialogo con Manconi e Boraschi sulle colonne de l’Unità. In questa storia di copertina Luigi Manconi torna a parlare di questa ipotesi “niente affatto utopica” ma dettata da fatti di realtà a cui nel 2015 ha dedicato un libro che oggi, insieme al suo nuovo “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” (Einaudi) scritto con Federica Graziani, appare più attuale che mai. Carceri. L’Europa bocciata all’esame del Covid di Alessio Scandurra Left, 18 dicembre 2020 Quasi ovunque l’istruzione, la formazione professionale, le attività culturali e ricreative e il lavoro dei detenuti sono molto rallentati o fermi da ormai 10 mesi. La pena è regredita a uno stato di costante isolamento, interrotto solo per alcuni dai contatti con i familiari. La pandemia da Covid-19, che ha messo in crisi le nostre società, il nostro modo di vivere e la nostra idea di sicurezza ha colpito quasi ogni aspetto della nostra vita privata, ma anche e soprattutto il nostro vivere associato, e di conseguenza quasi tutte le istituzioni pubbliche. Tra queste, per quanto spesso ce ne si dimentichi, c’è anche il carcere. Non appena la pandemia, a partire proprio dall’Italia, ha raggiunto l’Europa, tutti i Paesi hanno finito per porsi rispetto al carcere, anche se con risposte diverse, esattamente gli stessi problemi. All’inizio è stato un grido di allarme. In molti Paesi, Organizzazioni non governative, l’accademia, la politica e le istituzioni pubbliche hanno cominciato da subito a denunciare i rischi che il virus avrebbe potuto avere sulla popolazione detenuta, costretta in spazi, anche dove il sovraffollamento formalmente non c’è, che rendono comunque impossibile qualunque forma di distanziamento sociale. Ovunque in Europa, come altrove, le carceri sono posti malsani, con carenze igieniche spesso drammatiche, e la popolazione detenuta, una buona parte della quale non è più giovanissima, ha spesso problemi di salute, legati anche ad uno stile di vita insalubre sia prima che durante la detenzione, che ne fanno un gruppo particolarmente a rischio in caso di contagio. Al grido di allarme da subito si sono unite anche le istituzioni europee, sia nell’ambito del Consiglio d’Europa che in quello dell’Unione europea. Sono stati prodotti raccomandazioni, suggerimenti operativi e indicazioni di buone pratiche, finalizzati alla prevenzione dei contagi, al contrasto al sovraffollamento e alla tutela dei diritti delle persone detenute in questa fase particolarmente critica. Si è trattato di misure non vincolanti che indicavano una direzione lungo la quale, seppure a velocità ed in misura diversa, si sono mossi quasi tutti i Paesi europei. Anzitutto adottando misure che di fatto hanno comportato una chiusura quasi totale del carcere. In Italia dall’8 marzo, e poi in molti altri Paesi, sono stati vietati i colloqui con i familiari, le uscite dei detenuti in permesso e l’ingresso di operatori esterni e volontari, di fatto riducendo al lumicino, o azzerando del tutto, le attività che prima, si svolgevano in carcere. Da noi questo lockdown penitenziario è durato fino a fine giugno, ma nei fatti ad oggi molte attività ordinarie non sono ancora riprese. Sono però ripresi i colloqui con i familiari, anche se in quantità limitata e con protezioni aggiuntive, ma altrove in Ue ancora non è così e ci sono detenuti che non vedono i propri familiari ormai da 10 mesi. Le tensioni generate da queste restrizioni e dalla paura dei contagi sono state enormi, e in Italia hanno causato numerose rivolte che sono costate la vita a ben 14 detenuti. Un fatto senza precedenti per diffusione e gravità, ma si è trattato di un caso fortunatamente isolato in Europa. Non c’è notizia che altrove le proteste tra i detenuti o i familiari siano sfociate in tragedia. Nel nostro Paese, per non troncare del tutto i contatti con l’esterno, ai detenuti sono state concesse telefonate aggiuntive ed è stato attivato quasi subito un servizio di videochiamate sostitutivo dei colloqui in presenza. Misure simili sono state adottate anche in altre nazioni ma non ovunque. In molti casi, ad esempio in Francia, non sono state introdotte le videochiamate, mentre altrove molti detenuti sono stati comunque esclusi da queste opportunità, come ad esempio le persone in custodia cautelare in Polonia. Al tempo stesso in tanti hanno pensato a come diminuire il numero dei detenuti, e dunque l’affollamento delle carceri. C’è chi da subito, come Paesi Bassi e Germania, ha adottato misure per limitare l’ingresso in carcere cere d i nuovi detenuti, e chi invece, come abbiamo fatto noi, ha introdotto disposizioni per favorirne l’uscita. Il Portogallo ha addirittura predisposto una amnistia straordinaria. Ma non sono stati pochi gli Stati, come Ungheria o Bulgaria, che non hanno fatto nulla di tutto questo, o i Paesi in cui, come in Inghilterra e Galles, sono state adottate misure minimali che hanno consentito l’uscita di pochissime persone. Per fortuna in generale la popolazione detenuta in Europa è diminuita pressoché ovunque, anche in quei Paesi in cui non sono state adottate misure specifiche a questo scopo. Questo è successo anzitutto a causa delle sospensioni o dei rallentamenti nell’attività dei tribunali, che hanno di fatto inciso sul flusso degli ingressi in carcere. Ma anche perché le misure di lockdown adottate fuori dal carcere hanno avuto effetti anche sui reati commessi, che sono significativamente diminuiti quasi ovunque. Infine in diversi Paesi, a prescindere dal fatto che si fossero introdotte o meno misure straordinarie, le istituzioni coinvolte hanno cercato di usare al massimo gli strumenti già esistenti per contenere i numeri della detenzione e promuovere il ricorso alle alternative. In alcuni casi, come in Francia o in Italia, rispettivamente il ministero della Giustizia e il procuratore generale della Corte di cassazione hanno esplicitamente e pubblicamente chiesto ai magistrati di impegnarsi in questa direzione. Gli esiti sono stati però disomogenei. Come abbiamo detto la popolazione detenuta è calata quasi ovunque, ma mentre in nazioni come l’Italia, la Francia, il Belgio o la Scozia questo calo è stato ampiamente superiore al 10% delle presenze, in altri è stato assai meno significativo e dunque minore la sua utilità per limitare l’affollamento e facilitare il contenimento dei contagi in carcere. Altrettanto disomogenea è stata la durata di questi esiti. Quasi ovunque contestualmente al calo dei contagi che si è registrato con l’arrivo dell’estate, la popolazione detenuta è tornata a crescere. In molti casi dunque, quando è arrivata la seconda ondata, il piccolo patrimonio di posti liberi e celle singole conquistato durante il lockdown era andato in parte perduto. Questo in Italia è successo in misura abbastanza limitata, in modo più netto altrove, ma quasi ovunque lo sforzo registrato durante la prima ondata per svuotare le carceri pare ora essere venuto meno. Anche per questo i numeri dei contagi in carcere in Europa sono al momento assai preoccupanti. In Italia abbiamo oggi oltre mille positivi tra i detenuti, ed altrettanti tra il personale, una situazione tre volte più grave rispetto alla prima ondata. E in molti altri Paesi europei la situazione non è migliore. Nel Regno Unito alla fine di ottobre i detenuti risultati positivi al Covid-19 da marzo erano 1.529, 883 in più rispetto a settembre. In Spagna a fine ottobre si contavano 334 contagi, contro gli 85 registrati durante la prima ondata. Si moltiplicano intanto i contagi in Francia: dai 47 del 5 ottobre si è passati agli 88 del 14 ottobre, quindi ai 117 del 20 ottobre per arrivare ai 178 del 4 novembre. Ed il dato è ancora in crescita. Insomma, l’emergenza coronavirus nelle carceri europee è tutt’altro che superata e ci vorrà ancora parecchio tempo prima di un ritorno alla normalità. Nel frattempo però ci sono già alcune lezioni che dovremmo avere imparato. La prima è che la chiusura del carcere, in gran parte dell’Europa, ha comportato una mancanza di trasparenza e di informazioni particolarmente pericolosa. Il non sapere esattamente cosa stesse succedendo ha generato tensioni e paure a volte del tutto ingiustificate tra detenuti e familiari, ma questa stessa chiusura ha creato anche un clima di impunità particolarmente pesante se sono vere ad esempio le denunce ricevute da Antigone di pestaggi e rappresaglie avvenute in diverse carceri italiane nei giorni successivi alle rivolte del 7 ed 8 marzo. La chiusura del carcere avrebbe dato vita ad una spirale di illegalità che non deve assolutamente ripetersi. La seconda è che quella stessa chiusura ha comportato una limitazione dell’accesso ai servizi sanitari delle persone detenute che, prolungata nel tempo, diventa intollerabile. Perché non c’è solo il Covid-19. I detenuti di norma accedono frequentemente a prestazioni sanitarie dentro, e soprattutto fuori, dal carcere. Tutto questo ha subito una drastica battuta d’arresto e ad oggi, a 10 mesi dall’arrivo della pandemia, come ci si può immaginare le conseguenze di tutto questo sono drammatiche e l’esigenza di porvi rimedio improcrastinabile. La terza lezione da trarre è quella segnata dalla distanza tra la nostra “nuova normalità” e quella del carcere. Se noi ci siamo sempre più attrezzati, soprattutto con le nuove tecnologie, per riprendere nei limiti del possibile le nostre normali attività, il carcere in molti Paesi europei, inclusa l’Italia, è ancora in un sostanziale stato di lockdown dal quale non si vede l’uscita. La scuola, la formazione professionale, il lavoro, le attività culturali o ricreative sono enormemente rallentate o del tutto ferme da ormai 10 mesi e la pena è regredita ad uno stato di costante isolamento interrotto solo per alcuni dai contatti con i familiari. Una condizione che potrebbe essere mitigata da un maggiore accesso agli strumenti digitali di comunicazione. Una misura senza la quale la pena detentiva oggi in molti Paesi europei verrebbe eseguita in palese violazione di quei criteri e di quelle finalità che le legislazioni nazionali e gli stessi standard europei cercano di promuovere. Quando lo Stato rimane fuori dalla cella di Carmine Gazzanni Left, 18 dicembre 2020 Tra malattie non diagnosticate e suicidi è lunga la scia di drammi che si consumano dietro le sbarre e che si sarebbero potuti evitare. A cominciare da quello di Valerio, morto suicida a Regina Coeli a 22 anni sebbene fosse già disposto il suo trasferimento in un luogo di cura. “Le istituzioni hanno soppresso mio figlio”. Ester Morassi è una donna forte e determinata. Lo si legge nelle sue parole e nel suo viso, incorniciato in lunghi capelli biondi e segnato dal dramma di perdere un figlio. È il 24 febbraio 2017 quando Valerio Guerrieri si suicida nel carcere di Regina Coeli. Aveva solo 22 anni. Ester da allora - e insieme all’associazione Antigone che le è sempre stata accanto - non si è mai arresa. Perché quello che potrebbe sembrare una tragica fatalità nasconde molto altro: Valerio, infatti, non doveva essere in carcere. Come si evince dall’inchiesta in corso, nella sentenza con cui era stato condannato a quattro mesi di reclusione il giudice aveva indicato anche di trasferirlo in una Rems (Residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza), dove vengono accolti detenuti con gravi disturbi mentali. Dopo quasi tre anni di battaglie e indagini, il gip ha disposto l’imputazione coatta e dunque verrà formulata dal pm la richiesta di rinvio a giudizio per la direttrice del carcere di quei giorni, Silvana Sergi, e una dirigente del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Nell’ordinanza firmata dal gip Claudio Carini, e che Left ha visionato, non si usano mezzi termini: “Dal 14 febbraio 2017 (e dunque per dieci giorni, ndr) Guerrieri è stato detenuto senza titolo nella casa circondariale Regina Coeli dove si è tolto la vita”. Con un’aggravante non di poco conto: nella ricostruzione dei fatti emerge che dopo la perizia psichiatrica da cui emergeva la necessità che Guerrieri fosse portato in una Rems, il volere del tribunale è rimasto inspiegabilmente inapplicato “per mancanza di posto nell’unico istituto (Rems di Subiaco) interpellato dal Dap del ministero della Giustizia”. Insomma, non sono state neanche “eseguite ulteriori ricerche per individuare un’altra Rems disponibile”. Così è morto un ragazzo di soli 22 anni. Quella di Valerio, però, è una storia tremendamente simile a tante altre: giovani o meno giovani finiti in carcere e lì abbandonati, senza poter ricevere le giuste cure o la dovuta attenzione. Da Roma spostiamoci a Pordenone. Stefano Boriello aveva solo 29 anni quando muore. Inspiegabilmente. Arresto cardiaco, reciterà il referto. I familiari, però, sin da subito non credono alla fatalità: Stefano era sempre stato in ottime condizioni di salute nei due mesi di reclusione in carcere (aveva tentato di sottrarre un portafoglio a un anziano). Nei giorni prima della morte, però, accade qualcosa di strano: lunedì 3 agosto 2015 Stefano salta l’incontro con il cappellano, giovedì 6 va a trovarlo in carcere il sacerdote di Portogruaro, don Andrea. “Non gliel’hanno fatto vedere perché - raccontano oggi i familiari - era bloccato con la schiena e non riusciva a camminare. Don Andrea ha chiesto di andare lui dentro, ma gliel’hanno negato perché non era autorizzato”. Nessuno, però, fornisce adeguate spiegazioni. Finché il giorno dopo, venerdì 7 agosto, Stefano muore. A distanza di cinque anni, l’inchiesta ancora in corso apre uno scenario sconvolgente: al 29enne non sarebbe stata diagnosticata un’infezione polmonare nonostante dal personale medico fosse stata constatata una “notevole componente dispnoica”. Se i parametri vitali di Stefano fossero stati rivelati, secondo quanto starebbe emergendo, tale attività “avrebbe evidenziato con estrema probabilità quei reperti obiettivi che si associano alle polmoniti”. Non solo: senza quella diagnosi ovviamente nessuno ha somministrato alcun antibiotico a Stefano. Da qui il progressivo peggioramento. Ma, dicono le carte dell’inchiesta, neanche quando era necessario trasferirlo urgentemente in ospedale, questo è stato fatto. Una presunta inadempienza letale che è costata un rinvio a giudizio al medico legale del carcere di Pordenone. Ad essere stati già condannati in primo grado, invece, sono cinque medici del carcere di Cavadonna di Siracusa. Omicidio colposo il reato commesso, secondo quanto stabilito dal Tribunale poche settimane fa. Alfredo Liotta ha 40 anni nel 2012: soffre di una forte depressione e di una grave forma di anoressia. Il 5 luglio 2012, pochi giorni prima della morte, l’avvocato chiede che il suo assistito possa essere curato al di fuori del carcere. Era arrivato a pesare 40 chili. Ma il perito della Corte d’Appello di Catania davanti al quale Liotta è a processo, incaricato di visitarlo, pur trovandosi di fronte un uomo a un passo dal decesso, lo indica come un simulatore e parla del suo comportamento come di quello artefatto di chi sta recitando. La perizia da lui depositata il 13 luglio 2012, ovvero 13 giorni prima della morte di Liotta, impedisce a questi di accedere a cure esterne. Nessuno dei medici e degli psichiatri del carcere che Liotta ha attorno pare farsi carico di quel che tuttavia è evidente. Così Liotta muore: se fosse stato condotto per tempo in ospedale oggi sarebbe vivo. Molto spesso a non essere incredibilmente intercettati sono le patologie psichiatriche. Anche quando si palesano con più tentativi di suicidio. Il 30 giugno scorso un ultimo inquietante caso. Siamo al carcere di Poggioreale di Napoli, quel giorno un detenuto si toglie la vita. Tre mesi prima, però, il 2 marzo 2020 la Corte di Appello aveva dichiarato che il soggetto era affetto da “disturbo dell’adattamento con umore depresso e ansia misti in soggetto con disturbo di personalità di tipo antisociale”. Negli anni passati, d’altronde, era stato già sottoposto a cura psichiatrica, ma dal 2020 la sua condizione si aggrava, tanto che tenta il suicidio ben tre volte: a gennaio, a marzo, ad aprile. Nel corso dei mesi, però, il carcere non avrebbe richiesto una visita psichiatrica né eventualmente sollecitato un ricovero presso una struttura ospedaliera specialistica. E, nonostante nel referto medico dell’ultimo tentativo di suicidio si consigliasse tra le altre cose “grande sorveglianza”, il personale sanitario e penitenziario non avrebbe neanche predisposto, secondo un esposto di Antigone che intanto è stato consegnato alla procura di Napoli, un totale controllo con sorveglianza a vista 24 ore su 24, fondamentale in casi delicati come questi. Nulla di tutto questo avviene neanche quando il 10 giugno, 20 giorni prima della morte, gli viene notificato il provvedimento del Tribunale dei minori con cui gli viene tolta la potestà genitoriale. Alla luce di un quadro psichiatrico già complesso e dei tentativi di suicidio, nessun controllo viene messo in campo. Fino all’ultimo tentativo di suicidio, andato questa volta tragicamente a segno. Salute mentale, un diritto sbarrato di Claudia Dario, Alessio Giampà e Francesca Padrevecchi Left, 18 dicembre 2020 Quando si affronta il trattamento degli autori di reato affetti da patologia mentale sorge il grande problema di dover mettere insieme la pena con la cura. Ma garantire percorsi terapeutici adeguati (come psicoterapia e progetti riabilitativi) è pressoché impossibile. Il sistema carcerario, realtà già di per sé complessa, è stato messo a dura prova dalla natura “democratica” della pandemia. Il coronavirus infatti non fa distinzioni di reddito, colore della pelle, pena da scontare e non risparmia luoghi usualmente dimenticati o lasciati ai margini della società. L’unica possibilità di rallentarne la diffusione è l’attuazione tempestiva di misure di contenimento che, se da un lato hanno tutelato la vita dei detenuti, dall’altro l’hanno resa molto più difficile a causa dell’interruzione di tutte le attività di gruppo, dei colloqui con familiari e legali, dei permessi premio e dei processi. Le restrizioni proposte, figlie di necessità sanitarie in un’ottica di prevenzione, unite al timore di essere contagiati, sono state l’innesco delle rivolte di marzo scorso in diversi Istituti nazionali. Significative le parole scritte dai detenuti in una delle lettere inviate a Radio radicale: “Viviamo ogni giorno nel terrore di essere contagiati dal virus e morire qui dentro, perché in queste celle sovraffollate è impossibile rispettare il distanziamento. Terrore perché ci sentiamo abbandonati e la nostra incolumità sembra essere lasciata al caso”. Fortunatamente, l’adeguamento dei protocolli sanitari per il contenimento della pandemia in concomitanza con la sua evoluzione, ha disteso la tensione e fatto svanire in larga parte quel “terrore” e quello spaesamento iniziale che colpivano non solo i detenuti ma tutti gli operatori in campo. Un’attenzione particolare è diretta verso i “nuovi giunti” ovvero le persone che iniziano la detenzione; un momento estremamente delicato in cui si crea una frattura tra un “prima” e un “dopo” nella vita di chi ne è coinvolto che può avviare o far precipitare situazioni di vulnerabilità. Per questo motivo è richiesta un’accurata valutazione da parte di diverse figure professionali (lo psicologo, l’educatore, lo psichiatra ed il personale di Polizia penitenziaria) per garantire la presa in carico di persone che sono costrette ad affrontare questo momento di fragilità in completa solitudine a causa dell’isolamento sanitario. Dall’altra parte i detenuti in cui non si palesa alcuna condizione di “debolezza” o che nel corso della detenzione, magari per buona condotta, meriterebbero una stanza singola, spesso si ritrovano a dover comunque vivere in spazi ristretti a causa della carenza di strutture adeguate. Come accaduto in altri contesti, la pandemia ha stimolato dei cambiamenti che si stanno rivelando positivi, come l’introduzione delle videochiamate o la permanenza in stanze non affollate. Ci si chiede se una volta terminata la pandemia alcune delle innovazioni, potranno essere sostenute in un sistema carcerario le cui insufficienze strutturali (come la carenza di personale sia sanitario che penitenziario) sembrano rendere impossibile una sua umanizzazione non più rimandabile. Basta porre l’attenzione sull’agghiacciante dato dei suicidi nelle prigioni, ben 51 in 11 mesi. In questo contesto la tutela della salute mentale diviene sempre più importante e per comprendere l’organizzazione e il funzionamento dei servizi sanitari in carcere è utile partire dal 2008, anno in cui è stata varata la riforma della salute penitenziaria grazie al Dpcm dell’1 aprile. Questa ha permesso il trasferimento al Servizio sanitario nazionale di tutte le funzioni sanitarie fino a quel momento di competenza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della giustizia minorile. Da quel momento le Asl sono entrate appieno nelle carceri e così il personale deputato alla tutela della salute mentale è passato dall’essere dipendente dell’Amministrazione penitenziaria a essere “scelto” dalle Asl. Questo ha consentito un’importante svolta non solo da un punto di vista gestionale e organizzativo ma anche culturale. Tra i principi e gli obiettivi di riferimento inseriti nel Dpcm del 2008 spiccano il: “Riconoscimento della piena parità di trattamento, in tema di assistenza sanitaria, degli individui liberi e degli individui detenuti ed internati...” e la “Riduzione dei suicidi e dei tentativi di suicidio”. Il detenuto acquisisce di fatto gli stessi diritti di tutela della salute del cittadino libero e viene riconosciuto il problema dei suicidi in carcere. Ma come si può intervenire quando la patologia mentale rende problematica la coesistenza con il regime detentivo ordinario? Tn altri termini, come comportarsi nel caso dei cosiddetti rei folli, ossia persone condannate (o detenute in attesa di giudizio), e nelle quali era già presente prima o è insorto un disturbo mentale durante la detenzione? Dall’inizio degli anni Duemila sono nati, a partire dal carcere di Torino, alcuni “repartini” che hanno il compito specifico di ospitare persone che soffrono di problematiche psichiatriche. Sono sezioni, non soggette ad una normativa unica nazionale, dove si svolgono attività cliniche (visite psichiatriche, psicologiche, attività riabilitative), ma che sottostanno alle norme penitenziarie come in ogni altra sezione del carcere. In questo luogo possono essere inserite le persone che a causa delle loro problematiche psichiatriche, bisognose di cure costanti, e non riuscendo a “convivere” con gli altri detenuti, sono sottoposte ad un periodo di “osservazione psichiatrica” che permette di valutare l’eventuale incompatibilità con il regime carcerario. Laddove venga riscontrata la presenza di un grave disturbo mentale durante la detenzione, la legislazione ancora in vigore si basa sugli art. 147 e 148 del codice penale, due “assurdi” del nostro ordinamento. L’articolo 147 infatti prevede i domiciliari solo per la severa infermità “fisica”, escludendo quindi le patologie psichiche, “causando una discriminazione lesiva del principio di uguaglianza e del diritto alla tutela della salute” come sancito dal Comitato nazionale di bioetica nel 2019. L’articolo 148 invece stabilisce il trasferimento negli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari) anche se questi, grazie al lavoro della “Commissione Marino” che ne ha messo in luce le condizioni di vita degradanti, non esistono oramai più. Dal 31 marzo del 2015 ne hanno preso il posto le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) che hanno gestione interna di competenza sanitaria e svolgono funzioni terapeutico e socio riabilitative destinate a persone affette da disturbi mentali, autrici di reato e socialmente pericolose che sono quindi sottoposte ad una misura di sicurezza. Quando si affronta il trattamento degli autori di reato affetti da patologia mentale, ci si trova di fronte al grande problema di dover mettere insieme la pena con la cura. Se da una parte queste persone necessitano di cure sanitarie psichiatriche, allo stesso tempo devono rispondere del reato commesso con la pena. Le cose si complicano ulteriormente perché il nostro ordinamento giuridico, che fa riferimento al non attualissimo Codice Rocco del 1930, prevede il cosiddetto “sistema del doppio binario”. Per chiarire meglio di cosa si tratta proponiamo un esempio: un uomo affetto da psicosi uccide i familiari perché, in preda ad allucinazioni e deliri, vedeva in essi il demonio, ma poi lucidamente ne occulta i cadaveri. Per l’ordinamento giuridico italiano il soggetto è sì imputabile (punibile) ma con vizio parziale di mente perché, se da una parte viene riconosciuta la psicosi, l’occultamento del cadavere da alcuni periti viene valutato come capacità di intendere e di volere. Oltre l’imputabilità, viene giudicata anche la pericolosità sociale ovvero la probabilità di commettere altri reati. Secondo il sistema del doppio binario la persona sarà quindi soggetta a due distinte sanzioni: da una parte la pena, la cui funzione oltre che punitiva e rieducativa è anche di scoraggiare la reiterazione del reato; e dall’altra la misura di sicurezza la cui funzione è di contenere la pericolosità sociale. Tornando al nostro esempio, in antitesi con il metodo medico per cui alla diagnosi dovrebbe seguire subito la cura, l’uomo che in preda ad una crisi psicotica compie un reato, dovrà prima scontare molti anni di pena in un luogo inadatto al trattamento della malattia mentale (il carcere) e solo dopo potrà ricevere cure psichiatriche intensive e multidisciplinari nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Le conseguenze di questo sistema “dissociato”, ricadono non solo sui pazienti, ma anche su tutti coloro che lavorano negli istituti penitenziari e che si ritrovano a non poter esercitare appieno la propria professione. In carcere infatti noi operatori della salute mentale non riusciamo a garantire percorsi di cura adeguati (come psicoterapia e progetti riabilitativi) ma siamo costretti principalmente a somministrare farmaci e ad arginare i costanti pensieri autolesivi dei pazienti/detenuti per lo più conseguenza di un sistema che non funziona. A questi problemi si aggiunge che, ad oggi, le Rems non ricoprono il numero di posti letto necessari, per cui le liste di attesa sono lunghissime, determinando un vuoto istituzionale pericoloso. Cosa fare infatti quando la disponibilità del posto letto non coincide con la data della scarcerazione? Come nel gioco del cerino, il malcapitato di turno (che sia il magistrato di sorveglianza o il direttore del penitenziario) dovrà decidere se far rimanere la persona in carcere anche se la pena è finita oppure lasciarla libera senza che abbia effettuato un percorso di cura idoneo, con il rischio che possa commettere di nuovo il reato prima dell’ingresso in Rems. Alla luce di tutte queste considerazioni, si dovrebbe investire sul capitale umano soprattutto per la cura del paziente psichiatrico autore di reato, al fine di promuovere non solo il benessere del singolo ma quello collettivo. Purtroppo come evidenziava lo psichiatra Massimo Cozza, “il nostro SSN universalistico è stato per anni sotto finanziato, impoverito e bistrattato dalla politica e dai mass media”. Oltre la terapia farmacologica, importante ma non sufficiente nella cura di queste persone, è fondamentale un lavoro che valorizzi soprattutto la relazione interumana e a tal fine sarebbe auspicabile investire sulle risorse umane per tutelare non solo il paziente e i suoi familiari ma anche l’operatore sanitario che, in queste situazioni, è a forte rischio di burn-out. Va infine sottolineato che isolare e custodire il reo con patologia mentale non è la strada più adeguata da seguire. È necessaria la cura e la ricerca sul modo migliore per farla. A tal proposito lo psichiatra Massimo Fagioli intervistato su queste pagine, il 28 febbraio 2015, diceva: “Il problema è la cura. Non le mura. La vera questione è la ricerca sulla malattia mentale. Bisogna eliminare il tabù che vieta la ricerca sulla mente umana. La malattia mentale va affrontata, prima di tutto con la diagnosi. Non con la liberazione”. Luigi Manconi: “Vi racconto perché il carcere è inutile” di Federica Farina Left, 18 dicembre 2020 Il tasso di recidiva tra i detenuti è il triplo rispetto a quello di chi accede a misure alternative, spiega Luigi Manconi e aggiunge: “Questo è solo uno dei sintomi più evidenti del fallimento di un sistema che vuole garantire la sicurezza sociale attraverso la detenzione dietro le sbarre”. Luigi Manconi, intellettuale e politico, fondatore e presidente della Onlus “A buon diritto”, è un interlocutore obbligato quando si parla di emergenza carceraria. Promotore di importanti battaglie di civiltà, è da sempre uno strenuo difensore dei diritti dei detenuti e in un momento in cui la pandemia da Covid-19 ne aggrava ulteriormente le condizioni un libro come il suo “Abolire il carcere” è quanto mai attuale e prezioso. Firmato per Chiarelettere insieme a Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, questo libro, davvero illuminato e dal carattere fortemente pratico, ci fa capire perché il carcere vada abolito: è un totale fallimento sotto tutti i profili e non si tratta di buonismo, sono i numeri a dirlo. Il carcere è “un lungo e minuzioso processo di spoliazione”, fortemente lesivo di ogni diritto e della dignità delle persone, e in più è fallimentare anche sotto il profilo più pratico perché aumenta il tasso generale di criminalità. Il carcere annienta l’essere umano e non protegge i cittadini, deve quindi perdere la sua centralità. In questo momento “Abolire il carcere” si ripropone come un faro da seguire per sfatare il mito secondo cui ricorrere alla pena detentiva sia una cosa inevitabile. Questo libro potrebbe essere stato scritto oggi per la sua attualità ma in realtà è stato pubblicato nel 2015. Com’è stato accolto e che reazioni ci sono state nel tempo? È stato accolto molto seriamente dalla comunità scientifica e dai giuristi perché ha un impianto di natura normativa. Il libro indaga la struttura del carcere dal punto di vista della sua ragion d’essere e degli effetti negativi che ha sull’amministrazione della giustizia e sull’esecuzione della pena. Per il resto è stato accolto come un manifesto utopico da respingere perché considerato come scarsamente correlato alla realtà. In verità è qualcosa di estremamente realistico, molto ragionevole e soprattutto concretamente realizzabile. Il vostro lavoro è particolare perché è molto pratico, si percepisce la concretezza di quanto viene scritto. Voi autori ci avete spiegato, numeri alla mano, perché il carcere è fallimentare: non garantisce sicurezza, non serve al suo scopo... È così, noi partiamo dalla constatazione che il carcere si è rivelato uno strumento totalmente inutile sia rispetto a quella che è la finalità indicata dalla Carta costituzionale. Partiamo da una dichiarazione di verità: il carcere è inutile e dannoso. “Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’era mai stato”. “Abolire il carcere” inizia con questa citazione da Riso amaro e in effetti chi invoca il carcere non sa quasi mai di cosa sta parlando e pensa che sia qualcosa che non lo riguarderà mai da vicino. Invece, lei dice, è una questione che ci riguarda tutti. Perché? Sì, riguarda tutti perché l’interesse dovrebbe essere quello per cui chi sconta una pena, quando esce dal carcere e ritorna in mezzo alla collettività, dovrebbe essere meno pericoloso, ma quello che accade è esattamente il contrario. Il nostro sistema fa sì che la pena renda chi la sconta più pericoloso di quanto lo era prima e quindi si realizza un danno per la collettività. L’impostazione carcerocentrica che si fonda sulla cella chiusa si risolve in una forma di autolesionismo della società e abbiamo numerosi dati che lo confermano. Per chi sconta la pena in carcere c’è un tasso di recidiva spaventoso, parliamo del 70%, mentre per chi sconta la pena in forme diverse, come con la detenzione domiciliare o i lavori socialmente utili, la recidiva è del 20%. La conferma della necessità di abolire il carcere sta in queste cifre, e ogni anno che passa le recidive per chi ha scontato la pena in modo alternativo al carcere sono sempre più rare. Il carcere quindi è un fallimento sotto tutti i profili: sociale, giuridico, finanziario, e invece di proteggere la collettività la danneggia. Cosa possiamo fare perché la gente apra gli occhi su questa realtà? Questo è il capitolo più dolente perché il tema carcere continua a essere “rimosso” dalla coscienza collettiva. Nel libro uso questa immagine che è quella della rimozione nel senso di cancellare, allontanare da sé un problema che inquieta e turba. Non a caso le carceri sono costruite fuori dall’ambito cittadino affinché lo sguardo della gente non le incontri. Noi stiamo assistendo a una progressiva cancellazione del carcere dall’orizzonte e dallo sguardo del cittadino comune per cui è sempre più difficile sollecitare l’interesse verso queste tematiche e a questo collabora attivamente anche la politica. Interessarsi al problema carcere è sconveniente per i politici? Esattamente. Il carcere non è remunerativo per la politica, è il contrario: chi si interessa di carcere perde voti, chi si incattivisce contro i detenuti guadagna voti. La politica agisce in questo modo e non si fa nulla perché il carcere diventi una questione pubblica. Si vede anche oggi con il problema del Covid, i numeri dei contagi tra i detenuti sono stati forniti tardivamente e spesso non sono stati forniti affatto. Io ho segnalato una vicenda riguardante i contagiati di un carcere dove per giorni si sosteneva che non vi fosse nessun positivo, per poi scoprire che non era così e tra i positivi c’era anche un detenuto che era finito in terapia intensiva, ma per una settimana questi dati non sono stati forniti. C’è proprio un procedimento di cancellazione. A questo proposito, da oltre un mese Rita Bernardini sta facendo lo sciopero della fame per chiedere l’indulto o l’amnistia ma non c’è risposta da parte delle istituzioni. Nel libro parlava dell’indulto del 2006, un provvedimento che all’epoca fu molto criticato. Il clima è lo stesso? Il clima è lo stesso del 2006 se non peggio. Oggi di indulto non se ne può proprio parlare. Nel libro ci dice che il carcere va abolito e per arrivarci ha stilato un decalogo di provvedimenti: depenalizzare i reati meno gravi, abolire l’ergastolo e ridurre le pene detentive, diversificare il sistema delle pene rendendo il carcere l’extrema ratio, concentrare il processo penale su fatti veramente meritevoli di sanzione, prevedere la custodia in carcere solo in caso di pericolosità dell’imputato, potenziare le alternative al carcere, garantire i diritti fondamentali dei detenuti, umanizzare il carcere, impedire che i minori vengano reclusi, garantire agli autori di reato affetti da disagio psichico delle misure finalizzate alla riabilitazione e alla cura. Riproporrebbe anche oggi questo stesso decalogo? Certo, lo riproporrei perché il problema è più urgente che mai. L’abolizione del carcere è un progetto di lunga durata ma per avvicinarsi all’obiettivo c’è questo elenco preciso di provvedimenti concreti che sono subito realizzabili, si possono ottenere con una legge. Se non succede è per motivi politici perché è più remunerativo assecondare l’idea della pena come vendetta. Bisognerebbe cambiare la cultura per fare in modo che non sia più così. Rita Bernardini: “C’è un’epidemia di disumanità contro le persone in carcere” di Valentina Stella Il Riformista, 18 dicembre 2020 Non c’è più tempo da perdere. L’emergenza sanitaria può avere conseguenze gravissime nelle carceri italiane dove il sovraffollamento è la norma. L’allarme dell’esponente del Partito radicale Rita Bernardini che per 35 giorni è stata in sciopero della fame per tentare di scalfire l’indifferenza dei politici, dei media e dell’opinione pubblica. Nel momento in cui andiamo in stampa Rita Bernardini, storica esponente del Partito radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino, ha appena sospeso dopo 35 giorni lo sciopero della fame intrapreso per chiedere al governo misure urgenti per svuotare le carceri in questo momento di emergenza sanitaria. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha infatti deciso di incontrarla il 22 dicembre. A lei dal 10 novembre scorso si erano uniti a staffetta circa 3.500 detenuti, 200 docenti di diritto penale, personaggi del mondo della cultura come Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano. Innanzitutto come sta? Quando lo sciopero della fame dura da più di un mese, si raggiunge uno stato di grazia, una forza interiore che è difficile riscontrare nella normalità quotidiana. Ho perso circa dieci chili e mi sono nutrita alla Pannella con tre cappuccini al giorno, un paio di caffè e tanta acqua. Ancora una volta si ritrova a dover intraprendere una iniziativa nonviolenta per i diritti dei detenuti. Cosa chiede alle istituzioni? Al governo e al Parlamento chiedo di varare urgentemente misure volte a ridurre sensibilmente la popolazione detenuta. Le strade possono essere tante. Da quella che noi, come Partito radicale, privilegiamo perché più efficace: una legge di amnistia e di indulto, o altre misure che comunque facilitino l’accesso alle misure alternative al carcere e che riducano il tempo di permanenza nelle illegali patrie galere italiane. Che fine hanno fatto le migliaia di braccialetti elettronici che avrebbero potuto mandare a casa in questa situazione di emergenza migliaia di detenuti? È uno scandalo tutto italiano: decine di milioni di euro per non avere il servizio previsto a seguito della gara vinta due anni fa da Fastweb. Sono due settimane che slitta la risposta all’interpellanza urgente che abbiamo potuto presentare grazie al lavoro del deputato Roberto Giachetti. Sarà interessante sapere, per esempio, il motivo per il quale c’è stata l’esigenza di produrre ulteriori 4.700 braccialetti se alla data di aprile 2020 Fastweb avrebbe già dovuto consegnarne e rendere operativi tra i 13mila e i 16mila. Braccialetti del gioielliere “Bulgari”, diceva il compianto Massimo Bordin, visto che dall’inizio abbiamo speso almeno 200 milioni di euro per non averli a disposizione dei magistrati che intendono concedere la detenzione domiciliare con il supporto di controllo a distanza. Alcuni, come il Garante nazionale Mauro Palma, sostengono che non ci sono le condizioni politiche per i provvedimenti di amnistia e indulto… Mauro Palma è sempre stato contrario e lo è ancora oggi. Ricordo che quando coordinava la Commissione carceri istituita dalla ministra Cancellieri, faticai non poco a fargli aggiungere nel documento finale quattro righe su amnistia e indulto. Per il resto, da Garante, fa un ottimo lavoro e comunichiamo spesso fra noi. Sui provvedimenti previsti dall’articolo 79 della Costituzione, se si è convinti, le condizioni si creano. Lei dà voce a molti detenuti. Veicolando i loro messaggi, fa scoprire un’umanità poco conosciuta… È un’umanità sofferente, e mi riferisco anche ai familiari dei detenuti che spesso non sanno a chi rivolgersi per denunciare trascuratezza, abbandono, violazione di diritti umani. Giorni fa mi sono arrivati via WhatsApp gli screenshot di una cella di isolamento per il Covid a Caltanissetta. Si può credere o meno che il detenuto sia stato lasciato lì per tre giorni senza mangiare, come afferma la moglie che ha sporto denuncia ai carabinieri. Ma il vomito del detenuto e l’immondizia sparsa nel corridoio cosa ci stavano a fare? Dalle carceri ci arriva molta solidarietà e amicizia. Sentono che qualcuno pensa a loro, mentre sono dimenticati dalle istituzioni. Però il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, sostiene che l’attenzione sulle carceri è alta. L’ha chiamata sapendo che lei da oltre un mese è in sciopero della fame? Finora ha dimostrato di fregarsene sia delle carceri sia della nonviolenza che stiamo animando. Ma il dialogo è anche con lui, soprattutto perché credo non si renda conto di quel che sta accadendo. Insieme alla tesoriere del Partito Radicale, Irene Testa, ho consegnato una lettera al presidente della Repubblica Mattarella, anch’egli silente: descrive con dati veri e verificabili la reale situazione delle carceri in generale e, soprattutto, in questa seconda prolungata fase della pandemia. Sulla questione delle misure che potrebbero far diminuire la popolazione in carcere, sembra che il Pd non voglia creare uno strappo con il M5s... Sulla giustizia in generale, non solo sull’esecuzione penale, il Pd si muove a rimorchio del M5s e ciò è gravissimo, considerato lo sfascio che stiamo vivendo e che si è aggiunto a quello dei decenni precedenti. Per il Pd, Bonafede ha carta bianca. Meno male che c’è Roberto Giachetti. Con lui andrò a visitare Rebibbia e Regina Coeli a Natale e a Capodanno. Marco Travaglio ha scritto: “Solo una mente disturbata può pensare di difendere i detenuti dal Covid mandandoli a casa”… Avrò una mente disturbata, ma i dati smentiscono Travaglio e non Bernardini. Il 9 dicembre il tasso di positività dell’intera popolazione italiana era dell’1,17%, quello della popolazione detenuta era dell’1,96%. Travaglio non ha mai messo piede in carcere, non sa di cosa parla. E poi noi radicali i “pazzi” li abbiamo sempre amati, in particolare, i dissidenti dell’ex Urss incarcerati negli ospedali psichiatrici. Qualcuno, tra politici, giornalisti e società civile ha obiettato: “I detenuti dentro sono al sicuro e nel Paese abbiamo altre priorità”… Ho già dimostrato che non sono affatto al sicuro. Quanto alle priorità, vero è che sotto una pandemia occorrono provvedimenti generali che riguardino l’intera popolazione. Ma è altrettanto vero che c’è l’obbligo di individuare i punti più deboli del sistema-Paese, soprattutto per coloro che sono letteralmente nelle mani dello Stato, come i detenuti, che non possono compiere scelte sul trattamento che ricevono, in particolar modo sotto l’aspetto sanitario. Secondo una recente statistica del Censis quasi la metà degli italiani (il 43,7%) è favorevole alla introduzione nel nostro ordinamento della pena di morte (e il dato sale al 44,7% tra i giovani). Come commenta questi numeri? Dopo una stagione di populismo reazionario - ancora, purtroppo, in corso - che ha avuto ed ha una sponda incredibile sui mezzi d’informazione, quei dati mi sorprendono in positivo. Vogliono dire che gli italiani riescono - in maggioranza e nonostante tutto - a resistere al boia, rinnegandolo. Negli Stati Uniti, nonostante il tasso di carcerazione più alto al mondo, pene elevatissime, e la pena di morte, le persone continuano a delinquere. L’Italia in qualche modo è su questa strada: visione carcerocentrica dell’attuale ministro che vuole costruire nuove carceri, slogan sulla certezza della pena a sfavore delle misure alternative, pena di morte come abbiamo appena commentato. Occorre una profonda revisione culturale? Da dove partire per concepire il carcere come extrema ratio? Occorre sfidare i populisti reazionari sul loro terreno, quello della sicurezza; far ragionare le persone, magari proprio partendo dai dati statunitensi e i risultati che producono rispetto a quelli dell’Italia o di altri Paesi europei. Negli Usa c’è una liberalizzazione completa delle armi per la difesa personale che in Italia, fortunatamente, non c’è. Nel 2017, per esempio, negli Usa si registrava un tasso di omicidi ogni 100mila abitanti pari al 5,3% mentre in Italia era notevolmente più basso, cioè pari allo 0,6. Ma le cose stanno cambiando anche negli Stati Uniti: sono più forti di un tempo i movimenti abolizionisti del carcere e dell’affermarsi del panpenalismo. E non dimentichiamo che la sola legalizzazione della cannabis sta influendo positivamente negli Usa sul numero totale dei crimini commessi. Andrea Orlando: “Riformare il sistema penale per applicare la Costituzione” di Simona Maggiorelli Left, 18 dicembre 2020 “Un uso indiscriminato del carcere come strumento di punizione porta inevitabilmente una maggiore insicurezza per i cittadini” osserva l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. “La pena va trasformata in un’ottica di finalità rieducativa come indica la nostra Carta”. Il sovraffollamento in carcere è una questione annosa. Per questo l’Italia è stata condannata dalla Corte europea nel 2013. Con il Covid la situazione è ulteriormente peggiorata. Lo denunciano numerose associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e lo documenta ogni settimana Radio carcere dando voce ai detenuti attraverso Radio radicale. Onorevole Orlando come si può e si deve intervenire per affrontare questa grave situazione? Si può intervenire facendo quello che chiediamo da tempo: che si riprenda la riforma del sistema penitenziario che è rimasta appesa nel passaggio fra le due legislature nel 2018. Perché in quella riforma c’erano tutti gli strumenti per intervenire sul sovraffollamento senza provvedimenti di carattere eccezionale, ovvero senza “lotterie” che beneficiano alcuni in specifiche condizioni oggettive e magari penalizzano altri che in quel momento non hanno quei presupposti. Al contrario la riforma era basata su un’idea di valutazione del percorso trattamentale e della possibilità di utilizzare pene alternative; il che coniuga la flessibilità e la congruità del trattamento alla certezza della pena. La pena non viene cancellata viene trasformata in un’ottica di finalità rieducativa come indica la Costituzione. A questo proposito ormai è dimostrato che il tasso di recidiva si abbassa molto se la pena non è scontata “marcendo in cella”. È un interesse dello Stato recuperare pienamente la funzione rieducativa del carcere e conviene a tutti? Io ho sempre sostenuto che la sicurezza non si garantisce con questo tipo di carcere. Tutti i passi che abbiamo fatto nella direzione di una più forte flessibilità dell’esecuzione della pena hanno dato frutti positivi a partire dalla messa alla prova, così come la possibilità di usufruire delle pene alternative. La reclusione è uno strumento rigido che impone un trattamento uguale a situazioni diverse. In altre parole c’è un effetto emulazione dentro il carcere e delle gerarchie criminali che dentro il carcere si esplicitano e si concretizzano che portano a una regressione, non a una educazione del detenuto. Il carcere andrebbe abolito come hanno sostenuto figure autorevoli? Io non credo che si possa abolire il carcere, ma ritengo che debba essere utilizzato in modo intelligente. Perché un uso indiscriminato del carcere come strumento di pena porta a una crescita della recidiva e quindi inevitabilmente una maggiore insicurezza per i cittadini. Prova ne è il sistema minorile che ha adottato un ampio ricorso alle pene alternative e di messa alla prova. Peserà anche l’età ma è un fatto che il tasso di recidiva dopo la riforma è sceso drasticamente. Il punto è evitare il contagio criminale in carcere? Direi proprio di sì. Ma non basta. Dobbiamo anche lavorare a una umanizzazione del carcere. Per questioni di prevenzione anti Covid sono stati interrotti i colloqui con i familiari. Lei si era molto occupato della questione dell’affettività in carcere, che non deve essere un diritto negato… Noi avevamo eliminato tutte le separazioni nei colloqui rimuovendo il bancone che divideva i detenuti dai parenti. Avevamo introdotto strumenti che permettessero anche il rapporto con i bambini, garantendo a loro dei percorsi protetti che evitasse il trauma del contatto con genitori detenuti in certi contesti particolarmente degradanti. Avevamo lavorato sul tema delle detenute madri. Tutte queste iniziative sarebbero state realizzate con il compimento della riforma che però non è avvenuto. Nella riforma si affrontava anche il tema dell’affettività in modo più strutturato. Rita Bernardini aveva coordinato un gruppo di lavoro che aveva prodotto una normativa andando in quella direzione. Io credo che anche quello sia un lavoro che debba essere ripreso. Ricerche europee ci dicono che un carcere umanizzato che non interrompa i rapporti del detenuto con l’esterno è un carcere che ha più propensione a rieducare; è un carcere che in qualche modo spinge le persone più meritevoli alla riconquista di un ruolo nella società. Non a tutti questo fa lo stesso effetto, beninteso, ma se guardiamo alle statistiche vale per la maggior parte dei casi. Oggi sono 34 i bambini in carcere con le loro madri. Come si fa a considerare giusto tutto questo? No non è giusto. Dobbiamo anche dire per onor del vero, che questo dato è dovuto, a volte, anche dalla scelta delle madri. Le madri preferiscono talvolta stare in una sezione ad hoc piuttosto che nelle residenze protette perché queste ultime spesso si trovano molto lontano dagli affetti. Nelle case ci sono condizioni migliori ma c’è l’impossibilità di vedere i parenti. Fatta questa premessa il punto è aumentare la discrezionalità del magistrato di sorveglianza per permettere di costruire delle pene alternative che consentano al bimbo di non stare dentro al carcere. Va detto che rispetto a 10 anni fa sono stati fatti molti passi avanti. Il numero delle case è aumentato. Il numero dei bambini in carcere è diminuito, ma anche uno solo è troppo. Un’altra questione prioritaria è la salute mentale. Quest’anno, in 11 mesi, sono già 55 i suicidi in carcere. Psichiatri e psicoterapeuti denunciano la difficoltà di tenere insieme pena e cura. Anche per il doppio binario previsto dal codice Rocco, per cui uno sconta la pena e poi eventualmente ci sono le Rems. Troppo spesso vengono somministrati psicofarmaci perché nel carcere non ci sono le condizioni per fare psicoterapia. Che ne pensa? Penso che torniamo al punto di partenza. L’unica soluzione al problema strutturale è l’individualizzazione del trattamento. È consentire al giudice di sorveglianza di valutare strada facendo quale sia la condizione di pena più funzionale alla condizione del singolo detenuto. Gli automatismi sono nemici della cura, lo credo che la chiusura degli Opg sia stato un passo molto importante. E molto attaccato dalla destra. Io credo che la sinistra dovrebbe essere orgogliosa perché quella era comunque una ferita alla Costituzione, che ha persistito fino a pochi anni fa. Verissimo ma il dramma è che mancano sufficienti alternative... Mi permetta di dire che l’esperienza delle Rems alla fine ha retto. Tutto sommato sono meglio questi problemi che avere persone in contenzione o che scontavano una pena senza condanna. Quando c’è un passo avanti va valorizzato, se non Io facciamo diventa difficile reclamarne degli altri, perché si crea una alleanza tra i critici e i nemici, tra chi pensa che sia troppo e chi pensa che sia troppo poco, ed essa impedisce di procedere. Nei giorni scorsi siamo rimasti tutti molto colpiti da un sondaggio del Censis secondo il quale il 43,7 per cento degli italiani sarebbe a favore della pena di morte; una percentuale che sale addirittura al 44,7 se si tratta di giovani. Un dato decisamente sconcertante, non crede? È il retaggio di una cultura populista xenofoba e razzista che nel corso degli ultimi anni ha trovato una sua egemonia. Più che stupirmi mi porrei il tema di come far tornare egemone una cultura democratica nel rispetto dei diritti fondamentali. Questo dato è in linea con il fatto che ci sono milioni di persone che anche nel nostro Paese guarderebbero ad ipotesi di assetto statuale in linea con la Polonia o con l’Ungheria. La nostra democrazia rischia di perdere la base sociale su cui si reggeva. Il punto non è tanto esecrare queste posizioni - cosa che va comunque fatta - ma interrogarsi su come si riconquista un fondamento su cui si regga una cultura democratica. Che non è stata conquistata una volta per tutte ed è diventata maggioritaria con molta fatica. Il nostro è un Paese che ha avuto sotto il pelo dell’acqua una cultura fascista che è sopravvissuta alla fine del fascismo. C’è stato il grande passaggio degli anni Sessanta e Settanta ma quelle conquiste sono ora minacciate. Questi sondaggi devono preoccupare ma anche muovere ad una autocritica, la sinistra deve superare la propria sufficienza rispetto ad alcune acquisizioni che vanno mantenute e gli va costruito un consenso intorno. O c’è una militanza politica che le sostiene o dubito che con gli editoriali si faccia egemonia. M5s e Pd hanno visioni molto differenti in tema di giustizia. Lei aveva avviato la riforma della prescrizione nel 2017 ma poi è arrivato lo “spazza corrotti”. Ora che fare? Questo è uno dei punti su cui fare una seria verifica. Quando chiediamo un nuovo patto di legislatura è anche per chiedere di questo che stiamo dicendo. Sicuramente l’impostazione che è prevalsa dal M5s è molto distante dalla nostra. Sicuramente nei giorni in cui si doveva far passare la riforma nella scorsa legislatura ho trovato disponibilità anche in figure parlamentari significative nel M5s. Purtroppo è prevalsa una linea di populismo penale che segna il punto di maggior distanza in questo momento tra noi e il M5s perché, se dovessi dire, io non vedo distanze insormontabili, né sulla politica economica, né su quelle che riguardano la transizione ecologica, né persino sull’aspetto istituzionale. Su questo punto specifico, è vero, sono ancora più forti le tracce residue dell’ispirazione populistica che ha caratterizzato il M5s nella sua fase di crescita. E allargando lo sguardo al contesto europeo? L’europeizzazione del M5s, la progressiva adesione del M5S a un orizzonte europeo non si è ancora compiutamente accompagnata con la consapevolezza che l’Europa non è solo un mercato e una serie di istituzioni comuni. Europa è anche un luogo di salvaguardia di diritti fondamentali che non ha uguali in questo momento nel mondo. La pandemia ha fatto sì che si cominci a parlare di una Europa della Salute, è una grossa e importante scommessa... L’Europa ha ancora una scissione al suo interno fra Unione europea e Consiglio d’Europa che dovrebbe vedere una convergenza. Quanto sia necessaria l’abbiamo visto riguardo alla questione del veto ungherese. Si è arrivati ora a parlare di Stato di diritto. Ma se Polonia e Ungheria hanno potuto fare quello che hanno fatto evidentemente lo Stato di diritto non era così al centro di questo progetto politico europeo. Ricongiungere l’operato delle istituzioni che guidano le politiche europee con quello del Consiglio d’Europa e della Corte europea dei diritti dell’uomo è un punto fondamentale. Ci sono stati tentativi di far aderire tutta l’Unione europea al Consiglio d’Europa e in più occasioni ma le divisioni interne lo hanno impedito sino a oggi. Coronavirus, l’appello di Liliana Segre: “Vaccinate i detenuti” di Zita Dazzi La Repubblica, 18 dicembre 2020 La senatrice ha presentato un’interrogazione parlamentare: “In carcere alte possibilità di contagio”. Siamo tutti reclusi in questo anno di pandemia, ma c’è chi è più prigioniero di altri, più esposto a rischi e più abbandonato di tutti. Ed è pensando a questo che la senatrice a vita Liliana Segre firma una interrogazione al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro della Giustizia per chiedere che i carcerati vengano inseriti fra le categorie da vaccinare con priorità contro il Covid. La senatrice è da sempre molto sensibile a questo tema e nelle sue frequenti visite al carcere milanese di San Vittore ha sempre ricordato con riconoscenza come i detenuti furono gli unici che salutarono gli ebrei che venivano avviati ai treni per Auschwitz, nella Milano indifferente alla sorte di tante persone innocenti, fra le quali c’erano anche Segre, 13 enne, e suo padre Alberto. Segre ha notato che il vaccino verrà somministrato in via preventiva al “personale medico e infermieristico, alle persone di età superiore a sessant’anni, ai malati cronici e affetti da più patologie, ad insegnanti e forze di polizia e comunque a quanti vivano o lavorano in condizioni in cui è impossibile assicurare il distanziamento sociale” ma sottolinea che “appare altresì necessario comprendere anche le persone affette da fragilità o comunque in condizioni tali da comportare un’elevata complessità assistenziale, nonché beneficiarie dell’amministrazione di sostegno”. E ricorda che “nelle circa 200 carceri italiane vivono e lavorano oltre 100.000 persone, oltre a detenuti e detenute, anche operatori di polizia penitenziaria, personale socio-sanitario, amministrativo e di direzione”. Nell’interrogazione Segre assieme ai senatori Loredana De Petris e Gianni Marilotti evidenzia che secondo i “dati forniti dal ministero della Giustizia e ripresi dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e dall’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane, risultavano a metà dicembre 2020 1.023 persone contagiate, per lo più asintomatiche, di cui solo 31 ospedalizzate. Mentre fra il personale amministrativo e gli agenti di polizia penitenziaria risultano rispettivamente 810 e 72 contagiati”. Le conclusioni sono chiare: “Appare drammaticamente evidente come il carcere, nonostante le misure predisposte per il contenimento, sia uno dei luoghi in cui sono più alte le possibilità di contagio e diffusione, anche all’esterno, del contagio stesso” e quindi la richiesta è che anche i detenuti vengano vaccinati oltre a “personale di polizia penitenziaria, in quanto personale delle forze dell’ordine, previsione che per altro non tiene adeguato conto del fatto che lo Stato ha un preciso obbligo di garanzia nei confronti delle persone che sono affidate alla sua custodia durante tutto il periodo della detenzione negli istituti di pena”. Oltre a chiedere se il presidente Conte e il ministro Bonafede “non ritengano urgente la predisposizione di un piano vaccinale per detenuti e personale che lavora nelle carceri”, Liliana Segre e i due collegi senatori chiedono “se non si ritiene altresì che, proprio per i rischi congeniti, l’insieme delle persone che vivono e lavorano nelle carceri debbano essere inserite sin dall’inizio fra le categorie con priorità sottoposte alla campagna di vaccinazione”. “Perché non posso più abbracciare il mio papà?” di Rita Bernardini Il Riformista, 18 dicembre 2020 La domanda innocente di una bambina alla madre. Suo padre è detenuto a Tolmezzo, il supercarcere invaso dal Covid. Ecco due lettere che descrivono meglio di uno studio l’affettività negata a chi ha un genitore detenuto. La prima l’ho ricevuta il 15 dicembre da una ragazza che oggi ha 22 anni. Quando suo padre era detenuto aveva solo 11 anni. Lo incontrai nel 2010 quando era ristretto nel carcere di Messina e io ero deputata. Rimasi sconvolta perché a quest’uomo, invalido, avevano dato una carrozzina troppo larga per muoversi nella cella stretta ove erano sistemati altri 5 detenuti. Per andare nello squallido gabinetto era costretto a strisciare per terra per poi a fatica arrampicarsi sulla tazza del wc. In aula a Montecitorio presi la parola per dire a un allibito Ministro della Giustizia: “voi costringete un disabile in carrozzina (peraltro divenuto disabile a seguito del trattamento ricevuto in carcere) a strisciare per terra per andare in bagno!”. Anni dopo, quando il padre era stato scarcerato, andai a casa sua, in un paesino sperduto della Campania. Trovai una famiglia splendida: “lui”, che si stava riprendendo dal trauma della detenzione; la moglie, una giovane e colta donna che gli era stata a fianco nonostante le distanze e i pochi mezzi; le tre figlie tutte studentesse a pieni voti, tra le quali la ragazza che mi scrive oggi e che il giorno del nostro incontro aveva 15 anni. Se papà è in carcere e tu hai solo 11 anni “Non so se si ricorda di me. Avevo solamente quindici anni quando venne a trovare me e la mia famigliola. Lei è stata ed è tuttora un punto di ispirazione, una persona che non smetterò mai di ringraziare per quello che ha fatto e che non smetterò mai di ammirare, perché vedo che continua a combattere una battaglia infinita contro quelli che sono gli ORRORI delle carceri italiane. Quando penso di averLa incontrata (insieme al carissimo Marco Pannella) e abbracciata al tempo, mi si riempie il cuore di orgoglio, di gioia, di forza perché so che qualcuno che crede nei propri puri ideali c’è ancora. So che una categoria abbandonata, giudicata e spesso condannata ingiustamente può trovar voce nella sua! Inarrendevole Rita Bernardini. Il suo nome è una luce per le persone che vedono solo il buio anche quando fuori splende il sole, la sua sola esistenza è una coperta per tutte quelle persone che tremano il freddo, lontano dalle famiglie, dagli affetti, da tutto ciò che amano. Chiusi in un buco dal quale usciranno, secondo i calcoli e la lentezza della “Giustizia” italiana, tra molti, ma molti anni. Ricordo quando io dovevo stare lontana da mio padre. Era proprio la sera della vigilia e quando vedevo tutto il mondo festeggiare insieme, io me ne stavo buttata sul divano a stringere lettere e caramelle ricevute da quel posto che volevo demolire con tutta me stessa. Volevo solo riaverlo tra le braccia. Volevo ricevere il suo affetto e dormire tra le sue mani gigantesche… Poi un giorno, una luce. Lei. Grazie. Non la dimenticherò mai. La abbraccio immensamente forte e spero di poterla ancora incontrare”. L’altra lettera è stata spedita il 13 dicembre da E.D.R., una madre con una bambina piccola il cui padre è ristretto nel supercarcere di Tolmezzo ove si è sviluppato un focolaio che ha contagiato pressoché tutti i detenuti al Covid-19. È una madre consapevole dei diritti del minore e dei danni che subisce la sua bambina a causa del mancato rispetto della normativa italiana e delle convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro Paese. “Mamma, perché non posso più abbracciare Papino?” “Oggi è una data come tante per i soliti personaggi che negano l’esistenza di problemi importanti. Un’ulteriore sofferenza per tutti quei minori che quotidianamente sono intrappolati in un sistema che non gli appartiene e dal quale dovrebbero essere tutelati. Bambini, minori, anime innocenti che si trovano a vivere senza i loro legami fondamentali da mesi e mesi. Affrontare “l’affettività” all’interno di quattro mura e per il poco tempo che è concesso, ha delle ripercussioni sulla crescita del bambino. Ma quando tale situazione, al di fuori delle sbarre, si protrae per tempi che non possono essere definiti, il tutto diventa realmente assurdo. È impossibile pensare di parlare di “legami e relazioni”, quando ci si trova dinnanzi a uno schermo o dietro un telefono. Come si pensa di poter dare delle risposte certe a questi bambini? Come si pensa di poter colmare il vuoto che da quel maledetto mese di marzo è nei loro cuori? Ci siamo trovati in situazioni disastrose. Giorni trascorsi nella tortura, con contagi esponenziali neanche presi in considerazione. Se questo per voi è Giustizia, va bene così. Considerate però, che dietro a ogni detenuto, c’è una famiglia e in questa famiglia spesso ci sono minori. Riuscite a dare una risposta alla domanda posta da mia figlia? Riuscite a dare “una fine” a tutta questa situazione? Come si possano tappare gli occhi, non considerando affatto il futuro del nostro paese: i nostri figli. Ricordiamoci che dentro gli occhi di ogni bambino, c’è spensieratezza, innocenza, semplicità, purezza e, un mare di sogni e desideri di felicità! Il nostro compito è sostenerli e accompagnarli in questo cammino, tutelandoli nella crescita. Il vostro, è quello di restituirgli il diritto di avere un padre o una madre e poterseli vivere con relazioni stabili. È previsto da una legge dello Stato, non solo da diversi articoli della nostra Costituzione. L’art. 28 dell’Ordinamento penitenziario prevede infatti che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. Piccoli spacciatori: due terzi finiscono in galera di Aldo Torchiaro Il Riformista, 18 dicembre 2020 Il deputato di +Europa Riccardo Magi ha presentato una proposta di legge per depenalizzare, che inciderebbe anche sul sovraffollamento. De Raho: la legalizzazione andrebbe contro le mafie. Giustizia ingolfata e sovrappopolazione carceraria si devono alla medesima matrice, a un’unica causa: la criminalizzazione dei cannabinoidi. È quanto si evince dal confronto in commissione Giustizia alla Camera, dove ieri sono state prese in esame due proposte di legge, tra loro antitetiche, che insistono sulla riforma dell’art. 73 del testo unico sulle droghe. L’articolo che segna il motivo principale per cui in Italia si finisce in carcere: la detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti. La pdl a prima firma di Riccardo Magi, Più Europa, punta a depenalizzare il possesso di droghe leggere. Ridurre le pene e rafforzare l’attenuante della lieve entità, che diventerebbe una fattispecie autonoma. E decriminalizzare la coltivazione domestica ad uso personale: la legge Magi sancirebbe che non è punibile in assoluto, seguendo la giurisprudenza più recente espressa anche dalle sezioni unite della Cassazione. “Una soluzione che la maggioranza, con M5S e Sel più convinti, e una parte di Pd e Iv, considera con favore. È a loro che rivolgo il mio appello - dice Magi - Spero in una riforma coche riconosca il fallimento storico dell’approccio repressivo”. La proposta di Molinari, al contrario, aumenterebbe la pena per l’aggravante dello spaccio. Prevede l’inasprimento persino per il “fatto di lieve entità”, che a questo punto culminerebbe in un minimo della pena paradossalmente più alta del minimo altrimenti previsto. L’obiettivo della Lega è palese: chiunque ceda anche solo cannabis, deve andare in carcere. Ma il dibattito in commissione ha permesso al Parlamento di acquisire dati incontrovertibili nel corso delle audizioni, tutte assai eloquenti. Per vederci chiaro il legislatore ha infatti chiesto lumi alle tre autorità più autorevoli in materia: Antonino Maggiore, direttore centrale per i servizi antidroga preso il Ministero dell’Interno, il Procuratore Generale Anti-mafia Cafiero De Raho e Mauro Palma, Garante dei detenuti. I numeri parlano chiaro più delle parole: in merito ai reati di droga di lieve entità negli ultimi cinque anni - considerando dal 2016 al 30 novembre scorso - sono state effettuate 92.989 operazioni antidroga per cessione o detenzione ai fini di spaccio di 125.210 responsabili, dei quali 83.534 in stato d’arresto. Dell’elencazione voce per voce si è fatto carico il Ministero, tramite il direttore dell’antidroga Maggiore: “L’attività di contrasto estesa a tutto il settore stupefacenti ha portato a 109.167 operazioni di polizia, alla denuncia per trafficanti e spacciatori di 155.772 soggetti. Tra questi 107.873 sono in stato di arresto. Anche in presenza di un piccolo spaccio le forze di polizia procedono all’arresto del responsabile in misura più che doppia rispetto alla denuncia a piede libero, a riprova di un ampio ricorso alla misura cautelare”, ha concluso Maggiore. A prescindere dalla reale pericolosità sociale, la macchina della giustizia tritura indistintamente tutti. Lo sottolinea anche il Garante dei detenuti, Palma: “Oggi i numeri dei detenuti sono elevati nonostante i provvedimenti recentemente adottati. Per questo la concezione di una possibile gradazione di intervento dello Stato è a mio parere un elemento di valore” tanto più che “il 29,7% dei carcerati è colpevole di reati inerenti allo spaccio di sostanze stupefacenti”. Quasi il trenta per cento, circa un terzo di chi affolla i limitati spazi carcerari è dentro per reati connessi alla detenzione a fini di spaccio. Specifica Maggiore: “Le denunce a piede libero per piccolo spaccio sono pari al 31% del totale. Ciò vuol dire che nel 69% dei casi le polizie arrestano responsabili anche di situazioni di lieve entità. Il dato percentuale sembra tale da rendere non essenziale un ulteriore irrigidimento del sistema con riguardo una misura pre-cautelare dell’arresto”. Consonante il procuratore generale antimafia Cafiero de Raho, quando accenna al fatto che con una qualche forma di legalizzazione ci sarebbe una fetta importante di mercato che verrebbe sottratto alle organizzazioni criminali. Detenuti a 3 anni, una vergogna italiana di Susanna Marietti Left, 18 dicembre 2020 La sicurezza non si garantisce tenendo in galera le donne responsabili di piccoli reati e i loro figli. Eppure sono ben 34 i bambini con meno di 3 anni che vivono in stato di detenzione con le madri. Ecco cosa si potrebbe fare per risolvere questa situazione senza separarli. Le carceri non sono un luogo sano, per nessuno e in nessuna parte del mondo. Meno che mai possono esserlo per dei bambini. La salute è qualcosa di complesso, che non può ridursi alla semplice assenza di malattia. L’autentico concetto di salute rimanda a un benessere psichico, fisico e sociale complessivo, che abbraccia molti aspetti della vita della persona e certo l’ambiente penitenziario non può garantire a un infante. Le carceri non sono un luogo sano, tanto meno in tempi di pandemia. Negli Usa alla fine di ottobre si contavano 1.122 morti tra la popolazione detenuta e 42 tra i membri del personale penitenziario. Dei 100 maggiori focolai di tutti gli Stati Uniti, ben 90 si trovavano nelle carceri. La politica statunitense dell’incarcerazione di massa e della severa punizione a ogni costo non si è fermata neanche davanti alla tragedia. In Italia per fortuna le cose sono andate diversamente, ma ciò non significa che non vi siano pericoli e che non sia urgente fare spazio per poter gestire tutte le misure sanitarie e preventive che in questi mesi abbiamo imparato a conoscere. Oggi in carcere con 53.266 persone detenute vivono anche 34 bambini. All’alba della pandemia, alla fine del mese di febbraio 2020, le persone detenute erano 61.230 e i bambini 59. Tutto ciò per una capienza ufficiale di 50.568 posti, che si riduce di varie migliaia di unità se consideriamo le sezioni in manutenzione e non utilizzate. Al 9 dicembre sono 1.049 le persone contagiate dal Covid-19, di cui ufficialmente solo 90 sintomatiche (41 di esse sono ricoverate in ospedale). Gli operatori penitenziari positivi al virus sono 853. Non è un caso che non si riscontrino contagi nelle carceri minorili, dove i posti disponibili sono 536 a fronte di 305 presenze. I 34 bambini in carcere al seguito delle loro madri si trovano in 13 strutture in giro per l’Italia. A Torino ve ne sono 5. Circa un mese fa è uscita la notizia che due bimbi in questo istituto erano positivi al Covid. Se anche nel reparto nido del carcere femminile di Rebibbia a Roma vivono oggi 5 bambini e nell’Icam (Istituto a custodia attenuata per madri) di Lauro in Campania ne vivono 7, in ben 6 istituti (Bologna, Milano San Vittore, Foggia, Lecce, Agrigento e Venezia Giudecca) troviamo un solo bambino. Immaginiamo che la sua giornata sarà ancor più solitaria, ancor meno a misura della sua età, rispetto a quella di chi ha almeno un amichetto con il quale giocare. Soprattutto in questa fase nella quale il carcere è un luogo ancor più isolato: non si entra e non si esce, o lo si fa con estrema difficoltà. Non verrà nessuno - il papà, la nonna o il volontario di qualche associazione - a prendere quel bambino per portarlo fuori a fare un giro se è bel tempo o a seguire qualche attività. Negli ultimi decenni, il numero di bambini nelle carceri italiane è oscillato sempre attorno alla cinquantina, vedendo come margini superiori e inferiori della curva gli 83 della metà del 2001 e i 28 della fine del 2014. Quando nel lontano 1975 il legislatore previde nella legge sull’ordinamento penitenziario che la madre detenuta poteva scegliere se portare o meno con sé in carcere il proprio figlio di età inferiore ai tre anni, fece a mio parere una scelta di buon senso. Ci sono situazioni nelle quali, tristemente, l’ingresso del bambino in carcere assieme alla propria madre è il male minore rispetto alla loro separazione. Io credo che il principio del superiore interesse del fanciullo imponga che gli ordinamenti siano dotati della possibilità di non separare il figlio piccolo dalla propria madre detenuta. In questo senso, l’auspicio secondo il quale mai più un bambino dovrebbe varcare la soglia di un carcere va valutato in profondità e nella maniera più corretta. Non credo che nessuna delle due soluzioni normative in astratto possibili siano effettivamente perseguibili. Né quella che imporrebbe alla madre detenuta di lasciare il bambino sempre e comunque fuori dal carcere; né l’altra, quella di togliere alla pubblica autorità la possibilità di punire con il carcere una donna con giovane prole, che non sarebbe pensabile di codificare a livello normativo e che configurerebbe una categoria di persone a priori protette per legge. Quel che si può e si deve fare è lavorare caso per caso alle storie di vita e giudiziarie delle donne che incontrano il carcere. La legge cosiddetta Finocchiaro del 2001, entrata simbolicamente in vigore 1’8 marzo di quell’anno, e le modifiche introdotte dieci anni dopo con la legge 62 del 2011 permettono, insieme alle altre opportunità fornite dall’ordinamento, di trovare strategie virtuose per evitare che donne autrici di piccoli reati frutto del contesto di marginalità sociale di provenienza piuttosto che di radicate scelte criminali debbano scontare la pena in carcere costringendo anche il proprio figlio dentro una cella. Chi conosce le carceri sa che quando si entra in un istituto o in una sezione femminile si prova, ancor più che in un carcere maschile, una sensazione di indignato stupore nello scoprire che la detenzione è lo strumento che la nostra società sceglie di utilizzare verso coloro che lì si incontrano. Ma possibile che non abbiamo altre idee? Possibile che categorie di persone così affaticate e vuote di pericolosità sociale vengano messe in galera e abbandonate a sé stesse? Possibile che non siamo stati in grado di affrontare il problema con strumenti sociali piuttosto che di repressione penale? È di pochi giorni fa il racconto del Garante regionale dei diritti dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, che riporta come una giovane donna in detenzione domiciliare con le sue due bambine presso la casa-famiglia protetta di Roma si sia vista rifiutare l’affidamento in prova al servizio sociale a quattro mesi dalla fine della pena. La donna, condannata per piccoli furti, ha sempre tenuto un comportamento irreprensibile durante l’esecuzione penale. E allora perché il rigetto da parte del Tribunale di sorveglianza? L’affidamento in prova al servizio sociale è una misura alternativa più aperta rispetto alla detenzione domiciliare e decisamente più colma di significato. Invece di dover stare chiusi in casa a fare niente, consente di programmare una giornata piena di senso per il futuro ritorno in società. Permette di lavorare, di seguire un corso di formazione professionale, di andare a scuola, di recuperare i legami famigliari. Tutto questo sotto lo stretto controllo dei servizi sociali e con la supervisione del magistrato. Nessuna libertà totale, ma semplicemente un modo più ragionevole per scontare quella stessa pena e per poter, nel caso concreto, garantire una vita migliore a due bambine. Ben vengano dunque eventuali miglioramenti delle leggi oggi in vigore. Ma ben venga soprattutto un cambiamento culturale di fondo, che veda la pena carceraria veramente come misura estrema. Quei 34 bambini che oggi vivono in una cella potrebbero probabilmente uscire ad uno ad uno, con misure diverse e percorsi individualizzati per le loro madri. Il problema dei bambini in cella è figlio del problema più generale di una cultura che guarda al carcere come alla sola punizione possibile e che per tutto il resto grida all’incertezza della pena. La sicurezza non si difende tenendo in galera una donna con piccoli reati e i suoi bambini. Si difende creando per lei un autentico percorso di vita, che le permetta di non tornare a delinquere e di costituire un punto di appoggio materiale ed educativo per i suoi figli. Il lockdown dei diritti e delle responsabilità di Giulio Cavalli Left, 18 dicembre 2020 La pandemia, doveva essere la prova che in un mondo globale non ci si può disinteressare di ciò che accade agli “altri”. Invece il nostro mondo si è ristretto ancora. E gli “altri” sono stati fatti sparire: di detenuti, poveri, diseredati e calpestati sembra che non sia il caso di parlare. Forse dovremmo avere il coraggio di ammettere che questo 2020 è stato un anno nero per i diritti, che si fa una fatica immane a parlarne e a farne parlare, che perfino nelle pagine sempre assetate dei siti d’informazione e delle bacheche di politici sembra che non ci sia spazio per discutere di diritti calpestati e di dignità da preservare. È un movimento sottile che si è infilato sottopelle anche dei cosiddetti “attenti”, quelli che comunque l’empatia l’hanno sempre esercitata con gli ultimi e che oggi in nome dell’emergenza si ritrovano schiacciati dalla morsa della pandemia che infligge prove sanitarie, economiche, sociali, lavorative. Ci si aspetterebbe che nel momento in cui una buona fetta di popolazione rischia di finire tra gli ultimi per la crisi provocata dal Covid scoppiasse dappertutto una rinnovata empatia, una coinvolgente solidarietà e un nuovo movimento di massa che riesca a tenere aperti gli occhi su ciò che accade “fuori” da noi, al di là della nostra ristretta cerchia di conoscenze e dei nostri abituali contatti sociali. E invece, per ora, poco o niente. “Occupati di sopravvivere e non sprecare energie e tempo per occuparti dei sopravviventi” è il comandamento di questo 2020: la lezione risuona invertita. Se davvero il coronavirus ci ha insegnato che può capitare a tutti di ritrovarsi in condizioni che non avremmo mai sospettato nemmeno nei nostri momenti più bui la reazione spropositata da parte dei più è la solita visione egoriferita che vede nei diritti degli altri la causa della contrazione (se non addirittura uno scippo) dei nostri diritti. Doveva essere la prova che siamo un mondo globale che non può permettersi di disinteressarsi di quello che accade dall’altra parte del mondo e invece con la pandemia il nostro mondo si è ristretto, ancora, ancora una volta. Si è ristretto fisicamente nelle quarantene obbligate che ci hanno costretto a guardare nelle minuscole case di moltissimi italiani ma si è ristretto anche dal punto sociale, sentimentale e dell’ampiezza del pensiero. Lo scopo è uscirne vivi, uscirne in piedi e uscirne “nonostante” gli altri, mica insieme agli altri. Una sorta di sovranismo al cubo, fuori dall’ideologia politica ma perfettamente aderente al sovranismo politico che attraversa il mondo, per cui l’unica vera patria è rio e al massimo i parenti più stretti, quelli che sono stati anche certificati e burocratizzati dal termine “congiunti”. Se prima come spauracchio funzionava l’immigrazione (pompata e raccontata sovradimensionata) ora il virus svolge lo stesso ruolo senza nemmeno bisogno di acrobazie linguistiche: occupati di te, pensa a te, pensa ai tuoi cari, lascia perdere tutto quello che sta lì fuori. Un lockdown delle responsabilità che ci regala un ragionamento infeltrito e localissimo: si sorvola sugli spaventosi numeri di contagi e di decessi nazionali ma si sobbalza se un amico o un vicino contrae il virus. Il tracciamento che non è stato fatto a livello nazionale circola velenoso di quartiere in quartiere per scuoiare l’untore e per rinchiudersi dentro. È un processo che era già iniziato da anni con il federalismo delle responsabilità che ci avevano inoculato lentamente e che ora ha preso a correre: la responsabilità sociale di cui ci sentiamo investiti anni fa si limitava al nostro territorio nazionale (quanto si faticava a scrivere e raccontare delle ingiustizie dell’altra parte del mondo), poi si è ristretta alla propria regione, bastava che quella fosse la locomotiva d’Italia per sentirsi al sicuro e tutelati, poi ha cominciato a bastarci che la nostra città fosse una città tranquilla e che ce frega perfino del resto del territorio regionale, poi addirittura che il nostro quartiere fosse un quartiere tranquillo, perfino che il nostro condominio fosse infine un sereno condominio e ora le dimensioni si limitano al nostro pianerottolo, dentro il nostro appartamento. Tutto il resto è pleonastico, poco interessante, addirittura disturbante: “Mantenete le vostre energie per occuparvi delle vostre cose” è il comandamento generale. Così in questo 2020 spariscono tutti gli altri, ogni volta che si parla di poveri, di detenuti, di diseredati, di calpestati sembra che non sia il tempo e che non sia il caso di scriverne. Occupiamoci di non ammalarci, dicono e così c’è sempre un “ma anche” da sputare di fronte a ogni ingiustizia. “Come possiamo occuparci degli altri se prima non ci occupiamo di noi?”, dicono quelli che vorrebbero indurci al sovranismo dell’io. E la retorica egoistica funziona, eccome se funziona. Il virus ci ha cambiati, sì, e ha cambiato anche la voglia di fare informazione larga: meglio intervistare una schiera di presunti virologi (meglio ancora se sono in netto disaccordo tra di loro) piuttosto che raccontare dei focolai nelle carceri o delle file per il pane. In nome dell’emergenza ci invitano a non occuparci dei diritti degli altri con il solito errore di non capire che quegli altri, prima o poi nella vita, potremmo ritrovarci ad essere noi. E la solita storia, sempre quella, questa volta con l’ombra del virus. E intanto l’empatia muore. E come ci si può occupare di diritti con l’empatia rinsecchita? Con il virus leso il diritto alla difesa di Paolo Becchi e Giuseppe Palma Libero, 18 dicembre 2020 Il deposito della memoria può avvenire soltanto per via telematica: è un rischio. “L’art. 24 della Costituzione definisce la difesa come diritto inviolabile, al pari della libertà personale e di domicilio. Questo era, quantomeno in teoria, fino all’arrivo della pandemia. Nella Fase 1 dell’emergenza il settore del processo civile ha funzionato abbastanza bene con la soluzione della “trattazione scritta”, anche se per l’avvio delle cause si è fatto un favore alle banche obbligando gli avvocati a pagare contributi unificati e marche con strumenti telematici, quindi con commissione bancaria. Regola in vigore ancora oggi. Il processo penale, invece, ha funzionato solo grazie ad una buona collaborazione tra avvocati, giudici e cancellerie. Poi è arrivata la cosiddetta “seconda ondata” e, per quel che riguarda il processo penale, le cose sono peggiorate. Il decreto-legge 28 ottobre 2020 n. 137 ha introdotto una rilevante novità. La memoria difensiva prevista dal terzo comma dell’art. 415 bis del codice di procedura penale può essere depositata “esclusivamente” attraverso il portale del processo penale telematico. Una obbligatorietà che probabilmente resterà in vigore anche dopo la fine dello stato di emergenza, sotto certi aspetti positiva visto che si può fare tutto comodamente dal pc di studio. Se il sistema funzionasse. Infatti, nonostante l’esclusività del deposito telematico, il sistema operativo funziona malissimo e necessita di una procedura di deposito un po’ particolare. Facciamo un esempio. L’imputato riceve la notifica dell’avviso di conclusione indagini e si reca dal difensore di fiducia dopo 19 giorni dalla notifica dello stesso. In extremis, visto che il termine per il deposito della memoria difensiva è di 20 giorni, ma ridursi all’ultimo momento è comunque un suo diritto. Prima del decreto-legge n.137/2020 l’avvocato aveva la possibilità di lavorare anche di notte e all’indomani recarsi in procura per depositare il cartaceo della memoria difensiva, degli allegati e della nomina a difensore di fiducia, ovvero - nel periodo emergenziale fino a ottobre - provvedervi via Pec all’indirizzo comunicato nell’avviso di conclusione delle indagini. Tutto regolare: diritti di difesa garantiti. Oggi, nella pratica, non è più così. Il difensore dell’imputato, anche se già nominato in atti, è costretto a (ri)depositare la nomina a difensore sul portale telematico del processo penale (non via Pec) ed attendere la risposta della procura circa l’autorizzazione formale al deposito della memoria difensiva e suoi allegati. Se l’imputato si recasse dal suo difensore il famigerato diciannovesimo giorno, quand’anche l’avvocato provvedesse subito a caricare la nomina sul portale del ministero, non è detto che il giorno successivo la procura dia il consenso al deposito della memoria. Se trascorresse un giorno in più, l’imputato non perderebbe il diritto al deposito della memoria (può farlo anche dopo), ma il diritto ad essere ascoltato dal Pm in sede di richiesta di interrogatorio. Qualche avvocato con esperienza potrebbe superare questa difficoltà evitando di optare per il rito abbreviato e scegliendo il dibattimento (rito ordinario), ma il problema - in punto di diritto di difesa - resta. Non va meglio il deposito via Pec degli altri atti del processo penale. Il Ministero ha diramato un elenco ufficiale di indirizzi Pec per ciascun distretto giudiziario, ma qualche presidente di Tribunale ha derogato, con propria ordinanza, agli indirizzi del Ministero. Insomma, una giungla. Può accadere infatti che se l’avvocato rispettasse diligentemente gli indirizzi Pec del Ministero e non leggesse le ordinanze dei singoli Tribunali, rischierebbe di vedersi dichiarare l’inammissibilità del proprio deposito via Pec. Con ripercussioni negative sull’imputato e sul diritto inviolabile della difesa. Sulle impugnazioni regna l’incertezza totale: in teoria sarebbe possibile l’invio tramite Pec dell’atto di impugnazione, ma qualche distretto giudiziario ha già fatto sapere che accetterà solo i depositi cartacei. A nostro avviso la soluzione migliore sarebbe quella del doppio binario - telematico e cartaceo - lasciando agli avvocati libertà di scelta. Covid e disabilità, una guida per salvaguardare il diritto alla salute e gestire il rischio contagio di Carmela Cioffi* Ristretti Orizzonti, 18 dicembre 2020 In questo momento di emergenza sanitaria, il rischio che una persona con disabilità venga discriminata nell’accesso alle cure è dietro l’angolo. Del resto già prima della pandemia, i disabili in ospedale erano costretti a districarsi tra macchinari inadatti, personale non adeguatamente formato, attese prolungate, vere e proprie “barriere sanitarie”. Per affrontare la gestione del rischio Covid-19 nelle persone con disturbi del neurosviluppo, con disabilità intellettiva, che vivono in strutture semiresidenziali, residenziali o che si trovano in contesti lavorativi, l’associazione Asmed - Associazione per lo studio dell’assistenza medica alla persona con disabilità e la Società Italiana di Ergonomia e Fattori Umani hanno elaborato una guida ad hoc. Si tratta di indicazioni operative igienico-sanitarie ed ergonomiche messe a punto durante questi lunghi mesi di pandemia da Sars-Cov-2 sulla base dell’esperienza di un gruppo di professionisti che da tempo si dedicano al tema di diritto alla salute e disabilità. La cooperativa “Spes Contra Spem”, da anni impegnata sul fronte dell’assistenza ai disabili gravi e promotrice della “Carta dei Diritti delle Persone con Disabilità in Ospedale”, vuole farsi portavoce del documento, anzi megafono su tutto il territorio italiano, perché non si ripetano più storie come quella di Tiziana, ragazza con disabilità che viveva in una delle case famiglia di ‘Spes contra Spem’, morta nel 2004 in un ospedale romano, sola e inascoltata. Nessuno aveva prestato ascolto ad alcune sue semplicissime richieste, come quella di chiudere una finestra o di abbassare l’aria condizionata. A quali condizioni il caregiver, cioè la persona che si prende cura di una persona disabile, può essere una risorsa per l’ospedale e per la persona stessa? È sempre più necessario pensare a una medicina “su misura”. Cure appropriate significa risposte diverse da costruire nei contesti in cui ci si trova. È necessario cambiare paradigma. Solo qualche esempio: è possibile effettuare il tampone in sedazione a coloro che non potrebbero farlo diversamente, oppure si possono ricercare soluzioni alternative adattate ad ogni singolo caso, sostenibili, ugualmente valide nella diagnosi e nel tracciamento dei contagi (raccomandare pratiche come il tampone salivare); con un posto libero in reparto, è possibile accogliere in ospedale il caregiver assieme alla persona con disabilità sospetto Covid e, in assenza del posto libero, si può predisporre una poltrona letto, creando le condizioni di sicurezza per tutti. Per attuare l’obbligo di distanza fisica e mascherina, nelle strutture semiresidenziali e residenziali, possiamo coinvolgere le persone con disabilità senza imporre necessariamente regole, ma ad esempio giocando a lavarsi le mani dopo averle immerse nella cioccolata, danzando il tango a un metro di distanza e perfino immaginando di essere la Banda Bassotti quando si indossa la mascherina. Sono alcune delle buone pratiche descritte nella Guida, tenendo in equilibrio il diritto alla salute fisica con il diritto alla salute psichica, che deriva dalla possibilità di condurre una vita quanto più possibile simile a quella della popolazione generale. “Se rimettiamo al centro le persone e costruiamo le risposte attorno ai più fragili, agli ambienti di vita e di cura, elimineremo gran parte delle rigidità che sono di ostacolo nell’accoglienza e nell’assistenza di queste persone… i protocolli e le buone prassi verranno di conseguenza”, spiega Luigi Vittorio Berliri, presidente di Spes Contra Spem. Questo lavoro parte dal presupposto che tutte le persone abbiano diritto a una vita dignitosa e ricca. È un dovere di giustizia da parte della società mettere in grado le persone con disabilità di essere curate su una base di eguaglianza e non discriminazione, come è sottolineato anche nella Convenzione delle Nazioni Unite e nella ‘Carta dei diritti delle persone con disabilità’, che traduce i diritti contenuti nella “Carta europea dei diritti del malato”. Cosa proponiamo in concreto con questo documento per le persone con disabilità? In conclusione “i principi pratici” sono: • il diritto a ricevere le cure più adeguate alle loro necessità e al loro stato di salute, su base di eguaglianza con gli altri, e nello stesso sistema di erogazione di tutta la popolazione. • il diritto a non subire discriminazioni per la loro condizione di disabilità. • la necessità di rappresentanza dei loro bisogni negli organi decisionali per la gestione della pandemia, a livello regionale e nazionale. • Il principio delle residenzialità a misura di persona, di nucleo familiare, che dovrebbe essere un elemento fondante nella gestione del rischio da contagio Covid-19, avviando così tutte le riorganizzazioni possibili nel breve e medio periodo, seguite da una riforma generale nel lungo periodo. • I principi e metodi ergonomici del design for all - “progettazione universale” guida agli interventi di progettazione, riprogettazione e accomodamento degli ambienti di vita e di cura, degli arredi, degli oggetti d’uso quotidiano. • il diritto di vedere applicato nella prevenzione, così come nei percorsi clinici, diagnostico terapeutici, il principio dell’accomodamento ragionevole, quali: - esecuzione di test di provata affidabilità, che comportino una minor invasività ed una maggiore tolleranza (salivare, nasale superficiale), in sostituzione del tampone nasofaringeo e in caso di indisponibilità, adottare procedure di prevenzione adattate; - presenza di accompagnatore durante la degenza ospedaliera; - rendere possibili e sicure le visite dei familiari nelle residenze; - rendere possibili e sicure le uscite delle persone con disabilità dalla residenza, nel rispetto delle misure di prevenzione necessarie; - rendere possibili e sicure le normali attività delle persone con disabilità, alla stregua della popolazione generale; - organizzare uno spazio vitale per le relazioni negli ambienti in cui prestare l’assistenza in caso di contagio da Sars-CoV-2 in condizioni asintomatiche e sintomatiche; - priorità nella somministrazione del vaccino, quando disponibile, alle persone con disabilità residenti nelle RSD, nelle case famiglie e agli operatori che se ne occupano. *Ufficio Stampa Spes Contra Spem Detenuti del Triveneto positivi al Covid-19 destinati a Rovigo, la Fp-Cgil chiede un confronto rovigooggi.it, 18 dicembre 2020 La Fp-Cgil chiede un incontro con Zaia per parlare del carcere di Rovigo, invoca anche l’intervento del Prefetto. Secondo il Sindacato il piano operativo per la prevenzione e il contenimento emergenza sanitaria Covid-19 negli Istituti Penitenziari. Emergenza Covid-19 che non risparmia i Penitenziari, quello di Rovigo è stato individuato come Istituto “contenitore” di detenuti positivi al Covid 19 provenienti da tutto il Distretto del Triveneto. Gianpietro Pegoraro, Coordinatore Regionale Veneto Fp-Cgil Penitenziari, il segretario generale Fp-Cgil, Davide Benazzo e Franca Vanto, segretaria regionale della Fp-Cgil Veneto, sottolineano che sono 34 i posti per detenuti positivi covid-19 classificati di alta e media sicurezza, nella Casa Circondariale di Rovigo. “I posti sono collocati all’interno di un reparto detentivo dove di fronte allo stesso sono ubicati detenuti non soggetti a positività al Covid, e l’unico divisore è costituito da una rotonda con due cancelli a lati che separano i due reparti. Vi è un’unica via di accesso per poliziotti e non, poiché gli stessi usano per salire e scendere la stessa rampa di scale, identica cosa accade anche per i detenuti, che hanno anch’essi un’unica rampa di scale per salire e scendere”. Una situazione potenzialmente pericolosa sotto il profilo sanitario “Accanto al piano operativo si apprende, in questi giorni di una nota della Regione Veneto del 10 dicembre 2020 n. Prot. 525612, con la quale vengono individuati, presso il reparto interno “Sai” ulteriori 10 posti per contenere detenuti positivi al Covid-19. Ora non è ben chiaro se quest’ultimi 10 posti ricavati vanno sommati ai 34 posti inizialmente ricavati. Come non è chiara il modo con cui si effettua il servizio di sorveglianza ai detenuti collocati al Sai e di come si deve procedere qualora le condizioni dei detenuti positivi al Covid-19 peggiorassero”. I Sindacati lamentano il fatto di non essere stati coinvolti dall’Amministrazione Penitenziaria “pur sapendo che in entrambi i casi vi è una forte carenza di personale, di polizia e infermieristico. Ci preme far notare che non vi è un protocollo di prevenzione a favore di tutto il personale, poliziotti e infermieristico, condiviso da entrambe le Amministrazioni. Non vi sono direttive per il personale di polizia di come si deve comportare all’interno di un reparto di detenuti positivi e di come usare determinati Dpi e nel loro smaltimento. Pieno d’incertezze è il modo con cui dovrà funzionare il reparto Covid, oltre alla sua collocazione che già abbiamo sopra riportato vi è anche il problema dell’avvicendamento del personale di polizia penitenziaria, che come prevede il vigente AQN. Esiste anche il problema dei tamponi da far svolgere a tutto il personale del carcere del carcere Rovigo, in particolar modo ai poliziotti ed ai detenuti, che vengono svolti, rispetto al personale infermieristico, con ritardo di circa due mesi tra un tampone e l’altro. La mancanza di personale infermieristico, che non è garantito nell’arco delle 24 ore giornaliere, come mancano apposite apparecchiature di ventilazione qualora il paziente abbia difficoltà respiratorie. Va anche in questo caso evidenziato che la struttura ospedaliera di Rovigo, rispetto altre strutture risulta essere insufficiente e non attrezzata a contenere al proprio interno, reparto Covid, detenuti classificati AS. Questo pone il problema del piantonamento da parte del personale di polizia penitenziaria, qualora uno di essi viene ricoverato. Per quanto sopra esposto si chiede che sia aperto un confronto”. La Fp-Cgil chiede un intervento anche del Prefetto di Rovigo, Maddalena De Luca, del dg dell’Ulss 5 Polesane, Antonio Compostella e del sindaco di Rovigo, Edoardo Gaffeo, “si chiede un intervento affinché il piano oggetto e la nota della Regione non siano calate all’interno del carcere di Rovigo, ma si deve essere fatta una valutazione molto più approfondita sia da parte del Prap, che dalla Sanità, al fine di individuare altre soluzioni all’interno del Distretto del Triveneto, che non ricadano in un unico Istituto l’ingrato incarico di ospitare nel proprio interno detenuti positivi di altri Istituti, oltre ad un confronto sulla situazione organizzativa per far fronte ad eventuali positività che si possono riscontrare e/o nuovi entrati in carcere”. Padova. Covid, il serial killer Bilancia: scontava 13 ergastoli di Edoardo Pittalis Il Gazzettino, 18 dicembre 2020 È morto a causa del Covid a Padova il serial killer Donato Bilancia, 69 anni, condannato a 13 ergastoli per aver commesso una serie di 17 omicidi fra il 1997 e il 1998 in Liguria e nel basso Piemonte, in un arco di tempo di 6 mesi. Oltre agli ergastoli Bilancia doveva anche scontare 16 anni di reclusione per il tentato omicidio di Lorena Castro. Uno dei serial killer più spietati nella storia criminale italiana sparisce nella notte della pandemia. Ha ucciso 17 volte in sei mesi, tra l’autunno del 1997 e la primavera del 1998, tra la Liguria e il Piemonte. Ha lasciato una scia di orrore, seguendo i fantasmi malati di una vita aggrappata al denaro e al sangue. Per molti anni Donato Bilancia era stato un ladro di quelli che non tradiscono, un giocatore d’azzardo che aveva sempre pagato i debiti. Una giovinezza tra arresti e evasioni, bische clandestine e cattive compagnie. Poi di colpo a quasi cinquant’anni si trasforma in un mostro imprendibile che uccide a ripetizione e sfida le forze dell’ordine. Quando lo arrestano, davanti all’ospedale di Genova, non reagisce, allunga le braccia per le manette e una volta davanti al giudice incomincia a parlare, racconta tutto, anche quello che gli inquirenti non sanno, si incolpa di un delitto che era già stato archiviato come suicidio. Donato Bilancia nasce a Potenza nel 1951, figlio di un impiegato che trasferisce la famiglia prima ad Asti, poi a Genova. Un padre duro che espone sul balcone il materasso del figlio che fa pipì a letto: “Ricordo che morivo di vergogna”, scriverà dal carcere in una serie di lettere allo psichiatra veronese Vittorino Andreoli. Un rapporto difficile che Donato rompe presto, lascia gli studi, fa il barista e il meccanico, ma soprattutto fa il ladro e si fa chiamare Walter per rifiutare anche il nome di famiglia. Lo arrestano un paio di volte, fugge, ci ricasca. Esce indenne da un brutto incidente stradale, dopo giorni di coma. Qualcosa si è rotto, ma per la polizia è ancora un ladro di quelli con un loro codice. Però si rompe un altro pezzo della sua vita, il fratello Michele in un giorno del 1987 si toglie la vita e lo fa in un modo terribile: stringe tra le braccia il figlioletto di quattro anni e si getta sotto il treno che arriva in stazione a Genova. Poi nell’ottobre del 1998 Bilancia incomincia il suo cammino di serial killer, uccide il biscazziere Giorgio Centenaro che lo avrebbe imbrogliato al tavolo da gioco. Bilancia lo soffoca a mani nude, gli copre la bocca con un nastro adesivo e si allontana. Gli inquirenti archiviano frettolosamente come suicidio. Pochi giorni dopo uccide una coppia di biscazzieri, marito e moglie; questa volta usa la pistola, una calibro 38, e porta via 13 milioni e mezzo di lire, la sua posta. Ormai è incontrollabile nella furia omicida, gli basta vedere una divisa per sparare e ammazzare: Giangiorgio Canu viene ucciso solo perché è vestito da metronotte. Ma nessuno ancora ha capito che quei delitti sono collegati, si pensa a bande che vogliono il controllo del racket. Il 27 ottobre la calibro 38 spara di nuovo: due orefici, marito e moglie, sono rapinati e ammazzati nella loro casa; il cambiavalute Luciano Marra è ucciso e derubato di 45 milioni di lire. Uccide un altro cambiavalute a Ventimiglia e per la prima volta un testimone parla di una Mercedes nera. Ma ancora le indagini non collegano queste morti e Bilancia è abile a cambiare obiettivi. A marzo si trasforma nel killer delle prostitute: prima spara a un’albanese, pochi giorni dopo a un’ucraina. Si apparta con un transessuale, Lorena Castro, che riesce a fuggire dalla macchina proprio mentre sopraggiungono due metronotte. Bilancia spara e li ammazza, insegue Lorena e le spara. La crede morta e passa a dare il colpo di grazia ai due vigili notturni. È il suo primo errore: Lorena sopravvive, lo descrive, indica con precisione il modello dell’auto, una Mercedes 190 di colore nero. Quando spara a una prostituta nigeriana, il RIS di Parma accerta che a uccidere è sempre stata la stessa pistola. C’è qualcosa che non funziona nelle indagini, la rete è troppo larga, Bilancia ha spazi per muoversi e si trasforma un’altra volta: ora sale sui treni nelle tratte ligure a caccia di prostitute. Il mese di aprile spara e uccide tre volte, nei bagni del vagone, sfonda la porta, violenta, ammazza, scappa. Per completare uccide anche un benzinaio che voleva fargli pagare il pieno. Si è anche disfatto della Mercedes, l’ha venduta a un amico che si ribella alle troppe multe che gli tocca pagare. Bilancia aveva un’abitudine, in autostrada si accodava all’auto che passava al casello e transitava senza pagare. Dalle foto della targa è facile risalire all’auto segnalata in tante scene del crimine. Manca il dna dell’assassino, ci pensano due carabinieri in borghese che seguono Bilancia in un bar, aspettano che beva il caffè e sequestrano la tazzina. Lo processano per 17 omicidi e un tentato omicidio, lo condannano a 13 ergastoli e a 16 anni per il tentato omicidio. Il suo avvocato Barbara Cotrufo fa capire che forse l’ergastolano aveva visto nella malattia il solo modo per uscire da una vita sbagliata. Padova. Morto di Covid Donato Bilancia. “Dio mi dia un attimo per chiedere scusa” di Elena Livieri e Simonetta Zanetti Il Mattino di Padova, 18 dicembre 2020 Donato Bilancia, il serial killer condannato a 13 ergastoli per diciassette omicidi e 16 anni per un tentato omicidio, è morto per Covid nel carcere Due Palazzi di Padova dove scontava la pena. I delitti attribuiti a Bilancia sono avvenuti tra il 1997 e il 1998, tra Liguria e Piemonte, le vittime venivano scelte con apparente casualità. Dopo aver scontato i primi anni di prigionia al Marassi a Genova, Bilancia è stato trasferito a Padova. Il “mostro dei treni” o “killer delle prostitute” come veniva definito, fu arrestato nel 1998: a tradirlo l’auto usata per gli spostamenti. Era nato a Potenza nel 1951. Era positivo da un paio di settimane e chi lo conosce sostiene che abbia scelto di lasciarsi andare. In carcere a Padova - Giusto un anno fa Bilancia aveva avuto un momento di notorietà, quando prese parte al concerto di Natale in carcere. Dopo mezzo secolo, come raccontò lui stesso, aveva ripreso in mano la chitarra. Dopo aver suonato diversi brani con altri componenti della band del Due Palazzi, eseguì in assolo Imagine di John Lennon. In quell’occasione Bilancia aveva potuto raccontare qualcosa della sua esperienza in carcere: “Il primo periodo” ricordava, “è stato il più duro: dodici anni in isolamento. Non potevo uscire, non potevo vedere nessuno, ero solo in una stanza vuota tutto il giorno. Per passare il tempo facevo un po’ di ginnastica”. Poi l’isolamento è terminato, e per Donato Bilancia è iniziato un nuovo percorso. Frequentava tutte le attività, che giudicava molto utili: “Possiamo incontrarci, parlare e fraternizzare tra noi” raccontava, “si instaurano delle relazioni. E questo anche con i volontari che vengono qui. Quando ho ricominciato a studiare la professoressa che mi seguiva ha preteso che durante la nostra lezione la porta della mia cella rimanesse aperta. Ci sono voluti tre anni, ma alla fine è stata lei a volerla chiudere. Queste attività ci aiutano a non morire dentro”. Bilancia in carcere si è anche diplomato in ragioneria e ha ottenuto la laurea in Progettazione e gestione del turismo culturale. Oltre a suonare la chitarra, frequentava anche il corso di teatro, come ricorda Ornella Favero, direttrice della rivista Ristretti Orizzonti, che di Bilancia dice: “Sembrava una persona disperata”. Il ricordo di don Pozza - “È proverbiale che l’erba cattiva non muoia mai. “Vècio, stai tranquillo e sereno: l’erba cattiva non muore mai. Ci rivedremo qui presto!” Invece, stavolta, è morta: ammesso che sia nata cattiva. Restano queste le mie ultime parole dette a Donato Bilancia, l’uomo che negli anni Novanta ha reso la cronaca nera italiana colore pece da quanto nera l’ha fatta diventare”: inizia così l’intenso ricordo che ieri pomeriggio don Marco Pozza, sacerdote del carcere Due Palazzi, ha dedicato a Bilancia. “L’ho conosciuto dieci anni fa, sepolto dentro una cella d’isolamento” ricorda don Pozza, “restio, inselvatichito, feroce nello sguardo. Le prime volte, in cella, mi impauriva, mi allontanava, mi respingeva. S’arrabbiava e urlava senza un apparente motivo. Un giorno, poi, mi chiese il perché della mia strana scelta di dargli del lei, di chiamarlo signor Donato, di non rivangargli quel passato omicida così ingombrante. “Tu mi vuoi far crepare, belìn” mi disse alla genovese”. Lo stesso prete ricorda quando, da piccolo, si guardava le spalle in stazione e in treno, impaurito dalle cronache dei Tg che parlavano del “mostro dei treni” “Non potevo immaginare che, un giorno, l’avrei (ri)trovato nel freddo della nostra galera di Padova. Da uomo conoscevo la bestia, da prete ho avuto la grazia di toccare l’angelo che si stava lentamente risvegliando. A colpi d’amore, di rimorsi, di vergogna. Di intercessioni”. Tante le persone, sottolinea don Pozza, che hanno “scommesso” su quell’uomo, per recuperare un frammento di umanità. Sforzo ripagato. “Il suo male fatto lo conoscono tutti, il suo bene fatto” rileva il prete, “resterà nel cuore di chi l’ha accompagnato. E rimarrà sepolto, come voleva che restasse, com’è rimasto lui nel cuore dell’Italia (quasi) intera”. La memoria delle vittime, di una in particolare, ha tenuto in ostaggio ben più del ferro e del cemento Donato Bilancia in questi anni: “Andrò all’inferno” diceva a don Pozza, “ma prego Dio che mi dia un istante di tempo per passare da loro a chiedere scusa”. Sulla sua strada - L’immagine che restituisce chi lo ha incontrato in carcere è profondamente dissonante rispetto all’efferato serial killer che ha seminato morte e disperazione: “Da tre anni si era unito al laboratorio teatro carcere” racconta Maria Cinzia Zanellato “Donato era un paradosso vivente. All’inizio era stato molto difficile entrare in contatto con lui, un uomo freddo sul piano emozionale. Gli avevo spiegato che il teatro per noi non è esibizione ma consapevolezza. Con il tempo aveva cominciato a relazionarsi con gli altri e nel gruppo aveva trovato un’altra parte di sé, aveva trovato il modo di esprimere la sua umanità. Oggi era un anziano con una portata di vita dal peso enorme che cercava di affrancarsi dai delitti terribili che aveva commesso, teneva una corrispondenza con un monaco, alla ricerca di pace. Avevamo fatto un percorso con il Festival Biblico, ma non riusciva a sostenere il peso del suo vissuto e quando sul palco cantava “la vie en rose”, crollava, letteralmente sopraffatto”. Nel mondo del volontariato del Due Palazzi, ieri si rincorrevano i messaggi: “Un anno fa aveva chiesto di poter uscire poche ore per andare a trovare un ragazzo disabile che sosteneva economicamente” ricorda Nicola Boscoletto della Cooperativa Giotto “ma gli era stato negato. Credo che da allora avesse mollato la presa. So che la sua era una figura ingombrante, e credo che si siano preoccupati di cosa avrebbe detto la gente di fronte a un permesso, ma voleva fare finalmente del bene. Ci striamo organizzando per accompagnarlo, se non ha nessuno che provvederà a lui vorremmo farci carico noi delle sue esequie”. Padova. Covid, oltre quaranta contagi al carcere Due Palazzi di Simonetta Zanetti Il Mattino di Padova, 18 dicembre 2020 Il virus non riconosce le barriere e dopo essere entrato al Due Palazzi, continua il suo percorso di crescita e contagio, cavalcando la seconda ondata. Secondo i dati del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, il focolaio della casa di reclusione il 14 dicembre aveva infettato 29 detenuti, tutti asintomatici; dodici invece gli agenti di polizia penitenziaria risultati positivi, di cui due sintomatici. Ma nel frattempo sembra che i numeri abbiamo continuato a salire arrivando a un totale di 46 contagiati, di cui 31 detenuti. E, da ieri, anche un morto, il serial killer Donato Bilancia. Con un domino di ricadute sugli isolamenti dei detenuti - qui si trovano i condannati in via definitiva con una pena superiore ai 5 anni - e degli agenti, in quest’ultimo caso in quarantena nelle loro abitazioni. Quello del Due Palazzi è un microcosmo basato su equilibri difficili, già messi a dura prova durante la prima ondata con una rivolta sedata. Il peggio sembrava alle spalle fino a quando ai primi di novembre l’incubo del virus è tornato a fare capolino: di fronte al timore che il contagio potesse allargarsi a macchia d’olio, rendendo la situazione impossibile da governare, erano stati tamponati tutti i 580 detenuti e le circa 400 guardie. “Da circa un mese c’è un cluster al Due Palazzi” conferma l’Usl 6 Euganea “in cui risultano contagiati sia i detenuti sia la polizia penitenziaria. Tutti sono stati sottoposti ai test. Da allora il direttore Claudio Mazzeo ha partecipato costantemente a incontri con l’Usl con cui ha lavorato per applicare tutte le misure necessarie a circoscrivere i casi”. Tuttavia sebbene i detenuti positivi fossero inizialmente stati isolati nell’area destinata all’emergenza, i casi hanno comunque continuato ad aumentare. Proprio la recrudescenza del virus sta mettendo a rischio le attività lavorative: da 2 settimane circa sono state bloccate le attività collaterali, mentre quelle svolte dalle cooperative, tra detenuti contagiati e in isolamento, sono messe a rischio. Il nervosismo serpeggia tra le sezioni, come è successo durante la prima ondata, quando gli agenti furono costretti a sedare una rivolta. Del resto il senso di impotenza così comune di fronte al virus è percepito in maniera ancora più soffocante in una casa di reclusione. Avellino. “Stanno uccidendo mio figlio” di Rossella Grasso Il Riformista, 18 dicembre 2020 Il dramma del papà di Omar che in carcere non riesce nemmeno a respirare: “Le condizioni di Omar sono incompatibili con il regime carcerario”. In un fascicolo lungo centinaia di pagine si susseguono i certificati dei numerosi medici che hanno visitato Omar, 47 anni, detenuto nel carcere di Avellino da due mesi: nero su bianco c’è scritto che Omar non può stare in carcere perché lì rischia di morire. Suo padre è disperato e chiede a gran voce alle autorità che suo figlio possa andare agli arresti domiciliari, che venga fatta luce sulla situazione per “punire i responsabili del trattamento inumano che sta subendo Omar, onde evitare che succeda quella che appare una tragedia annunciata”. Ancora una volta, in tempi di pandemia, in cui il sovraffollamento delle carceri è un pericolo enorme per la salute di tutta la popolazione carceraria, si tende a trattenere una persona fragile sebbene la sua sia una misura cautelare. Il suo papà non chiede che siano fatti sconti di legge a suo figlio, solo che non debba morire in carcere di carcere. Omar ha 47 anni, è un grande obeso, ha un’insufficienza respiratoria cronica, è iperteso, cardiopatico e diabetico e di notte soffre di apnee a causa delle quali spesso perde i sensi. La situazione è aggravata da una pesante depressione ansiosa e dalla sua dipendenza da alcol e sostanze stupefacenti. Omar potrebbe morire nel sonno nell’indifferenza di tutti senza il respiratore di cui ha bisogno per vivere. Un respiratore che chiede da tempo ma che non gli è mai stato dato dal carcere e che comunque non potrebbe salvargli la vita nelle condizioni in cui si trova attualmente, nemmeno se glielo portassero i familiari, come richiesto dal magistrato. Il motivo lo ha spiegato il papà di Omar: “Anche la presenza di una macchina Cpap non sarebbe garanzia dell’assistenza medica di cui il 47enne ha bisogno. Si tratta infatti di macchinari complessi, che richiedono manutenzione e ambienti sterili, senza dimenticare i punti interrogativi legati all’istallazione della strumentazione, l’alimentazione e le cura dei filtri”. Ma il giudice di rimandare a casa Omar agli arresti domiciliari non ne vuole sapere. Il ragazzo era incensurato, è finito in carcere perché sorpreso a spacciare in casa. Rimandarlo tra le sue quattro mura potrebbe, secondo i giudici, portare alla reiterazione del reato. Ma in carcere Omar rischia la vita. Il Gip ha rigettato il ricorso dell’avvocato Danilo Iacobacci per ottenere i domiciliari. Intanto le condizioni di Omar si aggravano di giorno in giorno: se ne sta immobile nella sua umida cella, nell’impossibilità di muoversi è ingrassato notevolmente e sono comparse le piaghe sul corpo. Ha anche la bronchite. “Per le sue patologia ha bisogno di un ambiente salubre e di continua assistenza - dice il papà - È invalido civile quasi totale, deve fare continui esami clinici e visite mediche quotidiane”. A casa potrebbe avere tutto questo pur continuando a scontare la sua pena. Tutto questo accade in un momento storico in cui il Governo ha incentivato misure alternative al carcere per i detenuti più fragili o vicini al fine pena. C’è scritto nel decreto Ristori. Ma Omar deve rimanere a soffrire in carcere. “Non riesco a trovare una spiegazione delle ragioni che tengono in carcere il mio assistito - ha commentato Danilo Iacobacci - posso solo dirle che le perizie redatte dal medico del carcere e dal perito del Gip di Avellino lasciano pochi spazi al dubbio, nel senso che manifestano una situazione di salute largamente e diffusamente compromessa, e quindi non mi spiego, soprattutto dal punto di vista umano prima che giuridico la presa di posizione del Gip”. “Sono attento osservatore delle decisioni della magistratura, anche quando non le condivido ed anche quando appaiono inspiegabili - conclude l’avvocato Iacobacci - e confido nel fatto che la stessa magistratura ponga rimedio agli errori dei giudici. Ad esempio posso dire che il Tribunale del riesame di Napoli si sta interessando della cosa, ha nominato dei medici per valutare il caso ma purtroppo l’udienza è il 23 dicembre, e spero che il mio assistito sopravviva fino a tale data. Posso anche dire che il Garante dei detenuti ci ha espresso la sua solidarietà e spero che venga superata questa situazione che, come le dicevo, non mi spiego”. Intanto il tempo passa e non fa sconti a nessuno. Napoli. Da due anni attende un intervento chirurgico: tutto tace in stile kafkiano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 dicembre 2020 Al detenuto era stata diagnosticata una fistola perianale, con la conseguente necessità di procedere con un’operazione. Presentato un esposto. Proviamo ad immaginare di sentire un dolore fastidioso che non ci permette di vivere con serenità. Si va dal medico e si scopre che il fastidio può essere risolto solo con un intervento chirurgico. Non farlo vuol dire convivere perennemente con il dolore imbottendosi di antinfiammatori, oltre a subire l’inevitabile infezione cronica. Nel mondo libero abbiamo la possibilità di curarci, così come anche una persona reclusa in carcere visto che ne ha il diritto. Eppure c’è un uomo, attualmente recluso al carcere di Secondigliano, che dal 2018 è in attesa di una operazione chirurgica. Avrebbe subito una vera e propria violazione del diritto alla salute, per questo il suo legale Daniel Monni ha da poco depositato un atto di denuncia e querela presso la procura di Napoli. Dalla lettura del diario clinico di Antonino Cupri, così si chiama il detenuto, si evince, di fatto, una gravissima circostanza: nonostante il 3 ottobre del 2018 gli fosse stata diagnosticata una fistola perianale e la conseguente necessità di procedere a un intervento chirurgico, “il decorso di oltre due anni dall’accertamento - si legge nella denuncia depositata in procura - non ha, ad oggi, consentito di giungere all’auspicato, sollecitato e quanto mai necessario intervento”. Tant’è vero, il medico legale ha da poco rilevato ed accertato che “in assenza di trattamento chirurgico le complicanze verso cui è destinata ad evolvere la patologia - potenzialmente gravissime - sono rappresentate da sovrainfezioni e/ o evoluzioni necrotiche tissutali distrettuali [e che, pertanto] tale consapevolezza impone quindi nel caso di specie di ritenere non più differibile il trattamento chirurgico già rimandato da diversi anni”. In effetti già da quando Antonino Cupri era recluso al carcere di Reggio Calabria i medici sollecitavano l’intervento per evitare complicanze. Man mano sempre più dolori, tanto che quando è stato trasferito nel carcere di Secondigliano, Cupri ha cominciato ad attuare lo sciopero della fame per reclamare il proprio diritto alla salute. A ciò si è aggiunta l’insorgenza anche di ragadi anali, le quali creano un ulteriore dolore, spesso spropositato. Basterebbe leggere il diario clinico del 24 ottobre 2019: “Si richiede ricovero presso le seguenti strutture: Ospedale del Mare, Ospedale San Paolo, Ospedale Cardarelli per intervento chirurgico per fistola sacrococcigea. Si richiede la massima precedenza per complicazioni sopraggiunte”. Siamo oramai a fine anno del 2020 e tuttora non ha subito alcun intervento chirurgico. Nella denuncia si osserva che “la deliberata e protratta indifferenza serbata nei confronti delle necessità psico- fisiche del querelante, dunque ed in sintesi, palesa l’integrazione del delitto p. e p. dall’art. 572 c. p.: in ogni istituto penitenziario, infatti ed a mente dell’art. 17 d. p. r. 230/ 2000, deve essere garantita l’assistenza sanitaria e devono essere svolte con continuità attività di medicina preventiva che rilevino ed intervengano in merito alle situazioni che possano favorire lo sviluppo di forme patologiche”. Così la moglie di Cupri commenta tutta questa sofferenza: “A prescindere dal reato, la colpevolezza o meno, la dignità e il diritto alla salute non dovrebbero venire meno. Attenzione - ci tiene a sottolineare - non solo per mio marito, ma per tutti quelli come lui che a livello di salute hanno anche patologie peggiori”. A Il Dubbio commenta amaramente anche l’avvocato Daniel Monni: “La vicenda di Antonino Crupi evoca in me l’immagine della macchina dell’esecuzione di Kafka. Molti non guardavano, tutti sapevano: si stava facendo giustizia. Nel silenzio si udiva solo, smorzato dal feltro, il gemito del condannato”. La vicenda di Cupri è rappresentativa di un problema enorme che coinvolge altrettanti detenuti. Come ha voluto sottolineare la moglie, si tratta di una questione sanitaria che riguarda anche persone con patologie gravissime. Proprio un mese fa è stata condannata una dottoressa che operava al carcere di Opera. Non per aver contribuito, secondo l’accusa con le sue cure negligenti e superficiali, a provocare la morte di un ergastolano. Ma per lesioni colpose, essendosi limitata a prescrivere tachipirina a chi per almeno due mesi, nella tarda estate di sei anni fa, stava soffrendo le pene dell’inferno per un cancro che non lasciava speranze. Napoli. Carceri: “Fame di giustizia e sete di verità” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 18 dicembre 2020 Presidio simbolico davanti alla casa circondariale di Poggioreale. Sabato prossimo, 19 dicembre 2020, ci sarà un presidio a partire dalle ore 11:00 davanti al carcere di Poggioreale. La Pastorale carceraria della Diocesi di Napoli, Don Franco Esposito cappellano del carcere di Poggioreale e il Garante campano Samuele Ciambriello, hanno promosso un appello per una giornata di mobilitazione dal titolo “Fame di Giustizia e Sete di verità”. “Un giorno di digiuno per la dignità dei detenuti perché nessuno sia dimenticato, perché chi ha sbagliato possa pagare il suo debito non a prezzo della vita, perché chi è detenuto ha diritto alla tutela della sua vita e che il carcere non sia un luogo separato dalla società. Ogni vita deve essere salvata da un virus che non conosce limiti e barriera.” Così si legge nell’appello che è stato firmato da centinaia di persone, da associazioni, operatori del volontariato laico e cattolico. Il Garante campano Samuele Ciambriello lancia un appello ai politici, ai consiglieri regionali, ai deputati, ai senatori ed europarlamentari uomini e donne di governo. “Venite al ascoltare le nostre ragioni”, Sabato prossimo, venite a comprendere il disagio del mondo penitenziario. Il mio invito è a venire e ad entrare anche nel carcere. L’obiettivo dell’appello è che non si perda altro tempo per adottare tutti quei provvedimenti che riducano la presenza nelle carceri sovraffollate e consentano a quante più persone possibile di scontare con misure alternative al carcere la propria pena. Si può fare senza alcun pericolo sociale, senza allarmismi e falsi giustizialismi, nel rispetto della costituzione e anche di tutte le vittime perché la pena non deve essere vendetta e non può essere contraria al senso di umanità e giustizia”. Catanzaro. Grazie al web, in carcere s’impara a essere papà vicini anche se distanti di Antonella Barone gnewsonline.it, 18 dicembre 2020 Non smette di essere genitore chi deve scontare una pena e anche da detenuto ha il diritto, riconosciuto da norme del nostro ordinamento penitenziario, di esercitare il proprio ruolo paterno o materno. Numerose sono le esperienze a tutela della genitorialità in carcere realizzate negli istituti di pena anche in attuazione di protocolli d’intesa tra realtà dell’associazionismo e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Alcune di queste iniziative sono continuate tramite l’uso delle piattaforme video offerte dal web durante la sospensione delle attività in presenza e sono ancora attive, in questa modalità, in molte carceri. Accade anche nella casa circondariale di Catanzaro dove, in versione virtuale, continua il progetto di educazione alla genitorialità tenuto dalla psicologa Maria Teresa Villì e organizzato in collaborazione con l’associazione Universo Minori. “Prima dell’emergenza Covid - spiega la direttrice Angela Paravati - gli incontri avvenivano in locali appositamente attrezzati ed erano riservati solo ai papà e ai loro bambini, senza la presenza delle madri che accompagnavano i piccoli, in modo da creare quei momenti di confidenza così importanti nel rapporto genitore-figlio”. Poi, a marzo, incontri e attività in presenza sono stati sospesi. “I limiti agli spostamenti previsti da questa seconda fase - aggiunge la dirigente - hanno di nuovo impedito buona parte dei colloqui. I bambini che possono recarsi in carcere perché vivono nello stesso territorio devono comunque incontrare i papà separati da schermi e utilizzare altri dispositivi che non aiutano comunque la spontaneità dell’incontro”. Una situazione che accresce nei padri il timore di non riuscire a mantenere le relazioni con i figli più piccoli, in un periodo già gravato per tutti da incertezza sulla durata dell’emergenza. “Per consentire ai detenuti di continuare a essere presenti come padri anche in questo momento - continua Paravati - abbiamo attrezzato delle aule con postazioni web tramite le quali è possibile continuare il percorso di educazione alla genitorialità. Negli incontri virtuali si riscrivono momenti dell’infanzia, tramite la condivisione di ricordi in modo da rievocare situazioni felici e dare continuità alla presenza del papà. Riuscire a essere un buon genitore è una motivazione importante per aderire alle altre opportunità presenti nella Casa Circondariale, come corsi di studio, formazione professionale, lavoro”. Laboratori creativi, durante i quali padri e figli hanno contribuito ad allestire i locali dei colloqui e giornate di condivisione di momenti ricreativi con le famiglie sono alcuni degli interventi attuati dalla direzione dell’istituto di Catanzaro in collaborazione con Universo Minori, associazione nata 2009 per volontà di Orazio Ciampa, che all’epoca era il Procuratore Capo del Tribunale per i Minorenni. “L’attività dell’associazione - spiega la presidente Rita Tulelli - è volta a dare sostegno ai bambini figli di genitori detenuti, che si trovano a sopportare varie limitazioni nei rapporti familiari senza aver commesso alcun reato”. Gorizia. Regali di Natale, in carcere si lavora per i bambini sfortunati udinetoday.it, 18 dicembre 2020 Gli allievi del corso Tecniche di Legatoria organizzato dall’Enaip nel carcere di Gorizia impegnati nel progetto benefico “Il giocattolo sospeso”. È terminato da poco il corso di Tecniche di legatoria nella Casa Circondariale dei Gorizia finanziato dal Fondo sociale europeo e organizzato dalla sede Enaip del capoluogo isontino. Per tutte le lezioni, Enaip si è avvalso di docenti Adriano Macchitella e Virginia di Lazzaro che collaborano con la cooperativa di Udine Arte e libro, di cui è responsabile Bruna Gover. I biglietti d’auguri per il “giocattolo sospeso” - Nelle ultime giornate, grazie alla collaborazione con Margherita Venturoli, funzionario giuridico-pedagogico del carcere di Gorizia, gli allievi hanno realizzato i biglietti augurali da applicare ai doni del progetto “Il giocattolo sospeso”. Si tratta di un’iniziativa benefica che si occupa di acquistare un dono natalizio nei negozi goriziani aderenti per i bambini che, altrimenti, non potrebbero riceverli perché in condizioni economiche molto difficili. L’iniziativa, partita dall’associazione “Volendo continuare”, ha trovato l’appoggio di Comune e Confcommercio Gorizia e il contributo delle associazioni Fidas Isontina Gorizia, Spiraglio Gorizia e Monfalcone e Club per l’Unesco di Gorizia. Torino. La lettera di Nosiglia ai detenuti: “Il Natale sia simbolo di riscatto” di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 18 dicembre 2020 L’arcivescovo di Torino: “Dalla ripresa della propria fede è possibile trarre motivi di speranza e di pace interiore”. Ogni anno l’arcivescovo di Torino è entrato in carcere per celebrare con i detenuti la Messa di Natale. Non potendo mantenere la tradizione a causa delle restrizioni dovute alla pandemia, monsignor Cesare Nosiglia ha scelto di essere vicino ai reclusi del Lorusso e Cutugno e dell’Istituto minorile Ferrante Aporti con una lettera. “Vi esprimo l’affetto che, come Vescovo, nutro per voi, che siete cari al mio cuore, perché vivete in situazioni di grave sofferenza e siete bisognosi del perdono e della misericordia del Signore, ma anche di una parola di fiducia e di speranza, che nasce dalla fede in Cristo”, scrive Nosiglia. Ai “cari fratelli, sorelle e amici”, l’arcivescovo propone una riflessione: “Lo so bene che in carcere le condizioni di vita sono difficili e rischiano di spersonalizzare la persona e scoraggiarne la volontà di riscatto e di ripresa morale. Ci si lascia andare, e vivere senza prendere in mano, con forza e coraggio, la propria esistenza. Davanti a Dio però noi restiamo sempre suoi figli e figlie, amati e prediletti, e possiamo riscattarci dalle nostre colpe, aprendo il cuore alla fiducia in Lui e nel suo perdono. Da queste considerazioni nasce un chiaro invito, che voglio rivolgere a ciascuno di voi: chi si trova in carcere, pensa con rimpianto o con rimorso ai giorni in cui era libero e subisce con pesantezza il tempo presente, che non sembra passare mai. In questa situazione difficile può recare aiuto una forte esperienza di fraternità. E una ripresa della propria fede da cui è possibile trarre motivi di speranza e di pace interiore”. Poi, ricordando le famiglie dei detenuti: “Il Natale sia fonte di serenità per tutti e confermi la certezza di sapersi comunque amati e cercati dal Signore, sempre, anche quando ci sentiamo soli ed indifesi”. Gorgona (Li). L’esperimento dell’isola-carcere di diventa un calendario Il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2020 Il progetto “Gorgona, isola dei diritti umani e animali” è rinato nel 2020, con la firma di un protocollo di intesa tra Lav (Lega anti vivisezione), il Comune di Livorno e la casa circondariale. Ora il progetto realizzato diventa un calendario, in edizione limitata, con il patrocinio del ministero della Giustizia. È l’ultima isola-carcere italiana, per venti anni teatro di un’esperienza unica, in cui il percorso rieducativo dei detenuti si è intrecciato alla sorte degli animali sfuggiti alla macellazione. Si tratta dell’isola di Gorgona, nell’arcipelago toscano. Interrotto tra il 2015 e il 2019, quando le attività di riproduzione e di macellazione degli animali sono riprese, il progetto “Gorgona, isola dei diritti umani e animali” è rinato nel 2020, con la firma di un protocollo di intesa tra Lav (Lega anti vivisezione), il Comune di Livorno e la casa circondariale. Ora il progetto realizzato diventa un calendario, in edizione limitata, con il patrocinio del ministero della Giustizia. “Il progetto ha intrapreso nuovamente la giusta rotta, è un sogno che si sta avverando”, ha dichiarato Gianluca Felicetti, presidente Lav. “Il rapporto con gli altri animali può cambiarci in meglio e fare del bene a tutta la società. Basta scorrere le bellissime immagini di questo calendario per rendersene conto”, ha detto Felicetti. Il progetto di Gorgona ha l’obiettivo di restituire un senso ‘etico’ alla pena”. In quest’ottica si è sviluppato il rapporto con Lav - spiega Carlo Mazzerbo, direttore del carcere dell’isola - Ha portato alla chiusura del macello presente sull’isola e ad affrontare una riflessione sul rapporto uomo-animale. In più, l’azione violenta viene sostituita con la cultura dell’accoglienza e del rispetto dei diritti”. Il tutto in ottica di valorizzare e recuperare le potenzialità di ogni essere umano, che resta la finalità principale della pena. La pandemia ha provocato un’emergenza povertà di Maurizio Martina Corriere della Sera, 18 dicembre 2020 Le stime dicono che trentatré italiani su cento hanno visto ridursi il proprio reddito di almeno un quarto. Oltre due milioni di famiglie rischiano di vivere nella povertà assoluta in tutta la penisola, aumentando di circa il cinquanta per cento rispetto all’anno scorso quando già erano quasi cinque milioni i nuclei costretti a vivere sotto la soglia di povertà assoluta. Caro direttore, “l’Italia attraversa la più grave crisi alimentare di sempre”. Sono parole nette e inequivocabili quelle di ActionAid nel suo ultimo rapporto “La pandemia che affama l’Italia: Covid-19, povertà alimentare e diritto al cibo”. A essere maggiormente colpiti sono in particolare donne, bambini e quanti già vivevano prima dell’emergenza in situazioni di estrema fragilità. Le stime dicono che trentatré italiani su cento hanno visto ridursi il proprio reddito di almeno un quarto. Oltre due milioni di famiglie rischiano di vivere nella povertà assoluta in tutta la penisola, aumentando di circa il cinquanta per cento rispetto all’anno scorso quando già erano quasi cinque milioni i nuclei costretti a vivere sotto la soglia di povertà assoluta. E se allarghiamo lo sguardo all’Europa, sono cinquantanove milioni le persone che rischiano di soffrire di povertà alimentare secondo gli ultimi dati Fao. Nello stesso tempo i colossi del commercio online hanno visto moltiplicare i loro utili e il valore in Borsa delle loro azioni. Numeri impressionanti che rivelano come il virus abbia allargato in maniera netta le disuguaglianze. Le misure varate in ambito nazionale in questi mesi di emergenza, in particolare attraverso i buoni spesa gestiti insieme ai Comuni, sono state una prima risposta ma il lavoro da fare è ancora grande. Troppo spesso purtroppo questi interventi sono farraginosi e insufficienti. Criteri di accesso come la residenza, ma anche il reddito, spesso escludono dai sostegni chi ne avrebbe bisogno. Accanto a ciò, per fortuna, possiamo contare anche su una rete della solidarietà alimentare che in questi mesi sconvolgenti ha molto spesso fatto la differenza nelle comunità locali, arrivando proprio dove lo Stato non ce l’ha fatta. Ora le indicazioni di associazioni come ActionAid, Banco Alimentare e Caritas che si muovono tutti i giorni sul campo, vanno prese subito sul serio. Bisogna lavorare ancora molto sulle modalità più efficaci per tutelare le persone che hanno bisogno di aiuto, garantire acquisti capaci di combattere gli sprechi nelle filiere agroalimentari e favorire di più le donazioni private. Come dicono queste realtà, serve garantire l’accesso universale a bambine e bambini alle mense scolastiche e occorre istituire un Fondo di solidarietà alimentare quale strumento finanziario permanente per supportare una strategia nazionale in grado di allargare il campo degli aiuti, a partire dai Comuni e anche lavorando a un equilibrio migliore nell’utilizzo di alcuni criteri come quello della popolazione e del reddito. Occorre poi raccogliere la proposta per una legge quadro sul diritto al cibo per uniformare le differenti normative di settore e per individuare univocamente le priorità, le modalità e gli obiettivi delle politiche pubbliche. Io penso che questo lavoro sia necessario anche in Europa. La strategia Next Generation EU, infatti, non può dimenticare il diritto al cibo come priorità assoluta dell’unione dei popoli europei. E la lotta alla povertà alimentare non può rimanere un fronte marginale delle scelte nazionali e continentali. Perché mai come oggi l’accesso al cibo è una sfida di equità e di giustizia a ogni latitudine. Anche da noi. “Abbandonati” e sacrificabili: gli anziani nelle case di riposo durante la pandemia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 dicembre 2020 Amnesty International Italia ha presentato oggi un proprio rapporto, intitolato “Abbandonati”, sulle violazioni dei diritti nelle strutture di residenza sociosanitarie e sociosanitarie durante la pandemia da Covid-19 in Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Sono migliaia gli ospiti anziani di tali strutture che hanno perso la vita dall’inizio della pandemia da Covid-19. Il rapporto mette in luce le lacune delle istituzioni italiane a livello nazionale, regionale e locale nell’adottare misure tempestive per proteggere la loro vita e la loro dignità. Il ritardo nell’emanazione di provvedimenti adeguati, o la loro totale mancanza, si sono spesso tradotti in violazioni del diritto alla vita, alla salute e alla non discriminazione degli ospiti anziani delle strutture di residenza sociosanitarie e socioassistenziali italiane e degli operatori che vi lavorano. L’intempestiva chiusura alle visite esterne delle strutture, il mancato o tardivo sostegno delle istituzioni nella fornitura di dispositivi di protezione individuale (Dpi) alle stesse, il ritardo nell’esecuzione di tamponi sui pazienti e sul personale sanitario, sono alcuni degli elementi che hanno contribuito al tragico esito e che dimostrano la de-prioritizzazione di questa tipologia di presidi rispetto a quelli ospedalieri, nonostante la popolazione anziana fosse stata dichiarata dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) tra le più vulnerabili al virus fin dall’inizio della pandemia. A oggi ancora non esistono indicazioni che impongano, a livello uniforme sul territorio nazionale, una cadenza regolare e frequente per l’effettuazione di tamponi nell’ambito di uno screening continuativo all’interno delle strutture di residenza sociosanitarie e socioassistenziali. I trasferimenti di pazienti dimessi dagli ospedali verso le strutture di residenza sociosanitarie e socioassistenziali, sia con Covid-19, sia con possibili sintomi riconducibili alla malattia, in assenza dell’applicazione dei requisiti operativi, fisici e relativi al personale sanitario che potessero garantire una concreta limitazione del contagio al loro interno e di approfondite attività ispettive per verificarne la sussistenza, hanno a loro volta contribuito alla diffusione del Covid-19 in questi ambienti. Numerose testimonianze rilasciate ad Amnesty International Italia dagli operatori sanitari hanno segnalato la mancata attuazione dei protocolli per l’isolamento degli ospiti e per la separazione degli spazi. Il rapporto di Amnesty International Italia contiene anche numerose testimonianze di operatori sanitari e di familiari dei pazienti anziani delle strutture che hanno riferito dell’impossibilità o dei gravi ostacoli incontrati nel tentativo di far ospedalizzare gli ospiti con Covid-19 o con sintomi simil-influenzali. In particolare, in Lombardia gli ospiti over 75 in tali condizioni di salute sono stati oggetto di una delibera regionale che stabiliva come opportuno continuare a prestare cure e assistenza presso le strutture sociosanitarie e socioassistenziali dove risiedevano, limitandone di fatto le possibilità di accesso ai presidi ospedalieri. In assenza di valutazioni cliniche individuali volte a individuare la migliore soluzione per ogni paziente, questo ha comportato la mancata tutela del diritto alla vita, alla salute e alla non discriminazione. L’emergenza sanitaria ha, inoltre, acuito problemi sistemici che affliggono le strutture oggetto della ricerca. Tra queste, la carenza di personale - aggravata dall’alto numero di operatori sanitari in malattia e dai reclutamenti straordinari dei presidi ospedalieri - ha comportato un grave abbassamento del livello di qualità dell’assistenza e della cura degli ospiti e ha fatto sì che si realizzassero condizioni di lavoro terribili per gli operatori stessi, sottoposti a un grave stress fisico e psicologico e che fossero sovraesposti al rischio di contagio. I pochi Dpi a disposizione, le indicazioni scorrette circa il loro uso - o addirittura istruzioni relative al riutilizzo di dispositivi monouso - l’inadeguata formazione, l’esecuzione dei tamponi con frequenza irregolare e solo a partire da una fase avanzata dall’emergenza, quando il picco dei decessi della prima ondata era stato superato, la mancata attuazione di protocolli appropriati a contenere la circolazione del virus nelle strutture, hanno accresciuto le possibilità che gli operatori contraessero il Covid-19. In un clima già difficile, sono aumentate le controversie tra lavoratori e strutture, come quella che ha visto protagonisti cinque operatori di una residenza sanitaria assistenziale (Rsa) milanese, licenziati dopo aver presentato un esposto contro la struttura per avere tenuto nascosti moltissimi casi di lavoratori contagiati da Covid-19 e aver impedito l’uso delle mascherine per non spaventare l’utenza. La chiusura delle visite ha generato diverse difficoltà tra i familiari nel reperire informazioni circa lo stato di salute dei pazienti. Molte famiglie hanno lamentato l’assenza di trasparenza da parte delle strutture sull’andamento epidemiologico all’interno delle strutture e sulle misure prese per proteggere i propri familiari. L’isolamento domiciliare di molti medici ha reso in molti casi impossibile il confronto diretto tra i familiari e il medico della struttura per ottenere informazioni più approfondite. Infine, a partire dall’inizio dell’emergenza sanitaria, governo e autorità regionali e locali non hanno mai reso pubblici dati e informazioni omogenei e completi relativi alla diffusione del contagio nelle strutture residenziali sociosanitarie e socioassistenziali, essenziali per una lettura puntuale del fenomeno e tale da consentire, tra le altre cose, di rispondere alle esigenze del settore evitando il ripetersi delle violazioni e della mancata tutela dei diritti alla vita, alla salute e alla non discriminazione dei pazienti anziani. Alla luce delle conclusioni della sua ricerca, Amnesty International Italia chiede alle autorità competenti di garantire agli ospiti delle case di riposo il diritto al più alto standard di assistenza ottenibile e l’accesso non discriminatorio alle cure, oltre ad attuare politiche di visita che permettano un contatto regolare con le famiglie. In aggiunta a un’inchiesta pubblica e indipendente che chiarisca le responsabilità e suggerisca misure concrete per affrontare le criticità riscontrate, tra cui il miglioramento dei meccanismi di sorveglianza delle strutture, è inoltre indispensabile che le autorità assicurino la massima trasparenza sui dati relativi alla gestione della pandemia da Covid-19. Dl sicurezza, la Lega occupa l’aula. Il Pd: “Squadristi” di Carlo Lania Il Manifesto, 18 dicembre 2020 Rissa sfiorata al Senato. Il governo mette la fiducia sul provvedimento, oggi il voto. I leghisti l’avevano promesso: “Faremo l’inverosimile pur di impedire l’approvazione del decreto Immigrazione”. E così è stato. L’aula del Senato ieri si è trasformata per ore in una specie di Far west con tanto di assalto alla diligenza, dove la diligenza sono i stati i banchi del governo invasi e occupati dai senatori del Carroccio, tutti ammassati e non tutti con la mascherina. A farne le spese sono stati il ministro dei rapporti con il parlamento Federico D’Incà, in aula per annunciare l’intenzione del governo di porre la questine di fiducia sul provvedimento che archivia i decreti sicurezza di Matteo Salvini e che si è visto strappare il microfono di mano, e la senatrice di LeU Loredana De Petris, finita schiacciata contro una balaustra nel parapiglia generale. Il tutto sotto gli occhi del presidente di turno Ignazio La Russa, accusato dal Pd di non essere intervenuto per riportare la calma. “Un vero atto di squadrismo parlamentare - ha commentato il presidente della commissione Affari costituzionali, il dem Dario Parrini - tollerato (chissà perché trattandosi di squadrismo, ma a ben pensarci si può anche immaginare il perché) dal presidente di turno Ignazio La Russa, Sdegno generale. Una cosa gravissima”. Ci sono volute tre riunioni dei capigruppo prima di riuscire finalmente a sboccare la situazione e riprendere i lavori dell’aula con la discussione sulla fiducia. Salvo sorprese il voto finale è previsto per le 14 di oggi. L’iter del decreto al Senato era cominciato fin da subito in salita, con la decisione della presidente Casellati di assegnare in contemporanea il testo alle commissione Affari costituzionali e Giustizia. Un iter rallentato anche dall’ostruzionismo del centrodestra ma che sembrava essersi sbloccato ieri pomeriggio quando, in una riunione congiunta delle sue commissioni, la Lega propone di ritirare i quasi 13 mila emendamenti presentati in cambio della possibilità per l’opposizione di nominare due relatori di minoranza. Proposta accettata e si va in aula, ma quando i tre relatori (uno di maggioranza e i due di minoranza) finiscono di parlare, scatta la protesta leghista motivata dal fatto che il governo avrebbe impedito la discussione in aula prima di porre la fiducia. Accusa accompagnata da grida di “Buffone, pagliaccio” rivolte dai leghisti a D’Incà. “Credo che abbiamo posto la fiducia in maniera corretta”, replica il ministro. “Tra l’altro anche seguendo un esempio che già era successo nello scorso governo Conte nel quale sulla “spazza-corrotti” sempre qui al Senato avvenne un procedimento simile”. Il pomeriggio se ne va con una serie di stop and go, con l’aula che viene sgomberata per essere sanificata e subito dopo occupata nuovamente dai leghisti. Servono tre conferenze dei capigruppo alla presidente Casellati per riuscire a trovare un accordo sul calendario. Ma gli scontri lasciano il segno. “Hanno provocato il caos perché vogliamo finalmente superare i vergognosi decreti Salvini sulla sicurezza. Questo è il clima che la Lega vuole imporre nelle aule”, attacca il dem Andrea Marcucci. Oggi si chiude, con una coda di suspense finale legata al nervosismo di alcuni parlamentari grillini per la proroga del superbonus. Un nervosismo che però difficilmente potrebbe ricadere sulle sorti del decreto. Nel 2020 più di 270 giornalisti sono detenuti, quasi 1 su 5 senza un’accusa. primaonline.it, 18 dicembre 2020 Il 2020 è stato un anno da dimenticare per la libertà di stampa, con un numero record di giornalisti incarcerati in tutto il mondo, di cui 34 per aver pubblicato “fake news”. È l’evidenza che emerge dal tradizionale rapporto stilato ogni 12 mesi dal Committee to Protect Journalists (Cpj). Stando al dettaglio dei numeri, al 1 dicembre erano 274 i giornalisti finiti in prigione a causa del loro lavoro, cifra che peraltro non include coloro che sono stati arrestati e rilasciati. Quasi tutti i giornalisti incarcerati in tutto il mondo sono residenti che si dedicano alla cronaca locale. Eccezione per sette reporter con nazionalità straniera o doppia, imprigionati in Cina, Eritrea, Giordania e Arabia Saudita. Trentasei giornalisti, ovvero il 13%, sono donne. Per il secondo anno consecutivo la bandiera nera spetta alla Cina, con 47 membri dei media dietro le sbarre, seguita dalla Turchia con 37. In Egitto invece i giornalisti incarcerati sono 27, e 24 in Arabia Saudita. Quindici sono in prigione in Iran, dove il 12 dicembre è stato giustiziato Ruhollah Zam dopo aver affrontato 17 capi di imputazione tra cui spionaggio e diffusione di notizie false all’estero. Nell’elenco dei paesi in cui il numero è cresciuto figurano Bielorussia, dove nel corso dell’anno ci sono state proteste per i presunti brogli elettorali, e l’Etiopia. Il report ha messo in risalto anche i continui attacchi mossi negli Usa ai media dal presidente Trump, citando alcuni numeri che riguardano il paese, teatro - oltre che di elezioni presidenziali infuocate, anche di diverse proteste sociali. Al momento del conteggio, sottolinea Cpj, nessun giornalista risultava in carcere, ma nel corso dell’anno 110 reporter sono stati arrestati o accusati e circa 300 aggrediti, nella maggior parte dei casi dalle forze dell’ordine. Da qui anche un appello al presidente eletto Joe Biden per il ripristino della leadership negli Stati Uniti per la libertà di stampa a livello globale. A far crescere i numeri anche il Covid. Nel dossier si afferma infatti che l’incarcerazione dei membri dei media è aumentata quest’anno “quando i governi hanno represso la copertura del Coronavirus o hanno cercato di sopprimere le notizie sui disordini politici”. Quasi nel 20% dei casi nessuna vera accusa è stata comunicata, più della metà di quei 53 giornalisti sono in Eritrea o in Arabia Saudita. Due terzi dei giornalisti invece sono stati accusati di crimini anti-statali come il terrorismo o l’appartenenza a gruppi vietati. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, si è definito “sgomento” per i risultati del rapporto. In una nota, il leader del Palazzo di Vetro “ha invitato nuovamente i governi a rilasciare immediatamente i giornalisti detenuti solo per aver esercitato la loro professione”, ribadendo “le sue precedenti richieste di sforzi concertati per contrastare la diffusa impunità per tali crimini”. “Nella nostra vita quotidiana - ha aggiunto - i giornalisti e gli operatori dei media sono fondamentali nell’aiutarci a prendere decisioni informate. Mentre il mondo combatte la pandemia di Covid-19 quelle decisioni sono ancora più cruciali e possono fare la differenza tra la vita e la morte”. Libia. Liberati i 18 pescatori, l’urlo di gioia di Mazara del Vallo di Alfredo Marsala Il Manifesto, 18 dicembre 2020 Erano in ostaggio da più di tre mesi. Conte e Di Maio volano dal generale di Bengasi. C’è voluto un blitz del premier Conte e del ministro Di Maio a Bengasi, roccaforte del generale Haftar, per liberare dopo 108 giorni i 18 pescatori sequestrati e imprigionati in Libia, dal primo settembre. E se le famiglie dei marittimi esultano dopo tre mesi da incubo, la questione ora è tutta politica. La Lega ha già chiesto che il governo riferisca in Parlamento per capire quale sia a questo punto il ruolo dell’Italia nella crisi libica e dunque nello scacchiere internazionale. “Avevamo promesso di portarli a casa entro Natale e lo abbiamo fatto”, ha detto Di Maio al termine del colloquio con l’uomo forte della Cirenaica, mentre Sergio Mattarella, informato da Conte, esprimeva la sua soddisfazione. Appena tre giorni fa il governo aveva affrontato la questione col premier libico Fayez al-Sarraj (e grande nemico di Haftar), ufficialmente in visita “privata” a Roma. E, solo 24 ore dopo, l’argomento è stato al centro del vertice, a Palazzo Chigi, su Regeni, in una triangolazione che non può non guardare allo stretto rapporto tra l’Egitto di Al Sisi e Haftar. Posizionamenti o riposizionamenti? Il partito di Salvini alza il tito. “Terminata la sfilata in Libia in compagnia del ministro degli Esteri - attaccano i deputati della Lega Paolo Formentini ed Eugenio Zoffili - ora Conte chiarisca subito in Parlamento se sosteniamo il governo di al-Sarraj o le posizioni di Haftar, che esce rafforzato e rilegittimato dall’inusuale visita”. È quasi mezzogiorno quando gli smartphone, a Mazara del Vallo, cominciano a squillare ininterrottamente. Il tam tam si fa incessante. Conte e Di Maio sono in volo verso Bengasi. Che sia il giorno della liberazione? Il telefono della Farnesina è incandescente. Cautela, è il refrain nelle prime ore. Qualcosa sta succedendo, è evidente. “Aspettiamo la conferma ufficiale ma sembra proprio la giornata giusta”, le prime parole di Marco Marrone. L’armatore è emozionato, la voce tremante. Al telefono singhiozza. “Ho parlato con il ministro Bonafede, mi ha detto che c’è qualcosa di buono nell’aria”. A Mazara il sole si fa spazio tra le nubi bianche. Un segno, dopo il buio angosciante. Parenti e amici dei marittimi, sequestrati dal primo settembre, bussano al portone del municipio. Il sindaco, Salvatore Quinci, li accoglie subito: “Aspettiamo”. L’emozione è alle stelle. “Mi sento rinata dopo tre mesi di disperazione. Non vedo l’ora di riabbracciare mio figlio”, piange Rosetta Incargiola, 74 anni, mamma di Pietro Marrone, comandante del motopesca Medinea. Viene avvertito monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara, sempre a fianco delle famiglie: “È il più bel regalo di Natale”. Tutti si riuniscono nell’aula consiliare. Si aspetta l’ufficialità. Si abbracciano, piangono. Fuori dal palazzo la folla aumenta. “Abbiamo saputo che a Bengasi c’è un’attività frenetica nella zona del porto”, avverte il sindaco. La tensione esplode poco dopo. Qualcuno urla: “Guardate la pagina Facebook di Di Maio”. “I Nostri pescatori sono liberi - scrive il ministro. Fra poche ore potranno riabbracciare le proprie famiglie e i propri cari. Il governo continua a sostenere con fermezza il processo di stabilizzazione della Libia. È ciò che io e il presidente Giuseppe Conte abbiamo ribadito ad Haftar, durante il nostro colloquio a Bengasi”. L’aula si riempie di commozione. C’è chi urla di gioia. Chi piange. Madri, mogli, nonni, figli si attaccano ai telefonini. “Buon rientro a casa”, scrive su twitter il premier Conte, pubblicando una foto dei pescatori liberati. Marika Macaddino, 27 anni, riesce a parlare al telefono col marito, Giacomo Giacalone, 32 anni. Piange di gioia. Piange anche Giacomo. Non si sentivano da 74 giorni. Mamma Rosetta sembra una ragazzina: “Ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta! Mio figlio e tutti gli altri pescatori stanno tornando. Ringrazio tutti: Conte, Di Maio, il sindaco, il vescovo, i giornalisti”. La dedica è tutta per l’altro figlio, anche lui pescatore morto 23 anni fa in un naufragio: “Questa liberazione è per lui”. “Ci siamo tolti un peso dal cuore”, piange Ignazio Bonono, 28 anni, figlio di Giovanni, il timoniere dell’Antartide. “Finalmente potremo trascorrere un Natale di pace e di serenità con i nostri cari”, si commuove Santina Licata, moglie del marittimo Vito Barraco. Nell’aula consiliare arriva il vescovo. Tutti applaudono. “Sono stati 108 giorni lunghissimi. Se ragiono con la testa si tratta di un tempo ragionevole, perché ci sono state trattative lunghe e laboriose. Se ragiono con il cuore allora devo dire che sono stati tre mesi insopportabili - dice - Poteva succedere di tutto, potevano nascere proteste incontrollabili e invece i familiari dei pescatori hanno affrontato questa prova con grande dignità. Ora, in pochi attimi tutto è cambiato. Nei volti provati è ricomparso il sorriso”. Il Medinea e l’Antartide sono rimasti nel porto di Bengasi fino a tardi. Saliti a bordo dei due pescherecci, i marittimi hanno atteso per ore che le batterie dei motori si ricaricassero dopo 4 mesi di fermo. Arriveranno a Mazara del Vallo probabilmente domenica. “Faremo i giochi d’artificio”, annuncia il sindaco. Sarà una festa. Poi per i pescatori e le proprie famiglie sarà finalmente Natale, anche in lockdown. Libia. Due vincitori: Haftar il redivivo e la Turchia, vero pivot della crisi di Roberto Prinzi Il Manifesto, 18 dicembre 2020 Per la liberazione dei pescatori italiani, Roma costretta all’ennesima piroetta in terra libica, a scapito dell’alleato di Tripoli. Ankara, per ottenere il rilascio di una sua nave, ha impiegato pochi giorni a dimostrazione del diverso peso nell’area. È un comunicato breve quello che il comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl), Khalifa Haftar, ha rilasciato ieri alla stampa in seguito all’incontro della mattina nel suo quartier generale di Rajma (Bengasi, nell’est della Libia) con il primo ministro italiano Conte e il ministro degli Esteri Di Maio. Un semplice “elogio” per il ruolo di Roma “per risolvere la crisi libica”. Nessuna menzione dei 18 marittimi di Mazara del Vallo rilasciati ieri dopo 108 giorni di detenzione da parte dei suoi uomini. Il generale è stato ieri il gran vincitore: dato da mesi per finito dopo la sua fallimentare campagna militare contro Tripoli (vinta dal premier al-Sarraj grazie al sostegno della Turchia), isolato perfino dai suoi partner stranieri, ieri il capo dell’Enl ha mandato un messaggio inequivocabile: nella partita libica, bisogna fare ancora i conti con lui. Del resto la Libia è un Paese in guerra - altro che “porto sicuro” come sostengono in Italia - e la forza si misura in uomini e armi e Haftar può ancora contare su entrambi. Il fatto che si siano dovuti precipitare da lui Conte e Di Maio per risolvere una crisi che stava diventando sempre più una patata bollente per Palazzo Chigi è stato un suo grosso successo mediatico. Meno per l’Italia: per la liberazione dei suoi pescatori, il governo è stato costretto a fare la sua ennesima piroetta in terra libica: riavvicinarsi all’ex “nemico” (Roma è con al-Sarraj) divenuto meno ostile - se non proprio “amico” - quando sembrava poter vincere la sua guerra (dicembre 2019). Un’inversione che in Tripolitania è stata letta da molti come un “tradimento” al punto da spingere il Governo di Accordo nazionale (Gna) di al-Sarraj a cercare qualche altro partner, qualcuno di fidato che la guerra contro il “terrorista” Haftar voleva farla non solo a chiacchiere, ma con i fatti. Un ruolo che il turco Erdogan ha saputo interpretare alla perfezione e che gli permette ora di farla da padrone in Libia. Un dato su tutti: se l’Italia ha impiegato 108 giorni per liberare i suoi marittimi, la Turchia ne ha impiegati solo alcuni la scorsa settimana per il rilascio di una sua nave da cargo sequestrata dalle stesse autorità libiche dell’est. Il gap abissale di tempo nel risolvere i due sequestri traduce plasticamente il differente peso politico tra Roma e Ankara nel dossier libico, sbugiardando il presunto protagonismo italiano decantato da Di Maio. L’Italia va da Haftar quando, solo a inizio mese, aveva firmato a Roma un accordo congiunto di cooperazione tecnico-militare con il ministro della difesa del Gna an-Namrush. Roma continua a fare il doppio gioco: amica dei cirenaici, ma anche e soprattutto di Tripoli che, tradotto nella Libia orientale, vuol dire stare con i “crociati ottomani” (i turchi). Una posizione ambigua in un conflitto intra-libico niente affatto finito. I tanti incontri tra le parti tra Tangeri e Tunisi non hanno portato ancora i frutti sperati: l’altro giorno il Foro del Dialogo politico sponsorizzato dall’Onu non è riuscito a raggiungere un consenso sul meccanismo per selezionare la prossima leadership politica che gestirà la fase di transizione in vista delle elezioni previste per il 24 dicembre del 2021. C’è poi la questione delle armi che continuano a fluire nel Paese facendosi beffa dei divieti dell’Onu ed europei. Senza poi dimenticare la tensione interna in Cirenaica, ma soprattutto in Tripolitania dove imperversano milizie armate difficilmente contenute da un potere centrale debole che proprio a esse aveva fatto ampio ricorso nella guerra fratricida tra ovest ed est. Certo, i passi positivi ci sono: qualche giorno fa per la prima volta dopo anni la Banca centrale libica ha trovato un cambio unificato per il dinaro libico (4,48 al dollaro). Così come è aumentata la produzione di petrolio a 1,28 milioni di barili al giorno, un valore insperato fino ad alcune settimane fa quando i terminal petroliferi restavano chiusi per ordine di Haftar. Ma l’escalation è sempre possibile. “Qualsiasi accordo che non si basi sulla rinuncia alla violenza resta fragile e non resisterà”, ha detto due giorni fa an-Namrush. Haftar lo sa bene mentre si gode la sua vittoria. Liberati i pescatori rapiti in Libia. Ecco cosa ha avuto in cambio Haftar di Claudia Fusani Il Riformista, 18 dicembre 2020 Prigionieri per 107 giorni, sono stati liberati dopo un colloquio top secret con il generale rivale di Al Serraj. Che ha strappato a Conte e Di Maio la promessa di un “gesto politico esplicito” di riconoscimento. “Antartide” e “Medinea” hanno acceso i motori intorno alle 15 ora italiana destinazione Mazara del Vallo. A bordo dei due pescherecci i 18 pescatori prigionieri dal primo settembre nelle carceri di Bengasi del generale Haftar. Tre ore prima Giuseppe Conte e Luigi di Maio erano a colloquio con il Generale che non è l’interlocutore istituzionale dell’Italia che ha invece rapporti diplomatici con il Governo nazionale di Tripoli (Gna) girato da Al Serraj. Un colloquio dai contenuti ancora top secret ma che è stata la svolta di questa brutta faccenda durata ben 107 giorni. Decisamente troppi. Altre volte era capitato che i nostri pescherecci si trovassero nei guai per aver superato i confini della pesca. Sequestri o arresti risolti ogni volta in breve e con qualche aiuto economico. Questa volta la vicenda si era messa subito male: lunghe giornate senza info dei nostri; notizie false filtrate ad arte per drammatizzare la situazione (“sono spacciatori”); richieste irricevibili (la liberazione di quattro trafficanti libici detenuti in Italia) a cui seguivano settimane di silenzi. Ora questa storia finisce bene. E ne comincia un’altra: quale è stata la moneta di scambio della liberazione. Prima di tutto va detto che è “stato un sequestro diverso dagli altri, se non si parte da qui - spiega la nostra fonte tecnica - non si capisce neppure perché il presidente Conte oggi è andato di persona a Bengasi col ministro Di Maio e abbia incontrato Haftar”. I sequestri in Libia - ne abbiano avuti tanti negli anni - sono stati in genere il canale di finanziamento delle varie bande/ tribù militari che impediscono alla Libia di essere il paese che potrebbe essere. Dunque soldi, visibilità e riconoscimenti all’autorità di turno sono stati la moneta del riscatto. Questa volta è stato “un sequestro politico”. Da subito i 18 pescatori sono stati una pedina nelle mani del generale Haftar che da anni conduce la battaglia per il controllo non solo di tutta la Libia ma anche di pezzi interi del nord Africa. Il tutto grazie all’appoggio di Russia (Putin sta inviando reparti speciali in Libia), Emirati, Francia, Arabia Saudita ed Egitto, “il più interessato”. L’Italia ha invece tradizionalmente rapporti esclusivi con Tripoli e la Gna, il governo nazionale libico riconosciuto dalle Nazioni Unite e guidato da Al Serraj. È con lui che stringiamo da anni accordi, con fortune alterne, per cercare di fermare il traffico di essere umani dalla Libia. È certo che Haftar abbia preteso, per la liberazione, “un gesto politico esplicito” del governo italiano come ad esempio la presenza di Conte e Di Maio a Bengasi. Dunque le polemiche sulle “passerelle” e gli spot sono per una volta fuori luogo. Così come è certo che il 6 dicembre, Al-Namroush, ministro della Difesa del governo di Serraj, era a Roma per rinnovare un accordo politico-militare con il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. In quella occasione il libico avrebbe suggerito ai nostri di cercare la mediazione francese per risolvere lo stallo sui pescatori. E il favore del Cairo che cerca così di abbassare la pressione per il caso Regeni. Ieri Bengasi ha fatto uscire una nota per “elogiare il ruolo che il governo italiano gioca nel sostegno ad una crisi libica”. Il ministro Guerini ha voluto elogiare “chi ha saputo lavorare in silenzio”. I 18 pescatori sono liberi grazie ad un incrocio di favori diplomatici. Il cui punto di caduta è presto per dire. C’era anche Rocco Casalino ieri a Bengasi. In una delle chat di lavoro gli è partita l’immagine della sua geolocalizzazione. Un puntino rosso tra gli hangar dell’aeroporto di Bengasi. Vero o falso che sia per molto meno poteva saltare tutta la trattativa. Egitto. A Tora c’è l’inferno, all’Europarlamento l’embargo per al-Sisi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 18 dicembre 2020 Oggi alle 13 il voto sulla risoluzione più coraggiosa che chiede sanzioni e stop alla vendita di armi al regime. Rapporto di Human Rights Watch: nella sezione Scorpion del carcere per detenuti politici tolti anche i sistemi d’aerazione e l’elettricità. È previsto per oggi alle 13 il voto dell’Europarlamento sulla risoluzione sul deterioramento della situazione dei diritti umani in Egitto, sostenuta da S&D, Renew, Verdi e GUE. In mattinata si voteranno singoli paragrafi come richiesto dai popolari e dalla destra (che ieri in aula citava la presunta protezione dei cristiani copti come punto a favore del presidente al-Sisi). Perché l’unanimità sulla risoluzione più avanzata mai votata dai parlamentari europei sull’Egitto non c’è. Stavolta non si tratta di semplice condanna degli abusi né solo di richiesta di giustizia per Giulio Regeni. Stavolta, accanto ai due casi, quello del ricercatore italiano e quello di Patrick Zaki, studente egiziano detenuto senza processo dal 7 febbraio scorso, c’è molto di più: la richiesta alle istituzioni europee di introdurre sanzioni mirate verso i responsabili di abusi e di sospendere la vendita di armi all’Egitto. La richiesta dei popolari di votare per paragrafi, ci spiegano da S&D, serve a separare “gli elementi meno conflittuali, come la liberazione di Zaki e il caso Regeni, dalla vendita di armi e le sanzioni”. Ma c’è ottimismo: la risoluzione sarà sostenuta dal voto di Renew (nonostante la presenza di macroniani), socialisti, verdi, Gue, 5stelle e alcuni popolari. “Si ribadisce una posizione che l’Europarlamento ha già appreso a settembre nel rapporto sull’esportazione di armi. E va ricordato che già nel 2013 i ministri degli esteri avevano deciso di non vendere più armi all’Egitto, una decisione disattesa da tutti, comprese Italia e Francia”. Oltre alle armi, prerogativa della Commissione che è ora chiamata a rinegoziare l’accordo di partenariato con Il Cairo, in scadenza questo mese, ci sono le sanzioni: spetta al Consiglio decidere di applicare il neonato strumento europeo, il Global Human Rights sanction regime. La risoluzione parte da un fatto noto in tutta Europa, l’arresto a metà novembre di tre membri dell’ong egiziana Eipr, rilasciati (sebbene siano ancora indagati e i loro conti congelati) poco prima del viaggio di al-Sisi a Parigi, un atto distensivo che non cambia affatto la natura del regime. Ieri a ricordarlo è stato un rapporto di Human Rights Watch sul carcere di Tora (dov’è detenuto Patrick Zaki) e il suo complesso di massima sicurezza Scorpion, il più temibile dell’intero paese, destinato ai prigionieri politici: a metà novembre, ha rivelato una fonte portando in dote anche foto e video, i servizi segreti egiziani hanno introdotto nuove misure che peggiorano ulteriormente la prigionia già insopportabile di 700-800 detenuti. Dalle celle sono stati rimossi i sistemi di aerazione e l’elettricità. Per impedire le comunicazioni tra detenuti è stata chiusa anche la minuscola fessura che si trova sulle porte di metallo. La zanzariera posta sulla sola finestra delle celle, che dà su un corridoio interno, è stata sostituita con sbarre di metallo. Per il resto, è tutto come prima: tre-quattro detenuti in una cella di pochi metri quadrati compreso il bagno, una sola coperta, una saponetta ogni cinque mesi, muri ammuffiti dall’umidità, acqua che gocciola dal soffitto, freddo, torture e isolamento lungo mesi, a volte anni. Dal 2015, secondo Hrw, dentro Scorpion sono morti almeno 14 prigionieri, di cui cinque di mancate cure. Amnesty ha documentato una morte per torture nel 2019. E l’Eipr nel mirino del regime egiziano documenta da anni l’impossibilità per i detenuti di ricevere vestiti e coperte dalle famiglie. Arabia Saudita. Loujain al Hathloul rischia venti anni di carcere di Michele Giorgio Il Manifesto, 18 dicembre 2020 Il verdetto contro l’attivista dei diritti delle donne in carcere dal 2018 sarà pronunciato lunedì e il procuratore chiederà una pena molto severa. Al Hathloul è accusata di aver agito contro re Salman e la sicurezza del regno ma contro di lei ci sono solo dei tweet. L’allarme è scattato ieri quando il giudice della corte speciale antiterrorismo ha comunicato che il verdetto per Loujain al Hathloul, la più nota delle attiviste saudite dei diritti delle donne, potrebbe essere pronunciato lunedì prossimo. E per lei, ha avvertito la sorella Lina, il procuratore potrebbe chiedere una pena fino a 20 anni di carcere. Loujain è accusata di aver comunicato con persone “ostili” a re Salman, di aver collaborato con giornalisti schierati contro l’Arabia saudita e di aver diffuso informazioni dannose per la sicurezza del regno. Accuse che nel regno dei Saud sono considerate veri e propri atti di terrorismo. “Mia sorella non è una terrorista, non ha commesso reati contro la sicurezza. Ha soltanto chiesto un paese più giusto dove le donne saudite siano trattate con dignità e possano godere di libertà”, ripete sui social Lina al Hathloul. A metà del 2018 Loujain Al Hathloul fu arrestata con una dozzina di altre attiviste, poche settimane prima che venisse revocato il divieto per le donne di guidare da parte del potente erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, nel quadro del suo piano di “modernizzazione” del regno. Un diritto conquistato grazie a una lunga battaglia di cui Loujain era stata protagonista. L’ordine di arresto sarebbe giunto proprio dal principe ereditario che in questi anni si è rivelato non un rinnovatore ma un brutale repressore di oppositori politici e dei rivali all’interno della sua famiglia. Perché il caso di Loujain al Hathloul da una corte ordinaria all’improvviso, qualche settimana fa, sia stato trasferito a quella speciale per l’antiterrorismo resta un mistero. A nulla sono servite le proteste e appelli alla sua liberazione di personalità internazionali ed ong per la tutela dei diritti umani. Così come lo sciopero della fame avviato dall’attivista in prigione. La famiglia Al Hathloul convocata ieri mattina in tribunale ha denunciato gli abusi sessuali e le torture che Loujain ha riferito di aver subito dai suoi carcerieri. Il procuratore ha risposto di non essere in grado di verificarlo perché nella prigione i filmati delle telecamere di sorveglianza vengono eliminati dopo 40 giorni. Quindi ha descritto come prove di colpevolezza i tweet di Loujain durante le campagne per il diritto alla guida per le donne e per i diritti dei detenuti. “Hanno solo un mucchio di tweet che non gli piacciono, niente di più”, ha commentato Walid al Hathloul, fratello dell’attivista, esortando la comunità internazionale ad intervenire prima del verdetto di lunedì. Negli ultimi anni la strategia delle autorità saudite è stata quella di demolire la reputazione degli attivisti per i diritti umani e di puntare il dito contro l’Iran per distogliere l’attenzione dagli abusi che avvengono nel cuore di Riyadh. Ha destato sdegno internazionale l’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, avvenuto il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita a Istanbul. Un crimine di cui, sospettano molti, sarebbe stato il mandante proprio il principe Mohammed bin Salman. Primavere arabe, le rivolte sociali soffocate dalle guerre per procura di Alberto Negri Il Manifesto, 18 dicembre 2020 La caduta dei raìs apriva una nuova fase di tragedie. La fine di alcuni regimi era ingannevole: c’era continuità tra l’intervento Usa nel 2003 in Iraq e la disgregazione successiva. Che nelle piazze di Tunisi, del Cairo e di Bengasi affiancava le rivolte e i Fratelli Musulmani, poi saliti al potere in Egitto e sbalzati dal golpe di Al Sisi del 2013. In realtà andava in scena un esteso e profondo conflitto sociale che fu prima inghiottito dalle derive estremiste poi dalla reazione conservatrice e infine da devastanti guerre per procura (mai terminate) come in Siria, in Libia e in Yemen, o represse come in Bahrain da un intevento militare saudita e degli Emirati. Quelli che oggi ci appaiono come i sogni spezzati di una generazione - illusioni sfiorite dopo gli interventi militari internazionali - allora rappresentavano l’inizio un viaggio straordinario tra i giovani, gli uomini e le donne con il loro straordinario protagonismo, del Medio Oriente e del Nordafrica. Non tutto comunque è finito nel decennio scorso come si vuole far credere, anzi le proteste sono continuate, in Iraq, in Libano, in Sudan, con il movimento Hirak in Algeria e la resistenza al regime egiziano del generale Al Sisi. Chi scrive si trovò catapultato in poche settimane da Tunisi al Cairo poi a Bengasi, attraversando il deserto egiziano e la Cirenaica, per finire in Siria e ai confini con la Turchia e il Libano. Nelle strade di Tunisi e della provincia profonda di Kasserine il regime di Ben Alì, fuggito il 14 gennaio 2011, tentava gli ultimi sanguinosi colpi di coda mentre gli islamisti di Ennhada, pur ben presenti, erano ancora dietro le quinte. A Piazza Tahrir era sceso in piazza il mondo, dai nasseriani socialisti ai Fratelli Musulmani: uscito di scena Mubarak l’11 febbraio, fu l’esercito con l’anziano generale Tantawi che sfilò impettito lungo il Nilo alla testa dei blindati a riprendere in mano la situazione con il beneplacito di Obama e dell’ufficio della Cia piazzato al Semiramis Intercontinental con le finestre a piombo su piazza Tahrir. A Bengasi la rivolta, cominciata il 17 febbraio, fu appoggiata dai raid di americani, francesi e britannici cominciati il 19 marzo sulle colonne dei tank di Gheddafi. Ma ci vollero mesi prima che i ribelli arrivassero alla Sirte con il sostegno militare occidentale e dell’Italia, senza il quale forse il regime del nostro maggiore alleato sarebbe ancora lì. In Siria la rivolta era divampata il 18 marzo a Daraa per poi propagarsi a Damasco, Homs e Hama. Bashar Assad, con il suo regime repressivo, alleato dell’Iran, della Russia e degli Hezbollah libanesi, appartenente alla minoranza alauita osteggiata dai sunniti, era il nemico perfetto di una guerra per procura. Il via venne dato a luglio 2011 dalla passeggiata dell’ambasciatore americano Ford tra i ribelli di Hama: fu il segnale dell’allargamento della guerra civile alle potenze esterne con l’afflusso di migliaia jihadisti dalla Turchia e dall’Iraq. Cadevano i raìs ma cominciava una nuova fase di tragedie, con migliaia di morti e di profughi. La fine di alcuni regimi da decenni in sella era ingannevole: c’era una continuità tra l’intervento americano nel 2003 in Iraq contro Saddam Hussein e la disgregazione successiva. Una lettura delle primavere arabe è limitata se non si valutano gli effetti di quel conflitto che sbriciolò un intero Paese nel cuore della Mesopotamia, occupato dagli americani, percorso dalla resistenza popolare e dal terrorismo di Al Qaida da cui poi nacque anche il Califfato. Fu la caduta di Saddam a spingere nel dicembre del 2004 Gheddafi a rinunciare alle sue armi di distruzione di massa e la Siria di Assad fu percorsa da una sotterranea destabilizzazione di origine irachena, aggravata poi dal conflitto tra il Libano e Israele nel 2006. Il jihadismo dall’Afghanistan era passato all’Iraq e dall’Iraq agli altri Paesi della regione: la deriva montante dell’Isis non nasceva dal nulla ma trovava precedenti e terreno fertile ovunque. Il vaso di Pandora aperto dall’Occidente nel 2003 non fu più, volutamente, richiuso. In Libia, dopo l’intervento di Francia, Gran Bretagna e Usa (poi della Nato), la guerra civile si è allargò con l’innesto dell’Isis. Così come in Siria, percorsa da interventi esterni a raffica e da una distruzione infinita: terreno di battaglia tra chi voleva abbattere il regime di Assad - oggi da 20 anni al potere - come la Turchia, le monarchie del Golfo, gli stessi Stati Uniti e chi voleva salvarlo, come l’Iran e la Russia. In Iraq, tre anni dopo le primavere arabe, il Califfato era arrivato alle porte di Baghdad è a fermarlo non furono gli occidentali ma le milizie sciite del generale iraniano Qassem Soleimani ucciso quest’anno dagli americani. Nei vuoti di potere in Tripolitania dal 2019 si è insediata la Turchia, in Siria dal 2015 la Russia e l’Iran rimane potenza di primo piano dal Libano all’Iraq. Il Medio Oriente e il Nordafrica, a un decennio da allora, rimane una delle regioni del pianeta con maggiori disuguaglianze: la ricchezza è in mano a clan o gruppi familiari oppure concentrata in impresentabili monarchie assolute che con la rendita petrolifera e finanziaria hanno sostenuto prima Saddam Hussein, poi i gruppi radicali anti-sciiti e anti-Assad, quindi i regimi contrari ai Fratelli musulmani come quello egiziano di Al Sisi e adesso, con il patto di Abramo, stanno convincendo gli arabi, a colpi di dollari, a diventare amici di Israele e clienti del suo sistema militare e securitario. Altro che Sessantotto.