Ancora troppi contagi in carcere: nuovi focolai a Bologna e a Padova di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 dicembre 2020 Il Covid ha colpito 1.030 detenuti (compresi quelli al 41bis) e 824 agenti di polizia penitenziaria. Se da una parte i focolai nelle carceri si ritraggono, dall’altra si espandono. Non c’è pace in questa seconda ondata dove il Covid 19 non ha risparmiato nessuna tipologia di detenzione in carcere, perfino i luoghi considerati “sicuri” come il regime del 41bis. I dati sono aggiornati a lunedì scorso. Ieri il Dap li ha inviati ai sindacati della polizia penitenziaria entrando nel dettaglio. Sono 1030 detenuti positivi al Covid, con nuovi focolai in diverse carceri. Abbiamo quello di Bologna con 67 casi di positività, tra i quali tre sono finiti in ospedale. Cresce il numero dei positivi al carcere di Sulmona con 89 casi, di cui dieci di loro sono ospedalizzati. C’è il carcere Due Palazzi di Padova dove il focolaio, individuato da poco, risulta coinvolgere 29 detenuti. Ma i numeri sono destinati a crescere, tant’è vero che i positivi li stanno spostando tutti al primo piano. Un nuovo e importante focolaio riguarda anche il carcere di Trieste con 71 detenuti positivi al coronavirus. Da ricordare che siamo giunti - secondo le notizie emerse finora - a nove detenuti morti per covid, tra i quali due di loro erano al 41bis. Ma il contagio riguarda anche gli agenti penitenziari che, sempre secondo i dati di lunedì sera, sono arrivati a 824 casi di positività. Proprio sabato scorso, è deceduto nel reparto covid dell’ospedale civile di Maddaloni, dov’era ricoverato da circa un mese, un altro Poliziotto penitenziario. Si tratta di un Assistente Capo, S. S., di 57 anni, in servizio presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere. I numeri evidenziano sempre più la indifferibile necessità di prevedere una riduzione di presenze ben più consistente di quella attuale. Ciò al fine di disporre di spazi adeguati per tutti gli isolamenti necessari e per fare fronte a malaugurati scenari futuri. Ma, nel frattempo, nulla cambia sul fronte parlamentare. Come sappiamo, il decreto Ristori a fine ottobre ha introdotto la possibilità di uscire fino al 31 dicembre per chi ha un residuo di pena di 18 mesi (ma con non pochi paletti) e il permesso di non rientrare in cella di notte per i detenuti in semilibertà. Misure insufficienti come hanno dichiarato tutti gli addetti ai lavori, dal Garante Nazionale a numerosi giuristi. Il Partito democratico, tramite il senatore Mirabelli, è riuscito a far passare un solo emendamento: la proroga dell’efficacia del decreto al 31 gennaio 2021. Nient’altro. Eppure, chi conosce il sistema penitenziario, è concorde sul fatto che andrebbe introdotta almeno l’estensione della misura della liberazione anticipata in relazione al periodo connesso alla diffusione pandemica. Anticipata e soprattutto “speciale”: passare dagli attuali 45 giorni di sconto di pena a 75 per tutti quei detenuti che abbiano intrapreso un percorso trattamentale. Ora però qualche spiraglio potrebbe aprirsi. Rita Bernardini del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino incontrerà il premier Conte il prossimo martedì. Si incontreranno per parlare dell’emergenza carceraria. Per questo, come atto di fiducia nei confronti del presidente del Consiglio, l’esponente radicale ha interrotto lo sciopero della fame che andava avanti da oltre un mese. Ricordiamo che qualche giorno prima, il premier ha incontrato a Palazzo Chigi il già senatore e presidente di “A Buon Diritto” Luigi Manconi, il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, il dottor Gherardo Colombo e lo scrittore Sandro Veronesi. Al centro dell’incontro la situazione delle carceri italiane, con particolare riferimento all’emergenza Covid. Proprio in quell’occasione, il premier ha promesso che avrebbe incontrato Rita Bernardini e che si confronterà con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, sulle problematiche sollevate e le proposte avanzate. Carcere, Covid 19 e diritti umani di Carlo Cefaloni Città Nuova, 17 dicembre 2020 Intervista sulla situazione carceraria a Claudio Paterniti Martello dell’associazione Antigone. Urgono misure per evitare il contagio negli istituti di pena rispettando la sicurezza e il recupero delle persone detenute. Sono in pochi ad occuparsi dei diritti delle persone che si trovano in carcere. Un microcosmo separato dove si aggravano le diseguaglianze esistenti nella società. Il sovraffollamento negli istituti di pena rappresenta un serio problema per la diffusione del Covid 19 non solo tra i detenuti. In una nota ufficiale del 9 dicembre il Procuratore generale al Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Salvi, ha evidenziato l’anomalia della presenza in carcere di almeno 2 mila persone che avrebbero diritto alla detenzione domiciliare ma non ne possono usufruire perché prive di domicilio. Proprio i soggetti fragili e meno pericolosi sono, quindi, esclusi da percorsi di recupero e reinserimento previsti dalla legge. Ne abbiamo parlato Claudio Paterniti Martello di Antigone, associazione politico culturale a cui aderiscono prevalentemente “magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che a diverso titolo si interessano di giustizia penale”. Come realtà impegnata da molti anni “per i diritti e le garanzie nel sistema penale” avete criticato l’ipotesi ventilata di destinare risorse del Recovery plan per la costruzione di nuove carceri, eppure i dati parlano di un sovraffollamento insostenibile, soprattutto considerando la pandemia in corso. Quali sono le ragioni della vostra obiezione? La ragione principale è questa: quando si costruiscono nuove carceri poi le si riempiono. Ce lo insegna la storia. Questo avviene senza legame con l’andamento della delittuosità. D’altra parte già oggi è così: da anni i reati sono in diminuzione ma la popolazione detenuta cresce (il trend si è invertito solo con l’arrivo della pandemia). Quindi più posti disponibili ci sono più si finisce per incarcerare. Ma il problema oggi è che si incarcera troppo. Il Procuratore generale della Cassazione a più riprese ha invitato a ricorrere alle misure di custodia cautelare con più parsimonia, in obbedienza a quanto previsto dalla Costituzione e dalla legge. Questa è una delle cose da fare. Con meno persone in carcere si avrebbero più risorse a disposizione per ciascuna persona detenuta e di conseguenza si sarebbe maggiormente in grado di perseguire la finalità costituzionale della pena, cioè il reinserimento del reo. Ogni educatore potrebbe dedicare più tempo a ciascun detenuto, la percentuale di lavoratori sarebbe più alta, e via dicendo. Quei soldi andrebbero usati per assumere più personale civile, per adeguare gli stipendi degli educatori a quelli del personale in divisa, per potenziare il welfare dentro e fuori, per rafforzare le strutture capaci di accogliere detenuti che hanno accesso potenziale alle misure alternative ma che per mancanza o inadeguatezza di domicilio oggi restano in carcere. D’altra parte riteniamo sacrosanto restaurare là dove c’è da restaurare. La richiesta di amnistia e indulto avanzate da radicali italiani, anche tramite sciopero della fame di Rita Bernardini, si scontra con le notizie dell’uscita dal carcere di pericoli esponenti delle mafie che non hanno problemi a pagare i migliori avvocati. Come si supera questa contraddizione tra ragioni umanitarie ed elusione della pena da parte di criminali recidivi? Le polemiche sulle scarcerazioni dei boss sono state molto pretestuose. Prima di tutto i numeri dati dalla stampa erano gonfiati: sono stati in 3 a essere passati dal 41bis allo scontare la pena a casa propria. Uno di questi avrebbe finito di scontare la propria pena alcuni mesi dopo. Detto ciò, bisogna tenere conto del fatto che dietro a ogni scarcerazione c’è una valutazione attenta da parte di un magistrato della Repubblica, basata sulla necessità di contemperare il diritto alla salute e le esigenze di sicurezza della comunità. Queste ultime vengono attentamente pesate, com’è giusto che sia. Ma la pena non può porsi al di fuori del dettato costituzionale. Mai. Penso dunque non vi sia contraddizione tra la pena e il rispetto dei diritti umani. D’altra parte, rispetto ad amnistia e indulto, i reati gravi come quelli di mafia si potrebbero facilmente escludere. Ma non mi sembra ci siano le condizioni politiche per arrivare a provvedimenti del genere. Purtroppo. Anche gli agenti di custodia vivono quotidianamente le contraddizioni di un sistema carcerario che, come riconosce il ministro Bonafede, è “stato trascurato per decenni e quindi si trova in una situazione di normale precarietà”. Quali sono, a vostro giudizio, gli interventi necessari a favore del personale del settore penitenziario? Innanzitutto bisognerebbe consentire il passaggio da un settore dell’amministrazione pubblica all’altro. Lavorare in carcere espone a grandi rischi di burnout. Questo vale per gli agenti, ma anche per gli educatori, i direttori, etc. Mi sembra però che i sindacati di polizia penitenziaria non lo chiedano. Il risultato è che gli unici a cambiare mestiere sono quelli che vanno a fare i sindacalisti. Noi crediamo che chi lavora in carcere oggi non sia abbastanza gratificato: né da un punto di vista materiale, economico, né da un punto di vista formativo, né simbolico. Questo vale sia per gli agenti che per il personale civile. Dopodiché mancano molte figure: i mediatori linguistici e culturali sono pochissime, in un sistema penitenziario in cui un detenuto su tre è straniero. Gli educatori sono pochi. Non si fa un concorso per direttori da 25 anni. Sono queste le strade da perseguire. Infine, in un sistema meno affollato anche il carico organizzativo del personale sarebbe minore. Che follia il ddl Bonafede, si avranno procedimenti di serie A e di serie B di Tullio Padovani Il Riformista, 17 dicembre 2020 Il d.d.l. del ministro Bonafede, di delega al Governo per l’efficienza del processo penale, include, nella selva di innovazioni “rivitalizzanti”, una disposizione volta a “garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”, attraverso l’individuazione di “criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi della procura della repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre”. Non si tratta di una novità assoluta: giace in Senato un d.d.l. costituzionale diretto a individuare, per l’appunto, “priorità di esercizio dell’azione penale”. Il retroterra di queste recenti iniziative è costituito da una serie, piuttosto cospicua, di provvedimenti di vario genere e di vario livello (dalla circolare Maddalena del 2007 sino alla delibera dell’11 maggio 2016 ed alla circolare del 16 novembre 2017, entrambe del Csm) con i quali si suggerisce, si autorizza o si incentiva l’adozione di criteri di priorità nella trattazione, da parte delle procure, dei procedimenti penali. Si è dunque preso atto, a livello politico, che l’esercizio obbligatorio dell’azione penale, inteso secondo l’automatismo apparentemente imposto dall’art. 112 Cost. non è compatibile con il numero dei procedimenti che giorno dopo giorno si rovesciano come un’alluvione sui tavoli dei procuratori, che, per quanto si sforzino di procurare, debbono prima o poi fare i conti con il numero dei magistrati disponibili, della polizia giudiziaria e del personale ausiliario e con le capacità operative dell’organizzazione giudiziaria. Tutto non si può perseguire. Si tratta solo in parte di una patologia, determinata da deficienze strutturali e funzionali (carenze di personale inefficienza organizzativa e quant’altro). La patologia aggrava certo la situazione, ma non la determina. La necessità di stabilire su quali procedimenti concentrare l’attenzione e le energie disponibili e quali lasciare declinare verso l’estinzione per prescrizione (i cui termini - come è noto - maturano in larghissima parte nel corso delle indagini preliminari) è comune, regolare, risalente: espressione di una fisiologia prima che di una patologia. Nessun ordinamento può davvero soddisfare la pretesa punitiva che in linea di principio avanza e prospetta attraverso l’apparato delle norme penali (e punitive in generale). Data l’entità smisurata delle risorse necessarie per raggiungere un simile obiettivo non sopravvivrebbe a sé stesso. Di uno scolmatore si è sempre avvertita la pressante, ineludibile necessità, e ad un qualche espediente si è in effetti sempre fatto ricorso. Un tempo lo si predisponeva appositamente ogni qual volta il livello di guardia stava per essere raggiunto. Si tratta ovviamente delle amnistie che, in età repubblicana, hanno assunto una ricorrenza più o meno quinquennale (ma che in epoca fascista si succedevano ad anni alterni: era il costo che bisognava sopportare in cambio di una ferocia selettivamente esercitata). La sostanziale abrogazione dell’istituto, con la riforma giacobina dell’art. 79 Cost., nel 1992, ha imposto la ricerca di soluzioni alternative. Il fido smaltitore sostituto si è profilato immediatamente all’orizzonte: la prescrizione, nuovo destino dei procedimenti “non prioritari” o, comunque, inciampati lungo il percorso, lento e faticoso. Di recente una nuova ventata giacobina ha travolto anche la prescrizione, accusata di fare un lavoro talvolta “sporco”, senza considerare che si trattava pur sempre di un lavoro necessario. Ora, dopo la sentenza di primo grado, si dischiudono per il processo le distese dell’eternità; il prossimo “smaltitore sostituto” sarà quindi la morte del reo. Per sanificare le indagini preliminari, ed impedire che si trasformino in un focolaio di prescrizione prima del salvifico intervento della sentenza di primo grado, il d.d.l. in discussione introduce un meccanismo di tagliole temporali delle varie fasi, presidiate da sanzioni disciplinari: per la corsa del cavallo, si profila la frusta, o, meglio, il frustino. Ma il problema giace invariato. La corsa non può coinvolgere tutti i procedimenti che si presentano al via, perché la pista resta comunque troppo stretta. Sia chiaro: i “rimedi” selettivi del passato non rappresentavano certo una soluzione soddisfacente. Erano un espediente, talora incongruo, talora squallido, talora iniquo, per arginare la marea montante dei reati da perseguire. Ma non c’era di meglio. L’azione penale è solennemente, sacrosantamente obbligatoria, per tutto e per tutti? Per rendere omaggio a questa improbabile “virtù” serviva una dose corrispondente di ipocrisia, fornita per l’appunto dall’amnistia prima e dalla prescrizione poi: trasformati in quel che forse non avrebbero dovuto essere, ma che, nella dura necessità, non potevano non essere. Il d.d.l. ha questo di buono: riconosce che occorre disciplinare, in modo da smistare secondo criteri d’ordine. Ma il buono si arresta al punto stesso di questo riconoscimento, perché nella direzione sbagliata già volge il passo successivo, verso un ordine di “priorità” nella trattazione dei procedimenti elaborato dal procuratore della Repubblica interloquendo “con il procuratore generale” e “con il presidente del tribunale”, e tenendo conto “della specifica realtà criminale e territoriale, delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili e delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti”. Si tratta di criteri a dir poco sconcertanti; ma prima di tutto è assurda l’idea cui dovrebbero dar corpo, e cioè “selezionare le notizie di reato con precedenza rispetto alle altre”. Le domande che una simile prospettiva regolatoria suscita è: ma, alla fine, li trattiamo davvero tutti, questi procedimenti; chi prima, chi dopo, ma tutti? In realtà, un esito simile non si può nemmeno supporre. Le priorità non moltiplicano i magistrati, non aumentano i mezzi, non incrementano le risorse. Il criterio di priorità ha senso solo in una dimensione statica: mille, e non più di mille, processi da trattare, e tutti lo saranno, secondo un certo ordine. Ma se la dimensione è dinamica, è ovvio che a spingere all’indietro i procedimenti “secondari” interverranno sempre nuovi procedimenti “prioritari”, mentre i nuovi “secondari” s’aggiungeranno ai precedenti. E così via, in un incessante retrocessione. La trattazione “prioritaria” è quindi solo una parafrasi ipocrita dell’invio, al macero della prescrizione, dei procedimenti eccedenti le risorse disponibili. Si tratta in pratica di una forma surrettizia di disciplina della causa estintiva nella fase delle indagini preliminari. Senonché anche i procedimenti posposti saranno ovviamente iscritti nel registro delle notizie di reato; anche per essi, ad un certo punto, scatterà la tagliola della durata di fase, che finirà col risultare inesorabilmente superata. Che ne sarà del pm procedente? Il piano organizzativo costituirà, con ogni probabilità, la base scriminante della violazione disciplinare determinata dal mancato rispetto dei termini. Ma potrà funzionare sempre? C’è da dubitarne, soprattutto se alla fine maturassero i termini di prescrizione. Un Candide giudiziario potrebbe tuttavia, alla fin fine, rallegrarsi: in fondo, invece di affidare la prescrizione a decisioni imperscrutabili del singolo magistrato chiamato a scegliere tra le pile dei fascicoli, ne avremmo una disciplina palliata, ma pur sempre una disciplina. Qui casca però anche l’ultimo asino. Si tratterebbe, infatti, di una disciplina orripilante in ragione del contenuto dei criteri formulati. Stabilire in astratto quali debbano essere i procedimenti prioritari finisce comunque con l’implicare scelte di politica criminale che solo il legislatore può definire. Se ci si attesta poi una sorta di “tipologia” locale, come sembra implicare il riferimento alla “specifica realtà criminale e territoriale”, si giunge facilmente all’assurdo di trascurare i fenomeni emergenti, spesso i più pericolosi. Se in un circondario non c’è mafia, i reati che ne suggeriscono una prima presenza non beneficerebbero della priorità. Viceversa in un circondario denso di furti di biciclette (ce n’è almeno uno), occorrerebbe forse dedicarsi col piglio severo a questo reato. In realtà ogni reato può, in circostanze date e secondo criteri di apprezzamento specifico, esigere una trattazione prioritaria. L’appropriazione indebita non è, notoriamente, al vertice della priorità delle procure; ma se coinvolge ad esempio una comunità produttiva, messa in ginocchio dalle malversazioni di un commercialista infedele, può esigere un’attenzione particolarmente sollecita. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Del tutto implausibili risultano anche i criteri riferiti alle “risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili”. Che significa? Si dovrebbe ritenere che se in un distretto mancano i mezzi per accertare un disastro ambientale, è il caso di posporre la priorità di questo reato; o che se mancano investigatori attrezzati in materia finanziaria, è preferibile sorvolare? Sarebbe più semplice stabilire che le procure povere e sguarnite debbano limitarsi a far volare gli stracci. Una follia. Bisogna dunque concludere che ci si trova di fronte ad una strada senza sbocco? Non è affatto così. Basta tornare indietro e imboccare la via maestra, quella europea, costituita dal riconoscimento che l’esercizio dell’azione penale deve uniformarsi a congrui e verificabili canoni di discrezionalità. Un vasto programma che bisogna acconciarsi a realizzare. Diversamente, finiremo sempre in un sentiero nel bosco che, interrompendosi, svia. Processi ridotti a scambi di carte, una deriva impensabile nel penale di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 17 dicembre 2020 Ancora una volta, come già fatto in occorrenza della cosiddetta prima ondata relativamente alle prime misure restrittive che il governo aveva assunto per fronteggiare la - purtroppo - ancora attuale emergenza sanitaria, appare utile esaminare dal punto di vista tecnico-giuridico le conseguenze pratiche di alcune norme inserite nel recente decreto Ristori bis, predisposte al fine di contenere il contagio e la diffusione del Covid anche nei Palazzi di giustizia. Come sempre, il punto di partenza dell’analisi è l’occasione offerta dalla pandemia rispetto alla maggiore implementazione delle modalità telematiche non solo nel lavoro del personale amministrativo ma anche nell’attività processuale degli stessi due protagonisti della giurisdizione: magistrati e avvocati. Tuttavia, tale circostanza non può essere considerata tout court una notizia da accogliere con entusiasmo, soprattutto quando è ricondotta alla giustizia penale, ambito a cui va riconosciuta una specifica peculiarità rispetto agli altri. Nel procedimento penale operano ed emergono prerogative e diritti che coinvolgono la persona nella sua sfera più intima e delicata: la libertà personale. E infatti, in questo senso, la possibile trasformazione del processo penale in un mero rito cartolare - ipotesi ventilata sia durante il primo lockdown che ancora adesso - pone inevitabilmente in serio pericolo le garanzie difensive alla base del sistema penale italiano, ambito nel quale il contraddittorio e il dialogo fisico tra le parti - giudice, pubblica accusa, difensore e imputato - costituiscono elemento imprescindibile e insostituibile. La questione, recentemente affrontata anche nel decreto Ristori bis, concerne l’eliminazione in forma fisica delle figure dei magistrati e degli avvocati dall’aula, in relazione - per ora - al giudizio di appello. Questa sarebbe, tuttavia, secondo alcuni, solo l’anticamera di una previsione a più ampio spettro, concernente un futuro per il processo penale interamente cartolare e, per ciò, privo delle caratteristiche di oralità e immediatezza. In particolare, il Decreto Ristori bis prevede l’abolizione dell’udienza fisica, a meno di richiesta espressa dell’interessato. La discussione orale in secondo grado viene così sostituita solamente dall’eventuale deposito di note scritte, sia da parte del difensore, sia da parte del procuratore generale. In assenza della esplicita istanza delle parti, il processo d’appello è non solo ridotto a uno scambio di carte ma viene anche deciso in una “suggestiva” camera di consiglio virtuale, svolta da remoto dal collegio giudicante. Evenienza, obiettivamente, inaccettabile sia per gli avvocati penalisti, ma anche per la pubblica accusa. Risulta evidente, infatti, come una simile impostazione priverà inevitabilmente il processo penale di quei requisiti essenziali per l’accertamento della verità, con particolare riguardo alla modalità dell’esame, del controesame e del riesame delle parti, e dell’effettivo accesso, per i componenti del collegio non investiti dal ruolo di relatore, agli atti necessari per maturare un plausibile convincimento. Il sistema di ricerca della verità è, ovviamente, collegato alla presenza fisica: come si può pensare, ad esempio, di rilevare se un teste sta dicendo la verità su un fatto, senza la presenza fisica del teste stesso? Un dato è, quindi, certo ed occorre ribadirlo ancora una volta: il processo penale, finanche solo limitatamente al giudizio di appello, non può essere ridotto a un mero adempimento burocratico automatizzato, ove la decisione è basata su un asettico scambio cartolare. Le ragioni, in questo caso dell’atto di appello, devono poter essere spiegate oralmente: può sembrare banale e di poca importanza, ma anche la gestualità e la percezione delle reazioni in aula rivestono un fondamentale ruolo in seno al procedimento penale. In conclusione, il processo penale fisico non può essere sacrificato e stravolto nella sua natura più profonda neanche a fronte dell’esigenza di ridurre il rischio di contagio: i rimedi, sempre rimanendo aderenti alle misure di contenimento del virus, in tal senso devono necessariamente essere altri e vanno ricercarti nella riduzione della burocrazia: richiesta degli atti in via telematica, deposito degli stessi da remoto, consultazioni dei fascicoli su piattaforma on- line. Si tratta di modalità che, queste sì meritoriamente, sono state puntualizzate da alcuni emendamenti al decreto Ristori bis approvati in Senato. Sarebbe impensabile che cancellerie di primari Palazzi di Giustizia esigano depositi cartacei di atti agilmente presentabili con firma digitale. Non è l’udienza d’appello a essere veicolo di contagio; semmai lo è la coda allo sportello per il deposito delle querele. Vero è che l’emergenza sanitaria ha dispiegato tutta la fragilità di un sistema, quello della giustizia, profondamente da rivedere, nel merito e nei mezzi. *Avvocato - Direttore Ispeg Consulta: quarto giudice donna. È l’ex Csm Maria Rosaria Sangiorgio di Liana Milella La Repubblica, 17 dicembre 2020 L’ha eletta la Cassazione con 186 voti contro Giorgio Fidelbo che ne ha avuti 133. Domani giura al Quirinale. Venerdì la Corte elegge il presidente. Sarà Giancarlo Coraggio, già al vertice del Consiglio di Stato. In Cassazione vince il cartello delle toghe conservatrici che mandano alla Consulta la civilista Maria Rosaria Sangiorgio che sconfigge Giorgio Fidelbo, il collega penalista schierato con i giudici progressisti. Sangiorgio, fino a due anni fa componente togata del Csm e capogruppo di Unità per la Costituzione, il gruppo di cui faceva parte Luca Palamara, attualmente era presidente di una delle sezioni civili della Suprema corte. Mentre Fidelbo era al vertice della sesta penale. Per Sangiorgio la vittoria è netta, con i suoi 186 voti incassati a fronte dei 133 di Fidelbo. Sarà la quarta donna della Corte costituzionale, dopo, in base all’anzianità di insediamento, Silvana Sciarra e Daria de Pretis, la prima eletta dal Parlamento e la seconda nominata dal Quirinale, come l’ultima giudice indicata da Mattarella, Emanuela Navarretta, che ha preso il posto di Marta Cartabia. Le donne dunque si avvicinano a toccare un terzo dei 15 giudici della Consulta, un indiscutibile passo avanti rispetto a quando entrò nel palazzo la prima donna, l’avvocato genovese Fernanda Contri, scelta nel 1996 dall’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro. Poi ci sono voluti altri vent’anni per giungere alla presidenza di una donna, quella della costituzionalista Cartabia. Una presidenza funestata dal Covid, che ha colpito la stessa Cartabia, ma che ha segnato una mutazione importante per la Corte, passare dalle udienze e dalle camere di consiglio dal vivo a quelle in parte o del tutto da remoto, a secondo della forza del Covid. Una consuetudine che ha coinvolto anche gli avvocati, prima riluttanti, ma poi pronti a capire che quella strada era l’unica per non bloccare il giudice delle leggi. Anche nel loro interesse. In questa direzione, Mario Rosario Morelli, il giudice che è stato presidente per tre mesi, ha raccolto e implementato l’intuizione di Cartabia verso una giustizia che anche nell’emergenza Covid non si ferma. Maria Rosaria Sangiorgio, che giovedì mattina giurerà al Qurinale nelle mani del presidente della Repubblica, è nata nel 1952 a Napoli. Entrata in magistratura nel 1981, è stata pubblico ministero e poi assistente di studio proprio alla Consulta. Dal 1998 è in Cassazione, dove ha lavorato prima al Massimario, l’ufficio che monitora le sentenze, e poi nel settore civile, dov’è rientrata dopo i quattro anni trascorsi al Csm dal 2014 al 2018. Sicuramente la sua elezione farà discutere per un triplice motivo. In primo luogo, perché dopo soli due anni Sangiorgio passa dal Csm alla Consulta, e quindi terminerà la sua carriera di giudice, che si chiude a 70 anni con il pensionamento, fuori dalla magistratura. Poi per il confronto aspro - anche se molto sotto traccia - che c’è stato alla Corte di Cassazione tra gli sponsor di Giorgio Fidelbo, noto penalista, e la stessa Sangiorgio. Sicuramente a giocare a favore di Sangiorgio sarà stata anche la convocazione in Corte di tutti i civilisti chiamati giusto martedì a ritirare il token per avviare il processo civile telematico. Già dal primo voto si era capito l’orientamento dei colleghi: ben 141 voti a Sangiorgio, seguita da Fidelbo con 83. A seguire i 69 voti di Luigi salvato, anche lui civilista e avvocato generale, e i 32 di Adelaide Amendola, civilista anche lei. A sentire i bene informati nel palazzo di piazza Cavour a Fidelbo avrebbe nuociuto la forte dinamica di contrapposizione nel gruppo della sinistra di Area, che non ha mai raggiunto una vera unità di azione e di intenti tra la storica corrente di Magistratura democratica e quella del Movimento per la giustizia. Un riflesso delle polemiche s’è visto anche con le elezioni dell’Anm, quando è stata esclusa la corsa verso la presidenza di Silvia Albano proprio in quanto toga “rossa” di Md. Un gruppo che viene sempre visto come in bilico verso una possibile uscita da Area. A fronte di queste dinamiche “guerresche”, la destra della magistratura - Unicost e Magistratura indipendente - ha marciato compatta sul nome di Sangiorgio. Infine ci sono gli equilibri interni alla Consulta. Dove sarebbe stato ben visto l’arrivo di un penalista, visto che al momento c’è il solo Francesco Viganò, docente appunto di diritto penale, anche se il giudice Giovanni Amoroso, alle sezioni unite della Cassazione, ha trattato anche questioni penali ma venendo dal civile. Sono civilisti invece Stefano Petitti, anche lui giudice della Suprema Corte, Emanuela Navarretta, ordinaria di diritto privato, Giulio Prosperetti e Silvana Sciarra, entrambi giuslavoristi, Giancarlo Coraggio e Angelo Buscema, ex presidenti rispettivamente del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Daria de Pretis è una amministrativista. E poi c’è la platea dei costituzionalisti, Giuliano Amato, Luca Antonini, Augusto Barbera, Franco Modugno, Nicolò Zanon. Ma a questo punto la Consulta marcia verso l’elezione del presidente che prenderà il posto di Mario Rosario Morelli. Scontata la nomina, probabilmente plebiscitaria, di Coraggio, già oggi vice presidente, che avrà davanti a sé 13 mesi di presidenza. Quindi una presidenza “lunga”. Ad Amato, che lo segue per anzianità di nomina e resterà alla Corte per altri due anni, andrà la vice presidenza. Il voto ci sarà venerdì, seguito dalla consueta conferenza stampa. Ora tra Davigo e il Csm è guerra permanente di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 17 dicembre 2020 L’ex togato non demorde: ricorso al Consiglio di Stato contro la decadenza sancita dal plenum dopo quello dichiarato inammissibile dal Tar del Lazio. Piercamillo Davigo non demorde e reclama il proprio posto al Csm. Dopo che il Tar del Lazio, lo scorso 11 novembre, ha declinato la propria competenza in favore del giudice ordinario, e ha conseguentemente dichiarato inammissibile il suo ricorso, l’ex pm di Mani pulite ha deciso di rivolgersi al Consiglio di Stato. Già oggi dovrebbe rispondergli il plenum del Csm, chiamato a deliberare la costituzione in giudizio contro l’ex consigliere. La storia è nota. Davigo a ottobre aveva compiuto settant’anni, età massima per il trattenimento in servizio dei magistrati, ed era stato dichiarato decaduto dalla carica di consigliere del Csm. Un provvedimento erroneo per il magistrato fondatore di Autonomia & indipendenza in quanto il mandato di consigliere, avendo durata quadriennale, sarebbe sganciato dall’età anagrafica. L’appello è del 26 novembre. Dal plenum di oggi dovrebbe arrivare il mandato all’Avvocatura dello Stato per resistere contro Davigo. La tesi dell’ex togato punta inizialmente a dimostrare l’erroneità della motivazione con la quale i giudici del Tar hanno declinato la loro giurisdizione. Poi, chiedendo il cautelare, evidenzia “la non risarcibilità, per equivalente, del pregiudizio derivante dall’illegittima cessazione dell’incarico” e la circostanza che è stata convalidata l’elezione del consigliere subentrante Carmelo Celentano. Davigo osserva inoltre che, stante la durata quadriennale dell’incarico, decorrente dal 2018, la decisione sul merito, visti i tempi della giustizia, giungerebbe “verosimilmente in prossimità o addirittura dopo la conclusione della consiliatura, troppo tardi perché egli possa essere reintegrato nelle sue funzioni”, con la conseguenza di non poter “mai ottenere il bene della vita illegittimamente sottrattogli con la deliberazione impugnata”. Come ribadito dall’Avvocatura dello Stato, l’eventuale presenza nell’organo consiliare di componenti estranei all’ordine giudiziario e non eletti dal Parlamento vulnera l’equilibrio voluto dal Costituente, comportando un’alterazione della proporzione tra componente togata e laica. E tale effetto verrebbe sicuramente a determinarsi qualora fosse consentito al consigliere posto in pensione nel corso della consiliatura (o dimessosi) di proseguire il mandato. Il pensionamento (come le dimissioni) determina, secondo la tesi opposta dal Csm a Davigo, la cessazione dall’appartenenza all’ordine giudiziario, con la conseguenza che il consigliere perde la qualità di membro togato e, non potendo essere incluso nella categoria dei componenti laici, in quanto non eletto dal Parlamento, verrebbe a configurare un “tertium genus” non esistente nel sistema e, quindi, inammissibile. Questo aspetto fu oggetto di discussione durante l’Assemblea costituente. L’ipotesi di consentire ai magistrati collocati a riposo una partecipazione all’attività consiliare fu, infatti, espressamente esaminata con varie tesi. Nel dibattito sulla composizione del Csm venne avanzata la proposta di prevedere che il presidente dell’organo fosse coadiuvato da due vicepresidenti, nelle persone del procuratore generale della Cassazione e di un magistrato collocato a riposo col titolo onorifico di primo presidente di Cassazione eletto dai magistrati o di includere i magistrati in pensione tra i componenti laici. Tale proposta fu però abbandonata, e nel prosieguo del dibattito si arrivò all’adozione del testo attuale. Portando alle estreme conseguenze la tesi di Davigo del diritto a conservare la carica dopo la fuoriuscita dall’ordine giudiziario, si dovrebbe ammettere che, qualora dopo le elezioni per il Csm, tutti i togati si dimettessero o fossero collocati a riposo (si pensi a un’adesione in massa a “quota 100”), il Consiglio possa continuare a svolgere le proprie attività avendo come unici componenti togati il primo presidente e il procuratore generale. Se, invece, il Consiglio di Stato dovesse sposare la tesi di Davigo, la prima conseguenza si avrebbe sulla Sezione disciplinare, invalidando le attività svolte in queste settimane da Celentano che, come detto, ha sostituito il magistrato milanese. La promessa del sottosegretario Ferraresi: “Intervento immediato per le toghe onorarie” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 dicembre 2020 La protesta della magistratura onoraria per veder riconosciuto il loro operato come lavoro subordinato non si ferma. E il sottosegretario grillino promette una “decretazione d’urgenza”. La protesta della magistratura onoraria per veder riconosciuto il loro operato come lavoro subordinato non si ferma: in tutta Italia - Gorizia, Torino, Vasto, Larino, Santa Maria Capua Vetere, Napoli, Palmi, Locri, Messina - aumentano i flash mob davanti ai Palazzi di Giustizia e l’annuncio di astensione dalle udienze. Dopo il sostegno ufficiale da parte dell’Anm nazionale, arrivano anche messaggi di appoggio alla mobilitazione da parte delle giunte locali, come quella del Trentino Alto Adige, la cui presidente Consuelo Pasquali ha sottolineato “la necessità e urgenza, proprio in questo periodo di pandemia, che ha colpito indistintamente in ogni settore lavorativo, di riconoscere un vero status giuridico ed economico a questa categoria di magistrati, che fa parte dell’ordine giudiziario e contribuisce da più di vent’anni, in maniera seria e professionale, ad amministrare il servizio giustizia”. Intanto ieri, in una nota, i senatori del Partito Democratico Valeria Valente e Franco Mirabelli, rispettivamente relatrice del provvedimento sulla magistratura onoraria e capogruppo in commissione Giustizia a Palazzo Madama, hanno annunciato la necessità di convocare al più presto “un tavolo delle forze di maggioranza per affrontare in maniera più complessiva e organica i nodi aperti in modo da individuare rapidamente il percorso più utile per dare finalmente risposte adeguate, a partire dalla individuazione delle ulteriori risorse necessarie a completare la riforma” della magistratura onoraria. “Come Pd - aggiungono i due - abbiamo lavorato per portare avanti, in commissione Giustizia al Senato, una riforma della magistratura onoraria in grado di affrontare i nodi rimasti aperti dalla riforma del 2017, soprattutto per i magistrati in servizio ai tempi dell’approvazione della riforma Orlando. Il calendario dei lavori parlamentari purtroppo da diverse settimane è bloccato essendo possibile solo il varo dei provvedimenti che riguardano l’emergenza covid e le conseguenti misure economiche per aiutare il nostro Paese a superare la pandemia. Ma la riforma dovrà comunque andare in aula nelle prossime settimane nei tempi necessari per evitare intrecci con la possibile entrata in vigore della riforma del 2017”. A stigmatizzare le dichiarazioni dei dem ci pensano i togati onorari di Assogot: “L’ipotesi di convocare un tavolo giunge fuori tempo massimo. Non è più tempo di estenuanti trattative che finiscono nel nulla, come è avvenuto nella vicenda del tavolo tecnico del precedente governo. Ribadiamo la necessità di provvedere con decretazione d’urgenza a fornire soluzioni immediate e in linea con i principi costituzionali in materia di giusta retribuzione e con le norme comunitarie e nazionali che tutelano i lavoratori. In epoca di Covid non possiamo attendere oltre, se la politica ci vuole dare un riscontro lo faccia subito, così avremo avuto dal 2020 almeno un risultato positivo”. Di “decretazione d’urgenza” ha parlato ieri in una nota anche il sottosegretario alla Giustizia del Movimento Cinque Stelle, Vittorio Ferraresi: “Penso che non sia più rinviabile un intervento immediato che possa dare tranquillità alla magistratura onoraria, modificando la disciplina attuale con dei correttivi indispensabili, in una situazione già critica. Con adeguati correttivi e risorse aggiuntive, partendo da quelle già oggetto di proposte di maggioranza, possiamo dare un segnale importante di tutela per chi ha svolto e continua a svolgere un’attività fondamentale per lo Stato, e ragionare successivamente di una complessiva riforma di un settore essenziale per il nostro sistema giudiziario”. Nel frattempo ieri dopo 14 giorni di sciopero della fame i giudici onorari del Tribunale di Palermo, Sabrina Argiolas e Vincenza Gagliardotto, hanno interrotto la loro iniziativa nonviolenta “a seguito dei recenti contatti istituzionali e politici qualificati, riponendo fiducia nell’impegno assunto - in tale fase di emergenza pandemica ancora in atto - per una risoluzione celere e con decretazione d’urgenza” che consenta di riprendere l’attività lavorativa con la serenità e le legittime tutele giuslavoriste. Covid, in Lombardia il numero più alto di detenuti positivi: sono 402 di Chiara Baldi La Stampa, 17 dicembre 2020 Il numero più alto di detenuti contagiati dal coronavirus è in Lombardia, dove i positivi tra coloro che scontano la propria pena in un istituto penitenziario sono ancora in salita: 402 le persone in carcere ad oggi positive, di cui 374 asintomatici, 16 con sintomi e 12 ricoverati in ospedale. Solo qualche giorno fa, l’11 dicembre, i contagiati tra la popolazione carceraria erano 350. Il penitenziario lombardo con più positivi resta Bollate, dove se ne contano 108, di cui 99 asintomatici, 8 con sintomi e un ricoverato in ospedale, seguito da Opera, che ne ha invece 78, di cui 8 in ospedale e 66 asintomatici. Al terzo posto del podio c’è la casa circondariale di Monza, che ad oggi ha 73 persone positive tutte asintomatiche. Per quanto riguarda invece il dato nazionale, si registra un aumento, con la cifra di positivi che torna sopra il migliaio: 1023 per la precisione, secondo i dati aggiornati a ieri sera. Qualche giorno fa erano stati invece 996. Ma la buona notizia, se così si può chiamare, è che 950 sono asintomatici, mentre 43 hanno sintomi riconducibili al Covid19 e 30 sono invece ricoverati in ospedale. Fuori dalla Lombardia, continuano a preoccupare alcuni focolai, come quello di Sulmona, in provincia de L’Aquila, dove aumentano ancora i positivi, (93, di cui 6 in ospedale e 86 asintomatici). A Bologna sono 61 i positivi, di cui 58 asintomatici e tre ricoverati, mentre in Friuli Venezia Giulia i numeri sono in calo: se a Trieste diminuiscono appena i contagiati - sono 77, tutti asintomatici - a Tolmezzo c’è una variazione significativa, passando dai 54 detenuti positivi dell’11 dicembre ai 18 attuali, di cui 16 asintomatici e due in ospedale. Intanto in Lombardia c’è grande attesa per i vaccini contro il virus: secondo quanto comunicato dall’ufficio del commissario Domenico Arcuri, alla regione più colpita dal virus toccheranno 304.955 dosi. Sarà quindi la regione che, per quanto riguarda la prima consegna, riceverà il numero più alto di vaccini Pfizer: in tutta Italia saranno 1,9 milioni le dosi di anti-Covid della Pfizer che saranno distribuite. Al secondo posto c’è l’Emilia-Romagna con 183.138 dosi, poi il Lazio (179.818), il Piemonte con 170.955 scatole, il Veneto con 164.278 e la Campania, con 135.890. In fondo alla classifica, la Valle d’Aosta che riceverà 3.334 dosi di Pfizer. Covid: 90 detenuti e 21 operatori positivi nelle carceri abruzzesi e molisane news-town.it, 17 dicembre 2020 “Anche gli istituti penitenziari dell’Abruzzo e del Molise stanno pagando l’amaro prezzo di questa terribile pandemia, visti i numeri di contagiati, tra detenuti e personale, specie a Sulmona”. A darne notizia sono Paola Puglielli, Antonio Amantini e Giuseppe Merola della Funzione Pubblica Cgil Abruzzo Molise che, da tempo, lanciano l’allarme sul sistema penitenziario. Ad oggi, fa sapere il sindacato, sono 111 i positivi al Covid tra detenuti e personale nelle carceri abruzzesi e molisane. “La situazione è sicuramente sotto controllo, tenendo conto degli indefessi sforzi quotidiani di tutti, senza tralasciare i discreti approvvigionamenti di DPI e protocolli definiti sulla prevenzione e sicurezza, ma resta comunque troppo alto il numero dei positivi e la legittima paura tra i nostri lavoratori che chiedono garanzie e tutele - continuano i sindacalisti - Negli ultimi giorni, abbiamo registrato anche l’ospedalizzazione di alcuni detenuti, presso alcuni nosocomi, con relative difficoltà logistiche ed organizzative per la Polizia Penitenziaria”. “Servono immediati e seri interventi politici sulle carceri, a difesa di tutta la collettività, vista la presumibile scientifica “terza ondata - chiosano senza mezzi termini Puglielli, Amantini e Merola - prima che sia troppo tardi. L’apparato penitenziario generale già presentava delle peculiarità affannose e critiche - conclude il sindacato - e in questo storico momento di crisi, purtroppo, si fanno i conti con la realtà. Bisogna cambiare rotta ed investire efficacemente sulle risorse umane, mezzi e strutture”. Lo Stato sprint in Calabria è solo quello delle manette di Gioacchino Criaco Il Riformista, 17 dicembre 2020 Il ministro Bonafede si è fiondato a Lamezia Terme per celebrare l’aula bunker del processo Rinascita Scott. E il lavoro? E la sanità? E i trasporti? Quelli possono attendere. Uno Stato rapido, efficiente, dal sapore nordico, nipponico, che irrompe in un mondo dal ritmo lento, dal cuore rassegnato. Il ministro Bonafede che fa un passaggio lampo per celebrare il proprio trionfo: nella Piana di Lamezia Terme è sorta l’aula bunker dentro cui si celebrerà il processo elefantiaco Rinascita Scott. I muscoli del Governo sono scattati, hanno risposto alle esigenze della lotta alla mafia. Bonafede ha parlato di un messaggio chiaro, univoco: per la ‘ndrangheta non ci sarà tregua, sarà processata nella sua sede naturale. Come se fosse un’intimazione di sfratto, una cacciata dal contesto sociale che ha annichilito. I locali, riadattati in tempi strettissimi, dell’aula bunker sono quelli della Fondazione Terina, ente in house della Regione Calabria, prima ospitavano 700 lavoratori del call center di proprietà della Abramo Customer Care. I lavoratori erano già stati ridotti a 150 per la crisi in cui l’azienda versa da tempo, azienda che impiega in totale 3.000 calabresi in tutta la Regione. Gente che rischia di perdere il lavoro se non si troverà un modo per uscire dalla crisi. Per gli impiegati di Lamezia è urgente trovare una collocazione logistica, posto che la Fondazione Terina non ha rinnovato il contratto di locazione, proprio perché i locali lametini sono stati destinati a un altro utilizzo: di sede processuale, appunto. E sì, i calabresi sono rimasti spiazzati. Uno Stato sprinter per rispondere alle esigenze di un processo, che di sicuro è una cosa buona. E uno stato lumaca, anzi gambero quando gli interventi supersonici sarebbero utili per la questione occupazionale. E il ministro Bonafede è sceso per festeggiare un trionfo dello Stato, lo ha fatto con troppa velocità, e forse non la ha vista l’atmosfera di depressione. Atmosfera che sarebbe stata diversa se fosse sceso per tempo pure il ministro del Lavoro, per provare a dare soluzione a 3.000 lavoratori. A Caulonia, che sta giusto sull’affaccio del mare opposto a quello di Lamezia, nel 2015 la piena dell’Allaro si portò via il ponte della statale 106, unica strada di comunicazione di un certo, se pur minimo, rilievo. Il ponte nuovo ancora non c’è, forse ci sarà a Natale, anche se è il quinto da promessa non mantenuta. E non c’è ancora tutta la nuova 106 promessa, non c’è ancora il tratto di 52 chilometri per completare l’autostrada del Mediterraneo, fra lo Jonio e il Tirreno c’è la galleria della Limina in cui prima di entrare ci si fa il segno della croce. La sanità è la poca cosa che era prima della pandemia. Il binario della jonica è il serpente solitario e senza elettricità del tempo in cui i treni andavano a diesel, e così ancora marciano con quella nostalgica puzza di gasolio e umanità transumante che è infissa nelle traversine di legno di castagno. Lo Stato c’è ha detto Bonafede, ma con lui si è visto perché c’era la chiamata di una Procura. E lo Stato davvero c’è, e c’è sempre stato quando si è trattato di mostrare i muscoli. Ma in Calabria lo Stato che si vede è il consueto, quello che va dal ministero della Giustizia al ministero dell’Interno. Che i calabresi manco lo sanno che in un Governo ci stanno gli addetti al lavoro, all’economia, alla sanità, all’istruzione, trasporti, infrastrutture, turismo, spettacolo. In Calabria tutto è lento, gli scatti ci stanno solo se le chiamate arrivano dai Tribunali e dalle Caserme, che magari il diritto di voto, per i calabresi, lo si potrebbe limitare con riguardo a quei due dicasteri, ai quali gli si potrebbero pure attribuire tutti gli altri compiti che i Governi di solito hanno, perché in un lampo si rispondesse a esigenze che stanno fuori e intorno alle aule bunker. Bologna. Troppi detenuti in poco spazio, il Covid avanza di Nicola D’Amore* Il Resto del Carlino, 17 dicembre 2020 La Casa circondariale Rocco D’Amato sta affrontando con sforzo e attenzione questa seconda ondata del Covid. Ma quello che manca, alla Dozza, è lo spazio, per riuscire a gestire in sicurezza l’altalena dei contagi. La situazione sanitaria in carcere è grave, ma gestibile. Abbiamo circa settanta detenuti e una decina di agenti positivi. Ed è in atto una campagna di screening, per il contenimento dei casi. A differenza di quanto accaduto a marzo, ora c’è grande collaborazione da parte della popolazione penitenziaria. Lo abbiamo visto con la gestione, in emergenza, delle cucine. La maggior parte dei detenuti che hanno contratto il Covid, infatti, lavora qui: per riuscire a mandare avanti il servizio ci si è attrezzati, con pragmaticità, sostituendo il personale in isolamento con personale della sezione femminile, dove non ci sono contagiate. Tuttavia, con 716 detenuti in una struttura che ne può accogliere 500, ogni problema è amplificato. Ad aggravare la situazione, c’è la vetustà della struttura: molte celle, ad esempio, non sono dotate di doccia e questo significa andare a creare situazioni di promiscuità in un momento in cui la regola è garantire il distanziamento. Sciogliere questo nodo sta alla politica nazionale, che dovrebbe agevolare le pratiche per la concessione di misure alternative alla detenzione e, invece di progettare nuove carceri, pensare a interventi di riqualificazione per quelle già esistenti. Criticità vecchie a cui si aggiunge la decisione di realizzare, a breve, la sezione di salute mentale al padiglione femminile: un ulteriore sforzo richiesto agli agenti di polizia penitenziaria. Lo stress, per lavoratori e detenuti, è tanto. Gli sforzi massimi. L’obiettivo è la sicurezza di tutti, ma stare in equilibrio su questo filo sottile è ogni giorno più difficile. *Vice segretario regionale Sinappe Albenga (Sv). Morto nella cella dei carabinieri: quel buco di sette ore e il testimone chiave di Marco Preve La Repubblica, 17 dicembre 2020 Ecco i passaggi fondamentali, e quelli più oscuri, delle ultime ore di vita di Emanuel Scalabrin. Decisivo per l’inchiesta sarà l’interrogatorio dell’altro detenuto presente quella notte. Cosa è accaduto nella cella di sicurezza della caserma di Albenga fra le 4 di notte e le 11 del mattino di sabato 5 dicembre? È in queste sette ore, in questo lasso di tempo che Emanuel Scalabrin, 33 anni, tossicodipendente con precedenti per spaccio, arrestato alle 14 del giorno precedente perché trovato in possesso di cocaina e hashish, muore per un arresto cardiocircolatorio. È una morte misteriosa sulla quale la procura di Savona ha aperto un’inchiesta. I famigliari di Emanuel si sono rivolti ad uno studio legale per costituirsi parte civile. Repubblica ha potuto visionare gli atti ed è in grado di ricostruire le ultime ore di vita del 33enne. Compito degli inquirenti e del medico legale sarà capire se il decesso sia conseguenza di un evento naturale, se il fatto che solo alle 11 i militari si siano accorti del decesso configuri negligenze ed omissione di soccorso, o se la morte possa essere conseguenza di traumi. La prima ricognizione del medico legale non avrebbe evidenziato lesioni e segni tali da fra ipotizzare un pestaggio, solo una ferita ad un labbro. Ore 14 di venerdì 4 dicembre - Giulia, la compagna di Emanuel - e moglie del loro bambino - attualmente agli arresti domiciliari, è presente all’arresto. Racconta che si è trattato di un fermo in cui i quattro carabinieri hanno usato le maniere forti. I militari on lo negano, tanto che nel verbale d’arresto scrivono: “Avvedutosi della presenza degli operanti Scalabrin tentava la fuga spingendo e strattonando i militari. Era necessario l’intervento di ben quattro militari e l’applicazione delle manette di sicurezza per ridurne la pericolosità, un’azione che si protraeva per quasi trenta minuti dove Scalabrin scalciava e colpiva gli operanti a più riprese tanto che il brigadiere capo G. riportava una contusione alla coscia destra... giudicata guaribile in 5 giorni”. Ore 21.40 la visita in cella di sicurezza - Verso le 21 Scalabrin accusa un malessere e i carabinieri fanno intervenire la guardia medica. La dottoressa che lo visita riscontra tachicardia e pressione alta. Consiglia “l’accompagnamento al pronto soccorso per somministrazione metadone e monitoraggio delle condizioni cliniche”. Ore 22.57 visita lampo al pronto soccorso - I carabinieri seguono le indicazioni della Guardia Medica e accompagnano Scalabrin al pronto soccorso di Pietra Ligure. La permanenza nell’ospedale è uno degli elementi oggetto di approfondimento dell’inchiesta del pm Chiara Venturi. Il referto segnala l’ingresso alle 22.57, l’apertura della cartella clinica alle 22.59 e la chiusura della cartella clinica alle 23.02. In tre minuti, riferisce il referto, gli vengono somministrati 90 millilitri di metadone - che la madre di Scalabrin aveva consegnato ai carabinieri - e viene sottoposto a “visita pronto soccorso”. Tre minuti appena. Ore 01 di notte di sabato - Prende servizio il piantone di notte della caserma di Albenga. Nel verbale del giorno successivo spiega che al suo arrivo nelle celle di sicurezza sono presenti due persone. Scalabrin e un altro arrestato. Il militare spiega di aver sempre vigilato i detenuti “attraverso i monitor dell’impianto di videosorveglianza”. Il militare sottolinea che l’altro detenuto era in stato di agitazione dovuta probabilmente all’astinenza da stupefacenti. Ore 03 assistenza ad un altro detenuto - Arriva una dottoressa della guardia medica per visitare l’altro detenuto. Il piantone nel suo rapporto scrive “si sentiva chiaramente il russare dello Scalabrin, guardavamo dallo spioncino e ci rendevamo conto che russava in maniera molto rumorosa”. Nel frattempo viene somministrata una terapia all’altro detenuto e alle 4 il piantone sveglia Scalabrin con un altro militare “gli chiedevamo dopo averlo svegliato se avesse bisogno di qualcosa e lui riferiva di voler andare in bagno”. Dopo essere tornato dal bagno “beveva una bottiglia d’acqua fuori dalla camera di sicurezza, fumava una sigaretta e si sdraiava sul eletto per continuare a dormire”. Ore 07 di sabato mattina - Prende servizio un altro piantone. Nel suo verbale riferisce di aver controllato i detenuti sul monitor. Alle 8.30 l’altro detenuto (che diventa a questo punto un importante testimone) chiede di andare in bagno e mentre viene accompagnato i due militari guardano Scalabrin che sembra stia dormendo voltato su un fianco. Ore 10.30 arriva l’avvocato - Il verbale dei carabinieri prosegue raccontando che alle 10.30 arriva in caserma il difensore di Scalabrin. I militari a quel punto vanno in cella “ma nonostante i tentativi per svegliarlo on rispondeva e notavano una carnagione insolitamente pallida”. Scattava l’allarme. Ore 11.20 arriva l’ambulanza - In caserma arriva l’equipaggio dell’auto medica del 118. Il dottore alle 11.40 constata il decesso e stima la “verosimile epoca della morte entro tre ore”. Le indagini e le perplessità - Il medico legale nei prossimi giorni dovrà fornire un resoconto complessivo sull’orario e sulle cause del decesso. I famigliari di Emanuel, attraverso gli avvocati Lucrezia Novaro e Giovanni Sanna dello studio di Gabriella Branca hanno a loro volta nominato come consulente il medico legale Marco Salvi. I carabinieri negano atti di violenza e le prime indagini, come detto, sembrerebbero confermare questa tesi. Restano però due punti da chiarire. Il tecnico incaricato dalla procura di esaminar le immagini della video sorveglianza ha scoperto che l’impianto era privo di hard disk. La procura vuole capire se il disco fisso fosse presente in precedenza o se invece l’impianto ne fosse sprovvisto e se questa sia una scelta dettata da direttive precise per tutte le celle di sicurezza delle caserme. Bisogna ricordare che Albenga è sede di una compagnia e non di una semplice stazione. Altro punto da approfondire è il ritardo nell’allarme. Appare insolito che nessuno si sia curato di svegliare, per la colazione o per andare in bagno, il detenuto Scalabrin fino a quando non è arrivato il suo difensore. Albenga (Sv). Le manette e le botte: poi muore in caserma. Un nuovo caso Cucchi? di Angela Stella Il Riformista, 17 dicembre 2020 È deceduto nella cella di sicurezza: picchiato da agenti in borghese e arrestato in casa per possesso di coca, finisce in pronto soccorso ma dimesso subito. Il video della sorveglianza? Sparito. La Procura indaga. È ancora troppo presto per dire se siamo in presenza di uno nuovo caso Stefano Cucchi, ma certamente la morte di Emanuel Scalabrin merita attenzione e approfondimento investigativo. Emanuel è morto tra la notte del 4 e 5 dicembre nella camera di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga, in provincia di Savona, dopo essere stato arrestato durante un blitz antidroga durante il quale è stato trovato in possesso di 40 grammi di cocaina. “La dinamica di quanto accaduto in quelle ore - ci dice l’avvocato Giovanni Sanna che assiste la famiglia insieme alla collega Lucrezia Novaro - ci lascia molto perplessi. Alcuni aspetti sono ancora da chiarire ma è comunque singolare che una persona muoia mentre è sotto la custodia dello Stato”. L’autopsia sul corpo del ragazzo non è ancora terminata, anche se i primi accertamenti del medico legale Francesca Fragiolini sembrano ricondurre il decesso a un problema cardiaco. Intanto però la Procura di Savona ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. Proprio per scongiurare un nuovo caso Cucchi, inoltre, il pubblico ministero Chiara Venturi, appena giunta sul posto, ha prontamente chiesto non solo una ispezione del corpo al medico legale, ma anche un confronto con il fotosegnalamento con l’obiettivo di rilevare eventuali ecchimosi successive all’arresto. Ma vediamo quali sono le circostanze che potrebbero far pensare che dietro la morte di Emanuel, bracciante agricolo di 33 anni con problemi di dipendenza, ci possa essere qualche forma di responsabilità di terzi. Partiamo dall’arresto: secondo i racconti dei familiari, pubblicati dalla Comunità San Benedetto al Porto, fondata da don Andrea Gallo, “Emanuel verso le 12.30 del 4 dicembre si trova nella sua casa di Ceriale insieme alla compagna Giulia, mentre il loro figlio minore di 9 anni si trova presso una famiglia di amici. Ad un certo punto mentre si apprestano a pranzare viene a mancare la corrente elettrica ed Emanuel esce dalla porta di casa per verificare se si tratta di un’interruzione o altro. Improvvisamente viene spintonato all’interno dell’alloggio da alcuni agenti in borghese che erano lì appostati per l’irruzione, lui viene trascinato all’interno della casa fino alla camera da letto e qui gettato sul materasso dove viene colpito in ogni parte del corpo torace, addome, schiena, viso ed estremità. Emanuel urla e chiede aiuto, dice che non riesce a respirare mentre Giulia la sua compagna implora i carabinieri del nucleo di Albenga di fermarsi”. Le fasi dell’arresto dureranno circa 30 minuti: un tempo forse troppo lungo, durante il quale la Procura dovrà accertare cosa sia veramente successo. Il ragazzo viene poi tradotto nella cella di sicurezza della caserma dei carabinieri di Albenga. Intorno alle 21 viene chiamata la guardia medica perché Emanuel non si sente bene e presenta sintomi patologici. La Guardia Medica lo visita per circa un’ora e chiede ai carabinieri che l’uomo venga trasferito al pronto soccorso di Pietra Ligure per ulteriori accertamenti, avendo riscontrato pressione alta e tachicardia. E qui arriviamo alla seconda questione da chiarire: da quello che si sa al momento, Emanuel viene portato al Pronto Soccorso con l’auto di servizio dei carabinieri, la sua permanenza dura solo 5 minuti, e non gli sarebbe stato fatto un elettrocardiogramma, né alcun altro accertamento. Gli viene dato solo del metadone ipotizzando una crisi di astinenza per essere rispedito subito in caserma. Emanuel torna nella cella di sicurezza prima di mezzanotte. Da quel momento in poi un cono d’ombra avvolge le sue ultime ore di vita. Solamente alle 11:00 del 5 dicembre i carabinieri si accorgeranno che il giovane padre non respira più, è morto. Dalle prime ricostruzioni sembrerebbe che i militari di turno abbiano tenuto sotto controllo Emanuel tramite le telecamere di videosorveglianza presenti nella cella. Peccato però che, come riferito dal portavoce nazionale di Sinistra Italiana, l’onorevole Nicola Fratoianni, nell’annunciare una interrogazione parlamentare sul caso, “non esiste la registrazione del video controllo di sorveglianza, perché l’hard disk non c’è più”. Dunque sì tratta di una storia con ancora molti interrogativi. Cosa è successo durante l’arresto? Perché i sanitari non hanno approfondito il suo stato clinico? Cosa è successo nella notte in cui è morto? Forse si è lamentato e qualcuno ha cercato di zittirlo con la violenza? La morte di un ragazzo di 33 anni poteva essere evitata? Venezia. Rivolta e fuoco in carcere, 23 detenuti a giudizio La Nuova Venezia, 17 dicembre 2020 La protesta contro il blocco delle visite causa lockdown e il sovraffollamento era iniziata con la tradizionale “battuta” delle stoviglie contro i ferri delle celle. Poi, però, una cinquantina di detenuti era passata a distruggere telecamere, suppellettili e persino a dare fuoco alle lenzuola, con spirali di fumo che uscivano dalle finestre del carcere, creando pericolo e scompiglio. Ora la violenta protesta che ha scosso per giorni Santa Maria Maggiore in pieno lockdown, a marzo, è arrivata a giudizio: 23 i detenuti delle più diverse nazionalità (italiani, tunisini, marocchini, romeni, senegalesi, bulgari) che sono stati accusati di aver preso parte alle violente proteste e sono così stati citati a giudizio dal pubblico ministero Giorgio Gava, con l’accusa di danneggiamento aggravato e resistenza a pubblico ufficiale. Ieri, si è svolta la prima affollata udienza preliminare davanti alla giudice Marta Paccagnella, in aula bunker: in 7 hanno fatto richiesta di rito abbreviato, gli altri hanno deciso di difendersi in aula. Prossima udienza il 17 febbraio. Tra i difensori gli avvocati Federico Tibaldo, Mauro Serpico e Marco Zanchi. Nei primi giorni di marzo, le proteste hanno scosso per giorni il carcere veneziano, che da sempre soffre per il sovraffollamento. I divieti di visita dei familiari a causa dell’emergenza coronavirus avevano fatto partire la rivolta in molti istituti in Italia. A Santa Maria Maggiore c’era così chi era passato dalle “battute” di protesta serali, alle vie di fatto. La tensione era andata crescendo. Al secondo giorno di protesta decine di persone, hanno infatti deciso di passare all’azione: sezioni e telecamere interne distrutte, letti rovesciati, stoviglie rotte, persino principi d’incendio e fumo dalle ringhiere. Il carcere venne circondato da centinaia di agenti, carabinieri, finanzieri, polizia locale, controllato dall’alto da un elicottero, mentre squadre di vigili del fuoco vennero impegnate per mettere in sicurezza il carcere. In quei giorni, Santa Maria Maggiore contava 262 persone recluse a fronte di una capienza regolamentare di 159 posti (e di una capienza tollerabile di 239). Bergamo. Detenuti in isolamento per Covid: “Da 10 mesi i miei bambini non vedono il papà” di Lucia Cappelluzzo bergamonews.it, 17 dicembre 2020 L’appello di Valentina, mamma e moglie di un detenuto. “Sono la moglie di un detenuto del carcere di Bergamo. Mio marito per la seconda volta è in isolamento perché ci sono positivi, sono in isolamento per quindici giorni, 24 ore su 24, in spazi non adeguati, in tre o quattro in cella”. Inizia così il racconto che Valentina ha condiviso con noi di Bergamonews, con un messaggio arrivato in posta di redazione. Poche righe in cui esprime una preoccupazione opprimente per la salute del marito detenuto nel carcere cittadino, dove si è insinuato il Covid-19. “Viviamo nel terrore che possa accadere qualcosa. Abbiamo paura di non poterlo rivedere mai più. Siamo in piena pandemia e in piena emergenza: noi fuori dobbiamo mantenere il metro di distanza e rispettare tutte le regole. Indicazioni che non è possibile vengano rispettate anche in carcere: così chiusi tutto il giorno nella stessa stanza. Siamo molto preoccupati: non possono vedere nessuno e sono come abbandonati”, continua a scrivere Valentina. Sono due le sezioni del carcere di Bergamo chiuse all’inizio di dicembre per arginare la diffusione del virus, dopo che sono risultati positivi alcuni detenuti “comuni” (i carcerati ancora in attesa di giudizio) e alcune detenute del “femminile”. Dal 16 dicembre è stata chiusa anche la sezione “penale” dove si trovano i detenuti che hanno già ricevuto il giudizio della pena. Dopo la quarantena, la divisione “in rosa” è stata riaperta, mentre rimangono situazioni di criticità nella sezione dei carcerati con pendente giudizio e con giudizio definitivo, tanto che alcuni di loro sono stati traferiti nel carcere di Bollate e, lì, isolati. Circa venti, invece, sono gli agenti di sorveglianza risultati positivi e, quindi, per il momento, allontanati dalla casa detentiva bergamasca. E lì, tra quelle mura recintate, porte automatiche, grandi altoparlanti e celle, ci si prepara ad un Natale diverso, senza visite e sguardi amorevoli di parenti e amici per via delle restrizioni Covid che impediscono ingressi esterni. Non riuscendo così ad avverare il più importante e sentito desiderio di Natale nelle celle bergamasche: quello di poter rivedere la propria famiglia. Un sogno condiviso anche dall’altro capo delle sbarre. “Sono preoccupata per i miei figli che non abbracciano il loro papà da dieci lunghissimi mesi come tanti altri bambini. Chiedono solo di vedere il papà e di poterlo andare a trovare. Non so più che cosa raccontare alle più piccole: è straziante sentire una bambina di 5 anni che ti dice ‘mamma io non voglio nessun gioco per Natale. Voglio solo vedere il mio papà’“, conclude Valentina nel suo racconto. Genova. Genitori in carcere, come non smettere di essere una famiglia di Anna Spena vita.it, 17 dicembre 2020 Durante il webinar “Strade percorse e possibili sviluppi per un nuovo metodo di intervento della genitorialità in carcere e della centralità del bambino” si è parlato del progetto genovese “La Barchetta rossa e la Zebra”. Un nuovo metodo di gestione della genitorialità in carcere è possibile. Lo dimostra l’esperienza nelle Case Circondariali Marassi e Pontedecimo di Genova. Ora bisogna creare le basi per rendere il modello replicabile anche in altre carceri italiane. “La Barchetta Rossa e la Zebra”. Una barca, perché può contenere tutti. Rossa, perché i colori piacciono ai bambini. Una zebra perché le sue strisce ricordano le sbarre e le sbarre ricordano il carcere. La storia di questo progetto inizia 3 anni fa, nel carcere maschile Marassi e nella casa Circondariale femminile Pontedecimo di Genova. La vita dei detenuti può cambiare attraverso il rapporto che hanno con i loro figli. E i figli dei detenuti, come tutti gli altri bambini, hanno lo stesso diritto a coltivare una relazione con i loro genitori. Nell’evento della detenzione di uno dei due genitori, le relazioni genitoriali cambiano e i ruoli tra genitori si organizzano, o si riorganizzano. Quando il carcere irrompe non colpisce unicamente il soggetto detenuto, ma travolge l’intero sistema familiare, alterandone il funzionamento e la stabilità relazionale. “Il progetto nasce con l’obiettivo preciso di mettere al centro il bambino in un mondo fatto di soli adulti. Rimettere al centro il minore significa cambiare prospettiva”, spiega Elisabetta Corbucci, Coordinatrice del Cerchio delle Relazioni, l’associazione capofila del progetto, durante il webinar che si è tenuto ieri mattina, “Strade percorse e possibili sviluppi per un nuovo Metodo di intervento della genitorialità in carcere e della centralità del bambino”, che ha restituito i risultati raggiunti in tre anni di lavoro e tracciato una strada affinché questo progetto sia replicabile anche nelle altre carceri italiane. “La Barchetta rossa e la Zebra” è un’iniziativa dalle Associazioni territoriali genovesi del Terzo Settore: la Cooperativa Sociale Il Biscione, Veneranda Compagnia di Misericordia, il Centro Medico psicologico pedagogico LiberaMente, Arci Genova e Ceis Genova. La Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus, a cui è stata affidata l’opera di riqualificazione delle aree dedicate all’incontro dei bambini con i genitori detenuti nelle due Case Circondariali, è partner e promotore dell’iniziativa finanziata dal Bando Prima Infanzia (0-6 anni) dell’Impresa Sociale Con i Bambini. Insieme al privato sociale sono coinvolte le Istituzioni Pubbliche ed è stata sviluppata in sinergia con l’Amministrazione penitenziaria locale e dell’esecuzione penale esterna e con il Comune di Genova. “La prima azione che ha riguardato la ristrutturazione degli spazi”, continua Corbucci, “non è stata scontata. Garantire ai bambini uno spazio accogliente dove poter incontrare i genitori significa anche mettere a disposizione uno spazio “non vuoto” per esprimere le loro domande. Quegli stessi spazi sono diventati anche un’antenna sui bisogni degli adulti che accompagnavano questi bambini, quindi della famiglia intera”. Alla ristrutturazione sono seguiti i momenti di formazione, per le famiglie, per il personale penitenziario. Quello che è finalmente emerso in questi anni sono stati i “bisogni inaspettati”, continua Corbucci. “I bambini spesso vengono tenuti allo scuro delle cose. Gli si dice che il papà è lì perché sta lavorando. E i momenti di formazione sono serviti anche a questo: a ridare il potere ai genitori di saper rispondere alle domande dei loro figli”. In tre anni sono stati coinvolti 267 genitori, presi in carico 144 bambini e intercettati 267 minori. “L’obiettivo adesso”, continua Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia Onlus, “è quello di mutuare l’esperienza maturata a Genova anche in altre carceri italiane, tenendo conto della specificità di ogni territorio. I genitori devono poter essere genitori sia fuori che dentro il carcere. Ci auguriamo davvero che nasca la figura dell’operatore “barchetta rossa” a livello nazionale”. “La Barchetta rossa e la Zebra” ha cercato di raggiungere in questi anni due risultati: da una parte, favorire e rafforzare la relazione dei figli che hanno un genitore in carcere o sottoposto a misure penali alternative. Dall’altra, promuovere la cultura della centralità indiscussa del bambino che, improvvisamente, si trova a vivere in una dimensione adulta e critica come quella carceraria. Il senso profondo del progetto è la consapevolezza che i bambini con un genitore detenuto sono bambini fragili tra i fragili. Tra gli ospiti in collegamento: Carlo Borgomeo, Presidente Impresa Sociale Con i Bambini,, Luca Villa, Presidente Tribunale per i Minorenni di Genova, Marco Bucci, Sindaco di Genova, Maria Milano, Direttore C.C. Marassi e Domenico Arena, Direttore Udepe. Catanzaro. La scuola in carcere durante il Covid strill.it, 17 dicembre 2020 Isolamento doppio: per la detenzione e per la pandemia. Eppur si studia. E anche in qualche carcere la didattica a distanza riesce a partire: è il caso della Casa Circondariale Ugo Caridi di Catanzaro, diretta da Angela Paravati, come rilevato dal Garante regionale delle persone detenute. “L’istituto ospita oltre seicento detenuti” ci spiega la direttrice “e sono presenti i corsi scolastici della scuola dell’obbligo, gestiti dal Centro provinciale d’istruzione per gli adulti Cpia, e di scuola superiore di II grado: il liceo artistico, il tecnico agrario ed il professionale alberghiero. A marzo, con lo scoppio della pandemia, i contatti con la comunità esterna sono stati necessariamente ridotti, ma mantenere i corsi scolastici è stata una priorità: per questo è stata avviata la didattica a distanza. Le lezioni scolastiche, oltre ad essere parte fondamentale del trattamento rieducativo, costituiscono un’occasione importante per quella parte della popolazione detenuta che è nata in contesti particolarmente deprivati e non ha avuto proprio la possibilità di andare a scuola. Senza contare il ruolo fondamentale che ha l’impegno nello studio per evitare tensioni e rivolte all’interno dell’istituto. Con la partecipazione attiva del funzionario informatico Donatella Chiappetta e dell’assistente capo coordinatore Pasquale De Luca è stato possibile organizzare in poco tempo le postazioni per consentire di seguire le lezioni a distanza.” Un’esperienza che ha visto in prima lineala dirigente Rita Elia dell’istituto comprensivo Vittorio Emanuele II, scuola superiore di II grado, e la referente del Polo didattico carcerario, la docente Gigliotti, che hanno collaborato con la direttrice del carcere ed il capo area educativa Giuseppe Napoli per trovare le migliori soluzioni. Grazie al Pon Smart class Cpia è stato inoltre possibile adesso fornire alcune lavagne interattive multimediali alla Casa Circondariale. La dirigente Elia ha rivolto un particolare ringraziamento a tutto il personale anche non docente della scuola e alla dirigente dell’Ufficio scolastico regionale per la Calabria Maria Rita Calvosa, con l’augurio finale affinché “tutte le istituzioni prestino la giusta attenzione e sostengano l’attività nella Casa Circondariale di Catanzaro, così preziosa seppur silente.” Il Covid non ha fermato la scuola in una frontiera sociale come il carcere: una notizia che, al termine di questo 2020, dà comunque speranza. Pistoia. “Liberi d’immaginare”, il ciak in carcere di linda meoni La Nazione, 17 dicembre 2020 Lanciato crowdfunding per concludere il cortometraggio girato al Santa Caterina: manca la fase del montaggio e della post produzione. Il dolore di una madre non ha bandiere né lingue: nella sua drammaticità è talmente universale da unire. È quel che è accaduto nel corso delle riprese di “Liberi di immaginare”, il corto cinematografico ispirato all’intenso Stabat Mater di Grazia Frisina, avvenute in un set davvero particolare, il carcere di Santa Caterina in Brana, con degli attori altrettanto insoliti, un gruppo di detenuti. Il film che vede alla regia Giuseppe Tesi da un progetto dell’associazione pistoiese Electra Teatro è nato come “opera collettiva” sostenuta grazie al crowdfunding che ad oggi ha permesso di giungere al termine delle riprese. Uno step importante ma certo non definitivo: ora si apre una fase complessa, quella del montaggio e della post produzione, che richiede altrettante risorse economiche. Ecco perché la raccolta fondi (Iban: IT34T 07601 13800 00000953944; info: ufficiostampa.electra@gmail.com) può dirsi a buon punto ma non terminata. “Siamo davvero grati ai supporter che finora ci hanno permesso di fare quanto abbiamo fatto - è il commento della presidente dell’associazione Elena Bernardini -: dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia alla Fondazione Giorgio Tesi, la Fondazione Un raggio di luce, la Misericordia di Pistoia e l’Ordine degli avvocati e i tanti privati che con qualsiasi somma hanno voluto rispondere “presente”. Ci appelliamo ancora una volta al pubblico perché questa opera, davvero di tutti, possa arrivare a compimento”. Più di un anno è trascorso dall’idea al prodotto (quasi) finito, in una situazione che già partiva difficile per via della particolarità del set, poi complicata dalla diffusione del virus che come un po’ ovunque è accaduto, ha rallentato la macchina e posto qualche ostacolo in più. “C’è stata una collaborazione inimmaginabile da parte dei detenuti - prosegue Bernardini - e questo non era affatto scontato, anche per la difficoltà del testo proposto e per la grande varietà di etnie e di culture presenti nel gruppo. La parte loro assegnata era quella del coro che vuole rappresentare il sentimento popolare: il fatto di aver dato ai detenuti questa parte ci ha dato la possibilità di far loro esprimere pensieri propri, individuali, che raccontano l’esperienza della detenzione. Importantissimo è stato il lavoro sul testo di Giuseppe Tesi e Martina Novelli, che lo hanno reso più comprensibile e fruibile, evidenziandone l’aspetto umano”. Una decina i detenuti coinvolti e il contributo artistico di due attori professionisti come Melania Giglio e Giuseppe Sartori, con riprese avvenute per la quasi totalità in carcere - “di questo non possiamo che ringraziare sinceramente la direttrice Loredana Stefanelli, la funzionaria amministrativa Rosa Cirone e la polizie penitenziaria tutta per il grande lavoro di coordinamento” - con scene invece alla fontana do Buren a Villa La Magia, nella saletta anatomica e del Ceppo e persino dentro la Brana, oltre che un piccolo set sulla spiaggia della Lecciona. “L’idea, quando il percorso sarà terminato - conclude la presidente - è portare il corto in giro per l’Italia”. Padova. Polisportiva Pallalpiede, per i detenuti l’evasione è tirare calci a un pallone di Andrea Romano Il Fatto Quotidiano, 17 dicembre 2020 Il progetto nato dall’impegno dell’Associazione Nairi Onlus e della Polisportiva San Precario permette a chi deve scontare pene medio-lunghe di trovare svago, impegno e nuove regole (anche di vita) nella squadra che milita in Terza Categoria (fuori classifica). L’allenatore Fernando Badon: “Ci alleniamo due volte a settimana, il martedì e il giovedì pomeriggio - ha raccontato - poi il sabato abbiamo la partita. Sempre in casa, visto che i ragazzi non possono uscire”. C’è un campo dove ci si abbraccia anche dopo un pallone sparato alle stelle davanti alla porta. Perché su quel prato più marrone che verde il calcio non è solo agonismo, è soprattutto evasione. Nel vero senso della parola. A suggerirlo è la forma stessa di quell’impianto. Una tribuna, inaugurata nel 2018. Niente tifosi. Niente cori che piovono giù dalle gradinate per ammorbidire i muscoli degli avversari. Tutto il loro mondo è raccolto dentro quelle mura alte una decina di metri, tutte le loro speranze sono sostenute dallo sguardo benevolo di qualche agente e dei volontari. Poco. Eppure così tanto. Perché questo è il mondo della Polisportiva Pallalpiede, la squadra nata sette anni fa nel carcere “Due Palazzi” di Padova con l’obiettivo di utilizzare lo sport nella rieducazione dei detenuti. Con risultati incredibili. E non tanto per la vittoria del torneo di Terza Categoria, arrivata nel 2019. Il progetto Pallalpiede è infatti riuscito a cucire insieme tante solitudini diverse, a sommare tanti “io” fino a farli diventare “noi”. Anche se per poche ore a settimana. E per riuscirci ha dovuto superare barriere linguistiche, pregiudizi, stereotipi e quelle gerarchie che all’interno del carcere finiscono con il calcificarsi. Italiani, nigeriani, senegalesi, albanesi, romeni, tunisini, marocchini. Tutti con la stessa maglietta. Tutti con un futuro fagocitato da un passato difficile. Al primo provino, nel 2014, si sono presentati in più di cento. Qualcuno aveva giocato nelle giovanili di qualche club importante. Altri non avevano mai calciato un pallone. Altri ancora non avevano chiare nemmeno le regole del gioco. Dettagli. Un’ulteriore scrematura ha portato la rosa della squadra a una trentina di elementi. Una panchina lunga, anzi lunghissima. Perché fra scarcerazioni, permessi e situazioni personali il rischio di ritrovarsi senza attaccante o senza portiere è piuttosto serio. Ora a guidare la Pallalpiede c’è Fernando Badon, una voce gentile con un passato da attaccante fra Serie B e C (Padova, Venezia, Cittadella, Forlì e Bassano) e un presente nel suo studio di progettazione di giardini. “Ci alleniamo due volte a settimana, il martedì e il giovedì pomeriggio - ha raccontato a ilfattoquotidiano.it - poi il sabato abbiamo la partita. Sempre in casa, visto che i ragazzi non possono uscire”. Proprio per questo “vantaggio” la Polisportiva è stata iscritta al campionato della Figc, ma fuori classifica. E la vittoria del 2019 non ha portato alla promozione in Seconda Categoria. Poco male, perché il lavoro del mister è già piuttosto complicato. “Noi siamo l’unica squadra che ha un mercato sempre aperto - spiega sorridendo - facciamo provini in continuazione”. Ed è vero. Di domande per entrare a far parte della rosa ne arrivano tantissime. Ma ci sono molti parametri da tenere in considerazione prima di tesserare un nuovo calciatore. “Alcune domande vengono scartate per limiti di età - racconta Badon - altre perché i ragazzi verranno scarcerati a breve e noi non possiamo permetterci di bruciare cartellini e visite mediche che per noi hanno un costo. Noi non guardiamo al reato che hanno commesso, ma al loro percorso in carcere e alla durata residua della loro pena, che deve essere medio-lunga, in modo da dare continuità”. Ma non finisce qui. Perché prima di poter entrare in squadra i nuovi giocatori devono firmare anche un codice etico, una lista di regole da seguire per garantire il rispetto degli organizzatori, degli avversari e dell’arbitro. E non è un caso che la Polisportiva abbia sempre vinto la Coppa Disciplina, il riconoscimento per la squadra più corretta del torneo. “L’unica volta che l’abbiamo persa è stato per colpa mia - dice Lara Mottarlini, fondatrice e presidente dell’ASD Pallalpiede, nata dall’impegno dell’Associazione Nairi Onlus e della Polisportiva San Precario - nella distinta non avevo messo il luogo di nascita di un guardalinee ed è partita la squalifica. Ma anche in quell’anno eravamo stati i più corretti”. La parte più difficile per Badon non ha niente a che fare con il lavoro sul campo. “Il vero problema è scartare chi si presenta ai provini, chi ti dice: “Mister io ci sono, vorrei giocare”, e ti guarda con quegli occhi così grandi. Noi però non dobbiamo lasciarci commuovere, dobbiamo comportarci come se fossimo una quadra “normale”. Giusto, anche se è difficile non stabilire un rapporto empatico. Soprattutto dopo aver ascoltato le loro storie. Parabole in attesa di lieto fine che in molti casi non arriverà, dove la speranza cerca timidamente di prendere il posto della disperazione. Così come è stato per G., 41 anni sulla carta d’identità, 22 dei quali passati in carcere. Per anni è stato il capitano della Polisportiva Pallalpiede, poi ha dovuto cedere fascia e scarpini. La sua pena finirà con lui, visto che è stato condannato all’ergastolo. Ma grazie alla sua buona condotta è riuscito a ottenere un permesso per lavorare in una mensa collegata al carcere. Esce la mattina e fa ritorno al penitenziario il pomeriggio. L’aver dovuto rinunciare al pallone gli pesa. Una sofferenza lenita dalla possibilità di tornare a respirare l’aria fresca, di avvicinarsi a un concetto di normalità. G. divide la cella con G.. Erano amici fin da bambini, in Sicilia. Poi sono persi di vista. Hanno preso strade diverse ma ugualmente sbagliate. E si sono ritrovati nella sofferenza del Due Palazzi. Anche G., che in carcere si è laureato, si è avvicinato alla Polisportiva. È l’incaricato della redazione delle liste. Una piccola responsabilità che lo inorgoglisce e che gli consente di seguire la squadra durante le partite del sabato. Il carcere di Padova, però, è una struttura all’avanguardia. Alcuni detenuti hanno la possibilità di lavorare in una pasticceria diventata ormai famosa. Altri invece sono impiegati al CUP. Prenotano le analisi nelle strutture pubbliche per i loro concittadini. “Più di una volta mi è capitato di chiamare il centralino per fissare una visita e di sentire la voce di un mio giocatore - racconta Badon - mi hanno detto ‘Mister, ma non si preoccupi, ci penso io, è in buone mani’”. Fra questi c’è anche Natale, il nuovo capitano. È cresciuto negli Allievi della Lazio, ha giocato nell’Eccellenza e nella Serie D in Sicilia. Poi si è fatto trascinare alla deriva. Ora gioca un po’ dappertutto. Centrocampista, mezzala, trequartista. Tanto che si è guadagnato la maglia numero 10. Il campo del Pallalpiede è un palcoscenico molto diverso da quello che sognava da bambino, ma è comunque il massimo a cui può aspirare adesso. Fra gli altri componenti storici della squadra c’è B., un ragazzo albanese condannato all’ergastolo. Non aveva mai giocato a calcio prima di entrare in carcere. Ora è diventato il jolly del gruppo. “Immaginati quando l’ho visto palleggiare la prima volta - racconta il mister - ora se non lo schiero si arrabbia. È bellissimo perché sembra di allenare una squadra vera. Io cerco di portare quello che ho imparato da calciatore professionista. Loro sono cresciuti, ora sanno fare per bene il riscaldamento, sanno come si entra nello spogliatoio, come ci si comporta prima e durante una partita. Sono diventati addirittura amici, etnie rivali si sono riappacificate”. Il potere dello sport che si stacca dalla retorica e dalla banalità per diventare realtà concreta. Molti di loro hanno bisogno di imparare delle regole. Proprio quelle che non hanno avuto da ragazzi. Perché sbagliare vuol dire essere fuori dalla squadra. Una volta per tutte. Qualche ragazzo che ha giocato con Pallalpiede è stato scarcerato e poi, dopo qualche tempo, ha varcato nuovamente la soglia del penitenziario. “Chi è tornato ci ha chiesto di poter far parte di nuovo della squadra - spiega Badon - ma noi non li abbiamo ripresi. Sarebbe eticamente sbagliato. Andrebbe contro il senso del nostro progetto”. Non un dettaglio da poco in un Paese che, secondo l’associazione Antigone, poco più di 10 anni fa aveva un tasso di recidiva del 68,45%. “Uno dei problemi più grandi per noi - continua Fernando - è che ogni anno perdiamo per strada la metà dei nostri calciatori. Qualcuno viene scarcerato, altri hanno problemi personali, qualcuno attraversa dei momenti di crisi individuale in prigione. Non è semplice. Io li lascio il giovedì e li ritrovo il sabato. Senza avere altri contatti con loro. Così io provo a fare una formazione, ma prima della partita sono sempre lì con l’arbitro a vedere chi riesce a presentarsi fra colloqui, udienze con il magistrato e altre situazioni”. Un progetto tanto nobile quanto delicato che ora rischia di entrare in sofferenza a causa della pandemia. Pallalpiede si è iscritta alla stagione 2020/2021 ma ha deciso di non scendere in campo. Anche per rispetto di chi vive in carcere e può andare incontro a situazioni piuttosto complesse in caso di positività. Così i suoi calciatori, che già si sono visti ridurre colloqui e telefonate, hanno dovuto dire arrivederci anche alla partita del sabato. E allenarsi, quando possibile, non è esattamente come sfidare un avversario. Il progetto della Asd Pallalpiede, che ha vinto un bando regionale, ha un sostegno concreto dalla Regione e dal Comune di Padova, ma ogni contributo può fare la differenza in questa partita. “Noi dobbiamo giocare sempre in casa - spiga Lara Mottarlini - quindi rispetto alle altre squadre abbiamo costi doppi, dalla tracciatura del campo fino alla pulizia degli spogliatoi. Per questo chi ci vuole aiutare può donare alla Asd di tutto: abbiamo bisogno di palloni, magliette, scarpe, contributi economici. Ora ci si è rotta la macchinetta per tracciare le linee del campo. Costa circa 600 euro”. Dal canto loro i volontari di Pallalpiede hanno investito un’altra risorsa, forse ancora più preziosa. Il loro tempo. “Quello che leggo nei loro occhi è la gratitudine - racconta Lara - mi ringraziano per il tempo che dedico al progetto e che magari sottraggo alla famiglia, a mio figlio. Sanno che io di calcio non ci capisco niente, ma sono sempre lì a guardare gli allenamenti, a dare una mano durante le partite”. Sacrifici ricompensati dai risultati. E non solo da quelli che vengono dal campo. La tutela della libertà nel “permanente stato d’eccezione” di Ginevra Cerrina Feroni* Il Dubbio, 17 dicembre 2020 Nel 2008 con Giuseppe Morbidelli pubblicammo nella Rivista Percorsi Costituzionali un saggio dal titolo La sicurezza. Un valore super primario. In quell’articolo - che si riferiva alle vicende dell’11 settembre 2001 e agli attentati terroristici di matrice islamista che seguirono - sostenevamo una tesi abbastanza controcorrente, specie in epoca, già allora, di pensiero “politicamente corretto”. Ovvero che la sicurezza, quale valore giuridico che si rifà, oltreché alla Costituzione, al diritto naturale, alla storia, ad un sentire comune, non si presta ad un bilanciamento secondo i canoni tradizionali. Il rapporto tra diritti e sicurezza non è ricostruibile come momento di conflitto, poiché libertà e sicurezza non devono essere intese come tra loro negoziabili. Improprio dunque affermare che ad una maggiore sicurezza corrisponde una compressione della libertà: la scelta di uno dei due diritti - libertà e sicurezza - a vantaggio dell’altro è una falsa scelta, poiché la sicurezza non è un fine in sé, ma piuttosto uno strumento per accrescere le libertà. Il diritto alla sicurezza se entra in bilanciamento non è più un diritto pieno: non esiste infatti una sicurezza attenuata, poiché la sicurezza bilanciata è una “non sicurezza”. Né la “cedevolezza” dei diritti in nome della sicurezza deve stupire. Se la sicurezza è un valore superprimario, se la sicurezza ha a che fare con la nostra stessa esistenza e con la qualità della nostra vita, se ne dovrebbero trarre, coerentemente, tutte le conseguenze, senza trincerarsi in una difesa ad oltranza delle altre garanzie costituzionali, che sarebbero travolte, anzi brutalizzate, proprio in carenza delle condizioni di sicurezza. In altri termini, tale genere di difesa si traduce in un’azione suicida, perché fa cadere il sostrato di fondo immanente alle stesse garanzie costituzionali dei diritti: la sicurezza e, con essa, l’ubi consistam della comunità. In sintesi, il valore super primario della sicurezza nasce da considerazioni naturalistiche o meglio, realistiche. Sicché non può esservi un bilanciamento tra pari, ma un bilanciamento in cui le ragioni della sicurezza si portano dietro di sé uno status di priorità. Del resto, questa primazia non è scalfita dal fatto che la soluzione pro- sicurezza viene sovente diluita con l’affermazione del carattere transeunte delle misure emergenziali adottate per la sua tutela. Infatti la transitorietà è solo apparente. Innegabile è la tendenza da parte degli Stati a rendere permanenti le misure restrittive dei diritti, pur se, ab origine, previste come temporanee. Ciò, facendo leva sulla presunta sistematicità e durata storica del fenomeno del terrorismo integralista islamico, non risolvibile né a breve, né a medio termine. Si tratta della cosiddetta “normalizzazione dell’emergenza”, di cui ha scritto con grande chiarezza Giuseppe de Vergottini. Il che ci porta a pensare alla condizione attuale, cioè allo “stato d’eccezione permanente” determinato dalla pandemia, dove il diritto alla sicurezza diventa fisico, anzi, biologico. Non solo. Le minacce alla sicurezza pubblica e, dunque, al diritto alla sicurezza di tutti sono ben più temibili di quelle di un tempo, anche attesa l’evoluzione tecnologica e la mobilità. Il che impone misure coordinate e di natura sovranazionale. Non dunque più regole da applicarsi a episodi circoscritti e a situazioni di emergenza localizzate nello spazio e nel tempo, ma regole di carattere generale da applicarsi ad una emergenza stabilizzata. E per quanto nel linguaggio del legislatore e dei giudici si continui a porre l’accento sulla straordinarietà, ciò avviene solo per attenuare la vis riduttiva delle garanzie. Si tratterebbe cioè di una terminologia di “stile”, ovverosia per non dire con chiarezza come stanno realmente le cose. Semmai rilevavamo in quell’articolo - e il tema è diventato rispetto ad allora ancora più stringente - il paradosso del nostro tempo. Ovvero che quanto maggiore è diventata la sensibilità per i temi dei diritti e, specialmente, dei cosiddetti “nuovi diritti” pensiamo alla tutela della privacy intesa come protezione dei dati personali - tanto più questi diritti sono oggi sotto attacco. In sintesi, la nostra posizione era che i sacri principi del costituzionalismo, nati per vincere i privilegi e le forme più rigide di assolutismo sovrano, sulla base di una visione razionalistica dei diritti naturali che appartengono a tutti, vanno in crisi quando ci si trova davanti ad una emergenza di vaste proporzioni. Senza naturalmente con ciò concludere che in nome della sicurezza le garanzie costituzionali diventino del tutto cedevoli. Opererebbe sempre infatti il principio di proporzionalità con la conseguenza che la garanzia dei principi dello Stato costituzionale finirebbe per concentrarsi sulla consistenza ed efficacia dei controlli affidati alle giurisdizioni, come pure sui controlli che, su altro piano, dovrebbero esercitare le rappresentanze politiche parlamentari. Riprendo oggi, dopo dodici anni, quella riflessione sul tema della sicurezza, alla luce dell’emergenza Covid 19 che stiamo vivendo (anche se l’emergenza del terrorismo islamista non è, purtroppo, affatto conclusa). Ora infatti non siamo di fronte a vicende di criminalità di dimensione internazionale, ma a torsioni interne dell’ordine politico-istituzionale: la sicurezza qui non si contrappone all’uso del potere, ma è essa stessa elevata a strumento del potere. Faccio allora due osservazioni. La prima è che sono tornate in auge parole allora esecrate come “sicurezza nazionale”, di cui si è negata talora natura costituzionale, assumendosi - specialmente dopo i fatti dell’11 settembre - la sua intrinseca natura autoritaria- reazionaria in quanto foriera di compressione delle libertà. Come pure fanno capolino parole desuete, che evocano condizioni esistenziali di tragiche pagine della nostra storia: “coprifuoco”, “isolamento”, “confino”, sorveglianza dell’informazione, controlli dell’autorità anche nella dimensione più intima e privata delle persone. Eppure ci eravamo abituati a sentire, a quei tempi, che il conferimento di un valore preminente alla sicurezza, oltre che a potenziare pericolosamente il ruolo del potere esecutivo a tutto scapito del Parlamento, avrebbe avuto l’effetto di sacrificare inutilmente le fondamentali libertà dell’uomo, essendo del tutto illusoria, nella “società globalizzata del rischio”, la ricerca della sicurezza assoluta dei rapporti sociali. Ed ora? Che succede di queste narrazioni che hanno riempito intere biblioteche? Dove sono finiti i “sacerdoti” mainstream delle teoriche/ retoriche dei diritti fondamentali a tutti i costi? Davvero un paradosso, un capovolgimento totale di prospettiva, una vera e propria nemesi. Ovvero i tradizionali “negazionisti” della sicurezza nazionale - in quanto concetto “autoritario- reazionario” e il cui perseguimento violerebbe le libertà democratiche - che invocano oggi, in relazione alla pandemia, la sicurezza in chiave sanitaria quale bene giuridico supremo che può, invece, sovrastare tutte le altre libertà democratiche. Insomma, una formidabile leva di potere a servizio del pensiero unico. E, al contrario, i sostenitori delle libertà democratiche che, per paradossi della storia, sarebbero diventati dei pericolosi “negazionisti” nemici della sicurezza (insopportabile peraltro l’uso strumentale che si sta facendo del termine negazionismo). Dove sta la differenza? In realtà, si coglie l’occasione della mal misurabile safety per imporre, innovando pesantemente la Costituzione materiale, misure spesso discutibili di security, che arrivano a incidere fin nella privacy delle famiglie. Quanto alla seconda osservazione, il tema della sicurezza va aggiornato di fronte a questa torsione dei poteri e, per riflesso, delle libertà che fa leva a dismisura sulla safety. Tutti vediamo quanto incida in una riflessione teorico- scientifica anche la nuova esperienza pratica. Ora occorre concentrare il focus sulla circostanza che le legislazioni limitative dei diritti a causa di “emergenza” sono, purtroppo, destinate a cronicizzarsi e che, di conseguenza, la garanzia dei principi dello Stato di diritto deve utilmente concentrarsi, soprattutto, sulla consistenza ed efficacia dei controlli sul piano politico da parte delle rappresentanze parlamentari. A fronte di questi fatti così nuovi e a quest’inedita concentrazione di nuovo potere, si staglia una sconcertante debolezza della funzione parlamentare: passiva sia quanto a investitura dell’Esecutivo a provvedere, sia quanto a controllo successivo. Il punto è però che la crisi del Parlamento è divenuta uno dei nodi cruciali del costituzionalismo contemporaneo, ma per l’Italia, molto più che per altre forme di governo, ha assunto tratti quasi drammatici. Come recuperare il giusto ruolo del Parlamento rispetto all’operato del Governo, specie in condizioni emergenziali? In che modo rendere effettivo il controllo sull’operato politico e normativo del Governo, funzione essenziale e ineliminabile in un sistema democratico, per di più di tipo parlamentare come il nostro? Come impedire lo svilimento del ruolo propulsivo e di proposta degli organi parlamentari a fronte di una tendenza sempre più pervasiva di sostituzione della politica da parte di apparati di task forces “tecniche”, ma con investitura ad alta intensità politica, che dettano, a tutt’oggi, le linee “politiche” anche per il dopo- Covid? È questo il vero cuore pulsante del rapporto tra sicurezza e libertà nelle democrazie contemporanee. Quantomeno nella nostra. L’Europa dei diritti avanza di Sabino Cassese Corriere della Sera, 17 dicembre 2020 Dal primo gennaio 2021, dopo aver accertata la violazione dei principi dello Stato di diritto da parte di un Paese europeo, la Commissione potrà proporre il taglio o il congelamento dei fondi europei. Il Parlamento europeo ha dato il voto finale al regolamento contenente il “regime di condizionalità”, che lega i finanziamenti europei al rispetto dello Stato di diritto. La soluzione escogitata da Angela Merkel ha superato l’opposizione di Ungheria e Polonia e aperto la strada a questo voto. Quindi, dal primo gennaio 2021, dopo aver accertata la violazione dei principi dello Stato di diritto da parte di un Paese europeo, la Commissione potrà proporre il taglio o il congelamento dei fondi europei. Entro un mese, il Consiglio potrà votare, a maggioranza qualificata, sulle misure proposte dalla Commissione. Questa soluzione è stata definita dall’imprenditore di origini ungheresi George Soros una “resa”. Da parte britannica sono arrivate altre critiche: il compromesso sarebbe astuto, ma poco coraggioso, quasi un trucco. Solo il capogruppo tedesco del Partito popolare europeo Manfred Weber ha esultato, parlando di una “svolta fondamentale dell’Unione”. Così “chi non rispetta lo Stato di diritto non ha soldi dall’Unione”. Vorrei provare a spiegare perché questo passaggio non è stato un cedimento, ma ha fatto, al contrario, fare all’Unione un balzo in avanti, dando ragione a quel che disse Helmut Schmidt, allora ministro delle Finanze e poi anch’egli cancelliere, in una memorabile conferenza tenuta a Londra il 29 gennaio 1974: “l’Europa vive di crisi”. Grazie all’equilibrio che ha del miracoloso, condito con molte sottigliezze giuridiche, al limite dell’arzigogolo, inventato da Angela Merkel con l’appoggio della posizione rigorosa assunta dal Parlamento, viene stabilito il principio che i Paesi che non rispettano i diritti fondamentali (la libertà di manifestazione del pensiero, il pluralismo dei media, la tutela delle minoranze, la libertà di associazione, l’indipendenza dei giudici, e così via) non possono contare sui finanziamenti europei, e, soprattutto, che per decidere questo non c’è più bisogno di una votazione all’unanimità. A questo legame diritto-soldi si opponevano due Paesi entrati nell’Unione nel 2004, Ungheria e Polonia (seguiti inizialmente dalla Slovenia), che minacciavano di porre il veto sia sul bilancio settennale europeo 2021-2027, sia sui fondi per la ripresa e la resilienza. In sostanza, essi erano contro “coloro che hanno stabilito un legame tra bilancio europeo e lo Stato di diritto”. Con una dichiarazione congiunta del 26 novembre scorso i due governi avevano utilizzato il potere di veto come merce di scambio per il ritiro della proposta di regolamento che condiziona il rispetto dello Stato di diritto all’uso di finanziamenti europei. I due Paesi, da un lato sostenevano di essere giudici esclusivi del rispetto dei diritti nei loro territori; dall’altro eccepivano che un meccanismo per la verifica europea del rispetto nazionale di tali diritti esiste, ed è regolato dall’art. 7 del trattato sull’Unione europea. Ma questo meccanismo richiede una constatazione di violazione grave e persistente dei diritti, presa all’unanimità, e due Stati membri dell’Unione, appoggiandosi reciprocamente, possono impedirne il funzionamento. Era dal 2018 che una proposta di regolamento “sulla tutela del bilancio dell’Unione europea in caso di carenze generalizzate riguardanti lo Stato di diritto negli Stati membri”, che prevedeva la sola maggioranza qualificata per decidere, aspettava sui tavoli del Consiglio e del Parlamento europeo. Aveva anche fatto passi avanti, ma si era scontrata con l’opposizione delle due “democrazie illiberali”. Queste si opponevano per far valere la propria sovranità sui diritti, obiettando che un’interferenza tanto importante dell’Unione negli ordinamenti nazionali avrebbe richiesto una modifica dei trattati europei. Ed in effetti la base “costituzionale” del nuovo Regolamento è piuttosto esile: sta nell’articolo 322 del trattato sull’Unione europea che riguarda solo le regole sulle “modalità relative alla formazione e all’esecuzione del bilancio”. Quella che viene chiamata “condizionalità” (cioè mettere insieme il bastone e la carota, il rispetto nazionale dei diritti con la fruizione dei benefici finanziari) è fondamentale perché costituisce uno degli strumenti principali per consentire agli organismi sovranazionali di controllare il rispetto dello Stato di diritto negli ordinamenti giuridici nazionali, dotandoli anche di denti per mordere. Solo in questo modo la democrazia e il diritto delle singole nazioni si arricchiscono. Solo in questo modo i governi dei vari Stati sono chiamati a rispondere agli organismi sovranazionali e globali, e questi ultimi possono far valere le dichiarazioni universali o sovranazionali dei diritti dell’uomo, che altrimenti rimangono lettera morta. È questo il motivo per il quale non solo nell’Unione europea, ma in tutte le organizzazioni globali si cercano “linkages” (collegamenti) che, unendo benefici a limiti, possano rendere effettivi i principi stabiliti universalmente per la comunità internazionale. Il “compromesso Merkel”, che ha fatto uscire la decisione dall’”impasse” creata dall’impuntatura sovranista ungherese e polacca, ha persino migliorato le modalità di attuazione del Regolamento, prevedendo che la Commissione adotti linee guida, regolando l’istruttoria a carico di chi viola lo Stato di diritto e aprendo la strada all’impugnativa alla Corte di giustizia (così giurisdizionalizzando il conflitto). L’Unione europea, che è già un gigante regolatorio, si avvia a diventare un importante intermediario finanziario (sta raccogliendo sui mercati 750 miliardi di euro e domani dovrà arricchire la propria potestà fiscale, per poter erogare risorse che consentano di uscire dalla crisi). Aumenta così la sua capacità di pressione sugli Stati, attraverso la finanza, perché questi rispettino i diritti. E si afferma anche una nuova e più ricca declinazione della democrazia: chi esercita il potere politico non deve solo rispondere al proprio elettorato, ma deve anche rispettare i principi comuni del diritto, fissati nei trattati, insieme con gli altri Paesi. Il “compromesso Merkel” conferma quel che aveva scritto nel 1976 uno dei padri fondatori dell’Unione europea, Jean Monnet, che la costruzione europea sarebbe stata la somma delle soluzioni alle sue crisi. L’Ue bacchetta l’Italia: “Ora si doti di un’istituzione per la tutela dei diritti umani” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 dicembre 2020 Nella nostra stessa situazione in Europa solo Repubblica Ceca e Malta. Sono tre gli Stati membri dell’Unione europea che non hanno ancora istituito un ente nazionale indipendente per i diritti umani. Tra gli inadempienti, oltre alla Repubblica Ceca e Malta, c’è anche l’Italia. A bacchettare il nostro Paese, recentemente, ci ha pensato la commissione Ue che ha messo a punto una strategia per rafforzare l’applicazione della Carta dei diritti fondamentali nell’Unione europea. In base alla nuova Strategia, dal 2021, la Commissione presenterà una relazione sull’applicazione della Carta da parte degli Stati, con particolare riferimento ai diritti fondamentali nell’era digitale. Non solo. Ha sottolineato che gli Stati membri, nei quali manca ancora un’istituzione nazionale indipendente con competenza sui diritti umani e in grado di mettere in contatto società civile e governo, saranno tenuti a procedere in questa direzione. Quindi l’Italia dovrà fare in modo di adeguarsi con quanto richiesto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione del 1993 sulle “Istituzioni nazionali per la promozione e la protezione dei diritti umani”, con la quale è stato stabilito che tutti gli Stati del mondo devono creare le indicate istituzioni nazionali. Una mancanza, quella italiana, che la mette in una situazione atipica. L’istituzione di una Commissione nazionale per i diritti umani - in attuazione della risoluzione 48/134 Onu - è stata oggetto di dibattito parlamentare in particolare nel corso della XVI legislatura. Nel 2009 la Commissione Affari costituzionali del Senato ha avviato l’esame di due proposte di legge di iniziativa parlamentare in materia. Successivamente, il 7 giugno 2011, il governo ha presentato un proprio un disegno di legge che è stato approvato, con alcune modifiche, dall’Assemblea del Senato (20 luglio 2011). L’iniziativa del governo era originata dall’impegno assunto dall’Italia, una volta entrata a far parte del Consiglio Onu dei diritti umani, di costituire un organismo indipendente in materia di diritti umani in attuazione della risoluzione ONU n. 48/ 134 del 1993. Il testo trasmesso alla Camera è stato esaminato dalla I Commissione Affari costituzionali in sede referente che vi ha apportato alcune modifiche prima di approvarlo il 18 dicembre 2012. Ma questo pochi giorni prima dello scioglimento delle Camere e il disegno di legge non è più passato. Quindi un nulla di fatto. Ricordiamo che a fine giugno è stato il garante nazionale delle persone private della libertà a sollecitare l’attuazione della Commissione nazionale indipendente per la promozione e protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Come detto, non ha ancora visto la luce a distanza di ben ventisette anni dall’approvazione della Risoluzione dell’Onu. Il Garante ha osservato che la delegazione italiana, l’anno scorso, ha preso un impegno davanti al working group del Consiglio dei diritti umani: nella presentazione iniziale come primo punto è stata “riaffermata la volontà” da parte del “governo italiano di stabilire una Istituzione nazionale indipendente dei diritti umani in conformità con i Principi di Parigi”. A tal proposito, il Garante ha sottolineato il fatto che la delegazione ha citato la proposta di legge (del 2018) attualmente pendente alla Camera dei deputati sull’istituzione di un organismo indipendente, al momento - e da molto tempo - all’esame in Commissione. Ora ci ha pensato anche la Commissione Ue ha ricordarlo. Da “clandestini” a “clandestini infetti”. L’immigrazione nei media in era Covid di Serena Chiodo Il Manifesto, 17 dicembre 2020 Il rapporto Carta di Roma. Nei titoli dei giornali spesso i migranti vengono indicati come veicolo di contagio. Il Covid-19 ha stravolto l’agenda delle notizie incidendo sulla narrazione del fenomeno migratorio, meno presente rispetto al passato. I toni però sono rimasti gli stessi. È su questa evidenza che si snoda l’ottavo rapporto con cui Carta di Roma analizza, insieme all’Osservatorio di Pavia, “quanto, come e quando i media italiani hanno raccontato le migrazioni”. “Notizie in transito” è il nome del dossier presentato ieri, scelto proprio pensando all’anno che sta per chiudersi: “transito” “come viaggio di migranti; come movimento vietato dai decreti sicurezza, dalla chiusura dei porti, dalle quarantene; come diffusione del virus”. Transito come passaggio: perché il 2020 e la pandemia che l’ha segnato rappresentano una discontinuità con quanto finora conosciuto, anche per quanto riguarda la narrazione mediatica del fenomeno migratorio. L’analisi di Carta di Roma e Osservatorio di Pavia, da sempre focalizzata su quotidiani e telegiornali delle tre reti principali quest’anno si è allargata a Facebook e Twitter “per l’importanza che hanno nella formazione dell’opinione pubblica”, sottolinea la coordinatrice di Carta di Roma, Paola Barretta. Uno studio diviso su tre livelli che cattura una stessa immagine, ossia la riduzione delle notizie relative al fenomeno migratorio: -34% sui quotidiani, rispetto al 2019. Da questa osservazione generale il rapporto mette in luce alcune cornici in cui i media inseriscono la narrazione delle migrazioni, identificando come centrale quella relativa ai flussi: oltre la metà delle notizie si sono focalizzate sugli arrivi, dividendosi tra cronaca e discorso politico e concentrandosi sugli sbarchi. “Sono tralasciati gli arrivi via terra e aria” sottolinea la portavoce dell’Unhcr Carlotta Sami, evidenziando la preoccupante assuefazione della società alle morti in mare. Se si guarda ai titoli dei quotidiani e ai dati del Viminale “da gennaio a ottobre si ha una media di un titolo ogni quattro persone sbarcate” nota Giuseppe Milazzo (Osservatorio di Pavia) sottolineando come dal 2013 a oggi il minimo comun denominatore della narrazione legata alle migrazioni sia sempre stato l’emergenza: “Il lessico legato al fenomeno migratorio delinea una cornice di crisi infinita e endemica” con un linguaggio che, con parole come invasione, allarme, ondata, richiama il lessico bellico. Una narrazione che nei termini si è intrecciata a quella sul Covid19: anche in questo caso le parole utilizzate (coprifuoco, eroi in trincea) hanno ripreso uno scenario di guerra. Nella scelta di termini e temi un ruolo importante lo gioca la politica, per cui “siamo più condizionati dalla propaganda che non dal racconto dei fatti reali”, sottolinea il presidente di Carta di Roma Valerio Cataldi. L’arrivo della pandemia secondo Cataldi “ha incattivo l’aspetto peggiore di questo racconto. Prima c’erano i clandestini, oggi ci sono i clandestini infetti”: nel 13% dei titoli analizzati i migranti sono indicati come veicolo di contagio, in una narrazione che fa da sponda alla costruzione di una paura resistente nel tempo. E sulla paura si sofferma il direttore di Demos & PI Ilvo Diamanti, parlando di “bisogno della paura, in particolare guardando al mondo della comunicazione e della politica”. Un bisogno palesato indirettamente proprio dalla crisi sanitaria: “Da oltre vent’anni i dati dei crimini in Italia sono rappresentati da una linea piatta e bassa, eppure negli ultimi anni la criminalità è stato il tratto caratterizzante della comunicazione del fenomeno migratorio. La percezione ha sostituito la realtà”. Quest’anno però qualcosa è cambiato: “La criminalità e il suo presunto legame con l’immigrazione non ha pesato nei titoli dei giornali. In generale è crollata la narrazione sulle migrazioni: è arrivato un altro nemico”. Se la criminalità come nucleo semantico è il grande assente di quest’anno, presente solo nell’1,5% dei titoli analizzati, ci sono due altre grandi lacune nella narrazione: l’accoglienza e i protagonisti dei percorsi migratori. La prima nei tg è passata a occupare una percentuale del 28% nel 2018 all’attuale 4%, e migranti e rifugiati hanno voce solo per un 7% sul totale dei servizi dedicati al fenomeno. Primavere arabe sfiorite. Quelle rivolte degli ultimi tradite dall’Occidente di Domenico Quirico La Stampa, 17 dicembre 2020 Nel 2010 la Tunisia diede il via ai moti popolari in Africa e Medio Oriente. Ma dieci anni dopo i regimi sono tornati forti con il supporto degli alleati. Sappiamo il giorno e l’ora e il luogo in cui tutto è iniziato. Come nei libri di scuola. Dieci anni dopo possiamo riascoltare le grida, ricostruire i gesti, ripercorrere le strade della vergogna, del dolore, della ritrovata dignità. In un verbale poliziesco scorrono gli slogan, i morti, il tumulto, sclerotici tiranni arroccati nel Palazzo a rodersi di rabbia e di paura. La rivoluzione araba! Possiamo perfino pesarla questa rivoluzione: mettendo sulla bilancia due cassette di mele, tre di pere e sette chili di banane. Come pesano poco i grandi sconquassi della storia. Sì, perché tutto iniziò con un po’ di verdura. Non ci furono assalti a fortezze, nessuna Bastiglia venne smantellata: fu, in fondo, una storia di mercato, una storia di strada. 17 dicembre 2010, a Sidi Bouzid nel centro della Tunisia, un posto di poveri, polveroso e sporco sotto i cieli leggeri dei suoi inverni. Floscio come il regime ipocrita e corrotto del visir che lo governava, Ben Ali. Abbiamo il nome dell’eroe, lo stringiamo forte al cuore: Mohamed Bouazizi, ambulante senza licenza, un ragazzo che ha sconfitto il tiranno. Pensavamo accadesse solo nelle Mille e una notte. I gendarmi gli requisiscono la merce perché non paga il pizzo, piccola cronaca di un Paese corrotto. Ma poi compare una latta di benzina che il ragazzo si versa addosso e un cerino e una fiammata che lo avvolge: sì, un suicidio, il gesto senza remissione che inchioda tutti e senza cui nulla sarebbe accaduto. E la cronaca nera divampa in Storia. E dopo? Dopo nei Paesi dove il muezzin grida la preghiera del mattino si sono moltiplicate le piazze in tumulto, Kasserine, Djerba, Tunisi e ancora il Cairo, Bengasi, Aleppo, Homs, Sanaa. Una catena mirabile, esaltante. Le esperienze personali si innestavano senza soluzione di continuità nella più grande storia rivoluzionaria che si andava dipanando. Le città della rivolta erano posti diversi da prima. Una piazza rincorreva l’esempio dell’altra piazza: l’immensa Tahrir voleva assomigliare alla angusta avenue Bourghiba, Homs si specchiava in ciò che accadeva a Bengasi. Nei luoghi delle Primavere esistono paesaggi interiori percepiti solo da chi le ha vissute. Costoro sanno leggere quali drammatici eventi e memorabili sono avvenuti in quel vicolo, davanti a quel caffè o a quel ministero o a quella caserma. Qui fu un corteo memorabile, là una battaglia, qui è morto un giovane ribelle. I luoghi dei massacri conquistano dignità nella loro solitudine, perfino nel brutale sforzo di nuovi e vecchi tiranni per cancellare ogni traccia di eroismi e delitti. Sono luoghi in cui a tornarci, dieci anni dopo, regna l’atmosfera inquietante dei terreni consacrati. La vera rivoluzione è inscindibile dagli atti di uomini concreti che lottano insieme contro regimi, poliziotti, lo Stato e i suoi soldati e complici. Non sono impersonali connessioni di forze storiche ed economiche, di classi, di “immaginari collettivi”. Sono uomini in cammino che si riuniscono e si trascinano a vicenda, che sono fatti dalla Storia e la fanno, le loro azioni sono fondate sui loro bisogni che sono concreti quanto loro stessi. Dopo dieci anni questo non si può cancellare: la primavera araba del 2011 fu una rivoluzione. Non rivolta o congiura. Fu rivoluzione. In Tunisia una generazione, non di intellettuali, ma di disoccupati, di costretti ad arrangiarsi, di sbandati di periferia, sì, anche loro, soprattutto loro, scoprì che il mondo non era fatto per le loro speranze, che l’essere rinchiuso in quel vuoto bruciava in gola, che cercavano aiuto che nessuno poteva dargli. Da quel diciassette dicembre tutto frana. Dittature decennali che sembravano intoccabili, che promettevano, bugiarde, modernità, a cui noi occidente facevamo ogni giorno gli occhi dolci, si trovano di fronte alla unità del rifiuto. I ragazzi di Tunisi e di Aleppo sapevano quello che non volevano più: era arrivato il momento. Mubarak, Gheddafi, Assad, Ben Ali erano solo nomi diversi di un’idra dalle molte teste, canagliume che si era abituato alla rendita di una politica da avventurieri, pigra e sanguinosa, basata sul disprezzo dell’uomo e della vita umana, un potere fondato sulla paura e la corruzione. Era la conoscenza profonda ma inconsapevole di una identità negativa. La ribellione fu spontanea, confusa, non fu preparata da nessuna forza sotterranea o clandestina. Ma quel disordine apparente celava un ordine che voleva nascere. E non riuscì. Dieci anni dopo, di dimissione in dimissione, una cosa sola i rivoluzionari hanno imparato: la loro radicale impotenza. I regimi sotto cui vivono oggi assomigliano a quelli che avevano sperato di abbattere e non certo alle loro aspirazioni. In Tunisia, come dieci anni fa, sperano di trovare un posto su una barca che li porti, vivi, a Lampedusa. La costituzione nata dalla Primavera è splendida. Ma i governanti che dovrebbero applicarla sembrano usciti dalla nomenklatura di Ben Ali. In Siria Bashar Al Assad ha vinto la guerra, come tutti gli assassini svelto a lavarsi le mani, in Egitto Al Sisi amministra il non diritto assai meglio che il senescente Mubarak, in Libia si contendono il bottino un generale che aspira a imitare Gheddafi e un prestanome di bande criminali. E noi? Noi occidente li abbiamo traditi. Per dieci anni abbiamo cercato nuovi tiranni con cui riprendere gli affari. Dove fu l’errore? L’insurrezione araba avanzava senza conoscersi. Lottava nelle strade con lo striminzito catechismo del mai più vivere così. Mancavano i leader, mancavano i partiti, i programmi. Le dittature marcavano con il loro vuoto anche ciò che veniva dopo. Ho parlato con alcuni di quei ribelli. Molti sono approdati a una inerte vacuità, o sono partiti, o sono profughi. Qualcuno ha pensato di continuare la rivoluzione arruolandosi nel jihad. Ma con un solo colpo d’ala speranza e disperazione li hanno abbandonati. Questi ragazzi nel 2011 si preparavano a vivere, partivano; ma il loro viaggio si è fermato nel vuoto, non sono andati da nessuna parte, non faranno nulla. Riaffiorano con pudore i ricordi della loro superba turbolenza e allora si chiedono: ma in fondo che volevamo? E non se ne ricordano. I ricordi hanno perduto artigli e denti. Libia. Blitz di Conte per la liberazione dei pescatori italiani “ostaggi” da oltre 100 giorni di Carmine Di Niro Il Riformista, 17 dicembre 2020 Giuseppe Conte prepara la “sorpresa di Natale”. Il presidente del Consiglio starebbe per partire alla volta della Libia per liberare pescatori italiani prigionieri da mesi. Sarebbe questo il motivo del rinvio dell’incontro con la delegazione di Italia viva in programma per questa mattina alle 9, slittato alle 19. Da oltre 100 giorni 18 pescatori sono in stato di fermo in una caserma di Bengasi, città nel’est della Libia. Gli equipaggi (composti da 8 italiani, sei tunisini, due indonesiani e due senegalesi), che erano a bordo di due pescherecci partiti da Mazara del Vallo e bloccati dalle autorità libiche lo scorso primo settembre a una quarantina di miglia dalle coste della Libia, praticamente non hanno più contatti con l’Italia. Secondo la ricostruzione più ‘accurata’ dei fatti, i due pescherecci “Medinea” e “Antartide” sono stati fermati della autorità che rispondono al maresciallo Khalifa Haftar, che controlla quell’area del paese, a circa 40 miglia nautiche dalla costa. Proprio la distanza dalla costa libica è un punto chiave della vicenda: uno Stato esercita la propria sovranità nel cosiddetto mare territoriale, una porzione di mare che si estende per un massimo di 22 chilometri, pari a 12 miglia nautiche. Ogni Stato deve però consentire il passaggio di navi stranieri al suo interno, purché non rappresentino un rischio per la sicurezza nazionale. Tra le 12 e le 24 miglia invece uno Stato ha poteri di controllo sulle navi stranieri per evitare che queste commettano reati nel proprio territorio. L’intervento libico è invece avvenuto a circa 40 miglia dalla terraferma, all’interno di una fascia marittima che da tempo la Libia rivendica come propria zona economica esclusiva. Secondo una ricostruzione del Corriere della Sera, i 18 prigionieri sono tenuti in una grande stanza al secondo piano di una palazzina sita nel porto militare di Bengasi. Il cibo, scrive il Corsera, “viene servito regolarmente: una dieta a base di pasta, pesce e verdura. Trascorrono il tempo guardando la televisione, hanno servizi igienici sempre accessibili”. Pur non essendo reclusi in un carcere, si tratta a tutti gli effetti di una prigionia: non hanno alcuna libertà di movimento e l’intera area è circondata da un muro di cemento, potendovi accedere soltanto da un posto di blocco controllato dai militari fedeli al maresciallo Khalifa Haftar. Egitto. Regeni, adesso le sanzioni non sono più tabù di Francesco Grignetti La Stampa, 17 dicembre 2020 Vertice a Palazzo Chigi per una nuova strategia. Di Maio: coinvolgiamo le istituzioni Ue sui diritti umani. L’Egitto di Al-Sisi non collabora con la magistratura italiana sul delitto Regeni, anzi innalza un muro di gomma per proteggere gli ufficiali della National Security che saranno processati a Roma, e allora l’Italia cambia approccio. Sembra archiviata la stagione del dialogo e degli affari a tutti i costi. Ora si dice che si è “agghiacciati” per quello che ha scoperto la procura di Roma. E queste sono le conclusioni del vertice che si è tenuto ieri a palazzo Chigi. Il primo atto del nuovo corso sarà uno sgambetto magari di poco peso, ma dal chiarissimo significato politico: l’Italia non appoggerà più le candidature avanzate dall’Egitto nelle sedi delle Nazioni Unite, su cui, nella fase in cui avevamo sperato che la collaborazione diplomatica avrebbe spianato la strada a quella giudiziaria, aveva garantito il sostegno. Secondo, si cercherà di creare un fronte comune a livello europeo (stanando la Francia dalla sua trincea filo-regime; purtroppo la silente Gran Bretagna che protegge la professoressa di Cambridge è fuori) a tutela dei diritti umani. Regeni e Zacky: entrambi i casi verranno inseriti, su richiesta italiana, all’ordine del giorno della prossima riunione tra ministri degli Esteri dei Ventisette. Riunione che, manco a farlo apposta, si terrà il 25 gennaio, anniversario del rapimento di Giulio. In quell’occasione chiederemo con forza una presa di posizione comune. E la parola “sanzioni” non sarà più un tabù. Proprio oggi, tra l’altro, al Parlamento europeo si vota una risoluzione sul deterioramento dei diritti umani in Egitto in cui vengono espressamente citati i casi Regeni e Zaki. “Il nostro obiettivo adesso è impegnare le istituzioni europee per Regeni, perché stiamo parlando di diritti umani. L’Italia chiederà anche il coinvolgimento di tutte le istituzioni internazionali per il riconoscimento del processo che la magistratura italiana sta intentando contro i funzionari egiziani ritenuti colpevoli”, dirà in serata il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. “E non abbiamo dimenticato Patrick Zaky, cittadino egiziano che ha studiato nelle nostre università. Vogliamo permettergli di riabbracciare la famiglia al più presto possibile”. La partita a scacchi con l’Egitto in verità è doppia, perché coinvolge anche la Libia nella persona del generale Haftar (strettamente legato al Cairo). Il premier Giuseppe Conte con i ministri Guerini, Lamorgese e Di Maio ieri ha affrontato anche la questione dei pescatori siciliani che sono ostaggi dell’esercito di Haftar da 107 giorni. Il governo ha preso atto amaramente dello “stallo sostanziale” di ogni trattativa. Si avvicina intanto il Natale, monta la rabbia dei siciliani e la questione sta diventando anche politica. Nel decreto Ristori sono stati stanziati 500 mila euro per le famiglie, ma a Mazara del Vallo vogliono altro. Vogliono indietro i loro cari. Di ciò il governo è consapevole. “Non ho dimenticato in questo momento difficile i nostri pescatori in Libia e voglio dire che ce la stiamo mettendo tutta e stiamo continuando a lavorare”, ha detto ancora Di Maio. Il punto è che a palazzo Chigi non si vede una soluzione. A Bengasi, attraverso i colloqui svolti dall’intelligence, continuano a chiedere in cambio la liberazione di alcuni scafisti, ormai condannati. E su questa china il governo non può incamminarsi. Perciò l’unica strada che i ministri intravedono è trovare un “punto di leva” per esercitare pressione su Haftar. Tra gli addetti ai lavori si è diffusa la convinzione che voglia appoggio per un ruolo nel futuro governo libico. Egitto. Regeni, se dopo 5 anni di annunci l’Italia minaccia sanzioni di Luigi Manconi La Stampa, 17 dicembre 2020 Lo strazio suscitato, in chi abbia un cuore, dall’immagine di Giulio Regeni (“mezzo nudo, segni di tortura, il viso riverso, ammanettato a terra”) può indurre, per non arrendersi all’orrore e non cedere all’impotenza, a considerare come positiva la riunione tenutasi ieri a Palazzo Chigi, presenti il Presidente del Consiglio e i ministri degli Esteri, dell’Interno e della Difesa. Ma nutrire anche solo una briciola di ottimismo è impresa ardua. La sfiducia più cupa nasce, infatti, non solo dal comportamento del regime di Abdel Fattah al-Sisi, che non mostra, ieri come oggi, la minima volontà di cooperare con la Procura di Roma, ma anche da quello del governo italiano, finora silenzioso e inerte. Basti ricordare che l’incontro di ieri si è svolto a distanza di giorni dall’atto di chiusura delle indagini, che hanno documentato le responsabilità di quattro membri degli apparati di sicurezza egiziani nell’assassinio del nostro connazionale. C’è voluta una settimana, dunque, perché il governo italiano si rendesse conto di quale terribile oltraggio fosse stato recato alla sovranità nazionale dell’Italia, alla sua dignità e alla sua autorità. Di ciò che è stato discusso nella riunione, nulla si sa, se non che il Ministro degli Esteri ha affermato di voler chiedere “a tutti i paesi UE di prendere posizione per la verità”. Non sembra una prova di coraggio leonino e di lungimiranza strategica, e, tanto meno, una svolta rispetto al passato. La verità nuda e cruda è che in questi quasi cinque anni - mi è capitato di esserne personalmente testimone - l’Italia ha rinunciato a condurre qualsiasi azione di pressione e di condizionamento, come singolo paese e come membro dell’UE, nei confronti dell’Egitto. Non è detto che tali azioni avrebbero avuto successo, ma avrebbero dimostrato la determinazione di uno Stato sovrano che non accetta che in un paese chiamato “amico” un giovane italiano venisse seviziato e trucidato. L’unico atto compiuto è stato il richiamo a Roma del nostro ambasciatore in Egitto per 16 mesi; dopodiché le relazioni politico-diplomatiche sono continuate all’insegna della più ordinaria normalità. Si è detto e si è ripetuto, e tuttora lo si ribadisce, che si deve operare così in nome della ragion di Stato e degli interessi economici nazionali. Ma il risultato di tale dozzinale realpolitik è stato un incondizionato fallimento: le autorità politiche egiziane hanno ignorato qualsiasi richiesta provenisse dai governi italiani, che si sono succeduti a partire dal 2016, e non sembrano intenzionate in alcun modo a cambiare rotta. E ora? Aspettiamo decisioni e iniziative conseguenti: se possibile, sotto forma di misure e provvedimenti - tanto meglio se concordate a livello europeo - che incidano efficacemente sulle relazioni politico-diplomatiche e su quelle economico-commerciali e militari. E che, da subito, si richiami a Roma l’ambasciatore italiano e si dichiari persona non gradita il signor Hisham Mohamed Moustafa Badr, ambasciatore della Repubblica araba d’Egitto in Italia. Atti simbolici? Certo, ma in politica, e in politica internazionale, i simboli giocano un ruolo cruciale. Non si tratta di una dichiarazione di guerra. Si tratta, piuttosto, di far valere la forza - grande o piccola che sia - di cui si dispone. Per capirci, il giacimento Zohr è un interesse vitale per il regime di al-Sisi quanto lo è per l’Italia; e i flussi turistici e l’intercambio tra i due paesi pesano sul PIL dell’Egitto, così come, e ancor più, pesano i mercati europei. In altre parole, tra il realismo politico straccione di chi irride i diritti umani e la resa ossequiosa a un despota, dovrà pur esserci un’alternativa. Alzare la voce con il rischio di nulla ottenere può essere frustrante, ma continuare a tacere è qualcosa di troppo simile alla servitù volontaria. Libia. Il Grande gioco che i libici non possono governare di Vincenzo Nigro La Repubblica, 17 dicembre 2020 Russia e Turchia sempre più potenti nel paese davanti alle coste italiane. La società civile a lungo schiacciata da Gheddafi non riesce a esprimere una vera classe dirigente ma si divide in clan con unico obiettivo: mungere i proventi delle risorse energetiche. Sono trascorsi dieci anni dalla rivolta che in Libia, nel sangue, ha rovesciato il trono di Muhammar Gheddafi. Dieci anni di continuo disordine. In cui il paese forse più importante per la politica estera italiana ha vissuto sempre sul precipizio. In altalena tra incerti periodi di tregua e terribili mesi di guerra civile. A che punto siamo in questa storia che forse appassiona sempre meno il grande pubblico, ma che dovrebbe preoccupare sempre di più i leader di una nazione come l’Italia? Partiamo dai risultati più evidenti che abbiamo davanti agli occhi. 1) Oggi in Libia ci sono due paesi stranieri che contano molto di più di tutti gli altri messi insieme. Sono la Russia di Vladimir Putin e la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Con la seconda che ha un buon vantaggio sulla prima, e vedremo perché. La Libia è diventata dopo la Siria il paese al mondo in cui più insistente è lo scontro fra potenze locali, regionali e mondiali. Ed è un paese che fronteggia l’Italia. 2) Dieci anni non hanno ancora permesso alla società libica di far emergere né una classe politica né un’idea di sistema politico. Non c’è ancora un “meccanismo” per governare il paese. I 40 anni di deserto politico e associativo imposti da Gheddafi hanno prodotto quello che vediamo oggi: una pletora di individui e milizie, sostenuti da clan e gruppi locali e quasi tutti sponsorizzati da paesi stranieri. Che combattono semplicemente per una cosa, il potere di governare il flusso di dollari che arrivano dall’unica risorsa del paese, il petrolio. Le bande criminali e il terrorismo 3) La condizione di instabilità, l’altalena fra guerre civili e periodi di tregua sempre incerta, ha lasciato il paese talmente debole da essere percorso da traffici illegali di ogni tipo (contrabbando di petrolio, droga, armi, migranti). Questo rafforza gruppi criminali che non hanno nessun interesse a un processo di stabilizzazione del paese. E parallelamente apre spazio al terrorismo di gruppi come lo Stato islamico e gli eredi di Al Qaeda, che rimangano ben nascosti nel paese, pronti ad agire quando sarà conveniente. Da ottobre 2020 il cessate-il-fuoco negoziato a fatica dall’Onu viene rispettato. Ci sono stati scontri fra gruppi o clan vari nel Sud, nel Fezzan. Schermaglie lungo la linea del fronte tra le forze di Tripoli e quelle del generale Khalifa Haftar (da Sirte giù nel deserto verso Jufra). Ma per il resto la tregua regge. “Sono Russia e Turchia che al momento non vogliono combattere, e quindi tengono a freno sia le milizie alleate a Tripoli che quelle dell’Est che seguono il generale Haftar”, dice un esperto diplomatico italiano. Nel frattempo, le Nazioni Unite stanno provando a far ripartire il negoziato politico con 2 obiettivi: creare un governo che riunisca i rivali politici (e militari) dell’Est e quelli dell’Ovest. E preparare con questo nuovo governo le elezioni che l’inviata Onu Stephanie Williams ha già annunciato per il 24 dicembre 2021. L’idea dell’Onu è di creare un nuovo Consiglio presidenziale di 3 membri (la presidenza collettiva attuale in funzione dal 2016 ora ne ha 7). Sotto il Consiglio ci sarebbe un nuovo primo ministro (oggi l’incarico non esiste) e poi i ministri responsabili dei vari dicasteri. Ma qui tornano in gioco Turchia e Russia. A Ovest le milizie del governo di Tripoli e quelle della città-Stato di Misurata, sono sostenute da centinaia di miliziani siriani portati in Libia dalla Turchia. I mercenari sono ancora lì. Ad Est i soldati di Haftar sono protetti aerei da caccia russi schierati nell’aeroporto di Jufra, da contractor russi e da consiglieri egiziani ed emiratini. E poi da decine di mercenari sudanesi, ciadiani, “carne da cannone” pronta ad essere utilizzata in nuove fasi della guerra. Nessuno, dalle milizie libiche ai mercenari, ha interesse a essere “smobilitato” Nessuno ha interesse a stabilizzare un sistema politico che cancellerà o assorbirà le milizie. Turchia e Russia per ora non si spingono a ordinare ai loro protetti di sciogliere le milizie, di ritirare i mercenari per creare un nuovo Stato libico. La Libia si munge come una mucca senza chiedere permesso. Il ruolo della Turchia ha evitato il collasso del governo di Tripoli: per cui Ankara detta legge a Tripoli. Ankara si è fatta pagare ogni pezzo del suo intervento militare (dai droni ai proiettili) e sta entrando in ogni appalto pubblico. La Russia, col suo sostegno ad Haftar, ha permesso al generale di tenere sotto assedio Tripoli per mesi, e di rimanere comunque ancora oggi un interlocutore decisivo per il futuro del paese. Mosca di fatto si è schierata con la coalizione di paesi arabi sunniti che sono dietro Haftar, innanzitutto l’Egitto, ma poi gli Emirati, l’Arabia Saudita, la Giordania. Gli obiettivi di Mosca sono 3: allargare la sua influenza su tutta la Libia, uno Stato petrolifero che è sicurezza di risorse. Ma usare anche il suo successo in Libia come monito ed esempio in tutto il Medio Oriente. Tenere sotto controllo la Turchia, un rivale “tattico”, ma nei fatti un alleato strategico. Comunque un partner così aggressivo anche in Siria e Iraq che va marcato di continuo. E poi fare politica con gli altri grandi paesi arabi per frenare la Fratellanza Musulmana a Tripoli. La Turchia invece in Libia ha giocato una partita con obiettivi più concreti rispetto a quelli russi, ma non meno ambiziosi. È entrata nel mercato politico ed economico libico. E in quello petrolifero. Banalmente (ma neppure tanto) ha conquistato una base aerea vicino al confine tunisino e due porti (Tripoli e Misurata) al centro del Mediterraneo. Con questo allargando il respiro della sua presenza nel Mediterraneo orientale in cui Erdogan si sente assediato. Per la Turchia la Libia è un successo più profittevole che per la Russia. Anche perché un giorno forse gli Stati Uniti la presenza russa in Libia inizieranno a frenarla (se non sarà troppo tardi). Ecco, 10 anni dopo la rivolta che ha spodestato Gheddafi e la sua famiglia, la Libia si è invischiata in un Grande Gioco che nessuno ha il potere di governare da solo. Non ce la faranno i politici libici. Non parliamo poi del popolo libico che tante speranze aveva riposto in quella “Rivoluzione del 17 febbraio”. Egitto. Il ritorno al passato sotto il giogo di Al Sisi di Vincenzo Nigro La Repubblica, 17 dicembre 2020 Nella restaurazione guidata dal presidente egiziano sono stati soffocati anche i piccolissimi spazi di democrazia lasciati da Mubarak prima e Morsi poi. Ma il regime è abile nel cercare la sponda economica internazionale. Dieci anni dopo la rivolta di piazza Tahrir, sette anni dopo il colpo di Stato con cui i militari si ripresero il potere, l’Egitto ha finito di girare su stesso. È stata una lunga rotazione, che lo ha riportato ad essere quello che era prima del gennaio 2011. Una dittatura militare in cui Abdel Fatah al Sisi ha sostituito Hosni Mubarak. Un regime in cui una classe, i militari, si è rimessa al centro del potere. Nella politica, nella sicurezza ma anche nell’economia. Con una grande differenza: Mubarak e il suo regime tutto sommato avevano consolidato la presa sul paese adoperando la politica, sostenendola solo dopo con l’azione repressiva violenta degli apparati. Con Sisi, al contrario, è stata la violenza l’origine di tutto. Ha sostituito la politica per permettere ai militari di riprendere il controllo totale del paese. E anzi per allargare la loro sfera di potere anche a settori che Mubarak aveva avuto la saggezza di lasciare disponibili, a piccole dosi, a partiti politici e altri segmenti della vita civile. Perfino nel periodo di Mohamed Morsi - il presidente della Fratellanza Musulmana che venne eletto nel 2012 e spodestato nel golpe del 2013 e che aveva imboccato un percorso in cui un solo partito (la sua Fratellanza Musulmana) si preparava a diventare egemone, utilizzando l’Islam come ideologia assoluta - alcuni spazi di democrazia erano stati preservati. La giornata del 14 agosto 2013, quella dei massacri che i militari misero in atto contro i presìdi pubblici della Fratellanza, rimarrà nella storia dell’Egitto. Da quei corpi degli estremisti islamici uccisi in piazza Rabaa e Nahda, Sisi è ripartito per consolidare rapidamente il sistema. Innanzitutto, con un attacco ai partiti politici: mette infatti al bando i Fratelli Musulmani e gli altri gruppi d’opposizione più rilevanti (con Mubarak invece l’opposizione sopravviveva: non vinceva mai le elezioni, ma non era ridotta a zero). Poi con gli arresti di singoli uomini politici, a partire dalla dirigenza della Fratellanza Musulmana. Il presidente Morsi è restato in carcere fino alla morte. Ancora: vietando ogni attività politica, ogni manifestazione pubblica, criminalizzando ogni forma di dissenso contro il governo. Le carceri sono state riempite di migliaia di prigionieri politici. Sarebbero almeno 70 mila, in balia di un sistema giudiziario che segue le direttive dei militari. Parallelamente il governo Sisi ha messo in piedi regole e maccanismi per bloccare la stampa, per chiudere giornali, farli acquistare da gruppi fedeli al regime e bloccare siti internet. La nuova legge sulla stampa, il Codice penale, le leggi anti-terrorismo, tutto viene adoperato per cancellare le critiche. Ci sono alcuni temi che sulla stampa non possono essere trattati, se non con il controllo totale dei militari: l’azione politica del governo, la vita di Sisi e della sua famiglia, le azioni dei terroristi nel Sinai, la situazione in Libia, ma perfino lo scontro con l’Etiopia per la diga “Gerd” e i dati di diffusione del coronavirus nel paese. In un campo Sisi ha dimostrato di sapersi muovere con incredibile capacità. Anche con opportunismo, ma con intuito: quello delle relazioni internazionali, del suo posizionamento globale. La mattina del 9 novembre 2016, dopo la giornata elettorale americana, Sisi fu il primo al mondo a complimentarsi con il neo-presidente Donald Trump. Che mesi più tardi parlerà di lui come “il mio dittatore preferito”. Giocando di sponda fra Trump e Putin, approfittando della necessità dei “fratelli” sauditi ed emiratini di avere a disposizione se non altro la forza demografica e i numeri militari dell’Egitto (soprattutto nel confronto con Turchia e Iran), Sisi ha avuto ossigeno per consolidare la sua presidenza. E “ossigeno” significa dollari, prestiti economici. Dal 2014 il debito estero egiziano è triplicato, da 110 miliardi di dollari a circa 321. Quasi il 40% del budget egiziano è destinato al pagamento del debito estero, ma paesi come le monarchie arabe, la Cina, assieme alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario in cambio di riforme economiche ancora esili, continuano a fare credito all’Egitto. È una conferma del fatto che in un Mediterraneo e in un Medio Oriente in continua, pericolosa ebollizione, l’Egitto è un partner di cui nessuno può fare a meno (a parte i turchi). Al Sisi non lo abbandonano gli americani, che lo utilizzano anche per proteggere Israele nel gioco con i vari movimenti estremisti che assediano Gerusalemme (l’Egitto a Gaza parla con Hamas e Jihad). Non lo trascurano i russi di Vladimir Putin, che con l’Egitto per esempio giocano una partita raffinata in Libia e nel conflitto israelo-palestinese. E non lo trascurano i paesi europei, come Francia e Italia, che vendono armi, discutono di terrorismo e migrazioni. Rapporti che però vengono messi in crisi da casi come quello di Giulio Regeni, il ricercatore fatto sparire e ucciso proprio un 25 gennaio, nell’anniversario della inutile rivoluzione egiziana. Sud Sudan. Continuano gli abusi del Servizio di Sicurezza Nazionale di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 17 dicembre 2020 Arrestati donne e bambini, torture a centinaia di persone. Secondo Human Rights Watch, centinaia di persone hanno riportato disabilità fisiche e mentali permanenti a causa delle violenze ricevute. Un nuovo report di Human Rights Watch (HRW) testimonia le gravi violazioni dal Servizio di Sicurezza Nazionale (NSS) del Sud Sudan e riafferma la necessità di portare giustizia. Secondo la ricerca “Quale crimine stavo pagando? Gli abusi del Servizio di sicurezza nazionale del Sud Sudan”, pubblicata ieri, il Paese non è riuscito a porre un freno alle violenze dell’NSS, esplose nel 2013. Anzi. L’NSS oggi rappresenta il braccio repressivo del governo. Il documento poggia su inchieste precedenti condotte da HRW, Amnesty International, Commissione per i diritti umani del Sud Sudan, uffici dell’ONU e presenta nuove documentazioni e interviste. Sono stati sentiti 48 ex detenuti e altre figure di rilevo come analisti politici, attivisti, ex militari, familiari di detenuti. L’evoluzione del Servizio di Sicurezza del Sud Sudan. Il Servizio di Sicurezza Nazionale (NSS) nasce ufficialmente nel 2011 con i poteri di una agenzia di servizi segreti, o intelligence: può raccogliere informazioni, svolgere ricerche e consigliare le autorità rilevanti. A pochi mesi dalla sua creazione, tuttavia, inizia ad effettuare arresti arbitrari e a condurre sorveglianza su persone non gradite al governo. Con l’inizio della guerra civile in Sud Sudan nel 2013, il potere repressivo dell’NSS si abbatte su giornalisti, figure di opposizione e attivisti. Poteri indefiniti. Grazie ad una legge del 2014 l’NSS acquista i poteri di un corpo di polizia: può arrestare, detenere, sorvegliare, perquisire. E può usare la forza, anche se non è esplicitato. La vaghezza del testo, afferma HRW, consente ampio spazio di manovra alle forze del Servizio di Sicurezza. Le garanzie per i civili sono scarse e quasi mai applicate. Nel settembre 2019, il presidente Salva Kiir ha creato un tribunale speciale per gli ufficiali dell’NSS. Tuttavia, l’impianto manca di credibilità e non c’è nessuna evidenza dello svolgimento di processi giusti e imparziali, conclude la ricerca. Torture, abusi, danni fisici permanenti: arrestate donne e bambini. L’assenza di documenti rende difficile stabilire il numero di vittime, ma secondo fonti interne diverse centinaia di persone sono transitate nelle prigioni dell’NSS. Hanno subito maltrattamenti, arresti, uccisioni, sparizioni forzate. Molti sono rimaste in isolamento forzato, oppure in celle sovraffollate con scarso accesso a cibo, acqua, cure mediche. Non sono mancate le torture fisiche: aghi, plastica fusa, elettroshock, abusi sessuali. Tra i detenuti anche donne incinte, bambini, persone con disabilità. “Sento ancora gli aghi sulla pelle”, racconta un ex detenuto di 27 anni. Molti riportano danni fisici permanenti. Coinvolte anche le diaspore. Il potere del Servizio di Sicurezza si estende oltre i confini nazionali. Ci sono testimonianze di minacce, intimidazioni e rapimenti di persone in Kenya ed Uganda, con il tacito accordo delle autorità locali. Questo ha contribuito a creare un clima di sospetto nelle comunità sud sudanesi all’estero, mettendo a tacere le critiche al governo anche oltreconfine. Le difficoltà per ottenere giustizia. Arrestati senza processo e rilasciati senza accuse, per le vittime l’accesso alla giustizia è impossibile, riporta HRW. “Mi hanno torturato e incarcerato per oltre un anno, rilasciato senza accuse e minacciato di non parlare con nessuno di quanto accaduto. Cosa mi farebbero se li portassi in tribunale?”, racconta un ex detenuto. L’NSS riporta direttamente all’ufficio del Presidente, dal quale provengono fondi e autorizzazioni. Sulla carta esistono dei meccanismi di controllo dal basso sul suo operato, attraverso il Parlamento. Nella pratica però la corruzione politica li rende sterili e inefficaci: i poteri dell’NSS non conoscono ostacoli. Il braccio destro della repressione governativa. “Ciò che serve è la volontà politica di mettere un freno all’NSS e stabilire riparazioni per anni di abusi”, afferma Carine Kaneza Nantulya, direttrice della sezione Africa per HRW, “ma il Sistema di Sicurezza Nazionale rimane l’arma preferita del governo per la repressione. Questo promuove una cultura dell’impunità che lascia le vittime e le loro famiglie senza giustizia”. Chiamata a intervenire anche la comunità internazionale. HRW fa appello al Sud Sudan affinché metta fine allo strapotere del Sistema di Sicurezza Nazionale. “Il governo deve riformare al più preso il sistema di sicurezza e garantire giustizia e giuste compensazioni alle vittime”, afferma Kaneza. “Si tratta di un passo fondamentale verso la costruzione di uno stato equo. Il nostro futuro deve poggiare su leggi imparziali e sul rispetto dei diritti umani”. Si chiede infine un intervento più deciso della comunità internazionale e dei paesi vicini al Sud Sudan, inclusa l’Unione Africana, gli Stati Uniti, la Norvegia e il Regno Unito.