Emergenza Covid in carcere, nuove misure per migliaia di detenuti di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 16 dicembre 2020 Superati i mille contagi, accordo della Procura generale della Cassazione con ministero e Regioni per aumentare gli arresti domiciliari. Conte vedrà la radicale Bernardini che sospende lo sciopero della fame. La situazione dei contagi nelle carceri italiani evolve sotto tre profili. I detenuti positivi crescono a un ritmo medio di dieci al giorno. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte incontra gli esponenti della società civile e la radicale Rita Bernardini, che chiedono provvedimenti più forti per ridurre la popolazione carceraria. E la Procura generale della Cassazione mette a punto un protocollo con le Regioni per garantire ad almeno mille detenuti un posto dove scontare la pena ai domiciliari, avendone il diritto. Sono 1.030 (di cui 15 diagnosticati con il test all’ingresso) i positivi al coronavirus sui 53.052 detenuti: 951 (il 92%) asintomatici, 44 sintomatici in carcere, 35 ricoverati. Gli agenti della polizia penitenziaria positivi sono 754 (di cui 714 in isolamento a casa, 22 in caserma e 18 ricoverati) su 37.153. I dati sono contenuti nel report del ministero della Giustizia, aggiornato al 14 dicembre. Una settimana fa i detenuti positivi erano 958 su 53.294, gli agenti 810. Dall’inizio della pandemia sono morti 8 detenuti e 4 agenti. Solo in 19 penitenziari su 190 ci sono attualmente più di 10 casi. Il che fa ritenere al ministero che la situazione resti sotto controllo. Non la pensa così Rita Bernardini, segretaria dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”, che dall’inizio della pandemia denuncia l’inconciliabilità tra il cronico sovraffollamento carcerario e le esigenze di tutela sanitaria. A marzo le carceri ospitavano oltre 61mila detenuti, 11mila più della capienza ufficiale. In realtà, secondo Bernardini, circa 4mila posti censiti dal ministero non sono agibili, per cui la capienza reale è di 46mila posti e il sovraffollamento impedisce il distanziamento fisico, principale misura anti contagio. Da marzo governo, Parlamento e magistratura hanno adottato diverse misure per ridurre l’impatto della pandemia sul sistema carcerario. Dal punto di vista organizzativo annullate le visite e i colloqui, ridotte le interazioni tra detenuti, protocolli per separare i positivi. Dal punto di vista normativo, ampliamento dei presupposti per il ricorso agli arresti domiciliari. Tre documenti della Procura generale della Cassazione hanno indicato “buone prassi” all’interno di “istituti processuali esistenti” per limitare gli ingressi nelle carceri alle situazioni caratterizzate da “pressanti esigenze di tutela” della sicurezza pubblica o delle vittime di reati. Ciò ha consentito, nei mesi del lockdown, di ridurre la popolazione carceraria da 61mila a circa 54mila detenuti, al netto delle polemiche per le scarcerazioni (poi parzialmente corrette con un decreto legge) di mafiosi o comunque di detenuti in regime di alta sicurezza. Il decreto Ristori a fine ottobre ha introdotto la possibilità di uscire fino al 31 dicembre per chi ha un residuo di pena di 18 mesi e il permesso di non rientrare in cella di notte per i detenuti in semilibertà. Secondo il Partito Radicale, che si è appellato anche al presidente della Repubblica Sergio Matterella, non basta. Chiede una liberazione anticipata speciale, passando dagli attuali 45 giorni scontati ogni semestre a 75 giorni, sorretta da buona condotta; per tutta la durata dell’emergenza, il blocco dell’esecutività delle sentenze passate in giudicato a meno che la Procura valuti che “il condannato possa mettere in pericolo la vita o l’incolumità delle persone”; un ulteriore allargamento della platea dei beneficiari della detenzione domiciliare speciale prevista nel decreto Ristori a coloro che devono scontare una pena (o un residuo) non superiore a 24 mesi, eliminando le esclusioni per i reati più gravi (limite, questo, voluto dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede). Misure da prolungare almeno fino a fine gennaio. Bernardini ha iniziato uno sciopero della fame all’inizio di novembre. A lei si è aggiunta la tesoriera del Partito Radicale Irene Testa. Poi il sociologo Luigi Manconi con gli scrittori Sandro Veronesi e Roberto Saviano. Infine 203 accademici e giuristi, 3877 detenuti e 653 cittadini liberi, in gran parte avvocati e parenti di detenuti. Un paio di proposte sono state raccolte dal Parlamento con emendamenti del Pd al decreto Ristori, quindi altri 1.300 detenuti potranno non tornare a dormire in carcere. Il 14 dicembre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha ricevuto a Palazzo Chigi Manconi, Veronesi, l’ex magistrato Gherardo Colombo e l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick. L’indomani Bernardini ha interrotto, dopo 35 giorni, lo sciopero della fame “quale atto di fiducia nei confronti del presidente Conte” che la riceverà a Palazzo Chigi il 22 dicembre. Nel frattempo il procuratore generale della Cassazione ha aperto un nuovo varco in collaborazione con ministero, Csm, magistrati di sorveglianza (competenti sull’esecuzione delle pene). Almeno duemila detenuti avrebbero diritto alla detenzione domiciliare, ma non possono esercitarlo perché privi di un “reale domicilio”. Il che, scrive Salvi, oltre a “rappresentare un’inaccettabile discriminazione” su base economica e sociale, “comporta il paradosso che proprio i soggetti marginali e meno pericolosi vengono esclusi di fatto dai benefici” mentre il sistema carceri si preclude la possibilità di “consentire il distanziamento sociale senza che questo comporti la scarcerazione di persone maggiormente pericolose”. Precedenti iniziative si erano arenate (33 posti utilizzati su 250 disponibili) per difficoltà di diverso tipo: dal coordinamento delle diverse istituzioni alla difficoltà di garantire alloggi con assistenza e controlli sui detenuti. Ora il raccordo tra Regioni, ministero e magistrati dovrebbe consentire di creare in tempi rapidi i primi mille posti (in opere pie, comunità, enti no profit) per altrettanti detenuti, con sostentamento e assistenza di base. Dl Ristori: Mirabelli (Pd), “Sulle carceri si doveva fare di più, ma ci sono passi importanti” Ristretti Orizzonti, 16 dicembre 2020 “Questo provvedimento contiene molte misure economiche a favore di imprese e lavoratori costretti dalla pandemia a chiudere o a sospendere la loro attività. Ma ci sono anche misure importante per categorie più deboli, i cosiddetti cittadini invisibili che, grazie ai 400 milioni che verranno dati ai comuni, potranno usufruire dei buoni alimentari per mangiare. Ma nel Dl ristori ci sono misure non economiche che possono aiutare altri cittadini che lavorano nelle carceri e deboli come i detenuti. Negli istituti carcerari la situazione pandemica non è fuori controllo. Gli operatori, i Garanti, gli agenti penitenziari hanno lavorato bene. E per tenere sotto controllo la situazione sono state importanti le norme contenute nei provvedimenti decisi dal Governo in questi mesi e gli emendamenti approvati nei decreti Ristori. Si poteva e si deve fare di più. La popolazione carceraria è troppo alta e non ci sono spazi adeguati per il distanziamento, prima arma contro il virus. Questo decreto migliora la situazione ma avremmo voluto di più. Serviva aumentare gli sconti di pena per chi ha già vissuto un percorso positivo in carcere e il blocco dell’esecutività delle sentenze passate in giudicato. È comunque impotente che nel Recovery siano previste misure e risorse per garantire, nelle carceri, la creazione di spazi adeguati che garantiscano distanze corrette. Perché è sicuramente sacrosanto garantire l’esecuzione della pena ma è sacrosanto garantire la salute dei detenuti e di chi opera e lavora nelle carceri. Con questo decreto non svuotiamo le carceri, come dice la destra facendo bassa propaganda, ma facciamo un passo avanti per garantire dignità ai detenuti la cui dignità è garantita dal dettato costituzionale”. Così il senatore Franco Mirabelli, vice presidente dei senatori del Pd nel suo intervento durante il dibattito sul Dl Ristori. Testo dell’intervento in Senato di Franco Mirabelli sul Decreto Ristori, 15 dicembre 2020 “Credo che i colleghi che sono interventi nell’Aula del Senato prima di me abbiano già descritto in maniera molto importante e significativa i Decreti Ristori in discussione e la loro valenza. Voglio sottolineare a livello generale che mi pare che questi decreti confermino una straordinaria attenzione che abbiamo avuto per chi ha perso il reddito e per le imprese. È un dato oggettivo, se si calcola la quantità delle risorse che sono state investite; è oggettivo il fatto che sono state spostate molte scadenze fiscali; è oggettivo il fatto che il Governo e la maggioranza abbiano scelto di cancellare le tasse per chi è stato più colpito da questa pandemia. Noi ristoriamo chi ha perso il lavoro. Voglio, però, sottolineare anche gli interventi che riguardano le persone più deboli, gli invisibili, chi ha più subito in questi anni e rischia di subire ancora di più da questa crisi i danni di un aumento delle distanze e delle differenze sociali. 400 milioni per i Comuni, per il Fondo per gli incapienti e la proroga del reddito di emergenza sono provvedimenti importanti che credo vadano sottolineati, perché ci si deve occupare di tutti e abbiamo tentato di occuparci di tutti, perché lo slogan che “nessuno deve essere lasciato solo” non può restare soltanto sulla carta. Concentrerò brevemente il mio intervento su un tema che riguarda cittadini e persone che sono detenute in questo momento difficile nelle carceri e negli istituti di pena del nostro Paese. È chiaro che le persone ristrette e che qualunque istituzione in cui le persone sono concentrate presta di più il fianco alla diffusione del virus e del contagio. Oggi siamo di fronte ad una situazione nelle carceri rispetto alla pandemia molto seria ma che non è fuori controllo: su 54.000 detenuti che ci sono nel nostro Paese, ci sono 1.000 contagiati, 140 con sintomi. La situazione, quindi, è seria ma non fuori controllo, anche grazie al lavoro che si è fatto in questi mesi, al lavoro che hanno fatto i Direttori, gli operatori sanitari, gli operatori delle carceri e, soprattutto, gli agenti di custodia. Grazie a quel lavoro si è contenuto il contagio ma grazie anche ai provvedimenti presi dal Governo all’inizio della pandemia e oggi riproposti. Li ricordo perché si sentono dire cose assolutamente non vere: non c’è stato alcuno svuotacarceri e non c’è stata nessuna persona liberata in questa fase ma ci sono stati gli arresti domiciliari per molti. Si è intervenuto e si deve intervenire meglio e di più per ridurre le pressioni e le presenze nelle carceri. Ci vuole una tensione maggiore per tutelare la salute dei carcerati. Abbiamo detto in questi mesi, insieme a tanti operatori, insieme ai Garanti regionali e al Garante nazionale per i detenuti e insieme a tante associazioni, che si deve e si può fare di più, anche rispetto a quello che già il Governo ha fatto e che è contenuto in questi decreti. Ancora la popolazione carceraria è troppo alta rispetto alla ricettività. Non ci sono spazi per il distanziamento all’interno delle carceri, non ci sono spazi di isolamento ed è difficile trovare il modo di curare le persone e di metterle in sicurezza. L’approvazione dei decreti e di alcuni emendamenti migliora la situazione. Noi avremmo voluto di più. Avremmo voluto il blocco dell’esecuzione delle condanne che passano in giudicato in questo periodo per non fare entrare altre persone e aumentare il problema. Avremmo voluto e andremo avanti a rivendicare la necessità di aumentare gli sconti di pena per chi ha avuto un percorso positivo e per chi ha vissuto bene e con buona condotta la propria esperienza in carcere. Questo delle condizioni delle carceri, di chi è recluso e di chi opera nelle carceri penso che sia un tema molto serio e la condizione perché si risolva è che ci sia una minor pressione. È bene che nel programma del Governo per il Recovery Fund siano già previste risorse per migliorare gli spazi di detenzione, per difendere la salute e spazi adeguati per la formazione e il lavoro. Il Governo, il Parlamento e la politica hanno il dovere di rispettare il dettato costituzionale, che è quello di garantire la certezza della pena ma anche il rispetto della salute e delle persone detenute. Chi pensa alla pena come alla vendetta e non alla rieducazione e al reinserimento, chi agita le paure, come ho sentito fare da alcuni che hanno evocato lo “svuota-carceri”, chi fa propaganda su delle persone evocando la necessità di buttare via le chiavi se qualcuno ha sbagliato, crea le condizioni perché il carcere diventi un moltiplicatore di violenza e di criminalità. Così sì che si mette ancora di più a rischio la sicurezza di tutti. Su questo, il provvedimento che stiamo votando non è come l’avremmo voluto ma fa un passo avanti. Non mette in discussione la certezza della pena né libera nessuno, come la destra racconta, ma afferma il principio secondo cui la politica deve agire per tutelare la salute di chi sta in carcere e perché la detenzione non sia solo sofferenza ma diventi un’opportunità”. Conte incontrerà Rita Bernardini e lei sospende lo sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 dicembre 2020 Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, incontrerà Rita Bernardini e lei, dopo 36 giorni, interrompe lo sciopero della fame. Quella dell’esponente del Partito Radicale e Presidente di Nessuno Tocchi Caino si tratta di un’azione nonviolenta per chiedere al governo di adottare urgentemente delle misure atte a ridurre la popolazione detenuta, anche per frenare l’epidemia covid tra detenuti, agenti e altro personale. A lei si è affiancata una mobilitazione ugualmente pacifica e nonviolenta portata avanti da 3.887 detenuti, 653 liberi cittadini, 203 professori di diritto e procedura penale che hanno sottoscritto l’appello lanciato da Giovanni Fiandaca e Massimo Donini, e personalità quali il professor Luigi Manconi e gli scrittori Sandro Veronesi (vincitore di due Premi Strega) e Roberto Saviano. L’esponente del Partito Radicale e Presidente di Nessuno Tocchi Caino, ha ricevuto la telefonata direttamente dalla presidenza del Consiglio ieri pomeriggio alle 14 e 18 e le è stato fissato un incontro con il premier per il 22 dicembre alle 11: 30 presso Palazzo Chigi. Ricordiamo che proprio l’altro ieri, Conte ha incontrato a Palazzo Chigi il già senatore e presidente di “A Buon Diritto” Luigi Manconi, il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, il dottor Gherardo Colombo e lo scrittore Sandro Veronesi. Al centro dell’incontro la situazione delle carceri italiane, con particolare riferimento all’emergenza Covid. Nell’occasione è stata consegnata al presidente Conte una lettera di Rita Bernardini con proposte legislative e amministrative volte a ridurre la popolazione detenuta nelle carceri. La richiesta è quella di introdurre almeno la liberazione anticipata speciale (proposta di legge del Partito Radicale e di Nessuno tocchi Caino presentata da Roberto Giachetti anche sotto forma di emendamento al “Decreto Legge Ristori”) e altre sostanziali modifiche del decreto Ristori che finora ha “ristorato” ben poco detenuti e agenti. Il presidente Conte, durante l’incontro con la delegazione, ha assicurato che si confronterà con il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, sulle problematiche sollevate e le proposte avanzate, assumendo anche l’impegno a incontrare Rita Bernardini. Detto, fatto. Ora la riceverà il 22 dicembre e per questo, almeno fino a quella data, come atto di fiducia, l’esponente radicale ha interrotto lo sciopero della fame che oramai durava da oltre un mese. Ma l’emergenza nelle carceri c’è o no? Il sovraffollamento, la mancata carcerizzazione come extrema ratio, le problematiche sanitarie, sono tutte criticità ben presenti prima della pandemia: il covid è solo il colpo di grazia. C’è ora una grave emergenza in corso, perché in molti istituti è impossibile assicurare quel distanziamento raccomandato dalle disposizioni anti- Covid. A causa del sovraffollamento, non ci sono gli spazi adeguati a questa misura. La gestione sanitaria, già carente, è di difficile attuazione ed è stato quindi facile commettere errori - come denunciato sul caso Tolmezzo e non solo - tanto da non evitare enormi focolai. Per giunta - come ha scritto Rita Bernardini nella lettera indirizzata al Presidente Mattarella - si ritrova costretta a non occuparsi di casi urgenti che richiederebbero controlli diagnostici e addirittura interventi chirurgici. Ora, in attesa di recuperare il grande lavoro degli Stati generali per l’esecuzione penale affossato proprio dal governo Conte 1 quando approvò la riforma dell’ordinamento penitenziario a metà, si spera che il premier convinca il guardasigilli a compere un gesto molto più umano che dia il senso “alto” della Politica che da tempo scarseggia. Flick: “L’Ue ci chiede diritti certi e processi veloci, non i bluff sulle riforme della giustizia” di Errico Novi Il Dubbio, 16 dicembre 2020 A proposito del Recovery plan e degli impegni prospettati dal governo sulla giustizia, il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, non esita a guastare la serenità dell’esecutivo. “Cerchiamo di non costruire uno scenario di cartongesso. E di non sottrarci alle responsabilità. Lo Stato non può scaricare sui cittadini le inefficienze della giustizia, casomai deve finalmente assicurare i principi di ragionevole prevedibilità dell’esito e di ragionevole durata del processo, previsti dalla Costituzione”. Giovanni Maria Flick consegna un messaggio non esattamente prenatalizio. A proposito del Recovery plan e degli impegni prospettati dal governo sulla giustizia, il presidente emerito della Corte costituzionale non esita a guastare la serenità dell’esecutivo. “Nel documento sull’impiego delle risorse europee, dei famosi 209 miliardi, mi sembra vi siano troppe affermazioni segnate dall’ipocrisia. Si concentra l’attenzione sulla giustizia civile, ma così si rischia di dimenticare che anche il processo penale continua a soffrire di problemi enormi. Innanzitutto”, dice Flick, “a soffrire è il principio di legalità, che consiste nella effettiva conoscibilità della legge: ebbene, tra interpretazioni creatrici dei giudici e abrasione della legge stessa da parte del governo coi Dpcm, a me pare sia proprio lo Stato a mettere in crisi il principio di legalità. Il richiamo a quest’ultimo dovrebbe essere scontato ed estraneo a un’analisi sulla ripartizione dei fondi Ue. Ma quel principio è la premessa per una riforma di sistema, come quella preannunzia dal governo sulla giustizia. Che senso ha rassicurare l’Unione europea sull’efficienza prossima ventura del sistema giudiziario attraverso tre o quattro disegni di legge che giacciono nelle aule del Parlamento e chissà quando vedranno la luce? E ancora, perché tra i propositi dichiarati della riforma civile c’è addirittura la minaccia di un’amministrazione che si costituisce contro chi risultasse responsabile di lite temeraria? Si pretende che il cittadino risarcisca i danni allo Stato: ma non è lo Stato che dovrebbe rimediare ai danni finora procurati al cittadino?”. Due giorni fa il premier Giuseppe Conte ha confermato che uno dei due pilastri su cui si regge il Recovery plan è la giustizia, l’altro è la semplificazione: secondo lei, dunque, il gigante ha i piedi d’argilla? Il premier ha ragione, ma proprio per questo in primo luogo non è possibile presentare come adempimenti già avviati, rispetto alle raccomandazioni Ue, alcuni ddl che viaggiano pigramente, e in assenza di intese, nelle aule parlamentari. Secondo: non è sopportabile l’idea che uno dei trofei innalzati, la prescrizione, sia offerto come rimedio alla presunta slealtà degli avvocati e dei loro assistiti, responsabili di aver finora snobbato i riti alternativi perché attratti dalla prospettiva del reato estinto. Terzo: le sole due mission con cui il governo dichiara di voler impiegare, nel campo della giustizia, il Recovery fund in sostanza sono da una parte la “pioggia di avventizi”, cioè tirocinanti, contratti a termine e giudici non professionali, dall’altra l’edilizia, cioè nuove carceri, millantate come risolutrici della recidiva ed elementi di trattamento per fronteggiare il dramma dei penitenziari sovraffollati. Tra l’altro mi sembra incoerente la convivenza coatta fra i detenuti in contrasto con la prescrizione di “distanziamento sociale”, talvolta penalmente sanzionata, per chi sta fuori dal carcere Mi pare un modo distorsivo e, ripeto, minacciato dal rischio dell’ipocrisia, di presentare le cose. Lei da dove partirebbe? Innanzitutto eviterei di spostare i riflettori solo sul settore civile come se il penale fosse sistemato dalla nuova prescrizione. Vogliamo partire dalle raccomandazioni dell’Europa? Bene, io credo che i nostri partner si aspettino dall’albero della giustizia due frutti: il ripristino del principio di legalità e la ragionevole durata dei processi. Il principio di legalità non è già cosa certa, in Italia? Spero che la domanda sottenda un filo d’ironia. La Convenzione europea impone che la legge sia accessibile. E come si fa, oggi in Italia, a considerarla tale? Le leggi non sono chiare? Sono sempre più spesso superate dall’interpretazione creatrice del singolo giudice. Il caso specifico è regolato dalla sentenza con un’interpretazione sempre meno “ragionevolmente prevedibile”. La Corte costituzionale non manca di scegliere a volte strade impegnative, nella cosiddetta dialettica multilevel con le Corti internazionali. Il contrasto regna sovrano nel rapporto fra Stato e Regioni. Ma c’è un altro fenomeno che provoca in certi casi una vera e propria morte della legge. Addirittura? Cosa avviene nel momento in cui il governo si sostituisce alla legge attraverso i Dpcm? Può davvero bastare che ogni tanto piombi, a copertura di un simile, incostituzionale strumento, qualche decreto legge blindato dalla fiducia? Cioè, lei dice che è lo Stato a portar via i frutti dell’albero della giustizia? Dico che si dovrebbe avere attenzione ai meccanismi regolatori di base, piuttosto che dare per fatte riforme virtuali. Prima di tutto si dovrebbe assicurare consistenza al principio della nomofilachia. L’uniformità delle interpretazioni, rimessa alle pronunce della Cassazione, pare debba riguardare solo i cieli dei massimi sistemi, dei grandi principi. E invece ci dovrebbe essere uniformità e dunque prevedibilità in tutta la gestione del processo: anche nei comportamenti del pubblico ministero. E come ci si può arrivare? Serve un più serrato controllo del giudice, e dei vertici della magistratura inquirente, sul collega pm. Guardi che quanto dico è l’eco di un discorso molto sensato fatto pochi giorni fa dal procuratore generale della Cassazione. Cioè dal vertice della massima magistratura inquirente... Appunto: è stato lui ad auspicare maggiore uniformità, e dunque una vera nomofilachia, anche nelle decisioni relative alle misure cautelari. Servirebbero giudici abbastanza autonomi dai pm: secondo lei ci sono? La domanda sembra alludere alla scorciatoia della separazione delle carriere: che però rischia di diventare un monumento innalzato nel nulla. Se adesso non ci sono giudici abbastanza autonomi da ricondurre a uniformità e ragionevolezza le eventuali azioni dei pm, per esempio nelle misure cautelari, vorrà dire che interverranno i giudici del grado superiore. Però non basta cambiare l’etichetta, una cosa deve essere chiara: se non c’è ragionevole certezza nell’interpretazione della legge, non funziona nulla. Né il penale né il civile. Il principio di legalità è affermato, nel primo caso, all’articolo 25 della Costituzione. In materia civile il cardine dell’articolo 24, vale a dire il diritto ad agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi, è attuato se la legge è conoscibile. Se io non posso conoscere ragionevolmente il significato della legge, della sua osservanza o trasgressione, se non posso ragionevolmente prevedere l’esito di un processo, sulla base di che cosa posso agire in giudizio? La magistratura potrebbe replicare che una dittatura della nomofilachia pregiudicherebbe l’autonomia del singolo giudice... Il giudice non deve essere vincolato, però se esiste un orientamento consolidato sarebbe giusto che se discostasse con una congrua motivazione, non secondo l’anarchia dell’interpretazione creatrice. Di quanto lei dice non c’è traccia nel Recovery plan... E non dovrebbe neppure esserci, quella traccia, in un documento destinato a dettare i criteri per l’utilizzo dei fondi. Ma dovrebbe esserci prima come premessa del sistema e della sua organizzazione. La sola traccia visibile, nel Recovery plan, finisce per essere lo scenario di cartongesso sopra evocato: disegni di legge di incerto destino, reclutamento di avventizi per lo smaltimento dell’arretrato. Le do una notizia: più che rimuovere l’arretrato, è il caso di evitare il suo accumularsi. Da ministro della Giustizia provai a offrire il contributo più qualificato possibile, vale a dire l’apporto dei notai. Ma non si fece in tempo a smaltire l’arretrato che già se n’era formato di nuovo. L’altro frutto atteso dall’Europa è la ragionevole durata... Abbiamo dalla nostra l’eccellente definizione dell’articolo 111, che probabilmente supera per efficacia la stessa Convenzione europea, in cui si sancisce solo il diritto a vedere fissata l’udienza il prima possibile. La nostra Carta dice invece con chiarezza che è onere dello Stato, e non certo delle parti, assicurare che un giudizio si definisca in tempi non abnormi. Certo, serve un compromesso. Da una parte ci vogliono strumenti che consentano di pervenire nel modo più celere possibile alla conclusione del giudizio, dall’altro tutto va contemperato con le garanzie difensive. Ma qui anziché al compromesso si assiste alla millanteria secondo cui tutto sarebbe risolto dalla nuova prescrizione, giacché adesso si opterà assai più per i riti alternativi, una volta svanita la prospettiva di veder estinto il reato. Mi pare un’altra espressione di quell’orizzonte un po’ ipocrita. Anzi, sembra che lo Stato si sia trasformato in un cacciatore di animali. Scusi presidente, perché cacciatore di animali? A chi si riferisce? Alla ricerca del capro espiatorio, che nel processo penale sono chiaramente l’imputato e la sua difesa, e all’introduzione del cavallo di Troia. Qui spero sia comprensibile il riferimento alla nuova disciplina delle intercettazioni: ma le pare possibile che un cellulare debba trasformarsi in una videocamera che dà accesso a qualsiasi cosa io dica o faccia? E le pare che dietro strumenti del genere s’intraveda uno Stato pronto ad assumersi la responsabilità della certezza e della ragionevole durata? Lei prima ha parlato di avventizi della giustizia: perché? Si torna a ipotizzare le meravigliose sorti e progressive per l’ufficio del processo, per la massiccia immissione di tirocinanti, di giudici non professionali e di personale assunto a termine. Certo, servono amministrativi e magistrati. Ma servono prima ancora strumenti efficaci e, come già detto, una rigorosa attenzione al principio di legalità da parte di tutti: della magistratura e in generale dello Stato. D’altronde ci sono altri segnali poco incoraggianti, a comporre lo scenario di cartongesso. A cos’altro si riferisce? All’impegno per la digitalizzazione. Presupposto indispensabile, intendiamoci: ma sono lustri, ormai, che si annuncia la svolta digitale nel processo. Perché si promette all’Europa il realizzarsi di una svolta telematica che dovrebbe già essere compiuta? Non c’è anche qui un’alterazione della realtà? Ho detto dell’edilizia penitenziaria come mission del Recovery plan: davvero si pensa che costruire più carceri significhi contrastare la recidiva dei reati, come pure si legge nel documento del governo? Stento a crederci. Come mi sembra curioso che per il contrasto della corruzione serva un nuovo organismo, parallelo e dunque sostitutivo dell’Anac: immagino che chi ha guidato l’authority nei primi cinque anni di vita non sia entusiasta della novità. Rispetto all’obiettivo di tutelare le imprese che vantano crediti si dovrebbe riconsiderare, a mio giudizio, l’istituzione di Tribunali preposti solo a tale settore, con il contributo degli esperti così come avviene nella giustizia minorile. E visto che di processo civile si parla, proprio non riesco a ignorare quell’ipotesi dichiarata negli impegni assunti sulla giustizia dal documento del governo: l’amministrazione che si costituisce contro il cittadino ritenuto responsabile di aver intrapreso una lite temeraria. Si pretende di far pagare alle parti la mancata efficienza della giustizia. Hai avuto torto, adesso paghi anche i danni allo Stato. Mi sembra troppo, visti i danni che finora proprio lo Stato ha procurato ai cittadini. Insomma, gli impegni sulla giustizia andrebbero rivisti del tutto... Non si può certo negare che da un lato vi è una maggioranza di magistrati i quali svolgono con capacità professionali e, quando occorre, riserbo il loro dovere. Dall’altro, che le colpe della disorganizzazione vanno attribuite purtroppo a una tradizione di disinteresse per la giustizia da parte della politica passata e non solo presente. Ma il risultato è quello che vediamo nella quotidianità. E rende possibile il tentativo della riforma di sistema che l’Europa, i mercati e prima ancora i cittadini si aspettano. La supplenza dei pm di Salvatore Merlo Il Foglio, 16 dicembre 2020 Anche su Regeni l’unica iniziativa dello stato non è politica ma giudiziaria. Parlano Manconi e Violante. La politica che abdica e la magistratura che prova a metterci una pezza. E’ una costante italiana, che nel caso dell’omicidio di Giulio Regeni in Egitto assume caratteri di tragedia se non di capitolazione nazionale. L’unica iniziativa chiara dello stato italiano di fronte all’evidenza di un delitto di regime, l’assassinio di un concittadino di ventotto anni, è l’indagine della procura di Roma che avanza zoppicando nel torpore e nella vigliaccheria dello stato egiziano, tra osceni tentativi di insabbiamento, atti diffamatori nei confronti della vittima e perniciosi silenzi del governo di Roma. “Quando nel 2017, per l’esattezza il 14 agosto del 2017, l’Italia fece rientrare in Egitto il nostro ambasciatore, si disse che lo si faceva perché questo avrebbe incentivato la cooperazione giudiziaria”, ricorda al Foglio Luigi Manconi. “Si disse che il ritorno del nostro ambasciatore nella capitale egiziana avrebbe consentito relazioni più strette e dunque rapporti più efficaci tra la procura del Cairo e la procura di Roma. Cosa che non è accaduta. Non è accaduta affatto. Anzi. È stato proprio il contrario. Gli esempi sono mille. Ci sono voluti due anni - due anni! - per avere il video delle telecamere collocate sulla piazza da dove è scomparso Giulio Regeni. E quando questi video sono poi finalmente arrivati in Italia, presentavano buchi enormi, vuoti, assenze d’immagini. Dunque quello che si evidenzia è proprio questo: l’abdicazione del governo. Totale. Perché dal ritorno del nostro ambasciatore in Egitto non è che a quel punto si sono attuate forme diverse, più intelligenti e meno aggressive di pressione. Forme di convincimento. No. Nulla”. E allora solo la magistratura agisce. Tra mille ostacoli. In supplenza. Come succede per la legge sul fine vita, come sulla cannabis, come sulla natura giuridica delle fondazioni politiche. Il governo non c’è. La politica non decide. E i magistrati si muovono. “La questione è che l’azione penale non conosce bilanciamento, mentre il potere politico sì”, dice Luciano Violante. “Esiste la ragion di stato, di cui la magistratura può non tener conto. Macron per esempio insignisce il presidente Egiziano al Sisi della Legion d’onore, e lo fa probabilmente per ragioni economiche. Quindi nel terribile caso di Giulio Regeni la domanda è: fino a che punto si può bilanciare una vita umana? Machiavelli, parlando del Valentino, ammetteva che il suo Principe aveva commesso orrori. Poi però aggiungeva: ‘Non di manco unificò la Romagna che era divisa’. Ecco, il ‘non di manco’ è un avverbio essenziale in politica”, conclude Violante. Che aggiunge: “Bisogna però essere prudenti nei giudizi. Il silenzio non è sempre ‘inesistenza’, nelle azioni politiche. Che si stia zitti non vuol dire che non si stia procedendo. E in questa vicenda ci sono cose che non sappiamo, probabilmente”. Eppure, ha scritto Giuliano Ferrara sul Foglio, uno stato serio e responsabile come l’Italia, malgrado l’interscambio commerciale, malgrado l’estrema delicatezza degli equilibri nell’area mediterranea, malgrado l’Eni, malgrado tutto, dovrebbe imporre all’Egitto una minima misura di rispetto. Ritirare le credenziali all’ambasciatore di al Sisi a Roma, esprimersi in modo univoco per il congelamento delle relazioni bilaterali, pretendere in Europa sanzioni mirate e proporzionate alla gravità dell’offesa, e non ultimo: appoggiare le indagini della procura di Roma. “Sin dall’inizio ci è stata presentata quella puerile alternativa per cui noi saremmo stati gli idealisti, i cultori dei diritti umani incapaci di comprendere la ragion di stato e quella categoria fondamentale che è il realismo politico”, dice Manconi. “Il risultato di questo realismo politico straccione è che dal 2016 a oggi l’Italia non ha esercitato la più esile pressione nei confronti del regime di al Sisi. Ora i magistrati stanno facendo un grandissimo lavoro. Ma se tutto è demandato a loro, che succederà qualora l’inchiesta dovesse deragliare di fronte ai troppi depistaggi?”. Il silenzio. Il nulla. Le chiacchiere e le ipocrisie intorno al cadavere di un italiano di ventotto anni. “La magistratura sta facendo il suo dovere. Benissimo”, conclude Manconi. “Ma se la politica abdica, anche l’azione della magistratura è indebolita”. La supplenza, che resta la spia di un problema, non è sempre possibile. Femminicida “delirante” per gelosia. Non imputabile? di Maria Virgilio Il Manifesto, 16 dicembre 2020 Bisognerebbe innanzitutto domandarsi se oggi abbia ancora senso l’istituto giuridico della assoluzione per non imputabilità. Non abbiamo dati sui numeri degli assassini di donne che invocano a scusante la propria non imputabilità e che, per aver agito in stato di incapacità di intendere e di volere, non vengono sottoposti a pena. Le sentenze per femminicidio fanno notizia, ma soltanto quando appaiono ispirate da spirito… non punitivo. Già questo dato dovrebbe farci ragionare sul perché proprio questo caso è stato portato dai media all’attenzione pubblica. Fu così anche per il caso riminese della “soverchiante tempesta emotiva” (iniziata e conclusasi con l’ergastolo, ma con l’intermezzo di una condanna a 16 anni -fu questa a focalizzare il clamore -poi annullata dalla Cassazione). Così ora è per il caso bresciano che ha visto assolto in primo grado l’imputato per incapacità di intendere e di volere, in quanto affetto da disturbo delirante di gelosia, la cosiddetta sindrome di Otello. Nel caso bresciano la gelosia non ha inciso sulla entità della pena, per diminuirla (con le attenuanti generiche o con la prevalenza sulle aggravanti), ma ha inciso radicalmente sulla punibilità. Il delirio di gelosia, quale patologia mentale per disturbo delirante, ha escluso totalmente la capacità di intendere e di volere, quindi la imputabilità e dunque la punibilità. Certo, per capire, occorrerà leggere almeno la motivazione della sentenza (quando sarà depositata) e, visto il caso, sarà corretto leggere anche le consulenze psichiatriche (perché risulta che su queste i giudicanti di Corte d’assise si siano basati, ma non la magistrata d’accusa che aveva chiesto l’ergastolo). Anzi sarebbe doveroso consultare l’intero fascicolo, come la Commissione femminicidio ha subito proposto (alla stregua peraltro di quanto sta già praticando per lo studio di tutti i femminicidi degli ultimi anni). Eppure azioni istituzionali sono già state compiute. Il Ministro della Giustizia ha disposto una ispezione, acuendo la spettacolarizzazione del caso, che invece ha a che fare con l’interpretazione e con gli spazi di autonomia valutativa del giudice. Per parte sua, il Tribunale ha deciso di diffondere agli organi di stampa una “informazione provvisoria”, definita come una precisazione “a chiarimento di possibili interpretazioni fuorvianti”. L’iniziativa forse è ispirata alla prassi recente di anticipare le motivazioni di talune sentenze di Corte Costituzionale e di Cassazione, che affermano - tuttavia - principi di diritto. L’idea è del tutto inedita e incongrua per la giustizia di merito dei casi concreti. Così al Presidente della Corte d’Assise è stato chiesto di scrivere, nel tentativo di arginare l’esposizione mediatica una …sentenza della sentenza, con anticipazioni di merito, che si spingono fino a escludere che il caso sia un femminicidio… Insomma, nello stringere i tempi, il focus è già stato spostato dalla applicazione della legge nel caso a tutt’altro. Invece bisognerebbe innanzitutto domandarsi se oggi abbia ancora senso l’istituto giuridico della assoluzione per non imputabilità. Inoltre non abbiamo dati sui numeri degli assassini di donne che invocano a scusante la propria non imputabilità e che, per aver agito in stato di incapacità di intendere e di volere, non vengono sottoposti a pena. Quante consulenze sulla imputabilità sono disposte d’ufficio, nel confronto con i periti dell’imputato, del PM o della parte civile? Quali gli esiti di tali consulenze? Neppure abbiamo dati statistici scientifici che ci dicano in quale considerazione tali consulenze peritali e le valutazioni del sapere psichiatrico vengano tenute dai tribunali: quante accolte e quante disattese? Che accoglienza trovano, anche in giudici donne, le valutazioni di malattia mentale nei casi di violenze maschili contro le donne? Certo, se a commettere violenze sono i mostri, uomini malati e diversi, la mascolinità è salva! Ma così si consegue anche l’obiettivo di deresponsabilizzare l’autore malato, che può scaricare sulla propria malattia ogni colpa. L’uxoricida di Brescia e il processo mediatico che condanna i giudici di Giulia Merlo Il Domani, 16 dicembre 2020 Il caso dell’uxoricida di Brescia è solo l’ultimo in ordine di tempo. Il processo mediatico, alimentato di notizie date in modo distorto, ha emesso l’ennesima sentenza e i condannati sono i giudici Per ricostruire i passaggi che hanno portato a convincere l’opinione pubblica che un tribunale abbia assolto un assassino con la scusante del “delirio di gelosia”, è necessario ricostruire i fatti. La Corte d’assise di Brescia, ovvero il tribunale competente a giudicare i reati più gravi come i delitti di sangue e composto da due giudici togati e sei popolari, ha pronunciato sentenza di primo grado sul caso di un uxoricidio avvenuto nel 2019. Antonio Gozzini, ottant’anni, era imputato per l’omicidio della moglie sessantaduenne, tramortita con un martello e poi accoltellata. L’uomo ha vegliato il corpo 12 ore, poi ha chiamato la polizia. A determinare l’esito del processo sono state due perizie psichiatriche. Sia quella disposta dal pubblico ministero che quella chiesta dalla difesa sono giunte allo stesso risultato: Gozzini è affetto da quella che in psicologia viene chiamata “Sindrome di Otello”, ovvero una sindrome psicopatologica che provoca una gelosia delirante, che lo ha reso incapace di intendere e di volere nel momento dell’omicidio. L’imputato reo confesso ha una storia pregressa di malattia psichiatrica ed è affetto da disturbo bipolare e depressivo. Il pm, disattendendo l’esito della perizia, ha comunque chiesto la condanna all’ergastolo. La Corte d’assise, invece, ha ritenuto attendibili le perizie e ha pronunciato sentenza di assoluzione per difetto di imputabilità dovuto a vizio totale di mente. Il pm ha già annunciato che ricorrerà in Corte d’assise d’appello, intanto Gozzini è detenuto nel carcere di Milano Opera ed è malato di Covid. La condizione psichiatrica dell’imputato è stata ritenuta dai periti tale da renderlo socialmente pericoloso e proprio per questo è stata disposta una misura di sicurezza: Gozzini non tornerà in libertà ma verrà trattenuto in una Rems, gli ex manicomi criminali ora strutture sanitarie di accoglienza per gli autori di reati affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi. Questa è la ricostruzione processuale, a cui manca ancora un ultimo capitolo, perché la sentenza verrà depositata entro tre mesi e conterrà le motivazioni” dell’assoluzione per difetto di imputabilità. Tuttavia il racconto del caso sui giornali ha prodotto una serie di distorsioni e di conseguenze. “Uccide la moglie e viene assolto per delirio di gelosia”, titola l’Ansa e poi a ruota tutti i giornali, mentre sul web diventa: “Assolto femminicida che uccise la moglie a coltellate per il giudice è stato un delirio di gelosia”, scrive Fanpage. Il che si è tradotto nella percezione di un tribunale che rimette un assassino a piede libero, giustificandolo col movente passionale. Infatti, a fare breccia nei media, è la motivazione del “delirio di gelosia”. Il termine, preso in senso non tecnico, ha trasformato la decisione della corte in una sorta di ripristino del delitto d’onore, che prevede una pena inferiore per il marito tradito che uccide la moglie. Al culmine delle polemiche sui giornali, è arrivata anche notizia di un intervento del ministero della Giustizia: Alfonso Bonafede avrebbe mandato gli ispettori del ministero a Brescia, per valutare l’operato del tribunale. Anche questo risulta essere falso, anche perché attivare una ispezione prima ancora del deposito delle motivazioni della sentenza sarebbe un’evidente invasione di campo tra potere esecutivo e potere giudiziario. Lo stesso ministero della Giustizia ha dovuto diramare una nota di precisazione “Non è stata avviata alcuna ispezione né indagine esplorativa, come da alcuni organi di stampa erroneamente riferito in questi giorni Come da prassi, vi è stata una mera trasmissione della notizia agli uffici competenti per le valutazioni e gli eventuali accertamenti del caso”. I colpevoli diventano i giudici Eppure, l’opinione pubblica ha già identificato il colpevole di questo processo mediatico: i giudici che avrebbero rimesso in libertà un omicida, anzi un femminicida. L’indignazione contro i magistrati è stata tale che lo stesso tribunale - in seguito alle notizie di ispezioni ministeriali - ha ritenuto necessario diramare una nota: “Appare necessario anche ai fini di una corretta informazione, in attesa della sentenza, tenere doverosamente distinti i profili del movente di gelosia dal delirio di gelosia, quale situazione patologica da cui consegue una radicale disconnessione dalla realtà tale da comportare uno stato di infermità che esclude, in ragione di un elementare principio di civiltà giuridica, l’imputabilità”. In un definitivo cortocircuito, si sono ribaltati i piani; il tribunale di Brescia è diventato l’imputato e ha dovuto difendersi dall’opinione pubblica, giustificando l’esito di un processo che, secondo i media, doveva concludersi in modo diverso. Il fenomeno sempre più frequente è frutto di una serie di fattori “Disinformazione, giustizialismo dilagante, ossessione punitivista, crescente sfiducia nella magistratura e subcultura del processo mediatico”, spiega Vittorio Manes, professore di diritto penale all’università di Bologna, che individua le due vittime del processo mediatico. La prima è il principio della presunzione di innocenza, l’altra sono proprio i giudici, “che subiscono una espropriazione della propria giurisdizione e vedono ridotte le proprie “sentenze” a semplici “opinioni”, che peraltro arrivano dopo una presunta “verità” già anticipata e conclamata nel proscenio dei media”. La stessa magistratura associata è intervenuta sulla vicenda, soprattutto in relazione alla notizia data in due tempi dei presunti ispettori ministeriali. Non è la prima volta, infatti, che il ministero annuncia ispezioni in seguito a casi mediatici. Tuttavia le ispezioni, dopo essere state annunciate e riprese dai media, non producono mai esiti concretamente valutabili: le relazioni degli ispettori, infatti, non sono pubbliche e l’unica possibile conseguenza è un eventuale provvedimento del ministro. Il gruppo di Magistratura democratica ha polemizzato con la scelta di tempi del Guardasigilli “Secondo uno schema ricorrente, si sovrappongono la reazione pubblica a una decisione giudiziaria, la risonanza mediatica per un esito diverso da quello atteso e l’annuncio di iniziative del ministro”. Esattamente come già accaduto nel caso delle “scarcerazioni” a causa della pandemia, che invece erano decisioni di detenzione domiciliare o nel caso di Bibbiano.11 caso dell’uxoricida è l’esempio del mondo invertito in cui rischia di cadere la giurisdizione: i media diventano i giudici i magistrati gli imputati e il ministero della Giustizia il pm. Il generale Del Sette: “Su Cucchi verifiche non adeguate” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 16 dicembre 2020 L’ex comandante dell’Arma sconfessa la gestione del caso nel 2009. Depositata la lettera del generale Giuliani sulle “discordanze documentali” durante la fase della morte del ragazzo. Il lessico è quello felpato dell’ex comandante dei carabinieri, abituato a schivare mine vaganti sul proprio cammino. Ma il cuore della testimonianza del generale Tullio Del Sette (oggi in pensione) non può essere frainteso. Senza mai nominarlo, l’ex comandante dell’Arma sconfessa la gestione che il comandante provinciale dell’epoca, Vittorio Tomasone, fece della vicenda relativa all’arresto e alla morte di Stefano Cucchi, sottolineando (e censurando) tutte quelle “anomalie” emerse nel corso degli anni. A partire dal mancato fotosegnalamento che avrebbe dovuto innescare sospetti su cosa fosse veramente avvenuto la notte del 15 ottobre 2009 (quella dell’arresto di Stefano) e che, invece, venne opportunamente emarginato: “È evidente - dice ora il generale - che non furono fatte verifiche con adeguati approfondimenti, altrimenti il fotosegnalamento sarebbe emerso”. Del Sette (oggi a processo per le rivelazioni del caso Consip) fa propri i dubbi espressi, nel 2015, dal generale Vincenzo Giuliani che, in una lettera riepilogativa delle notizie di stampa sull’affaire Cucchi (depositata al processo dal pm Giovanni Musarò), puntava il dito sulle “discordanze documentali” emerse. E affermava come le contraddizioni affiorate fino a quel momento “forse avrebbero potuto, in sede di ricostruzione dei fatti, indurre a verificare l’effettiva esecuzione del fotosegnalamento”. Se si fosse accertata la verità sul mancato fotosegnalamento, insomma, si sarebbe scoperto che, al momento del rilievo, Cucchi era già stato pestato dai militari in servizio quella notte. Il generale, sottoposto alle domande dell’avvocato di parte civile Fabio Anselmo, concede di più e legge un suo comunicato dell’epoca, il 2015, nel quale utilizza parole tanto inequivocabili quanto pesanti nei confronti dei militari dell’Arma: “È una vicenda estremamente grave che alcuni carabinieri abbiano potuto perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’abbiano poi riferito, che alcuni altri abbiano potuto sapere e non lo abbiano segnalato a chi doveva fare e risulta aver fatto le dovute verifiche, se tutto questo sarà accertato”. Un comunicato diretto all’esterno (Procura inclusa) e all’interno dell’Arma, spiega. Inutilmente, invece, gli viene chiesto di chiarire, a sua memoria, un altro punto oscuro dell’epoca: il depistaggio medico-legale. Il generale afferma di non sapere “se fossero stati nominati esperti medico-legali da parte dell’Arma”. Il riferimento è alla nota interna del 2009 nella quale si anticipavano conclusioni in merito all’autopsia non ancora depositata in Procura, fatto inquietante con il quale Del Sette non si cimenta. Conclusa la sua deposizione Del Sette si allontana e il presidente Roberto Nespeca fa accomodare Marco Cannavicci, psichiatra incaricato di effettuare una perizia sulla famiglia Cucchi: “Non hanno mai davvero rielaborato quel lutto. La rabbia non si è ancora trasformata in adattamento a causa delle problematiche relative a processi, indagini e attacchi mediatici alla personalità di Stefano. Questo lutto è una tela di Penelope che viene disfatta ogni volta a causa delle offese alla memoria del morto”. Il detenuto al 41bis ha diritto alla privacy: “Non può essere ripreso mentre va in bagno” di Sandra Figliuolo palermotoday.it, 16 dicembre 2020 Il magistrato di Sorveglianza di Spoleto ne ha accolto il reclamo e ha ordinato entro 60 giorni “la sistemazione di una porta o la costruzione di un muro davanti al water” del cortile passeggi per evitare l’intrusione delle telecamere. Il boss Giuseppe Graviano, detenuto al 41bis nel carcere di Terni, ha diritto - come tutti gli altri - alla sua privacy, anche quando passeggia in cortile. Lo ha deciso il magistrato di Sorveglianza di Spoleto che ha ordinato alla Casa circondariale di “approntare una separazione (muro o porta) adeguata a consentire all’interessato la fruizione riservata del servizio igienico presente nel locale destinato ai passeggi della così detta area riservata della sezione 41bis”, entro 60 giorni. È stato accolto, almeno su questo punto, infatti il reclamo presentato dal capomafia stragista di Brancaccio, difeso dagli avvocati Enrico Tignini e Giuseppe Aloisio. Perché - come scrive il magistrato Fabio Gianfilippi nella sua ordinanza - coinvolge il proprio diritto alla privacy, come tale direttamente pertinente alla dignità della persona”. E spiega: “Occorre ricordare che nei confronti dello stesso Graviano, il magistrato di Sorveglianza ha già disposto con propri precedenti provvedimenti l’oscuramento delle telecamere presenti nella stanza detentiva, compresa quella che si trovava nel locale bagno”. Per quanto riguarda il cortile, ovvero “l’area nella quale si espletano le due ore di permanenza all’aperto garantite dal regime differenziato del 41bis, sembra che le esigenze di sicurezza connesse al controllo dei detenuti in un’area esterna alla camera detentiva possano, in particolare nei confronti di detenuti di elevata pericolosità sociale deducibile dall’imposizione del 41bis, giustificare l’apposizione di telecamere, la cui invasività non impinge tuttavia l’intera quotidianità detentiva, come accadeva per le telecamere posizionate nella stanza del reclamante. Ciò non toglie però - si legge ancora nell’ordinanza - che occorra garantire la privatezza della fruizione del water presente nel cortile passeggio, sia per la presenza delle predette telecamere che del compagno di socialità”. Per il magistrato di Sorveglianza, la dignità della persona prevale sulle esigenze di sicurezza: “Tale soluzione - scrive infatti - appare necessitata dal rispetto della dignità della persona, diritto fondamentale che non sembra poter essere bilanciato con esigenze di sicurezza di sorta. Infatti - conclude - l’apposizione di una porta di separazione o comunque di un muretto che impedisca alla persona di essere vista mentre fruisce del predetto servizio igienico replicherebbe nella zona dei passeggi la stessa condizione del bagno della camera detentiva, senza al contempo abbassare i livelli di sicurezza sull’area passeggio”. Da qui l’accoglimento del reclamo del boss. Con la stessa ordinanza sono state invece rigettate altre istanze di Graviano, come per esempio quella di poter includere più lettere, indirizzate a persone diverse, all’interno di una sola busta. Un divieto che, ad avviso del magistrato, “non è foriero di compressioni dei diritti dell’interessato, concernendo mere modalità con le quali allo stesso è consentito di corrispondere con l’esterno”. L’autodichiarazione Covid-19 non diventa falso ideologico di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 dicembre 2020 Se da subito era apparsa problematica la rilevanza penale delle false attestazioni nel modello di autodichiarazione, indispensabile (sia pure a fasi alterne) per gli spostamenti nell’era del lockdown, ora arriva la conferma. Perché il Gip del tribunale di Milano ha assolto, perché il fatto non sussiste, un camionista sorpreso dalle forze dell’ordine al volante alla fine del marzo scorso quando in tutta Italia gli spostamenti erano vietati se non per (poche) ragioni da cristallizzare nelle varie edizione del modello di autocertificazione. L’uomo, richiesto di compilare il modello con le ragioni dell’allontanamento dalla propria abitazione, aveva fornito una versione che poi, alla prova delle successive verifiche, si era rivelata del tutto infondata, avendo sostenuto di volersi recare in una località incompatibile con la direzione del veicolo fermato. Il pubblico ministero ne aveva allora chiesto la condanna, contestando la violazione dell’articolo 483 del Codice penale sul falso ideologico, norma che sanziona con la pena fino a 2 anni chi attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. Ora il Gip di Milano sottolinea, come è incontestabile in giurisprudenza, che sono estranei all’ambito di applicazione dell’articolo 483 “le dichiarazioni che non riguardino “fatti”, di cui può essere attestata la verità hic et nunc, ma che si rivelino mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi”. In questo senso, mette in evidenza la sentenza del i6 novembre, depone lo stesso dato testuale, visto che la nozione di “fatto” non può che essere riferita a qualcosa che è già accaduto ed è per queste ragioni già suscettibile di un accertamento, a differenza dell’intenzione, la cui corrispondenza con la realtà si può verificare solo successivamente. La norma ha poi l’obiettivo di incriminare la falsa dichiarazione a un pubblico ufficiale “in relazione alla sua attitudine probatoria, attitudine che evidentemente non può essere riferita a un evento non ancora accaduto”. La stessa disciplina in materia di autocertificazioni dimostra che i fatti sono considerati come oggetto di possibile dichiarazione probante del privato, insieme ad altre caratteristiche del soggetto già presenti al momento della dichiarazione. “Ne discende che, mentre l’affermazione del modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de qua, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certa attività non può essere ricompresa nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero “dei fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”. Irrilevante poi anche il fatto che la dichiarazione fosse stata incorporata in un verbale di polizia giudiziaria. Modena. Detenuti pestati a morte, cinque testimoni chiedono udienza al pm di Angela Stella Il Riformista, 16 dicembre 2020 L’esposto alla Procura di Ancona che indaga sui fatti dell’8 marzo, quando in seguito alla rivolta contro la stretta Covid, persero la vita in 5: “La polizia ha manganellato e sparato ad altezza uomo”. Che cosa è successo nel carcere di Modena l’8 marzo di quest’anno? Dei pestaggi su diversi detenuti da parte di poliziotti penitenziari, come raccontato in un recente esposto? Ma facciamo un passo indietro: quello che è certo è che durante le rivolte della scorsa primavera hanno perso la vita tredici detenuti, cinque solo nel carcere di Modena, quattro subito dopo l’arrivo presso altri istituti, uno alla Dozza di Bologna e tre nell’istituto penitenziario di Terni, molto probabilmente vittime di abuso di sostanze stupefacenti trafugate durante la rivolta. Sui fatti avvenuti sono in corso le attività di indagine di diverse procure e anche il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale si è costituito come parte offesa attraverso la nomina di un proprio difensore e di un consulente medico legale per le analisi degli esiti autoptici. Ricordiamo che le rivolte erano esplose a seguito di una circolare dell’amministrazione penitenziaria che prevedeva il divieto di colloqui tra familiari e detenuti per contenere il rischio di contagio. Circa settanta furono le carceri tutto il territorio nazionale interessate dalle rivolte. A ciò si aggiungono, come reso noto dall’Agi, un presunto pestaggio di massa e soccorsi negati ad alcuni reclusi che stavano male per avere ingerito farmaci: lo raccontano in un esposto rivolto alla Procura di Ancona cinque detenuti che quel giorno erano presenti nell’istituto di pena modenese. I sottoscrittori dell’esposto hanno chiesto di essere sentiti dai magistrati per contribuire a “fare chiarezza” su quanto accadde quel maledetto giorno. I detenuti raccontano “di aver assistito ai metodi coercitivi messi in atto da parte degli agenti della polizia penitenziaria di Modena e successivamente di Bologna e Reggio Emilia intervenuti come supporto. Ossia l’aver sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza uomo. L’aver caricato detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta ad un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi di informazione all’abuso di metadone”. Aggiungono che anche loro sarebbero stati “picchiati selvaggiamente e ripetutamente dopo esserci consegnati spontaneamente agli agenti, dopo essere stati ammanettati e privati delle scarpe, senza e sottolineiamo senza, aver posto resistenza alcuna. Siamo stati oggetto di minacce, sputi, insulti e manganellate, un vero pestaggio di massa”. Il problema è che i cinque a metà della settimana scorsa sono stati trasferiti nuovamente nel carcere di Modena, forse per un interrogatorio come persone informate sui fatti, e temerebbero per la loro incolumità, stando negli stessi luoghi dei loro presunti aguzzini. Tra loro c’è il trentaduenne B.F. assistito dall’avvocato Domenico Pennacchio che ci dice: “Tutta questa situazione poteva essere evitata. A gennaio 2019 il mio assistito era recluso a Parma. Presentai una richiesta di trasferimento in un carcere campano perché non riceva assistenza dagli educatori. La domanda fu respinta dal Dap senza alcuna motivazione. Dopo venne mandato nel carcere di Modena: sia lui, sia il garante regionale, sia io presentammo nuove richieste di trasferimento in base a quanto previsto dall’ordinamento penitenziario che favorisce il rapporto con i familiari. Il mio assistito non è un mafioso, né rappresenta un pericolo per la sicurezza. Voleva stare semplicemente più vicino alla famiglia, visto che i suoi parenti, vivendo in ristrettezze economiche, non potevano affrontare i viaggi fino a Modena. Il Dap, sempre senza motivare, ha respinto tutte le richieste e il mio assistito, pur se spettatore passivo delle rivolte, è stato pestato. I familiari ora sono preoccupati per questo trasferimento a Modena e chiedono che quanto prima si faccia luce su quanto accaduto. Non è possibile che il loro ragazzo, che era in custodia dello Stato, sia stato vittima di violenza da parte di alcuni agenti penitenziari”. Agrigento. Uccise il fratello, detenuto in residenza psichiatrica muore dopo una caduta di Gerlando Cardinale agrigentonotizie.it, 16 dicembre 2020 Una caduta in bagno e la morte, a distanza di diversi giorni dall’infortunio nel quale aveva rimediato la frattura della mandibola e del setto nasale e un trauma cranico. Pietro Chiarenza, il 64enne di Grotte, reo confesso dell’omicidio del fratello Roberto, 56 anni, giudicato totalmente incapace di intendere e volere in seguito a una perizia e per questo detenuto in una comunità della provincia di Agrigento dopo un iniziale periodo di carcerazione, è morto. Il terzo fratello, adesso, ha presentato una denuncia ai carabinieri dando incarico al suo legale Loretta Severino di sollecitare indagini che chiariscano se i soccorsi sono stati tempestivi e quali sono le tempistiche precise dell’episodio che, secondo la difesa dello sfortunato grottese, presenterebbero troppi aspetti da chiarire. Il ricovero di Chiarenza era stato deciso dopo che lo psichiatra Leonardo Giordano, su incarico del gip Francesco Provenzano, nell’ambito dell’incidente probatorio, lo aveva visitato escludendo del tutto la sua capacità di intendere e volere, aggiungendo che si trattava di una persona socialmente pericolosa. La perizia era stata disposta su richiesta del pubblico ministero Cecilia Baravelli. L’omicidio è avvenuto la mattina dell’8 aprile, giorno del mercoledì santo. Roberto Chiarenza, tabaccaio, sarebbe stato colpito con delle coltellate prima allo stomaco, poi al collo in tre distinte fasi: dopo due tentativi di fuga, durante i quali l’uomo è riuscito a difendersi infilando un dito nell’occhio del fratello, l’omicida sarebbe riuscito a chiudere una porta a chiave e a colpirlo numerose altre volte fino a quando non ebbe la certezza che il suo bersaglio fosse morto. Le problematiche psichiatriche, come ha documentato da subito la difesa, erano piuttosto risalenti nel tempo. L’avvocato Severino aveva prodotto agli atti pure alcuni documenti che attestano la “psicosi ossessiva”, di cui soffriva Pietro Chiarenza, fin dal 2009. L’uomo, quindi, era stato ricoverato in una struttura di Castrofilippo. Poi la caduta e il ricovero prima al Barone Lombardo di Canicattì, poi al San Giovanni di Dio. Forlì. Covid in carcere, finora positivi 6 agenti e un detenuto Il Resto del Carlino, 16 dicembre 2020 Un unico caso di positività al Covid tra i detenuti, sei tra gli agenti di polizia penitenziaria. Questi gli effetti avuti dal Covid-19 in questi mesi all’interno del carcere della Rocca, stando all’associazione Antigone Emilia Romagna, che nei giorni scorsi ha visitato la struttura. Tra le persone detenute, spiegano i rappresentanti dell’associazione, da anni impegnata a tutela dei diritti di chi è privato della libertà personale, “si è recentemente verificato un solo caso di positività al Covid, mentre tra il personale ne sono stati registrati 6. Per contrastare la diffusione del virus si è provveduto alla disposizione di 10 celle per l’isolamento dei nuovi arrivi, alla destinazione di celle di isolamento sanitario nelle singole sezioni e alla somministrazione mensile di due test sierologici e di un tampone sia al personale che alle persone detenute. Anche operatori e volontari che entrano regolarmente in carcere sono sottoposti a screening”. Il carcere cittadino “non rientra tra gli istituti italiani in cui a marzo ci sono state rivolte: in sede di colloquio con la direzione e il comando di polizia penitenziaria, questo dato è stato messo in relazione col fatto che l’amministrazione è riuscita ad anticipare alcune importanti necessità delle persone detenute all’inizio della pandemia: la diffusione tempestiva e dettagliata di informazioni riguardo al virus, avvenuta ad opera del personale sanitario, e la possibilità di comunicare frequentemente con i propri familiari. In tutte le sezioni, infatti, già a gennaio erano stati installati i dispositivi necessari per poter effettuare i colloqui a distanza”. Il regime “a celle aperte funziona regolarmente, nonostante la possibilità di movimento sia piuttosto limitata per la ristrettezza degli spazi a disposizione. Le attività scolastiche, quelle formative e quelle lavorative sono riprese, mentre restano sospesi quasi del tutto i progetti di carattere culturale, sportivo e ricreativo. In particolare, si segnala che è piuttosto limitata l’offerta di questo tipo di attività rivolta alle detenute”. Attualmente in carcere “sono detenute 155 persone, delle quali 78 stranieri e 101 definitivi, su una capienza regolamentare di 146 posti (e tollerabile di 180). L’istituto ha un reparto femminile in cui si trovano 18 donne, e ospita la sezione Oasi, dedicata esclusivamente ai sex offenders”. Bergamo. Covid in carcere: positivi venti agenti, nuovi tamponi ai detenuti bergamonews.it, 16 dicembre 2020 Una situazione che, per quanto si stia cercando di tamponare, si va a innestare su un quadro più ampio: quello del sovraffollamento. Nel luogo dove l’isolamento è imposto e il mondo esterno non entra se non per determinati momenti e determinate professioni, riesce però a insinuarsi il virus che sta annientando la realtà fuori dalle alte mura e dalle pesanti porte. Il Covid-19 è entrato anche nel carcere di Bergamo. Se, infatti, durante il picco dell’emergenza sanitaria, la casa circondariale cittadina è riuscita a rimanere quasi immune dal contagio, nel corso della seconda ondata il virus si è insinuato anche nelle celle e nei lunghi corridoi detentivi. Da inizio dicembre sono risultati positivi alcuni detenuti della sezione “circondariale” dove si trovano i carcerati comuni in attesa di giudizio e nel reparto “femminile”, tanto che dal primo dicembre gli ingressi alle due zone del carcere sono consentite solo a un numero ristretto di personale. Negli ultimi giorni, il femminile è stato riaperto, mentre permangono ancora criticità alla sezione “comune” e alcuni carcerati positivi sono stati mandati al carcere di Bollate per l’isolamento. Non solo carcerati, però. Nella settimana dopo l’Immacolata sono risultati positivi anche circa venti agenti di sorveglianza in seguito a tampone, che sono stati quindi isolati. Una situazione che ha portato ad eseguire nuovi esami diagnostici al personale detenuto. Una condizione che, per quanto si stia cercando di tamponare, si va a innestare su una situazione più ampia: quello del sovraffollamento delle carceri e il conseguente problema sanitario. È infatti di pochi giorni fa la richiesta da parte dell’associazione bergamasca Carcere e Territorio ai parlamentari bergamaschi di farsi parte diligente per l’adozione di misure contro il sovraffollamento nelle case circondariali nazionali che, in tempi di un’emergenza sanitaria, risulta ancora più drammatico. Parma. I sindacati: “Si vuole fare di questo carcere il lazzaretto detentivo regionale” Gazzetta di Parma, 16 dicembre 2020 I sindacati della Polizia penitenziaria hanno inviato una nota comune dopo essere “venute a conoscenza, tramite dichiarazioni stampa dei garanti Nazionale e Comunale dei detenuti, di una possibile apertura dei restanti due reparti detentivi del nuovo padiglione detentivo degli Istituti Penitenziari di Parma, apertura che dovrebbe interessare esclusivamente detenuti positivi al coronavirus, provenienti dagli altri Istituti penitenziari del Distretto”. “Pur comprendendo lo stato di emergenza sanitaria che sta caratterizzando il territorio nazionale e quello degli istituti penitenziari emiliani romagnoli - scrivono - riteniamo inammissibile l’unilaterale scelta da parte dell’Amministrazione Penitenziaria, di far diventare gli Istituti penitenziari di Parma il lazzaretto detentivo regionale”. “Forti sono le preoccupazioni che tale scelta ingenera nel personale di Polizia Penitenziaria - continuano - in considerazione delle innumerevoli problematiche che questo istituto, già di per sé, presenta, dovute anche all’assenza di chiare e precise indicazioni, sia da parete della Direzione che dei superiori uffici, circa le modalità operative da osservare da parte del personale impiegato presso le sezioni detentive ove sono presenti detenuti positivi o presunti tali. Tante sono anche le domande che ci poniamo in merito alle modalità con cui si dovrebbe prestare servizio nei citati reparti detentivi; da come verranno effettuati i monitoraggi dei detenuti positivi, laddove nei due reparti, non sono presenti ambulatori per le visite mediche, all’assenza di apposite stanze asettiche, dove il personale possa cambiarsi per indossare i necessari dispositivi sanitari di protezione”. “Il personale consumerà il pasto insieme a tutti gli altri agenti, prevedendo o meno, speciali percorsi di distanziamento dal resto dei lavoratori e se la loro salute verrà monitorata con frequenza settimanale, tramite tamponi molecolari. Non abbiamo neppure contezza in merito all’eventuale aggiornamento del Dvr da parte della Direzione, stante la completa assenza di informazioni da parte della stessa circa l’implementazione del suddetto testo con il rischio biologico da Covid-19, per non parlare della totale, gravissima e colpevole assenza di una qualsivoglia attività formativa rivolta al personale in servizio presso le sezioni detentive, in merito alla gestione del rischio pandemico, circostanza che, in molteplici istituti regionali, si sta riflettendo sulla salute dei lavoratori, sempre più esposti al contagio. Inoltre, l’assenza di ogni confronto sindacale con la parte pubblica, che continua ad avere un’inaccettabile propensione ad assumere scelte unilaterali, pone le scriventi in una situazione di marginalità che si riflette di conseguenza sul personale in servizio, mortificandolo ulteriormente; personale che, quotidianamente, continua a mostrare un’eccezionale abnegazione al servizio ed una eccelsa professionalità che fino ad oggi l’ha contraddistinto e ha permesso, malgrado le lacunose disposizioni in materia, di limitare al massimo il numero dei detenuti positivi al coronavirus”. “Chi, però, ha pagato lo scotto di una discreta gestione del fenomeno presso il penitenziario ducale - concludono - è stato, come sempre, il personale di Polizia Penitenziaria, con oltre 60 unità contagiate, come dimostrato dai test sierologici effettuati successivamente alla prima fase emergenziale, durante la quale la maggioranza dei colleghi non è stata sottoposta ad alcun test ed ha, quindi, saputo di essere entrata a contatto col virus solo recentemente. Come, se fosse adottata la scelta di cui si discute, non verrebbe preso in considerazione neppure il contenzioso legale avviato dai sindacati., per condotta antisindacale ex art 28, con udienza prevista per il 21 gennaio 2021, per la medesima motivazione, cioè la scelta, unilaterale, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, dell’apertura di un nuovo reparto detentivo, senza il previsto ed obbligatorio confronto sindacale. Pertanto, alla luce delle considerazioni di cui sopra, si richiede la sospensione di ogni eventuale scelta unilaterale, senza il previsto confronto tra le parti”. Aosta. Il Garante: “Brissogne polmone rispetto a problemi sovraffollamento di Istituti vicini” aostanews24.it, 16 dicembre 2020 Il Garante dei detenuti, Enrico Formento Dojot, ha incontrato oggi Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, in visita alla Casa circondariale di Brissogne. “Ho accolto con molto piacere Emilia Rossi, in rappresentanza del Collegio del Garante nazionale - riferisce Dojot - alla quale ho illustrato le difficoltà che, ormai da anni, affliggono l’Istituto di Brissogne e che notoriamente consistono nell’assenza del Direttore e del Comandante titolari, nell’incidenza del numero di detenuti stranieri in percentuale doppia rispetto alla media nazionale e nel frequente turn over dei ristretti. In sintesi, il carcere valdostano da tempo ha perso una sua identità, diventando il polmone rispetto ai problemi di sovraffollamento di Istituti vicini. Tali criticità si ripercuotono pesantemente sulla vita detentiva, in termini di progettazione lavorativa, formativa, culturale e ricreativa”. E conclude “Ad esempio, per rimanere nell’attualità, il progetto “So-Stare fuori” di housing sociale destinato a reperire alloggi per l’ottenimento della detenzione domiciliare sta procedendo a rilento, anche per le disfunzioni interne alla Casa circondariale, nonostante l’impegno dei singoli operatori. La componente del Collegio del Garante nazionale ha preso atto e mi ha ringraziato per il supporto fornito”. Lucca. Intervista al responsabile dell’Osservatorio Carcere della Camera penale di Giovanni Mastria loschermo.it, 16 dicembre 2020 Il carcere è un luogo che viene tradizionalmente guardato dalla popolazione con una certa diffidenza, e anche nella nostra città questa tendenza non è smentita. L’istituto di pena rappresenta infatti un luogo di temporanea esclusione dalla società, ma secondo la nostra Costituzione dovrebbe servire alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato. È davvero così? A Lucca ci sono le condizioni perché ciò avvenga? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Maionchi - avvocato e responsabile dell’Osservatorio Carcere della Camera penale lucchese - che ci ha condotto idealmente all’interno dell’antico carcere di San Giorgio e ci ha illustrato la realtà carceraria della nostra città. Lei è, per la Camera Penale di Lucca, componente dell’Osservatorio Carcere: ci può spiegare che cos’è esattamente tale organismo e quali sono le sue funzioni? L’Osservatorio carcere è una struttura istituita a livello nazionale in seno alle Camere penali Italiane, che si compone e si avvale di strutture decentrate rappresentate dai referenti locali delle Camere Penali. Al momento io e la collega Francesca Trasatti siamo, appunto, i referenti per la Camera penale di Lucca. La funzione dell’Osservatorio - seguendo le linee guida tracciate a livello nazionale - è quella di studiare i problemi normativi e pratici dell’ordinamento penitenziario e della realtà carceraria alla luce della produzione legislativa in materia penitenziaria. Una delle attività principali è quella di monitoraggio della situazione carceraria attraverso le visite dei singoli istituti penitenziari, e tra gli obiettivi dell’Osservatorio c’è quello di avvicinare e sensibilizzare l’opinione pubblica alle problematiche relative alla detenzione. Anche sulla base della sua esperienza professionale, secondo lei qual è il rapporto dei lucchesi con la casa circondariale San Giorgio? Venendo alla nostra realtà cittadina, penso di poter affermare - peraltro con un certo rammarico - che il carcere di San Giorgio rimane abbastanza indifferente ai lucchesi. Dalla Via San Giorgio non si ha neppure l’impressione di avere davanti un carcere, la struttura si mimetizza abbastanza con gli edifici adiacenti. Diversa, invece, è la visuale dalle mura: muri di cinta, guardia armata di ronda sul camminamento estero e inferriate delle celle. Personalmente sono dispiaciuto che la società civile non abbia interesse ad avvicinarsi e a comprendere il carcere. Sembra quasi che ci si voglia fermare ad osservare il “contenitore”, senza andare oltre e cercare di comprendere il “contenuto”. Sono convinto che un progetto di “apertura delle porte del carcere” farebbe comprendere al cittadino cosa si intende effettivamente per “detenzione” e, al contempo, porterebbe giovamento e opportunità anche alla struttura stessa, magari attraverso progetti esterni. Abbattiamo i muri tipici del luogo di reclusione e cerchiamo, adesso, di fare entrare i lucchesi all’interno del carcere: com’è divisa la struttura e in che condizioni si trova attualmente? La Struttura era un antico convento di monache di clausura che fu adibito a luogo di detenzione a far data dal 1806. Per la sua conformazione strutturale, non essendo stata progettata per ospitare un luogo di reclusione, sono state apportate negli anni diverse modifiche e migliorie al fine di cercare di adattare al meglio i locali esistenti alle esigenze proprie di un istituto di pena. Sebbene la conformazione e la vetustà degli edifici determinino difficoltà nella gestione degli spazi si è potuto constatare una positiva attitudine dell’amministrazione nel recupero di locali, anche adibiti ad aree comuni per i detenuti che, nello specifico, sono individuati nella palestra, nella biblioteca e nel teatro. Vi sono due ulteriori spazi comuni per “l’aria”, composti da due zone adibite a passeggio e campo da calcetto. Peraltro vorrei evidenziare anche che recentemente è stata ammodernata la sala colloqui familiari ed istituita una stanza adibita all’accoglienza dei minori in visita ai parenti. Inoltre, è presente anche una sezione per i detenuti semiliberi che mette a disposizione celle singole e doppie. Qual è la capienza del carcere e quanti detenuti sono attualmente presenti all’interno della struttura? In poche parole…c’è sovrannumero di detenuti? Secondo lei per quale motivo? Attualmente i detenuti sono 108, al limite della capienza. L’emergenza epidemiologica in atto rende difficili i trasferimenti in altri istituti. Noi siamo comunque una realtà relativamente felice, se è consentito usare tale aggettivo per un carcere. Vi sono strutture in Toscana, ma più in generale in Italia, dove, purtroppo, il sovraffollamento tocca picchi molto preoccupanti. Molte volte si è parlato di una vera riforma dell’edilizia penitenziaria, ma troppo spesso non se ne è mai fatto di nulla. Quanti detenuti stanno scontando una pena definitiva e quanti, invece, sono sottoposti a misura cautelare senza essere stati condannati? Prevalentemente di quali reati si tratta? I condannati con sentenza definitiva sono circa il 50%. In particolare si segnalano, per lo più, detenuti ristretti per reati inerenti droga, furti e rapine. Qual è la percentuale di stranieri presenti all’interno del carcere? Da quali paesi provengono? La popolazione carceraria di Lucca è composta per il 55% da stranieri di tutti i Paesi, con una marcata presenza di soggetti nord africani (Marocco, Tunisia, Algeria). Il carcere di Lucca ha sezioni femminili? Le ha mai avute? La sezione femminile è stata chiusa nel 2003 e, pertanto, oggi è un Istituto esclusivamente maschile. La ex sezione femminile adesso è in parte adibita ad ospitare i soggetti semiliberi. In che condizioni vivono i detenuti? Ad esempio, nelle celle ci sono almeno 3 mq calpestabili per ogni detenuto? C’è l’acqua calda, il riscaldamento e la doccia in ogni cella? La zona delle celle, evidentemente condizionata della vetustà della struttura, è sufficientemente pulita, provvista di tutte le dotazioni di sicurezza come cartelli di evacuazione ed estintori. Nelle camere di detenzione vi sono i tre metri calpestabili e ogni cella ha il riscaldamento. In ordine alle docce delle sezioni, peraltro di recente ammodernamento, si sta provvedendo alla sistemazione delle medesime e dei locali sottostanti, per problemi sopravvenuti. È offerto un supporto medico e psicologico all’interno della struttura? Quanti sono gli agenti di polizia penitenziaria presenti all’interno? Secondo lei sono sufficienti? In Istituto è attiva un’area Sanitaria che dipende direttamente dalla ASL e ci sono tre psicologi, uno della ASL e uno convenzionato dall’amministrazione penitenziaria. Quanto all’organico della polizia penitenziaria, a fronte di recenti pensionamenti sono giunti nuovi agenti. Però non conosco il numero esatto degli agenti in servizio e, quindi, non posso dirle se il numero sia sufficiente o meno. Andrebbe confrontato il dato con le proporzioni previste dalla legge in materia di vigilanza degli istituti. Com’è il rapporto tra detenuti, agenti di polizia penitenziaria, avvocati e assistenti sociali? Posso parlare unicamente degli ultimi dieci anni e devo dire che le relazioni tra avvocatura e “mondo penitenziario lucchese” sono sempre stati molto buoni, volti ad una collaborazione fattiva e caratterizzati da un confronto leale e costruttivo. Quando parlo di “mondo penitenziario” mi riferisco, in particolare, all’amministrazione penitenziaria (composta da area dirigenziale, polizia penitenziaria, area educativa e Udepe), al servizio sanitario che opera all’interno dell’istituto, nonché ai volontari. Per ciò che concerne il rapporto tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria, per quanto ne sappia, tranne episodi che inevitabilmente si verificano, il clima è relativamente tranquillo. Ci sono stati, recentemente, casi di autolesionismo e di violenze all’interno del carcere? A volte si verificano: la detenzione è dura, prima di tutto da un punto di vista psicologico. Sono atti dimostrativi frutto di disperazione che personalmente comprendo, ma che allo stesso tempo ho sempre rimproverato ai detenuti che assisto, poiché non portano a niente se non ad inasprire e tendere i rapporti con l’amministrazione penitenziaria, con tutto quanto di negativo ne discende. In altri istituti ci sono stati veri e propri focolai di Covid-19. Nel carcere di Lucca com’è stata gestita la pandemia? La pandemia è stata gestita fin dall’inizio attraverso protocolli stipulati tra la Direzione e il Dirigente sanitario del locale presidio: sono state adottate tutte le misure previste dai protocolli nazionali e regionali e dalle disposizioni dei superiori uffici. Non vi sono stati focolai, però c’è stato qualche caso di Covid-19 che è stato gestito attraverso la rigida osservanza delle misure predisposte. Comunque, al momento, non vi sono casi. Cosa è stato fatto? innanzitutto all’ingresso dell’istituto è stato predisposto un triage, una postazione permanente dotata di termo scanner, mascherine, gel disinfettante e guanti. Tutti gli ambienti sono stati trattati con macchinari di sanificazione e ogni postazione operativa prevede un dispenser di gel disinfettante. Tutti gli appartenenti all’amministrazione penitenziaria sono dotati di mascherine e guanti e tutti i detenuti sono stati dotati di mascherine - bene attualmente preziosissimo - fornite dal Comune di Lucca, dall’area sanitaria dell’istituto e dalla Direzione. Peraltro vorrei segnalare che un imprenditore lucchese ha donato una fornitura di mascherine, anche se purtroppo è rimasto un caso isolato. Inoltre, di concerto con il dirigente sanitario, sono state istituite sezioni stagne all’interno delle quali i detenuti non cambiano mai, in maniera tale che se dovesse manifestarsi un contagio questo rimarrà confinato ad un numero ristretto di soggetti ben identificabili. Nei locali a fianco dell’infermeria, poi, è stata istituita anche un’area sanitaria di isolamento: in pratica tutti i nuovi giunti, tutti i detenuti movimentati e tutti i detenuti che hanno contatto con l’esterno devono trascorrere la quarantena in quest’area di isolamento prima di tornare in sezione. Vi è un presidio sanitario fisso, oltre che un presidio di polizia penitenziaria, che garantisce l’accesso alle persone isolate. Vuole aggiungere altro? Si, colgo quest’occasione per fare un appello: chi volesse contribuire alla causa del carcere di Lucca non esiti a contattare l’Osservatorio Carcere o il sottoscritto. Milano. Una notte con i senzatetto. “Siamo troppi in strada. Ci rubiamo fra noi bottoni e monete” di Andrea Galli Corriere della Sera, 16 dicembre 2020 I senzatetto: dormitori ancora da sanificare. “Fate qualcosa o qui finisce molto male”. La strada è sempre onesta, basta stare ad ascoltarla. Ascoltiamo Lucio, 52 anni, e Stefano, 45 anni. Comincia quest’ultimo: “Se sono qui sotto un portico è perché ho fatto un po’ di bordelli. Ma grossi bordelli, oltre a marcire in galera per un pezzo”. “Per bordelli intendi che hai accoppato qualcuno?” domanda Lucio che arriva subito al dunque. “Fatti i cavoli tuoi”. In realtà, puntualizza Stefano, emigrato dalla Sardegna a inizio degli anni Novanta, loro due si vogliono un gran bene. O quantomeno, si sopportano serenamente, alleati come sono per sopravvivere. Alle 21.21, in via Hoepli, sul marciapiede opposto rispetto all’omonima libreria, di fronte alle vetrine di Intesa Sanpaolo, Lucio e Stefano stanno per andare a dormire. Lucio ha steso dei cartoni. Tre strati. Con la punta delle scarpe bianche da tennis provvede affinché i cartoni siano ben allineati e il più possibile piani; tra poco ci si stenderà sopra, dentro il sacco a pelo. “Un unico centimetro di esposizione fuori dai cartoni, a contatto col pavimento, ti frega. Si gela prima un pezzo del corpo e nemmeno lo senti. Poi il freddo si prende le ossa. Una frase fatta ma provalo dal vivo e inizierai a piangere di brutto”. Lucio ha una giacca a vento sotto un giaccone. “Io ti chiederei anche altri vestiti, ma qui il problema è dove poi li metto. Mica posso lasciarli nell’armadio”. Lui s’accompagna con due borsoni di colore nero, di quelli da palestra. Dice Stefano: “Ognuno ha la sua postazione e di norma non arriva uno alle tre di notte e ti sbatte via a calci in faccia sostenendo che lo spazio è suo. Guardati attorno, da qui al Duomo possiamo starci in diecimila. Una volta magari potevi anche abbandonare la roba e non la toccavano… Ma siamo così tanti, anzi siamo troppi, troppi davvero, che ci facciamo la guerra tra di noi e se non ci si inventa qualcosa, ‘sto inverno finisce in strage, crepiamo tutti ibernati”. Lucio lo interrompe per sintetizzare: “Una guerra tra poveri”. Ha già visto l’una e gli altri. Viene dall’Albania, erano gli anni Novanta anche per lui, quando lasciò casa, che stava nei paesini isolati e poveri sulle montagne, e scappò sul gommone dalla guerra civile. Ma stava parlando Lucio: “Voi italiani mi domandate perché non torno là. E a fare?”. Magari a cercare lavoro, gli consiglia Stefano, “calcolando che in Albania la vita costa dieci volte di meno. Te lo dico io, il motivo per cui resti. A Milano, la giornata la porti a casa, un lavoro, anche da schiavo, lo trovi”. Pacatamente, Lucio lo contesta: “Un anno fa sì, ti posso anche dare ragione. Ma oggi?”. Ecco, oggi. Stefano chiede l’ora; “quasi quasi” annuncia, “salgo sulla 90-91 e mi sparo una notte intera”. Un filo preoccupato, Lucio domanda: “Sicuro?”. L’interrogativo genera una lunga pausa di sospensione. “Hai ragione. Siamo una tale marea, peraltro tutti con la stessa idea, quella di infilarci a una cert’ora sul bus e dormirci, che sta succedendo ‘sta cosa. Spengono il riscaldamento. Qualche autista incattivito col mondo, quando vede che siamo gli unici passeggeri ci lascia al freddo apposta. Magari così la capiamo che dobbiamo scendere”. E scendete? “Col c…, meglio quella grossa scatola congelata del marciapiede” dice Stefano. Che ha ancora parecchio da raccontare, mentre Lucio torna a occuparsi dell’allineamento dei suoi cartoni. “Sono stato a parlare con gli assistenti sociali. Stanno già nel caos di loro, con la pandemia chi già non ci stava con la testa è esploso, se prima vedeva i fantasmi adesso c’ha i mostri nella testa. Comunque, ho supplicato di farmi avere un letto. Hanno spiegato che sono in ritardo con le sanificazioni dei dormitori. Che genialità, magari potevano portarsi avanti, il piano freddo scattava a novembre... Noi siamo l’ultimo pensiero. I barboni, che s’impicchino!”. Parla guardando Lucio, che ha avuto in dono un piatto di pasta al ragù da un altro senzatetto. La scena introduce una digressione di Stefano: “Avevo un fornelletto da campeggio. Ci facevo il caffè. I vigili l’hanno sequestrato, sostenendo che era un’arma. Un’arma?”. A sua volta, la rievocazione genera una digressione anche da parte di Lucio. “In Italia ho fatto qualsiasi mestiere. Imbianchino, facchino, muratore, lavapiatti eccetera eccetera”. Sorride ma chinando il capo, forse per nascondere la bocca sdentata. “Dopodiché, mi ero messo a fare ritratti ai turisti in piazza del Duomo. Non sono Michelangelo, però ci campavo. Quando hanno chiuso tutti in casa per il Covid, ho smesso coi ritratti... Intanto mi avevano dato un sacco di multe, non ho mai capito il motivo, forse non potevo fare l’artista di strada. Morale della favola, ho terminato i soldi”. Ma chissenefrega della grana, dice Stefano. “Finché tiro su il giusto per una birra, mi accontento. Il cibo? Sto anche due giorni senza. La cosa che ti devasta davvero è l’impossibilità di badare all’igiene personale. Finché i bar erano aperti regolari e potevi andare nei cessi, allora entravi, facevi l’occhiolino al cameriere, e ti pulivi. Il tacito patto era: bon, non bucarti, non sporcare, non spaccare, non chiuderti dentro un quarto d’ora a fare le tue cose. Adesso, se mi capita un’urgenza, la maggior parte non ci fa entrare, e non per quei rischi là, non bucarti, non sporcare e via elencando, ma per colpa da una parte dei divieti, del fatto che fino all’altro ieri era consentito solo l’asporto, non potevi sostare nel bar e usare il cesso, e dall’altra parte per la paura che boh, siamo appestati e lasciamo impronte attaccando il virus. Senti, al di là di tutte le putt… che si dicono, vivere per strada non è una scelta. La strada è bastarda. Una cosa che capita sono i furti tra di noi. Un sacco. Ti rubano stringhe, guanti, mutande, bottoni, calze imbottite pure spaiate, monetine da 5 centesimi… Poi i documenti. A noi italiani li fregano gli stranieri, i marocchini. Li buttano nel tombino, tanto non gli servono”. E allora perché? “Dispetto. Uno m’ha detto: “Con tutti gli uffici chiusi e l’obbligo di prenotare l’appuntamento, capisci cosa vuol dire essere un negro e perdersi nella burocrazia, vedendo che dall’altra parte, con tutti i problemi di questo periodo, dei tuoi casini di immigrato non interessa nulla a nessuno”. Bologna. Radio e tv salvano l’anno scolastico dei detenuti di Virginia Pedani dire.it, 16 dicembre 2020 Una televisione accesa, una radio sincronizzata sulla giusta frequenza e tanta voglia di imparare, anche a distanza; stavolta anche di più dato che si sta dentro un carcere: è così che circa 150 studenti detenuti di Bologna iscritti ai percorsi scolastici del Cpia, il Centro per l’istruzione degli adulti, hanno ‘salvato’ il loro anno scolastico dall’urto del Covid. Se la scuola ha dovuto fermarsi, ripartire e ri-fermarsi di nuovo, in carcere si è vissuto “un lockdown dentro il lockdown”, come lo ha definito Francesca Esposito, docente e referente Cpia alla Dozza. Quindi, per cercare di uscire da questo ‘empasse’ scolastico, sono arrivate in aiuto del Cpia due realtà: Lepida tv e Radio Città Fujiko. “I detenuti hanno potuto imparare dalle loro camere detentive grazie alle nostre ‘trasmissioni televisive educative’- racconta Esposito- semplicemente sintonizzandosi ogni mattina sul canale di Lepida o sulla frequenza di Radio Fujiko”. Insomma, è stato sì tutto più difficile, ma si è riusciti a salvare l’anno. E per di più, come dice Emilio Porcaro, dirigente del Cpia di Bologna oggi alla presentazione degli esiti dell’attività di insegnamento in carcere, ci si è riusciti con “canali tecnologici considerati ormai ‘superati’, come una televisione o una radio, passate oggi del tutto in secondo piano a Internet”. Infatti, oltre alla missione educativa, il Cpia è riuscito anche a riscoprire e trarre vantaggio dalle potenzialità della televisione, “perché- sostiene ancora Porcaro- è un mezzo comunicativo che hanno tutti, sia in casa che nelle stanze del carcere”. Il progetto ‘Non è Mai Troppo Tardi 2020’ realizzato in collaborazione con Lepida tv “ha dato i suoi frutti, ma non nascondiamo le grosse difficoltà che abbiamo avuto nell’approcciarci a questi nuovi modi di fare lezione- racconta Esposito-, in particolare, i detenuti hanno imparato molto dalle cinque ‘lezioni televisive’ settimanali di studi sociali, italiano, inglese e scienze, mentre noi insegnanti ci siamo arrangiati con mezzi casalinghi, primo fra tutti le presentazioni con PowerPoint per poter realizzare un prodotto educativo dalla durata di mezz’ora. Lezione che poi, appunto, veniva ospitata sul canale tv regionale dal lunedì al venerdì per cinque settimane”. Ma qual è stato l’aspetto più problematico di ‘Non è Mai Troppo Tardi 2020’? “Ci siamo ritrovati letteralmente catapultati in un’assenza di relazione educativa- dice Esposito- e non nascondo che abbiamo avuto grossissima difficoltà a insegnare utilizzando mezzi alternativi come la radio o appunto la tv. Ma al primo posto delle criticità, mettiamo sicuramente l’unidirezionalità dei progetti, ovvero il non poter avere nessun tipo di riscontro o feedback dai destinatari del nostro lavoro”. E così, conclude: “La tv è stata utilissima, ma se vorremo utilizzarla anche nel post-pandemia, dovremo per forza tenere di conto di quest’aspetto”. Fa pensare il fatto che, in tempi dove la Dad sembra essere diventata la via maestra all’istruzione e dove un down di Google può creare grossissimi problemi per l’insegnamento da remoto, la scuola per il carcere sembra assumere tutt’altra dimensione: non più il futuro come mezzo per apprendere, ma l’utilizzo del passato. Un vecchio schermo o un’antenna di una piccola radio portatile che tornano vivi e diventano preziosi a fini didattici. nfatti, come sottolineato dalle insegnanti del Cpia, anche la radio ha saputo giocare la sua partita per l’istruzione dei detenuti bolognesi. Radio Città Fujiko ha infatti realizzato dallo scorso 13 aprile ‘Liberi Dentro - Eduradio’, un programma ad hoc per l’educazione in carcere attraverso la diffusione di pillole di didattica, micro-lezioni di diversi insegnamenti della durata di 10 minuti ciascuno. “Non potendo predisporre di piattaforme Internet per la didattica a distanza- sottolinea ancora Porcaro- abbiamo pensato di dotare i detenuti di piccole radio, perché è un altro canale di comunicazione immediato e alla portata di tutti. Non è mai troppo tardi per imparare”. Carinola (Ce). “Caregiver in carcere, avere cura di sé… dentro”, progetto per i detenuti corrierece.it, 16 dicembre 2020 Nuovo progetto per i detenuti del carcere di Carinola. Sabato 19 dicembre 2020, alle ore 10.00, presso la sede del Gran Priorato di Napoli e Sicilia del Sovrano Militare Ordine Di Malta, in Via del Priorato, 17, il Prof. Andrea Pisani Massamormile, Vice Cancelliere del Gran Priorato e Delegato di Napoli e il Dr. Carlo Brunetti, Direttore della Casa di Reclusione “G.B. Novelli” di Carinola sottoscriveranno il protocollo di intesa per la realizzazione del progetto denominato “Caregiver in carcere, avere cura di sé … dentro”. Progetto, sperimentale e innovativo, prevede che la Delegazione di Napoli del Sovrano Militare Ordine Di Malta indirizzi, gratuitamente, alla struttura penitenziaria di Carinola dei volontari, con professionalità adeguate allo scopo, per favorire l’empowerment della persona attraverso un percorso informativo-formativo di responsabilizzazione rispetto al proprio e all’altrui stato di salute e stile di vita, favorendo la possibilità di prestare attività assistenziale a supporto di altre persone detenute in difficoltà. Palermo. Teatro-carcere, i detenuti tornano in scena con lo spettacolo “Corrispondenze” blogsicilia.it, 16 dicembre 2020 Un carteggio dal sapore un po’ rétro che confluirà in un nuovo spettacolo. Si chiama Corrispondenze la fase del progetto “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” e vede protagonisti gli attori reclusi alla casa circondariale Pagliarelli - Lo Russo di Palermo impegnati in uno scambio epistolare con gli altri componenti della compagnia “Evasioni”, diretta dalla regista Daniela Mangiacavallo, che nell’istituto penitenziario ha messo in piedi il progetto, ormai da quattro anni, trasformando i detenuti in attori della compagnia stabile, grazie al lavoro dell’associazione Baccanica da lei fondata. Un esperimento poetico per creare un dialogo tra il carcere, luogo apparentemente chiuso oltre le sbarre, e il mondo fuori. Le prime lettere della cosidetta Fase 1 sono già partite: ogni ospite della sezione maschile, che partecipa all’avventura teatrale, ha già ricevuto il suo “dispaccio” con le indicazioni e l’invito per costruire insieme la drammaturgia del nuovo spettacolo, il quarto dopo gli applauditi Enigma, La Ballata dei Respiri e Transiti, che hanno debuttato dentro e fuori la casa circondariale. Un gioco poetico attraverso la scrittura creativa in un momento in cui lavorare in presenza è difficile per il rispetto delle norme anti Covid. Ma l’amore e la passione per il teatro non si fermano, tanto che il motto della regista è per quest’anno “Avanti tutta”. Formatasi all’interno della Compagnia della Fortezza di Volterra, primo Centro Nazionale di teatro e carcere, fondato trent’anni fa dal regista e drammaturgo Armando Punzo, Daniela Mangiacavallo ha importato a Palermo il modello Punzo, creando un dialogo profondo tra istituzioni, pubblico e detenuti stessi. L’obiettivo è fare del lavoro di attore un’autentica professione per i carcerati e non semplicemente un’attività riabilitativa, tanto che in questi anni Baccanica ha avviato all’interno del “Pagliarelli - Lo Russo” corsi professionali per imparare i mestieri del teatro. “Questo tempo se pur sospeso e incerto - spiega Daniela Mangiacavallo - ci sta dando la possibilità di sperimentare le più svariate sfumature dell’arte, dell’immaginazione e della creatività, andando oltre la forma. Andiamo avanti inventando innovative visioni dell’intimità”. Un carteggio, che è un po’ gioco poetico, a cui si aggiungeranno testi, bozzetti, ipotesi di scenografie, per innescare un processo creativo attraverso l’uso della scrittura e che confluirà nel testo drammaturgico che sarà poi utilizzato nello spettacolo dal vivo. E mai come quest’anno l’aforisma scelto per il progetto “Per Aspera ad astra” (dal latino “Fino alle stelle superando le difficoltà”) si è rivelato più calzante, proprio in questo tempo difficile fatto di distanza e solitudine, che in carcere si avvertono ancora di più. Adesso c’è un filo fatto di lettere, carta e profumo d’inchiostro a tenere accesa la speranza. “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” vede in rete dodici compagnie teatrali italiane che operano negli Istituti penitenziari, tra cui la Compagnia della Fortezza, che ne è partner capofila. Il progetto è promosso da Acri e sostenuto da Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo, Fondazione Carispezia, Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, Fondazione Con il Sud, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Fondazione di Sardegna. Firenze. Teatro, un ponte tra il carcere e la città per portare in scena i ragazzi dell’Ipm di Ivana Zuliani Corriere Fiorentino, 16 dicembre 2020 Lo schermo diventa una finestra tra la realtà e la finzione drammaturgica, il teatro un ponte tra il carcere e la città. È così che un laboratorio teatrale all’interno dell’istituto penale minorile Meucci si trasforma in uno spettacolo aperto al pubblico (a distanza). Streaming Theatre, un progetto della compagnia Interazioni Elementari, prevede due appuntamenti per l’Inverno Fiorentino. Il 19 dicembre (dalle 10 alle 12.30) andrà in scena un laboratorio integrato tra dentro e fuori: i giovani detenuti del Meucci reciteranno e dialogheranno con attori all’esterno, riuniti nello spazio del Murate Idea Park. La performance si può vedere online (https://interazionielementari.co m/). Il 23 dicembre (dalle 15.30 alle 17.30) invece ci sarà, sempre via web, la prova dello spettacolo “One man Jail- Le prigioni della mente”, che utilizza alcuni testi sul tema del sogno associati a brani del Libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa. Il progetto risponde alla necessità di colmare due bisogni fondamentali nel processo rieducativo dei detenuti: il collegamento con la comunità esterna e la cultura del lavoro quotidiano, attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie applicate all’arte performativa. “Abbiamo iniziato a usare la diretta streaming nel 2019 per far vedere dentro cosa “One mail Jail-Le prigioni della mente” avveniva fuori e viceversa, ma con un’impostazione drammaturgica” spiegano gli attori di Interazioni Elementari, che da tre anni lavorano nel penitenziario minorile. “Oggi, con la pandemia, questo esperimento torna utile”. La compagnia è riuscita a riprendere i laboratori teatrali nel carcere a novembre, ma l’accesso al pubblico è ancora vietato. Da qui l’idea di proporre prove e spettacoli via Internet. Sul palco ci sono 10 ragazzi, tra i 14 e i 20 anni. “E’ un’emozione fortissima vederli recitare, aiutandosi a vicenda” raccontano i membri della compagnia. “All’inizio molti dicono “Del teatro non me ne frega niente”, poi dopo un mese li trovi a lavorare sul palco a ridere, a divertirsi e a tirare fuori quello che hanno dentro. La magia del teatro è quella di trasformare i dolori, è catartico”. In One man Jail, che dovrebbe debuttare a giugno 202, i giovani attori indossano mascherine chirurgiche artistiche e maschere in lattice con parrucche colorate. Il direttore: memorie e utopie di quarant’anni di lavoro in carcere di Lorenza Pleuteri osservatoriodiritti.it, 16 dicembre 2020 Luigi Pagano, a lungo capo del penitenziario milanese di San Vittore, affida al libro "Il direttore" (Zolfo Editore) il racconto di quarant'anni di lavoro in carcere. Un viaggio umano e professionale che si intreccia con i momenti chiave della storia italiana. Si intitola semplicemente “Il direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere”, ma potrebbe chiamarsi “Autobiografia di un carceriere”, oppure “Delitti e castighi” o “Memorie dal sottosuolo”, quello che non si vede o non si vuole vedere. È il libro scritto da Luigi Pagano, per 16 anni al timone della casa circondariale milanese di San Vittore, poi a capo di tutti i penitenziari del Nord-ovest e numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. In 304 pagine, nella pubblicazione di Zolfo Editore racconta 40 anni da “sbirro” e insieme riformatore e scorci di “vita offesa” dei “sommersi” del carcere. Spiega la fatica di conciliare le regole con la capacità di comprendere e l’empatia, unite alla volontà di cambiare le cose e ridurre la distanza tra i princìpi sanciti dalla Costituzione e la realtà delle patrie galere. Con la sentenza Torregian, si ricorda, la Corte europea dei diritti umani nel 2013 condannò l’Italia per il trattamento inumano e degradante inflitto alle persone ristrette, mettendo sotto accusa l’intero sistema penitenziario. Non era la prima volta, già nel 2009 la Cedu ci aveva censurato. Il carcere oggi in Italia: i dati del sovraffollamento - Al 30 novembre 2020, nei 189 penitenziari italiani si contano 54.368 detenuti, 2.303 dei quali donne, più 34 bambini, figli di 31 delle 34 mamme in cella, il tutto a fronte di una capienza massima regolamentare di 50.568 posti (fonte: ministero della Giustizia). I posti accettabili sulla carta sono calcolati sulla base del criterio di 9 metri quadrati per singolo detenuto, più 5 per ogni compagno di cella in più. I carcerati positivi al nuovo coronavirus censiti al 28 novembre dall’ufficio del Garante nazionale private della libertà sono 882, stipati in 86 istituti, un numero in continuo aggiornamento. I morti per il contagio sono almeno 14 per l’associazione Ristretti Orizzonti (aggiornamento al 13 dicembre 2020). Per “il direttore” la pena detentiva è il "riconoscimento della sconfitta" - Secondo Luigi Pagano – che il libro lo ha scritto prima dell’emergenza sanitaria – il carcere andrebbe gradualmente ridimensionato e sostituito da misure alternative, se non addirittura abolito. "Quello del chiudere del tutto il carcere – precisa – è un discorso iperbolico, certo. Una provocazione. Ma nel frattempo non c’è alcun alibi per non fare. Quindi bisogna lavorare per riformare, sempre pensando che si debba ridurre l’incidenza della detenzione nel sistema penale. Occorre fare a meno del carcere ogni qual volta sappiamo che non serve, ma anzi sia deleterio". La pena detentiva, incalza nel libro, "è il riconoscimento della nostra sconfitta, delle nostre paure, della nostra incapacità a concepire qualcosa di diverso, più umano e più utile del carcere". La galera è violenza: le convizioni di Luigi Pagano - "Se nell’epoca dei lumi si poteva pur credere che la detenzione rappresentasse una scelta più umana se paragonata ai supplizi corporali esistenti – altra considerazione di Pagano – oggi che del carcere conosciamo tutti i danni che arreca all’umanità, non abbiamo tante giustificazioni se continuiamo a infliggere intenzionalmente del male fisico a nostri simili imprigionandoli, spesso senza neppure aver concluso il giudizio di colpevolezza nei loro confronti, sottraendo loro porzioni irripetibili della esistenza". E ancora: "Accantoniamo degli uomini per la nostra impotenza ad aiutarli a essere diversi e con ipocrisia lasciamo che sia il tempo a cambiarli o a eliminarli, facendoli vivere in una dimensione irreale che lascerà dei segni indelebili su di loro, sulle loro famiglie e sulla stessa sensibilità sociale, perché il carcere è desocializzazione, è violenza, se ne alimenta, l’esalta e l’usa come giustificazione per la sua stessa sopravvivenza". I principi calpestati nel libro pubblicato da Zolfo Editore - Anche il principio della non colpevolezza è stato e viene quotidianamente calpestato, come Pagano denuncia, non da adesso. "I “casi Tortora”, fondati sull’idea che “se un uomo viene catturato in piena notte vuol dire che qualcosa di grave ha commesso” (parole di Camilla Cederna), inquinano i principi fondamentali sanciti dalla nostra Carta costituzionale e su cui la nostra Repubblica fonda la sua democrazia. La colpevolezza o l’innocenza non la decidono la polizia, il pubblico ministero o l’opinione pubblica, ma un giudice e alla fine di un processo dove è l’accusa a dover portare elementi probatori a sostegno della propria tesi sottoponendoli al vaglio di un esame dibattimentale prima di essere ammessi come prove". Il direttore, il dramma dei suicidi e Tangentopoli - Tra i fatti più drammatici ricordati nel libro ci sono i suicidi di detenuti famosi e di detenuti “invisibili”, rimossi dalla memoria collettiva e tornati ad avere dignità nelle pagine del volume. Assieme a Gabriele Cagliari, l’ex presidente dell’Eni, viene ricordato Zoran Nicolic. Entrambi si tolsero la vita a San Vittore, nel pieno della bufera di Tangentopoli, lo stesso giorno (il 20 luglio 1993). Su questi e altri gesti estremi e irreparabili, burocraticamente definiti “autolesivi” dall’apparato, Pagano annota: "Una sconfitta per l’istituzione, spesso si dice con superficialità liquidatoria, come se il carcere fosse un luogo che possa avere, tra le tante finalità che gli si attribuiscono, anche quella della cura della salute delle persone a cui sottrae la libertà e non sia, invece, esso stesso un ambiente patogeno. Lo dicono gli organismi internazionali e nazionali: “Le prigioni sono anche la causa di malattia e di morte: sono la scena della regressione, della disperazione, della violenza auto-inflitta e del suicidio”, denuncia il Comitato etico francese. E che il carcere faccia male – e sappia di farlo, con buona pace di coloro che continuano a pensare di aver consegnato le pene corporali alla barbarie dei tempi andati – lo confessa anche la legge italiana. Un’ammissione di colpa relegata in un angolino (l’ultimo comma dell’articolo 17 del regolamento d’esecuzione, quello dell’ordinamento penitenziario, ndr), ma molto esplicita, se riconosce che “le prolungate situazioni di inerzia e di riduzione del movimento e dell’attività fisica possono favorire lo sviluppo di forme patologiche”". La strage nascosta nelle prigioni italiane - Lo stillicidio è senza fine. Non bastano gli interventi via via pianificati e una maggiore attenzione ai bisogni di uomini e donne fragili e alla prevenzione. Da gennaio al 13 dicembre di quest’anno – l’anno dei 13 morti durante e dopo le rivolte di inizio marzo, una strage senza precedenti – si contano 55 suicidi in cella e 152 decessi per Covid-19 e altre patologie. Di troppe vittime non si conoscono neppure i nomi e le storie, taciuti dall’apparato (mai da Pagano). Riforme e ostacoli in quarant’anni di lavoro in carcere - Pensare di eliminare i rischi tenendo chiusi i detenuti in cella per quasi tutto il giorno, oltre che di notte, secondo Pagano sarebbe controproducente. Per questo ha promosso e fatto applicare il sistema a celle aperte (con i carcerati lasciati fuori dalle “camere di pernotto” più a lungo, non solo per le ore d’aria) e la sorveglianza dinamica (contestata da quei sindacati di polizia penitenziaria attaccati ai vecchi sistemi e restii ai cambiamenti). L’ex direttore sostiene che è sbagliato pensare "di poter azzerare ogni rischio restringendo al minimo indispensabile gli spazi di libertà concedibili alle persone detenute nella convinzione errata che meno ti faccio uscire dalla cella, più riesco a controllarti e meno opportunità avrai di creare danni, farmi o farti del male. La realtà mostra che ogni giorno, per anni, in istituti come San Vittore, Regina Coeli, Poggioreale scendono ai cortili di passeggio 100, 200, 300 persone tutte insieme, senza alcun accompagnamento, e 100, 200, 300 rientrano tutte insieme senza che succeda alcunché. Mentre all’inverso accade che, nonostante un controllo a vista sulle ventiquattro ore, una persona si tagli le vene sotto le coperte e così muoia dissanguata o vada in bagno e si impicchi con l’elastico degli slip, unico indumento che le si era lasciato; o che le, rarissime, evasioni avvengano dalle celle servendosi, per calarsi nei cortili e scavalcare il muro di cinta, delle lenzuola in dotazione". Quei bambini dietro le sbarre - Tre dei risultati positivi raggiunti grazie a Luigi Pagano, e rimasti casi unici o isolati, sono l’avvio del carcere sperimentale di Milano-Bollate ("Doveva essere la regola, è l’eccezione"), il varo del reparto “La nave” di San Vittore (con un programma di trattamento avanzato, con iniziative sperimentali e un coro di detenuti e volontari) e la creazione di un istituto a custodia attenuata lontano da porte blindate e muraglioni, una struttura per mamme detenute con figli piccoli, con ambienti meno opprimenti e con personale specializzato e agenti in borghese e non in divisa. Un successo o un altro fallimento? L’ex direttore, che porta addosso anche il peso dei dubbi e delle riforme mancate o svilite, non elude la questione. "Al momento della inaugurazione dell’Istituto adottammo lo slogan L’abbiamo aperta perché speriamo di chiuderla al più presto, non tanto per amore del paradosso, ma perché nel frattempo diversi parlamentari si erano resi promotori di una legge che, proprio ispirandosi all’Icam, avrebbe cancellato, così veniva annunciata, in maniera definitiva l’indecenza dei bambini detenuti”!". La legge fu varata nel 2001. "Non solo non apportò alcun miglioramento all’esistente, ma volse in peggio la logica che era annessa al varo dell’Icam. La realizzazione milanese “spostava” il nido esistente a San Vittore in una struttura esterna dove tutte le donne madri o incinte dovevano essere assegnate appena arrestate. Quindi nel nostro progetto l’Icam andava a sostituire il nido, che veniva così eliminato. La legge invece ribaltò il concetto e decise che i nidi dovessero rimanere per forza di cose in carcere perché lì andavano portati madri e bambini quando venivano arrestati. Avrebbe deciso in seguito il magistrato, sic!, e non l’amministrazione, se assegnarli o meno all’Icam". La conclusione, legata a questo e a mille altri esempi, è amara e critica: "Le scelte di politica penale non guardano necessariamente alla realtà dei fatti. Talvolta seguono bizzarri e contorti itinerari per arrivare a conclusioni opposte rispetto alle premesse". “Vivere nell’insicurezza”, l’impatto della pandemia su individui e collettività di Carlo Crosato Il Dubbio, 16 dicembre 2020 Pensavamo di averla scampata e per qualche mese ci siamo fatti prendere da una strana euforia. La seconda ondata della pandemia, tanto temuta e preannunciata, ci ha rigettati in una condizione di sospensione del normale corso degli eventi, la cui fine è tutt’ora costantemente rimandata. Comune a tutti è la sensazione di galleggiare, di non essere più in possesso del proprio tempo, e le reazioni sono variegate sia per colore, a seconda del prevalere di ottimismo o pessimismo, sia per la scala su cui si esprimono. In “Vivere nell’insicurezza”, edito da il Mulino, con il piglio dello storico Gian Enrico Rusconi collaziona e mette in prospettiva le fonti che compongono il racconto dei mesi in cui cercavamo di prendere confidenza con una situazione che confidente e prevedibile non è ancora oggi. Rileggere parole risalenti a uno “ieri” che sembra esser già molto lontano, fa riemergere in una inaspettata archeologia del presente le speranze, le illusioni, le attese, le previsioni, soprattutto le paure cui forse ora abbiamo già trovato un altro nome e una collocazione più rassicurante. Sondando discorsi ufficiali e ricostruzioni giornalistiche, studiando le azioni intraprese dalle istituzioni politiche e mediche, questa archeologia riporta alla luce più domande che risposte, sintomo di quell’insicurezza che Rusconi caratterizza con lucidità filosofica. Se di guerra si vuol parlare, si dovrà ammettere che si tratta di una strana guerra, in cui la natura perpetua i suoi cicli mentre l’uomo, sempre più orientato alla riproduzione di interessi di brevissimo termine, ha deposto la consapevolezza della complessità viva e organica di cui è parte. Contro il virus non è possibile un combattimento frontale, ma solo un esercizio di comprensione e previsione. Ma come prevedere ciò che irrompe nella storia in maniera così brutale e fulminante? Di qui il generalizzato senso di precarietà. Osservata nella sua declinazione individuale, in quella politica, economica e finanziaria, o su scala geopolitica, l’insicurezza è l’effetto di una novità inafferrabile, imprevedibile e soverchiante. La condizione storica che ci troviamo a vivere non offre che pochissimi appigli su cui far presa per esercitare la nostra urgenza di ordine e consequenzialità. Il disagio psichico, la reattività sconclusionata in ambito politico e sociale, le frizioni che inceppano i meccanismi geopolitici e il ridisegnarsi delle catene di valore sono altrettante sfide alla nostra intelligenza, perché il dramma non ci spinga verso rimedi peggiori del male che vogliono curare. Reagendo a tale insicurezza, si dovrà affrontare con coraggio la questione del potenziale storico di questa fase critica: le cose cambieranno per sempre e nulla sarà come prima, oppure la pandemia si limiterà ad accelerare dinamiche già dominanti? Che ne sarà dell’ordine liberaldemocratico che pareva doversi imporre su scala globale senza alternative, con la sua tutela dei diritti civili e sociali e i suoi apparati diplomatici multilaterali? E che ne sarà della stessa globalizzazione? Si imporrà un nuovo ordine economico o la razionalità neoliberale approfondirà il proprio solco? E come si combina tale possibile approfondimento con l’allargarsi delle prerogative dello Stato per fronteggiare l’emergenza sanitaria? Il controllo sull’individuo sarà sempre più stretto e le istituzioni che lo esercitano saranno sempre più funzionali al riprodursi delle condizioni della competizione neoliberale? Come ne uscirà il nostro rapporto con la scienza, così compromesso da dinamiche spettacolarizzanti? Ricostruendo la complessità del momento storico in cui ci troviamo, Rusconi consegna un quadro articolato e informato. La preoccupazione che guida questo libro non è quella della definitività, bensì quella di tracciare il campo interlocutorio per un confronto lungimirante in merito all’impatto della pandemia sugli individui e sulle collettività, sulle speranze di ritorno a una normalità che, forse, era essa stessa largamente problematica. Rusconi non nutre illusioni quanto all’attivarsi di una razionalità sociale capace di combinare responsabilità personali e responsabilità pubbliche; tanto più assistendo al rafforzarsi del populismo e alla irragionevole strumentalizzazione delle incertezze che caratterizzano il progresso scientifico (su cui si segnala l’importante ultimo capitolo del libro). Eppure non ci si può arrendere a una reazione tanto spaventata quanto spaventosa, conferma del significato intimamente politico dell’assioma della (in) sicurezza. Decreti sicurezza, corsa contro il tempo per convertirli di Giovanna Casadio La Repubblica, 16 dicembre 2020 Calderoli: “Faremo l’impossibile per impedirlo”. Entro sabato serve il via libera del Senato. Ma la Lega annuncia ostruzionismo, presentandosi in massa a palazzo Madama. Entro la mezzanotte di sabato il decreto sicurezza, che archivia le norme di Matteo Salvini sull’immigrazione, deve avere il via libera definitivo del Senato, altrimenti decade. Dopo “stop and go”, scontri nella stessa maggioranza tra Pd e 5Stelle, limature e infine l’approvazione della Camera, dove è stata messa la fiducia, l’ultimo miglio del nuovo decreto sicurezza è una corsa contro il tempo. Oggi si entra nel vivo dell’esame del provvedimento nelle due commissioni congiunte a cui, a sorpresa, è stato assegnato: Affari costituzionali e Giustizia, quest’ultima presieduta dal legista Andrea Ostellari. La Lega e tutta la destra hanno promesso battaglia. Il leghista Roberto Calderoli annuncia: “Faremo tutto il verosimile e l’inverosimile per fermare questo provvedimento”. Ieri si è assistito all’“overbooking” nella sala capitolare in piazza della Minerva, dove si sono riunite le due commissioni alla ricerca di uno spazio abbastanza ampio da contenere una cinquantina di membri. Ma si sono presentati in massa i rappresentanti della Lega. Un eccesso di presenza, un “ostruzionismo autolesionista che ha ignorato ogni precauzione”: l’ha definito Dario Parrini, il dem presidente della Affari costituzionali. Visto l’eccesso di presenze rispetto alla normativa anti Covid, Parrini ha chiamato i questori e sospeso la seduta. I leghisti a quel punto hanno chiesto di tenere la commissione nell’aula di Palazzo Madama, dove però si svolgeva la sanificazione prima della discussione del Decreto Ristori. Oggi l’esame nelle commissioni prevede prima le audizioni, quindi la discussione generale e infine la presentazione degli emendamenti con votazioni: tutto in un giorno, in una manciata di ore. Domani infatti il decreto che cancella le regole sui migranti, il soccorso in mare e l’integrazione volute dall’ex ministro dell’Interno, va in aula per le pregiudiziali di costituzionalità. Quindi spediti verso il voto finale, dove potrebbe essere messa la fiducia come a Montecitorio. Calderoli cavalca a sua volta la questione sanitaria per dire che l’eccesso di presenze di ieri non è dovuto all’opposizione, bensì a maggioranza e minoranza che insieme e inevitabilmente fanno assembramento. Chiede a Palazzo Madama di rispettare il regolamento. “D’altra parte questo è un provvedimento che fa entrare più immigrati, li tiene ammassati, crea più clandestini: potrebbe essere messa la maggioranza sul banco degli imputati per epidemia colposa o dolosa”, attacca Calderoli. La destra alza le barricate. “Vogliamo chiudere una stagione in cui si è giocato sulla pelle di tutti, degli italiani e dei migranti. Negare diritti, criminalizzare chi salva vite in mare o fa accoglienza, creare decine di migliaia di irregolari in più in poco tempo sono tutte cose che non sono state fatte certo nell’interesse degli italiani. Ma solo per speculare elettoralmente, sventolando la bandiera della sicurezza, ma creando in realtà più insicurezza”, rimarca Matteo Mauri, il vice ministro all’Interno, del Pd, che ha seguito e in parte scritto il nuovo testo. Il provvedimento reintroduce la protezione umanitaria, che si chiamerà “speciale”. Prevede un nuovo sistema di accoglienza. Molti permessi di soggiorno saranno convertibili in permessi di lavoro. Non possono essere rimpatriati i migranti in paesi dove siano violati i diritti civili e anche ci siano discriminazioni sessuali. Le mega multe alle Ong, che erano previste fino a un milione di euro e il sequestro delle imbarcazioni, scompaiono. Giovani migranti, dall’Africa all’Europa passando per la Libia da soli di Marta Serafini Corriere della Sera, 16 dicembre 2020 La Ong Sos Mediterranee pubblica un report sul percorso di molti bambini e adolescenti che il lasciano il loro Paese d’origine da soli. La psicologa: “Per sopravvivere molti di loro devono rimuovere il dolore”. James, Esther, Sélim, Souleyman, Yasmine, Magdi, Youssouf, Abdo, Hamid e Yussif. Prima di essere “migranti”, sono soprattutto adolescenti con storie particolari, spesso molto difficili. Sono esseri umani resi vulnerabili dall’età, dall’isolamento e dai pericoli del viaggio che li ha portati sulla rotta marittima migratoria più letale al mondo, il Mediterraneo centrale. Ed è alle loro storie e a quelle di tutti i giovani naufraghi che è dedicato il rapporto della Ong Sos Mediterranee pubblicato oggi in italiano con il titolo “Giovani Naufraghi, percorsi di minori salvati dalla Aquarius e dalla Ocean Viking”, e che sarà presentato giovedì alle 18 sulla pagina Facebook della Ong, con Alessandro Porro, presidente di Sos Mediterranee Italia e Ivan Mei, Child Protection Specialist di Unicef. Quasi un quarto dei sopravvissuti soccorsi dalla Aquarius e dalla Ocean Viking, le navi della Ong, sono minori, la maggior parte dei quali viaggia da sola. Molti dei giovani adulti a bordo - come James, Souleyman o Magdi - hanno iniziato il loro viaggio da soli prima dei 18 anni ed hanno raggiunto la maggiore età lungo la strada. “Ho lasciato la mia famiglia in Ghana perché nella nostra tradizione una ragazza deve sposare il figlio dello zio paterno, ma io non volevo perché il mio desiderio è sempre stato di andare a scuola. Da noi, se ti sposi non puoi più studiare e nemmeno lavorare. Non è facile per una donna vivere in Ghana”, racconta Esther, 17 anni. “Se non accetti le regole, la famiglia ti rigetta. Mia madre non voleva che fossi buttata per strada, ma mio padre mi diceva che se non avessi sposato l’uomo che aveva scelto per me, mi avrebbe uccisa. Mi ha picchiata con una cinghia, mi ha minacciata. Anche mio fratello ha cercato di convincermi, anche con le botte, ma sapevo di volere un’altra vita. Ho finalmente lasciato il mio Paese alla fine di gennaio 2017. Il viaggio dal Ghana alla Libia è durato tre settimane. Non pensavo che sarebbe stato così difficile”, continua ancora il racconto. “Sono bambini e adolescenti che sono fuggiti dal loro Paese senza i genitori o gli anziani sono stati esposti, come gli adulti, a situazioni di violenza estremamente traumatiche nel loro Paese di origine e/o durante le traversate terrestri e marittime” spiega Marie Rajablat, infermiera nel settore psichiatrico e volontaria di Sos che ha partecipato a diverse missioni in mare a bordo dell’Aquarius nel 2017 e 2018 per raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti e accompagnarli. “In prigione, le persone venivano picchiate ogni giorno. Non è stato facile. Credo di aver passato quattro o cinque mesi lì. E un giorno, con alcuni amici, abbiamo deciso di scappare. Siamo fuggiti tutti in direzioni diverse. Non so dove siano ora. Ho corso, corso e corso, per molto tempo, finché non ce la facevo più. A un certo punto, non potevo più correre. Ero così stanco che sono crollato per terra e sono rimasto lì, in mezzo alla strada, per riposarmi. Non sapevo dove mi trovavo. Un libico mi ha visto, è venuto a chiedermi cosa mi stava succedendo. Non ho risposto. Ho fatto finta di essere morto, perché avevo paura. Ma poi si è offerto di darmi da mangiare e aiutarmi. Siamo andati a casa sua e ci sono rimasto per circa un anno e mezzo. Facevo le pulizie per lui. Non avevo il diritto di uscire di casa. Non ho mai potuto uscire di casa. Non sono uscito di casa per tutto questo tempo, mai, nemmeno una volta. Ero come uno schiavo per lui. Non so in quale città mi trovavo. Vedevo soltanto delle altre case attorno, fuori dalla finestra”, è la testimonianza di Yussif, 17 anni dalla Somalia. Le persone tratte in salvo Sos, in generale, descrivono situazioni identiche: in Libia, i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati vengono arrestati dalle autorità o da uomini armati e poi rinchiusi in centri o luoghi di detenzione informali, dove sono costretti, sotto violenza, a pagare un riscatto in cambio del loro rilascio. Alcuni di questi campi sono centri gestiti dalle autorità governative, altri sono luoghi chiusi gestiti da milizie, gruppi armati o individui isolati. In molti di questi luoghi, la violenza fisica è un fatto quotidiano sia per i bambini che per gli adulti. I sopravvissuti descrivono pasti inadeguati, cattive condizioni igieniche, regolari abusi fisici, sessuali e verbali - compresa la tortura a scopo di estorsione - e il sovraffollamento, che incide gravemente sulla salute dei prigionieri. Molti hanno persino riferito di essere stati testimoni di esecuzioni. “Per sopravvivere giorno per giorno durante questo viaggio infernale, non devono pensare alla famiglia che si sono lasciati alle spalle, che si sono indebitati o che potrebbero essere minacciati per la loro partenza. Non devono pensare ai morti che si sono lasciati alle spalle: quelli del paese che sono morti di malattia o sono stati assassinati; quelli abbandonati nel deserto; quelli che vedevano giustiziati nei campi; chi è annegato... Soprattutto non deve lasciar emergere il dolore, il dolore”, sottolinea ancora Rajablat, Una volta arrivati in Europa, le sofferenze dei giovani migranti non finiscono. “Per strada, rinchiusi in squat violenti o riparati in luoghi estremamente precari, questi giovani non possono mettere radici o semplicemente proiettarsi da nessuna parte. Il loro ideale crolla insieme al loro essere. Poi inizia l’altro viaggio, questa volta una corsa tranquilla, quello del ricorso legale. Il tempo si allunga attorno all’unica attività: attendere la consegna della risposta istituzionale che riconosca - o meno - il diritto alla protezione. È uno stop forzato che favorisce l’emergere dei fantasmi del passato e dei sentimenti dolorosi: senso di colpa, abbandono, disprezzo di sé, solitudine, ecc.”, continua Rajablat. In questo quadro già complicato, la pandemia ha aggravato l’inerzia attraverso il contenimento, tempi di ascolto più lunghi o numerosi rinvii di date brevi. “Sono emerse idee inquietanti, disturbi d’ansia, concentrazione e disturbi del sonno, ritiro, isolamento relazionale e psicologico. Alcuni sono sopraffatti da una disorganizzazione del loro rapporto con il mondo. Possono sperimentare spersonalizzazione e / o delusioni. Spesso transitori negli adulti, questi disturbi possono durare più a lungo nei giovani. Da quando sono usciti di casa, questi bambini e adolescenti hanno barattato le loro certezze per le incertezze, le loro illusioni per la disillusione. Ovunque si trovino, sono relegati alla rovina dell’umanità”. La cannabis light fa litigare la maggioranza di Giuliano Santoro Il Manifesto, 16 dicembre 2020 L’emendamento alla legge di bilancio numero 168.03 sulla liberalizzazione “canapa senza efficacia drogante”, volgarmente detta “Cannabis light” divide la maggioranza. Secondo il deputato del Movimento 5 Stelle Michele Sodano, primo firmatario della proposta, la nuova normativa sulla marijuana sprovvista di principio attivo e per questo da non considerare sostanza stupefacente, vale un gettito fiscale 950 milioni di euro. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità riconosce alla canapa senza Thc capacità rilassanti e antidolorifiche e non genera dipendenza. “Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia minacciano di fare saltare la manovra in caso di approvazione, confondendo la pianta della canapa industriale con la cannabis che gli Stati Uniti e il Canada hanno già liberalizzato, perché proibire aiuta solo le mafie”, dice Sodano. A colpire il parlamentare grillino è soprattutto il veto del Pd. “Il Partito democratico sembra allinearsi sulle posizioni incomprensibili di Salvini e Meloni - afferma Sodano - Dodicimila famiglie ci chiedono di regolamentare un settore economico strategico”. Già due mesi fa la vicenda aveva generato un caso nel governo. Il ministero della salute aveva classificato tra i medicinali con sostanze stupefacenti “le composizioni per somministrazione ad uso orale di cannabidiolo ottenuto da estratti di cannabis”. Ciò, tra le altre cose, avrebbe impedito la vendita di pomate e balsami che rappresentano la metà degli introiti del settore. In seguito alle proteste era arrivata la sospensione del decreto e Liberi ed Uguali e M5S avevano preso l’impegno di regolamentare il mercato di questo tipo di sostanze. Ancora, risale alla metà dello scorso mese la sentenza della Corte di giustizia europea che sostiene che la cannabis light “non pare avere alcun effetto psicotropo o causare danni alla salute”. Da qui l’indicazione della necessità di consentire il commercio di cannabis priva di principio attivo o comunque con livelli molto bassi di Thc. “Quando parliamo di cannabis light parliamo di un settore già esistente e che vive però in una zona grigia normativa - rileva Riccardo Magi, deputato radicale di +Europa, anche lui autore di un emendamento - Migliaia di aziende italiane e di lavoratori impiegati nel settore della canapa industriale non chiedono un sussidio ma un quadro normativo chiaro e certo: il Parlamento avrebbe l’occasione per regolamentare il settore. È di questo che parliamo, tutto il resto è il solito teatrino. Si fosse trattato di un altro settore che non porta lo stigma del nome ‘cannabis’, qualsiasi governo avrebbe già fatto un decreto ad hoc per queste migliaia di lavoratori”. In bilico c’è anche l’emendamento alla manovra di bilancio che assegna risorse per la produzione nello stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze della cannabis terapeutica, assicurando la disponibilità del prodotto ai malati gravi che lo usano per lenire le loro sofferenze. Pena di morte, l’Italia mobilitata per la moratoria di Marina Sereni* Il Riformista, 16 dicembre 2020 Oggi l’Assemblea Generale dell’Onu sarà chiamata a esprimersi sulla risoluzione per la Moratoria universale della pena di morte. Nonostante la crisi pandemica il Governo italiano ha dedicato in questi mesi la massima attenzione all’iniziativa contro le esecuzioni capitali, tradizionalmente centrale nella nostra agenda politica estera da quando, nell’ormai lontano dicembre 2007, le Nazioni Unite approvarono la prima storica risoluzione in materia. Anche quest’anno l’Italia è stata pienamente impegnata affinché, dopo il voto nella III Commissione di alcune settimane fa, anche l’Assemblea Generale si pronunci nuovamente chiedendo a tutti i Paesi - quali che siano gli ordinamenti vigenti - di aderire all’impegno per la moratoria. L’obiettivo che ci siamo posti è stato quello di consolidare e possibilmente allargare - lo straordinario risultato raggiunto lo scorso anno. In questo sforzo merita ricordare l’evento di alto livello sulla pena di morte e la dimensione di genere che, a margine della Settimana Unga lo scorso settembre, è stato aperto dal Ministro Di Maio e al quale hanno partecipato, tra gli altri, l’Alta Commissaria per i Diritti Umani Bachelet e la Relatrice Speciale Onu per le esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie Callamard. Non ci siamo fermati a questo: l’Italia ha mobilitato la propria rete diplomatica, con lo scopo di sensibilizzare quanti più Governi e Paesi su questo tema fondamentale di civiltà. Il contesto non è facile, con la già ricordata pandemia che ha reso difficile una piena mobilitazione, mentre la modalità di voto da remoto, unita all’impossibilità di svolgere in molti casi un’azione diplomatica vis à vis, possono far temere un aumento dell’astensionismo. Tuttavia abbiamo ricevuto dalle nostre sedi un numero consistente di riscontri sui propositi di voto di molti Stati che fanno ben sperare. Non sarà facile migliorare l’ottimo risultato del voto del dicembre 2018, che ha registrato il numero record di 121 voti a favore, 35 contrari e 32 astensioni. Abbiamo in queste settimane puntato a modificare la posizione di alcuni Stati cercando di cambiare la loro precedente posizione, da astenuto a favorevole e da contrario ad astenuto, e al contempo ad evitare arretramenti in senso opposto, oltre che a contrastare anche l’astensione. La versione finale della risoluzione depositata presenta importanti novità rispetto al testo del 2018, in particolare, il riconoscimento del ruolo svolto della società civile nella lotta contro la pena di morte, un riferimento all’applicazione discriminatoria della pena di morte nei confronti delle donne e infine un nuovo paragrafo che invita gli Stati a garantire che i bambini, le famiglie e i rappresentanti legali delle persone condannate a morte ricevano informazioni adeguate sulle loro condizioni e abbiano anche la possibilità di poter fare un’ultima visita o una comunicazione con il condannato, nonché a assicurare il ritorno del corpo alla famiglia per la sua sepoltura. Uccidere in nome della giustizia è una pratica non accettabile per la cultura giuridica di un Paese che ha dato i natali a Cesare Beccaria. La pena capitale inoltre è una misura inefficace come deterrente e ha conseguenze irreparabili in caso di errori giudiziari. La Moratoria è la mitigazione, non la soluzione del problema. Ma è comunque un passo molto significativo e concreto ed è per questo che la Farnesina, insieme a Nessuno Tocchi Caino, ad Amnesty International e alla Comunità di Sant’Egidio, anche quest’anno non ha risparmiato nessuno sforzo per compiere un passo avanti nella giusta direzione. *Vice Ministra degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Noi nel Mediterraneo: una debole diplomazia di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 16 dicembre 2020 Il caso di Giulio Regeni al Cairo e quello dei pescatori sequestrati in Libia mettono in luce una triste verità: il ruolo di media potenza regionale è seriamente compromesso. Basta unire i puntini come in enigmistica: il caso Regeni al Cairo e quello dei nostri pescatori sequestrati a Bengasi delineano con chiarezza i contorni del declino italiano come media potenza regionale del Mediterraneo. Una china che rischia di farci scivolare nell’irrilevanza. Al di là delle formule di facciata, l’Egitto continua a farsi beffe di noi: a fronte dell’inchiesta chiusa dalla nostra procura, ha insistito nella versione della banda di balordi che avrebbe ammazzato Giulio, negando ai nostri magistrati persino il domicilio dei suoi agenti dei servizi sotto accusa a Roma. Con sincronia del tutto casuale ma significativa, un personaggio infinitamente più debole di Al Sisi come il generale Haftar detiene da oltre cento giorni diciotto pescatori di Mazara del Vallo in una residenza militare sorvegliata, avendo prima provato a scambiarli, come un qualsiasi bandito, con alcuni scafisti libici da noi condannati e incarcerati. Il dolore della madre di Regeni, che rifiuta d’essere ridotta allo stereotipo della mamma piangente e si erge come pubblica accusatrice degli egiziani ma anche delle inerzie italiane, deriva dalla quasi certezza di vedere celebrato un processo in contumacia ad aguzzini che mai sconteranno un giorno di galera. La richiesta di “un cambio di passo” fatta pervenire agli egiziani dal nostro ministro degli Esteri getta sul dramma una luce grottesca, dato che da più di un anno il dittatore egiziano continua ad assicurare all’Italia una collaborazione che si traduce nel nulla, di sberleffo in sberleffo. Le famiglie dei diciotto pescatori hanno invece inscenato la scorsa settimana a Mazara del Vallo una manifestazione sotto la casa natale del ministro Bonafede e, esasperati dal rilascio-lampo di sette marinai turchi catturati dai libici in circostanze simili a quelle dei marittimi mazaresi, hanno gridato agli anziani genitori del ministro “dite a vostro figlio di intervenire”. Il sindaco di Mazara, Salvatore Quinci, sostiene che Haftar tiene duro perché “vuole rimettersi al centro della scena, dimostrando di essere più forte dell’Italia”. E purtroppo pare riuscirci. Non è la prima volta che in giro per il mondo veniamo maltrattati, certo: dall’impunità dei piloti americani per la strage del Cermis fino alla prigionia indiana dei nostri marò. Ma è la prima volta che due affronti così gravi si consumano in rapida successione dentro quello che dovrebbe essere (ed era) il cortile di casa nostra, il Mediterraneo (gli arabi lo chiamavano al-Bahr al-Rumi, il mare dei romani), il Mare Nostrum. È come se si fosse compiuta una parabola: finita la stagione un po’ levantina con la quale la diplomazia della Prima Repubblica badava agli equilibri nel mondo arabo con occhio lungo sul Medio Oriente, finita persino l’illusione di grandeur berlusconiana con la sponda di Gheddafi e delle sue amazzoni. Dal 2011, l’avere assecondato l’attacco al rais libico senza dire una parola sul dopo ha sancito la nostra caduta. Gli ultimi tempi sono stati di grande incertezza geopolitica, basti pensare alle giravolte pro Putin o filocinesi della maggioranza gialloverde. Di certo il profilo di un ministro giovane, diciamo così, agli Esteri non ci aiuta. Secondo alcune fonti, Conte avrebbe chiesto proprio ad Al Sisi di mediare con Haftar. Per falso che sia, il solo fatto che se ne possa parlare quale ipotesi sul tappeto dice molto della debolezza del governo. L’unica presa di posizione udibile è venuta dal presidente della Camera, Fico. Non un guerrafondaio ma un analista accorto come Lucio Caracciolo osservava tempo fa come la diplomazia, se non sorretta da una credibile deterrenza militare, finisca per essere distribuzione di mance e belle parole. Un pigolio. È tempo di ricostruire una difesa degna di questo nome. Non solo in termini di investimenti militari (abbiamo reso più moderna la nostra Marina, abbiamo corpi di élite nelle missioni in giro per il mondo, abbiamo il generale Graziano al comando del Comitato militare della Ue). In termini culturali e di consenso. Che Macron conferisca la legione d’onore ad Al Sisi, proprio mentre è in corso la crisi italo-egiziana, non è solo un altro sgarbo nel segno della realpolitik: è la prova che dobbiamo uscire dalla palude dell’incertezza politica (chi siamo? Con chi stiamo?) e diventare più pesanti al tavolo con gli alleati e i partner. Il rinnovo dei finanziamenti libici votato dal nostro Parlamento per tenere a bada i migranti non è grave (non solo) per le sue implicazioni umanitarie, ma perché significa delegare ancora, girarsi ancora dall’altra parte, non affrontare i problemi in prima persona, dimenticando come la nostra Marina sia efficace quando chiamata in causa con il sostegno del Paese, come fu al tempo dell’operazione Mare Nostrum. La risposta all’irrilevanza sta, certamente, nella difesa comune europea. Evocata da Josep Borrell e da Macron medesimo, molto incoraggiata da Graziano stesso. E tuttavia proprio il caso di Al Sisi insignito dai francesi ci dice che, se nessuno si salva da solo, nessuno ti salva per te solo. Serve un contesto da far valere. Nessuno pretende incursori che prelevino gli assassini di Giulio portandoli in catene davanti a una corte italiana. Ma nessuno potrebbe biasimarci se, anziché vendere le nostre navi ad Al Sisi, le usassimo per una plateale e protratta esercitazione militare ai confini delle sue acque territoriali. Un gesto costoso, ma di simboli vive la politica. Un asse politico, economico e militare credibile che, sostenendo una diplomazia infine più efficace, riallinei l’Italia alle potenze occidentali, beh, sarebbe una bella scommessa per questi anni Venti: chiamando in causa non solo i portafogli ma le coscienze. Libia. Solo pasta e pesce: la prigione dei pescatori italiani di Goffredo Buccini e Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 16 dicembre 2020 Il secondo piano di una palazzina della Marina militare di Haftar, a Bengasi, è il luogo dove sono chiusi i 18 membri dell’equipaggio di Mazara del Vallo. Gli uomini del generale: “Li libereremo in cambio dei calciatori”. I due pescherecci italiani sequestrati sono ormeggiati alla banchina principale della zona militare costruita ai tempi di Gheddafi nel grande porto di Bengasi. Ieri poco dopo mezzogiorno non erano visibili sentinelle attorno. Sono lì fermi e vuoti da dopo il sequestro da parte delle motovedette del maresciallo Khalifa Haftar la notte tra l’uno e due settembre. L’”Antartide” e il “Medinea” hanno le reti arrotolate sul ponte di poppa, vicino alle casse vuote, ben impilate, del pescato. I 18 membri dell’equipaggio (8 italiani, 6 tunisini, 2 indonesiani e 2 senegalesi) si trovano invece chiusi nella palazzina di quattro piani dell’amministrazione, sita a circa 500 metri dalle due barche. Secondo un collaboratore locale delCorriere, che è stato al porto militare ieri, i prigionieri sono relegati in un grande stanzone al secondo piano. Il cibo viene servito regolarmente: una dieta a base di pasta, pesce e verdura. Trascorrono il tempo guardando la televisione, hanno servizi igienici sempre accessibili. Sin dall’inizio del sequestro, e come già nei numerosi casi simili nel passato, le autorità italiane hanno chiesto che i marinai non venissero chiusi in un carcere con altri prigionieri. Alcune settimane fa era girata la notizia che fossero stati spostati nel carcere civile di El Kuefia, una quindicina di chilometri da Bengasi. Ma dal campo testimoniano il contrario. Si tratta però di prigionia a pieno titolo. Non hanno alcuna libertà di movimento. L’intera area è circondata da un muro di cemento. Vi si accede dal centro città soltanto da un posto di blocco controllato dalle teste di cuoio con l’uniforme blu dei commando della marina di Haftar, addestrati dai consiglieri militari russi ed egiziani. Quattro o cinque sentinelle stazionano notte e giorno all’entrata della palazzina. Ma l’intera area mostra ancora i danni dei conflitti che hanno interessato la Libia dalla caduta del regime di Gheddafi nel 2011 ad oggi. I più gravi sono quelli causati dai gravissimi combattimenti tra le truppe di Haftar e le milizie legate al fronte jihadista nel 2014. Allora l’intero centro storico di Bengasi venne ridotto in macerie. La stessa palazzina dell’amministrazione del porto fu colpita ripetutamente dai mortai e le mitragliatrici pesanti. Alcuni squarci sono tutt’ora aperti. A sentire gli ufficiali di Haftar sul posto, sembra ci siano poche speranze che gli italiani possano venire liberati per Natale. “La prossima settimana inizierà il processo agli italiani qui nel tribunale di Bengasi. Attendiamo il verdetto. E dobbiamo valutare se il governo di Roma è disposto a scambiare i calciatori libici condannati a 30 anni di carcere dai tribunali italiani”, spiega un alto graduato che comanda la difesa del porto, riferendosi al caso dei quattro giovani libici accusati nel 2015 dal tribunale di Catania di essere trafficanti di esseri umani e di aver causato la morte di 49 migranti. Fonti locali spiegano inoltre la differenza del caso italiano con quello dei 17 marinai turchi a bordo del mercantile “Mabruka” fermati dai guardiacoste di Haftar il 5 dicembre e liberati solo 5 giorni dopo su pagamento di una cauzione da parte di Ankara. Dicono: “La nave turca è stata ispezionata. Non trasportava armi o merce illegale. Gli italiani stavano invece gettando le reti nella zona esclusiva libica di pesca. Sapevano di contravvenire le nostre leggi e non era la prima volta”. Messico. Poliziotti e narcotrafficanti uccidono con le armi italiane di Claudia Fanti Il Manifesto, 16 dicembre 2020 Secondo Opal, un terzo delle armi vendute al paese centroamericano tra il 2006 e il 2018 sono state prodotte dalla Beretta. Destinate a polizia ed esercito, finiscono (non per caso) in mano ai cartelli della droga e alla criminalità organizzata. La guerra invisibile che affligge la terra messicana - dove dal 2006 (l’anno in cui Felipe Calderón scatenò la sua offensiva contro il narcotraffico) al 2019 si sono contati più di 276mila omicidi - si combatte anche con armi italiane. Addirittura un terzo delle 238mila armi vendute dal 2006 al 2018 alla polizia messicana, che le ha usate in molteplici violazioni dei diritti umani, sono state prodotte ed esportate dalla Beretta di Gardone Val Trompia, secondo quanto indica il rapporto Deadly Trade. How European and Israeli arms exports are accelerating violence in Mexico (Commercio mortale. Come le armi europee e israeliane stanno aggravando la violenza in Messico), pubblicato il 9 dicembre da un gruppo di associazioni di diversi paesi, tra cui l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia. In un Messico devastato dalla criminalità organizzata, dai cartelli di narcotrafficanti e dal connubio tra Stato e narcos (come indica il caso dell’ex ministro della Difesa Cienfuegos Zepeda, arrestato per narcotraffico negli Usa e poi liberato e rimpatriato), la Beretta ha venduto, su autorizzazione delle autorità italiane, 108.660 armi alla polizia federale e alle polizie locali del Messico, tra cui più di 25mila fucili e altre armi lunghe, sia automatiche che semiautomatiche. E ci sono prove che abbia aumentato significativamente le vendite di armi da fuoco in Messico nella prima metà di quest’anno, mentre il Covid-19 colpiva duramente il Nord Italia. È stato proprio con fucili d’assalto Beretta che la polizia municipale di Iguala ha preso parte al sequestro dei 43 studenti della Scuola normale di Ayotzinapa, scomparsi nel settembre del 2014 e diventati il simbolo delle 73 mila persone registrate come “disperse”, di cui oltre 56mila scomparse nel solo ultimo decennio. E sono in molti casi armi Beretta che vengono impiegate in operazioni di ordine pubblico contro la popolazione civile inerme o che, “smarrite” o contrabbandate da agenti di polizia, finiscono poi nelle mani della criminalità messicana. Secondo il rapporto, basato sui dati ufficiali forniti dalla Secretaría de la Defensa Nacional del Messico, delle oltre 61mila armi sequestrate dall’esercito tra il 2010 e il 2020, ben 2.744 erano di fabbricazione italiana, soprattutto pistole Beretta. La situazione appare in via di miglioramento: nel 2019 sono stati registrati oltre 19 omicidi ogni 100mila persone e più di 24mila omicidi con armi da fuoco, il tasso più alto dal 1997. Una realtà che, come sottolinea Piergiulio Biatta, presidente Opal, “ripropone pesanti interrogativi sia sulla filiera produttiva e commerciale delle armi, sia sui controlli riguardo agli specifici destinatari finali”: questioni “non più eludibili se vogliamo che la normativa italiana e il Trattato internazionale sulle armi servano a prevenire esportazioni di armi che alimentano la violenza e le violazioni dei diritti umani”. Stati Uniti. Condannato senza prove per morte bimba, libero dopo 20 anni di Laura Zangarini Corriere della Sera, 16 dicembre 2020 Lo stato del Minnesota ha formato una commissione indipendente di esperti legali per studiare il caso Myon Burrell. Un giovane uomo di colore, condannato all’ergastolo quando aveva solo 16 anni. È tornato in libertà Myon Burrell, condannato all’ergastolo quasi 20 anni fa, quando era ancora minorenne, per la morte di una bambina di 11 anni. Il caso ha ricevuto molta attenzione da parte dei media quando la senatrice Amy Klobuchar si è vantata in un dibattito durante le primarie democratiche presidenziali di aver messo in prigione l’assassino della ragazza quando era procuratore a Minneapolis. Dopo che un’indagine dell’agenzia Associated Press ha rivelato che Burrell, ora 33enne, era stato condannato all’ergastolo per omicidio di primo grado senza che ci fossero prove schiaccianti contro di lui, lo stato del Minnesota ha formato una commissione indipendente di esperti legali per studiare il caso che ha finito per raccomandare il rilascio immediato. Il Minnesota Board of Pardons aveva approvato la commutazione dell’ergastolo di Burrell in una condanna a 20 anni di carcere, con due ancora da scontare in libertà vigilata, con il voto a favore del governatore del Minnesota Tim Walz e del procuratore generale Keith Ellison, entrambi democratici, ma contro la volontà della famiglia della vittima, Tyesha Edwards. Nel novembre 2002, Tyesha, una studentessa nera di prima media, stava studiando nel soggiorno della sua casa a sud di Minneapolis quando fu colpita da un proiettile vagante durante una sparatoria tra bande rivali. Le autorità avevano immediatamente puntato i riflettori su Burrell dopo che un membro di una banda rivale lo aveva riconosciuto nonostante fosse notte e il tiratore si nascondesse dietro un muro a circa 40 metri di distanza. Senza un’arma del delitto, DNA o impronte digitali, le autorità hanno fatto ricorso a spie all’interno delle carceri che in cambio di soffiate su Burrell hanno ottenuto riduzioni di pena. Alcuni di questi informatori hanno ritrattato le loro confessioni mentre uno dei complici di Burrell, Ike Tyson, che sta scontando 45 anni di carcere, ha ammesso di essere stato lui a sparare e uccidere Edwards. Nel frattempo, le prove che Burrell sostiene lo avrebbero liberato dalla condanna, come i filmati di sorveglianza di un supermercato, non sono mai state raccolte e non esistono più. Nella sua decisione il Minnesota Board of Pardons ha tenuto conto delle sentenze recentemente adottate dalla Corte Suprema che indicano che il cervello dei minori (Burrell aveva 16 anni al momento del crimine) e la loro capacità di prendere i decisori non sono completamente sviluppati. Iran. Cresce l’ansia per il ricercatore Djalali. La moglie: “Non sarà giustiziato oggi” La Repubblica, 16 dicembre 2020 Lo studioso, che a lavorato per lungo tempo anche a Novara, è accusato di spionaggio a vantaggio di Israele. Voci parlavano di una possibile esecuzione fissata per le prossime ore. Ore di ansia per la sorte di Ahmadreza Djalali, il ricercatore iraniano di passaporto svedese condannato a morte in Iran con una accusa di spionaggio a vantaggio di Israele. Djalali si trova detenuto nel braccio delle morte del carcere di Evin a Teheran. Indiscrezioni diffuse in mattinata riferivano che il Tribunale iraniano avrebbe annunciato che l’esecuzione avverrà domani all’alba. La moglie Vida Mehrannia, che vive a Stoccolma, non ha più avuto contatti diretti con Ahmad dopo la breve telefonata della fine di novembre, ma all’agenzia Aki-Adnkronos assicura: “Non è prevista domani. Non abbiamo altre informazioni oltre al fatto che l’isolamento è stato prorogato”. Mehrannia dice che “non è chiaro” cosa succederà nei prossimi giorni anche se la temuta esecuzione del medico non sarebbe programmata. La scorsa settimana era stata rinviata per la seconda volta l’esecuzione dell’ex ricercatore presso il Centro di Medicina dei Disastri (Crimedim) dell’Università del Piemonte Orientale. Molta preoccupazione deriva dal fatto che tre giorni fa, come ha riferito Amnesty International, è stato impiccato Ruollah Zam, giornalista e dissidente, condannato a sua volta per una presunta attività di spionaggio nei confronti di Israele. Luca Ragazzoni, il collega novarese di Djalali negli anni di collaborazione con il Centro Internazionale di studi sulla medicina dei disastri dell’Università del Piemonte Orientale, che sta seguendo le tante iniziative di solidarietà che da ogni parte del mondo si sono levate per ottenere la salvezza di Djalali sottolinea come “raramente la voce si è alzata così alta da tutto il mondo, Ora vorremmo che l’appello fosse ascoltato” “Il tempo sta scadendo. Se il governo italiano e l’Unione Europea non eserciteranno oggi tutta la pressione diplomatica possibile”, dice il presidente dei Radicali italiani, Igor Boni. “Siamo molto angosciati. Quest’uomo ha dovuto confessare reati mai esistiti sotto tortura e minaccia. È malato. Da 4 anni vive in condizioni disumane in una cella. Adesso lo attende il boia - aggiunge Boni. Se c’è ancora una possibilità di salvargli la vita, quella possibilità deve essere sfruttata al massimo nelle prossime ore. Il Ministro Di Maio è sicuro di avere fatto tutto il possibile?”. Sulla vicenda ha preso posizione anche la sindaca di Torino, Chiara Appendino: “Non c’è più tempo. Come ho già fatto qualche giorno fa, unisco nuovamente il mio appello e quello della Città di Torino a quello delle altre Istituzioni di tutto il mondo, e all’impegno di Amnesty International, affinché, in qualsiasi modo, si possa impedire questo terribile epilogo”.