Sovraffollamento e Covid: è il momento di azioni concrete di Paola Balducci* Il Dubbio, 15 dicembre 2020 La questione concernente il binomio carcere-detenuti è tema estremamente delicato, che dovrebbe essere inquadrato e definito, una volta per tutte, all’interno del sistema giuridico delineato dal legislatore, lasciando da parte qualsiasi tipo di sentimento od orientamento politico. L’intero sistema penale, di cui fa evidentemente parte quel segmento finale qual è l’esecuzione e l’espiazione della pena, deve essere considerato alla luce del dettato normativo, primo fra tutti quello costituzionale. E, d’altronde, non può essere diversamente: la libertà personale è, sì, un diritto fondamentale, a tutti noto e a tutti caro, ma soprattutto inviolabile. Questa è la premessa necessaria, dalla quale si deve partire per la costruzione (per niente facile) di un sistema che tenga conto di diritti e di doveri, di facoltà e di responsabilità, di azioni e di conseguenze, nell’ottica dell’instaurazione di un dialogo tra di essi, finalizzato ad ottenere un compromesso, e reciproche concessioni. All’interno di queste coordinate si colloca il quadro normativo, nazionale e sovranazionale, che positivizza l’esecuzione della pena, intesa nel senso più ampio: è questo il parametro di verificabilità della tanto agognata Giustizia. Essere stati condannati all’esito di un processo penale non significa, per ciò solo, dover passare il resto dei giorni in una cella. Le azioni che commettiamo sono tra loro eterogenee e di questa diversità deve tenersi conto - come il legislatore ben fa. Da qui, la previsione di misure, appunto, eterogenee, da una parte accomunate dal perseguimento di un obiettivo comune, qual è il reinserimento sociale del condannato, dall’altra contraddistinte dal soddisfacimento di un determinato tipo di esigenza. Da questa prospettiva devono essere considerati, ad esempio, gli strumenti premiali e le misure alternative alla detenzione. La loro previsione, infatti, non si ispira a ragioni di “clemenza” quanto, piuttosto, alla necessità di assicurare una certa proporzionalità, anche nelle modalità di espiazione della propria condanna. Si badi bene, il principio di proporzionalità - che trova terreno fertile nel sistema penale proprio in ragione di quella libertà personale, di cui si è parlato - non è soddisfatto solo dall’irrogazione di una pena che sia congrua rispetto al fatto commesso. Esso trova campo di applicazione anche nel momento immediatamente successivo, e cioè quando quella pena deve essere in concreto eseguita: tra le diverse modalità di espiazione, predeterminate dal legislatore, deve essere scelta quella che garantisce il reinserimento sociale del detenuto alla luce di un trattamento penitenziario individualizzato. Se così non fosse, infatti, il condannato non percepirebbe la “giustizia” insita in quella risposta sanzionatoria, rispetto al comportamento dallo stesso tenuto, e la sua rieducazione resterebbe solo un bel sogno infranto. Sulla carta, quindi, tutto sembra funzionare. Nella sostanza, invece, non pochi sono i conti che si devono fare con tutto quello che sta intorno al panorama carcerario. Non si possono certo dimenticare le condanne ricevute dal nostro Paese da parte del sistema sovranazionale, che hanno denunciato l’esistenza di un problema endemico e strutturale degli Istituti penitenziari, facendo emergere da acque torbide la questione del sovraffollamento. Non si può certo nascondere la carenza di risorse, sia personali, sia strutturali, che, è evidente, rende più difficile quel percorso di reinserimento nella società. Così come non si può far finta che questa situazione non riguardi tutti, indistintamente: sia chi è semplice spettatore, sia chi, giustamente o ingiustamente, è stato privato della sua libertà. Il problema c’è, ed è reale e, pertanto, deve essere risolto. La situazione di emergenza sanitaria ha ben mostrato, e dimostrato, l’insufficienza (non formale ma sostanziale, lo si ribadisce) e l’impotenza di un sistema penitenziario che, con grande fatica, ha cercato di rimanere indenne e di sopravvivere davanti l’imprevisto e imprevedibile. I dati sono chiari: il virus si è diffuso negli Istituti penitenziari, sia tra chi vi è ristretto, sia tra chi presta in quei luoghi la propria attività lavorativa. E, certo, non potevamo immaginare un finale diverso se consideriamo i numeri di affollamento o, per meglio dire, di sovraffollamento delle strutture. Assicurare e garantire il rispetto del distanziamento sociale, così come fa ognuno di noi nei confronti, e per il bene dell’altro, è praticamente impossibile. La reazione a catena, che si è innescata davanti l’imprevisto, era prevedibile. Ed anzi, era stata prevista e paventata dai più già mesi e mesi fa, quando non si faceva altro che dibattere, incessantemente, sulla questione del sovraffollamento, nell’intento di “riportare in voga” un problema che si cerca in tutti i modi di far restare latente. Ma, a quanto pare, le richieste di aiuto da parte di chi ha cuore la sorte dei detenuti non sono valse a nulla, o quasi. La flessibilità del sistema normativo delineato dal legislatore ha certo aiutato gli operatori del diritto a rendere meno devastanti le conseguenze di questa vicenda storica, già note ai più. Ma tamponare la situazione non significa risolverla e, soprattutto, non significa eliminare in radice il problema. E, infatti, quel problema è riemerso, così travolgendo e cancellando tutti gli sforzi compiuti. Ma davvero dobbiamo continuare a chiudere gli occhi? Davvero dobbiamo ancora far finta che il problema non esista? Davvero dobbiamo continuare a chiedere aiuto e, nonostante ciò, non essere ascoltati? Oggi, il dibattito sulla questione torna in scena con più vigore: prese di posizioni forti, sfociate in comportamenti simbolici, come scioperi della fame, che cercano di affermare con più forza quello che le parole, a quanto sembra, non sono riuscite ad esprimere. Tutto qu esto dovrebbe far riflettere e dovrebbe spronare ad agire, concretamente, evitando di correre al riparo solo quando ci si trovi obbligati a farlo. La Corte europea dei diritti dell’uomo e la Costituzione sono chiare a tal proposito: i nostri diritti sono anche i diritti dei detenuti. *Avvocato, docente di diritto dell’esecuzione penale Mirabelli: “Celle meno piene grazie al Pd. M5S contro? Li convinceremo” di Angela Stella Il Riformista, 15 dicembre 2020 In Senato il Partito Democratico, durante la discussione sui decreti Ristori, non è riuscito a portare a casa tutti gli emendamenti presentati per alleggerire il peso dei detenuti in carcere. Oltre la netta opposizione della destra ha incontrato anche alcune contrarietà del Movimento Cinque Stelle. Ne discutiamo con il senatore Franco Mirabelli, vice capogruppo del Pd a Palazzo Madama. Senatore, quali emendamenti siete riusciti a far approvare? Sono passati gli emendamenti che prorogano al 31 gennaio 2021, cioè alla fine dello stato di emergenza, l’efficacia dei provvedimenti già contenuti all’interno del Decreto. Il primo riguarda la possibilità di ottenere gli arresti domiciliari per chi ha ancora 18 mesi da scontare; il secondo, che è il più efficace dal punto di vista della riduzione della popolazione carceraria perché riguarda circa 1300 detenuti e consente sia a chi ha permessi premio sia a chi ha quelli di lavoro, di restare fuori dal carcere fino al 31 gennaio. Quali invece quelli da voi proposti ma che non sono stati approvati? Tutte le proposte che abbiamo costruito le avevamo condivise con il mondo delle associazioni, con i Garanti dei detenuti e con tanti operatori. Avremmo voluto ottenere almeno altre due norme: per quanto concerne la liberazione anticipata speciale, passare dai previsti attuali 45 giorni di sconto di pena a 75 per tutti quei detenuti che abbiano intrapreso un percorso trattamentale, e il blocco dell’esecutività delle sentenze passate in giudicato. Per ora non ce l’abbiamo fatta ma continueremo a riproporre queste modifiche nei prossimi provvedimenti. Come mai non sono passati? Siete al Governo, quindi deduco che è mancato l’apporto del Movimento 5 Stelle? L’opposizione era molto contraria ai due provvedimenti; non era dunque solo il Movimento 5 Cinque a non condividere le ulteriori misure. Cercheremo nel prossimo futuro di far cambiare loro idea, come già abbiamo fatto su alcune questioni atte a ridurre la popolazione carceraria. Tutto quello che attualmente c’è nel decreto è stato ottenuto grazie all’iniziativa del Partito Democratico. È corretto dire, come alcuni critici obiettano, che sul tema giustizia il Pd va a traino del Movimento 5 Stelle? Non è assolutamente vero, lo dimostrano gli emendamenti approvati ma anche una certa sensibilità nuova rispetto alla valorizzazione delle misure alternative. Il tema vero è quello di un quadro culturale del Paese che è stato sollecitato soprattutto dalla destra che ha agitato le paure con il solito slogan “buttiamo via la chiave” smentendo il dettato costituzionale. Senatore mi scusi, però è stato il Partito Democratico a rifiutarsi di portare a termine i decreti attuativi sulle misure alternative scaturiti dagli Stati generali dell’esecuzione penale... Se guardiamo alle due ultime leggi di Bilancio, vediamo il personale che viene assunto per gestire il trattamento esterno al carcere. Ciò dimostra che c’è la volontà di proseguire e lavorare. Esiste una emergenza sanitaria in carcere oppure no? A me non pare che ci sia un’emergenza Covid nelle carceri, lo dicono anche i dati forniti dal Garante Nazionale dei detenuti e dal Dap. È chiaro che occorre prestare attenzione a quanto succede e lavorare affinché si riduca la popolazione carceraria non solo per garantire il distanziamento ma anche per avere spazi adeguati per la quarantena. E una emergenza carcere in generale? Esiste una patologia in questo Paese data da una condizione carceraria in cui persistono delle criticità circa il sovraffollamento, gli spazi detentivi e l’offerta trattamentale. La nostra idea, che è scritta anche nel piano del Governo, è quella di investire sulle strutture carcerarie, non tanto per costruire nuove carceri quanto per far sì che all’interno degli istituti di pena ci siano più spazi per lo studio, la formazione, il lavoro. Un altro modo per sconfiggere questa patologia è quello di ridurre i reati per cui si va in carcere: ciò significa più pene alternative ma anche aumentare il ricorso alle pene risarcitorie. Il carcere come extrema ratio dunque? Peccato che il ministro Bonafede con cui siete al Governo abbia tra i suoi slogan “certezza della pena” come “certezza del carcere”. No, io penso che quando il ministro parla di “certezza della pena” fa una cosa giusta: la certezza della pena ci deve essere. Dopo di che mi pare che il ministro abbia scritto nero su bianco insieme a noi una proposta di legge sulla riforma del processo penale in cui si evidenzia il tema delle pene risarcitorie e la trasformazione, per i reati più lievi, delle misure detentive in contravvenzioni. Col Decreto Ristori un mese in più di benefici straordinari di Teresa Valiani redattoresociale.it, 15 dicembre 2020 Maisto: “Cambia molto poco, se non si interviene a più livelli raccoglieremo solo rovine”. Slittano di un mese, dal 31 dicembre al 31 gennaio 2021 i benefici straordinari previsti dal decreto Ristori in materia di carcere messi in atto per alleggerire la pressione del sovraffollamento negli istituti di pena e contrastare i contagi da Covid 19. Dai dati del ministero della Giustizia aggiornati al 7 dicembre 2020, su un totale di 53.294 detenuti si registrano 958 positivi (tra i quali 20 nuovi giunti) di cui 868 asintomatici, 52 sintomatici in gestione interna agli istituti e 38 ricoverati in gestione esterna. Mentre sono 810 le persone positive nel corpo di Polizia penitenziaria che conta 37.153 unità. 72 positivi, invece, si registrano su un totale di 4.090 dipendenti tra personale amministrativo e dirigenti. È lo stesso senatore dem, Franco Mirabelli, ad annunciare dal suo profilo Facebook l’approvazione dei tre emendamenti da parte delle commissioni Economia e Finanze del Senato con i quali si posticipa “alla fine dello stato di emergenza, la scadenza delle norme già previste dal decreto, compresa quella che consente di ottenere gli arresti domiciliari a chi deve scontare meno di 18 mesi - scrive Mirabelli - e si consente di restare ‘fuori’ dal carcere fino al 31 gennaio ai detenuti che già hanno il permesso per lavorare all’esterno o altri permessi premio. Così per 1300 persone si apre la possibilità di non tornare a dormire in carcere. È un risultato certamente inferiore a quello che volevamo ottenere ma, certamente questi emendamenti sono migliorativi”. “Non è ancora quanto necessario, né quello che avevamo sperato, ma un mese in più di applicazione delle licenze e dei permessi straordinari sono qualcosa e il riconoscimento esteso anche ai ‘permessanti’ non ‘lavoranti’ ne amplia significativamente la platea - commenta il coordinatore dei garanti territoriale, Stefano Anastasìa. Ora tutto questo dovrà essere applicato dalla magistratura di Sorveglianza a cui spetta l’ultima parola su queste e altre misure utili a decongestionare le carceri nel pieno di questa terribile epidemia, e a cui chiediamo coraggio e celerità nella valutazione delle istanze”. Francesco Maisto, una carriera nella magistratura di Sorveglianza, oggi è il Garante dei detenuti per la città di Milano. Presidente, cosa cambia con i decreti? “Molto poco se si ha una visione complessiva del sistema penitenziario - spiega Maisto -. Vengono dimessi pochi detenuti, sia perché le misure alternative previste dal Governo sono del tutto inadeguate, sia perché poi, per un verso, l’osservazione e il trattamento, preliminari a tutte le misure alternative già vigenti (eccetto quelle motivate dalle patologie dei detenuti) sono notevolmente ridotte, in forza del ‘confinamento’ degli stessi nelle celle per la maggior parte della giornata, e per altro verso, a causa del distanziamento in carcere e col lavoro da remoto degli operatori penitenziari”. Qual è la situazione attuale dei penitenziari in relazione al Covid? “Credo che purtroppo ancora per molti mesi dovremo confrontarci ed avanzare proposte sul carcere nel tempo della pandemia da Covid. Viviamo tempi in cui le sinergie attivate nelle carceri nella prima fase della pandemia, sia per paura dell’ignoto del virus, sia spontaneamente a livello periferico senza impulso e coordinamento centrale, si sono, se non spente, molto ridotte. Colpisce soprattutto la repentina progressione del numero dei contagiati sia tra gli agenti di polizia penitenziaria che tra i detenuti. Abbiamo bisogno di istituzioni che non umiliano le persone. Rispetto agli spazi disponibili, nelle carceri entrano ancora in tanti ed escono di meno rispetto ai mesi passati. E lo spazio di questi tempi è come l’aria a causa del sovraffollamento. In Lombardia su una capienza di 6.156 posti ci sono 8124 persone, 1968 in eccesso, e nelle condizioni di restrizioni senza precedenti della pandemia”. Quante persone detenute saranno interessate dalle nuove disposizioni? “Entrano in carcere ancora in tanti e sono i più fragili. È emblematica e rappresentativa la tabella degli ingressi a San Vittore, del mese di novembre di questo anno delle tipologie degli arrestati in flagranza: su 131 arrestati 38 per piccolo spaccio di stupefacenti e 25 per rapina per strada. Per come si vive oggi il Covid in carcere commette questi reati solo chi non ha nulla da perdere o comunque si tratta di personalità multiproblematiche in mancanza della prevenzione primaria. Se non si interviene a più livelli raccoglieremo solo rovine. Si parla di circa 3000 beneficiari di queste misure, ma mi attesto per realismo sulla metà”. Quali altre misure urgenti bisognerebbe adottare? “A livello legislativo sarebbe efficace e avrebbe un alto valore simbolico ed educativo una misura, disposta caso per caso dal magistrato di sorveglianza, di aumento dei giorni di riduzione di pena, in considerazione della condotta e del surplus di sofferenza di questo gravoso tempo carcerario. Infine, una sospensione degli ordini di esecuzione per reati sino a un certo limite di pena, sino alla risoluzione dell’emergenza sanitaria, potrebbe dare respiro alle carceri. La maggiore sofferenza interna dei detenuti e delle loro famiglie e dei volontari sono dipesi dalla mancanza o dalla riduzione di salute e di informazione: a livello gestionale è necessario aumentare di molto la potenza del cablaggio degli istituti in modo da consentire i collegamenti per la formazione e per i colloqui dai piani dei reparti, se non dalle camere di pernottamento. E poi si avverte giustamente il bisogno di cura e di chiarezza sui servizi sanitari”. I detenuti al momento non sono tra le categorie prioritarie per il vaccino… “Una scelta - conclude Maisto - che spero venga rivista e non vorrei che fosse il prodotto di quella vulgata, poi smentita dai fatti, di alcuni mesi fa, che aveva confuso la cella del carcere con una camera iperbarica”. Conte incontra Colombo, Flick, Manconi e Veronesi e si impegna a discutere con Bonafede di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 dicembre 2020 Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sentirà il ministro della Giustizia per discutere delle misure per ridurre la popolazione detenuta. Una notizia che giunge dalla delegazione composta da Gherardo Colombo, Giovanni Maria Flick, Luigi Manconi e Sandro Veronesi, i quali ieri hanno incontrato Conte. Una occasione per esporgli le loro grandi preoccupazioni sulle condizioni attuali del sistema penitenziario italiano, dove il sovraffollamento, l’altissimo numero dei morti e dei suicidi e la diffusione del contagio, contribuiscono a rendere ancora più drammatica la vita per coloro che vi sono reclusi o vi lavorano. Nell’occasione hanno consegnato al Premier la lettera indirizzatagli da Rita Bernardini del Partito Radicale. Ricordiamo che è giunta oramai al 35esimo giorno dello sciopero della fame per chiedere che il governo e Parlamento si attivino per introdurre misure deflattive più efficaci. Alla consegna della lettera da parte della delegazione, Conte si è impegnato a incontrare Rita Bernardini. Ma non solo. La delegazione ha presentato al presidente del Consiglio le tre proposte per ridurre la popolazione detenuta, che in queste settimane hanno ottenuto maggior consenso da parte degli operatori, degli studiosi, dei magistrati e di quanti hanno a cuore le sorti delle nostre prigioni. Conte ha promesso che discuterà di queste proposte con il ministro della Giustizia, ripromettendosi di porre la questione a livello politico. Ha anche fatto sapere, che, appena possibile, visiterà un carcere. La delegazione, gli ha raccomandato di recarsi in uno di quelli dove la percentuale di sovraffollamento è più elevata. Nel frattempo si è perso il conto dei detenuti morti per Covid. Stando ai casi emersi finora, sono almeno 9 i reclusi deceduti nella sola seconda ondata. Due di loro erano al 41bis. Uno era Salvatore Genovese recluso al carcere di Opera, l’altro - deceduto venerdì scorso - è Mario Coco Trovato, 71 anni, al 41bis di Tolmezzo. Entrambi sono finiti in terapia intensiva dopo l’aggravarsi dei sintomi. I focolai nelle carceri si ritraggono, ma nello stesso tempo si espandono nelle altre. In un luogo chiuso e sovraffollato la diffusione del contagio è massima. Manca lo spazio per attuare il protocollo, distanza fisica e la gestione sanitaria è di difficile attuazione. Per questo servono misure deflattive più efficaci. Il premier pronto a incontrare Rita Bernardini di Angela Stella Il Riformista, 15 dicembre 2020 All’esponente radicale, in digiuno da 35 giorni, lo hanno comunicato Manconi, Colombo, Flick e Veronesi che ieri hanno visto Conte. A poche ore dal suo 35esimo giorno di sciopero della fame Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale e Presidente di Nessuno Tocchi Caino, ha ricevuto una lettera da Luigi Manconi, Gherardo Colombo, Giovanni Maria Flick e Sandro Veronesi che ieri hanno incontrato il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Cara Rita questo pomeriggio abbiamo incontrato il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte - scrivono i quattro firmatari - al quale abbiamo esposto le nostre grandi preoccupazioni per le condizioni attuali del sistema penitenziario italiano, dove il sovraffollamento, l’altissimo numero dei morti e dei suicidi e la diffusione del contagio, contribuiscono a rendere ancora più drammatica la vita per coloro che vi sono reclusi o vi lavorano. Abbiamo consegnato al Premier la lettera da te indirizzatagli ed egli si è impegnato a incontrarti”. Fanno riferimento ad una missiva che la Bernardini ha affidato a Luigi Manconi per consegnarla proprio al premier e nella quale spiega le ragioni della sua iniziativa nonviolenta volta a sensibilizzare le istituzioni a prendere misure per diminuire la popolazione carceraria in questo momento di emergenza sanitaria. “Ci ha fatto sapere - proseguono i quattro - che, appena possibile, visiterà un carcere e noi gli abbiamo raccomandato di voler recarsi in uno di quelli dove la percentuale di sovraffollamento è più elevata. Abbiamo presentato al Presidente del Consiglio quelle tre proposte per ridurre la popolazione detenuta, che in queste settimane hanno ottenuto maggior consenso da parte degli operatori, degli studiosi, dei magistrati e di quanti hanno a cuore le sorti delle nostre prigioni. Conte ha detto che discuterà di queste proposte con il Ministro della Giustizia, ripromettendosi di porre la questione a livello politico”. Non sarebbe male se, ad esempio, il premier Giuseppe Conte accompagnasse Rita Bernardini in un carcere proprio il giorno di Natale, come da tradizione radicale. Intanto però non arrivano buone notizie sul tema carcere e sulle modifiche al processo d’appello al termine della presentazione degli emendamenti al decreto Ristori. Come sottolineato da una nota dell’Ucpi, i penalisti italiani nei prossimi giorni proseguiranno la loro “attività di interlocuzione e mobilitazione affinché il Parlamento adotti misure per il concreto alleggerimento delle condizioni del carcere e definitivamente cancelli la camera di consiglio da remoto”, invitando “le forze politiche di maggioranza e opposizione, che in queste ultime settimane hanno assunto l’impegno per una iniziativa parlamentare di modifica della disciplina dell’appello per la fase dell’emergenza e hanno condiviso l’allarme per le conseguenze della pandemia nel carcere, ad intervenire nel percorso di conversione dei decreti legge con ulteriori proposte di emendamenti e modifiche nel dibattito d’Aula e nella discussione alla Camera dei deputati”. Donne in carcere: dimenticate oltre lo stigma di Caterina Caparello Corriere della Sera, 15 dicembre 2020 Barbara è la capitana dell’Atletico Diritti, squadra di calcio a 5 femminile del carcere di Rebibbia. A maggio è stata convocata da papa Francesco. Ha provato una forte emozione recitando, davanti al Santo Padre, una poesia in romanesco: “E chi l’avrebbe mai creduto che er Papa desse udienza a ‘n detenuto. Co’ tutto er da fa’ che er popolo j’ha dato ha trovato er tempo pè me…’n carcerato”. A quell’incontro, Barbara non è mai stata considerata una detenuta ma una calciatrice. E prima di tutto una persona. La sfida più grande per le detenute è proprio questa, abbattere i pregiudizi. In prima linea, nella lotta per i diritti e le garanzie nel sistema penale e penitenziario, c’è l’associazione Antigone che ha recentemente pubblicato il XVI rapporto sulle condizioni detentive, mostrando come a fine febbraio, su 61.230 detenuti in Italia (a fronte di una capienza di 50.931 posti), le donne fossero in tutto 2.702, il 4,4% dei presenti. Al 30 aprile il dato femminile è fermo a 2.224 detenute, rappresentando il 4,13% delle presenze e raggiungendo il minimo storico del 2015. Le donne in carcere sono quindi molto meno rispetto agli uomini, un numero che si deve principalmente alle misure intraprese per il contenimento del contagio da coronavirus nelle carceri. Ma qual è la loro condizione e quali le problematiche? Innanzitutto è necessario tener presente che le detenute si trovano sparse tra i quattro istituti di pena femminili presenti in Italia, quali Roma (“G. Stefanini” Rebibbia, il più grande d’Europa), Pozzuoli, Trani, Venezia (“Giudecca”), e le 44 sezioni femminili all’interno di carceri maschili: 519 le donne ristrette nei primi, 1.705 nelle seconde. “Le donne che non si trovano negli istituti di pena vengono alloggiate in sezioni femminili, ovvero ospitate all’interno di carceri maschili - spiega Susanna Marietti, coordinatrice Nazionale di Antigone. Queste sezioni, ora diminuite a 44 partendo da 60, presentano delle problematiche come ad esempio la dimensione. Alcune sono piccolissime, ospitano 3-4 donne o addirittura una sola, di conseguenza il direttore che gestisce il carcere tende a dislocare tutte le risorse sulla parte maschile e poco o niente verso quella femminile”. Il problema che si viene a creare è di negligenza, poiché si tiene in considerazione solo la sezione maschile, più numerosa. “Senza generalizzare, in quelle sezioni femminili si rischia di vivere in maniera abbandonata. Ma la soluzione non è semplice da trovare e sicuramente non è possibile chiuderle, significherebbe infatti trasferire le donne in carceri più lontani. Di conseguenza le si allontanerebbe dalla propria casa, dai colloqui e soprattutto dai figli”. Ed è proprio la questione dei figli ad essere una delle problematiche principali delle donne detenute. Figli che spesso si trovano dentro assieme a loro. Al 30 aprile sono infatti 34 le detenute con figli (40 a carico) presenti nelle carceri in Italia. “Nel 2001 la legge Finocchiaro (legge 40/2001 ndr) ha tentato di render più difficile l’uso di misure cautelari per donne con bambini, prevedendo un possibile rinvio della pena. Un rinvio facoltativo che serviva soprattutto a introdurre l’istituzione della Detenzione Domiciliare Speciale, una forma di detenzione domiciliare cui potevano accedere le donne con figli sotto i 10 anni. Ma questa legge prevedeva anche che il giudice di sorveglianza avrebbe dovuto valutare che la donna non tornasse a commettere il reato, oltre a dimostrare il ripristino della convivenza con il figlio in un luogo idoneo. Proprio queste due clausole hanno reso molto difficile l’applicazione della norma e la sua concessione” continua Marietti “Prendiamo come esempio le donne rom. I campi rom non venivano considerati un luogo idoneo per il ripristino della convivenza, quindi queste donne non potevano dimostrare di essere tornate a vivere con il figlio. 10 anni dopo, nel 2011 (legge 62/2011 ndr), si è introdotta una nuova legge che ha dato vita alle Case famiglia protette. A quel punto se la donna aveva diritto alla detenzione domiciliare speciale, ma senza un luogo idoneo, poteva vivere in queste case famiglia. Purtroppo la legge non prevedeva coperture finanziarie e ha lasciato agli enti locali la loro creazione. In tutta Italia ce ne sono solo due: una a Roma e una a Milano”. Sì alla detenzione domiciliare speciale nelle case famiglia ma a spese dei singoli Comuni. Infatti ne esistono solo due. La presenza e l’assenza dei figli porta comunque le donne a provare un forte senso di colpa per la loro condizione, sentono di non aver rispettato il loro ruolo di madri e di mogli e sentono di essere rimaste sole. “Rispetto agli uomini, vivono maggiormente lo stigma sociale. Ad esempio, perdono più facilmente le relazioni sociali, rompono i rapporti con la famiglia di origine e con il proprio partner, creando quel vuoto intorno a loro che, quando escono dal carcere, è più difficile da ricucire” chiosa la segretaria. Sono donne che hanno vissuto condizioni di marginalità sociale, di disagio e spesso vittime di abusi. “Il periodo detentivo non fa altro che accrescere questa marginalità. Tendenzialmente la composizione sociale delle donne detenute è di microcriminalità, reati piccoli e frequenti. È un po’ un circolo vizioso. Tante ragazze rom che ho conosciuto sono vittime di qualcosa di più grande di loro, la spiegazione che danno è “perché si fa così”, fanno quindi molti figli e poi vanno in carcere. Ma c’è anche un forte problema psicologico, parliamo di donne che non hanno mai iniziato una terapia fino all’arrivo in carcere e che, uscendo, la interrompono. Una terapia non portata a termine rischia a volte di fare peggio”. Tutto questo non deve escludere la possibilità di riprendere in mano la propria vita, scegliere di non delinquere e avere delle opportunità di rivalsa. “Purtroppo le opportunità non vengono costantemente date alle persone detenute. Il carcere è un sistema pachidermico che non sempre funziona bene e in cui moltissimo è demandato alle iniziative del singolo. A seconda di dove si capita si possono scontare pene differenti, un direttore è migliore da una parte e non lo è dall’altra. Manca omogeneità. È come se non ci fosse un pensiero centralizzato fatto di programmazioni serie, perché è un tema che non interessa più di tanto alla società. In realtà il carcere dovrebbe dare delle opportunità per ricominciare daccapo e con un altro piede, soprattutto attraverso la cultura e l’istruzione” conclude Marietti. Il diritto giusto e la paura. Gli italiani e la pena capitale di Luigi Manconi La Repubblica, 15 dicembre 2020 Il congedo di Donald Trump dalla Casa Bianca sarà accompagnato dall’accelerazione delle esecuzioni capitali, mai così numerose nel periodo di transizione da una presidenza all’altra. È come se Trump volesse imprimere un segno inesorabilmente crudo sul proprio lascito di potere. È un messaggio altamente simbolico, che ci parla non solo di un’idea di giustizia, ma anche del significato di concetti come libero arbitrio e responsabilità. Sono le stesse categorie che, lette in un senso totalmente opposto, nel 1764, trattava il ventiseienne Cesare Beccaria, in un libro di non troppe pagine, nel quale si poteva leggere “pareti un assurdo che le leggi [...] che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”. Quello della pena capitale è un fantasma che periodicamente ritorna nelle paranoie collettive. Abrogata definitivamente in Italia nel 1994, quando venne cancellata anche dal Codice penale militare di guerra, essa viene nominata occasionalmente da esponenti politici: per evocarla, fingendo di esorcizzarla: “Pena di morte? Non dico di arrivare a tanto” (Matteo Salvini) o per reclamarla sgangheratamente: “Io, per quelli del Mose, dell’Expo e della Tav vorrei la ghigliottina [...]. Con la ghigliottina la morte è più evocativa” (Michele Giarrusso, senatore ex M5S). È come se per alcuni la pena capitale debba rimanere lì, citazione oscena da brandire contro il politicamente corretto della mitezza del diritto, o parametro estremo sul quale misurare pene comunque terribili, capaci di vendicare le offese e di annichilire i rei. Ne consegue che la pena di morte sembra destinata a non dileguarsi una volta per tutte dal nostro spazio mentale, ma resta a covare nell’inconscio collettivo e a emergere nelle fasi di crisi più acuta. Come una soluzione che non si osa dire, ma che pure inquieta e tenta. Quasi quarant’anni fa, in “Pena di morte e opinione pubblica”, (Istituto Cattaneo, 1983), due sociologi di vaglia, Piergiorgio Corbetta e Arturo Parisi, a commento di una ricerca condotta su un campione nazionale, sottolineavano come la distanza tra i favorevoli all’esecuzione capitale e i contrari, fosse netta: 58% contro 42%. E notavano, tuttavia, che rispetto a un’indagine del 1974 (67% di favorevoli), la percentuale era sensibilmente calata. Altro dato significativo: la tendenza alla riduzione dei favorevoli si era manifestata nel corso di un decennio passato alla storia sotto il nome di “anni di piombo” (mentre fu anche un periodo di profonde riforme). Quasi che la domanda di esecuzione capitale non sia necessariamente dipendente dalla minaccia rappresentata dalla criminalità comune e politica. Dunque, la richiesta di una pena estrema sembra non essere correlata direttamente alla gravità dell’insidia dalla quale quella pena dovrebbe difendere. oggi, secondo il 54° rapporto del Censis, gli italiani favorevoli alla pena di morte sono il 43,7%, e la percentuale cresce nella fascia di età tra i 18 e i 34 anni, mentre è assai inferiore in quella dai 65 anni e oltre. Per capirci, se ci troviamo in un teatro o in un centro commerciale, ricordiamoci che quasi la metà delle persone intorno a noi vede di buon occhio il ripristino della forca. Questo mentre i dati relativi ai crimini sono in costante calo da trent’anni. Basti ricordare che gli omicidi volontari erano 1.794 nel 1990 e si sono via via ridotti fino ai 308 del 2019. Parallelamente sono diminuiti tutti i reati (con la sola eccezione di quelli informatici e di usura), compresi quelli cosiddetti “di strada”, che più pesano sulla vita quotidiana e più suscitano allarme sociale. Dunque, il fatto che la sicurezza continui a rappresentare la principale preoccupazione dei cittadini non dipende dall’immanenza della criminalità, bensì da quello che lo stesso Censis definisce come “la paura dell’ignoto e l’ansia conseguente”. La combinazione tra la crisi economico-sociale e l’angoscia da pandemia determina una situazione di smarrimento e incertezza del vivere alla quale si tenta disperatamente di porre rimedio con misure d’eccezione, tanto meglio se sbrigative. In una condizione nevrotica anche agitare un cappio può sembrare rassicurante. Resta un’ultima considerazione. Come ha scritto il leader dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”, Sergio d’Elia, la pena di morte mai andrebbe sottoposta a un sondaggio di opinione, perché essa riguarda direttamente la vita umana e la sua intangibilità. E, dunque, non può mai dipendere dalle oscillazioni degli umori e dei rancori, dalle pulsioni del profondo e dalle efferatezze dei demagoghi. Dl Ristori, restano le Camere di consiglio da remoto. La mobilitazione dei penalisti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 dicembre 2020 Disciplinato l’invio per posta elettronica certificata degli atti di impugnazione e di riesame; la pec ora consentirà anche il deposito dei motivi nuovi ed aggiunti. Per i penalisti ci sono più ombre che luci negli emendamenti ai Decreti legge Ristori (Dl 137 e 149) approvati dalle Commissioni riunite Bilancio e Finanze del Senato, nella notte tra venerdì e sabato, integrati in un testo unificato che è atteso per oggi all’esame dell’Aula. Nessuna modifica infatti si registra né sul tema dell’appello da remoto né sulle carceri, parzialmente positivi invece gli interventi in materia di impugnazioni. Con i commi 6 bis e 6 decies all’articolo 24, si è infatti disciplinato l’invio per posta elettronica certificata degli atti di impugnazione e di riesame; la Pec ora consentirà anche il deposito dei motivi nuovi ed aggiunti. “Si è così rimediato - commentano le Camere penali - alla incredibile, e per alcuni aspetti drammatica, situazione che si era determinata a seguito di alcune pronunce di inammissibilità di impugnazioni proposte via pec”. Le modalità di deposito per via telematica sono state rigidamente disciplinate prevedendo esplicitamente nuove cause di inammissibilità. “La nuova formulazione - affermano i penalisti - mette finalmente al sicuro il deposito delle impugnazioni via pec”. “È però grave - aggiungono - che la declaratoria di inammissibilità per le violazioni relative alla sottoscrizione digitale e agli altri casi previsti dal comma 6 sexies sia dichiarata dal giudice che ha emesso il provvedimento impugnato”. Anche perché, spiegano, una simile previsione è priva di qualsiasi relazione con la pandemia, e tende piuttosto “a rivisitare il sistema delle impugnazioni attribuendo inediti poteri al giudice a quo finalizzati addirittura ad impedire il passaggio al secondo grado di giudizio”. Con il comma 6-decies poi si prevede una sorta di sanatoria: sono ritenuti validi infatti gli atti di impugnazione trasmessi via pec sin dalla data di entrata in vigore del decreto legge. Con un ulteriore intervento si è invece esteso il divieto di procedere con forme di remotizzazione per l’incidente probatorio. Una modifica che piace all’Avvocatura. Ma sono numerosi e di peso gli emendamenti rimasti al palo. Restano, per esempio, invariate le norme che consentono la camera di consiglio da remoto nel processo di appello quando l’udienza non sia stata partecipata, una norma emergenziale definita più volte “una assurdità” dai legali. Nessun intervento neppure sulla sospensione della prescrizione e sulla proroga della custodia cautelare per motivi legati all’andamento della pandemia, “e non dunque - chiosano gli avvocati - per fatti causati dall’imputato”. Nulla poi si è previsto sul fronte carceri, dove non sono previste misure per alleggerire la situazione. Un emendamento delle senatrici del Movimento 5 Stelle, Grazia D’Angelo e Bruna Piarulli, ha però previsto oltre 3,6 milioni di euro “per pagare per il periodo che va dal 16 ottobre al 31 dicembre - spiegano-, gli straordinari agli agenti della Polizia Penitenziaria impegnati in una fase particolarmente delicata di lavoro all’interno delle carceri”. L’Unione delle Camere Penali rivolge dunque un invito alle forze politiche, di maggioranza e opposizione, “ad intervenire nel percorso di conversione dei decreti legge con ulteriori proposte di emendamenti e modifiche nel dibattito d’Aula e nella discussione alla Camera dei Deputati”. “Le decisioni collegiali da remoto e la resistenza a misure di alleggerimento del sovraffollamento carcerario - proseguono i penalisti - non sono rivendicate da alcuna forza politica, sono avversate dall’avvocatura e da tanta parte della magistratura che in diverse sedi giudiziarie ha sottoscritto protocolli per garantire che la decisione in grado di appello sia presa dal giudice che siede nella sua sede naturale”. Per queste ragioni, nelle prossime ore e nei prossimi giorni, l’Ucpi “continuerà l’attività di interlocuzione e la mobilitazione affinché il Parlamento adotti misure per il concreto alleggerimento delle condizioni del carcere e definitivamente cancelli la camera di consiglio da remoto”. Giustizia e Recovery Fund: piano confuso, che non tocca il potere dei pm di Astolfo Di Amato Il Riformista, 15 dicembre 2020 La bozza del piano predisposto dal Governo per la gestione dei miliardi, che saranno attribuiti all’Italia nell’ambito del Recovery Fund, dedica ben 11 pagine (da 29 a 39), su 124, alle riforme in tema di giustizia. È il primo argomento, in tema di riforme di sistema, a essere affrontato. L’esordio afferma quella che, dopo essere stata ripetuta inutilmente per vari decenni, è divenuta una banalità: “Nelle loro decisioni di investimento, le imprese hanno bisogno di informazioni certe sul quadro regolamentare, devono poter calcolare il rischio di essere coinvolte in contenziosi commerciali, di lavoro, tributari o in procedure di insolvenza; devono poter prevedere tempi e contenuti delle decisioni”. Segue, poi, l’enumerazione degli interventi normativi e materiali per raggiungere l’obiettivo. Quanto ai primi, il documento richiama i disegni di legge già presentati in Parlamento e che riguardano il processo civile, il processo penale, l’ordinamento giudiziario e il Consiglio Superiore della Magistratura. Quanto ai secondi, si prevede un maggiore utilizzo dei giudici onorari e l’immissione temporanea di personale necessario per convertire in modo efficiente la macchina della giustizia. I vari punti meritano di essere considerati con attenzione, a dispetto dell’estrema superficialità con cui sono trattati nel documento. La prima osservazione è che un concetto, correttamente considerato decisivo nell’introduzione, è poi totalmente ignorato nel successivo sviluppo. Alla prevedibilità del contenuto delle decisioni non è dedicato neppure un cenno, sebbene si tratti di un aspetto fondamentale per giudicare l’affidabilità di un sistema giustizia. È certamente un tema assai delicato, coinvolgendo questioni quali quelle dell’indipendenza del singolo magistrato, della responsabilità di chi giudica, della necessità di non ostacolare l’evoluzione giurisprudenziale. Tuttavia, il problema esiste e chi ha esperienza di investimenti esteri in Italia sa che, dopo la prima o al massimo la seconda esperienza di giustizia cervellotica, l’investitore fugge. Del resto, che la giustizia debba svolgersi secondo binari di ragionevolezza è consapevole lo stesso documento, laddove prevede (p. 31) che l’amministrazione della giustizia debba essere considerata soggetto danneggiato nel caso di lite temeraria. Perciò, sì alla sentenza anche se priva della più elementare base giuridica, no alla lite infondata. Se si passa, poi, a considerare le riforme delle procedure, che dovrebbero accorciare i tempi della giustizia, il cuore è costituito dall’attribuzione di un ruolo centrale ai riti e agli strumenti alternativi. In sede civile è prevista la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, “in un’ottica di forte intensificazione del ricorso a questi ultimi”. Sennonché si tratta di una prospettiva perseguita ormai da vari decenni e che ha dato sinora risultati poco significativi. Quale sia la bacchetta magica che possa assicurare in futuro destini migliori a questa soluzione non è dato comprendere. Sognare non costa niente! Con riferimento alle procedure volte a definire l’insolvenza delle imprese, il piano fa affidamento sull’entrata in vigore, il 1° settembre del 2021, del nuovo codice della crisi di impresa. Ma tutti sanno che quel codice è stato formulato avendo riguardo a un mercato in buona salute, nel quale le imprese malate vengono subito o risanate o espulse per fare spazio a nuove iniziative. Ebbene, la previsione di tutti è nel senso che il mercato italiano sarà un malato grave per molto tempo. Certamente ben oltre il 2021. Pensare di risolvere i problemi di una economia, che vede le imprese in generale grave difficoltà, facendo entrare in vigore quel codice è puro avventurismo. In sede penale, dovrebbe essere conseguita una “drastica riduzione dei casi in cui il procedimento sfocia nel dibattimento”, il quale dovrebbe essere riservato a un numero residuale di casi, “come avviene nel sistema statunitense, dove la gran parte dei procedimenti è definita mediante diverse forme di plea bargaining”. Evidentemente, chi ha redatto il documento non è al corrente di due aspetti. Il primo è che, dietro il paravento della obbligatorietà dell’azione penale e attraverso la sistematica disapplicazione della regola che impone al pubblico ministero di ricercare anche le prove a favore dell’imputato, il numero delle accuse del tutto cervellotiche è in Italia altissimo: nei vari gradi di giudizio si definisce con un’assoluzione ben oltre il 50% dei processi. È davvero incomprensibile come si possa pensare di indurre gli interessati a definire questi casi con un patteggiamento. Molto più proficuo sarebbe tenere conto delle imputazioni a vanvera nella valutazione di carriera dei pubblici ministeri. Il secondo aspetto è sorprendente ove si consideri che il piano è stato redatto da un Governo, espressione di una coalizione che si dichiara fondamentalmente ispirata a principi di solidarietà. È noto a tutti che il successo del patteggiamento negli Stati Uniti trova la sua ragione primaria nella difficoltà economica per le classi meno abbienti di sostenere i costi di una difesa. Suona, perciò, davvero strano il riferimento a quel sistema. Da ultimo, una incongruenza. Il documento si riferisce alle varie forme di plea bargaining. E infatti, negli Stati Uniti è previsto anche un tipo di patteggiamento che non lascia alcuna conseguenza sulla successiva vita della persona, salvo la pena inflitta. Il patteggiamento contemplato nell’originaria formulazione del codice Vassalli era configurato esattamente in questi termini, ma, dagli anni Novanta e sino ai giorni nostri, si è assistito a una progressiva demolizione di quell’istituto, che ormai è assimilato a tutti gli effetti a una vera e propria sentenza di condanna, con tutte le relative conseguenze negative in tema, ad esempio, di possibilità di avere rapporti con la pubblica amministrazione o di onorabilità per l’accesso a determinate cariche. Di cosa si tratta? Di una “battuta” o di un radicale cambio di rotta su un tema così sensibile, senza alcun adeguato dibattito in sede politica? Infine, le risorse: personali e materiali. Per queste ultime c’è poco da dire, atteso che il documento non contiene alcuna cifra. Si tratterà, come al solito per la giustizia, delle briciole. Vale la pena, tuttavia, sottolineare che a p. 38 si prevedono per l’ennesima volta interventi di edilizia carceraria, nella prospettiva di rafforzare quell’effetto preventivo, che per larga parte dell’attuale Parlamento è lo scopo principale della pena, a dispetto della finalità rieducativa prevista dall’art. 27 della Costituzione. Per quello che concerne le risorse personali, due notazioni. La prima è che è previsto un ricorso massivo, persino in Cassazione, ai giudici onorari. Dunque, a questo ruolo di precari della giustizia, già oggi oggetto di uno sfruttamento spesso ignobile, è assegnato un compito decisivo per il superamento della crisi. Ma l’amore per il precariato non finisce qui. Anche la riorganizzazione e la modernizzazione degli uffici dovrebbero avvenire attraverso l’impiego temporaneo di gruppi di specialisti (altre task force?). Senza considerare che il vero tema è la riqualificazione e la motivazione del personale, da troppo tempo abbandonato alla buona volontà dei singoli. In conclusione, un piano vago, confuso, spesso contraddittorio. Il Presidente del Consiglio ha scritto, nella premessa al piano Next Generation Italia, “per uscire da questa crisi e per portare l’Italia sulla frontiera dello sviluppo europeo e mondiale occorrono (sic) un progetto chiaro, condiviso e coraggioso per il futuro del Paese”. L’Anm si schiera al fianco dei giudici onorari: “Il loro contributo non deve essere svilito” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 dicembre 2020 Va certamente considerata come una svolta importante la presa di posizione assunta due giorni fa dall’Anm sulla battaglia che sta conducendo la magistratura onoraria in questi giorni: “Si susseguono - si legge in una nota - manifestazioni di protesta dei magistrati onorari in servizio che, lamentando un contesto di incertezza di tutele e di precarietà sul piano previdenziale e retributivo, reclamano il riconoscimento della dignità della funzione. L’Associazione nazionale magistrati esprime la ferma convinzione che non debba essere svilito il ruolo e quindi dimenticato l’importante contributo fornito dai giudici e dai pubblici ministeri onorari”. Per tali ragioni, l’Anm “auspica che il Governo e il Parlamento reperiscano le risorse finanziarie necessarie ad approntare le più opportune tutele economiche, previdenziali e sociali”. “È significativo - commenta al Dubbio Eugenio Albamonte, segretario di Area ed ex presidente dell’Anm - che, anche a seguito del recente cambio della governance, la posizione dell’Anm nei confronti della magistratura onoraria non solo non è cambiata ma si sia rafforzata”. Dunque è evidente una compattezza della magistratura togata e non nel richiedere un cambiamento da parte delle istituzioni. Lo dimostra, tra l’altro, anche l’iniziativa della Procura della Repubblica di Parma: nei giorni 15 e 17 dicembre il Procuratore capo Alfonso D’Avino e tutti i sostituti procuratori “andranno in udienza per garantire la regolare celebrazione dei processi, ma nello stesso tempo per rappresentare l’unitarietà dell’ufficio stesso e la sua vicinanza alle aspettative della magistratura onoraria che, in definitiva, finiscono per coincidere con gli interessi degli uffici stessi”. Qualche giorno fa era stato il Procuratore capo di Milano Francesco Greco, insieme ad alcuni colleghi, a tornare in aula come rappresentante dell’accusa per sostituire i vice procuratori onorari che erano in sciopero. L’ostacolo ad una riforma seria sembra essere l’immobilismo del Ministro Bonafede a cui i magistrati onorari in astensione, alcuni dei quali anche in sciopero della fame, non riescono a perdonare l’infelice frase “la magistratura onoraria ha la finalità di contenere il numero dei togati, pena la perdita di prestigio e la riduzione delle retribuzioni della magistratura professionale”. Cercando di ridimensionare la questione Albamonte ci dice che “una espressione può sfuggire soprattutto se inserita in un testo elaborato a più mani”, però rimane fermo su un paradigma da cui non si può più prescindere per affrontare le questioni di riforma della giustizia: “l’approccio che mira a contrapporre le posizioni va completamente abbandonato; una contrapposizione di interessi tra magistratura onoraria e togata, come tra la magistratura e qualsiasi altro operatore della giustizia, a partire dagli avvocati, va assolutamente archiviata. Non si può più pensare di governare la giustizia frazionando i fronti e mettendo gli uni contro gli altri. Abbiamo fatto molti passi in avanti nelle varie rappresentanze professionali per cadere in queste trappole”. Intanto il Movimento Cinque Stelle ha fatto approvare un emendamento approvato al decreto Ristori che prevede che “l’indennità di udienza che spetta ai giudici onorari di Tribunale” venga “riconosciuta anche nel caso di udienza civile a trattazione scritta, prevista per la fase di emergenza Covid, esattamente come avviene per l’udienza civile in presenza”. Tuttavia la forza politica che rivendica da sempre un sostegno pieno alle richieste della magistratura onoraria è Fratelli d’Italia, la cui leader Giorgia Meloni ha dichiarato: “da anni la magistratura onoraria tiene in piedi la giustizia italiana ma non ha nessun diritto. Fratelli d’Italia ritiene invece che sia una priorità mettere fine a questa ignobile discriminazione”. Il paese che ha arrestato Enzo Tortora può ottenere la verità su Giulio Regeni? di Gioacchino Criaco Il Riformista, 15 dicembre 2020 C’è ipocrisia nella nostra sorpresa rispetto alla mancanza di risposte da parte del governo egiziano. Ipocrisia perché queste risposte non le abbiamo avute neanche dal nostro governo. Fra meno di un mese saranno trascorsi 5 anni dalle torture e dall’assassinio di Giulio Regeni, ricercatore italiano, giovanissimo, ucciso in Egitto. E fra poco più di un mese sarà un anno che l’attivista Patrick Zaki è imprigionato in Egitto. Ferite dolorose nel cuore di molte persone, che sinceramente piangono il primo e vorrebbero non dover piangere il secondo. Sentimenti nobili, sinceri, e del resto: bisognerebbe appartenere a una razza senza anima per non sentirsi aprire le pieghe del cuore ogni volta che si ascolta il nome di Giulio, si vede una sua immagine sorridente, si ode l’ennesimo appello, pacato, fermo, carico d’amore dei suoi genitori. Non si può, se si è gente comune, non chiedere verità per Giulio e libertà per Patrick. Verità e libertà che però si intingono nell’amaro dell’ipocrisia quando da bocche normali passano su lingue potenti, su coscienze edotte. E molti, molti in Italia dovrebbero almeno tacere, perché infinite sono le verità negate sul dolore di migliaia di famiglie a cui sono mancati figli, madri, padri, parenti, amici. L’Italia è la patria delle stragi impunite, di moltitudini di morti irrisolte, perpetrate in nome di chissà quale ottusa e cinica ragion di stato. E c’è ipocrisia nella nostra sorpresa rispetto alla mancanza di risposte dal Governo egiziano. Ipocrisia in noi che risposte pesanti non le abbiamo mai avute dal Governo italiano e viviamo come uno scandalo il silenzio di Al-Sisi, quando lo scandalo vero è il silenzio della nostra politica, costante, impudente, dal passato al presente. Noi vogliamo verità per Regeni e libertà per Zaki, ma siamo il Paese che ci mette anni per dire la verità su Cucchi, ed è una verità una e mica è verità quella su Pinelli, siamo il Paese che ha imprigionato Tortora, che ha assolto Mannino dopo quasi trent’anni, che ti fa rosolare in galera un numero indeterminato di anni prima di darti un esito. Un Paese che per alcune categorie commina il carcere fino alla morte, mette l’umanità dietro a un vetro, decide cosa possa leggere un prigioniero, cosa possa mangiare quando può dormire o stare sveglio, ne spia le frasi scritte e ne ascolta le parole, ne guarda i gesti ogni secondo di una giornata. Siamo il paese del 41bis, la morte in una vita da accanimento terapeutico. Il posto in cui i malati stanno e muoiono in carcere, e ci restano anche se sono vecchi, se non riescono a badare a se stessi, chiusi in trappola col Covid-19. Ci adombriamo per la legion d’onore data ad Al-Sisi, ma fingiamo di non conoscere la ragione del perché il terrorismo islamico ci schiva: semina morte in tutti i paesi occidentali e salta l’Italia. E anche gli altri Paesi si potrebbero adombrare. E forse più che le medaglie francesi, gli occidentali, tutti, dovrebbero rinunciare agli orpelli di un benessere che sorge e si mantiene su un mondo che è stato costruito male, con una ingiustizia che miete vittime normalmente nella sua parte fragile. I nostri morti sono morti uguali a quelle infinite del lato sfortunato, e tutte dovrebbero essere morti nostre e di tutte dovremmo chiedere verità. E per tutti dovremmo chiedere libertà. Giulio è un dolore immenso, e se in maggioranza fossimo come è stato lui in vita, non avremmo più due mondi, ma uno soltanto, e migliore. E intano che quell’unità ci colga, gli altri li lasciamo annegare, li lasciamo a marcire in galera. Restiamo immersi nella nostra ipocrisia e non ce la facciamo a rinunciare a nulla di quello che continua a rendere diseguale il mondo. Stiamo qui, trepidanti, nell’attesa del Natale che, forse, ci permetteranno di trascorrerlo con le nostre famiglie. Morte Raciti, Speziale libero: “Ultima notte in cella, hai pagato senza essere colpevole” di Giovanni Pisano Il Riformista, 15 dicembre 2020 “Questa sarà la tua ultima notte in cella. Hai pagato senza essere colpevole, a testa alta e senza mai mollare”. È il messaggio rivolto da un amico ultras ad Antonino Speziale, 25 anni, e ai suoi genitori, Roberto e Rosa (famiglia umile e di lavoratori), a poche ore dal ritorno in libertà del giovane tifoso del Catania dopo circa 8 anni di carcere per la morte dell’ispettore di polizia Filippo Raciti. “Domani è un giorno speciale, inizia una nuova vita anche voi e la vostra famiglia, la verità è figlia del tempo” scrive Terenzio Giordano, tifoso della Cavese. Domani, martedì 15 dicembre, Antonio Speziale uscirà dal carcere dopo aver pagato, senza prove schiaccianti, per l’omicidio preterintenzionale di Raciti avvenuto il 2 febbraio del 2007, a Catania, durante uno scontro violentissimo tra tifosi del Catania e del Palermo. Nonostante gli appelli del suo legale, Giuseppe Lipera, che nei mesi scorsi aveva chiesto il trasferimento agli arresti domiciliari a causa delle gravi patologie che affliggono Speziale, l’allora 17enne tifoso catanese ha scontato l’intera pena in carcere. Speziale tornerà libero a poche settimane di distanza dalla testimonianza, raccolta da Le Iene, di una donna vicina alla famiglia Raciti, che rivela di aver sentito, durante la sepoltura dell’ispettore, un poliziotto rivolgersi al padre di Raciti: “Le dobbiamo porgere le scuse in quanto polizia - avrebbe detto l’uomo in divisa - perché è stato un errore di un collega nel fare la manovra”. Ad uccidere Raciti quella notte non sarebbe stato il colpo di un sotto-lavello (incompatibile con i danni fisici che hanno cagionato la morte dell’ispettore di polizia) inferto dall’allora ultrà catanese Antonino Speziale - condannato a otto anni e otto mesi per omicidio preterintenzionale - ma il fortuito incidente con il Discovery della polizia che, in retromarcia per sfuggire alle pietre e alle bombe carta dei tifosi, avrebbe schiacciato l’ispettore. Va sanzionato il detenuto che definisce “lager” il carcere di Attilio Ievolella dirittoegiustizia.it, 15 dicembre 2020 Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza n. 35516/20; depositata l’11 dicembre. Fatale una missiva in cui l’uomo costretto dietro le sbarre definisce “lager” la struttura penitenziaria. Evidente, secondo i giudici, l’oltraggio compiuto nei confronti degli operatori del carcere. Legittimo, quindi, il provvedimento con cui il detenuto è stato escluso per quindici giorni dalle attività in comune. Un detenuto trattenuto nel carcere di Sassari lamentava di non aver ricevuto una somma di denaro dopo essere stato “deportato nel lager di Rebibbia”. La direzione del carcere di Rebibbia sanzionava quindi il detenuto con 15 giorni di esclusione dalle attività in comune. Il Magistrato di Sorveglianza e il Tribunale di Sorveglianza ritenevano legittimo il provvedimento adottato dalla direzione visto l’atteggiamento offensivo del detenuto nei confronti degli operatori della struttura penitenziaria. I giudici integravano la sanzione imposta all’uomo vietandogli anche l’acquisto di generi alimentari giacché nel periodo di “esclusione dalle attività in comune” sono già previsti per legge “vitto ordinario e la normale disponibilità di acqua”. Inaccettabile l’appello al “diritto alla manifestazione di pensiero” vista l’offesa diretta alla professionalità degli operatori penitenziari oltraggiati “con la riconduzione al ruolo di aguzzini e torturatori”. Il provvedimento, secondo i Giudici, “attiene alle modalità con cui legittimamente è eseguita la sanzione dell’esclusione dalle attività in comune”. È inoltre logico ritenere che “durante quel periodo non si abbia possibilità per il detenuto di acquisto di generi alimentari aggiuntivi”. Toscana. Il Garante Fanfani: “diamo ai detenuti la possibilità di stringersi alle famiglie” di Domenico Mugnaini toscanaoggi.it, 15 dicembre 2020 Il Garante scrive al provveditore Carmelo Cantone: “Assicurare diffusione sistemi di comunicazione digitale. Con il Natale alle porte la vicinanza dei familiari è quanto mai necessaria”. Garantire una sempre maggior diffusione dei sistemi di comunicazione digitale all’interno degli istituti penitenziari della Toscana. È quanto chiede il Garante regionale Giuseppe Fanfani che nell’imminenza delle festività natalizie scrive al provveditore dell’amministrazione penitenziaria per la Toscana e l’Umbria, Carmelo Cantone. Nel perdurare dell’emergenza sanitaria, e quindi delle difficoltà di contatto e relazione tra familiari e detenuti, Fanfani rileva la necessità di “assicurare stabilità di rapporto con i familiari e quindi la diffusione dei dispositivi” oltre alla “possibilità del loro utilizzo in condizioni di sicurezza”. “Il Natale - si legge nella lettera inviata - renderà ancora più necessario un collegamento diretto con famiglie, parenti ed amici, atteso che la pandemia persistente ed i divieti di mobilità sempre più rigidi, impediranno a molti visite personali”. “Le prossime festività potranno essere occasione per mettere a frutto l’esperienza già maturata nel primo periodo Covid nel quale l’utilizzo più ampio dei sistemi alternativi di comunicazione via web, ha dimostrato tutta la sua apprezzata utilità”. A Cantone il Garante chiede anche di “conoscere, ove esistente, il programma di utilizzo generale dei mezzi di comunicazione via internet nelle carceri toscane e quello avviato in particolare nel periodo di emergenza sanitaria”. Lazio. Sex offender, mercoledì 16 i risultati del progetto Conscious da Garante dei detenuti della Regione Lazio Ristretti Orizzonti, 15 dicembre 2020 Conferenza on line, a conclusione del progetto, attuato dalla Asl di Frosinone in partnership con il Garante dei detenuti della Regione Lazio, a favore di un gruppo di detenuti autori di abusi sessuali e violenza domestica e di perpetrator. Mercoledì 16 dicembre (dalle ore 14 alle 16,30) si svolgerà in modalità telematica la conferenza conclusiva di Conscious, il progetto per introdurre in ambito carcerario ed extra carcerario un modello di trattamento per gli autori di abusi sessuali e violenza domestica, finalizzato alla riduzione della recidiva, che vede come capofila il Dipartimento di salute mentale e patologie da dipendenza della Asl di Frosinone, in partnership con il Garante dei detenuti della Regione Lazio. Iniziato a ottobre 2018, il progetto, attuato con il supporto della Commissione europea - Rights equality and citizenship programme, in partnership anche con il Centro nazionale studi e ricerche sul diritto della famiglia e dei minori e il Wwp (European network for the work with perpetrators of domestic violence), ha visto il coinvolgimento iniziale di 93 sex offender o colpevoli di maltrattamenti in famiglia detenuti presso le case circondariali di Frosinone e Cassino, e il trattamento di 25 di loro, mentre un servizio esterno attivato presso la Asl di Frosinone si è occupato del trattamento di dieci perpetrator ex detenuti o sottoposti a misure alternative. Nel corso della conferenza conclusiva, dal titolo “La prevenzione della violenza di genere: un diritto esigibile?”, organizzata dal Wwp, saranno illustrati il modello di intervento, i risultati ottenuti sul campo e due studi svolti dall’università di Torino, uno sulla replicabilità del progetto in altri contesti in ambito europeo, l’altro in materia di impatto socio-economico e sulla convenienza di Conscious in luogo di altre modalità di contrasto a tali fenomeni da parte della società. Parteciperanno alla conferenza l’assessore alla Salute della Regione Lazio, Alessio D’Amato, l’assessora alle Pari opportunità, Giovanna Pugliese, il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, la direttrice generale della Asl di Frosinone, Pierpaola D’Alessandro, il direttore di dipartimento di salute mentale della stessa Asl, Fernando Ferrauti, e la direttrice del carcere di Frosinone, Teresa Mascolo. A illustrare i risultati dei trattamenti realizzati presso le carceri di Cassino e Frosinone interverranno Antonella D’Ambrosi e Nicola De Rosa. “Il valore del progetto Conscious - spiega Stefano Anastasìa, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione del Lazio - sta nella acquisizione delle best practices in materia, nella costruzione di una rete di agenzie pubbliche e private impegnate nel trattamento dei sex offender e, infine, nell’assunzione di responsabilità di regia da parte di una delle più importanti tra di esse, il servizio sanitario pubblico di assistenza delle persone detenute negli istituti coinvolti, cui ordinariamente spetta l’onere della presa in carico dei destinatari dell’intervento nella complessità dei loro bisogni di sostegno e di cura. Il modello Conscious può essere trasferito ad altri contesti in ambito europeo e generare valore socioeconomico attraverso la sua diffusione. L’auspicio - conclude Anastasìa - è che al termine della sua applicazione sperimentale esso possa non solo proseguire a livello territoriale, come è impegno della Asl di Frosinone, ma diffondersi con il pieno sostegno delle istituzioni regionali, nazionali ed europee”. Pier Paola D’Alessandro, direttrice generale della Asl di Frosinone, soggetto capofila della partnership e promotore del progetto Conscious, “la violenza maschile contro le donne costituisce un fenomeno grave e diffuso al di là dei confini nazionali, europei e internazionali e rappresenta una violazione dei diritti umani e un ostacolo al conseguimento dell’uguaglianza di genere”. “La Asl di Frosinone - prosegue D’Alessandro - con il progetto Conscious vuole dare voce a tutte le vittime di violenza di genere e al loro diritto di essere tutelate. Nel nostro territorio lo spirito di squadra ha consentito, in complementarità con l’applicazione delle linee guida del codice rosa, di realizzare una complessa azione di prevenzione e tutela della salute pubblica. L’innovatività - conclude D’Alessandro - è costituita dalla capacità di un’azienda pubblica di promuovere cambiamenti culturali attraverso interventi che modificano la qualità delle relazioni interpersonali contro ogni tipo di discriminazione”. I colleghi giornalisti che intendono seguire i lavori potranno iscriversi, compilando l’apposito form online (entro martedì 15 dicembre 2020). Tutta la documentazione del progetto Conscious è disponibile sul nuovo sito del Garante dei detenuti della Regione Lazio: https://www.regione.lazio.it/garantedetenuti/category/progetti/conscious Bologna. Alla Dozza è boom di contagi: 70 detenuti e 10 agenti positivi di Ambra Notari redattoresociale.it, 15 dicembre 2020 Screening a tappeto, fasce orarie più ampie per telefonate e videochiamate, stop agli ingressi fino alla stabilizzazione: l’istituto penale bolognese al lavoro per tracciare la situazione epidemiologica. Sinappe: “Sofferenza trasversale, navighiamo a vista”. Una settantina di detenuti contagiati e una decina di agenti di polizia penitenziaria risultati positivi allo screening dello scorso sabato. Si aggrava la situazione Covid nella Casa circondariale di Bologna. “Il carcere è in affanno - ammette Nicola D’Amore, agente della Dozza ed esponente del Sinappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria -. Riconosciamo il grande lavoro fatto dalla direzione e dal comando, in termini di prevenzione e protezione. Fino a un paio di settimane fa le cose andavano abbastanza bene, poi hanno cominciato a precipitare. È una corsa a ostacoli, perché quello che programmi per il giorno successivo può essere immediatamente scombussolato da nuovi riscontri positivi. Speriamo la situazione non peggiori, altrimenti sarà necessario sostituire il personale contagiato”. Il problema, spiega D’Amore, sono gli spazi: a oggi, la Dozza accoglie oltre 700 persone detenute a fronte di una capienza massima di 500, situazione di sovraffollamento denunciata anche dal Garante comunale per i detenuti Antonio Ianniello, che in una nota scrive: “Sono circa 200 le presenze oltre la capienza regolamentare, una condizione per la quale la mancanza di distanziamento fisico può evidentemente fungere da acceleratore della diffusione del contagio. Questa seconda ondata sta avendo un impatto decisamente più grave sul carcere rispetto alla prima, sia a livello locale sia nazionale, e l’ulteriore rischio che può profilarsi nei mesi a venire, collegato a una non improbabile terza ondata, merita una scrupolosa valutazione”. Per ora, continua D’Amore, “si fa fronte all’emergenza in tutti i modi possibili, ritagliano continuamente nuovi spazi, nel rispetto dei diritti di tutti. Per esempio: molti dei detenuti che lavoravano alla cucina del carcere sono risultati positivi così, per qualche giorno, ci si è rivolti a una ditta esterna, per poi riorganizzarsi incaricando le detenute del femminile. Garantire il servizio internamente è un ottimo risultato, frutto della collaborazione di tutti. Va detto, infatti, che la sofferenza è trasversale, e le persone recluse ne sono coscienti. Non è facile tornare a casa dalle proprie famiglie con questa enorme preoccupazione, riconoscono il nostro grande sacrificio”. La settimana scorsa, dunque, è cominciato uno screening a tappeto su tutto il personale e la popolazione detenuta per avere un quadro completo, scongiurando l’ipotesi che si possa arrivare a dichiarare l’istituto zona rossa. Per ovviare a questa situazione, sono state ampliate le fasce orarie per telefonate e videochiamate, e dalla scorsa settimana il Provveditorato ha chiuso gli ingressi sino a quando non sarà raggiunta la piena stabilizzazione del quadro epidemiologico, dirottando i nuovi giunti su Modena. Dei detenuti positivi, la maggior parte è asintomatica e dunque accolta nelle sezioni Covid (tra positivi e persone in isolamento preventivo) ritagliate all’interno della struttura. Il reparto penale a oggi risulta chiuso per l’alto numero di contagi, e tutti i 75 detenuti lì accolti sono in quarantena. “Sicuramente non è la situazione di marzo - constata D’Amore - quando mancavano gel, mascherine e dpi. Oggi abbiamo tutto, le pulizie vengono fatte più volte al giorno. Riconosciamo il grande sforzo della sanità in carcere. Per ora, si naviga a vista. Ma per quanto?”. “C’è stato un aggravamento della situazione epidemiologica - continua la nota di Ianniello - anche con alcune persone ricoverate all’esterno. Secondo quanto previsto dal protocollo sanitario, le persone che risultano essersi positivizzate vengono collocate in spazi differenziati così come chi ha avuto contatti stretti con i positivi. Vengono messe in quarantena anche le persone che presentano sintomatologia compatibile con il Covid-19 e chi ha condiviso con loro le camere di pernottamento. Di fronte a questi numeri resta ferma la necessità di deflazionare la popolazione detenuta, anche per evitare che una terza ondata possa ulteriormente amplificare le già serie difficoltà che si stanno fronteggiando in carcere”. Modena. Cinque detenuti firmano un esposto: “Così hanno lasciato morire Sasà” di Lorenza Pleuteri dirittiglobali.it, 15 dicembre 2020 Cinque detenuti-testimoni della fine tragica di Salvatore “Sasà” Piscitelli (uno dei tredici uomini deceduti durante e dopo le rivolte carcerarie di inizio marzo 2020) hanno deciso di metterci il nome e la faccia e di inviare un esposto in procura fornendo particolari inediti e dettagli riscontrabili. “Pestaggi. Torture. Accanimento contro un ragazzo in fin di vita. Soccorsi negati. Una morte che poteva e doveva essere evitata”, se non addirittura “un omicidio doloso”, richiamato dalla citazione dell’articolo del codice penale che punisce il più grave dei reati. L’esposto firmato a fine novembre da cinque detenuti conferma e appesantisce le denunce contenute nelle lettere raccolte e rilanciate nei mesi scorsi da giustiziami.it, agenzia di stampa AGI, Comitato per la verità e la giustizia sulle morti in carcere, bollettino anarchico Olga, associazioni di base, antagonisti, volontari. I testimoni della fine tragica di Salvatore “Sasà” Piscitelli (uno dei tredici uomini deceduti durante e dopo le rivolte carcerarie di inizio marzo 2020) hanno deciso di metterci il nome e la faccia e di scrivere quello che hanno visto e sanno. La verità, tutta la verità? O esagerazioni e calunnie? La realtà nuda e cruda o invenzioni? Si vedrà, sempre che le inchieste in corso vadano in profondità e scandaglino anche queste nuove dichiarazioni, cercando riscontri o smentite. L’atto d’accusa di chi c’era, sette drammatiche pagine scritte in stampatello, è stato indirizzato alla procura generale di Ancona. I firmatari hanno consegnato all’Ufficio matricola del carcere di Ascoli per il recapito all’Ufficio giudiziario. Tre giorni dopo ai mittenti non era ancora stata data la prova dell’avvenuta consegna. Copia dell’esposto è uscita comunque. Con un risvolto, reso noto da familiari e avvocati: i cinque detenuti-testimoni non si trovano più nell’istituto marchigiano. Sono stati riportati alla Casa di reclusione di Modena, là dove l’8 marzo tutto è cominciato, in un ambiente che amichevole e conciliante non può essere e che si trova ancora in condizioni strutturali pessime: finestre rotte e freddo, a disposizione solo l’acqua giallastra che scende dai rubinetti delle celle, appena una coperta a testa. Le 13 morti - Il carcere emiliano, sotto pressione per le restrizioni imposte per l’emergenza Covid-19, alla vigilia del lockdown totale fu devastato e incendiato dalle azioni di protesta e distruzione. I ribelli riuscirono a impossessarsi di metadone e psicofarmaci, presenti in gran quantità e finiti nelle mani di un numero imprecisato di compagni e in particolare dei più fragili. Cinque stranieri furono trovati senza vita all’interno della struttura, gli scampati vennero trasferiti a decine in altri istituti, forse senza nemmeno essere visitati o visitati in modo veloce e superficiale (ulteriore questione da accertare, a fronte di dichiarazioni contrastanti). Altri tre immigrati e Sasà Piscitelli non ebbero scampo (e si dovrà capire perché). Morirono prima di arrivare a destinazione o qualche ora dopo (e sul luogo non c’è concordanza, almeno per il recluso italiano: la direzione e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria sostengono che sia spirato in ospedale, dopo essere stato soccorso in cella; in una relazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e in una comunicazione del ministro di Giustizia si dice che è deceduto “presso il carcere”). La procura di Modena - titolare delle inchieste sui nove decessi legati al carcere cittadino e alle persone poi trasferite - ipotizza che i detenuti siano stati stroncati da overdosi delle sostanze razziate. Le relazioni delle autopsie e i risultati degli esami tossicologici (non resi noti, se non al Garante nazionale dei detenuti, dichiaratosi come persona offesa nei procedimenti in corso) pare lo confermino. Però nulla di preciso è dato sapere, né dai magistrati né dallo stesso Garante e dalla sua consulente (la anatomopatologa che partecipò alla contestata autopsia sulla salma di Stefano Cucchi). Le nuove testimonianze - I cinque detenuti-testimoni ora riempiono parte dei vuoti, aggiungono particolari inediti, forniscono dettagli riscontrabili. Non sono reclusi modello, sanno che cercheranno di screditarli, dovranno a loro volta difendersi e contrastare accuse e contestazioni. Ma chiedono di essere convocati da magistrati e investigatori e contribuire a fare giustizia. Non usano giri di parole, nell’esposto. “Il detenuto Piscitelli Salvatore, già brutalmente picchiato presso la casa circondariale di Modena e durante la traduzione, arrivò presso la casa circondariale di Ascoli Piceno in evidente stato di alterazione da farmaci tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti. Una volta giunto alla sezione posta al secondo piano lato sinistro gli fu fatto il letto dal detenuto F. (uno dei firmatari dell’esposto) poiché era visibile a chiunque la sua condizione di overdose da farmaci. Appoggiato sul letto della cella numero 52 gli fu messo come cellante (il compagno di cella, ndr) il detenuto M. (anche lui tra i denuncianti). Tutti ci chiedemmo come mai il dirigente sanitario o il medico che ci aveva visitato all’ingresso non ne avesse disposto l’immediato ricovero in ospedale. Tutti facemmo presente al commissario in sezione e agli agenti che il ragazzo non stava bene e necessitava di cure immediate. Non vi fu risposta alcuna. La mattina seguente fu fatto nuovamente presente (da C., altro firmatario dell’esposto) che Piscitelli non stava bene, emetteva dei versi lancinanti e doveva essere visitato nuovamente, ma nulla fu fatto. Verso le 09:00 del mattino furono nuovamente sollecitati gli agenti affinché chiamassero un medico, qualcuno sentì un agente dire “fatelo morire”, verso le 10:00-10:20, dopo molteplici solleciti, furono avvisati gli agenti che Piscitelli Salvatore era nel letto freddo. Piscitelli era morto. Il suo “cellante” fu fatto uscire dalla cella e ubicato nella cella numero 49 insieme al F. (il compagno che gli aveva fatto il letto, ndr). Piscitelli fu sdraiato sul pavimento (cosa che si fa per praticare manovre rianimatorie, ndr); giunta l’infermiera, la stessa voleva provare a fare un’iniezione al Piscitelli, ma fu fermata dal commissario che le fece notare che il ragazzo era ormai morto. Messo in un lenzuolo fu successivamente portato via. Successivamente abbiamo notato che molti agenti e il garante stesso dei detenuti asserivano che il Piscitelli fosse morto in ospedale”. I pestaggi e gli spari - Un passaggio è dedicato alle visite mediche effettuate all’arrivo ad Ascoli, perlopiù non approfondite, mentre non si fa cenno ad accertamenti sanitari alla partenza (quelli per legge obbligatori, in teoria). A destinazione, raccontano sempre i cinque detenuti, “uno alla volta e quasi tutti senza scarpe fummo accompagnati prima in una stanza ove venimmo perquisiti e successivamente sottoposti alla classica visita medica, dove a molti di noi non fu neanche chiesto di togliersi gli indumenti per constatare se avessimo lesioni corporee”. E, ancora: “La mattina seguente al nostro arrivo e nei giorni seguenti molti di noi furono picchiati con calci, pugni e manganellate, all’interno delle celle a opera di un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria” E pestaggi ci sarebbero stati prima della partenza carcere di Modena (gli agenti avrebbero “caricato detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta a un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo”) e durante il viaggio, assieme a sputi, insulti, minacce. Non solo. A Modena, denunciano sempre i firmatari dell’esposto, i poliziotti penitenziari avrebbero “sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza uomo”. Di questo (e dei presunti pestaggi, denunciati da altri carcerati) non c’è traccia nelle relazioni del Dap venute a galla nei mesi scorsi e neppure nelle risposte date al question time e alle prime interrogazioni parlamentari presentate (le ultime sono in sospeso da tempo, non ancora trattate dal ministro di Giustizia). Una detenuta interpellata dal giornale del carcere di Bollate ha riferito di aver sentito due spari. Un colpo si sentirebbe nei video girati l’8 marzo fuori dal carcere emiliano. E si trovano conferme, se si cercano. Ma si stanno cercando? Le domande sull’inchiesta - Pm e squadra Mobile di Modena quante e quali persone hanno convocato e ascoltato in nove mesi e passa di investigazioni? Che aspetti sono in corso di approfondimento? E da che punto di vista? Perché il fascicolo sulla morte di Sasà Piscitelli è passato dalla procura di Ascoli a quella di Modena? Informalmente si sa che sono stati sentiti i medici del carcere emiliano (quelli su cui ricadeva l’obbligo di visitare tutti i reclusi da trasferire, compresi Piscitelli e i tre compagni morti durante il viaggio) e un paio di detenuti (dovrebbe essere gli autori di esposti precedenti a quello dei cinque compagni), oltre a due giornaliste. Niente altro. Il procuratore pro tempore Giuseppe Di Giorgio non si espone. “I procedimenti relativi ai singoli decessi - si limita a ricordare - sono assegnati a due colleghe, le medesime contitolari delle indagini sui disordini di quel giorno. Per il momento l’assegnazione è formalmente disgiunta, ma stanno lavorando in maniera coordinata, condividendo i risultati in vista di un’azione comune. I procedimenti (per omicidio colposo e morte come conseguenza di altro delitto, ndr) sono tutti a carico di ignoti”. Dopo le autopsie, il suo predecessore, Paolo Giovagnoli, aveva confermato l’ipotesi di decessi in serie per overdose, garantendo che sui corpi (alcuni cremati, se non tutti) non erano stati trovati segni di lesioni o ferite. “Si è parlato molto della rivolta di Modena, ma nessuno si è interrogato su cosa fosse realmente accaduto. È inopinabile che vi siano stati dei disordini ma - evidenziano i cinque firmatari dell’esposto - nessuno di noi è stato interrogato o sentito come persona informata sui fatti, partecipe o altro. Tutto si è basato sulle sole dichiarazioni delle direzioni che nulla hanno fatto per fare vera chiarezza. Le nostre dichiarazioni non sono state raccolte sminuendo di fatto la nostra persona. Il sistema carcere (…) in maniera tacita e accondiscendente tende a sminuire e tollerare atteggiamenti violenti e repressivi a opera di chi indossando una divisa dovrebbe rappresentare lo Stato. È chiaro che si tratta di una minoranza, non vi sarà mai una riformabilità efficace. Le direzioni a nostro parere sono responsabili dell’accaduto, non potendo non sapere”. Alcuni dei cinque denuncianti, se non tutti, dopo i fatti di inizio marzo sarebbero stati indagati per la partecipazione alla rivolta (dalla quale nell’esposto si chiamano fuori) e sottoposti a procedimenti disciplinari (contestati). Il collocamento a Modena potrebbe essere legato ad adempimenti istruttori ed essere provvisorio e reversibile. *Giornalista Modena. Pestaggi, mancato soccorso e morte: la denuncia di 5 detenuti sulla rivolta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 dicembre 2020 Esposto alla procura di Ancona anche sulla morte di un loro compagno. I 5 prima trasferiti ad Ascoli e poi rimandati a Modena e messi in isolamento. Cinque detenuti del carcere di Modena, oltre a essere vittime di pestaggi nonostante si fossero consegnati senza nemmeno aver partecipato attivamente alla rivolta di marzo, testimoniano di aver visto caricare “detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta ad un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi di informazione all’abuso di metadone”. Ma c’è di più. Testimonianze che ricordano le torture stile cileno ai tempi di Pinochet, oppure, visto da più vicino, le violenze e abusi commessi nei confronti dei manifestanti del G8 di Genova, l’omicidio di Carlo Giuliani, la caserma Bolzaneto, ma con l’aggiunta che in questo caso parliamo di diversi detenuti morti che forse si sarebbero potuti salvare. Il forse è d’obbligo visto che dovrà essere la magistratura a vagliare, convocando magari i detenuti che pretendono di essere sentiti come testimoni. Riportati nuovamente al carcere di Modena e messi in isolamento - I cinque detenuti hanno deciso di metterci la propria faccia tramite un esposto alla procura di Ancona. Trasferiti al carcere di Ascoli Piceno dopo la cosiddetta rivolta, il caso vuole che dopo la loro denuncia sono stati rimandati nel penitenziario di Modena, teatro delle rivolte e delle morti di marzo, ma in celle di isolamento senza permettere colloqui con gli avvocati e chiamate con i famigliari. Solo dopo la segnalazione alle autorità da parte dell’associazione Yairaiha Onlus, che si sta occupando del caso, sono state concesse le prime chiamate con i propri cari. Uno di loro ha raccontato al proprio famigliare che si troverebbe al freddo, senza coperte e al dire della sorella mostrerebbe sintomi di raffreddamento. I familiari dei detenuti Claudio Cipriani, Bianco Ferrucci e Mattia Palloni - così si chiamano tre di coloro che hanno deciso di denunciare - si sono rivolti all’associazione Yairaiha Onlus esprimendo forte preoccupazione per la coincidenza del trasferimento avvenuto a seguito della presentazione del loro esposto. Non solo. Alcuni familiari hanno riferito all’associazione di minacce indirizzate da alcuni agenti del carcere di Ascoli Piceno ai propri cari a seguito della denuncia in procura. Tutto ciò ha messo in allarme i familiari. “È strano che dall’arrivo a Modena - segnala l’associazione al Dap e ministero della Giustizia - i detenuti in questione siano stati sottoposti a isolamento sanitario in quanto nella settimana precedente il trasferimento erano stati sottoposti a tampone ed erano risultati negativi”. Sottolinea sempre Yairaiha: “Anche l’isolamento disciplinare presenta non pochi elementi di dubbia legittimità, così come il trasferimento in sé lascia perplessi essendo stato depositato un esposto in cui si chiede di far luce su fatti gravissimi che mettono in discussione l’operato di alcuni agenti e la ricostruzione ufficiale degli eventi che hanno attraversato le carceri di Modena e Ascoli Piceno nei giorni dall’8 al 10 marzo e la morte del signor Salvatore Piscitelli Cuomo”. Ma chi è quest’ultimo detenuto e cosa gli sarebbe accaduto secondo la versione fornita dai detenuti che ne sono stati testimoni? Per capire meglio, vale la pena riportare l’altra verità dei fatti sulle rivolte di marzo e le 13 morti, ufficialmente, per overdose. Picchiati selvaggiamente dopo la rivolta - Nell’esposto i detenuti dichiarano di essersi trovati coinvolti seppure in maniera passiva nella rivolta scoppiata l’8 marzo presso il carcere di Modena. Dicono di aver assistito ai metodi coercitivi messi in atto non solo da parte di alcuni agenti penitenziari di Modena, ma anche da quelli provenienti dalle carceri di Bologna e Reggio Emilia. Oltre ad aver sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza uomo, avrebbero caricato dei detenuti in palese stato di alterazione psichica dovuta da abusi di farmaci a colpi di manganellate al volto e al corpo. Secondo l’esposto, sarebbero coloro che poi sono morti. “Noi stessi - si legge sempre nell’esposto - siamo stati picchiati selvaggiamente e ripetutamente dopo esserci consegnati spontaneamente agli agenti, dopo essere stati ammanettati e private delle scarpe, senza e sottolineiamo senza, aver posto resistenza alcuna”. Gli agenti - a forza di manganellate - li avrebbero fatti salire sui mezzi per condurli al carcere di Ascoli dove sarebbero stati nuovamente picchiati anche da alcuni agenti del carcere di Bologna. Alla classica visita medica, a molti di loro non gli avrebbero neanche chiesto di togliersi gli indumenti per constatare se avessero lesioni corporee. Denunciano che la mattina seguente al loro arrivo, e nei giorni seguenti, sarebbero stati picchiati con calci, pugni e manganellate all’interno delle celle per opera “di un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria”. Il calvario di Salvatore, ritrovato morto nel carcere di Ascoli - La parte più tragica del loro racconto riguarda la vicenda di Salvatore Piscitelli, per gli amici Sasà. Parliamo di uno dei 4 detenuti morti dopo o durante i trasferimenti. Ricordiamo che in tutto sono nove i morti del carcere di Modena. Nelle celle ne sono stati ritrovati cinque senza vita: si chiamavano Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi e Slim Agrebi. Mentre i rimanenti 4, trasportati in altre carceri quando erano ancora in vita, si chiamavano Abdellah Rouan, Ghazi Hadidi, Arthur Isuzu e Salvatore Piscitelli. Quest’ultimo, secondo i detenuti testimoni dell’accaduto, sarebbe deceduto nel carcere di Ascoli senza essere trasferito subito in ospedale nonostante presentasse sintomi e urlasse dal dolore. Ma come sarebbero andati i fatti? “Già brutalmente picchiato presso la C.C di Modena e durante la traduzione - si legge nell’esposto in procura - arrivò presso la C.C di Ascoli Piceno in evidente stato di alterazione da farmaci tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti”. I testimoni sottolineano di aver fatto presente al commissario in sezione e agli agenti che il ragazzo non stava bene e che necessitava di cure immediate. Ma non vi sarebbe stata risposta alcuna. La mattina seguente, il nove marzo, sarebbe stato fatto nuovamente presente che Sasà non stava bene e che emetteva dei versi lancinanti. “Verso le 9 del mattino - si legge nell’esposto - furono nuovamente sollecitati gli agenti affinché chiamassero un medico. Qualcuno sentì un agente dire “fatelo morire”, verso le 10:00 - 10:20 dopo molteplici solleciti furono avvisati gli agenti che Piscitelli Salvatore era nel letto freddo”. Testimoniano che fu sdraiato sul pavimento, l’infermiera avrebbe provato a fargli una iniezione “ma fu fermata dal commissario che gli fece notare che il ragazzo era ormai morto”. Messo in un lenzuolo, viene successivamente portato via. “È inopinabile che vi siano stati dei disordini - denunciano nell’esposto - ma nessuno di noi è stato interrogato o sentito come persona informata sui fatti”. I detenuti traggono anche una riflessione. “Il sistema carcere è in evidente stato di crisi vivendo condizioni di sovraffollamento e degrado. In maniera tacita e accondiscendente tende a sminuire e tollerare atteggiamenti violenti e repressivi ad opera di chi indossando una divisa dovrebbe rappresentare lo stato”. Concludono amaramente: “È chiaro che si tratta di una minoranza, ma non vi sarà mai una riformabilità efficace”. Ricordiamo ancora una volta, che dopo l’esposto sono stati traferiti nuovamente al carcere di Modena, in isolamento. I famigliari si sono allarmati, per questo l’associazione Yairaiha ha subito segnalato la questione al Dap, al ministero della giustizia e al garante regionale e nazionale. Quest’ultimo si è subito attivato per verificare il loro effettivo stato di detenzione. Albenga (Sv). I dubbi sulla morte di un 33enne nella cella di sicurezza di Marco Preve La Repubblica, 15 dicembre 2020 Emanuel Scalabrin era stato arrestato per droga, il suo decesso scoperto solo alle 11.40 di mattina. Il sistema di video sorveglianza non aveva hard disk. Indagine della procura, l’autopsia non avrebbe riscontrato segni di pestaggi. Un ragazzo di 33 anni, Emanuel Scalabrin, con precedenti per spaccio e tossicodipendente, dopo un arresto contrastato avvenuto il pomeriggio del 4 dicembre, nella tarda mattinata del 5 dicembre viene trovato morto nella cella di sicurezza dei carabinieri di Albenga. La procura di Savona che ha aperto un’inchiesta dovrà stabilire se si sia trattato di una triste vicenda o di una brutta vicenda. La prima ipotesi è la tragedia di una famiglia (aveva una moglie un figlio di 9 anni) senza responsabilità di altre persone. La seconda ipotesi è assai più complicata perché potrebbe portare a contestare responsabilità ai carabinieri che lo avevano arrestato e che ne dovevano garantire l’integrità fisica. Gli scenari eventuali in questo secondo caso si biforcano: percosse o pressioni su organi vitali, oppure omissione di soccorso. Ubaldo Pelosi procuratore capo di Savona spiega: “Stiamo aspettando il responso dell’autopsia ma il medico legale ci ha informati che almeno a prima vista non ci sarebbero segni sospetti”. Emanuel presentava un labbro gonfio e un’ecchimosi ma, almeno a quanto trapela al momento, non ci sarebbero elementi che facciano pensare a un pestaggio. Meno limpida appare invece la tempistica relativa all’allarme delle sue condizioni e ai soccorsi. Sul fronte dei famigliari - che si sono affidati allo studio dell’avvocato Maria Gabriella Branca e agli avvocati Lucrezia Novaro e Giovanni Sanna -alla prudenza e alle prime evidenze degli investigatori vengono opposte una serie di obiezioni fondate su alcuni elementi che appaiono perlomeno degni di approfondimento. Vediamoli, ricostruendo le ultime 24 ore di vita di Emanuele. Emanuele e Giulia sono nel loro appartamento quando poco dopo l’ora di pranzo si spegne la luce. Emanuel apre la porta d’ingresso e in casa irrompono quattro carabinieri in borghese. Stanno chiudendo un’indagine su una rete di spaccio. In casa di Manuel troveranno cocaina, hashish e un fucile. Le fasi dell’arresto durano mezz’ora. Nel verbale i carabinieri raccontano che Scalabrin ha opposto resistenza e un militare si fa refertare all’ospedale per un calcio alla gamba: 5 giorni di prognosi. Giulia, la compagna di Emanuel dice che i carabinieri sono stati molto duri. Spiega che lo hanno buttato sul letto e ce lo hanno tenuto per molto per ammanettarlo. Quando lo rimettono in piedi per portarlo via si è defecato e urinato addosso. Gli consentono di cambiarsi e quando esce di casa “era pallido, stava male” dice Giulia. In caserma si lamenta e viene chiamata la guardia medica. Ha la pressione alta 175 su 95 e la frequenza cardiaca a 107. Viene portato al pronto soccorso di Pietra Ligure. Ingresso ore 22.59, uscita 23.02. Neppure cinque minuti, dicono i famigliari, per triage e visita. Gli viene somministrato del metadone e torna in cella verso le 23.30. Ne uscirà cadavere. Sul verbale è scritto che viene trovato cadavere alle 11.40 del mattino. Un’ora che appare sospetta considerate le abitudini di una caserma e di un carcere, dove i detenuti vengono svegliati alle 7. I militari nel loro rapporto spiegano di averlo controllato con i monitor del sistema di video sorveglianza. Quando però una ditta specializzata è incaricata di recuperare le immagini della notte si scopre che l’hard disk non c’è. In caserma per un sopralluogo c’è andata anche la pm titolare del fascicolo Chiara Venturi. Sono stati acquisiti i verbali e i referti della guardia medica e dell’ospedale. Sulla vicenda di Emanuel c’è da registrare la presa di posizione della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova: “Le circostanze della morte di Emanuel devono essere chiarite e non può lasciar cadere il silenzio su questo susseguirsi di violazioni di diritti e incongruenze… Per questo motivo abbiamo chiesto che venga sottoposta un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese” si legge su un lungo post della pagina Facebook della Comunità. Verona. Cancellieri contagiati, saltano i processi di Laura Tedesco Corriere Veneto, 15 dicembre 2020 Quattro dipendenti positivi al Covid: ordinanza urgente della presidente Magaraggia. Tribunale semiparalizzato causa Coronavirus. Stop di un giorno alle udienze penali e sanificazione urgente di aule e cancellerie. Alla sezione penale dibattimentale, accertati quattro casi di positività tra il personale amministrativo. Allarme Covid-19 ieri all’ex Mastino dove, alla sezione penale dibattimentale, sono stati accertati quattro casi di positività al virus tra il personale amministrativo: una situazione di emergenza tale da indurre la presidente Antonella Magaraggia a firmare durante il weekend scorso un’ordinanza urgente in base a cui, per l’intera giornata di ieri, non sono state celebrate “le previste udienze nella sezione penale dibattimentale ad eccezione dei procedimenti con rito direttissimo e di quelli con detenuti”. Ieri lunedì di chiusura, inoltre, per “lo sportello della sezione penale con indicazioni sia per depositi degli atti, documenti e istanze, sia per il deposito degli atti d’impugnazione”. Il tutto, per consentire l’immediata “sanificazione dei locali della sezione dibattimento penale e delle aule d’udienza con prescrizioni circa gli accessi consentiti”. Di tale provvedimento, è stata raccomandata la trasmissione urgente nel corso del fine settimana appena concluso a giudici, personale amministrativo, Procura della Repubblica e Consiglio dell’Ordine degli avvocati: quest’ultimo, con la firma della presidente Barbara Bissoli, nel proprio sito oltre alla circolare della Magaraggia ha pubblicato l’”invito agli iscritti alla scrupolosa osservanza del provvedimento”. Già da oggi, comunque, la situazione dovrebbe rientrare nei binari della normalità e anche le udienze penali - ieri quelle civili e della sezione Gip hanno avuto luogo regolarmente - dovrebbero celebrarsi seguendo la precedente programmazione in calendario. Resta ovviamente, a maggior ragione, confermato quanto stabilito con la circolare del 1° settembre scorso, in base a cui, dal 7 settembre, “l’accesso agli Uffici giudiziari di Verona (compreso il Giudice di Pace) può avvenire solo previo rilevamento della temperatura corporea a mezzo di termometri a infrarossi, secondo le disposizioni del protocollo del 28 agosto”. Così come chiarito nel corso delle numerose riunioni dell’Osservatorio sulla giustizia penale per la prosecuzione dell’attività durante l’emergenza sanitaria, “la rilevazione della temperatura a quanti accedono al tribunale viene effettuata ai tornelli e all’ingresso carraio”: il 21 ottobre 2020, inoltre, è stato precisato che “la rilevazione della temperatura ai varchi d’ingresso deve avvenire esclusivamente con i termometri a infrarossi in dotazione al personale addetto alla vigilanza e solamente sulla fronte (ad una distanza di circa 3/5 cm.); tale modalità di misurazione risulta infatti essere l’unica affidabile per il dispositivo in uso agli addetti alla vigilanza, che è incluso nell’elenco dei modelli validati dal Ministero della Salute”. Il protocollo in vigore dispone che “l’accesso agli Uffici giudiziari verrà senza eccezioni interdetto a chiunque non permetta la rilevazione della temperatura” e “prescrive il divieto di sostare negli atri, nelle zone di passaggio e nei corridoi”. Busto Arsizio. L’agente infedele e il racket dei permessi: “Faccio una bella relazione” di Andrea Camurani Corriere della Sera, 15 dicembre 2020 La mazzetta in cambio della libertà o per far avere manodopera a basso costo alla cooperativa collusa. Lui, guardia carceraria, è accusato di essere l’artefice di un meccanismo escogitato per guadagnare soldi da detenuti o ex detenuti che oliando gli ingranaggi si assicuravano la libertà o la chiedevano per il parente ancora in cella. Un gioco che si è interrotto ieri con le manette a Dino Lo Presti, cinquantunenne di origini siciliane, assistente capo della polizia penitenziaria a cui sono contestati corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio, abuso d’ufficio, detenzione di armi da guerra e ricettazione. Oltre al pubblico ufficiale sono finite in carcere quattro persone, mentre altre due sono ai domiciliari. Le indagini sono partite dopo il ritrovamento, nel 2019, di alcuni cellulari in una cella del penitenziario di Busto Arsizio. Gli agenti carcerari si erano accorti che proprio quei detenuti godevano di frequenti permessi e hanno così segnalato la coincidenza alla Procura che ha cominciato a indagare attraverso la Finanza di Varese. Il malaffare è venuto a galla partendo dalle intercettazioni sul telefono dell’assistente capo: “...se vuole andare a Bollate io non ho problemi, chiamo alla tipa e ti faccio fare una bella relazione...”, diceva al telefono parlando con un ex detenuto. A questo si sono aggiunte le indagini patrimoniali sui conti del Lo Presti (sequestrati 3o mila euro), che ha lavorato a lungo in “area trattamentale” e secondo l’accusa avrebbe qui trovato terreno fertile per interferire, grazie anche alla sua esperienza sulle “relazioni di sintesi”, documenti stilati da un’équipe di osservazione che costituisce la base per i benefici concessi dal magistrato di sorveglianza: permessi premio, lavori all’esterno dell’istituto penitenziario o periodi da trascorrere in famiglia e comunque “fuori”. Gli episodi contestati nell’operazione non a caso battezzata “Freedom”, sono in tutto quattro: tre corruzioni consumate e una tentata con mazzette che potevano arrivare fino a 3 mila euro per ognuno dei servizi concessi. Per il momento non vi sono altri indagati, in particolare fra i funzionari pedagogici del carcere. Sono invece finiti nei guai marito e moglie ai vertici di una cooperativa che collabora al reinserimento lavorativo perché accusati di pagare per avere detenuti addetti a ristrutturazioni e manutenzioni: in questo modo avrebbero comunque risparmiato sul costo del lavoro limitato al solo stipendio, in quanto la contribuzione previdenziale è a carico dello Stato. Durante le indagini - svolte con gps e captatori nei telefoni cellulari - la guardia avrebbe fatto riferimento a caricatori di un’arma da guerra e a beni frutto di alcuni furti, oltre a rivelazioni circa il trasferimento di un detenuto. Ancor prima delle indagini delle fiamme gialle è stato determinante il contributo degli ex colleghi di Lo Presti che non hanno esitato a segnalare le anomalie. “Si avvarrà della facoltà di non rispondere”, spiega Francesca Cramis il legale del principale indiziato, “e chiederò la sostituzione della misura per motivi di salute”. Terni. Al Parco della legalità un modo nuovo per ascoltare “Voci recluse” di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 15 dicembre 2020 Uno spazio aperto in cui ascoltare esperienze di vita: questo lo scopo di Voci recluse, all’interno del Parco della legalità di Terni. Attraverso i Qr Code distribuiti nell’area, i cittadini potranno, utilizzando i loro smartphone, entrare in contatto virtuale con detenuti ed ex detenuti degli istituti di pena di Terni ed Orvieto. Il progetto rientra nella più ampia iniziativa “Communitas: un orto, un sentiero, un giardino” realizzato dall’Associazione Demetra e promosso dall’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) di Terni. “In epoca di pandemia e trattandosi in parte di soggetti reclusi - commenta la project manager Caterina Moroni - non era facile portare fisicamente le persone all’interno del parco e far ascoltare ai cittadini la loro viva voce. Il vantaggio del sistema del Qr Code sta nel fatto che le testimonianze sono udibili sempre e quindi potranno conservarsi nel lungo periodo. Inoltre, chiunque si rechi al Parco della legalità e attivi la funzione di ascolto, finirà per vivere una sorta di rapporto diretto con il narratore”. Moroni illustra i criteri di realizzazione e le finalità del progetto: “All’interno dell’area sono state disseminate 25 stazioni audio, prevedendo un percorso. Tuttavia, anche chi non seguisse la numerazione progressiva non perderebbe il significato ultimo dell’iniziativa. L’idea è quella di portare le persone nel parco, trasformandolo in una sorta di libreria umana a cielo aperto, ancor di più in questo momento dove è necessario fruire diversamente degli spazi all’aperto. I protagonisti raccontano storie intime del proprio vissuto e anche esperienze fra le mura del carcere. L’intento è avvicinare la comunità esterna, con il mondo dei reclusi”. “Sono stati fondamentali - conclude la project manager - per la buona riuscita del progetto l’artista Anna Sobczak (alias Pola Polanski), il sound designer Marco Testa e il sostegno di C.U.R.A. (Centro Umbro di Residenze Artistiche)”. Palermo. “Corrispondenze”: il carteggio dei detenuti diventa un testo teatrale di Maria Pagliaro Ristretti Orizzonti, 15 dicembre 2020 Lo scambio epistolare confluirà nella drammaturgia del nuovo spettacolo della compagnia “Evasioni” diretta dalla regista Daniela Mangiacavallo. Un carteggio dal sapore un po’ rétro che confluirà in un nuovo spettacolo. Si chiama Corrispondenze la fase del progetto “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” e vede protagonisti gli attori reclusi alla casa circondariale Pagliarelli - Lo Russo impegnati in uno scambio epistolare con gli altri componenti della compagnia “Evasioni”, diretta dalla regista Daniela Mangiacavallo, che nell’istituto penitenziario ha messo in piedi il progetto, ormai da quattro anni, trasformando i detenuti in attori della compagnia stabile, grazie al lavoro dell’associazione Baccanica da lei fondata. Un esperimento poetico per creare un dialogo tra il carcere, luogo apparentemente chiuso oltre le sbarre, e il mondo fuori. Le prime lettere della cosiddetta Fase 1 sono già partite: ogni ospite della sezione maschile, che partecipa all’avventura teatrale, ha già ricevuto il suo “dispaccio” con le indicazioni e l’invito per costruire insieme la drammaturgia del nuovo spettacolo, il quarto dopo gli applauditi Enigma, La Ballata dei Respiri e Transiti, che hanno debuttato dentro e fuori la casa circondariale. Un gioco poetico attraverso la scrittura creativa in un momento in cui lavorare in presenza è difficile per il rispetto delle norme anti Covid. Ma l’amore e la passione per il teatro non si fermano, tanto che il motto della regista è per quest’anno “Avanti tutta”. Formatasi all’interno della Compagnia della Fortezza di Volterra, primo Centro Nazionale di teatro e carcere, fondato trent’anni fa dal regista e drammaturgo Armando Punzo, Daniela Mangiacavallo ha importato a Palermo il modello Punzo, creando un dialogo profondo tra istituzioni, pubblico e detenuti stessi. L’obiettivo è fare del lavoro di attore un’autentica professione per i carcerati e non semplicemente un’attività riabilitativa, tanto che in questi anni Baccanica ha avviato all’interno del “Pagliarelli - Lo Russo” corsi professionali per imparare i mestieri del teatro. “Questo tempo se pur sospeso e incerto - spiega Daniela Mangiacavallo - ci sta dando la possibilità di sperimentare le più svariate sfumature dell’arte, dell’immaginazione e della creatività, andando oltre la forma. Andiamo avanti inventando innovative visioni dell’intimità”. Un carteggio, che è un po’ gioco poetico, a cui si aggiungeranno testi, bozzetti, ipotesi di scenografie, per innescare un processo creativo attraverso l’uso della scrittura e che confluirà nel testo drammaturgico che sarà poi utilizzato nello spettacolo dal vivo. E mai come quest’anno l’aforisma scelto per il progetto “Per Aspera ad astra” (dal latino “Fino alle stelle superando le difficoltà”) si è rivelato più calzante, proprio in questo tempo difficile fatto di distanza e solitudine, che in carcere si avvertono ancora di più. Adesso c’è un filo fatto di lettere, carta e profumo d’inchiostro a tenere accesa la speranza. “Per Aspera ad Astra - come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” vede in rete dodici compagnie teatrali italiane che operano negli Istituti penitenziari, tra cui la Compagnia della Fortezza, che ne è partner capofila. Il progetto è promosso da Acri e sostenuto da Compagnia di San Paolo, Fondazione Cariplo, Fondazione Carispezia, Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, Fondazione Con il Sud, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Fondazione di Sardegna. Folla e resse, le accuse ipocrite di Antonio Polito Corriere della Sera, 15 dicembre 2020 Stupisce lo stupore dei nostri governanti, nazionali e regionali: se hanno aperto i negozi nella penultima domenica prima di Natale, è abbastanza scontato che la gente vada a fare shopping; se i bar e i ristoranti possono servire aperitivi e pasti, non sorprende che gli avventori li consumino. Soprattutto se si è appena varato un molto pubblicizzato incentivo allo shopping “fisico”, quel “cashback” studiato apposta per spingere i consumatori a uscire di casa invece di comprare online. Sembra un deja-vu: anche in estate, subito dopo aver distribuito bonus-vacanze e riaperto le discoteche, si levò un coro di indignazione verso chi era andato in vacanze o in discoteca. Indignarsi non costa nulla. Oggi per esempio ci indigniamo perché abbiamo il più alto numero di morti d’Europa. Si dice: ma esiste anche una cosa chiamata “responsabilità individuale”, non è detto che soltanto perché una cosa è lecita la si debba pure fare. Giusto. Se ci si trova nel bel mezzo di un assembramento “immondo” (la definizione è di Zaia), buon senso e civismo impongono di allontanarsene. Molti l’avranno anche fatto. In quelle folle di domenica c’era di sicuro tanta gente timorata delle leggi, che indossava con scrupolo la mascherina, si è messa in fila prima di entrare in un negozio, e magari è corsa a riprendere la metropolitana o l’auto per tornare a casa quando ha visto dov’era finita. Ma intanto era già diventata folla. Non dovrebbe sfuggire a chi governa ciò che la sociologia ha accertato da tempo: gli esseri umani tendono sì a comportarsi razionalmente, ma sulla base delle informazioni di cui dispongono al momento. C’è una profonda differenza fra comportamenti individuali e comportamenti collettivi: la psicologia della “folla” è cosa ben diversa dalla psicologia del “pubblico”. Perciò nelle società complesse ci siamo dotati di autorità di governo che, disponendo di dati, flussi e previsioni, possono orientare meglio i comportamenti collettivi. È come con il traffico: se si sbaglia a organizzare il giro dei sensi unici o si creano delle strettoie, l’ingorgo ci sarà anche se tutti gli automobilisti seguono alla lettera le norme del codice: è una questione di idraulica, non di etica. La tendenza di dare la colpa al comportamento degli individui di ciò che non funziona nel distanziamento sociale, e di chiudere i recinti solo quando i presunti buoi sono scappati, è l’altra faccia del populismo. Laddove quello idolatra un “popolo” indistinto e unico che avrebbe sempre ragione, questo se la prende con un “popolo” invariabilmente indisciplinato che rovina tutto. Gli italiani hanno invece dimostrato di essere capaci di rigore e abnegazione se le norme sono chiare. Contemperare le tante diverse esigenze, dei commercianti e degli infermieri, dei consumatori e dei malati, dei giovani e degli anziani, non è esercizio facile per nessun potere pubblico, e comprendiamo le incertezze del nostro. Ma una linea va scelta e tenuta. Ieri il commissario europeo Paolo Gentiloni ha scritto in un tweet: “La Germania ha avuto finora 1,3 milioni di casi e 21mila morti. Noi 1,8 milioni di casi e 64mila morti. In Germania nuove misure restrittive fino al 10 gennaio”. In Italia ce la prendiamo con la gente. Migranti. Visita del Garante dei detenuti al Cpr di Gradisca: “tempo vuoto, rischio violenza” ansa.it, 15 dicembre 2020 Palma: “Covid da controllare ma gestione è accurata”. “Il Cpr di Gradisca d’Isonzo mostra i limiti di tutti i Cpr: quello di essere un tempo vuoto in cui si attende a lungo un rimpatrio che a volte avviene e a volte no, e ciò può anche determinare frustrazione e violenza”. Lo ha detto oggi il presidente del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma, al termine della visita al Cpr di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), che al momento ospita 88 persone di diversa provenienza, alcune stabili e alcune di passaggio in attesa di trasferimento al vicino aeroporto di Ronchi dei Legionari. “Un tempo vuoto che speriamo venga ridotto grazie alle modifiche introdotte al Decreto Sicurezza già approvato dalla Camera dei deputati e ora all’esame del Senato”, ha aggiunto Palma, alla guida di una delegazione in visita a diverse strutture nella regione Friuli Venezia Giulia, tra carceri, Cpr e residenze sanitarie assistenziali, divenute in tempo di Covid a tutti gli effetti strutture dalle quali le persone non si possono liberamente allontanare. “Va dato atto che la gestione del Cpr di Gradisca è più accurata rispetto a quella di altri centri analoghi in Italia”, ha poi aggiunto Palma. “Dal punto di vista dell’emergenza Covid - ha proseguito il presidente del Garante - da un lato anche il Cpr di Gradisca soffre di una carenza di spazi che sarebbero necessari per contenere i contagi, dall’altro la situazione non appare al momento preoccupante, perché solo il 10% dei positivi presenta sintomi. Certo - ha concluso - la situazione epidemiologica deve essere costantemente monitorata dal personale medico per evitare peggioramenti”. Migranti. “Navi quarantena”, i minori che hanno perso la vita sono due di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 dicembre 2020 La storia di Abdallah Said, morto il 14 settembre all’ospedale di Catania. Intanto 150 organizzazioni italiane e internazionali denunciano: il sistema è inefficiente da tutti i punti di vista, il governo lo cancelli. C’è un secondo minore morto in ospedale dopo il trasferimento d’urgenza da una “nave quarantena”. O meglio, quello di Abdallah Said è il primo caso in assoluto. Il diciassettenne somalo è deceduto all’ospedale Cannizzaro di Catania il 14 settembre scorso, ventidue giorni prima di Abou Diakite, quindicenne ivoriano che ha perso la vita all’ospedale Ingrassia di Palermo il 5 ottobre. “Da sotto il lenzuolo del letto di ospedale sporgevano le ossa del bacino. Era pelle e ossa. Una scena agghiacciante e disumana. Volevo vederlo, stingergli la mano per non farlo sentire solo. Ma era già incosciente. Due giorni dopo è morto”, la drammatica testimonianza è dell’avvocata Antonia Borrello. La legale ha ricevuto la nomina a tutrice di Said venerdì 11 settembre ed è andata subito a cercarlo al pronto soccorso di Augusta, dove era stato sbarcato dalla nave quarantena Azzurra, in rada nel porto siciliano dal 29 agosto. Said era in quarantena ma non aveva il Covid-19. Era affetto da tubercolosi, probabilmente contratta nei due anni di prigionia in Libia. Di quella malattia portava addosso le piaghe. I risultati dell’autopsia arriveranno il giorno di Natale, al momento si presume sia morto di encefalite, un’infezione del cervello. Se i medici della nave Azzurra hanno commesso omissioni o negligenze è oggetto delle indagini della procura di Siracusa, partite dall’esposto presentato da Borrello e dall’intervento del tribunale per i minorenni di Catania. Said ha nome e cognome solo perché uno dei suoi fratelli, residente in Germania, è andato a cercarlo in Sicilia. Sapeva della sua partenza dalla Libia e si preoccupava per la mancanza di notizie. Senza di lui lo avrebbero seppellito in forma anonima e la sua storia sarebbe stata inghiottita in un buco nero, insieme a quella di tanti altri migranti. La morte di Said non aveva avuto finora eco mediatica e non ha spinto le autorità a ripensare la quarantena sulle navi, che per i minori significa anche ritardi nella nomina del tutore (secondo la legge Zampa dovrebbe avvenire entro tre giorni dall’arrivo). L’episodio getta un’ombra in più sul successivo decesso di Diakite, avvenuto in circostanze simili dopo il trasferimento dalla nave Allegra. Si sarebbe potuto evitare? Dopo la morte del quindicenne ivoriano molte associazioni siciliane e il Garante infanzia di Palermo hanno chiesto di non far salire più i minori sulle navi. Anche la Cri era contraria all’imbarco dei ragazzi e ha fatto pressioni. Il Viminale ha dato indicazione di far trascorrere ai minori non accompagnati l’isolamento a terra verso la fine di ottobre. “Questa informazione circola, ma non ci sono atti ufficiali. Tutto ciò che ruota intorno alle navi quarantena è connotato da una grave mancanza di trasparenza”, ha denunciato Sergio Cipolla, presidente della Ong Cooperazione Internazionale Sud Sud. Cipolla è intervenuto in una conferenza stampa organizzata ieri da una coalizione di 150 organizzazioni italiane e internazionali che ha presentato un rapporto sul “sistema navi-quarantena”. Le 14 pagine sono un atto d’accusa duro e circostanziato nei confronti della prassi introdotta dal decreto della protezione civile del 12 aprile in seguito al decreto interministeriale “porti chiusi” di cinque giorni prima. Circa 13mila persone sono transitate sulle imbarcazioni affittate dallo Stato e gestite dalla Cri, mentre al momento solo poche decine sono a bordo (fonte: Cri). Le “criticità” individuate dalle associazioni riguardano tre piani. Sanitario: oltre alle preoccupazioni che l’ambiente delle navi faccia crescere i rischi di contagio invece di ridurli, ci sono quelle per l’acuirsi di pregressi problemi di salute e disagio psicologico. “Il caso più drammatico è di un 22enne tunisino in quarantena sul traghetto Moby Zazà che nella notte del 20 maggio si è gettato in mare e ha perso la vita”, si legge nel rapporto. A livello giuridico sono stati riscontrati profili discriminatori, visto che questa prassi riguarda solo gli stranieri, e di violazione delle procedure d’asilo, in casi documentati da Asgi e Msf. “Il decreto che ha chiuso i porti è stato emanato sulla base di un presupposto che non si è verificato: che i migranti sbarcati avrebbero intasato il sistema sanitario nazionale”, ha sottolineato Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato esperto di diritto dell’immigrazione. Infine, dal punto di vista economico è stato calcolato che ogni migrante a bordo delle navi costa allo Stato 150-200 euro al giorno. “Quattro-cinque volte quanto l’accoglienza a terra. E le stime sono per difetto perché molti atti non si possono consultare”, afferma Fausto Melluso, responsabile migrazioni di Arci Sicilia. La richiesta al governo è di mettere fine a questo sistema. Migranti. “Giovani naufraghi”, la fuga verso il futuro dei minori non accompagnati di Carlo Lania Il Manifesto, 15 dicembre 2020 Un dossier di Sos Mediterranée. Le storie dei bambini tratti in salvo nel Mediterraneo dalla ong europea. Alcuni di loro partono che sono ancora dei bambini e arrivano che sono quasi uomini. Alle spalle un viaggio che può durare anche anni, ma soprattutto si lasciano dietro miseria, guerre, persecuzioni o violenze, familiari e sessuali. E in comune, oltre al destino, hanno anche un’altra cosa: sono tutti minori, spesso non accompagnati da un adulto che si prenda cura di loro. I più vulnerabili tra i vulnerabili: “I loro nomi sono James, Esther, Selim, Souleyman, Yasmine, Magdi, Youssouf, Abdo, Hamid e Yussif. Prima di “migranti sono soprattutto adolescenti con storie particolari, spesso molto difficili”, scrive la ong Sos Mediterranée che ha raccolto le storie di alcuni di loro in un dossier intitolato “Giovani naufraghi. Percorsi di minori salvati dalla Aquarius e dalla Ocean Viking”, le due navi della ong europea che, in periodi diversi, hanno operato nel Mediterraneo centrale. In quattro anni, dal 2016 al 2019, Sos Mediterranée ha strappato al mare 30.734 persone, quasi un quarto delle quali, 6.836, erano minori. Ragazzi e ragazze costretti alla fuga dalle ragioni più diverse. Come James, nigeriano. Aveva 17 anni quando lasciò il suo Paese per la morte dei genitori, 22 quando venne salvato. “Ero da solo, dovevo guadagnarmi da vivere. Ma non c’era alcuna possibilità di trovare lavoro nella mia regione”, ha raccontato ai volontari di SosMed. Non è detto che chi una famiglia ce l’ha, sia più fortunato. Esther, anche lei 17 enne, è fuggita dal Ghana perché volevano farle sposare il figlio dello zio paterno. Così dice la tradizione del suo Paese, ma lei avrebbe voluto studiare. “Non è facile per una donna vivere in Ghana”, ha raccontato. “Se non accetti le regole la famiglia ti rigetta. Mia madre non voleva che fossi buttata per strada, ma mio padre mi diceva che se non avessi sposato l’uomo che aveva scelto per me mi avrebbe uccisa”. Ufficialmente le politiche europee mirano a contrastare i trafficanti di uomini, in realtà rendono sempre più pericoloso il viaggio di chi vuole raggiungere l’Europa ad ogni costo: “Molti di questi minorenni - testimonia ad esempio Lea Main-Klingst, volontaria e cofondatrice di Sos Mediterranée in Germania dopo il salvataggio di un’imbarcazione con molti migranti eritrei - arrivano a bordo con solo i vestiti sulla schiena. Molti non avevano scarpe… Ovviamente nessuno di loro aveva calzature adatte ad attraversare il deserto o la Libia”. Non basteranno mai i racconti degli orrori vissuti dai migranti sull’altra sponda del Mediterraneo, dove la cosiddetta Guardia costiera libica riporta i disperati che vengono intercettati in mare: torture, furti, stupri, riduzione in schiavitù, uccisioni sono all’ordine del giorno e se hai la sfortuna di volere una vita migliore vieni trattato come un nemico. “Prima le donne e i bambini è una frase che viene fuori quando si evocano scene di guerra”, scrive il presidente di SosMed, Alessandro Porro. “Ma che dire di quei bambini che viaggiano da soli e che attraversano il Mediterraneo su gommoni sovraccarichi?”. Perché oggi ci imbarazza la Legion d’Onore come ad Al Sisi di Emma Bonino La Repubblica, 15 dicembre 2020 Dopo la restituzione del riconoscimento da parte di Corrado Augias, anche la senatrice, che lo aveva ricevuto nel 2009, attacca il capo di Stato francese che ha attribuito l’onorificenza al presidente egiziano: “Sconcerto e indignazione”. Ecco il testo della lettera dell’ex ministra agli Affari esteri. “Caro presidente, l’attribuzione della Legion d’onore al Presidente della Repubblica egiziana Al Sisi ha destato in me e in tutto il mio paese un grande sconcerto e profonda indignazione. Lei conosce perfettamente l’intera vicenda che ha coinvolto il nostro concittadino Giulio Regeni, arrestato il 26 gennaio 2016 e brutalmente torturato per nove giorni fino al suo assassinio, come è stato provato da una inchiesta giudiziaria condotta dalla Procura di Roma. Lei d’altra parte non può ignorare la situazione egiziana nella quale lo stesso destino è stato riservato a oltre mille Regeni, che hanno subito la stessa sorte del giovane italiano, spariti nelle carceri del regime, molti di essi senza accusa e senza processo. Non conosco le motivazioni dell’attribuzione di questa onorificenza. Ma quali che esse siano, di fronte a questa situazione e alle responsabilità del Presidente egiziano e del suo governo, esse sono inaccettabili. So perfettamente che la Francia, come l’Italia e altri paesi europei ed extraeuropei, ha nei rapporti con l’Egitto importanti interessi economici, commerciali e di equilibrio geostrategico da salvaguardare ma deve pure esistere un limite alle considerazioni della realpolitik. E da parte di un Paese come la Francia che sul finire del ‘700 ha consegnato al mondo la prima dichiarazione dei diritti dell’uomo, il rispetto dei diritti umani e la loro universalità, dovrebbe essere tenuta almeno nello stesso conto in cui vengono tenuti gli interessi economici e geopolitici. Non sono fra coloro che auspicano rotture diplomatiche o altre tensioni. Ho a cuore i rapporti con la Francia e ritengo preferibile la via del dialogo. Avrei preferito che di questo si fossero fatti interpreti le istituzioni dello Stato italiano. In attesa di un loro intervento, mi rivolgo a Lei nella mia qualità di Senatore della Repubblica italiana e, se mi consente, di cittadina europea. So perfettamente che l’Egitto non è l’unico paese a macchiarsi di questi delitti contro i diritti fondamentali dell’Uomo. Molti altri paesi lo fanno e, anche in Europa, sappiamo quanto sia difficile far rispettare i principi dello Stato di diritto, messi in discussione attualmente da almeno due partner dell’Unione Europea. E proprio per questo ritengo che in ogni circostanza non ci si debba astenere dal richiedere ai governi di questi paesi il rispetto dei diritti umani e dal condannare la loro violazione, soprattutto quando si traduce nell’assassinio di un innocente e in ogni caso di una persona che avrebbe avuto diritto a un arresto pubblico e a un processo giusto. A maggior ragione ci si dovrebbe astenere dall’onorarne e premiarne con alte onorificenze i Capi di Stato. Nel 2009 sono stata insignita della Legion d’Onore. Ne sono stata onorata quanto oggi sono imbarazzata di trovarmi in simile compagnia. Altri amici e colleghi italiani la stanno restituendo in questi giorni come importante gesto simbolico non per malanimo verso i cittadini francesi ma per sottolineare un errore che riteniamo lei abbia commesso e che le chiediamo di riparare nelle modalità che riterra opportune, a partire da una più profonda collaborazione nell’accertare queste violazioni ovunque siano commesse, anche nei nostri paesi. Sono profondamente convinta che l’impunità promuove efferatezze e proprio per questo. Italia e Francia sono state insieme nella creazione della corte penale internazionale e del tribunale per i crimini contro l’umanità commessi nella ex Jugoslavia e per la convenzione contro la tortura che anche l’Egitto ha condiviso. Dobbiamo andare avanti, Signor Presidente, su questo cammino difficile e non tornare indietro “onorando” coloro che si rendono responsabili della violazione del diritto internazionale”. Egitto. Gli assassini di Regeni e la nostra impotenza di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 15 dicembre 2020 Nessuno ha avanzato una proposta concreta per reagire al comportamento oltraggioso del Cairo. “Uno Stato serio non si lascia trattare così”: sono stato immediatamente d’accordo quando qualche giorno fa ho letto queste parole scritte da Giuliano Ferrara a proposito dell’omicidio di Giulio Regeni. E infatti alla notizia dell’ennesimo rifiuto del governo egiziano di far luce sul delitto di cui è certamente responsabile la mia fantasia nazional-patriottica si è immediatamente scatenata a immaginare adeguate azioni di rappresaglia. Mi sono figurato, ad esempio, un gruppo di incursori del “Col Moschin” che dopo essere scesi da un elicottero sul tetto della sede dei servizi di sicurezza egiziani, al Cairo, si precipitavano al suo interno, mettevano le mani sui quattro ceffi rinviati a giudizio per il caso Regeni, li impacchettavano e li riportavano a Roma per rispondere delle loro malefatte. Troppo difficile da eseguirsi per ragioni tecniche? Va bene. Allora ho immaginato in alternativa, che so, un provvedimento come il prelievo del 15 per cento su tutte le rimesse di denaro eseguite ogni giorno dalle molte migliaia di cittadini egiziani che lavorano in Italia e che mandano soldi a casa. O forse meglio, invece, la loro espulsione dall’Italia? Magari il sequestro dei loro beni? Mi sono reso conto ben presto, però, che si trattava di esercizi di fantasia. Di pura fantasia. Per le più svariate ragioni. Perché in Italia c’è lo Stato di diritto, c’è l’articolo 11 della Costituzione, c’è l’Eni, ci sono la Destra e la Sinistra, e poi perché c’è l’Europa la quale mette limiti e vincoli e pur vantandosi di rappresentare “uno spazio di libertà, di giustizia e di legalità”, se per una volta però si tratta di fare sul serio, di agire, allora c’è sempre l’interesse nazionale di qualcuno (assai raramente quello italiano mi pare...) che si mette in mezzo. C’è sempre un Macron pronto a svendere i “valori repubblicani” pur di vendere armi e navi agli egiziani al posto nostro. “Uno Stato serio non si lascia trattare così”. È vero. E per una volta tutti i commenti, tutti i giornali, tutti i partiti, sono stati d’accordo. L’indignazione è stata generale e così pure l’invocazione ad adeguate rappresaglie. Peccato però che non si sia sentita una voce, dico una, che abbia provato a rispondere alla domanda: e allora? Che cosa deve fare allora l’Italia per reagire al comportamento oltraggioso del Cairo? Che cosa in concreto, quale misura? In una versione aggiornata per l’occasione del solito “Armiamoci e partite” tutti a gran voce hanno intimato al governo di fare qualcosa ma nessuno ha saputo dire che cosa. Nessuno, mi pare, ha avanzato la minima proposta se non quella, in buona misura simbolica, di congelare le relazioni diplomatiche con il Cairo ritirando il nostro ambasciatore e dichiarando persona non grata l’ambasciatore egiziano. Immagino lo spavento di al Sisi quando lo hanno informato della minaccia. La verità è che lo Stato italiano è quello che è, e al di là di mille proclami e mille solenni dichiarazioni sempre possibili (ma che lasciano il tempo che trovano) non ha in mano alcuna arma efficace né per avere giustizia né per far pagare al Cairo il prezzo del suo delitto. E proprio la serietà che in tanti esigono dal suddetto Stato richiederebbe, mi pare, che lo si riconoscesse apertamente. Solo i singoli cittadini italiani, forse, possono fare qualcosa. Anche se non è davvero molto: possono rinunciare, ad esempio, a comprare quelle poche, pochissime cose che importiamo dall’Egitto, o evitare di andare in vacanza a Sharm el Sheikh o comunque non visitare quel Paese governato da assassini. Ma questo è tutto, ahimè. Colombia: morte Mario Paciolla, l’appello della madre: “Non siate complici” di Gianpaolo Contestabile, Simone Scaffidi Il Manifesto, 15 dicembre 2020 A cinque mesi dalla morte del cooperante Onu, ancora nessuna verità. Sono passati più di 150 giorni dalla morte di Mario Paciolla, cooperante Onu in servizio nella Missione di Verificazione delle Nazioni unite in Colombia. Il caso giudiziario è diventato anche un caso diplomatico. Dalle informazioni che sono trapelate dalle indagini in corso in Colombia e in Italia emergono ipotesi contrastanti, incompatibili: si è trattato di suicidio secondo le autorità colombiane mentre è stato aperto un fascicolo per omicidio da parte della Procura di Roma. Secondo Vittorio Fineschi, il medico legale che ha coordinato l’esame autoptico eseguito sul corpo di Mario Paciolla, i risultati delle analisi mostrano una risposta chiara ma il verdetto non può ancora essere reso pubblico su richiesta della Procura che ha già ricevuto le 300 pagine del referto. La procuratrice Lotti che guida il pool di magistrati dedicato al caso ha commentato: “Su questo caso stiamo lavorando pressoché quotidianamente, non è semplice perché il materiale non si trova tutto in Italia, dobbiamo lavorare con diversi contesti e interlocutori ma le attività vanno avanti e abbiamo già acquisito molto materiale che si trova ora al vaglio”. Nel frattempo all’appello mancano informazioni riguardanti la terza indagine che sarebbe in corso internamente alle Nazioni Unite. Intanto la memoria di Mario Paciolla continua a essere mantenuta viva da familiari, amici, colleghi e associazioni da entrambi i lati dell’oceano. Lo scorso novembre, il comune di Frattamaggiore ha esposto lo striscione per chiedere verità e giustizia seguendo l’esempio del municipio di Napoli. Proprio di Napoli Mario scriveva anche quando era lontano dalla sua terra. Durante un festival dedicato al giornalismo civile internazionale dal nome “Imbavagliati”, è stato ricordato il lavoro di Paciolla insieme a quello di Giancarlo Siani, Ilaria Alpi e Giulio Regeni. Il presidente della Federazione Nazionale Stampa Italiana Giuseppe Giulietti ha dichiarato anche a proposito del caso Paciolla: “Saremo scorta mediatica per avere verità e giustizia”. Anche in Colombia il cooperante italiano ha lasciato il segno nella memoria dei suoi abitanti. Durante il Festival “Remare per la Pace”, il volto di Mario Paciolla è stato dipinto sulla facciata di una roccia sul fiume Pato, dove l’uomo aveva contribuito a costruire il festival per favorire il reintegro degli ex combattenti nella società civile attraverso lo sport. Sempre dalla località del Pato, nel comune di San Vicente del Caguàn, viene il ricordo di Norberto, vicepresidente di Amcop, la riserva agricola locale, secondo il quale la morte di Mario “è stato un evento imprevedibile, ha lasciato una grande sensazione di amarezza, un silenzio strano”. Edilma invece, anche lei attivista di San Vicente del Caguàn, intervistata dal ricercatore Simone Ferrari, ha lanciato un messaggio alla famiglia di Mario ricordandolo come “una persona molto importante per questo municipio, soprattutto per i nostri leader sociali, era una persona che si preoccupava sempre della vita sociale di questa comunità”. Dalla valle del Caguán vengono anche le parole, riportate da Agensir, di Padre Giacinto Franzoi, missionario che racconta il fallimento degli Accordi di Pace i cui sforzi “sembrano scritti sulla sabbia” e commenta la morte di Mario Paciolla denunciando: “Lo hanno ucciso per bloccare la pace”. A fare eco a queste parole ci sono le riflessioni di Ascanio Celestini che, dalla sua pagina personale, invoca un’analisi più approfondita del caso, un lavoro di decostruzione e inchiesta per non limitarsi ad accettare le versioni rassicuranti diffuse dalle autorità, per non ripetere l’errore dei casi Giuseppe Pinelli, Stefano Cucchi e Davide Bifolco. In questi giorni dove i limiti della diplomazia italiana rendono ancora più insopportabile la violenza che ha ucciso Giulio Regeni e che tiene prigioniero Patrick Zaki, diventa urgente rompere anche il silenzio istituzionale che attornia il caso di Mario Paciolla. Un modo per fare breccia nel muro di omertà che ostacola le indagini è anche quello di riportare le parole scritte da Mario Paciolla, in questo caso i versi condivisi dagli amici che gestiscono la pagina che chiede verità e giustizia per il cooperante, giornalista e poeta: “Non ritrarrò né l’alba né il tramonto di un Placido paesaggio campestre, ma ne coglierò l’essenza. Non conoscerò il nome delle stelle, ma riuscirò a raccoglierlo quando inciamperanno nel buio. Non avrò le Ali di un gabbiano, forse, ma volerò lo stesso”. In questa direzione va anche l’appello di Anna Motta, la madre di Mario Paciolla, che ci ricorda: “Mario merita e pretende verità e giustizia, per questo mi rivolgo alle tante persone che lo hanno conosciuto e che sanno la verità sulla sua morte, di abbandonare le reticenze e l’omertà, di dare voce alle proprie coscienze e di collaborare, chi non lo farà si renderà complice di questo delitto”. Stati Uniti. Così Biden cercherà di fermare il grande business delle carceri di Francesca Berardi Il Domani, 15 dicembre 2020 Alla fine del febbraio 2017, appena un mese dopo l’inaugurazione della presidenza di Donald Trump, l’allora procuratore generale Jeff Sessions dava ufficialmente il via alla luna di miele tra la nuova amministrazione e il settore delle prigioni private. Con una nota lunga appena un paragrafo cancellava la raccomandazione data dalla precedente amministrazione Obama al Bureau of Prisons, l’agenzia responsabile per le carceri federali, di ridurre o non rinnovare i contratti con società private. Il memorandum di Obama, secondo Sessions, aveva messo “il Bureau in condizioni di non poter affrontare le future necessità del sistema penitenziario federale”. Per questo, ordinava all’agenzia di “tornare all’approccio di prima”, dando così anche a intendere che tra le sue priorità non c’era certo quella di ridurre il numero di carcerati. Nell’arco di poche ore le azioni delle due principali imprese americane del settore, Geo Group e Core Civic, che avevano ripreso quota già dall’annuncio della vittoria di Trump, segnarono numeri da record, rassicurando gli investitori per i quattro anni a venire. Esattamente l’opposto di quanto accaduto un mese fa, quando la vittoria del democratico Joe Biden ha iniziato a essere palese per tutti, o quasi. Nella prima settimana dopo l’election day, entrambe le società hanno perso alla borsa di New York tra i115 e il 20 per cento. Tra gli impegni che Biden ha voluto ereditare dall’ala più a sinistra del suo partito, c’è infatti quello di tornare sulle orme di Obama nell’opporsi alla privatizzazione delle carceri. Il business dell’incarcerazione Nel corso della sua campagna ha promesso di mettere fine al business dell’incarcerazione, quantomeno a livello federale. La misura, come anticipato da un portavoce del presidente eletto, dovrebbe coinvolgere sia il Bureau of Prisons che un’altra agenzia federale, la Us Immigration and Customs Enforcement (Ice), preposta al controllo dell’immigrazione e delle frontiere. Quasi l’80 per cento degli immigrati detenuti negli Stati Uniti si trova infatti in Centri di detenzione privati, inclusi quelli rivolti a intere famiglie e aperti proprio durante l’amministrazione Obama, con una scelta che fu duramente criticata. Il dibattito politico sulla privatizzazione delle prigioni va avanti da decenni negli Stati Uniti, quantomeno da quando, nel 1997, il governo federale ha cominciato ad appaltare la gestione e costruzione di alcune delle sue prigioni a società private, cosa che diversi stati già facevano dagli anni ottanta. Tuttavia il discorso è molto più antico e affonda le sue radici nelle pratiche emerse soprattutto negli stati del sud dopo la guerra civile, in seguito all’abolizione della schiavitù: in mancanza di schiavi, i proprietari delle piantagioni stringevano accordi con le autorità locali per sfruttare i detenuti, che in ogni caso restavano per la maggioranza neri. Senza entrare in digressioni storiche, basti pensare che il carcere di massima sicurezza della Louisiana è conosciuto come “Angola” dal nome della piantagione che ha rimpiazzato. L’importante è il profitto Sebbene il tema dello sfruttamento del lavoro dei carcerati rimanga valido ancora oggi, con alcuni stati come l’Arkansas che non impongono alcun tipo di remunerazione, ciò che viene criticato alle carceri private è appunto un approccio che, per loro stessa natura, predilige il profitto sulla riabilitazione. Diverse testate americane se ne sono occupate in modo approfondito. Nel 2014, un giornalista di Mother Jones, Shane Bauer, si è fatto assumere come guardia carceraria in una prigione statale gestita da Core Civic. Dalla sua indagine ed esperienza da insider, durata quattro mesi, è emerso un mondo in cui i detenuti sono ancora più esposti a violenza e abusi, mentre il personale viene preparato e remunerato al minimo, e i programmi per la riabilitazione ridotti all’osso. “Una delle ragioni per cui i peggiori abusi nelle carceri americane avvengono dentro strutture private è che queste non sono sottoposte allo stesso tipo di monitoraggio di quelle pubbliche”, spiega David Fathi, direttore del National Prison Project dell’American Civil Liberty Union (Aclu), una secolare organizzazione che si occupa di difendere i diritti garantiti dalla costituzione e le libertà civili degli americani. “Per esempio la legge che garantisce accesso ai documenti governativi, la Freedom of Information Act, non si applica a queste compagnie private”. Lo stesso, spiega Fathi, vale per un’altra legge, la Open Meeting Law, riguardante la trasparenza delle riunioni tra rappresentanti di enti pubblici. Coloro che invece difendono la privatizzazione delle carceri, come Sessions nella sua breve nota, sostengono che risponda in modo cosa effective, ovvero economicamente conveniente, al bisogno di posti letto nelle prigioni, in altre parole che aiuti a ridurre i costi dell’incarcerazione di massa diventandone di fatto il principale business parassita. Con oltre due milioni di persone recluse, gli Stati Uniti continuano infatti a registrare il più alto tasso di incarcerazione al mondo. Anche se nelle carceri private è rinchiuso meno del 10 per cento della popolazione carceraria americana, si parla di centinaia di migliaia di persone. Per un business con un valore complessivo di miliardi di dollari. Nel corso dell’ultimo anno fiscale, più della metà dei ricavi di Geo Group e Core Civic provenivano dal governo federale. Geo Group, in assoluto la società più grande nel settore, ha firmato con Washington contratti per 900 milioni di dollari, quasi il doppio rispetto all’ultimo anno della presidenza Obama. La felice relazione tra le compagnie che gestiscono strutture di detenzione private e l’amministrazione uscente, negli ultimi quattro anni si è consolidata in diversi momenti, anche non sospetti. Ad esempio quando Trump ha deciso di firmare prima di quanto stabilito la sua controversa riforma fiscale, alle porte del Natale 2017. Per le grandi compagnie nel campo delle prigioni private, e per i loro azionari, è stata una manna dal cielo: “l’affitto” delle celle al governo era stato, già da tempo, riconosciuto come equiparabile a un’operazione immobiliare e dunque avrebbe goduto di significativi sgravi sulle tasse. D’altronde le società coinvolte non hanno risparmiato per sostenere l’ascesa politica di Trump, né nel 2016, né quest’anno. Nel corso delle scorse elezioni, oltre ad aver contribuito generosamente alla sua campagna elettorale attraverso un super Pac repubblicano, Geo Group aveva donato 250mila dollari per l’inaugurazione. A curare gli interessi della società a Washington, negli ultimi anni, è stato Brian Ballard, considerato il più potente lobbista nella cerchia di Trump. Inoltre il fondatore e amministratore delegato di Geo Group, George Zoley, frequentava regolarmente i resort del presidente e aveva spostato la conferenza annuale della sua azienda nel suo golf club di Dorai, alle porte di Miami. Insomma tutto era stato predisposto affinché gli affari andassero bene e così è stato. Fino a ora. “L’elezione di Biden è un colpo duro per il settore delle prigioni private - conferma Fathi. Il governo federale è il loro cliente maggiore, quindi perderlo potrebbe stenderle al tappeto”. Tuttavia, spiega il direttore del National Prison Project, è importante che Biden estenda l’intenzione di chiudere i contratti anche per quanto riguarda la detenzione degli immigrati, o meglio ancora che riduca questo tipo di incarcerazione fino a porne fine. Durante l’amministrazione Trump sia Geo Group che Core Civic hanno infatti stretto nuovi contratti a lungo termine con l’Ice e rescinderli non sarà così semplice. È anche puntando sulla detenzione degli immigrati senza documenti che il settore -punta di sopravvivere all’era Biden, oltre ad aver già pianificato una diversificazione dei servizi, come l’espansione dei programmi di riabilitazione post carcere. “il numero di persone rinchiuse nelle carceri federali è già in diminuzione dal 2011 e Biden dovrebbe puntare a diminuirla ulteriormente”, spiega Fathi. Biden, che è stato criticato per aver in passato sostenuto leggi dure in materia di lotta al crimine e alla droga, in vista di queste elezioni si è detto deciso a decriminalizzare reati minori, come l’uso e possesso di marijuana. “È assolutamente possibile che riesca a rispettare la sua promessa e a mettere fine alla privatizzazione delle carceri - dice Fathi - Negare alle persone la propria libertà, chiuderle in una gabbia, può essere fatto solo da un governo democratico e responsabile delle proprie azioni, non da una società privata il cui obiettivo è massimizzare i profitti”.