Coronavirus nelle carceri: perché la seconda ondata ha portato più contagi della prima di Giada Ferraglioni open.online, 14 dicembre 2020 Nonostante le accortezze e i mesi di assestamento, nelle carceri italiane i casi sono aumentati. Alessio Scandurra dell’Associazione Antigone ha spiegato a Open il perché. Nell’occhio del ciclone della pandemia le Rsa ma anche le carceri. Sono questi i luoghi dove residenti e detenuti hanno subito più di tutti le conseguenze dell’isolamento imposto dal Coronavirus. Da una parte la strage nelle strutture per anziani, che ha attraversato la prima e la seconda ondata e che ha scritto una delle pagine più buie della nostra storia. Dall’altra la situazione già di per sé critica dei centri di detenzione, aggravatasi ulteriormente durante la pandemia. Vite, quelle dei carcerati, che sono passate in sordina durante nove lunghi mesi di emergenza. Erano i primi giorni di marzo quando nelle strutture penitenziare di tutta Italia scoppiarono una serie di rivolte che portarono alla morte di 13 detenuti. La decisione di interrompere le visite per evitare l’ingresso del Sars-Cov-2 nelle strutture già sovraffollate aveva fatto alzare un moto di rabbia e sconforto, colmato poi in parte dall’organizzazione nelle settimane successive. Quando le acque si erano calmate, l’attenzione mediatica su di loro era pian piano andata a morire. Ma è stato proprio in questi mesi che i vecchi problemi si sono aggravati, nonostante gli sforzi di tutto il sistema. “Questo è quello che preoccupa di più”, spiega a Open Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione. Da settembre l’associazione aveva ripreso le visite negli istituti, ma con la nuova ondata si sono fermati di nuovo per evitare di fare da veicoli di trasmissione. “Nonostante si abbia un sistema carceri più organizzato, la situazione continua a peggiorare”. Nel periodo tra febbraio e agosto, i dati ufficiali parlano di 568 persone contagiate, 4 delle quali decedute (2 agenti e 2 detenuti), 557 guariti (314 operatori e 243 detenuti) e 7 positivi. Secondo quanto emerso nelle ultime settimane dai dati diffusi dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap), rispetto alla prima fase della pandemia i positivi sono triplicati. Al 7 dicembre (senza contare le variabili, ma solo gli aggregati), i detenuti risultati positivi erano in tutto 958, gli agenti 810 e gli addetti del personale amministrativo 72. Eppure, come racconta Scandurra, la vita nelle carceri non è ancora tornata alla normalità. Tutte le attività sono sospese, dal volontariato alla formazione professionale. Anche la scuola sta avendo difficoltà, seppur in maniera diversa da struttura, perché “le carceri sono una realtà molto varia”. La didattica a distanza è stata una débâcle generale, a parte qualche esempio virtuoso. “Nella gran parte degli istituti penitenziari la Dad si è interrotta a febbraio”, dice. “Poi si è provato a far ripartire la scuola in presenza a settembre, ma le lezioni sono state incostanti”. L’unica cosa rimasta in piedi sono i colloqui con i familiari - l’attività che più di tutte ha concentrato le energie e gli strumenti a disposizione. Ma anche qui, le grandi sale con i tavolini adibite solitamente agli incontri si sono ridotte a stanze divise da un muro di plastica. “Le visite sono diminuite di molto perché non si possono fare troppi colloqui in contemporanea”, spiega Scandurra. “E anche i familiari spesso faticano a muoversi, sia a causa delle limitazioni nazionali sia per la paura di contagiarsi uscendo di casa”. Durante la prima ondata il panico si toccava con mano. I familiari dei detenuti chiamavano in lacrime i volontari di Antigone, dicendo di non sapere come stessero i loro cari oppure parlando di presunte infezioni da Covid-19 nelle celle. “I primi mesi per noi sono stati pesantissimi”, dice Scandurra. “Ci sono state le rivolte, i trasferimenti di massa, i detenuti che non si sapeva dove fossero stati mandati. Ora sono tutti più calmi ma le preoccupazioni non sono finite”. Tutto sommato, dice Scandurra, le disposizioni sono molto rigide e c’è organizzazione. Ma il virus, proprio come per gli ospedali e per le Rsa, entra dagli spiragli. E proprio come per la prima ondata, anche stavolta si cammina di pari passo (e un po’ peggio) con il resto della popolazione. “Il problema è che a portare il Covid-19 è il personale che nelle carceri ci lavora”, spiega. “Queste persone hanno giustamente una vita fuori, vedono i familiari, prendono i mezzi di trasporto. Non si può avere il rischio 0. Nei momenti più duri della primavera ho visto alcuni di loro dormire in carcere per evitare di essere vettori di focolai. Ma insomma, non lo si può pretendere a lungo”. Tutto questo diventa un problema soprattutto per la mancanza di spazio. Secondo i dati diffusi dal ministro Alfonso Bonafede, sarebbero 54.132 le persone detenute nelle 189 strutture presenti sul territorio italiano (quasi 700 in meno di novembre). In tutto, il numero disponibile di posti letto è di 50.568: il livello di affollamento, dice il Ministero, è del 105,5%. Un numero di per sé già elevatissimo, che però non prende in considerazione un’altra questione, sollevata invece da Rita Bernardini, storica leader dei Radicali, che sta portando avanti uno sciopero della fame contro il sovraffollamento. Di questi 50.568 posti, circa 4 mila non sarebbero agibili. Dunque, la percentuale di sovraffollamento sale al 115%. “È una realtà strana quella delle 189 carceri”, ha detto Bernardini all’Adnkronos. “Alcune sono quasi semivuote, con meno detenuti dei posti disponibili. Ma almeno 115 sono sovraffollate. A Taranto su 100 posti ci sono 193 detenuti, a Lauro, dove le donne stanno con i loro bambini, su 27 posti ci sono 7 donne. A Sciacca su 72 posti ci sono 45 detenuti, a Regina Coeli, un carcere vecchissimo, su 606 posti disponibili abbiamo 964 detenuti”. Ma riorganizzare la distribuzione non basta. Gli spostamenti li hanno già fatti, spiega Scandura, e in questi mesi è stato messo in atto un rigido sistema di quarantene per i nuovi arrivati che tiene sotto controllo i flussi. Ogni mattina i direttori dei penitenziari chiamano i provveditorati regionali per dichiarare quante stanze di isolamento hanno a disposizione. Ma i positivi, nonostante questo, restano tanti. “Quel che funzionava nel primo lockdown era il ricorso alla detenzione alternativa”, spiega Scandurra. “I pm propendevano per gli arresti domiciliari quando possibile, come richiesto anche dal procuratore capo della Cassazione. Ora non mi pare che ci sia lo stesso slancio”. Date le difficoltà di gestione dei contagi e lo spazio spesso non adeguato al distanziamento minimo, ci si sta iniziando a chiedere se non sia buona cosa inserire i detenuti tra i primi destinatari del vaccino. “Come Antigone posso dirti che saremmo d’accordo nel farlo”, dice Scandurra. Alla fine, se entrassero solo gli agenti penitenziari (vaccinati) sarebbe facile tenere tutto sotto controllo, ma ci sono anche i volontari e tutto il personale che gira nelle strutture a metterli a rischio. “Ma è vero anche - sottolinea - che non esiste “il detenuto tipo”, ma tante diverse singolarità. C’è il giovane in buona salute, l’anziano, la persona di mezza età con la salute compromessa. Sarebbe molto, molto difficile organizzarsi”. Vaccino antiCovid-19 in carcere. Priorità e discriminazioni di Franco Corleone L’Espresso, 14 dicembre 2020 Pare che a gennaio inizierà la campagna di vaccinazione contro il virus che ha provocato una pandemia terribile e che in Italia ha provocato tanti morti, troppi e ha messo in luce la debolezza del sistema sanitario. La scelta di trasformare le unità socio-sanitarie in aziende e la affermazione della centralità dell’ospedale con il contestuale indebolimento della medicina territoriale si è dimostrata un fallimento culturale e gestionale. C’è da sperare che il piano per una imponente vaccinazione di massa, con l’obbiettivo di raggiungere una immunizzazione dell’intera popolazione sia condotto con intelligenza e senza timori di polemiche immotivate. La scelta delle categorie a cui dare priorità non dovrebbe essere difficile. Sorprende l’assenza dei detenuti che stanno vivendo una situazione difficile da mesi, condannati all’isolamento, alla cancellazione di incontri con i famigliari e di colloqui con i volontari. Le attività sono sospese e la vita in celle affollate, con servizi igienici inadeguati rappresenta un rischio come tutte le comunità chiuse. Infatti l’apocalisse delle Residenze per gli anziani sta a dimostrarlo. Molti sono i casi di contagio tra agenti di Polizia penitenziarie, personale medico e detenuti. Per fortuna il numero delle vittime è stato limitato finora, per la prevalenza di casi asintomatici. La fortuna non va però sfidata. Gli agenti saranno vaccinati come appartenenti a una forza di polizia, ma sarebbe incomprensibile che i detenuti non lo siano. Nelle Rsa tutti, ospiti e operatori saranno vaccinati, la stessa scelta, di prevenzione, dovrà essere adottata nelle carceri. Una discriminazione contro i detenuti e le loro famiglie apparirebbe dolo come una pena aggiuntiva. Stefano Anastasia, portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali ha denunciato l’incongruenza di questa decisione, lo stesso ha fatto l’Unione delle Camere Penali e la Società della Ragione ha promosso una campagna per chiedere l’attenzione del Ministro della Salute Roberto Speranza. Preoccupa poi che per quanto riguarda i tamponi in alcune carceri, come a Udine, l’esame venga fatto agli agenti di polizia penitenziaria solo una volta al mese. Arriva il vaccino anti-Covid, ma si sono dimenticati delle carceri di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 14 dicembre 2020 Un piano operativo per la vaccinazione anti-Covid dei detenuti, della polizia penitenziaria e del personale amministrativo e socio-sanitario in servizio nelle circa 200 carceri italiane. A invocarlo è l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane (Ucpi) che, in un documento ufficiale, stigmatizza l’inerzia delle istituzioni sul fronte della tutela sanitaria di chi vive e lavora in prigione. Una denuncia condivisa da Stefano Anastasia, garante dei detenuti della Regione Lazio, che si chiede: “Come mai i detenuti e le detenute non sono elencati tra le categorie alle quali l’antidoto al Covid-19 sarà somministrato con priorità?”. L’emergenza negli istituti di pena è conclamata dai numeri. L’ultimo report stilato dall’Osservatorio Carcere sulla base dei dati forniti dal Ministero della Giustizia, infatti, parla di 958 detenuti positivi al coronavirus di cui 868 asintomatici, 52 sintomatici gestiti internamente e 38 ricoverati in ospedale. Nella polizia penitenziaria e nel personale amministrativo, invece, le persone che hanno contratto il Covid sono rispettivamente 810 e 72. Eppure di un piano vaccinale per detenuti e personale non c’è ancora traccia. Tra le categorie alle quali l’antidoto al Covid sarà somministrato prioritariamente figurano medici e infermieri, ultrasessantenni, malati cronici, pazienti affetti da più patologie, addetti ai servizi essenziali come insegnanti e forze dell’ordine e chiunque viva in condizioni nelle quali non possa essere garantito il distanziamento fisico. A nessuno, però, interessano i detenuti, nonostante questi siano particolarmente esposti al Covid a causa del sovraffollamento delle celle, che ostacola qualsiasi forma di distanziamento, e delle pessime condizioni igieniche di molti penitenziari, che favorisce la diffusione delle malattie. “È ora che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria stilino un piano per la vaccinazione delle oltre 100mila persone che vivono e lavorano in carcere e, oltre a essere personalmente a rischio, sono potenziali diffusori del virus”, ammonisce il penalista Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi. Opinione condivisa da Stefano Anastasia: “I detenuti - spiega il garante laziale - stanno vivendo la più dura delle carcerazioni, impediti in gran parte delle attività e dei contatti con l’esterno, finanche con i familiari che possono vedere di persona una volta al mese e separati da una barriera di plexiglas. Le carceri, si dice, sono come le residenze sanitarie assistenziali. Ma se l’età media è più bassa, la diffusione delle patologie pregresse è senz’altro importante e le condizioni igienico-sanitarie degli istituti di pena sono certamente peggiori di quelle delle Rsa. Perciò bisogna intervenire subito”. Luigi Pagano, una vita dietro le sbarre: “Il carcere rientri nella Costituzione” di Mario Consani Il Giorno, 14 dicembre 2020 Quarant’anni in prima linea: dall’incontro con Cavallero, all’omicidio di Turatello, al suicidio di Cagliari. Ha creato il modello “Bollate”. È partito giovanissimo dal carcere di Pianosa ed è arrivato fino al Ministero, numero 2 del dipartimento che sovrintende all’intero sistema penitenziario. Un vero e proprio giro d’Italia a tappe lungo 40 anni tra i reclusi di Nuoro, Asinara, Taranto, Brescia, Piacenza, Milano San Vittore. Sempre portandosi dietro le sue idee guida: celle aperte il più possibile, carcere solo extrema ratio, pene alternative da moltiplicare perché più stai dentro senza prospettiva e più torni a delinquere. Ora che è in pensione, Luigi Pagano, 66 anni, campano trapiantato a Milano, continua a sperare in un carcere in linea con la Costituzione e lo scrive nel suo libro “Il Direttore”, Zolfo Editore. Come le venne in mente, in pieni anni di piombo, di scegliere come professione proprio il direttore di carcere? “Fu una scelta precisa, mi aveva sempre affascinato il diritto penale, la mia tesi era in Criminologia e poi vidi quel bando di concorso proprio alla fermata del pullman che a Napoli prendevo tutti i giorni per andare all’università. Era destino”. Prima destinazione, Pianosa. Bellissima isola ma deserta e lontana da tutto... “In pratica vivevo la stessa realtà dei detenuti. Tra loro c’era Pietro Cavallero, quello del film Banditi a Milano. Me lo sarei aspettato duro e sprezzante, invece appariva molto provato”. Al supercarcere Badu e Carros di Nuoro, la tappa successiva, una scena terribile. Quasi davanti a lei Francis Turatello massacrato a coltellate durante l’ora d’aria da altri quattro detenuti... “Credo che capiti a pochi una cosa del genere. Nel 1981 poi avevo appena 27 anni e solo l’esperienza di un anno sulle spalle. Non fummo in grado di trovare nemmeno i coltelli dopo l’omicidio...”. All’Asinara ebbe a che fare con il boss della Nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo... “Era appena arrivato in quel carcere riaperto solo per lui dopo un intervento del presidente Sandro Pertini, prima c’era stata tutta la vicenda del sequestro e della liberazione dell’assessore dc Ciro Cirillo”. A Brescia, la sua prima direzione al Nord, ebbe un’idea che di fatto la proiettò in televisione e sui giornali... “Lessi che Maurizio Costanzo voleva chiudere il suo “Costanzo show” per mancanza di palcoscenici diversi da quelli soliti. Mi venne in mente di scrivergli offrendogli il teatro del carcere. Accettò e seppi che sarebbe stato presente anche il ministro della Giustizia Mino Martinazzoli, che era di Brescia”. Un bel rischio in caso di contrattempi... “Andò tutto benissimo però. E sui giornali molti parlarono del carcere in un modo diverso dal solito, proprio come speravo”. A Taranto, riuscì a portare dentro le mura persino il mito della sceneggiata napoletana Mario Merola... “I detenuti lo avevano atteso per più di tre ore in piena estate, nella sala non si respirava. Merola temeva di non riuscire proprio a cantare con quel caldo, ma alla fine si fece convincere: “Significa che ‘o cantante s’adda sta e adda fa chell ca vò l’omm”. Finalmente a San Vittore, che ha diretto per 15 anni... “Il rapporto con Milano ha segnato la mia vita. Mi sono trovato bene dappertutto, ma qui mi sono inserito benissimo nel contesto della città, questa esperienza è stata un po’ il mio orgoglio personale”. Nel suo libro ricorda il colloquio del cardinale Carlo Maria Martini nel cortile del carcere con alcuni ex aderenti alla lotta armata che si erano dissociati senza collaborare con la giustizia... “Recitarono una preghiera insieme al cardinale, un gesto di reciproca accoglienza. Tempo dopo, nelle stanze dell’Arcivescovado un uomo consegnò quattro borse piene di armi in segno di resa”. A San Vittore visse anche Tangentopoli, un viavai in carcere di politici e imprenditori... “Stupì tutti noi che nonostante non fossero avvezze all’ambiente, quelle persone si integrassero in fretta”. Però ci fu il suicidio in cella dell’ex presidente Eni Gabriele Cagliari... “La morte in carcere di una persona è una tragedia che si abbatte su tutti. Fuori scoppiò la polemica sull’uso della custodia cautelare, dentro per mezz’ora tutti i detenuti cominciarono a gridare e battere sulla porta delle camere. Alla fine scoprimmo che un altro recluso di 30 anni si era impiccato nella sua cella”. Dottor Pagano, ha creato il carcere di Bollate da tutti ritenuto un modello. Ma, come dice lei, è solo un carcere in linea con la Costituzione come dovrebbero essere tutti... “E infatti a volte quasi mi pento di aver ideato il “modello”, perché in questo modo Bollate finisce per restare un’eccezione”. Si è battuto 40 anni per un carcere aperto, per una più diffusa applicazione delle misure alternative che abbattono i tassi di recidiva. Pensa che il paese ci arriverà mai? “Purtroppo temo di no. L’opinione pubblica è contraria, e posso anche capirla, ma non capisco le istituzioni che hanno il dovere di rispettare la legalità. Ci vorrebbero esponenti politici in grado di imboccare quella strada senza temere di perdere voti. Francamente, in giro non ne vedo”. E se chiedessero a lei di fare politica? “Giuro non saprei che dire. Anche se, tutto sommato, la voglia di fare mi è rimasta”. Bonafede “libera” 5mila detenuti. E lascia gli agenti senza mascherine di Gabriele Laganà Il Giornale, 14 dicembre 2020 I detenuti con una pena residua massima di 18 mesi potranno godere del nuovo “svuota carceri” temporaneo. Il provvedimento, pensato dal governo per fronteggiare la diffusione del coronavirus anche nelle strutture penitenziarie, estende fino al prossimo 31 gennaio la possibilità di usufruire del permesso premio. Eppure qualcuno fa presente che i detenuti appaiono più tutelati contro il Covid-19 di chi nelle carceri è presente perché ci lavora. E per questi ultimi non sembrano profilarsi provvedimenti ad hoc all’orizzonte. Lo “svuota carceri” è contenuto nel decreto legge Ristori ed è appena stato modificato dalle commissioni Bilancio e Finanze che hanno recepito tre emendamenti giallorossi, tra cui figura proprio quello che rinvia dal 30 dicembre 2020 al 31 gennaio 2021 la scadenza del provvedimento. Stando ad alcune stime fornite dal ministero della Giustizia, ad essere interessati sono circa 3.000 detenuti a fine pena e altri 2.000 che hanno già ottenuto misure di semilibertà. I primi andranno agli arresti domiciliari mentre gli altri verranno controllati con il braccialetto elettronico. Numeri un po’ diversi da quelli annunciati da Franco Mirabelli, vicepresidente dei senatori del Partito democratico e capogruppo dem in commissione Giustizia a Palazzo Madama. Il parlamentare, infatti, non nasconde la sua soddisfazione e spiega che “per 1.300 persone si apre la possibilità di non tornare a dormire in carcere. È un risultato certamente inferiore a quello che volevamo ottenere, ma senza dubbio questi emendamenti sono migliorativi”. Come sottolinea La Verità non si esclude che si possa scendere anche al di sotto delle cifre ipotizzate in quanto fino allo scorso 15 ottobre i detenuti che scontavano la pena in regime di semilibertà erano 760. Inoltre altri provvedimenti su cui si è discusso non sono passati grazie all’opposizione e a qualche parlamentare della maggioranza che non ha votato in linea con le indicazioni dei rispettivi partiti. Ad esempio sono state bloccate le proposte sul rinvio dell’esecuzione delle condanne passate in giudicato e l’aumento di 30 giorni, ogni sei mesi, dello sconto di pena per la buona condotta. I giallorossi hanno, però, inserito i reati “ostativi”: così non potranno usufruire del permesso premio allungato i detenuti per terrorismo, per reati da “codice rosso” (violenza sulle donne e stalking) e per mafia. Se le forze della maggioranza sono sostanzialmente soddisfatte dal provvedimento, di diverso avviso è chi in carcere ci lavora quotidianamente. Donato Capece, segretario generale del Sappe, ritiene che sia “un grave e colpevole errore strumentalizzare la pandemia per creare l’ennesimo svuotacarceri senza introdurre vere riforme strutturali per l’esecuzione della pena”. Il sindacalista afferma che se il governo avesse ascoltato “i nostri campanelli di allarme suonati a inizio pandemia, probabilmente avremmo potuto fronteggiare l’emergenza con i quantitativi necessari di dispositivi di protezione, ovvero caschi, visiere, guanti e mascherine”. In pratica mentre i detenuti appaiono tutelati contro il coronavirus anche attraverso lo “svuota carceri” gli operatori sono costretti a lavorare in condizioni difficili nonostante le richieste avanzate. Su questo tema Capece ricorda che fu chiesto al ministro Alfonso Bonafede di non ritardare gli accertamenti sul personale della polizia penitenziaria con test ematici e tamponi rapidi ed evidenzia che “in alcune Regioni non sono ancora stati fatti”. Stando ai dati forniti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ad oggi sono 996 i detenuti contagiati: 913 di questi risulta asintomatico. Invece gli operatori e gli agenti della polizia penitenziaria colpiti da Covid-19 sono 850. Forse un qualcosa di diverso per prevenire i contagi in carcere si poteva fare. Lo stesso Sappe tempo fa aveva indicato la via da seguire: “Si potevano riconvertire gli istituti penitenziari chiusi per un basso numero di detenuti presenti, ad esempio Savona, in strutture per la gestione dei detenuti positivi al Covid”. In commissione è passato l’emendamento che stanzia 3,6 milioni di euro per pagare gli straordinari agli agenti della polizia penitenziaria per il periodo che va dal 16 ottobre al 31 dicembre. “Uno sforzo straordinario da parte del governo”, hanno definito l’azione dell’esecutivo le pentastellate Stella Grazia D’Angelo e Bruna Piarulli. Ma Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-pa, ha affermato che lo stesso governo nega agli appartenenti alla polizia penitenziaria il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro per chi contrae il Covid durante il servizio. Carcere: 41bis, la linea del fronte di Sergio Nazzaro leurispes.it, 14 dicembre 2020 Intervista al Generale di Brigata Mauro D’Amico, direttore del Gom con decennale esperienza sul campo, che propone un’analisi approfondita delle mafie nel mondo delle carceri. L’arresto dei mafiosi è il risultato di complesse investigazioni, di sinergie tra procure e Forze dell’ordine. Nel momento in cui la notizia si diffonde, plauso e riconoscimento. La soddisfazione dello Stato e dei cittadini. Di poi cala il sipario. Nel momento in cui si varca la soglia del carcere, scatta la dimenticanza. Dal “devono stare lì tutta la vita” al “basta che stiano in carcere” si perpetua un oblio che non vuole riconoscere come l’arresto della criminalità organizzata apra una nuova e complessa linea del fronte, quello del mondo carcerario. L’istituto del 41bis, temuto dalle mafie, strumento discusso eppure efficace, è quanto di più complesso da gestire, comprendere, interpretare e affrontare che un Corpo di Polizia debba fare. Il Gom (Gruppo Operativo Mobile) della Polizia Penitenziaria, istituito nel 1997, è l’unità speciale preposta al delicato compito della custodia e controllo dei detenuti ad altissimo indice di pericolosità, ovvero sottoposti all’art. 41bis O.P. Le mafie si combattono, ma la lotta contro la criminalità organizzata finisce quando queste sono consegnate alla giustizia, oppure la lotta alle mafie continua anche nelle carceri, e come avviene questo contrasto? La lotta alla criminalità organizzata continua e inizia all’interno del carcere, non dimentichiamoci i riti di investitura e affiliazione, gli “avvicinamenti” fra clan o fra organizzazioni mafiose effettuati proprio nelle carceri. È per questo che nasce il regime differenziato di cui all’art. 41bis II comma O.P. La lotta alla criminalità organizzata in carcere passa attraverso un monitoraggio assiduo e calibrato del detenuto e della sua vita intramoenia, l’analisi dei suoi contatti con l’esterno (colloqui, corrispondenza, pacchi, per esempio). Tutti dati che le D.D.A. competenti e la D.N.A.A. rielaborano in correlazione con le risultanze delle attività investigative esterne e permettono di ricostruire il puzzle dell’indagine. La lotta alla criminalità organizzata in carcere passa attraverso la professionalità degli operatori penitenziari che, opponendo un modello di legalità e irreprensibilità a comportamenti pretestuosi e prevaricatori, dimostrano al detenuto che vi è un’alternativa comportamentale che non si concretizza necessariamente nella violenza e nella prevaricazione. La lotta alla criminalità organizzata in carcere passa attraverso l’offerta trattamentale anche a detenuti restii alla rieducazione alla legalità. L’istituto del 41bis è sempre al centro di grandi dibattiti giuridici e politici. Dovrebbe essere salutato come una delle strategie migliori contro le mafie, eppure vive di continue contestazioni. Perché accade questo e, dal suo punto di vista privilegiato, quanto è realmente efficace? Il regime di cui all’articolo 41bis dell’Ordinamento è di certo uno strumento utilissimo al contenimento del potere dei boss mafiosi ristretti. La sua efficacia è stata riconosciuta da Procuratori in prima linea nel contrasto alle mafie. Le contestazioni riguardano alcune disposizioni ritenute troppo afflittive; in realtà, le vere limitazioni riguardano i contatti con l’esterno più che il vero e proprio benessere dei detenuti. Il punto, il fine, è proprio questo: un detenuto viene sottoposto a regime differenziato quando è riconosciuta la sua attuale capacità di collegamenti con l’associazione mafiosa, nonostante lo stato di detenzione. Pertanto, le prescrizioni del regime sono giustificate dal preponderante bene della sicurezza pubblica sulla libertà di comunicare con la propria organizzazione. Tramite la censura della corrispondenza e l’ascolto dei colloqui sono stati sventati omicidi, sono state salvate delle vite… Sono stati inferti colpi alle attività economiche illegali con cui le associazioni criminali si foraggiano. Questi sono concreti, tangibili benefici della corretta applicazione del 41bis. Sul motivo delle contestazioni a questi risultati, fatti dimostrati da sentenze, non saprei risponderle. Spesso le condizioni di vita di un detenuto sottoposto a 41bis vengono descritte come inumane sulla base di informazioni parziali quando non completamente false. Non c’è una conoscenza, da parte della cosiddetta “società civile”, di quella che è la realtà dell’universo penitenziario ed è indubbio che una descrizione troppo afflittiva - mi permetta: spesso ai limiti della fantascienza - può far comodo a chi, per fini ideologici, attacca l’istituzione carcere. Come si fa a spiegare il mare a chi lo guarda e vede solo acqua? A questo tipo di posizioni sono spesso sfruttate da esponenti di spicco della criminalità organizzata. Tuttavia, il regime differenziato ha retto perfino dinanzi alla Cedu, non è mai stato ritenuto illegittimo da alcun organo giudiziario. La società civile guarda al mondo delle carceri con dimenticanza. Sorta di mondo parallelo che deve essere non solo dimenticato ma ignorato: i cattivi sono confinati, possiamo andare avanti. Perché c’è questa disattenzione, e perché invece il mondo delle carceri, il mondo dei percorsi riabilitativi sono importanti per la sicurezza del Paese e dovrebbero riguardare tutti? Penso che l’indifferenza nei confronti di quello che lei definisce “mondo parallelo” sia insita nella cultura della ricerca della serenità che tende a infilare nel dimenticatoio tutto ciò che è “male”. La lotta contro la criminalità organizzata non si esaurisce di certo con l’arresto dei singoli appartenenti alle mafie, tutt’altro, potrà dirsi vinta solo quando il fenomeno mafioso cesserà di esistere, quando la “mentalità mafiosa” sarà completamente eradicata. In questo senso, la vera “lotta alla mafia” è costituita più da iniziative sul territorio, iniziative di tipo culturale e morale più che da “una distaccata opera di repressione”, citando il compianto giudice Borsellino. Spesso nelle scuole vengono creati incontri con detenuti o ex-detenuti che raccontano le loro gesta. Si dovrebbero favorire incontri con le Forze dell’ordine e con le vittime dei reati al fine di far comprendere il male che causa l’adesione a uno stile di vita delinquenziale. Il carcere è sicuramente uno strumento utile alla lotta. In questo senso, quando esponenti della criminalità organizzata vengono assicurati alla giustizia, lo Stato ha il dovere di custodirli e, come dice la Costituzione, tendere a rieducarli e a reinserirli nella società. Di certo, con esponenti delle organizzazioni mafiose che hanno intrinseca, dentro di sé, una concezione distorta dello Stato questa opera è più impegnativa, bisogna avere fiducia nelle generazioni future e nei giovani, innestare il concetto che lo Stato è presente, c’è, anche nelle realtà più piccole, degradate, dove il disagio sociale e la disperazione portano le persone oneste a perdere la fiducia nello stesso e ad affidarsi a queste organizzazioni. I mafiosi sono uomini che si sono inseriti in questo “spazio” lasciato colpevolmente scoperto dalle Istituzioni, sono una rumorosa minoranza. Sarebbe auspicabile che invece di mostrarne all’opinione pubblica l’immagine di “super uomini” - immagine che loro stessi tentano di proiettare e che sovente viene ingigantita sui mass media - si mostrasse un’immagine più vicina alla realtà, ossia semplici uomini ai margini della società che hanno trovato un modo di approfittare di questo vuoto, sostituendosi allo Stato, arricchirsi incancrenendo il tessuto sociale e spesso contaminando le Istituzioni. Nella sua lunga esperienza al Gom, quale tra i capi mafia le ha lasciato una forte impressione e come mai le ha lasciato questa impressione? Sicuramente Bernardo Provenzano. Il suo sguardo era ghiaccio puro, imperturbabile. Quanto le mafie temono il carcere, è un reale deterrente, oppure è vissuto come un punto di passaggio obbligato e quindi non lo temono. E dall’altra parte, che cosa è necessario fare per contrastare la criminalità organizzata anche dentro il mondo delle carceri? I mafiosi sanno che prima o poi finiranno in carcere; infatti, organizzano la loro latitanza con dovizia di particolari (si pensi ai bunker lussuosi che i casalesi si erano fatti costruire nei loro paesi), si sposano in giovane età e si assicurano un’abbondante prole che porterà avanti l’attività quando loro saranno in carcere. Sono sicuramente consapevoli dell’attuale permeabilità del circuito Alta Sicurezza, quindi sanno che finché restano in Alta Sicurezza potranno continuare a impartire ordini ai sodali in libertà. Tuttavia, temono il 41bis perché, nonostante assicuri loro una carcerazione “dorata” (camera singola con evitamento dei problemi di convivenza come condivisione dell’apparecchio Tv, del bagno, ecc.), ha come contrappeso la limitazione dei contatti con l’esterno. È questo il più grande vulnus per un boss. Flop di una stagione politico-giudiziaria di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 14 dicembre 2020 Continua ad allungarsi l’elenco dei rappresentanti della politica colpiti da provvedimenti giudiziari, stritolati nel tribunale mediatico e poi risultati innocenti. Bisogna aggiornare a cadenza settimanale l’interminabile elenco dei rappresentanti della politica colpiti da provvedimenti giudiziari, stritolati nel tribunale mediatico e poi risultati innocenti. Prima di tutti Calogero Mannino, assolto definitivamente in Cassazione dopo 29 (ventinove!) anni di calvario (anche in carcere e agli arresti domiciliari) per accuse inverosimili, ma prese per buone da magistrati che godono di un prestigio immeritato, ora risultate del tutto infondate. Poi Nunzia Di Girolamo, di Forza Italia, assolta dopo sette anni di indagini per non aver commesso alcun fatto. Giusto per la cronaca, assolto in settimana anche Fabio Riva dell’ex Ilva, in una vicenda che ha comunque cambiato il panorama industriale italiano, con il sacrificio di un innocente. I nuovi arrivati si aggiungono così al caso più recente di Antonio Bassolino, assolto per la diciannovesima volta perché “il fatto non sussiste”, agli assolti Filippo Penati, figura di rilievo del Pd, Cota, ex governatore del Piemonte, Francesco Storace ex governatore del Lazio (centrodestra), Leopoldo Di Girolamo ex sindaco Pd di Terni, l’ex sindaco di Parma Pietro Vignali (Forza Italia), Clemente Mastella e la moglie Sandra Lonardo, sottoposta a forti misure restrittive. E poi, per non dimenticare: assolto Nicola Cosentino, ex re campano di Forza Italia, nemmeno indagato l’ex ministro Maurizio Lupi, costretto a dimettersi perché “coinvolto” in un’inchiesta, idem per l’ex ministra Federica Guidi, data in pasto all’opinione pubblica, assolto l’ex presidente dell’Emilia Romagna Vasco Errani, la ligure Raffaella Paita (Pd), l’ex assessore fiorentino del Pd Graziano Cioni, Roberto Maroni, ex leader della Lega ed ex governatore della Lombardia, l’ex senatore Pd della Basilicata Salvatore Margiotta, l’ex sindaco di centrosinistra di Roma Ignazio Marino. Assolti Raffaele Fitto, ex presidente di centrodestra della Regione Puglia, Beppe Sala, attuale sindaco di Milano, Renato Schifani, ex presidente del Senato di Forza Italia. Ovviamente bisognerà aggiungere nomi meno noti di politici assolti, nonché i nomi la cui assoluzione non è definitiva e dunque ancora controversa, per non dare appigli ai giornalisti manettari che vedono le assoluzioni, simbolo di una stagione politico-giudiziaria fallimentare, come il fumo negli occhi. I casi Mannino, De Girolamo e Del Turco ci dicono che siamo vittime di un sistema predatorio di Tiziana Maiolo Il Riformista, 14 dicembre 2020 Calogero Mannino esce definitivamente dalla scena giudiziaria dopo trent’anni, trascinando con sé il castello di sabbia del processo “Stato-mafia”, ventiquattr’ore dopo la fine dei tormenti durati sette anni per Nunzia De Girolamo. Due imputati dal comportamento esemplare, secondo il canone di chi crede nella giustizia e nella lineare difesa dentro il processo. Pure tutti e due, e tanti prima di loro, compresi quelli che alla fine sono stati condannati, come Ottaviano Del Turco che di “giustizia” sta morendo, sono stati uccisi molto prima delle sentenze, negli anni di tortura loro erogati prima del processo e anche dal processo stesso. Nel mondo dei Predatori, che non danno scampo. Se c’è la preda, c’è anche il predatore. Proprio come non esisterebbe la caccia se non ci fossero i cacciatori. Ma non si pensi che sia predatore solo chi tiene la propria vittima in una stanza per venti ore. Lo è anche chi tiene sotto sequestro la vita di una persona per anni, magari sette o magari anche trenta. A volte la vita si spegne prima che il predatore abbia terminato l’opera, in un’estrema forma di autodifesa, come ha fatto Enzo Tortora. Altre volte la mente e il corpo della preda si chiudono in un bozzolo di straniamento, una sorta di sedazione che tiene lontano dal dolore, come sta facendo Ottaviano Del Turco. E tutti gli altri? Tutti gli altri sono costretti ad aspettare. Aspettare che il finanziere che ha svegliato all’alba te e la tua famiglia finisca la perquisizione. Aspettare che dai palazzi di giustizia cessino di uscire le carte a valanga destinate a planare nelle edicole e nei tubi catodici. Aspettare che i tuoi figli possano tornare a scuola senza essere colpiti da sguardi peggiori di lame. Aspettare che i vicini di casa smettano di evitarti. E poi aspettare tutto: gli interrogatori, il rinvio a giudizio, il processo, la sentenza. Aspettare quanto tempo e quanti processi? Calogero Mannino è stato assolto quattordici volte. Oggi ha più di ottant’anni, quando è diventato preda ne aveva cinquanta. I cinquantenni oggi vengono spesso considerati ragazzi, chi di loro è entrato nel mondo politico ritiene di avere molto tempo davanti a sé prima di pensare alla pensione: Giuseppe Conte ha 56 anni, Zingaretti 55, i due giovanotti Renzi e Salvini rispettivamente 45 e 47. Provi ciascuno di loro a chiudere gli occhi e a immaginarsi fra trent’anni. Provino a pensare di trascorrerli nel modo che abbiamo sopra descritto, con uno stress continuo che non ti fa dormire la notte, che a tratti è vera paura, perché la vittima non può che temere il suo predatore. Predatore non è la singola persona. Predatore è il contesto. Troppo facile pensare che la perfidia di un pubblico ministero non vada mai a braccetto con un giudice delle indagini preliminari dopo essersi già coricata con un ufficiale giudiziario ed essersi poi accompagnata a un cronista giudiziario o a un direttore di giornale. Era o no predatore, per esempio, quel contesto che si era creato a Palermo quando il direttore del Fatto Quotidiano era sceso appositamente in Sicilia per “fare il guitto” con uno spettacolo teatrale offensivo e ridicolo, per mettere in berlina un imputato mentre tutti i pm cosiddetti “antimafia” erano seduti in prima fila e, come dice Mannino, parevano quasi aver tratto ispirazione, “a parte le sgrammaticature” dallo spettacolo per scrivere la requisitoria? Era o no predatore il contesto vissuto da Nunzia De Girolamo, quando subì una registrazione clandestina nella casa di suo padre dove si svolgeva una riunione politica, in seguito guardata con sospetto, che le costò le dimissioni da ministro e poi un rinvio a giudizio e un pm d’aula che, contraddicendo il suo collega che ne aveva chiesto l’archiviazione, ha auspicato che lei dovesse passare otto anni e passa della sua vita futura all’interno di un carcere? La storia di Calogero Mannino, che oggi del suo predatore dice “Hanno distrutto un Paese”, è storia di caccia grossa. Il contesto di predazione risale addirittura ai tempi dei reati di mafia a Palermo. All’inizio si chiamava “Sistemi criminali”, un fiume carsico che andò dentro e fuori dagli uffici giudiziari, basato su un teorema che vedeva insieme un gruppo eterogeneo di soggetti che andavano dalla massoneria deviata a Cosa nostra, eversione nera e corpi dello Stato, che avrebbero messo in atto un tentativo di destabilizzazione del Paese. Storia folle che non poteva che trovare nella follia della persona più inattendibile che sia mai circolata nelle aule giudiziarie, Massimo Ciancimino, il proprio padrino, il sigillo del contesto, il processo “Stato-mafia”, la Trattativa, la regina dei contesti di predazione. Il patto scellerato che nel corso di tutti gli anni Novanta avrebbe unito ai boss di Cosa Nostra persino un politico come Calogero Mannino che della lotta alla mafia aveva fatto una delle ragioni di vita. L’ex ministro democristiano si è ribellato al progetto dei predatori di processarlo insieme ai mafiosi e ha scelto un rito alternativo e solitario. Mentre altre persone perbene venivano nel frattempo condannate in primo grado (a dimostrazione che nei contesti predatori non esistono solo i pm), lui è stato sempre assolto. E ha avuto la soddisfazione di leggere nelle motivazioni dei giudici d’appello che le indagini preliminari avevano costruito un castello fatto di “incongruenze”, “inconsistenza” e “illogicità” dell’accusa. Il castello è ormai franato, dopo che la cassazione e lo stesso rappresentante dell’accusa hanno ridicolizzato l’estremo tentativo dei procuratori generali Fici, Barbiera e Scarpinato. I quali non avevano più argomenti per il ricorso, se non violando il principio della doppia conforme che consente, in presenza di due sentenze di assoluzione dell’imputato, alla pubblica accusa di ricorrere in cassazione solo con argomenti inoppugnabili. Ed erano quindi ricorsi a una sorta di trucco, chiedendo ai supremi giudici di dichiarare l’illegittimità costituzionale di quella legge che a loro parere legava le mani all’accusa. Volevano il processo eterno. Se trent’anni vi sembran pochi… Vorrebbero processi eterni tutti i predatori del contesto. Ecco perché non è più sufficiente difendersi nel processo. Il processo, solo in quanto esiste, è già sofferenza e tortura. È un insieme di atti predatori che lasciano la vittima in una continua spasmodica attesa, come l’animale che se ne sta accucciato nella speranza che il cacciatore non lo veda, che il cane non ne riconosca l’odore o che arrivi una pioggia a cancellarne le tracce. È ora che si cominci a imparare a difendersi anche dal processo. Non per sottrarsi alla giustizia, ma per denunciare il Predatore. Che non è solo quello che tiene la sua vittima prigioniera in una stanza per venti ore. Ma anche quello che sequestra la tua vita per trent’anni. O anche per un solo giorno. Le toghe onorarie scrivono a Mattarella: “Noi umiliate, intervenga lei” di Errico Novi Il Dubbio, 14 dicembre 2020 Nella lettera al Capo dello Stato la magistratura onoraria lamenta “l’assoluto silenzio del ministero della Giustizia e delle Istituzioni”. “In settembre le chiedemmo un incontro, affinché potesse ascoltare dalla voce di chi la vive quotidianamente, la condizione riservata a 5000 servitori di Stato che amministrano giustizia da lustri, che rappresentano il popolo italiano nelle aule di Tribunale, che sentenziano in suo nome, ma senza ricevere per il proprio operato che un indecoroso gettone di presenza, il cui quantum è finanche vergognoso qui ribadire”. È quanto scrive la Consulta della magistratura onoraria in una lettera indirizzata al capo dello Stato nella quale lamenta “l’assoluto silenzio del ministero della Giustizia e delle istituzioni” di fronte alla protesta della categoria che sta riempiendo le piazze italiane e allo sciopero della fame intrapreso dal primo dicembre da due magistrate onorarie in servizio a Palermo. “La situazione, causa anche la gravissima situazione sanitaria che ha colpito la Nazione, è in via di ingravescente precipitazione, poiché molti magistrati onorari sono stati attinti dal covid-19, rimanendo privi di compensi, perché pagati a giornata col summenzionato gettone, se in aula, nonché di indennizzi di malattia, loro negati come tutti gli altri diritti previsti per i lavoratori dalla nostra Carta Costituzionale, quali previdenza, ferie retribuite e maternità. Nel corso delle ultime settimane le piazze italiane si sono riempite di toghe onorarie - si legge nella lettera - armate di rose, codici, e toghe, a chiedere un intervento d’urgenza delle istituzioni volto a comporre una vicenda che sta umiliando una componente imprescindibile del sistema giustizia e che, presto, a causa di riforme assolutamente inadeguate e irrispettose dei principi di diritto nazionale e sovranazionale, lo porterà al definitivo collasso”. “Le piazze e le Associazioni scriventi Le chiedono, signor Presidente, un intervento immediato e d’inarrivabile autorevolezza, che risulta indispensabile perché: in prima linea ci sono due donne, due magistrati onorari di Palermo in sciopero della fame dal 1? dicembre, ciò che desta in noi forte preoccupazione e sdegno, a fronte dell’assoluto silenzio del ministero della Giustizia c delle istituzioni. Ci sentiamo ancora una volta traditi di fronte alla totale assenza di cenni alla domanda di giustizia di queste servitrici dello Stato, un’assordante indifferenza in risposta ad un gesto dettato dall’esasperazione e che ha animato i colleghi scesi in piazza, composti e fieri, vicini a chi sta mettendo a rischio la propria salute contro chi da decenni ne calpesta diritti e dignità”. I Padri costituenti, aggiunge la Consulta della magistratura onoraria, “hanno costruito la Carta Fondamentale dello Stato intorno al concetto di lavoro e la sua tutela, elevandolo a fondamento del proprio progetto politico. Le affermazioni di principio in essa contenute dovrebbero essere oggi patrimonio comune, eppure così non è per la magistratura onoraria. Stiamo attendendo da troppo tempo un riassetto della normativa che disciplini la categoria secondo i principi di diritto nazionale e sovranazionale e le affranchi dallo stato attuale, riconoscendole la dignità connessa alle funzioni esercitate, nel rispetto anche dell’utenza che fruisce dei servizi resi. Vorremmo che guardasse Sabrina ed Enza negli occhi, signor Presidente, occhi che parlano di un fisico devastato dalle privazioni, ma di un animo satollo di dignità. Le nostre richieste a desistere si uniscano ad una sua insigne voce, che qui invochiamo, affinché il suo intervento riempia il vuoto lasciato dall’intero panorama politico cui le colleghe si sono rivolte”. “Smaltiamo 6 processi su 10 ma siamo precari” di Giovanni Longo Gazzetta del Mezzogiorno, 14 dicembre 2020 I giudici onorari rivendicano retribuzione adeguata, tutele, ferie e previdenza. La complessa macchina della Giustizia va avanti anche grazie a loro. Eppure, la delicatissima funzione che esercitano “in nome del popolo italiano” non viene tutelata e garantita come dovrebbe dallo stesso Stato. Sono i magistrati onorari che anche a Bari hanno manifestato chiedendo “il pane ma anche le rose”, al pari dei lavoratori americani dell’industria tessile nel 1912. In cima alla lista delle rivendicazioni, c’è il miglioramento delle loro condizioni economiche e di vita, “essendo costretti a lavorare nei Tribunali in piena emergenza sanitaria, rischiando ogni giorno di ammalarci senza poter percepire nulla, neppure il misero emolumento che viene corrisposto solo in caso di partecipazione ad una udienza”, lamentano. Una situazione definita “intollerabile” che ha portato tre di loro, in Sicilia, a protestare con uno sciopero della fame che va avanti da 10 giorni, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Ieri, dunque, dinanzi alla Corte d’Appello di Bari si è tenuto un flash mob dei magistrati onorari del Distretto, provenienti dai Tribunali e dagli Uffici del Giudice di Pace di Bari, Trani, Foggia, nonché dei giudici ausiliari della Corte d’Appello, che si sono riuniti con una rosa rossa in mano, per esprimere solidarietà alle tre colleghe giudici onorari di pace palermitane. Denunciano “condizioni economiche in cui versano i magistrati onorari da oltre un ventennio” nonché la “mancanza di qualsiasi tutela giuslavoristica, privi da sempre di malattia, ferie, maternità e copertura previdenziale”. La manifestazione è stata organizzata da tutti i magistrati onorari del Distretto, Giudici di Pace, Giudici Onorari di Tribunale, Vice Procuratori Onorari e Giudici Ausiliari di Corte d’Appello, i quali “esprimono piena solidarietà e vicinanza alle colleghe palermitane in sciopero della fame e chiedono che il Governo prenda seriamente in considerazione le rivendicazioni della categoria, riconoscendo alla stessa i diritti costituzionalmente garantiti ad ogni lavoratore intervenendo con decretazione d’urgenza a risolvere l’annosa questione della magistratura onoraria”, si legge in una nota. Va ricordato che i magistrati onorari, sia pure con diverse funzioni, “da oltre vent’anni smaltiscono quasi il 60% del contenzioso civile e penale ma ad oggi, nonostante la Corte Europea di Giustizia abbia nel luglio scorso riconosciuto agli onorari la qualifica di Giudici europei e lo status di lavoratori, in Italia non godono di alcuna prerogativa giuslavoristica. Lavorano, molti di essi a tempo pieno, senza una retribuzione adeguata alla funzione, senza ferie, previdenza, assistenza in caso di malattia”. Solidarietà ai magistrati onorari è stata manifestata, tra gli altri, anche dal consigliere di corte d’appello togato, Roberto Olivieri del Castillo, e dal’avv. Giovanni Stefanì, presidente del Consiglio degli avvocati di Bari, entrambi presenti alla manifestazione barese. Cassazione: “Non è vietato scambiarsi il saluto tra detenuti al 41bis” di Giustino Parisse Il Centro, 14 dicembre 2020 Un semplice saluto fra detenuti in regime di 41bis non può essere oggetto di sanzione disciplinare (dall’ammonimento al divieto temporaneo di partecipare ad attività comuni). Lo ha stabilito, con un recente pronunciamento, la Corte di Cassazione, accogliendo le ragioni di alcuni detenuti all’interno del carcere dell’Aquila, condannati per gravissimi reati. Il ricorso, in particolare, era stato presentato dal ministero della Giustizia. Già il tribunale di Sorveglianza dell’Aquila aveva annullato le sanzioni “sul presupposto che il saluto rivolto ad altro detenuto non integrasse alcuna forma di comunicazione, implicando tale nozione uno scambio di dati, stati d’animo, sensazioni, non ravvisabile nel semplice saluto”. Il ministero della Giustizia, nel proprio ricorso, ha invece sostenuto che “il divieto di comunicazione imposto ai detenuti in regime ex articolo 41bis ha la finalità di impedire i collegamenti del detenuto che vi è sottoposto, con il sodalizio criminoso di appartenenza e anche il semplice saluto, nelle sue varie forme di estrinsecazione, può celare un messaggio occulto, in quanto l’atteggiamento di riverenza o meno con il quale si esprime potrebbe significare anche una forma di sottomissione verso il soggetto al quale è rivolto, a seconda di chi per primo rivolge il saluto o a seconda anche del tipo di saluto che viene rivolto, trattandosi di forme particolari che possono assumere un preciso significato nella subcultura carceraria”. Secondo i magistrati della Corte di Cassazione, il ricorso presentato dal ministero della Giustizia è però infondato in quanto “si è in presenza di una dichiarazione di saluto rivolta dal detenuto ad altri ristretti, appartenenti ad altro gruppo di socialità e non inserita in un contesto di conversazione. Dunque”, proseguono i giudici, “deve escludersi che si fosse in presenza di una comunicazione nel senso indicato, non essendovi stata alcuna trasmissione di informazioni da un individuo a un altro, ovvero un’interazione tra soggetti diversi nell’ambito della quale essi costruivano insieme una realtà e una verità condivisa. Pertanto, correttamente, il tribunale di Sorveglianza ha rilevato come tale dichiarazione doveva considerarsi di natura neutra, non potendosi in essa cogliere alcuna particolare informazione e non avendo l’atto, in definitiva, un vero e proprio intento comunicativo”. Tolmezzo (Ud). Covid, muore boss ‘ndrangheta contagiato in cella Il Gazzettino, 14 dicembre 2020 Prima vittima del Covid-19 in un carcere del Friuli Venezia Giulia. Nel reparto di Terapia intensiva dell’ospedale di Cattinara, a Trieste, venerdì è morto Mario Coco Trovato, 71 anni, fratello minore del boss della ndrangheta Franco Coco Trovato, di cui era diventato l’erede dopo la sua cattura e la condanna all’ergastolo. Il 71enne era in regime di 41bis a Tolmezzo. Si era contagiato a fine novembre, quando nella struttura di massima sicurezza è entrato il virus. Inizialmente aveva colpito 118 su 200 detenuti. Dopo un picco di 155 malati, fra cui molti erano asintomatici, adesso la situazione comincia a migliorare. I negativi la scorsa settimana sono saliti a 147 e oggi probabilmente la direttrice Irene Iannucci riceverà l’esito dei tamponi effettuati nella giornata di venerdì. I positivi dovrebbe essere rimasti circa una ventina. Per Trovato - come per altri quattro detenuti che stanno scontando pena a Tolmezzo - si era reso necessario il ricovero in ospedale. Il 24 novembre era stato accolto in pronto soccorso a Tolmezzo, l’indomani a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni, era stato trasferito a Trieste. Altri due detenuti sono stati invece trasportati a Verona. Dei cinque accolti in ospedale perché avevano contratto la polmonite o avevano difficoltà respiratorie, due sono stati dimessi e sono tornati nella struttura carceraria tolmezzina. Trovato doveva scontare una pena a definitiva a 15 anni di reclusione per associazione di stampo mafioso (era stato arrestato nell’aprile 2014 nell’ambito dell’inchiesta Metastasi in Lombardia, dove il boss operava a Lecco). Aveva preso il posto del fratello ormai confinato al 41bis, si era reso protagonista di estorsioni e spedizioni punitive, aveva tessuto alleanze con altri esponenti della criminalità organizzata e attraverso uomini di fiducia si era infiltrato nel municipio di Lecco. Il 71enne era in buone condizioni di salute. Era uno sportivo e in carcere a Tolmezzo si alzava sempre presto al mattino per fare attività fisica. Subito dopo il contagio, le sue condizioni si sono aggravate rendendo necessario il ricovero in ospedale. Nelle strutture carcerarie da marzo si presta molta attenzione per evitare i contagi. Ma i detenuti usano le stesse docce, dormono in cella spesso sovraffollate e mantenere le distanze diventa impossibile. A Pordenone e a Udine, nonostante si tratti di case circondariali vecchie e con spazi limitati, non ci sono state criticità. A Tolmezzo, dove i contagi hanno interessato anche una trentina di persone tra il personale dell’amministrazione penitenziaria, la situazione sta rientrando. A Trieste, nel Coroneo, ha contratto il Coronavirus circa un centinaio di persone tra detenuti e guardie penitenziarie. Sul caso di Tolmezzo era stata inviata da parte di un legale del Foro di Udine una lettera al ministero della Giustizia, al ministero della Salute, al Dap e al Garante nazionale delle persone private della libertà. Si puntava il dito contro la gestione medica all’interno della struttura in merito al ritardo con cui sono stati sottoposti ai tamponi quei detenuti che avevano i sintomi del Covid: febbre, tosse, raffreddore, mal di testa. Questo avrebbe messo a rischio tutti quegli utenti - avvocati, insegnanti e gli stessi operatori penitenziari - che per ragioni di lavoro accedono al carcere. Trieste: Covid, 78 detenuti infetti su 170: è il dato più alto d’Italia di Benedetta Moro Il Piccolo, 14 dicembre 2020 L’emergenza Covid non molla la presa in due delle cinque carceri del Friuli Venezia Giulia: ieri, a causa del coronavirus, è morto all’ospedale Maggiore di Trieste un detenuto di 71 anni dell’istituto di massima sicurezza di Tolmezzo. Il primo decesso in regione fra i detenuti, dopo quasi tre settimane di ricovero per polmonite. E il carcere di Trieste, a causa del focolaio scoppiato a fine novembre, secondo i dati del sindacato Uil-pa della Polizia penitenziaria, si posiziona primo in Italia per numero di positivi in rapporto ai reclusi. Nonostante le prime negativizzazioni, restano infatti ancora 78 (63 uomini e 15 donne) i positivi ai test, tutti asintomatici, su circa 170 detenuti. Cui si aggiungono 15 guardie penitenziarie, di cui una ricoverata sotto ossigeno sempre all’ospedale Maggiore. Resta ancora difficile individuare l’origine del virus, che si è diffuso a macchia d’olio, infettando all’inizio solo una ventina di persone. Una situazione critica, a tal punto che tra il sovraffollamento (177 ospiti al 30 novembre su una capienza di 136) e l’emergenza, per isolare i detenuti sono stati occupati perfino gli spazi del cappellano. A Tolmezzo la situazione interna sta invece tornando alla normalità: da 50 positivi ieri si è passati a 16 su 202 detenuti mentre i 20 agenti di polizia penitenziaria prima positivi sono ora tutti negativi. Secondo i dati aggiornati al 10 dicembre e diffusi dal sindacato Uilpa, dopo Trieste ci sono il carcere di Sulmona con 73 positivi su 391 detenuti, Bologna con 60 su 731 e Monza con 57 su 585. In totale sono una ottantina gli istituti colpiti su 190 con 1.017 contagiati su 53.294 persone dietro le sbarre - su una capienza di 50.568 posti -, di cui solo una novantina è sintomatica e la metà è ricoverata in ospedale. “Dobbiamo prendere spunto da questa crisi per ripensare il sistema carcerario”, commenta il Garante regionale dei diritti della persona Paolo Pittaro, traendo anche spunto dall’appello nazionale di docenti di Diritto e di Procedura penale a sostegno di Rita Bernardini, storica leader dei Radicali, da un mese in sciopero della fame contro il sovraffollamento nelle carceri. Altro capitolo riguarda poi la polizia penitenziaria. Sono 852 i positivi su 37.153 dipendenti. Meno coinvolta invece la categoria del personale amministrativo: 72 positivi su 4.090. A Trieste sono rimasti in servizio un centinaio di agenti, mentre 15 sono positivi. E proprio sull’organizzazione impostata per gestire il Covid ha da ridire il segretario regionale Uil-pa Polizia penitenziaria Alessandro Penna. “Si poteva fare meglio, adibendo dei piani puliti, adesso invece tutti sono a rischio”. E aggiunge: “Ringrazio il personale, che ha rinunciato al congedo e alle ferie natalizie per andare incontro all’emergenza. Grazie anche a loro i detenuti mantengono i contatti WhatsApp con i parenti, anche il giorno di Natale”. A questo proposito interviene anche il segretario regionale Uil-pa Lorenzo Schiavini: “Sono solidale con il personale della polizia penitenziaria”. Sull’eventuale “mala gestio” la direttrice Romina Taiani, che dovrebbe essere sostituita dal 7 gennaio dal vicedirettore di Padova, che già dirige da settembre il carcere di Pordenone, si limita a dire: “Il focolaio è importante, ma la situazione è sotto controllo. Lavoriamo in stretta sinergia con la sanità penitenziaria e stiamo registrando le prime negativizzazioni con i detenuti positivi separati da quelli negativi”. Sulmona (Aq). Contagi e malori dietro le sbarre: altri sette detenuti positivi di Andrea D’Aurelio ondatv.tv, 14 dicembre 2020 Nella struttura penitenziaria peligna, dove si è acceso uno dei più grandi focolai di questa seconda ondata, si contano altri sette detenuti positivi. Salgono a 92 i casi di Covid accertati e dovrebbe trattarsi di un dato definitivo. Per oggi infatti era attesa l’ultima tranche di tamponi svolti. Per gli agenti penitenziari che mancavano all’appello l’esito è stato negativo mentre tra i detenuti sono emersi gli altri sette casi di positività. Se da un lato si arriva alla stabilizzazione del quadro epidemiologico, dall’altro la guardia resta alta per la situazione negli ospedali e per le eventuali richieste di cure. Al momento restano nove i detenuti ricoverati negli ospedali di Sulmona, L’Aquila e Pescara. E va ricordato che non esiste solo il Covid. Questa notte infatti è un detenuto è stato trasportato in ospedale con ambulanza del 118 in seguito a un improvviso malore. Per lui si è resa necessaria una consulenza neurologica. Non sono permesse quindi distrazioni di sorta. L’amministrazione penitenziaria ha posto in essere tutte le misure di contenimento del contagio, agevolate anche dal trasferimento dei primi quattordici detenuti no Covid in altre strutture. Milano. Carcere e pandemia, la risposta è nelle misure alternative di Luisa Bove chiesadimilano.it, 14 dicembre 2020 Diocesi e Caritas hanno messo a disposizione appartamenti per scontare la pena sul territorio, dopo che il rischio contagio aveva fatto sospendere gli incontri con i familiari. Limitati anche gli accessi ai volontari, “ma grazie a loro è la società a entrare in carcere”, rileva Ileana Montagnini, responsabile Area carcere e giustizia di Caritas ambrosiana. Fin dai primi mesi dell’emergenza Covid, in breve tempo Diocesi di Milano e Caritas ambrosiana hanno messo a disposizione 30 posti letto per ospitare detenuti di San Vittore, Bollate, Opera, Lecco, Varese e Busto Arsizio, che ora finiscono di scontare la loro pena sul territorio. La situazione era già insostenibile prima della pandemia, perché a fine gennaio nelle regioni italiane, in particolare quelle col maggior numero di istituti di pena come la Lombardia, si registrava un sovraffollamento nelle carceri circa del 130%. “Il rischio contagio ha fatto mettere in atto misure molto pesanti, soprattutto la limitazione, se non la sospensione dei colloqui con i familiari per motivi di sicurezza sanitaria - spiega Ileana Montagnini, responsabile Area carcere e giustizia di Caritas ambrosiana e presidente della Conferenza regionale volontariato giustizia della Lombardia. Questo ha innescato una serie di rivolte che ha coinvolto anche San Vittore. Poi la situazione si è evoluta in più sensi”. In che senso? Da una parte, grazie anche alle sollecitazioni del mondo del volontariato, sono state attuate misure per colloqui a distanza con l’utilizzo di nuove tecnologie e incrementati i contatti telefonici. Le circolari ci sono e auspicano l’utilizzo di Skype in ogni istituto; purtroppo, però, non tutti sono riusciti ad attrezzarsi nell’immediato. Dall’altra, il Prap (Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria) di Milano e il Tribunale di sorveglianza hanno subito cercato nel privato sociale la possibilità di far uscire dal carcere quelle persone che, in termini di legge e grazie anche all’introduzione di norme legislative recenti, potevano ottenere la misura alternativa, avendo un residuo penale dai 18 ai 36 mesi. Quindi sono state trovate soluzioni concrete? Questo sì, ma il problema è sociale. Quello che ripetiamo da anni è che ci sono persone che non riescono a far valere i propri diritti, non per ragioni giuridiche, ma perché non hanno un’abitazione dove poter scontare la detenzione domiciliare o l’affidamento provvisorio. Mesi fa Tribunale e Prap erano ben disposti, quindi la Caritas ambrosiana è stata interpellata sull’urgenza di reperimento alloggi. Noi sappiamo che in Lombardia ci sono catene virtuose di associazioni che insieme partecipano a bandi regionali, ma poi la tempistica e l’iter burocratico rallentano l’avvio dei progetti e la possibilità di accogliere le persone in uscita, nonostante la disponibilità immediata delle associazioni. Quindi è intervenuta la Caritas ambrosiana… Esatto. Non per sostituirci alla rete virtuosa che esiste e ai doveri delle istituzioni, ma per la particolare emergenza. Abbiamo dato la disponibilità di 30 posti suddivisi tra appartamenti nella zona del Milanese, altri nel Varesotto e una struttura più grande a Lecco, Villa Aldè, che ha potuto accogliere fino a 20 persone. A marzo avevamo chiesto di segnalarci gli ospiti, quindi abbiamo allestito rapidamente appartamenti e comunità e in aprile abbiamo avviato le prime accoglienze, tuttora in corso, perché le persone non hanno concluso il percorso penale in pochi mesi. Il nostro intervento è stato urgente anche perché la Regione Lombardia si era rifiutata di mettere a bando una somma cospicua di denaro (900 mila euro) messa a disposizione da Cassa ammende per le misure alternative. Questo rifiuto ha ulteriormente rallentato la possibilità di costruire progetti, poi avvenuta attraverso il Prap lombardo, e a oggi, dicembre 2020, il progetto non è ancora partito. In tutto questo anche il mondo del volontariato penitenziario ne ha risentito? Moltissimo, perché l’articolo 17 dell’Ordinamento penitenziario prevede che la società civile, composta quasi esclusivamente da persone volontarie, entri negli istituti penali. Inizialmente i volontari non hanno potuto entrare per ragioni di sicurezza sanitaria e questo ha comportato una sospensione di tutte le attività, alcune addirittura paragonabili alla scuola, perché neppure i docenti hanno potuto proseguire con le lezioni. Bloccare il contatto con la società esterna significa non garantire quel fondamentale principio costituzionale che è la rieducazione. Nei mesi estivi c’era stata una ripresa, ma in ottobre è scattato un ulteriore blocco. Come Caritas ambrosiana e come Conferenza regionale volontariato giustizia diciamo: attenzione che non si instauri un meccanismo di ritorno alla poca attività, ai pochi volontari, agli orari e alle persone contingentate. I volontari devono entrare perché è la società che entra nel carcere. Benissimo tutte le precauzioni (mascherina, distanza…), anche perché nella seconda ondata il carcere è stato colpito ancora di più, con decessi anche tra gli agenti di polizia penitenziaria, e questo è grave e dolorosissimo, però dobbiamo trovare una soluzione. Le tecnologie ci vengono incontro, quindi come i nostri figli hanno fatto scuola a distanza, anche i detenuti devono poterlo fare. Bergamo. Natale in cella, senza visite: i sogni dei detenuti e il ricordo di don Fausto di Lucia Cappelluzzo bergamonews.it, 14 dicembre 2020 Alcuni detenuti della Casa circondariale bergamasca, hanno voluto condividere con Bergamonews i loro desideri per il Natale 2020. Se torniamo con la mente alle feste dell’anno scorso, mai avremmo immaginato che solo dodici mesi dopo il Natale sarebbe stato pieno di paure, divieti, rinunce e distanze. E mai avremmo immaginato di rimpiangere le consuete tradizioni, sempre uguali anno dopo anno. Il 2020, più di tutto, ci ha insegnato a essere forti, resilienti e coraggiosi. Abbiamo superato la più terribile delle tempeste e, nonostante le difficoltà e la tristezza nel cuore, riusciremo a sopravvivere e a rendere particolare un Natale più silenzioso, sottotono e meno gioioso. Speranze di un Natale diverso si insinuano anche negli animi forzatamente abituati a non credere nell’isola che non c’è. Gli animi di chi si trova dietro le alte sbarre del carcere di Bergamo. Alcuni detenuti della casa circondariale bergamasca, infatti, hanno concesso a loro stessi di credere in qualcosa, di provare a sognare mettendo nero su bianco desideri e speranze per il Natale 2020. E hanno voluto condividerli con Bergamonews. “Un altro Natale, un altro anno che finisce, sto pensando a qualche buon proposito per un 2021 che sembra non arrivare più. La verità è che dopo tanti giorni di pensieri, brutte copie gettate nel cestino, devo fare pace con me stesso, mettendo a nudo la parte di me che in queste feste diventa sempre più fredda. Dopo cinque anni qui, il mio grande desiderio è che il prossimo anno sia davvero il mio buon anno nuovo, un anno di novità, ripresa e di un ritorno alla vita normale, alla possibilità di riscattarmi davanti a persone che credevano e che credono tutt’ora che io mi sia perso per strada”, scrive un detenuto. Per qualcuno però è troppo difficile, doloroso, provare a sperare, convinto ormai che si tratti di utopia. “Non ce la faccio, mi dispiace. É il secondo anno di fila che passo il Natale qui, purtroppo. Posso solo dire che in questo momento sono nel letto e penso a un sacco di cose della mia vita”. Nel buio più profondo e nell’avvicinarsi del momento più carico di nostalgia dell’anno, le persone incarcerate a Bergamo si preparano al Natale peggiore, consapevoli che, per colpa del Covid, non potranno nemmeno ricevere le visite di parenti e amici. Allora si aggrappano al ricordo di persone care e di quelle anime rare che le hanno aiutate a sopravvivere a tutto questo. Primo fra tutti, don Fausto Resmini, il sacerdote dei poveri e cappellano del carcere stroncato dal Coronavirus, che è stato sempre molto vicino alla quotidianità dei detenuti. “Questo Natale sono triste. Sento una strana sensazione, perché il Natale mi fa ricordare il mio amico Don Fausto, portato via dal Covid. Penso a lui e a quanto di buono ha fatto per me”. Su tutto, ovviamente, è il desiderio di libertà a emergere tra le righe di fogli scritti con cura nei momenti più bui della mente di un detenuto che deve affrontare ogni giorno i fantasmi di affetti abbandonati, di pentimenti e di strazianti strappi nella memoria, immaginando una vita che poteva essere, se solo quel giorno non fosse andato come è andato o se qualcuno fosse intervenuto per arrestare un ciclo senza fine di scelte sbagliate e deviate. “Ho sempre desiderato una casa mia dove avrei potuto aspettare che ritornassero da scuola i miei bambini, che avrebbero riempito l’ambiente con la loro gioia e il loro disordine. E questo è il mio grande desiderio per questo Natale: tornare in quella casa e rivedere i miei figli. In questo momento sto male a causa della nostalgia per i miei affetti, famigliari, parenti, amici e persone care. Non c’è un attimo del giorno e della notte che io non pensi a loro, e poi ci sono i ricordi che mi causano un dolore immenso”. Desiderio di poter finire la pena e di poter finalmente tornare a casa dai propri famigliari, con la promessa solenne che mai più ricadranno nel baratro, perché ora hanno davvero capito cosa hanno perso. “Esistono cose nella vita per cui vale la pena di lottare sino alla fine. I miei figli. Tornerò da loro e, un giorno, spero tanto presto, potrò finalmente mangiare di nuovo a tavola con loro. Mi mancano terribilmente. E il mio unico desiderio sono loro”. Milano. Ripensare il carcere: al via il concorso di Triennale e San Vittore di Valentina Silvestrini artribune.com, 14 dicembre 2020 La Casa circondariale? “Può e vuole diventare un riferimento di eccellenza in grado di trasformare la reclusione in un’opportunità di crescita grazie all’apertura verso l’esterno”. Parola di Giacinto Siciliano, Direttore della Casa Circondariale Francesco di Cataldo - San Vittore, che con Triennale Milano ha indetto il concorso di idee “San Vittore, spazio alla bellezza”. Rompere il silenzio che avvolge l’edilizia carceraria italiana, agendo in una delle strutture simbolo della regione con il più alto numero di detenuti - ovvero la Lombardia - può essere immediatamente riconosciuto fra i meriti del concorso di idee San Vittore, spazio alla bellezza, lanciato questa settimana da Triennale Milano e dalla Casa Circondariale Francesco di Cataldo - San Vittore. Parte integrante della collaborazione avviata nel 2018 tra le due istituzioni milanesi (che hanno fin qui condiviso il progetto culturale ti Porto in prigione e la successiva esperienza di PosSession, con il suo focus sulla detenzione femminile e sulla pratica quotidiana dell’arte come strumento di recupero), il bando prova a misurarsi col nervo costantemente scoperto della situazione carceraria italiana, facendo appello all’intera comunità dei progettisti in attività, con un’attenzione per gli under 40 e per gli iscritti agli albi degli architetti e degli ingegneri di Milano e provincia. Da anni afflitte dal sovraffollamento, che secondo le ricerche condotte dall’Associazione Antigone nel 2019 sfiorava il 120%, spesso ricavate in edifici datati, al centro di ricorrenti interventi manutentivi, le case circondariali (e le loro criticità) continuano a essere una presenza ciclica nell’agenda dei governi italiani, senza tuttavia aver fin qui incoraggiato quel radicale ripensamento della condizione detentiva da più parti auspicato. Tuttavia, in fase pre-Covid, proprio Antigone rilevava, fra le novità emerse a livello ministeriale, “il forte accento posto sulla possibilità di ristrutturazione di fabbricati o di riconversione a carceri di edifici nella disponibilità dello Stato”. Potrebbe trattarsi di uno scenario potenzialmente estendibile anche alla Casa Circondariale San Vittore? Il carcere milanese è già più volte finito al centro dibattito politico cittadino per la possibilità di uno spostamento della sua sede (i cui lavori di costruzione si conclusero nel 1889) in un’area extraurbana. Dibattito accompagnato dall’inevitabile carico di opinioni divergenti sul destino della struttura in uso e della zona in cui essa ricade. Nell’incertezza del quadro complessivo, il concorso di idee - sviluppato in collaborazione con Fondazione Maimeri, con il supporto di Shifton e dell’Associazione Amici della Nave -, prende intanto in esame le condizioni attuali di San Vittore e le effettività possibilità di intervento nello stabile e nell’area di sua pertinenza. Architetti, designer, urbanisti e ingegneri, in forma individuale o previa costituzioni di gruppi, sono invitati a sviluppare idee in grado di “promuovere una nuova concezione di casa circondariale attraverso la riprogettazione di alcuni spazi del carcere per cambiarne la percezione e migliorarne la funzionalità”. Per la casa circondariale si tratta di “ritrovare la sua centralità nel contesto penitenziario e in quello cittadino, attraverso la progettazione di funzionalità nuove e un pensiero complessivo sulla struttura di forte impatto su detenuti, personale, cittadini e città”. Un obiettivo che potrà essere perseguito operando in sei distinti ambiti di studio, definiti a priori dal bando: il “macro tema” Integrazione con la città è stato declinato in “Area verde/Giardino” e “Area incontri e colloqui”; quello denominato Comunità e spazi abitativi si concentra sulle “Celle e sezioni maschili” e sulle “Celle e sezioni femminili”; in Ricreatività e Benessere, infine, a essere presi in esame sono “Cortili di passeggio” e “Area verde personale, bar/mensa”. L’identificazione di tali settori risulta fondamentale nella prima fase del concorso, in cui ai candidati è richiesto “di sviluppare un concept che delinei la strategia e gli obiettivi progettuali riferiti alle aree di studio individuate”, definendo per almeno due tipologie di spazi “necessità, criticità, potenzialità”, in modo tale da “proporre approcci progettuali, metodologie”. Tali contenuti andranno restituiti attraverso una relazione/manifesto e l’elaborazione di complessive quattro immagini. Sugli esiti del concorso sarà chiamata a esprimersi una commissione, composta da cinque membri, ovvero esperti nel campo dell’architettura, design, urbanistica e sociologia: entro il mese di febbraio 2021, verranno selezionati sei candidati (senza graduatoria). A ciascuno sarà quindi assegnato un caso studio; con l’affiancamento del team di ricerca, l’organizzazione di sopralluoghi e rilievi presso la Casa Circondariale prenderà il processo di sviluppo dei progetti, da ultimare entro giugno 2021. L’iniziativa, che è coordinata da Lorenza Baroncelli, Direttore artistico e curatore per architettura, rigenerazione urbana e città di Triennale Milano, prevede per il mese di luglio 2021 una serie di eventi pubblici finalizzati alla presentazione dei risultati. Per Giacinto Siciliano, Direttore della Casa Circondariale Francesco di Cataldo - San Vittore, “questa nuova concezione di casa circondariale ha l’obiettivo di cambiare la percezione di questo luogo e innescare un nuovo circolo virtuoso in grado di far ripartire un pensiero positivo iniziando dalla bellezza degli spazi che lo ospitano. La casa circondariale può e vuole diventare un riferimento di eccellenza in grado di trasformare la reclusione in un’opportunità di crescita grazie all’apertura verso l’esterno e a un cambiamento guidato da un pensiero complessivo sulla consapevolezza che la bellezza possa suscitare spontanee sensazioni piacevoli, provocare suggestioni ed emozioni positive e generare un senso di riflessione costruttiva”. Infine, Stefano Boeri, Presidente di Triennale Milano, sottolinea che “Triennale sta portando avanti in modo sistematico collaborazioni con diverse realtà del territorio cittadino, accogliendo iniziative culturali con cui condivide obiettivi e progettualità per essere sempre di più un luogo inclusivo, sensibile alle urgenze del contemporaneo. Il dialogo tra Triennale e la Casa Circondariale Francesco di Cataldo - San Vittore è sempre più intenso e proficuo. Le nostre due realtà si trovano a poche centinaia di metri l’una dall’altra, ma la distanza tra loro è enorme”. Resta sullo sfondo la domanda però: ha senso intervenire su un edificio vecchio e su una galera di concezione ottocentesca cercando di migliorarla o avrebbe più senso valorizzare l’immobile con altre destinazioni e costruire ai margini della città un carcere realmente moderno? Varese. “Cucinare al Fresco”, le ricette dei detenuti per il menù di Natale varesenews.it, 14 dicembre 2020 Nuove forme di cucina frutto di sperimentazione e coesione: “La maggior parte dei detenuti cerca di ricreare giorno per giorno pietanze che li facciano sentire bene”. Natale 2020: sotto l’albero solo regali solidali arriva martedì prossimo in libreria Cucinare al Fresco Christmas Edition, 118 pagine di puro gusto, con ricette proposte e scritte dai detenuti e dalle detenute delle carceri italiane, tra cui anche i Miogni di Varese. Sponsor di questa pubblicazione natalizia, il Rotary Club Como. “Abbiamo aderito con grande entusiasmo questa iniziativa editoriale a sostegno dei progetti a favore dei detenuti delle nostre Case Circondariali. - spiega il Presidente del Rotary Club Como, Alberto Grandi - Una raccolta di ricette frutto di un incontro fra culture e nazionalità, sperimentazioni e tradizioni che trasforma la quotidiana abitudine della preparazione del pasto in un momento stimolante, creativo e perché no anche ludico. È uno strumento che avvicina chi sta fuori a chi sta dentro, facendo conoscere realtà e persone attraverso un tema che coinvolge quotidianamente ognuno di noi: il cibo”. Nato tre anni fa al carcere del Bassone, Cucinare al fresco è una testata giornalistica condivisa nelle carceri di tutto il Paese. Un progetto di volontariato, coordinato da Arianna Augustoni insieme ad Alessandro Tommasi e Giuseppe Bevilacqua per la parte grafica. Filippo Guatelli per la parte video, Dario Consonni e Nicolò Augustoni per quella social, oltre a numerosi volontari che, di volta in volta, sostengono l’iniziativa. Ricettari semplici, ma spassosi, profumati e, soprattutto pieni di umanità perché ogni piatto viene pensato e studiato dai redattori che fanno proposte utilizzando ingredienti e strumenti a loro disposizione. Ancora una volta il cibo unisce, riempie i cuori, porta a realizzare qualcosa di buono. Una speranza, una consapevolezza, ma soprattutto, una sfida, un volersi rimettere in gioco e raccontare, attraverso il cibo, esperienze e ricordi. Una sperimentazione che in molti hanno definito vincente perché mette a sistema i detenuti e le detenute che, attraverso le proprie esperienze, si rimettono in gioco e chiedono di portare la loro voce all’esterno. Un’iniziativa positiva perché questo percorso tiene conto di un elemento fondamentale: la riabilitazione. È una riabilitazione sociale per ovviare ai rischi dell’inezia che nuoce a tutti. “I rischi dell’inattività in carcere sono una costante e rappresentano un grave male per la popolazione carceraria. - spiega Arianna Augustoni - Rimanere nell’inattività, aspettando che il tempo passi senza scopo, senza avere uno scopo non permette di riflettere sulla propria vita, su se stessi e sulle situazioni che hanno portato la persona stessa a vivere nell’illegalità o a essere incarcerato. Oziare significa solo aggravare la situazione in cui vivono i detenuti, non aiuta certo a migliorarsi”. Partendo da questa riflessione al carcere di Como è nata l’idea che ha permesso ad alcuni gruppi di detenuti di impegnarsi per realizzare un prodotto editoriale che è riuscito a mettere in collegamento la vita dei reclusi con quella della società esterna. Una sperimentazione che ha colto nel segno diventando un progetto esportato in tutta Italia. L’iniziativa infatti è approdata nelle carceri milanesi di Bollate e Opera, Varese, Sondrio, Perugia, Alba, Pavia, Monza, Locri e Vibo Valentia. Un tam tam tra vertici dell’Amministrazione penitenziaria che ha catturato l’attenzione dei direttori degli Istituti fino a coinvolgerli in prima persona. Attraverso i referenti dell’area educativa, i detenuti e le detenute vengono invitati e invitate a scrivere ricette preparate con ingredienti e strumenti a loro disposizione. Ogni persona può inviare direttamente alla redazione di Cucinare al Fresco, al carcere del Bassone di Como, un proprio contributo. Ecco come cambia in un carcere il rapporto con il cibo. La maggior parte dei detenuti cerca di ricreare giorno per giorno pietanze che li facciano sentire bene, come a casa propria. È una relazione collegata anche a una ricerca diretta non solo delle materie prime, ma anche delle dotazioni per realizzare le ricette. Sembra un rapporto meno scontato di quello che possiamo avere noi all’esterno. In carcere è innegabile che si impara ad apprezzare il cibo, a sperimentare, attraverso la fantasia, nuove forme di cucina, ma soprattutto, sviluppa il senso del ricordo legato a una determinata pietanza e spesso la volontà di “riconquistare” un certo tipo di alimentazione, senza accettare passivamente quello che gli viene servito dal vitto. “In vece del popolo italiano”. I carri armati su cui sbanda la giustizia di Rosario Tornesello Quotidiano di Puglia, 14 dicembre 2020 La raccolta di atti ha un’anima divulgativa e perciò si pone come un saggio: gli interventi, legati tra loro, sono una dissertazione sugli sconfinamenti e soprattutto sulle degenerazioni cui negli anni - gli ultimi - è incorsa una parte della magistratura, in fretta osannata e in fretta delegittimata. I tempi di pubblicazione affidano una doppia valenza al lavoro: da un lato, la ricorrenza storica di una data tragica; dall’altro, la concomitanza con la contingenza degli eventi. Entrambi evocativi di una situazione complicata. Il titolo dice tutto e già questo basterebbe: “In vece del popolo italiano”. Un vero e proprio atto di accusa, quello del Centro studi giuridici Rosario Livatino, nella pubblicazione curata da Alfredo Mantovano con i contributi di Domenico Airoma, Gian Carlo Blangiardo, Carlo Guarnieri, Giulio Prosperetti, Mauro Ronco, Filippo Vari e dello stesso Mantovano (edizioni Cantagalli). Troppo forte, troppo diretto, troppo attuale - il titolo - per non meritare un approfondimento. Proviamoci. L’anniversario spiega il contesto e incasella l’operazione, anche in chiave editoriale. Gli atti sono legati al quinto convegno nazionale organizzato dal Centro studi, “Magistratura in crisi. Percorsi per ritrovare la giustizia”. La pubblicazione, invece, avviene in occasione del trentennale dell’uccisione del magistrato da cui il centro prende nome: Livatino fu ammazzato a 38 anni da quattro sicari mentre da solo, senza scorta, si recava in Tribunale ad Agrigento, dove prestava servizio. Era il 21 settembre 1990. “L’attualità di Livatino è sorprendente - scrive papa Francesco nel discorso con cui accoglie i partecipanti al convegno, anch’esso allegato al volume - perché coglie i segni di quel che sarebbe emerso con maggiore evidenza nei decenni seguenti, non soltanto in Italia, cioè lo sconfinamento del giudice in ambiti non propri, soprattutto nelle materie dei cosiddetti “nuovi diritti”, con sentenze che sembrano preoccupate di esaudire desideri sempre nuovi, disancorati da ogni limite oggettivo”. Decidere è scegliere, e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare, conclude il Pontefice richiamando un’altra delle riflessioni di Livatino, per il quale è in corso il processo di beatificazione. La scansione temporale degli eventi riconnette il convegno alla crisi della magistratura. Evidente il riferimento allo scandalo Palamara e al terremoto ai vertici del Csm. La pubblicazione degli atti, invece, anticipa di poco gli effetti di quello scossone - la radiazione dello stesso magistrato, i procedimenti disciplinari per ventisette colleghi - e giunge a ridosso del rinnovo degli assetti dell’Associazione nazionale magistrati, appuntamento legato a doppio filo all’attualità per non risentirne. E infatti: per la prima volta la maggioranza relativa va alla corrente di sinistra, Area, a discapito di Unicost, di cui era espressione proprio Luca Palamara, precipitata nei consensi. Cosa che rende ancor più graffiante il lavoro del Centro Livatino: nel mirino c’è molto dell’atteggiamento attribuito proprio a Magistratura Democratica, che di Area è l’asse portante. Il punto di vista è fondamentale per comprendere meriti e limiti del lavoro. La questione morale (argomento scivoloso) è strettamente connessa alla funzione svolta, ammonisce Airoma, vicepresidente del Centro studi insieme con Mantovano e Vari. E proprio la costituzione del Centro Livatino, aggiunge, è una scelta controcorrente: “L’obiettivo è quello di proporre, e sforzarsi di incarnare, un modello di magistrato dal forte spessore morale e realmente indipendente”. L’analisi parte da questo punto di vista. Considerarlo, per tutte le valutazioni del caso. L’incipit è nel saluto di Vari, che marca subito il perimetro degli interventi: la crisi della magistratura, le possibili soluzioni per uscirne. Gli scandali si muovono sullo sfondo, a giustificare i ragionamenti svolti. Il punto nodale è chiaro: l’assunzione di un ruolo creativo della giurisprudenza, contrario - spiega Vari - ai postulati delle liberal-democrazie. Il pensiero torna ai nuovi diritti: “I magistrati che creano le norme e non applicano la legge compiono un’operazione profondamente antidemocratica”, sicché la politicizzazione del ruolo della magistratura diventa al tempo stesso “causa ed effetto degli scandali cui si assiste”. Si tratta, perciò, di esaminare un altro passaggio fondamentale: l’imparzialità, elemento di connessione tra le due forme convergenti di indipendenza, interna ed esterna, cui dovrebbe attenersi il giudice. Condizione ideale. Se non fosse che, incalza subito dopo Ronco, presidente del Cento Livatino, proprio la politicizzazione della magistratura ha offuscato la sua immagine di potere terzo e imparziale. La svolta ha matrice storica: “Fu l’effetto della scelta marxista di una parte non irrilevante della magistratura italiana. Essa individuava nel giudice l’agente sociale, che, avvalendosi della discrezionalità interpretativa, avrebbe dovuto perseguire tramite la giurisdizione un modello alternativo di Stato”. Una scelta di classe, si direbbe. Per Ronco, l’espressione di un contropotere, una frattura che neppure l’impegno della magistratura contro il terrorismo prima e la criminalità organizzata poi è riuscito a ricomporre. Per questa via, “In nome del popolo italiano” diventa “In vece del popolo italiano”. Le tappe sono cronologicamente ben scandite. Airoma incasella il percorso nella cornice del gioco delle correnti. Il punto di partenza è nella nascita dell’Associazione nazionale magistrati, priva in origine (1909) di carattere e fine politico e poi divenuta (dopo la seconda guerra mondiale) “voce unica di un potere che la Costituzione vuole diffuso tra tutti i magistrati”. È qui che la variabile correntizia dispiega tutti i suoi effetti. Il momento cruciale è nell’arrivo sulla scena di Magistratura Democratica (1964), la parte più delicata (e, da supporre, anche la più controversa) dell’intero lavoro. Con il congresso di Gardone (1965) l’Anm “sposa un orientamento culturale diretto a sostenere un modello di magistrato impegnato a scardinare l’assetto tradizionale dei principi dell’ordinamento giuridico, sotto l’usbergo di una interpretazione cosiddetta costituzionalmente orientata”. È il periodo dei pretori d’assalto, ricorda Airoma; del progressivo scivolamento dei magistrati verso ruoli e funzioni “nevralgiche per il rovesciamento dell’ordine esistente”. Poi, con Tangentopoli, e siamo al 1992, la magistratura “cessa di avere un rapporto di collateralità, comunque paritario con la politica, e finisce con l’assumere un ruolo preponderante rispetto a quest’ultima”. La questione cambia perché cambia il mondo tutt’intorno: è caduto il Muro di Berlino, l’ordine mondiale non riflette più la contrapposizione tra due grandi blocchi, l’Italia non è più terra di confine e luogo di equilibri precari e i partiti della prima repubblica semplicemente si liquefanno. Airoma in poche righe rimarca il cambio di paradigma: “Non si tratta più di un giudice che fa politica, ma di un giudice che ritiene di essere investito della missione di giudicare la politica stessa e non solo gli atti dei politici, se di rilievo penale”. I magistrati erano stati fatti salire sul carro armato - è il punto di sintesi - “e da quel carro armato non intendevano scendere più”. Ce n’è quanto basta per aprire un dibattito e innescare le polemiche. Anche perché Airoma non risparmia altre considerazioni. Ad abundantiam: il ringiovanimento della categoria, ma sempre più con esponenti interessati “soprattutto a status e carriera”; l’azzeramento dei vertici per pensionamento anticipato; la temporaneità degli incarichi direttivi, con “appetiti difficilmente contenibili e, soprattutto, impossibili da soddisfare per tutti”. Un contesto permeabile alle degenerazioni, se le considerazioni esposte corrispondono a realtà. Andrebbe aggiunto che a far luce su deviazioni e devianti sono pur sempre gli stessi magistrati, a testimoniare una sostanziale tenuta del sistema. La conclusione, ad ogni modo, è coerente con il ragionamento svolto: “Le correnti si presentano sempre più come compagnie di assicurazione e di sostegno nella scalata ad incarichi di vertice. Diventano, perciò, maggioritari quei gruppi che, più degli altri, si mostrano capaci di assicurare benefici e prebende”. Il preludio a quello che sarà l’affaire Palamara, appunto. Rimedi? Parliamone, ma con una punta di sano scetticismo: “Non è la prima volta che accade qualcosa di grave nella magistratura e nessuno reagisce”, avverte infatti Mantovano. Al di là degli episodi specifici - vale pur sempre la presunzione di innocenza - a colpire è un preoccupante abbassamento della tenuta, etica e professionale. Mantovano aggancia il giudizio a tre numeri “abnormi”: le prescrizioni, gli indennizzi per ingiusta detenzione e i procedimenti che partono con clamore per concludersi con un nulla di fatto, magari dopo aver inciso in settori rilevanti della vita nazionale. Dunque, che fare? La separazione delle carriere tra giudici e pm è la prima soluzione proposta. Fin qui l’esercizio della giurisdizione. Poi, però, c’è un livello disciplinare, e su questo fronte - suggerisce Mantovano - non è opportuno che il giudizio sia rimesso a una sezione del Csm “i cui componenti togati sono eletti con criteri di appartenenza correntistica”: meglio sarebbe spostare la competenza a una corte disciplinare terza. Infine, il concorso per l’accesso alla funzione e la scelta dei dirigenti degli uffici, entrambi percorsi a inciampi programmati. Il primo, infatti, richiede solo “voti sufficienti” senza alcuna valutazione di “attitudini fisiopsichiche” e pregresse esperienze forensi, mentre il secondo non ha ancora risolto - secondo Mantovano - il quesito di fondo: “Se a una persona di buon senso fosse richiesto di scegliere il sovrintendente alla Scala, pensiamo che punterebbe sul miglior tenore ovvero cercherebbe una persona che, pur con ottima competenza in campo musicale, abbia doti manageriali elevate, specifiche e sperimentate?”. Ecco, posti sul tappeto tutti i problemi, i dubbi e le perplessità, valutati i punti critici e gli snodi vitali, ipotizzati i possibili correttivi, resta forse la questione principale, su cui il lavoro si conclude, e non a caso: chi deve prendere l’iniziativa? “La politica oggi non può continuare ad assistere dalla tribuna a una partita della quale è soggetto essenziale - conclude Mantovano -. Poiché pure il non fare è una scelta: ometterla oggi significa avallare, insieme col silenzio caduto sulla questione magistratura, la non soluzione dei problemi che quel silenzio porta con sé”. E non è un caso che qui ci si fermi, prima di cedere il passo alle considerazioni del Santo Padre, quasi fosse (ma non lo è) l’annuncio di delega per uno sforzo sovrumano che implica il ricorso a interventi trascendenti. Quale politica è chiamata a questo impegno? La stessa capace di annunciare riforme ma non di realizzarle? Che ancora non legifera sull’ergastolo ostativo nonostante il doppio richiamo della Consulta? Che dimentica di dire una parola chiara sul fine vita? Che non riesce neppure a disciplinare, per esempio, materie meno complicate come le concessioni demaniali? Questa politica? La montagna crescente di esigenze, bisogni e interessi spesso non ha altra sponda se non le aule di giustizia, una volta rimbalzata dalle aule istituzionali incapaci di dare risposte normative a un mondo che cambia repentinamente, quasi quanto le alleanze di governo. Sicché, certo, “In vece del popolo italiano” non è una gran bella prospettiva. Ma non lo è neppure l’altra, alla quale spesso si è costretti: “In vece del Parlamento”, che quello stesso popolo designa. Unhcr, l’impegno per un mondo in cui nessuno debba più fuggire di Filippo Grandi* Corriere della Sera, 14 dicembre 2020 L’Alto Commissariato compie settant’anni: è una ricorrenza scomoda, perché purtroppo la sua missione è sempre più ampia e sarebbe meglio se non dovesse esistere. Il 14 dicembre l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati compie 70 anni. Per un’organizzazione che avrebbe dovuto cessare di esistere dopo soli tre anni, è un anniversario scomodo - uno di quelli che non si festeggiano. Mentre un mondo distrutto iniziava a rinascere dopo la Seconda guerra mondiale, all’Unhcr fu dato il compito di trovare rifugio a migliaia di persone che il conflitto, in Europa, aveva obbligato alla fuga. Nato il 14 dicembre 1950, l’ufficio dell’Alto Commissario aveva un mandato limitato nel tempo, geograficamente circoscritto ed esplicitamente non politico, come se la sua esistenza fosse un ricordo del dolore da spazzare via presto, insieme alle macerie. Ma i cambiamenti geopolitici portarono presto nuovi conflitti, creando quindi più rifugiati, e la missione dell’Unhcr ha cominciato e continuato ad allargarsi. L’era post-coloniale è stata accompagnata da lotte di liberazione, e poi da lotte per il potere, che hanno costretto milioni di persone alla fuga. Anno dopo anno, continente dopo continente, l’Unhcr ha dovuto assistere un numero di rifugiati in costante, tragica crescita. L’anno scorso ha segnato quattro decenni di esodi forzati dall’Afghanistan. L’anno prossimo segnerà un decennio dallo scoppio del conflitto in Siria. E così via, una serie di anniversari indesiderati, nuovi conflitti che emergono o riemergono, mentre gli effetti di quelli vecchi devono ancora sbiadire. Di conseguenza, l’Unhcr ha dovuto ripetutamente adoperarsi per proteggere in ogni modo, e con ogni risorsa disponibile, le persone in fuga dalle loro case e dai loro Paesi. Questo ha spesso comportato difficili compromessi. Noi non siamo presenti quando si decidono i destini delle nazioni e dei popoli, ma siamo sempre in prima linea, vicino alle persone costrette a fuggire, quando i conflitti rimangono irrisolti. Per statuto siamo un’organizzazione apolitica, ma il nostro lavoro - tra crisi e emergenze - spesso comporta una diplomazia complessa e delicata, per non parlare delle decisioni difficili e alle scelte quasi impossibili a cui spesso siamo confrontati cercando di proteggere e assistere milioni di persone vulnerabili in mezzo a conflitti violenti e complicati, con risorse che semplicemente non stanno al passo con i bisogni. I colleghi dell’Unhcr, da sempre, e ancora oggi, sono fieri di avere protetto, cambiato e molte volte salvato tante vite umane. E sono determinati ad affrontare nuove sfide, come l’emergenza climatica o la pandemia del coronavirus - fattori che amplificano i già significativi problemi posti dalle migrazioni forzate. Allo stesso tempo, vorrebbero non doverlo fare. Perché se invece di nuovi conflitti ci fossero più accordi per un cessate il fuoco; se per più rifugiati fosse realmente possibile ritornare a casa senza timore, e con dignità; se più governi si facessero carico di accogliere rifugiati, ricollocandone quote maggiori da quei Paesi - spesso privi di risorse - che già ne accolgono milioni; se gli Stati rispettassero sempre i loro obblighi internazionali in materia di asilo, e i principi fondamentali della protezione dei rifugiati, come quello di non respingerli e riconsegnarli a guerre e violenza; se tutto questo accadesse, noi dell’Unhcr avremmo molto meno problemi di cui occuparci e preoccuparci. Purtroppo, la realtà è diversa. Nell’ormai lontano 1994, nel Paese che allora si chiamava Zaire (ed è ora la Repubblica Democratica del Congo) facevo parte della squadra d’emergenza che l’Unhcr aveva spedito alla frontiera ruandese per far fronte a un enorme esodo di rifugiati: in soli quattro giorni, un milione di uomini, donne e bambini avevano attraversato il confine fuggendo dal Ruanda lacerato dal genocidio e dalla violenza, per poi trovarsi improvvisamente nel cuore della peggiore epidemia di colera dei nostri tempi, che ha ucciso decine di migliaia di persone. A noi, che avevamo il compito di proteggere i rifugiati, toccò invece scavare tombe. E se indubbiamente, nel corso delle nostre vite professionali, pensiamo spesso alle vite che abbiamo contribuito a salvare - a quei momenti di luce in cui la disperazione di un rifugiato si trasforma in speranza anche grazie ai nostri sforzi - non smettiamo mai di pensare, purtroppo, alle molte vite che non siamo riusciti a salvare. Quasi un anno fa, il numero totale di rifugiati, sfollati interni, richiedenti asilo e apolidi ha raggiunto l’1% della popolazione mondiale. Una percentuale terribile, che aumenta ogni anno: dobbiamo davvero chiederci quando verrà il momento in cui sarà considerata inaccettabile: quando raggiungerà il 2%? Il 5%? O non ancora? Quante persone devono ancora subire il lutto e l’affronto dell’esilio prima che i leader politici - conflitto dopo conflitto - decidano di affrontare sul serio le cause di quelle fughe? Così, in occasione del 70° anniversario dell’Unhcr, la mia sfida alla comunità internazionale è questa: mandatemi a casa. Fate in modo che l’obiettivo sia veramente quello di costruire un mondo in cui non ci sia bisogno di un’organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati, un mondo in cui nessuno finalmente sia costretto a fuggire. E per favore non fraintendetemi: per come stanno le cose, il nostro lavoro è fondamentale e necessario, eppure il paradosso è che non dovremmo esistere. E se ci ritroveremo a osservare molti altri anniversari, l’unica conclusione sarà che tutti insieme abbiamo fallito nel compito fondamentale di fare la pace. Ma siamo realisti. Milioni di rifugiati e sfollati provengono da una mezza dozzina di Paesi. Se cominciassimo a risolvere i problemi che li hanno costretti a fuggire, milioni di persone potrebbero tornare a casa. Sarebbe un ottimo inizio, e sarebbe qualcosa che tutti noi potremmo davvero festeggiare. *Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Stato di diritto, i soldi contano più dei valori? di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 14 dicembre 2020 L’importanza del regolamento dell’Unione europea - in via di approvazione definitiva- sta certamente nell’inserimento nel bilancio pluriennale del piano di finanziamento chiamato Next Generation Eu. Il piano rappresenta una straordinaria novità, non solo per l’enormità delle somme che verranno distribuite tra gli Stati membri, ma anche perché prevede che l’Unione si procuri quelle somme reperendole sul mercato, come nuove risorse proprie, non richieste ai singoli Stati membri. Buona parte delle discussioni tra i governi nel recente passato hanno proprio riguardato questa novità, che rafforza in modo decisivo la soggettività propria dell’Unione, distinta da quella dell’insieme degli Stati che ne fanno parte. Che il blocco imposto dal veto di Polonia e Ungheria alla approvazione del bilancio e, quindi, di tale meccanismo sia stato superato dai capi di Stato e di governo nella recente riunione del Consiglio è dunque ragione di soddisfazione, poiché il futuro degli Stati membri dipende dal rafforzamento dell’Unione. Ma un altro tema era in discussione nel Consiglio europeo e la soluzione accolta per superare il veto di Polonia e Ungheria non giustifica l’atmosfera euforica che l’ha accompagnata. Si sa che da tempo vi sono serie preoccupazioni e proteste per l’adozione in alcuni Stati membri di leggi o di prassi incompatibili con i valori su cui si fonda l’Unione. Secondo il Trattato istitutivo, è essenziale lo Stato di diritto di cui l’indipendenza dei giudici, il pluralismo dei media, il rispetto delle minoranze, il divieto di discriminazioni sono elementi costitutivi. Ultimamente Polonia e Ungheria, per più di un motivo, hanno dato luogo anche ad iniziative delle istituzioni dell’Unione sia nel Parlamento europeo, sia davanti alla Corte di Giustizia. Frutto di questa situazione è stato lo svilupparsi di una discussione che voleva condizionare al rispetto dello Stato di diritto l’erogazione degli ingenti fondi ordinari che gli Stati ottengono dall’Unione. Era ed è il testo stesso del Trattato che impone, come condizione dell’appartenenza all’Unione e di possibile sanzione in caso di violazione, il rispetto dei valori dello Stato di diritto ed era ovvio, nell’ambito di quel dibattito, che ogni aspetto della realtà che andava sviluppandosi negli Stati sarebbe stata presa in considerazione. Un primo importante passo per rafforzare il controllo della coerenza degli Stati rispetto all’impegno preso in ordine ai valori fondanti l’Unione si è visto nel progetto di regolamento approvato dal Parlamento europeo per l’istituzione del Next Generation Eu, poiché l’erogazione dei fondi vi è condizionata al rispetto dei principi dello Stato di diritto da parte degli Stati beneficiari. È quel legame che Polonia e Ungheria hanno rifiutato, ponendo il loro veto alla approvazione del bilancio dell’Unione. Il loro veto è stato ora tolto. Stando alle dichiarazioni pubbliche, tutti sono soddisfatti. Vediamo però cosa è avvenuto. Nonostante quanto voluto dal Parlamento europeo il legame tra finanziamenti e osservanza delle regole fondanti dell’Unione è ridotto a quasi nulla; per certi versi è persino snaturato. Le conclusioni del Consiglio, dopo aver richiamato il meccanismo ordinario di accertamento e sanzione delle violazioni dello Stato di diritto (quello che si è dimostrato insufficiente e il Parlamento voleva integrare), sottolineano che verrà rispettata la “identità nazionale degli Stati membri insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale” e dichiara che la condizione posta per il finanziamento agli Stati è esclusivamente quella di “proteggere il bilancio dell’Unione, compreso Next Generation Eu, la sua sana gestione finanziaria e gli interessi finanziari dell’Unione”. E non ogni pur grave e strutturale violazione dello Stato di diritto sarà presa in considerazione. Irrilevanti saranno le “carenze generalizzate”. Conteranno solo quelle che abbiano un impatto diretto sugli interessi finanziari dell’Unione. Si aggiunge poi che il legame tra rispetto dello Stato di diritto e fondi erogati varrà solo per quelli previsti dal nuovo bilancio. In più si inserisce un complesso meccanismo di Linee guida emanate dalla Commissione e ricorsi alla Corte di Giustizia, che fanno prevedere che nulla avverrà prima dei prossimi due o tre anni. Insieme ai tanti euro ci portiamo così a casa un principio sconcertante: Stato di diritto, democrazia, diritti e libertà fondamentali sono valori fondanti dell’Unione, ma solo se la loro violazione confligge con la protezione dei suoi interessi finanziari. Polonia e Ungheria e i loro governi hanno ragione d’esser soddisfatte. Un triste esito per chi - anche fuori delle periodiche celebrazioni di felici anniversari - vuol continuare a credere che l’Unione e l’Europa ch’essa rappresenta non siano solo un mercato unico e una entità economica. Migranti. Storia di Matar, Iqra e Acil: “La scuola italiana ci ha reso ragazzi super” di Gaia Terzulli Corriere della Sera, 14 dicembre 2020 Le testimonianze di un gruppo di giovani immigrati che hanno frequentato con successo le scuole superiori della provincia di Brescia raccolte in un volume dell’Università Cattolica. Matar ha 19 anni ed è un ragazzo “super”. Non ha doti eccezionali rispetto alla media dei suoi coetanei, ma una capacità sviluppata precocemente che l’ha reso capace di “superare” tanti suoi compagni. La volontà. Matar è uscito con 100 dalla maturità lo scorso 25 giugno, l’unico della sua classe. Dopo nemmeno tre settimane l’azienda da cui stava concludendo uno stage curricolare l’ha chiamato per assumerlo. Lui non ci ha pensato due volte, ha accettato l’offerta e iniziato a lavorare in piena estate. Mentre in tutta Italia centinaia di migliaia di donne e uomini rimanevano disoccupati per via della pandemia, uno studente appena diplomato riceveva il suo primo stipendio. Fortuna, si dirà. Ma non solo. La storia di Matar comincia con un padre arrivato in Italia dal Senegal 31 anni fa e racconta le difficoltà, i sacrifici e la tenacia di chi ogni giorno deve dimostrare di non essere da meno degli altri. Il melting pot di Brescia - È il percorso di successo di un ragazzo con background migratorio, uno dei 17,7 stranieri ogni 100 alunni che studiano a Brescia e in provincia (dati MIUR 2019). Un territorio che deve parte del proprio assetto socio-economico alla massiccia presenza di cittadini stranieri. Secondo l’Istat, nel 2019 erano 157.463 nel solo comune capoluogo. Dopo Roma, Milano e Torino, Brescia è dunque la quarta città in Italia per numero di immigrati. Dato a partire dal quale si è sviluppata l’indagine di Mariagrazia Santagati, ricercatrice e docente di Sociologia dell’educazione all’Università Cattolica di Milano, autrice, nel 2018, di Autobiografie di una generazione Su.Per. il successo degli studenti di origine immigrata (ediz. Vita e Pensiero). Frutto di un progetto promosso dal Cirmib (Centro di Iniziative e Ricerche sulle Migrazioni) della Cattolica, il volume raccoglie 65 biografie di studenti scelti dalle scuole secondarie di secondo grado di Brescia e provincia: parabole di crescita umana e intellettuale in cui buone prestazioni scolastiche derivano da esperienze d’integrazione soddisfacenti. Lo confermano oggi, a due anni dalla pubblicazione delle Autobiografie, i protagonisti del progetto. Appena usciti dal liceo come Matar, pronti ad affacciarsi all’università, o già da tempo inseriti nel mondo del lavoro. Ragazzi super resilienti - Sabina Cenaj, 22 anni, a 12 ha lasciato l’Albania perché “non mi avrebbe mai dato il futuro che volevo”, ammette. Oggi quel futuro ce l’ha in mano. Studia Psicologia, il suo sogno fin da bambina, e non vede l’ora di “aiutare gli altri, di ascoltarli e capirli” come i suoi amici e professori del liceo hanno fatto con lei. “Non sarei mai arrivata dove sono se fin dalle medie non avessi avuto compagni capaci di integrarmi così bene”, riconosce. “Quello che ho vissuto mi darà la forza per avvicinarmi ancora di più a chi avrò di fronte”. Quella di Sabina è la traiettoria di una ragazza arrivata in Italia a scolarizzazione già avvenuta, con un doppio carico di attese e l’incognita del successo amplificata. “Chi arriva tardi in Italia ha molte meno probabilità di avere una buona esperienza scolastica”, spiega Mariagrazia Santagati. I fallimenti sono avvertiti come inevitabili e al contempo indispensabili per sviluppare resilienza e tenacia, alcune delle cosiddette character qualities indagate dai sociologi: “Non sono genetiche, ma vengono apprese e chi le sviluppa resiste molto meglio a prove complesse”, continua la ricercatrice, che segnano il passaggio all’età adulta. Il sogno di Matar - Iqra e Acil hanno entrambi 21 anni. Lei è arrivata in Italia dal Pakistan a cinque anni, lui a 15 dall’Algeria. Non hanno avuto percorsi scolastici sempre gratificanti, ma come Sabina e Matar hanno resistito, creduto in loro stessi e raggiunto ciò che volevano. Acil studia Infermieristica, Iqra lavora già da tempo e sorride, oggi, ricordando i suoi primi colloqui: “Al telefono parlavo talmente bene l’italiano che chi mi ascoltava credeva fossi nata qui. Non appena dovevo dire il mio cognome o farmi vedere, alcuni mettevano le distanze. Poi vedevano quanto mi impegnavo per farcela e si ricredevano”. La sicurezza con cui parla è una conquista a cui hanno contribuito i maestri incontrati lungo il cammino. “Quello che sono oggi lo devo soprattutto ai professori che sono sempre stati accanto a me e hanno creduto nel mio potenziale”, dice Iqra, grata. Le fa eco Matar, consapevole di aver avuto negli adulti modelli di riferimento preziosi. A cominciare dal padre, “che non mi ha fatto mai mancare niente”, racconta. “Ha sempre e solo lavorato per mantenerci. Ha fatto il buttafuori, l’operaio in fabbrica, il muratore, voleva che avessi sempre libri nuovi per studiare. E mi sembrava il minimo ripagarlo di tutti i suoi sacrifici”. Non con il 100 alla maturità, né con un contratto di lavoro in piena pandemia. Un ragazzo “super” non si accontenta mai. “Il mio sogno è far smettere di lavorare i miei genitori e farli tornare insieme in Senegal. È quello che vogliono loro e quindi è il mio desiderio più grande”. Manovra, cannabis light: blitz M5S per la liberalizzazione Il Messaggero, 14 dicembre 2020 Scontro sulla cannabis light. La maggioranza alle prese con lo sprint finale sulla manovra si divide sull’opportunità di riaprire il dossier già affrontato lo scorso anno e poi accantonato per la difficoltà di trovare una sintesi. Il tema è stato affrontato nel corso di due vertici tecnico-politici, alla presenza del ministro dell’Economia Gualtieri, sulla legge di bilancio. Sul tavolo, appunto, l’emendamento del Movimento 5 stelle sulla cannabis light. I pentastellati insistito sulla necessità di regolare in particolar modo il settore della canapa industriale. Ci sono approfondimenti in corso con i vari ministeri interessati e nel fronte rosso-giallo. Ma la posizione dei pentastellati è isolata. “Un conto è la canapa sativa e curativa, un altro conto è allargare le maglie sulla marijuana”, spiega una fonte di Italia Viva. Sul tema che già l’anno scorso fu sul tavolo (la presidente del Senato Casellati dichiarò estraneo alla materia di discussione l’emendamento voluto da M5s che disciplinava la cannabis light) ci sono valutazioni in corso nella maggioranza, anche di opportunità. “Ci sarebbe una protesta forte delle opposizioni” spiega un’altra fonte di maggioranza. Nell’emendamento dei 5 Stelle per regolamentare l’intera filiera della canapa si fa riferimento alla liberalizzazione della cannabis light, che ha un contenuto di principio attivo (Thc) al di sotto dello 0,5%. Quello della canapa, si legge nella relazione, è un fenomeno che “non può più essere ignorato e deve essere prontamente affrontato con un approccio oggettivo e concreto, attraverso una chiara e complessiva regolamentazione”. L’obiettivo della proposta è anche quello di regolare l’indotto distributivo, garantendo trasparenza delle informazioni e delle indicazioni relative ai prodotti commercializzati. Secondo quanto filtra, ben tre ministeri (Giustizia, Interni e Salute) avrebbero espresso parere contrario, tanto che il ministero dell’Economia, attraverso i bracci amministrativi dell’Agenzia dei Monopoli, avrebbe cercato di riformulare l’emendamento. L’eventuale liberalizzazione della cannabis light frutterebbe 980 milioni l’anno di maggior gettito fiscale. Ma le resistenze sono forti. Tanto più che l’opposizione è già all’attacco. “Con il pretesto di aspetti medico-sanitari polemizza da Forza Italia l’ex ministro Maurizio Gasparri si vogliono allentare le maglie in materia di droghe. Normative permissive inserite nella legge di bilancio sarebbero non solo estranee per materia ma anche una scelta grave e pericolosa”. Egitto. Regeni, le parole che servono. Lettera al presidente del Consiglio di Luigi Manconi La Repubblica, 14 dicembre 2020 Signor presidente del Consiglio, con l’atto di chiusura delle indagini da parte della Procura di Roma, la vicenda dell’assassinio di Giulio Regeni è giunta a un punto di non ritorno. Ora è impossibile dire: non sapevamo; ora tutti, cittadini e autorità pubbliche, sono nelle condizioni di sapere che un giovane italiano è stato rapito, torturato e trucidato per mano di agenti dei servizi di sicurezza e di alti funzionari dello Stato egiziano. Abbiamo tutti appreso che, nella stanza 13 di un edificio controllato dalla National Security Agency, Regeni “era mezzo nudo, portava dei segni di tortura segni di arrossamento dietro la schiena. Era sdraiato steso per terra, con il viso riverso ammanettato con delle manette che lo costringevano a terra”. È una vicenda atroce, quella ricostruita dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco, ma è anche qualcos’altro, che la interpella direttamente, signor presidente, come massimo rappresentante politico del nostro Paese. Perché, con quell’assassinio, sono la sovranità dello Stato e l’interesse nazionale a venire oltraggiati. È una questione umanitaria, quella di Regeni, così come quella di migliaia di egiziani che hanno conosciuto e conoscono la stessa sorte. Ma è, allo stesso tempo, una questione che chiama in causa la dignità e la credibilità del nostro Paese e la sua indipendenza all’interno della comunità internazionale. Lei è un giurista, signor presidente, e sa bene che l’autorità giuridica e morale di uno Stato - la sua costituzione primaria - si fonda sulla capacità di proteggere l’incolumità dei suoi cittadini. Lo Stato promette di tutelare l’integrità fisica e psichica dei membri della comunità in cambio dell’osservanza delle leggi. E in un mondo globalizzato, tale tutela deve estendersi oltre i confini nazionali. L’Italia non ha avuto la capacità di garantire la sicurezza di Regeni al Cairo e non è stata in grado, poi, di ottenere dal regime di Abdel Fattah al-Sisi (chiamato “amico” da tutti i governi italiani dal 2016 a oggi) la minima cooperazione per individuare i responsabili di quel crimine. E appena poche ore fa, abbiamo saputo che, secondo un testimone considerato attendibile dalla nostra magistratura, nei locali dove Regeni veniva seviziato, si trovava il ministro dell’Interno egiziano. Immagino che, in queste ore, il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, abbia disposto la convocazione del signor Hisham Mohamed Moustafa Badr, ambasciatore della Repubblica araba d’Egitto a Roma, in vista di ulteriori decisioni. E immagino che lei, signor presidente, si accinga a pronunciare parole inequivocabili contro un regime complice di chi ha straziato il corpo “magro, molto magro” di un ragazzo di ventotto anni. Lo dico con tristezza perché, fino a oggi, questo non è avvenuto. E non solo nelle ultime ore. Nel corso di quasi cinque anni l’Italia non ha adottato alcun serio provvedimento e alcuna efficace misura per esercitare un’adeguata pressione nei confronti delle autorità egiziane. Non un solo atto, come dire?, di orgoglio nazionale di fronte al massacro di un giovane andato in Egitto per ragioni di studio e per curiosità del mondo. Non una sola affermazione di autonomia politica e diplomatica nei confronti di un sistema dispotico che ha irriso la figura e la memoria di un nostro connazionale, dopo che i torturatori ne avevano degradato e sfregiato il corpo. E colpisce che questo atteggiamento, osservato con poche distinzioni da ben quattro governi, sia stato presentato come espressione di realismo politico e affermazione del primato della ragion di Stato. Un realismo politico straccione e una ragion di Stato dilettantesca, tirati in ballo per celare la codardia di una politica estera priva di qualunque autonomia. E così, ancora una volta, è stata avallata la fallace contrapposizione tra realismo e idealismo: accreditando l’immagine di un’Italia incapace di tutelare la vita dei propri cittadini e di ottenere giustizia per essi in quanto condizionata da calcoli geo-strategici e interessi economici. Quasi che raggiungere la verità su quell’assassinio, non corrispondesse a un interesse nazionale tanto solido e corposo, quanto lo è l’interscambio con l’Egitto. In altre parole, la possibilità dell’Italia di intrattenere, con quel Paese, rapporti alla pari sul piano politico ed economico, dipende non da un atteggiamento di resa, bensì dal fatto di essere e comportarsi come uno Stato sovrano titolare di dignità e autorità, e di parlare a nome di una comunità, quella europea, fondata sui principi democratici e liberali. Se ciò non accadesse, se non sentiremo nelle prossime ore - ed è già tardi - parole ferme e nette, vorrà dire che quel realismo straccione di cui ho detto ha avuto la meglio: così confermando che il nostro Paese nutre una sorta di pervicace complesso di inferiorità nei confronti di un regime dispotico e liberticida. Egitto. Quei “mille Regeni” spariti nelle carceri di Al Sisi di Giordano Stabile La Stampa, 14 dicembre 2020 Il rapporto di Committee for Justice inchioda il regime. Torture, maltrattamenti e negazioni dei diritti basilari hanno provocato 1.058 vittime. E nessuno ha mai pagato. Ci sono 1.058 Regeni nell’Egitto di Abdel Fatah al-Sisi. Sono le persone morte nelle carceri per torture, maltrattamenti, cure mediche negate, a partire dal 2013, quando l’ex capo delle Forze armate ha spodestato il presidente islamista Mohammed Morsi e ha preso il potere. Un bilancio sinistro, che ha visto una nuova accelerazione nel 2020, con cento vittime. Sono numeri che aprono una finestra sul sistema di repressione messo in campo per schiacciare l’opposizione dei Fratelli musulmani e l’insorgenza jihadista ma che ha finito per coinvolgere tutta la società, l’opposizione laica, sindacalisti, giornalisti, i ricercatori come Giulio. Il bilancio è stato stilato dalla ong americana Committee for Justice, Cfj, con sede a Washington. Il rapporto del Cfj è in intitolato “The Giulio Regenis of Egypt”, in ricordo del giovane italiano trovato morto il 3 febbraio del 2016 al Cairo, con il corpo martoriato dalle sevizie. Ma per il direttore esecutivo del Cfj Ahmed Mefreh, Regeni “non è l’unica vittima della autorità egiziane, dopo di lui sono venuti un cittadino francese, Eric Lange, l’americano James Henry Lawne, e altri che sono stati uccisi a sangue freddo, senza che i loro assassini e i loro torturatori abbiamo mai dovuto pagare, nel bel mezzo di un silenzio internazionale sospetto, mentre occorre far pressione per far sì che vengano investigate le morti di stranieri ed egiziani nei centri di detenzione”. È un lungo elenco che i ricercatori del Cfj hanno cercato di ricostruire nella maniera più dettagliata possibile. La maggior parte delle 1.058 persone decedute in 7 anni hanno trovato la morte nei commissariati e nei centri comando delle forze di sicurezza, i posti più pericoloso in assoluto, con 584 vittime in totale. Seguono le prigioni con il 34 per cento dei casi, vale a dire 359. Poi i veicoli per il trasporto di arrestati e detenuti, dove sono morte 43 persone, e ancora i campi gestiti dalla Sicurezza centrale, 20 casi, e infine i tribunali, 16 decessi, compreso quello dello stesso Morsi, stroncato da un infarto per le mancate cure. Il diniego di un’assistenza medica adeguata è la causa di ben 761 morti su 1.058. Al secondo posto c’è la tortura, 144 vittime. Infine le cattive condizioni di detenzione, come quelle denunciate ieri da Patrick Zaki, sono responsabili di 29 decessi. Sono tutte violazioni dei diritti umani, anche se la più grave è la tortura. La prima fase dell’era Al Sisi, i sei mesi seguiti al colpo di Stato del luglio 2013, è stata la più brutale. Delle 85 morti in carceri e centri detenzioni in quel periodo ben 57 sono attribuite alla tortura. Il numero di morti ha avuto un picco nel 2015, con 217, poi è calato fino al 2019, quando se ne sono registrate 90, per risalire nel corso del 2020, a 100. La crescita è in parte dovuta all’epidemia di coronavirus, che ha ucciso almeno 17 detenuti. Per il Jfj questo è dovuto “all’abuso da parte del ministero dell’Interno delle norme di emergenza, mentre il ministero della Salute è negligente e le infermerie sono incapaci di curare i contagiati”. L’area più pericolosa resta quella del Cairo, con 236 vittime. Poi Minya, 104, e Giza, 100. I tre governatorati assommano il 41 per cento di tutti i casi e ciò è dovuto al “proliferare di prigioni e all’alto numero di commissariati”. Stati Uniti. Record di esecuzioni federali, l’amara eredità dell’amministrazione Trump di Giulia Cerqueti Famiglia Cristiana, 14 dicembre 2020 Le ultime settimane della presidenza Trump saranno ricordate per le esecuzioni di condannati a morte. Nell’arco di 24 ore, il 10 e l’11 dicembre, due detenuti, Brandon Bernard e Alfred Bourgeois, entrambi afroamericani, sono stati giustiziati nel penitenziario federale di Terre Haute, nello Stato dell’Indiana. Bernard e Bourgeois erano due dei quattro condannati all’esecuzione tramite iniezione letale programmati durante gli ultimi giorni dell’amministrazione Trump, nella fase di transizione presidenziale. Da quando Biden ha vinto le elezioni a novembre, sono tre i detenuti nel braccio della morte giustiziati. In particolare, il caso di Bernard ha fatto molto discutere e ha attratto su di sé i riflettori della nazione. Quarantenne al momento dell’esecuzione, Bernard è stato il più giovane detenuto negli Usa in quasi 70 anni ad essere condannato a morte dal Governo federale per un crimine commesso quando era minorenne. Molte personalità di spicco, dall’ attrice Kim Kardashian al reverendo Jesse Jackson, hanno lanciato degli appelli perché Bernard non venisse giustiziato e la sua pena fosse commutata in carcere a vita. Ma senza alcun risultato. Forti reazioni di protesta si sono sollevate contro la ripresa delle esecuzioni federali - per detenuti nel braccio della morte a seguito di verdetti emessi da tribunali federali - decretata dal ministro della Giustizia William Barr a luglio del 2019. Bernard e Bourgeois sono stati il sedicesimo e diciassettesimo condannato giustiziato negli Usa nel 2020. Come sottolinea il Death penalty information center, un’organizzazione non-profit americana fondato nel 1990 impegnata nel diffondere informazioni sulla pena capitale, “quest’ anno ha segnato la prima volta nella storia degli Stati Uniti in cui il Governo federale ha condotto un numero di esecuzioni maggiore rispetto a quelle condotte da tutti gli Stati dell’Unione messi insieme”. E si riaccende il dibattitto - in realtà mai sopito - sul sistema fortemente discriminatorio su base razziale della pena capitale in America, confermato anche dall’ultimo rapporto del Death penalty information center rilasciato lo scorso settembre. Secondo i dati del rapporto, dal 1977 - quando la pena capitale è stata reintrodotta - 295 afroamericani sono stati giustiziati per l’omicidio di vittime bianche, solo 21 bianchi sono stati giustiziati per l’uccisione di vittime afroamericane. Delle 57 persone detenute al momento nel braccio della morte federale, 34 sono di colore, compresi 26 uomini neri. Alcuni di loro sono stati condannati da giurie composte esclusivamente da membri bianchi. Durante la sua campagna presidenziale - ricorda il Death penalty information center - Biden ha dichiarato che la pena capitale federale dovrebbe essere fermata. La speranza è che con la nuova amministrazione per gli Stati Uniti giunga finalmente il tempo di invertire la rotta sulla pena di morte. Turchia. I libri scritti in carcere dall’ergastolano Ocalan di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 14 dicembre 2020 Pensieri e memorie del capo del curdo-turco ingiustamente prigioniero nell’isola di Imrali, pubblicati in Italia. Paolo Pietroni, uno dei più grandi giornalisti che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita, un vero genio dell’informazione combinata tra scritto e immagine, mi attribuisce un merito non so quanto meritato: di saper leggere i volti degli altri, di distinguere insomma tra una persona vera e un cialtrone. Sandro Pertini, indimenticabile presidente della Repubblica, che conoscevo da quando ero un ragazzo, mi confidava che non bisogna mai sottovalutare chi scrive dall’interno di un carcere, dove è rinchiuso per aver difeso la libertà propria e quella del suo popolo. Due pensieri fulminanti che mi hanno accompagnato mentre ricevevo, pochi giorni fa, il più gradito regalo natalizio. Un pacco, “ovviamente di libri”, come mi ha detto sorridendo il portiere di casa. Dentro il pacco le opere scritte da uno dei detenuti che rispetto e considero una vittima ingiustamente detenuta: il fondatore curdo-turco del gruppo Pkk Abdullah Ocalan, che dal 1999 è recluso superblindato sull’isola di Imrali, nel mar di Marmara. Prima condannato a morte, e poi con la sentenza tramutata in ergastolo. Mi hanno mandato, e ringrazio le “edizioni punto rosso”, quattro dei suoi libri, il primo scritto quando era in libertà, gli altri scritti in carcere. libri che rivelano la profondità culturale e umana di un uomo verticale, una bella faccia come la descriverei a paolo pietroni. Lo so perché l’eroe curdo-turco Abdullah Ocalan l’ho incontrato, intervistato, osservato a lungo, quando era profugo in Libano, protetto dagli uomini della sicurezza siriana. Uno degli incontri più vivi nella mia mente. tutto era cominciato a Beirut, in un negozio di souvenir, quando andai a comprare un pensierino natalizio. spiegai al venditore, curdo, che ero un giornalista e avrei voluto incontrare Ocalan. mi regalò il pensierino che volevo acquistare. mi chiese in che albergo ero sceso. “avrà nostre notizie”. dopo un paio di giorni mi contattarono e ricevetti le istruzioni per arrivare a Zahle, nella valle della Bekaa. Vi furono alcune cose strane, nel distretto di Barelias, con passaggi da un edificio all’altro, fino a quando, accompagnato da un giornalista di Istanbul, che faceva la spola tra il presidente Turgut Ozal, uno dei più grandi leader turchi, e Ocalan, per cercare assieme una via pacifica per uscire da una guerra. alla fine, dopo essere stato bendato, mi portarono a casa di Ocalan. Non so come, ma mi risultò subito simpatico l’uomo che, invece di riceverci (conosceva ovviamente il mio accompagnatore), era inginocchiato per terra e trafficava con la manopola di una vecchia radio. Bofonchiò poche parole, “dica al nostro amico di aspettare cinque minuti. Sta finendo la partita e forse riusciremo a vincerla”. Il collega turco sorrise e poi, guardandomi, scoppiò a ridere. “Non ci crederai, ma lui è un fan forsennato del Galatasaray”. Io, sempre più sconcertato: “vuoi dire la squadra di calcio dei militari, dell’establishment, di tutti coloro che pensano che Ocalan sia un terrorista?” “Si, se ami il calcio puoi capire”. Il “leader terrorista”, soltanto per i turchi più creduloni e nazionalisti, si alzò sorridendo e mi tese la mano, quasi raggiante: “Grazie di essere venuto a trovarmi. Abbiamo vinto e ora sono felice. possiamo cominciare l’intervista”. Trascorremmo quasi due ore a parlare di tutto: della Turchia, del Medio Oriente, dell’ignorata promessa di avere finalmente uno stato curdo, dell’assassinio di Olaf Palme, delle responsabilità degli Usa. Rispondeva direttamente alle domande, guardandomi dritto negli occhi. Visto che era di ottimo umore per la vittoria del Galatasaray, tornai sull’argomento calcistico. mi disse, spalancando gli occhi: “Come sta il grandissimo Paolo Rossi?” per nulla sorpreso, perché Pablito era una divinità, risposi “Mi risulta che stia benissimo”. Eravamo negli anni 90. ho pensato a Ocalan, detto Apo, quando ho ascoltato la notizia della morte del Campione del mondo. Chissà se lo avrà saputo anche Apo, nel carcere di Imrali. Se l’ha saputo sono certo che sarà tristissimo, come tutti noi. Turchia. Il video dell’arresto dell’avvocato Aytaç Ünsal di Simona Musco Il Dubbio, 14 dicembre 2020 Ammanettato a terra e trascinato a bordo dell’auto dopo essere stato picchiato. Il video del nuovo arresto di Aytaç Ünsal, l’avvocato turco scarcerato temporaneamente dopo un digiuno lungo 217 giorni di sciopero della fame, è stato diffuso in rete dai quotidiani turchi. Uno spezzone lungo poco meno di 2 minuti, nel quale vengono ripresi tre uomini, stesi atterra e ammanettati e portati via dalla polizia. Tra questi anche l’avvocato per i diritti umani, che nei mesi scorsi aveva avviato uno sciopero della fame come forma di protesta per ottenere un processo equo, assieme alla collega Ebru Timtik, morta a causa del lungo digiuno, durato, nel suo caso, oltre 230 giorni. Ünsal, praticamente incapace di muoversi a causa dei danni alle terminazioni nervose provocati dal lungo digiuno, vieni trascinato fino all’auto. Sul suo volto sono evidenti i segni delle percosse, documentati da una foto diffusa dal Peoplès Law Office. L’accusa lanciata dal ministro dell’Interno Suleyman Solyu, lo stesso che aveva minacciato di far arrestare chiunque esponesse la foto di Ebru dopo la sua morte, è quella di aver tentato la fuga, per sottrarsi alla giustizia turca. Un’accusa respinta con fermezza dal Peoplès Law Office. Prima di essere scarcerato dalla Suprema Corte a causa del deteriorarsi delle sue condizioni di salute, Ünsal era in prigione dal 12 settembre 2018, con l’accusa di far parte del Fronte dell’Esercito di liberazione popolare rivoluzionario, il Dhkp, riconosciuto come organizzazione terroristica dalla Turchia, dagli Stati Uniti e dall’Ue. È stato accusato di “aver comunicato i messaggi dell’organizzazione ai membri catturati e di agire come corriere” e condannato a 10 anni e sei mesi da un tribunale di Istanbul il 20 marzo 2017. Il caso si basava sulla testimonianza di un testimone anonimo che è stato utilizzato dall’accusa in diversi casi, senza possibilità di contraddittorio. Il Peoplès Law Office, in una nota, ha dichiarato che il corpo dell’avvocato turco era pieno lividi e segni delle percosse, denunciando inoltre che non gli sono state fornite le medicine necessarie. L’arresto, hanno aggiunto, è completamente contrario alla decisione della Corte Suprema, in quanto non si è ancora ripreso dallo sciopero della fame. “L’arresto di Aytaç Ünsal è illegale, poiché le cure continuano”, hanno sottolineato. Inoltre non ci sarebbe stato alcun ordine da parte del Tribunale. Il governo turco è stato accusato di intimidazioni agli avvocati che rappresentano clienti associati a gruppi dissidenti. A settembre, i relatori dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa hanno espresso preoccupazione per la situazione degli avvocati in Turchia dopo quella che hanno definito “una serie di sviluppi preoccupanti”. “Gli avvocati non dovrebbero essere criminalizzati per aver esercitato la loro professione o condannati con accuse dubbie”, hanno detto Alexandra Louis, relatrice generale dell’Assemblea, e Thomas Hammarberg e John Howell, i due co- relatori per il monitoraggio della Turchia. In un rapporto del 2018, l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha evidenziato “un modello di persecuzione degli avvocati che rappresentano individui accusati di reati di terrorismo, essendo associati alla causa dei loro clienti (o presunta causa) durante lo svolgimento delle loro funzioni e conseguentemente perseguiti per lo stesso reato o per il correlato attribuito al proprio cliente”. Iran. I misteri dietro l’arresto di Zam, il giornalista giustiziato dal regime di Guido Olimpio Coriere della Sera, 14 dicembre 2020 L’oppositore era in esilio a Parigi: cosa lo ha portato in Iraq, dove è stato preso? Forse un tentativo di “barattarlo” con due francesi. O una donna con una promessa ingannevole. Il dramma di Ruhollah Zam, giustiziato dal regime iraniano, ha avuto contorni piuttosto misteriosi. In particolare su come sia stato arrestato. L’oppositore viveva in Francia con la moglie, sapeva dei pericoli eppure è partito per l’Iraq, dove è stato rapito dai servizi e trasferito poi in Iran. Una ricostruzione sostiene che sarebbe stato convinto a compiere il viaggio da una donna, una persona che conosceva da circa due anni. L’11 ottobre 2019 arriva ad Amman in Giordania e qui è lei a dirle che è necessario spostarsi a Bagdad, uno spostamento in vista di un incontro importante. È sempre la donna a raccontargli che l’ayatollah Sistani, figura carismatica del mondo sciita e spesso in contrasto con i mullah di Teheran, è pronto a riceverlo. Forse è disposto a finanziare il movimento di Zam. E così il dissidente accetta, ma finirà nell’imboscata tesa da un’unità speciale dei pasdaran. L’entourage di Sistani ha smentito questa tesi, così come le autorità curde di Erbil, che - secondo alcune informazioni apparse sui media - sarebbe stata usata come base d’appoggio dal commando di sequestratori. Un’altra ipotesi ha suggerito, all’epoca, un tentativo di baratto. L’esule sarebbe stato venduto dai francesi nella speranza di ottenere il rilascio di due accademici detenuti in una prigione dell’Iran. Ma lo scambio non è poi avvenuto e questa versione è finita nella “nebbia” che nasconde la verità. Nessuno può dire quanto sia fondata, magari è un depistaggio oppure no. Gli apparati di sicurezza khomeinisti esulteranno per il successo. In un comunicato parleranno di una “trappola” ben organizzata, “professionale ed elaborata”, condotta con “metodi moderni e tattiche astute”. Zam non è certo il primo attivista ad essere rimasto vittima di operazioni condotte all’estero dai guardiani della rivoluzione.