Carceri, la battaglia del Pd al Senato si scontra col muro di M5S e opposizione di Liana Milella La Repubblica, 13 dicembre 2020 Nella notte, a Palazzo Madama, si chiude la maratona delle commissioni Bilancio e Finanze sui decreti Ristori che contengono anche le nuove regole per alleggerire il peso dei detenuti nelle prigioni. Il dem Mirabelli ottiene che vada fuori fino al 31 gennaio chi ha già permessi premio e lavoro esterno. A Milano e Santa Maria Capua Vetere muoiono per il virus due agenti penitenziari. Il passo avanti c’è. Ma purtroppo è sempre troppo poco per un carcere che scoppia. Quello per cui Roberto Saviano aveva fatto un appello su Repubblica rivolto al Parlamento. Che però non ottiene risultati. L’insistenza e le pressioni del Pd si scontrano ancora, come in primavera, con il niet di M5S e, ovviamente, di tutta l’opposizione. Nella notte, al Senato, si chiude la maratona delle commissioni Bilancio e Finanze sui decreti Ristori che contengono anche le nuove regole per alleggerire il peso dei detenuti nelle 192 prigioni italiane. Il bottino è quello che è, potranno uscire dal carcere fino al 31 gennaio (e non fino al 31 dicembre) sia i detenuti che già hanno un permesso per il lavoro esterno, sia quelli che godono di un permesso premio. Rispetto al testo originario del decreto del Guardasigilli Alfonso Bonafede si fa un passo avanti, nel senso che non è necessario avere entrambe le misure per poter uscire, ma ne basta anche una sola delle due. Sempre fino al 31 gennaio viene prorogata la norma - che già era contenuta nei decreti della scorsa primavera - per cui chi deve scontare ancora una pena compresa nei 18 mesi può ottenere gli arresti domiciliari. Ma oltre i sei mesi c’è l’obbligo del braccialetto elettronico. Il vice capogruppo dei Dem al Senato Franco Mirabelli, autore degli emendamenti del Pd assieme a Leu, dice subito che “la battaglia per un carcere più umano non si ferma qui, noi andremo avanti”. Ma considera comunque il risultato ottenuto “un passo avanti sulla scorta delle tante segnalazioni ricevute dagli operatori, dalle associazioni che si battono per una detenzione giusta, dal Garante nazionale dei detenuti”. Mirabelli dice ancora che “il Pd è convinto che si deve e si debba fare di più, sia sul blocco dell’esecuzione delle condanne passate in giudicato, sia sulla liberazione anticipata”. Mirabelli valuta che la sola misura che concede la libertà a chi è in permesso premio o a chi può lavorare all’esterno consente di far stare a casa 1.300 persone. La tabella di marcia dei lavori parlamentari prevede un voto già in settimana, probabilmente mercoledì, perché i provvedimenti scadono tra il 21 e il 22 dicembre. Poi il testo andrà alla Camera dove, per evitare la decadenza delle norme, sarà posto un voto di fiducia. Quindi, almeno nell’ambito di questi decreti Ristori, la battaglia per ottenere misure più ampie di scarcerazioni finisce qui. La reazione del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma è fredda: “Si tratta di misure insoddisfacenti”. Sicuramente saranno delusi i tre opinionisti - Saviano su Repubblica, Luigi Manconi sulla Stampa, Sandro Veronesi sul Corriere - che il 28 novembre avevano annunciato il loro sciopero della fame per 48 ore in segno di solidarietà con quello che da un mese sta facendo la Radicale Rita Bernardini che punta, in prima battuta, a un’ampia misura di clemenza. Ma poiché è noto che amnistia e indulto sono politicamente inaccessibili, l’alternativa è quella di incassare tre misure, la cosiddetta “liberazione anticipata, cioè un bonus di 75 giorni, anziché gli attuali 45, ogni sei mesi di pena scontata nel segno del recupero e della collaborazione. Inoltre lo stop all’esecuzione delle sentenze passate ingiudicato. E infine il passaggio da 18 a 24 mesi del tetto per ottenere i benefici. Misure su cui c’è il dichiarato impegno del Dem Mirabelli: “Ci saranno altri decreti Ristori e noi andremo avanti con le nostre richieste per un carcere più umano”. Un carcere da cui, anche oggi, arrivano cattive notizie sul Covid. Innanzitutto sono morti due agenti di polizia penitenziaria, uno a Milano e uno a Santa Maria Capua Vetere. C’è una brutta situazione a Bologna dove si registrano 61 detenuti asintomatici, di cui 3 già in ospedale. Da lì arriva questa testimonianza: “Viviamo una situazione sempre più difficile, stiamo facendo screening a tappeto, ci sono diversi positivi scoperti a seguiti di tamponi rapidi, i numeri crescono, servono provvedimenti politici urgenti, qui siamo tutti preoccupati”. Complessivamente però la situazione dei contagi segna un calo. Ecco i dati a oggi. Su 53.266 detenuti presenti, quelli positivi al Covid sono 996, in 93 dei 192 istituti penitenziari, mentre due giorni fa erano 1.049 di cui 90 sintomatici. Cala anche il numero tra il personale, oggi sono 851 quelli positivi al virus, mentre il picco si era registrato il 30 novembre con 989 malati. Rita Bernardini: “Detenuti positivi al Covid triplicati, dati Bonafede non veri” adnkronos.com, 13 dicembre 2020 “Sono al 32mo giorno di sciopero della fame e ho perso 9,4 chili”. Lo ha detto all’Adnkronos Rita Bernardini, storica leader dei Radicali, da un mese in sciopero della fame contro il sovraffollamento nelle carceri, reso ancora più drammatico dall’emergenza Covid. “A metà dello sciopero ho avuto un colpo della strega e una infezione in bocca. Diciamo che tutto sommato sto abbastanza bene”. “Ieri sono andata al Quirinale, insieme alla tesoriera del partito dei Radicali Irene Testa, per consegnare una lettera al presidente Mattarella che fa il punto sulla situazione nelle carceri. Rispetto alla prima fase della pandemia i positivi, sia tra gli agenti penitenziaria sia tra i detenuti, sono triplicati. I dati diffusi dal ministro Bonafede su un sovraffollamento al 105,5% non sono veritieri. Analizzando le schede trasparenza dei 189 istituti penitenziari si scopre che il sovraffollamento è al 115%, 4mila posti sono inagibili quindi i posti disponibili non sono 50mila ma 46mila”. In questi 32 giorni, sottolinea Bernardini, “non ho avuto riscontri istituzionali, né dal presidente del Consiglio né dal ministro Bonafede mentre molta solidarietà e condivisione mi è arrivata da personalità quali Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Roberto Saviano, 202 accademici e professori di diritto penale e 3600 detenuti dalle carceri e 650 cittadini liberi, tra cui molti parenti di detenuti, soprattutto mogli, e avvocati”. Tre cappuccini al giorno e tanta acqua, Bernardini ci tiene a precisare che la sua non è “una forma di protesta ma una lotta non violenta di proposta, di dialogo istituzionale per rappresentare una realtà come quella carceraria che conosco profondamente. Nella mia vita ho incontrato decine di migliaia di detenuti”. L’obiettivo è “un provvedimento serio di amnistia e indulto. Bisogna ridurre la popolazione detenuta e la mole di procedimenti giudiziari. Ci vorrebbe un atto di responsabilità da parte della politica”. Tre le richieste più significative: la liberazione anticipata speciale, passare dai previsti attuali 45 giorni a 75 per tutti quei detenuti che abbiano dimostrato, attraverso la buona condotta intramuraria, di avere intrapreso e di seguire un percorso trattamentale concretamente orientato al reinserimento in società; per tutta la durata dell’emergenza, blocco dell’esecutività delle sentenze passate in giudicato a meno che la Procura valuti che “il condannato possa mettere in pericolo la vita o l’incolumità delle persone” (proposta Procuratore Salvi) e allargare la platea dei beneficiari della detenzione domiciliare speciale prevista nel decreto Ristori a coloro che devono espiare una pena, anche se costituente parte residua di maggior pena, non superiore a 24 mesi, senza esclusioni derivanti dal titolo di reato. “E’ una realtà strana quella delle 189 carceri, sembra non ottimizzata, un certo numero sono quasi semivuote con meno detenuti dei posti disponibili ma almeno 115 sono sovraffollate - aggiunge Bernardini - A Taranto su 100 posti ci sono 193 detenuti, a Lauro dove le donne stanno con i loro bambini su 27 posti ci sono 7 donne, a Sciacca su 72 posti ci sono 45 detenuti, a Regina Coeli, un carcere vecchissimo, su 606 posti disponibili abbiamo 964 detenuti. Con il Covid poi bisogna ricavare ulteriori spazi per l’isolamento e tutto questo viene fatto a discapito dell’aumento del sovraffollamento nelle celle”. Covid in carcere: morti 4 agenti e otto detenuti ottopagine.it, 13 dicembre 2020 L’allarme dei sindacati della Polizia penitenziaria. Un altro poliziotto morto per il Coronavirus riaccende la preoccupazione sul contagio nelle carceri. Con i Verdi che si uniscono allo sciopero della fame di Rita Bernardini, in corso da 32 giorni, e a cui a staffetta hanno aderito 3mila persone, per chiedere misure urgenti per ridurre il sovraffollamento. E’ l’allarme che arriva da alcuni Garanti dei detenuti, a partire da quello di Bologna per i numeri in salita dei positivi tra i ristretti del carcere della Dozza. L’assistente capo deceduto per il Covid aveva 57 anni, era sposato con tre figli e aveva contratto il virus durante il servizio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Da un mese era ricoverato nell’ospedale di Maddaloni, in provincia di Caserta. Con la sua salgono a quattro dall’inizio della pandemia le morti tra i poliziotti penitenziari per il Coronavirus. Morti che si sommano a quelle dei detenuti, 8 dal principio dell’emergenza, quasi tutti gia’ affetti da gravi patologie. Un triste elenco a cui va aggiunto anche il responsabile sanitario del carcere di Secondigliano, Raffaele De Iasio, come riferisce il Sappe, il principale sindacato della polizia penitenziaria, che ora solleva la polemica. Se fossero state ascoltate le nostre grida di allarme “sin dal gennaio scorso” si sarebbe potuto fronteggiare l’emergenza con i “necessari dispositivi di protezione: caschi, visiere, guanti e mascherine”, sostengono il segretario generale Donato Capece e quello campano Emilio Fattorello, lamentando che tuttora in alcune regioni non siano stati fatti i test rapidi al personale della polizia penitenziaria. “Non si possono attribuire responsabilità ad alcuno” per questa ed altre morti, osserva invece la Uilpa polizia penitenziari, che con il suo segretario generale Gennarino De Fazio denuncia invece “un’assurda e ripugnante stortura”: il mancato riconoscimento dell’infortunio sul lavoro agli appartenenti alla Polizia penitenziaria che contraggono il Covid-19 durante ii servizio. Paradossalmente la morte dell’assistente capo e’ sopraggiunta mentre sta calando il contagio nelle carceri tra il personale. Secondo gli ultimi dati del Dap comunicati ai sindacati sono 851 gli operatori positivi in tutta Italia, di cui 780 addetti al comparto sicurezza, e in gran parte sono asintomatici. Un dato in costante diminuzione nelle ultime settimane, dal picco raggiunto il 25 novembre scorso di 1.042 contagi. La Regione con il maggior numero di operatori positivi (138, quasi tutti asintomatici) e’ la Campania e se il carcere di Secondigliano e’ al primo posto con 47 (ci cui 42 asintomatici), al secondo c’e’ Santa Maria Capua Vetere con 30 (uno solo con sintomi). Prima per contagi tra i detenuti e’ invece la Lombardia: sono 350, di cui 333 asintomatici e 13 ricoverati in ospedale. Il penitenziario lombardo con piu’ contagiati e’ Bollate (104, di cui 93 asintomatici e 2 ricoverati), seguito da Opera (70, 9 in ospedale e 57 asintomatici). Fuori dalla regione i focolai principali sono in Abruzzo a Sulmona (83 i positivi, di cui 9 in ospedale e 73 asintomatici), in Friuli Venezia Giulia a Trieste (79 dei quali 73 senza sintomi) e Tolmezzo (54: 50 asintomatici e 3 in ospedale), in Emilia Romagna a Bologna (65, con 61 asintomatici e 3 ricoverati. Bonafede manda a casa altri 5.000 detenuti di Fabio Amendolara La Verità, 13 dicembre 2020 In arrivo un secondo svuota-carceri infilato nel dl Ristori. Esteso fino al 31 gennaio il permesso premio per i condannati con pena residua massima di 18 mesi. Il nuovo svuota-carceri temporaneo pensato dal governo giallorosso per contrastare l’emergenza Covid estende fino al 31 gennaio il permesso premio per i detenuti con una pena residua massima di 18 mesi. Si tratta, stando alle stime del ministero della Giustizia, di 3.00o detenuti a fine pena e di 2.000 che già escono dal carcere (per rientrarvi la sera) in quanto hanno ottenuto misure di semilibertà. I primi andranno agli arresti domiciliari. Gli altri verranno controllati con il sistema del braccialetto elettronico. Il provvedimento è contenuto nel decreto legge Ristori ed è appena stato modificato dalle commissioni Bilancio e Finanze che hanno recepito tre emendamenti giallorossi, tra i quali proprio quello che posticipa dal 3o dicembre al 31 gennaio la scadenza del nuovo svuota-carceri. Franco Mirabelli, vicepresidente dei senatori del Partito democratico e capogruppo dem in commissione Giustizia a Palazzo Madama, esulta. Ma con le stime si mantiene basso: “Per 1.300 persone si apre la possibilità di non tornare a dormire in carcere. È un risultato certamente inferiore a quello che volevamo ottenere, ma senza dubbio questi emendamenti sono migliorativi”. Il rischio che si scenda anche al di sotto delle cifre ipotizzate è concreto: si pensi che al 15 ottobre 2020 i detenuti che scontavano la pena in regime di semilibertà erano appena 760, ovvero soltanto il 2,7 per cento del numero complessivo degli ammessi a una misura alternativa alla detenzione. Non sono passate, per lo sbarramento dell’opposizione ma anche per qualche dissidente nella maggioranza, invece, le proposte sul rinvio dell’esecuzione delle condanne passate in giudicato (presentato come un modo per diminuire i nuovi ingressi) e l’aumento di 30 giorni, ogni sei mesi, dello sconto di pena per la buona condotta. Questa volta i giallorossi non hanno dimenticato di inserire dei reati “ostativi”: e, così, non potranno usufruire del permesso premio allungato i detenuti per terrorismo, per reati da codice rosso (stalking e violenza contro le donne) e per mafia (durante la prima ondata Covid erano tornati a casa boss mafiosi, trafficanti di droga e killer spietati). Il provvedimento, però, viene percepito come inutile da chi nel carcere ci lavora. Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato più rappresentativo della polizia penitenziaria, per esempio, ritiene che sia “un grave e colpevole errore strumentalizzare la pandemia per creare l’ennesimo svuota-carceri senza introdurre vere riforme strutturali per l’esecuzione della pena”. Insomma è l’ennesimo flop. “Se fossero stati ascoltati i nostri campanelli di allarme suonati a inizio pandemia”, sostiene Capece, probabilmente avremmo potuto fronteggiare l’emergenza con i quantitativi necessari di dispositivi di protezione, ovvero caschi, visiere, guanti e mascherine. Sempre allora chiedemmo al ministro Bonafede di non ritardare gli accertamenti sul personale della polizia penitenziaria con test ematici e tamponi rapidi. Si pensi che in alcune Regioni non sono ancora stati fatti”. Una ricetta alternativa per contrastare i contagi il Sappe l’aveva anche già fornita: “Si potevano riconvertire gli istituti penitenziari chiusi per un basso numero di detenuti presenti (ad esempio, Savona) in strutture per la gestione dei detenuti positivi al Covid”. Stando ai dati forniti dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, i contagiati, oltretutto, non sono neanche tantissimi: si tratta di 996 detenuti, dei quali il 92 per cento (913) è asintomatico. Gli operatori e gli agenti della polizia penitenziaria contagiati, invece, sono 850. Un dato in costante diminuzione nelle ultime settimane, rispetto al picco raggiunto il 25 novembre scorso di 1.042 positivi. Per addolcire la pillola è passato in commissione pure l’emendamento che mette a disposizione 3,6 milioni di euro per pagare gli straordinari (per il periodo che va dal 16 ottobre al 31 dicembre) agli agenti della penitenziaria. “Uno sforzo straordinario da parte del governo”, lo definiscono le pentastellate Stella Grazia D’Angelo e Bruna Piarulli. Dimenticano, però, che si tratta dello stesso governo che, come sottolinea il segretario generale della Uil-Pa Gennarino De Fazio, nega agli appartenenti alla polizia penitenziaria il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro per chi contrae il Covid durante il servizio. Le situazioni più difficili da gestire (ma non estreme) sono in Campania: nel carcere di Secondigliano si registrano 47 contagiati e a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, dove era in servizio un assistente capo morto ieri per coronavirus (il quarto agente dall’inizio della pandemia), i contagiati sono 30. Anche per Rita Bernardini, indomita leader dei Radicali, la misura contenuta nel Ristori lascia il tempo che trova. È al trentaduesimo giorno di sciopero della fame per denunciare il sovraffollamento carcerario (ma in realtà l’obiettivo è un provvedimento di amnistia e indulto). E dà del bugiardo ad Alfonso Bonafede: “I dati diffusi dal ministro su un sovraffollamento al 105,5 per cento non sono veritieri. Analizzando le schede trasparenza dei 189 istituti penitenziari si scopre che il sovraffollamento è al 115 per cento, 4.000 posti sono inagibili quindi i posti disponibili non sono 50.000 ma 46.000”. Probabilmente Bonafede aveva calcolato di mandare fuori con il nuovo svuota-carceri proprio i detenuti in eccedenza. “Il populismo uccide la Costituzione e i giovani in cella ne fanno le spese” di Viviana Lanza Il Riformista, 13 dicembre 2020 Parla Giuseppe Centomani: “Le carceri, quali che siano, sono contesti pericolosi per i processi di costruzione identitaria degli adolescenti. L’esperienza della prisonizzazione è una delle poche che sovrasta la capacità di resilienza dei ragazzi e può segnare in maniera indelebile l’immagine personale”. Giuseppe Centomani, dirigente del Centro di giustizia minorile di Campania, Toscana e Umbria, centra una delle questioni cruciali nel dibattito su giustizia minorile, recupero dei giovani a rischio e prevenzione della devianza minorile. I dati contenuti nei Quaderni di ricerca, il report sullo stato delle carceri campane realizzato dall’ufficio del garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello e dall’Osservatorio regionale sulla detenzione, tratteggiano una realtà in cui si contano 977 ragazzi presi in carico dall’Ufficio di servizio sociale, 61 reclusi tra gli istituti di Nisida e Airola e 88 che frequentano i centri polifunzionali diurni di Nisida e Santa Maria Capua Vetere. Se per gli adulti il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio, per i minori lo è ancora di più. “Qui - spiega Centomani - non si tratta di inventare niente perché la nostra Costituzione e l’ordinamento penitenziario già prevedono”. L’ottica è quella di una giustizia riparativa. “È una giustizia dove ci si rende conto che il problema non è solo punire il reo, ma comporre il conflitto che si è creato fra il reo e le vittime del reato, quindi una giustizia che ha come obiettivo la ricomposizione del conflitto e la riqualificazione del rapporto tra reo, vittima e comunità che li comprende entrambi. Dunque - aggiunge Centomani - gli strumenti per mettere in atto una politica giudiziaria e una risposta penale ai reati esistono tutti, ma c’è il problema che l’organizzazione della giustizia, che comprende i dipartimenti di tribunali e magistrati, l’amministrazione penitenziaria, per gli adulti, e il dipartimento di giustizia minorile e di comunità, per i minorenni, non si possono permettere di realizzare quello che Costituzione e nuove normative prevedono e permetterebbero, perché siamo in una fase della storia italiana dove da anni si cavalca in maniera demagogica tutta la cultura securitaria, la cultura della reazione per difendersi, e questo frena una politica di decarcerizzazione, mitigazione delle pene e riqualificazione dell’intervento giuridico penale sulla questione della delinquenza”. Eppure i numeri dimostrano che meno carcere equivale a meno recidiva, che vuol dire meno reiterazione dei reati, meno delinquenza e più sicurezza. Nel caso dei minori, inoltre, il fenomeno è ancora più complesso ma è bene sottolineare che se un ragazzo, che è nell’ambito della naturale fase adolescenziale in cui ha un’idea di sé piuttosto vaga e che può cambiare man mano che incontra persone e fa esperienze diverse, viene a contatto con una risposta del contesto sociale stigmatizzante ed etichettante come può essere l’esperienza detentiva, rischia di identificarsi in quell’esperienza. “Questo - spiega il dirigente del Centro di giustizia minorile della Campania - significa che il carcere va evitato perché anche il carcere più attento, strutturato, organizzato e gestito per il trattamento educativo ha dinamiche interne che non evitano processi di prisonizzazione, cioè di assunzione dell’identità delinquenziale che si ha in tutte le carceri del mondo”. Non a caso quello minorile è il primo ambito nel quale è stato introdotto l’istituto della messa alla prova. “E ha funzionato bene - sottolinea Centomani - tanto che, mentre la recidiva nel mondo minorile si aggira tra il 20 e il 30% specialmente per i ragazzi che fanno periodi in carcere, la recidiva tra i ragazzi messi alla prova è attorno al 12-13%: una differenza importante di efficacia della misura rispetto al carcere minorile. Vale anche per il mondo degli adulti dove la recidiva fra chi sconta la pena in carcere è dell’80% mentre dove c’è un’impostazione di tipo trattamentale, invece che semplicemente reclusiva, la percentuale scende al di sotto del 50%”. La Cassazione sfida il Covid, giudici in massa per eleggere un collega alla Consulta di Liana Milella La Repubblica, 13 dicembre 2020 La singolare coincidenza con la convocazione, giusto martedì 15, per l’avvio del processo telematico. Queste presenze potrebbero danneggiare il penalista favorito, Giorgio Fidelbo, e favorire i tre candidati civilisti Amendola, Sangiorgio e Salvato. Incombe il virus. Ma i giudici della Cassazione perdono l’occasione del voto online per scegliere tra di loro la toga da mandare alla Consulta. E come non bastasse i vertici della Suprema corte convocano tutti i colleghi civilisti proprio per il 15 dicembre, in contemporanea con le giornate del voto, per dare il via al processo telematico. Occasione ghiotta, i supremi giudici civili si pigliano il token, ma votano anche, magari privilegiando i colleghi civilisti ai danni dell’unico candidato penalista. Ovviamente votano anche i giudici del penale in un grande happening a dispetto del Covid. La storia che stiamo per raccontarvi fa parte del capitolo “i paradossi della giustizia al tempo del Coronavirus”. Quando il fantasma della pandemia, ormai da mesi, ossessiona anche le toghe che si battono per fare i processi da remoto, tutti collegati in video, anche gli imputati. Mentre gli avvocati, per tutta risposta, fanno i pazzi e vogliono stare in aula. Ma dove si annida, stavolta, il clamoroso paradosso? Ecco qua la storia. Accade in Cassazione. Sì, proprio nella culla del diritto, l’ultimo gradino dei processi prima della sentenza definitiva. Succede nel palazzo in pieno stile umbertino dove lavorano i giudici più anziani in carriera, e quindi c’è da presupporre anche i più autorevoli. Tant’è che, proprio tra di loro, vengono scelti ben tre dei 15 giudici che entrano a far parte del parterre della Corte costituzionale. E adesso, dopo la scadenza del mandato di Mario Rosario Morelli, per tre mesi presidente della Corte, la stessa Corte deve scegliere un successore. Che andrà ad aggiungersi agli altri due cassazionisti, Giovanni Amoroso, eletto nel 2017, e Stefano Petitti un anno fa. Ovviamente parliamo di una scadenza senza sorprese, nota da sempre, perché ogni giudici costituzionale dura in carica nove anni e quindi si sa quando tornerà a casa nel momento stesso in cui viene eletto dal Parlamento, scelto dal presidente della Repubblica, oppure votato dai colleghi della Cassazione, del Consiglio di Stato, della Corte dei conti. Ed è noto anche che c’è il Covid. Tant’è che l’Anm ha fissato con cinque mesi di anticipo il voto online per oltre 9mila magistrati. Ma la Cassazione, che ne deve portare al voto oltre 300, non lo ha fatto. Che succede allora tra martedì 15 e mercoledì 16? Toghe che superano quasi tutte i 60 anni di età sfideranno il Covid e andranno a piazza Cavour. Perché due giorni dopo, a palazzo della Consulta, i 15 giudici al completo dovranno votare per il nuovo presidente. C’è giusto il tempo, per il nuovo giudice eletto, di salire al Quirinale. Ma è proprio qui che Repubblica vi racconta la curiosa novità. Quello che abbiamo battezzato “il paradosso”. Giusto martedì 16 verso la Cassazione ci sarà un afflusso straordinario di giudici civili. Mai visto prima, perché proprio le sentenze civili nella stragrande maggioranza dei casi si svolgono da remoto e con modalità cartolari, quindi è raro di questi tempi che proprio questa categoria di giudici frequenti piazza Cavour. Invece saranno costretti a esserci proprio martedì 15 e mercoledì 16 quando, nell’aula Berni Canani, sita al piano terra del palazzaccio, si svolgeranno le procedure per la consegna del token crittografico per il processo civile telematico nonché le procedure di registrazione, come recita una mail inviata a tutti, che singolarmente produce un elenco a partire dal nome di battesimo anziché, come sarebbe più logico, dal cognome. Segno, evidentemente, di una decisione assunta in tutta fretta dal procuratore generale della Cassazione Pietro Curzio. Che succederà dunque martedì? È ovvio che i giudici civili convocati in massa proprio quel giorno sfrutteranno l’occasione anche per andare a votare uno dei quattro colleghi che corrono per la Corte costituzionale. Tra i quali c’è un solo penalista - Giorgio Fidelbo, considerato un fine giurista, vice capo del Massimario della Cassazione, autore anche della sentenza su Mafia capitale - considerato dai più il favorito per la Consulta proprio per il suo background giuridico. Ma ci sono anche i tre civilisti, l’avvocato generale Luigi Salvato, nella task force del procuratore generale Giovanni Salvi che ha condotto le indagini disciplinari sui colleghi coinvolti nel caso Palamara, e le colleghe Adelaide Amendola e Maria Rosaria Sangiorgio, quest’ultima al Csm per Unicost nella consiliatura 2014-2018, quando il capogruppo era proprio Luca Palamara. Basta avere un po’ di esperienza di come funzionano le elezioni per la Consulta in Cassazione per sapere che i giudici del settore penale tendono a votare per un loro collega e i civilisti fanno altrettanto. È vero altresì che i penalisti, costretti ad udienze in presenza, frequentano di più il palazzo. Ma nel nostro caso siamo di fronte a una vera e propria convocazione nominativa di tutti i civilisti che, dovendo prendere il token, ma anche votare, faranno tutto martedì 15. Quando, in barba alle paure per il Covid, la Cassazione di solito deserta improvvisamente si ripopolerà. A questo punto una domanda sorge spontanea: perché non ci si è organizzati per votare online? Ad esempio con la società Eligo cui si rivolge l’Anm che pure “abita” al sesto piano del medesimo palazzo e che con quella società sabato 5 dicembre ha eletto il neo presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, anche lui giudice della Cassazione? Sarebbe stato facile, ma ovviamente avrebbe dovuto esserci una legge, quantomeno un decreto legge, a stabilirlo e quindi a consentire la scelta. E i contenitori giuridici per farlo c’erano, da ultimo i due decreti legge Ristori che già contengono capitoli ad hoc sulla giustizia al tempo del Covid. Forse non ci si è pensato in tempo. Oppure non ci si è pensato proprio. Anche se corre l’indiscrezione che un estremo tentativo per pubblicizzare i nomi dei candidati, ad esempio sulla home della Cassazione, si sia infranto sulla inevitabile constatazione che, al di là dei candidati, tutti possono votare per tutti, anche per i giudici ormai in pensione. Anm: “Il governo riconosca tutele a giudici onorari” Il Giorno, 13 dicembre 2020 L’Associazione nazionale magistrati lamenta un contesto di incertezza di tutele e di precarietà sul piano previdenziale e retributivo. Flash mob dei magistrati onorari del distretto toscano oggi davanti al palazzo di giustizia di Firenze per esprimere solidarietà ai colleghi in sciopero della fame e per protestare contro le inique condizioni economiche e ordinamentali della categoria. I magistrati onorari, spiega una nota, hanno scelto le rose rosse come simbolo di questa protesta, ispirandosi allo “sciopero del pane e delle rose” tenutosi a Lawrence (Kansas) nel 1912, quando i lavoratori di un’industria tessile, dopo la riduzione del salario e il peggioramento delle loro condizioni lavorative, avviarono una forma di protesta per chiedere maggiori diritti. Le toghe vogliono manifestare “tutto il loro disagio per la situazione in cui sono costretti a lavorare e che è divenuta oltremodo intollerabile a causa della pandemia da Covid. Molti colleghi in questi mesi si sono ammalati anche a causa delle funzioni svolte, alcuni purtroppo ci hanno lasciati, a nessuno di loro è stata riconosciuta una seria e congrua indennità economica per tutto il periodo di malattia che è durato molte settimane”. In una nota la giunta Anm Toscana, presieduta da Christine von Borries, “esprime solidarietà allo stato di agitazione della magistratura onoraria. I magistrati onorari, i vice procuratori onorari oltre che i giudici di pace lavorano quotidianamente accanto a noi magistrati fornendo un contributo essenziale al funzionamento della giustizia. Altrettanto essenziale è quindi che a tali lavoratori vengano riconosciuti i diritti fondamentali da loro richiesti”. “Urla contro noi giudici quando assolviamo? Siamo forti, resisteremo” di Errico Novi Il Dubbio, 13 dicembre 2020 Intervista al nuovo presidente dell’Ann, Giuseppe Santalucia: “Siamo nella società dominata dai media, la spettacolarizzazione dell’evento giudiziario. Ma noi magistrati siamo forti dello spessore culturale di ciò che produciamo”. Non sarà un cliente facile. Giuseppe Santalucia, neoeletto presidente dell’Anm, è un magistrato che conosce le istituzioni ma anche la puntualità delle parole. “C’è una richiesta di acquisizione degli atti da parte del ministro sulla sentenza di Brescia, sull’uxoricida assolto per infermità mentale? Se il ministro vuole approfondire lo faccia. Poi c’è una sfera di insindacabilità del giudice che involge persino gli errori, e peraltro non c’è motivo di ritenere, in quel caso, che di errore si possa parlare. Ma noi magistrati non ci lasciamo turbare. Andiamo avanti fiduciosi nella qualità intellettuale del nostro lavoro”. Ecco, è solo un esempio. Ma Santalucia, consigliere della prima sezione penale della Cassazione, non sarà un presidente dell’Anm che invocherà indignato violazioni dei principi a ogni riforma iperbolica. Dirà quanto va detto. E magari porterà il cosiddetto “sindacato dei giudici” a posizioni anche dure. Ma senza stare troppo ad annunciarle prima. Presidente Santalucia, ripartiamo dalla sua elezione, dopo un mese e mezzo tormentato: vi siete guardati negli occhi, tra le correnti, e vi siete detti che è un momento troppo difficile per coltivare rancori? Non parlerei di rancori, ma di differenze, di vedute distanti, anche su quanto avvenuto nell’ultimo anno e mezzo. Si è convenuto di ricomporle in una direzione il più possibile unitaria. Non del tutto unitaria, visto che una componente, Articolo 101 è rimasta fuori dalla giunta. E già che lei riconosca il vulnus è un atto di realismo... Pero è giusto ricordare che nel programma si è deliberatamente voluta acquisire una loro precisa richiesta, la valutazione del sorteggio nel sistema di elezione dei togati al Csm. Al più presto, entro i primi dell’anno, istituiremo una commissione di studio sul sistema elettorale e certamente si approfondirà anche l’ipotesi del sorteggio. Dopodiché si deve scegliere, fare sintesi, com’è ovvio, sulla base dei necessari approfondimenti all’esito dei quali, magari, anche i fautori del sorteggio potrebbero rivedere qualche loro radicata convinzione. Se restano le sanzioni ai giudici che sforano i tempi, l’Anm può arrivare allo sciopero? Ancora non le so rispondere. Ma ho chiaro cosa siano le sanzioni come rimedio alle situazioni complesse: una via inefficace. Mi spiego: da capo del Legislativo al ministero della Giustizia mi sono impegnato per allontanare il più possibile i rischi di una medicina difensiva, che sarebbe stata conseguenza di norme troppo punitive. Alla stessa maniera giudici e pm troverebbero il modo di mettersi al riparo dalle sanzioni attraverso un approccio burocratico. La giustizia difensiva? Sì, la conseguenza sarebbe analoga a quanto poteva avvenire in campo sanitario. In ogni caso io non rifiuto alcuna ipotesi a priori. Credo solo che il nostro sistema sia incompatibile con le sanzioni legate ai tempi. Abbiamo norme, garanzie e contrappesi tali da impedire al giudice l’effettivo e costante controllo del gioco, come forse si vede nei film sulla giustizia americana. Ci sono facoltà attribuite alle parti che possono sottrarre del tutto al giudice la gestione dei tempi di un processo. Quindi sanzionare un magistrato per il mancato rispetto delle scadenze è semplicemente una previsione fuori sistema. Urla a ogni sentenza meno dura di quanto atteso dall’opinione pubblica. Linciaggio dei gip che negano misure cautelari. Come se ne esce? Intanto siamo nella società dominata dai media, immersi in un contesto che assegna all’informazione un ruolo enorme, mai visto in passato. C’è la spettacolarizzazione dell’evento, anche di quello giudiziario, e i giornali, per esempio, la assecondano in virtù della logica di mercato. Ciò detto, noi magistrati siamo forti dello spessore culturale di ciò che produciamo. Dobbiamo affidarci alla nostra coscienza e un po’ infischiarcene delle urla. La cosa vi accomuna agli avvocati minacciati di morte se difendono chi è accusato dei reati più odiosi... Situazioni assurde, ma tutti gli attori del processo, magistrati e avvocati, sanno certamente essere più forti delle intimidazioni. Grazie alla consapevolezza del ruolo. Facciamo un mestiere appassionante e difficile, a volte molto difficile. Il ministro Bonafede acquisirà gli atti del processo di Brescia in cui un uxoricida 80enne è stato assolto per infermità: rischia di diventare una dissuasione per i magistrati che si trovassero a giudicare casi simili in futuro? Guardi, il ministro della Giustizia è titolare dell’azione disciplinare. Può decidere di acquisire gli atti. Quando si prospettano ispezioni, può darsi che si generi ansia. Ma sa, se il ministro vuole approfondire lo faccia pure. Credo di poter fare affidamento sui limiti, anche costituzionali, dell’azione disciplinare più che essere preoccupato per l’acquisizione di informazioni. Anche perché quei limiti implicano l’insindacabilità persino degli errori, se si è nello spazio di autonomia valutativa del giudice. Anche in questi casi, insomma, non ci si lascia troppo turbare, giusto? Siamo forti della consapevolezza del ruolo: le critiche sono inevitabili, i controlli pure. La sola cosa da cui ci guardiamo sono le azioni avventurose, e ovviamente non è questo il caso. A proposito: la cosiddetta degenerazione del Csm a nominificio dipende anche dalla caduta di tensione morale seguita alla fine del berlusconismo? Svanito il grande nemico, i magistrati hanno ripiegato sulle ambizioni private? È un’analisi che in parte condivido. Nel senso che certamente gli anni del berlusconismo sono stati segnati da una tensione ideale legata proprio ai tentativi più o meno maldestri di invadere l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati. Ma adesso il carrierismo è conseguenza non tanto di un contesto politico differente, quanto della frustrazione per un lavoro che si è burocratizzato. A cosa si riferisce? A un quadro che annovera leggi sbagliate, carichi di lavoro non calibrati, risposte di giustizia che arrivano tardi, strutture amministrative non adeguate al lavoro da assolvere: il tutto genera nei magistrati un senso di ineffettività, di dispersione. Da qui la perdita di tensione sul lavoro e il tentativo di compensarla con altro, con le promozioni, con quella competizione anomala per ottenere gratificazioni di carriera. E pensare che negli anni Ottanta tutti avevamo il mito di certi sostituti procuratori che sfidavano il pericolo per la vita pur di indagare sul terrorismo. I procuratori capo erano invisibili. Palamara rischia di essere il capro espiatorio di una prassi diffusa? La risposta è complessa perché ci sono due tenenze da cui mi sento distante. L’eccesso di ansia punitiva da cui si è partiti e una certa inclinazione alla pietà, a considerare il collega come una vittima, che si è imposta, di contro, dopo la sentenza. Conosco Luca Palamara, e certamente si difenderà, deve vedersi riconosciute tutte le garanzie, i diritti e gli stadi di accertamento. Un esame equo. Ma il “così facevan tutti” non può essere invocata quale scusante. Non si tratta né di infierire né di perdonare, ma di misura. Quella cosa che si chiama, appunto, giustizia. Stato-mafia, fino a quando la magistratura terrà in ostaggio e torturerà la giustizia? di Piero Sansonetti Il Riformista, 13 dicembre 2020 La Corte di Cassazione è stata molto chiara, anzi, aspra, con la Procura generale di Palermo che aveva presentato un ricorso contro Mannino senza capo né coda. Ha chiesto: ma se non avete in mano niente, perché avete fatto ricorso? Mannino è stato perseguitato dai Pm siciliani per circa 25 anni. Accusato di aver trescato con la mafia. Indizi zero, prove sottozero, fatti nessuno. Ora finalmente è fuori. Altri sono ancora dentro, perché c’è un gruppetto di Pm ossessionato dal sospetto che ci fu una trattativa fra stato e mafia, e che non molla. Sebbene ormai siano una decina le Corti che, in svariati processi, hanno detto che questa trattativa non ci fu, che Mannino è innocente, che è innocente il generale Mori, che è innocente Nicola Mancino, che è innocente il professor Conso che la congettura di Ingroia e Di Matteo è nient’altro che pura e inconsistente congettura. Nulla da fare, loro insistono. E fanno strame della verità storica, dei fatti, e soprattutto delle persone. Purtroppo non c’è nessuno in grado di fermarli. L’indipendenza della magistratura è diventata un “Moloch” che non ha più niente a che fare con i valori legati all’idea dell’indipendenza di giudizio: si è trasformata in un privilegio degenerato, che produce una somma inaudita di potere incontrollato e del tutto incontrollabile. Pura sopraffazione. Che corrompe lo stato di diritto. Un gruppo di Pm può tenere in pugno la vita delle persone - e anche dello Stato - per anni e anni, senza che nessuno possa muovere un dito per ristabilire la giustizia. E se poi viene sconfitto, comunque non avrà una frenata di carriera, ma probabilmente nuove promozioni. Oggi festeggiamo l’assoluzione di un servitore dello Stato e di un politico che ha sempre combattuto la mafia, come Calogero Mannino. Però ci chiediamo: usque tandem? Fino a quando la magistratura terrà in ostaggio e torturerà la giustizia? Abruzzo. Covid dietro le sbarre, le nuove indicazioni della Regione ilgerme.it, 13 dicembre 2020 La procedura aggiornata è contenuta nell’ordinanza 107 che è stata emanata ieri dal presidente della Regione Marco Marsilio, ma nei fatti non chiarisce meglio, anzi, quale dovrà essere il percorso per i detenuti malati di Covid in caso di ricovero in ospedale. A differenza della precedente, che indicava comunque l’ospedale dell’Aquila come riferimento per le strutture detentive della provincia, questa infatti delega alle singole Asl il compito di stabilire quale debba essere l’ospedale dedicato ai ricoveri da dietro le sbarre. Il detenuto, però, si chiarisce, dovrà in caso di necessità di controllo essere portato nel presidio ospedaliero del territorio e da qui, accertate le sue condizioni, sarà trasferito nell’ospedale scelto dalla Asl, in caso di ricovero, o rimandato nella struttura penitenziaria che dovrà individuare idonei spazi per eseguire l’isolamento sanitario. Il controllo e la gestione dei pazienti-detenuti è affidata comunque alla direzione sanitaria penitenziaria che potrà essere potenziata con personale sanitario fornito dalla Asl. La rete regionale di coordinamento è affidata al dirigente sanitario del carcere di Lanciano-Vasto-Chieti Francesco Paolo Saraceni. Si dice “parzialmente soddisfatto dell’azione intrapresa” il rappresentante della Uil penitenziaria Mauro Nardella “poiché - spiega - ritenuta tardiva e privata di una non indifferente questione quale è quella legata alla formazione ed informazione sui rischi per i poliziotti penitenziari anch’essa da ritenersi finora assolutamente insufficiente”. La situazione nel carcere di Sulmona, d’altronde, resta molto delicata: ieri si è registrato un nuovo caso che fa salire a 85 i detenuti positivi, 9 quelli ricoverati, sparsi tra Sulmona, L’Aquila e Pescara. Calabria. Covid, dalla Regione 100mila euro per tutelare operatori carcerari e detenuti lametino.it, 13 dicembre 2020 Prima il reperimento dei finanziamenti, adesso la pubblicazione del bando. Va avanti il lavoro della Regione Calabria per contrastare l’avanzata del Coronavirus all’interno delle carceri calabresi. Lo rende noto un comunicato diffuso dall’ufficio stampa della Giunta regionale. L’iniziativa, promossa dall’assessorato regionale al Welfare, vede impegnato il dipartimento Tutela della Salute, diretto da Francesco Bevere, attraverso il Settore politiche sociali guidato da Saveria Cristiano. “L’avanzata del Covid-19 - sottolinea l’assessore Gianluca Gallo - non ha risparmiato nessuno, specie negli ultimi mesi. Il virus, nonostante le precauzioni, è entrato anche negli istituti di pena, ponendo in serio pericolo l’incolumità dei detenuti come degli operatori carcerari, esposti al rischio del contagio. Da qui la necessità di misure di contrasto alla pandemia”. Un impegno che si snoda attraverso una serie di passaggi, a iniziare dall’interlocuzione avviata con la Cassa delle ammende (l’ente istituito al ministero della Giustizia e finanziato con le somme percepite attraverso sanzioni disciplinari, pecuniarie o cauzioni), che ha portato a ottenere, per la Calabria, un finanziamento di 100mila euro. Quindi, dopo la sottoscrizione della convenzione, il via alla fase di programmazione, culminata adesso nell’avviso pubblico con il quale si sollecita la presentazione di progetti finalizzati a fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 in ambito penitenziario. Tra le azioni previste figurano la collaborazione con gli istituti penitenziari e gli Uffici di esecuzione penale esterna per l’individuazione e la presa in carico dei destinatari che non dispongano di un domicilio idoneo; il raccordo con i servizi territoriali, pubblici e privati, sociali, sanitari e per il lavoro; la collocazione in soluzioni abitative indipendenti o di accoglienza; aiuti per il soddisfacimento dei bisogni primari, in collaborazione con i Servizi sociali territoriali. Tolmezzo (Ud). Detenuto in regime di 41bis muore per Covid Il Giorno, 13 dicembre 2020 È morto per Covid all’età di 71 anni Mario Trovato, fratello minore di 2 anni del boss della ‘ndrangheta Franco Coco Trovato di cui era diventato l’erede dopo la sua cattura e la sua condanna all’ergastolo. Era ricoverato da un paio di settimane nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Triste dove era stato trasferito per un tracollo delle sue condizioni di salute dal carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, in provincia di Udine. Doveva scontare una pena a definitiva a 15 anni di reclusione anche lui per resti di associazione e di stampo mafiosi dopo essere stato arrestato nell’aprile 2014 nella maxi inchiesta Metastasi con cui sono state evidenziate “zone grigie” di contatto con politici e locali. Le indagini hanno anche permesso di accertare che il reggente della locale di Lecco era diventato proprio Mario Trovato dopo l’uscita di scena del capostipite confinato al 41 bis di cui aveva raccolto il testimone. Sebbene secondo in comando per linea dinastica rispetto al capo dei capi durante il suo “mandato” non si è rivelato da meno, organizzando estorsioni e spedizioni punitive, intessendo alleanze con altri esponenti della criminalità organizzata, se necessario impugnando armi, ma soprattutto compiendo il grande salto per infiltrarsi tramite suoi uomini di fiducia direttamente nel palazzo comunale di Lecco. Il giorno di San Valentino a febbraio era morto all’età di 66 anni anche Pino Trovato, altro fratello della famiglia Trovato che non era mai rimasto coinvolto in guai e procedimenti giudiziari. La scomparsa di Mario Trovato potrebbe rappresentare un ulteriore colpo al clan già decimato da retate, condanne, lutti, interdittive e nel contempo lasciare spazio o ad eventuali altri rampolli se mai ci sono oppure ad eventuali altri esponenti della ‘ndrangheta di famiglie diverse e magari nuove sul territorio con quanto potrebbe conseguirne in termini di lotte per la conquista del posto di potere rimasto al momento vacante. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Agente penitenziario di 57 anni muore per Covid Il Mattino, 13 dicembre 2020 “Un Assistente Capo Coordinatore del Corpo di Polizia Penitenziaria, in servizio nel carcere di S. Maria Capua Vetere, 57 anni, originario di S. Andrea al Pizzone nel Casertano, è deceduto per Covid-19, contratto in servizio circa un mese fa”. Lo rende noto Emilio Fattorello, segretario nazionale per la Campania del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Siamo tutti sgomenti. Il collega lascia la moglie e tre figli, uno dei quali è anch’egli appartenente alla Polizia Penitenziaria, in servizio nel carcere S. Vittore di Milano. Probabilmente, se fossero stati raccolte le grida di allarme lanciate dal Sappe lo scorso gennaio si sarebbe potuto fronteggiare l’emergenza con i quantitativi necessari di Dpi”, spiega. “Questo nuovo morto tra le nostre fila fa comprendere quale grande tributo stanno pagando anche la Polizia Penitenziaria e l’Amministrazione della Giustizia alla terribile pandemia- aggiunge Donato Capece, segretario generale - Qualche giorno fa era purtroppo deceduto il Sostituto Commissario Coordinatore del Corpo di Polizia Penitenziaria Mario De Michele. E sale dunque a cinque il numero dei deceduti per Covid-19 nelle file dell’Amministrazione Penitenziaria, quattro i poliziotti penitenziari e il responsabile sanitario del carcere di Secondigliano” Bologna. Oltre 60 detenuti positivi, è allarme Covid alla Dozza di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 13 dicembre 2020 La Camera penale: “Le poche misure del governo per ridurre il sovraffollamento non vengono adottate dai giudici”. Il Covid dilaga dentro le celle della Dozza e questa volta in modo ancor “più allarmante” della prima ondata, scrive la Camera penale in un comunicato. Dai penalisti bolognesi e dal garante delle persone private della libertà personale si alza l’appello a non dimenticare che in carcere si affronta l’emergenza sanitaria in spazi ristretti e sovraffollati in cui il distanziamento è impossibile. Ieri il Garante comunale dei detenuti Antonio Iannello ha spiegato che alla Dozza sono almeno 60 i positivi al coronavirus, di cui 3 ricoverati in ospedale, più 15 agenti di polizia penitenziaria. E il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria ha dovuto bloccare i nuovi ingressi nell’istituto di Bologna. Neanche a marzo si erano verificati così tanti contagi contemporaneamente. “Questa seconda ondata - scrive il garante - sta avendo un impatto decisamente più grave sul carcere rispetto alla prima e l’ulteriore rischio che può profilarsi nei mesi a venire, per una non improbabile terza ondata, merita una scrupolosa valutazione. Resta ferma - l’appello di Ianniello - la necessità di deflazionare la popolazione detenuta”. Alla Dozza, anche dopo i trasferimenti di marzo, il sovraffollamento permane: su una capienza di 500 posti si contano 750 detenuti, di cui quasi il 10% oggi è positivo al Covid. Rispetto alla prima ondata, spiega il garante, è stato adottato il protocollo sanitario che prevede l’isolamento in sezioni differenziate dei contagiati e delle persone in quarantena, ma il reparto destinato agli isolamenti è già saturo. “I provvedimenti adottati dal governo per affrontare l’emergenza sanitaria - scrive la Camera penale di Bologna - sono inidonei ed insufficienti. La situazione cronica di sovraffollamento è rimasta di fatto irrisolta. Attualmente il quadro è davvero preoccupante”. Per il presidente dei penalisti bolognesi Roberto D’Errico “le misure straordinarie, seppure modeste, previste dal governo per ridurre il sovraffollamento non vengono applicate dai magistrati. Si continua ad adottare sempre la misura cautelare più grave e non si concedono i domiciliari, il problema è culturale e politico: i giudici non se la sentono, temono che la comunità non capisca ma devono avere il coraggio di misurarsi con questa tragedia che è il virus dietro le sbarre, senza farsi influenzare dal giustizialismo”. Durante la prima ondata erano stati due i morti per coronavirus alla Dozza, entrambi in attesa di giudizio. La Camera penale e l’Osservatorio carcere si appellano ai magistrati di Sorveglianza e ai giudici del distretto di Bologna: “adottino provvedimenti di scarcerazione e misure alternative, affinché sia tutelato il diritto alla salute di tutti, cittadini liberi e detenuti”. Milano. Protesta dei parenti dei detenuti del carcere di San Vittore di Giampaolo Mannu milanotoday.it, 13 dicembre 2020 “Non vediamo i mariti da mesi, alcuni non hanno nemmeno le videochiamate”. Tornano a protestare i parenti dei detenuti nelle carceri milanesi, con una manifestazione organizzata sabato 12 dicembre sotto al muro di cinta di San Vittore. Un sit-in lontano dai toni delle rivolte dello scorso marzo, che avevano interessato numerose case circondariali in tutta Italia, ma identico nella sostanza delle richieste: riaprire i colloqui tra detenuti e parenti. “Non vedo mio marito da ottobre - spiega la moglie di un detenuto - I miei figli chiedono continuamente quando lo rivedranno. Quella del Covid è solo una scusa, perché i colloqui si potrebbero fare in sicurezza. La verità è che dentro le carceri mancano mascherine e disinfettanti, e quindi non si autorizzano nemmeno i colloqui. I nostri parenti vivono in condizioni pessime da quando è iniziata la pandemia, ma nessuno ne parla”. “Mio marito non può videochiamare il padre a causa di un cavillo burocratico - spiega un’altra coniuge. Per motivi di età non può accedere alle visite di persona, perché è un soggetto a rischio. Questo tuttavia gli impedisce di fare anche i video colloqui. È una situazione paradossale. L’altro giorno ero in collegamento con mio marito e quando ho fatto subentrare il padre hanno interrotto la video chiamata, perché lui non è autorizzato”. Como. Garante dei detenuti anche per il Bassone di Roberto Canali Il Giorno, 13 dicembre 2020 Finalmente anche Como avrà un garante dei diritti delle persone detenute, una figura di riferimento che dovrà vigilare sulle condizioni del Bassone tristemente noto per le condizioni di detenzione, con diversi suicidi. Oggi risultano detenute 373 persone a fronte di 240 posti disponibili con un indice di sovraffollamento del 155%, ma nel febbraio scorso le persone dietro le sbarre erano addirittura 442. A questo va aggiunta la mancanza di organico: a fronte di 236 agenti ritenuti necessari dal Ministero della Giustizia per mandare avanti la struttura, ne risultano assegnati al Bassone solo 174. “Ho perso il conto dei giorni che sono passati dalla presentazione di questa mozione, era il 20 febbraio del 2020, avevo quasi perso le speranze - ha ricordato il consigliere Fulvio Anzaldo. Ho perso il conto dei detenuti che si sono tolti la vita in carcere sia a livello nazionale sia locale. Questo capita anche agli agenti della polizia penitenziaria. Stiamo parlando di una comunità e quindi il miglioramento delle condizioni di vita per i detenuti non può che creare delle condizioni di vita migliori anche per chi lavora in carcere. Lo scopo di questa mozione è una sensibilizzazione verso le condizioni carcerarie che sono parecchio allarmanti”. Favorevole alla costituzione del garante dei detenuti la maggior parte dei consiglieri di Palazzo Cernezzi, a eccezione della Lega che ha votato contro. Soddisfatto anche il sindaco, Mario Landriscina, che ribadisce l’impegno del Comune a sostegno del Bassone. “La nostra amministrazione sta portando avanti alcuni progetti con la dirigenza carceraria”. Roma. Povertà, la nuova “Guida Michelin” di chi non ha niente di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 13 dicembre 2020 “Dove mangiare, dormire, lavarsi”. aumenta la distribuzione di cibo. La Comunità di Sant’Egidio offre un #natalepertutti e chiede l’impegno delle istituzioni: “Ripensiamo la società a partire dai più fragili”, dice Marco Impagliazzo, presidente dell’associazione. La Comunità di Sant’Egidio presenta la nuova edizione di quella che viene definita “la guida Michelin dei poveri”: decine di indirizzi utili per le persone che si trovano a vivere in strada a Roma. Mense, centri di accoglienza diurni e notturni ma anche ambulatori, servizi comunali, centri di ascolto, centri di informazione. Il presidente della Comunità, Marco Impagliazzo, ha fatto il punto sulla situazione di grave emergenza affrontata a causa del Covid-19, sulle risorse messe in gioco e sulla risposta solidale della società civile. La guida. “Dove mangiare, dormire, lavarsi”: è pubblicata e distribuita ogni anno da Sant’Egidio rappresenta uno strumento fondamentale per chi è costretto a vivere in strada. L’edizione attuale copre la città di Roma ma, spiega Impagliazzo, “prossimamente verrà pubblicata anche in altre città italiane”. Tra gli indirizzi utili, quelli di 43 associazioni che distribuiscono pasti e generi alimentari. Sant’Egidio, distribuiti 150.000 pacchi alimentari e 25 nuovi centri. La crisi economico-sanitaria ha colpito con estrema durezza la fascia di popolazione già fragile. I dati più aggiornati del Censis parlano di un milione e 700.000 famiglie italiane in povertà assoluta e di mezzo milione di posti di lavoro persi. La Comunità di Sant’Egidio, una delle realtà di accoglienza e assistenza più radicate sul territorio, conferma l’aumento vertiginoso dei bisognosi: “Prima della pandemia a Roma avevamo tre centri di distribuzione: oggi sono 28, in Italia 50. Abbiamo raggiunto più del doppio delle persone rispetto allo scorso anno, con 150.000 pacchi alimentari distribuiti da marzo ad ottobre”. La solidarietà parte dai giovani. Un risultato simile è stato raggiunto grazie ad una grande risposta solidale: “Ci fa molto piacere questa moltiplicazione di forze della società civile. Molti dei nuovi volontari sono giovani e giovanissimi che mettono a disposizione tempo e creatività”. C’è tanto da fare: oltre alla distribuzione di cibo, nel rispetto delle norme anti Covid-19, sono molti i punti di raccolta attivi nei supermercati, anche loro disposti ad aiutare. “Grazie a queste sinergie, i nostri centri hanno sempre molto da offrire”. Appello alla prefettura di Roma: servono più posti letto. I dati sulla gestione dell’accoglienza sono meno confortanti. Come ogni anno, l’arrivo di freddo e maltempo rappresenta una sorpresa per il Comune di Roma, che non riesce a trovare un numero adeguato di posti letto per le persone fragili. Il piano per l’emergenza freddo non è ancora partito e il distanziamento sociale ha dimezzato i posti a disposizione. “Il confronto con la città di Milano è preoccupante: lì sono stati creati 790 posti letto in più oltre ai 1000 già offerti dal Comune, mentre a Roma sono poco più di 300, con 800 già disponibili”. Le associazioni provvedono in parte alla mancanza e garantiscono un letto a 1700 persone. Ma non basta: è richiesto un impegno politico. “Lanciamo un appello alla prefettura affinché trovi rapidamente immobili di pronto utilizzo. Serve una cabina di regia efficace.” Garantire l’accesso ai servizi sanitari, semplificare la burocrazia. Un altro nodo riguarda l’accesso alla sanità per gli stranieri irregolari. “Non riescono ad accedere ai tamponi perché non hanno medico di base. La regione sta cercando di semplificare il sistema, occorre superare l’eccessiva burocrazia delle procedure.” Per Sant’Egidio la risposta è la rete: “collaboriamo con alcuni ospedali che garantiscono una quota di appuntamenti dedicati a stranieri e persone fragili: il San Giovanni Addolorata, il Bambin Gesù, lo Spallanzani”. “Un Natale diverso ma con gli amici di sempre”. Per rimarcare l’inclusione dei più fragili anche nel periodo natalizio, Sant’Egidio si impegna a garantire un #natalepertutti: questo il nome della raccolta e del progetto di solidarietà di dicembre. “Per la Vigilia ci sarà una sorpresa a Santa Maria in Trastevere. Distribuiremo cibo e regali e laddove possibile porteremo il pranzo di Natale a domicilio. Visiteremo carceri, lungodegenze, RSA, perché sia Natale per tutti”. Il numero per donare, con chiamata da telefono fisso o con un SMS, è 45586. Il numero sarà attivo fino al 28 dicembre. Le carceri diventino un luogo più umano di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2020 Pena & diritti. Tre volumi sollecitano a superare pregiudizi e luoghi comuni. Bisogna aver visto, per comprendere. Bisogna aver vissuto al di là del muro di cinta, per liberarsi da luoghi comuni e pregiudizi. Bisogna aver verificato i benefici di pene alternative, per riconoscere la natura antieconomica della detenzione, considerata invece la prima risposta al reato. Bisogna aver ascoltato le storie dietro le statistiche, per descrivere un carcere che resta troppo spesso quel “cimitero di vivi” denunciato da Filippo Turati. Bisogna aver operato nelle prigioni d’Italia, per sapere però che si possono anche migliorare. Nell’interesse di tutti. Perché la “doverosa tutela della collettività, le esigenze di difesa sociale e l’equa punizione di chi ha leso diritti altrui - scrive l’avvocato Giuliano Pisapia - ben possono conciliarsi col senso di umanità”. A questa sostanziale conclusione giungono tre libri, maturati a partire da esperienze diverse, tra raggi e camminamenti. “Il Direttore” è l’autobiografia di Luigi Pagano, storica guida di San Vittore, a Milano, che ha attraversato gli ultimi quarant’anni di storia italiana con la prospettiva delle celle e lo sguardo di chi le affollava; poi due saggi: “Vendetta Pubblica”, di Marcello Bortolato, magistrato di sorveglianza, ed Edoardo Vigna, giornalista de “Il Corriere della Sera”, un viaggio nei penitenziari in direzione ostinata e contraria rispetto ai luoghi comuni; infine “Dei relitti e delle pene” di Stefano Natoli, già firma de “Il Sole 24 Ore”, che, forte dell’analisi dei numeri e della testimonianza da volontario nei penitenziari, prova a liberare la questione carceraria da disinformazione e indifferenza. Tre libri, per certi versi complementari, che sono una finestra sul “mondo di dentro”. Un mondo lontano dallo sguardo e dalle coscienze, salvo temporanei riflettori che poco spazio lasciano ad autentiche riflessioni, come durante le proteste all’inizio dell’epidemia. Che lo vogliamo o no, il girone dei reclusi resta lo specchio di quel che si agita fuori. E questo appare con chiarezza, srotolando quattro decenni da carceriere di Pagano. Da Pianosa a Badu e Carros, dall’Asinara a San Vittore, quest’ex scugnizzo napoletano ha ascoltato i silenzi degli irriducibili degli anni di piombo e il clamore di Mani Pulite; ha sentito il ricatto della mafia stragista e conosciuto banditi preceduti dalla loro fama, prima di veder entrare in cella quasi esclusivamente gli ultimi della società. Così in pagine dense, in cui ricordi personali intersecano la storia criminale, ma anche politica, d’Italia, il direttore matura perplessità sul sistema penitenziario e sull’amministrazione, che ha scalato fino a livelli apicali. E con lui, il lettore condivide il paradosso di aver provato per tutta la carriera a reintegrare, con l’isolamento del carcere, i detenuti, fuori dal carcere. È stata una continua ricerca di strade nuove, quella di Pagano, per portare la città al di là del muro di cinta. Una sperimentazione, che ha cambiato il modo stesso di intendere oggi quello che in gergo è il “trattamento” dei detenuti. Il culmine è stato il “progetto Bollate”, il penitenziario lombardo, divenuto simbolo degli scambi tra dentro e fuori, all’insegna del lavoro. Considerato un modello, in realtà è solo “l’invenzione del carcere normale”, si rammarica l’autore. L’esempio di questo penitenziario - citato anche dai due saggi - permette di dimostrare come il tasso di recidiva si abbassi drasticamente quando la pena non è espiata solo “marcendo in cella”. Natoli, ad esempio, documenta con statistiche e conti, a cominciare dai 3 miliardi annui spesi per 190 penitenziari, come dovrebbe essere tra l’altro conveniente per lo Stato recuperare la funzione rieducativa indicata dai Padri costituenti, che avevano sperimentato il carcere: “Far sì che il maggior numero possibile di detenuti non torni a delinquere”. Ma questo avviene solo se la pena non è una Vendetta pubblica, argomentano Bortolato-Vigna; se la detenzione è sostituita più spesso da misure alternative e pene pecuniarie; se si avvia una depenalizzazione e si crede nella giustizia riparativa. I tre libri confermano il fatto che tutti coloro che conoscono il carcere in profondità ne sollecitano una riforma, ma il dibattito pubblico malvolentieri se ne occupa. Diventa così meritorio lo sforzo di chi, partendo dai luoghi comuni (“Dentro si vive meglio che fuori”, “Alla fine, in carcere non va nessuno”) prova con dati, esperienze e coni richiami alla Costituzione a svelare l’autentica condizione di penitenziari inadeguati e sovraffollati, dove il contagio criminale rischia di rendere peggiori persone che comunque, prima o poi, usciranno dalle celle, è il pragmatico assunto di Bortolato e Vigna. Per questo, bisogna occuparsi del carcere, dove sempre di più sono stipati “gli ultimi e cittadini in attesa di giudizio”, quindi presunti innocenti, avverte Pisapia, nella prefazione al saggio di Natoli. Un monito, per l’Italia degli slogan e dei pregiudizi, che comunque resta - come dimostrano questi tre libri - anche il Paese di Cesare Beccaria, di Filippo Turati odi Aldo Moro, che ricordava come “la pena non è il male per il male, ma la limitazione della personalità è finalizzata ad una ragione superiore, che è la cancellazione del male stesso”. “Il direttore”, Luigi Pagano Zolfo, pagg. 299 “Vendetta pubblica”, Marcello Bortolato, Edoardo Vigna, Laterza pagg. 151 “Dei relitti e delle pene”, Stefano Natoli, Rubbettino, pagg. 205 “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”, saggio di Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna di Paolo Rausa farecultura.net, 13 dicembre 2020 Uno sguardo duplice dentro le carceri italiane questo saggio, dal punto di vista del giornalista Edoardo Vigna, firma del “Corriere della Sera” e caporedattore del magazine “7”, e del magistrato Marcello Bortolato in servizio dal 1990, da tre anni presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze. Non è usuale che ci si soffermi a indagare sulle condizioni di reclusione del nostro Paese, senza visioni precostituite, solo preoccupate del fatto che i circa 54 mila detenuti vivono condizioni di vita non rispettose delle norme in vigore. La Corte di Giustizia europea ha condannato l’Italia per non aver ottemperato alle condizioni minime di salute in cui vivono esseri umani che, ricordiamolo, sono portatori di diritti, come tutti noi. Non solo vi è un problema di sovraffollamento nelle carceri italiane - ci sono 10.200 persone in più rispetto alla capienza massima prevista -, messe sotto accusa per la mancanza del minimo spazio vitale, ma anche il rischio di contrarre il contagio da coronavirus. Una condizione che è sfociata nel marzo scorso nelle rivolte che hanno causato 13 morti. Il saggio prende in considerazione frasi comuni, di uso popolare, e cerca di confutarle, a partire dal fatto che non già il buon cuore ma la massima legge italiana, la Costituzione, all’art. 27 definisce la funzionalità della pena e del luogo dove essa si sconta: reinserire nella società chi ha sbagliato e ha commesso un reato. Non solo quindi per ragioni umanitarie, pure nobilissime, ma nell’interesse della società le prigioni, case circondariali e di reclusione, dovrebbero rispondere a criteri diversi nella loro gestione e finalità. E’ un’aspirazione umana consentire un percorso di redenzione, che ha trovato in buona parte d’Europa modalità di trattamento del detenuto che non è non sottoposto a trattamento feroce e disumano per fargli pagare il suo errore, ma sono attente nel perseguire il suo possibile e auspicabile reinserimento sociale. Egli però deve riconoscere il suo delitto in un processo di immedesimazione, favorito da una serie di provvedimenti: per es. dall’attività lavorativa dentro e fuori del carcere, dai permessi premio, dall’attività culturale e sociale, il teatro soprattutto, e dalle pene alternative, che vanno dagli arresti domiciliari alle attività lavorative e al semi affidamento per consentire il recupero dell’individuo. Perciò le frasi comuni che vengono pronunciate, il cosiddetto populismo penale, devono essere ripensate e corrette. Quante volte abbiamo sentito espressioni del tipo: buttare le chiavi del carcere, lasciamoli marcire in prigione; in carcere si sta troppo bene, si mangia, si beve e si vede la televisione; devono soffrire, devono pagare per ciò che hanno fatto; alla fine non ci va nessuno in carcere; dentro si vive meglio di fuori; ma che vogliono i detenuti, anche il diritto di fare sesso?; ci vorrebbero i lavori forzati; le carceri sono sovraffollate? E allora che se ne costruiscano di nuove; condannato per omicidio gode di permessi premio, ecc. “Vendetta pubblica”, scrivono gli autori, è naturalmente un titolo provocatorio perché oggi, a differenza di quanto accadeva nei secoli passati, il carcere dovrebbe essere altro. Conducono così un viaggio all’interno della condizione carceraria italiana, dimostrando che in Italia si rimane in carcere di più e che le pene sono più de-socializzanti che altrove. “Cos’è che vuole allora il cittadino? Vuole che una persona quando esce dal carcere sia peggiore o migliore di come è entrata?” - si chiedono. Invece di dire “buttiamo la chiave” perché non si chiede come torna all’esterno il criminale quando ha scontato la pena? La pena come vendetta non è compatibile con uno Stato democratico! Occuparci del carcere vuol dire occuparsi della salute della democrazia, ben sapendo che il detenuto è un cittadino privato della libertà che conserva gli altri diritti. Chi entra nel carcere non è più lo stesso dopo gli anni trascorsi in prigione e quindi non è neppure giustificabile l’ergastolo che è una pena senza fine o meglio a fine vita. Certo non va sottaciuto il dolore per le vittime dei parenti che rivendicano quanto la durezza delle pene sia incomparabile con il diritto della vita che è stato infranto dal gesto dell’assassino che se la gode con i permessi premio. Come dicono gli studiosi della cosiddetta giustizia riparativa, il male è una catena. Il male del reato genera altro male, perciò non ha senso che lo Stato sia parte di questa catena, che deve spezzare come devono fare le singole persone. Il principio del recupero corrisponde all’interesse della società di far sì che il maggior numero possibile di detenuti non torni a delinquere una volta pagato il proprio debito con la giustizia. “Può esserci un modello di giustizia alternativo alla giustizia penale - si chiedono gli autori - così come la intendiamo oggi?” Tralasciando i reati più gravi o gravissimi (mafia, omicidio, violenza su donne e bambini) a cui giustamente riservare l’idea di punizione, vendetta e sofferenza, per il resto dei detenuti il passaggio decisivo dovrebbe essere il modello di giustizia riparativa: la pena che serve a riparare l’offesa. L’esempio più immediato è quello del Sudafrica post-apartheid con l’amnistia per ricominciare, un po’come successo nell’Italia post bellica rispetto ai crimini commessi nelle rappresaglie dai fascisti e anche nei loro confronti dalle vendette dei partigiani. La giustizia riparativa favorisce la responsabilizzazione del condannato che acquisisce consapevolezza del suo delitto e del danno arrecato, dichiarandosi pronto e adoperandosi a ripararlo. L’alternativa è il fallimento dello scopo della pena quando essa si pone esclusivamente come vendetta pubblica. Editori Laterza, Bari, settembre 2020, pagg. 151, € 14,00. Emergenza psichiatrica tra gli adolescenti, boom di tentativi di suicidio di Maria Teresa Martinengo La Stampa, 13 dicembre 2020 Esplode l’emergenza psichiatrica in preadolescenza e in adolescenza, con una crescita mai vista prima di tentativi di suicidio e di suicidi portati a termine. L’allarme, che testimonia l’aumento del disagio tra i giovanissimi, arriva dai neuropsichiatri infantili torinesi. Le linee Guida della Società di Neuropsichiatria infantile per emergenza-urgenza psichiatrica dicono che gli accessi in Pronto soccorso nei minori tra i 10 e i 17 anni sono aumentati del 30% negli ultimi anni, con un +8% di ricoveri ordinari (12-17 anni) e l’incremento medio delle degenze di 47 giorni. Negli ultimi 10 anni la Neuropsichiatria infantile dell’ospedale Regina Margherita-Città della Salute, diretta dal professor Benedetto Vitiello, ha visto passare i ricoveri per tentativi di suicidio da 7 nel 2009 a 35 nel 2020 e 10 sono stati i suicidi registrati (solo) dall’Associazione che si occupa di suicidi in adolescenza negli ultimi due anni. Sempre tra 2009 e 2020, nel Day hospital psichiatrico, l’“ideazione suicidaria” è passata dal 10% all’80% dei pazienti in carico. Per fronteggiare il fenomeno, nel 2014 è stata aperta all’interno del Day Hospital una sezione per il post ricovero: il 30-40% dei pazienti era stato ricoverato in Npi per un tentativo di suicidio. La tendenza in tragico aumento è confermata sul territorio dell’Asl Città di Torino dalla Neuropsichiatria infantile Sud, diretta dal dottor Orazio Pirro. Tra il 2009 e il 2019 il ritiro sociale è aumentato di ben 28 volte, i disturbi depressivi di 26, i disturbi bipolari di 12, i disturbi della condotta alimentare di 9. Dati confermati nella letteratura internazionale e nazionale. Ed ora autorevoli studi sugli esiti dell’isolamento forzato e del distanziamento per la pandemia dicono che i bambini e gli adolescenti sono i più esposti a depressione e ansia. Senza contare l’aumento della violenza domestica ed un maggior rischio di suicidi/tentativi di suicidio. L’obiettivo è di offrire prevenzione e un intervento precoce. E va in questa direzione il progetto “Un ponte tra ospedale e territorio” di cui i neuropsichiatri infantili Antonella Anichini (Regina Margherita) ed Orazio Pirro, faranno il bilancio stamane nel corso di un incontro tra esperti. Si tratta di un programma integrato di cura che punta alla ripresa evolutiva degli adolescenti con psicopatologia complessa, soprattutto attraverso l’espressione artistica e la socializzazione tra pari. Avviato nel 2009 e sostenuto dalla Compagnia di San Paolo, conta su una vasta rete di partner che include la Scuola in ospedale, CasaOz ed ora il Museo Nazionale del Cinema. “Il Ponte sostiene e valorizza le risorse degli adolescenti - spiegano Anichini e Pirro -. offre una casa-ambiente, CasaOz, che funziona da area intermedia durante o dopo un ricovero. Ad oggi ne hanno beneficiato oltre 200 ragazzi tra 14 e 20 anni”. Il bilancio è positivo: il 90% grazie alle attività in rete è riuscito a diplomarsi, ha stretto legami con i coetanei, ha seguito le cure, con un netto rientro del rischio Neet. “La condizione di partenza di questi ragazzi è di grave blocco, spesso hanno ansia e depressione - spiega la dottoressa Anichini - nel loro bagaglio genetico, con una disregolazione emotiva. Il “Ponte” punta a investire sulle parti sane della persona. Se li aiutiamo al momento giusto non solo se la cavano ma sono una risorsa di ritorno per l’umanità”. Migranti. Caso Gregoretti, Salvini: “Contrastavo gli scafisti e il governo era d’accordo” di Antonio Lamorte Il Riformista, 13 dicembre 2020 Matteo Salvini torna a Catania per il secondo atto del processo Gregoretti. Il segretario della Lega è accusato di sequestro di persona. Il secondo atto è terminato intorno alle 13:20, nell’aula bunker del carcere Bicocca. Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte sarà ascoltato il 28 gennaio come testimone nel procedimento a Palazzo Chigi. Nessun passo indietro da parte del leader leghista che rivendica le responsabilità anche degli altri membri di quel governo Conte 1, e quindi del premier e dell’altro viceministro Luigi Di Maio, oggi agli Esteri, e dell’allora titolare ai Trasporti Danilo Toninelli, in particolare. “Io rivendico con orgoglio quello che abbiamo fatto con i colleghi. Per me la coerenza e la dignità sono dei valori. Io mi assumo, insieme ai colleghi che lavoravano con me, il successo delle politiche di contrasto all’immigrazione clandestina”, ha detto il leader della Lega in conferenza stampa, con il suo avvocato Giulia Bongiorno, dopo l’udienza preliminare. “Mai combatterò un avversario politico in un’aula di tribunale, si combattono con le idee. Mi spiace per la quantità di tempo e denaro che gli italiani stanno spendendo, perché qualcuno in Parlamento ha deciso di fare un processo politico”. Dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, “non mi aspetto complimenti, favori e bugie, mi aspetto la verità. Ha detto più di una volta che ‘io facevo ricollocare, io facevo sbarcare’. Ci sono anche dei video che abbiamo portato in aula. Non dica ‘non ricordo, non ricordo’ come qualcuno oggi”, ha continuato Salvini, aggiungendo che in aula “mi sono limitato a ricordare i numeri. Vado orgoglioso di quello che ho e che abbiamo fatto. I numeri: ridotti del 50% i dispersi nel Mediterraneo e sostanzialmente azzerato, da 83 a 4, i morti. I numeri ci danno ragione. Abbiamo salvato vite, abbiamo rispettato le norme sia italiane che internazionali”. Stilettate e bordate lanciate al governo: sull’alleanza, sul Recovery Fund, sulla gestione dei soldi. “Ritengo improbabile andare a votare a marzo in piena campagna vaccinale”. Non tutto da buttare in quel governo Giallo-Verde: Salvini riconosce la correttezza dell’allora titolare dell’Economia Giovanni Tria. “Ho ringraziato il ministro Tria, che non c’entra nulla con la Lega e con cui ha avuto anche da ridire quando eravamo al Governo, che quest’estate ha detto che ‘la responsabilità sulle politiche di immigrazione era collegiale e tirarsene fuori dopo non è elegante. Nessuno si è mai espresso in disaccordo’“. Tutt’altro discorso per Danilo Toninelli. “Tantissimo imbarazzo per Toninelli. Tutto mi sarei aspettato, ma non dire ‘no, non partecipavo, non mi ricordo’. Io ero in quel governo e ricordo benissimo quello che accadeva. Prendevano tutte le decisioni insieme. C’erano Toninelli, Moavero, il presidente Conte, Salvini e Di Maio. Io che non facevo parte di quelle riunioni, ma ricordo lucidamente che scrivevo a mio figlio che avrei fatto notte, perché nella stanza accanto stavano decidendo chi fare sbarcare e chi no”, ha detto la senatrice della Lega e difensore di Matteo Salvini, Giulia Bongiorno. “Salvini ha sempre detto che rivendica la linea del Conte 1 e che è una linea condivisa da tutti i ministri competenti”. L’ex ministro grillino aveva infatti dichiarato: “Stanno circolando versioni gravemente alterate e false della mia deposizione sul caso Gregoretti. Non esiste alcuna mia dichiarazione su una fantomatica firma del decreto relativo alla nave Gregoretti a me attribuibile in quanto, ed è un dato oggettivo, nessun provvedimento di divieto di sbarco è stato mai assunto con riferimento a tale imbarcazione. Ed è ovvio perché si tratta di nave militare dello Stato italiano. Di conseguenza, non esiste alcun mio ‘non ricordo di aver firmato il decreto per il semplice fatto che non vi è mai stato un decreto per tale vicenda. Il mio ‘non ricordo’ si riferiva ai decreti di divieto di sbarco per la nave dell’ong Open Arms. Fatti, questi, intorno ai quali ho deposto in termini di verità e trasparenza. Diffido, pertanto, le testate giornalistiche dal continuare la diffusione di una notizia falsa, riservandomi il diritto di querela”. ha detto l’ex ministro, oggi senatore Danilo Toninelli. Egitto. I 750 Patrick Zaki e i mille Giulio Regeni del regime di Chiara Cruciati Il Manifesto, 13 dicembre 2020 Lo studente scrive alla famiglia: “Non sto bene”. La sua prigionia rinnovata insieme a quella di centinaia di detenuti: in 12 ore discussi 750 casi, 62 imputati all’ora. Un nuovo rapporto svela: 1.058 morti in carcere dal 2013, anno del golpe di al-Sisi. “Spero stiate tutti bene”. Così Patrick Zaki ha iniziato l’ultima lettera alla sua famiglia, scritta con una penna blu su un foglio a righe. L’ha scritta dal carcere di Tora, quello in cui il regime detiene i prigionieri politici in condizioni difficili da immaginare. È datata 12 dicembre, ieri. La famiglia l’ha ricevuta (insieme a una precedente lettera del 22 novembre) durante una visita e l’ha resa pubblica tramite la pagina Facebook “Patrick Libero”, che la accompagna a una nuova richiesta di rilascio. “Le ultime decisioni sono deludenti e come al solito senza un motivo comprensibile. Ho ancora problemi alla schiena e ho bisogno di un forte antidolorifico e di erbe che mi aiutino a dormire meglio. Il mio stato mentale non è buono dall’ultima sessione. Continuo a pensare all’università e all’anno che ho perso”. Parole che tengono la famiglia ancorata a un’impotente angoscia: nelle ultime settimane le condizioni mentali e fisiche dello studente dell’Università di Bologna sono peggiorate, piegate dal martellante rinnovo della privazione della libertà senza che si vada mai a processo. “Rivolgiamo un appello all’ambasciata (italiana) - ha detto ieri all’Adnkronos Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - perché sia inviata una equipe medica per verificare le sue condizioni psicofisiche”. Interviene anche Virginio Merola, sindaco di Bologna, la città dove Patrick studia: “È importante che si recuperi la dignità da parte dello Stato italiano. Almeno ritirare l’ambasciatore in questa situazione credo sarebbe indispensabile” A rendere nero il suo orizzonte è stata l’ultima udienza, quella del 7 dicembre in cui è stata rinnovata di altri 45 giorni la sua detenzione. Anticipata di un mese (avrebbe dovuto tenersi il prossimo gennaio), aveva generato speranze andate in frantumi quando ci si è resi conto che quella domenica una sola corte, quella del Terzo circuito anti-terrorismo del Cairo, avrebbe deciso rinnovi (o rilasci) per circa 750 prigionieri. 750 persone in dodici ore di sessione significano 62 all’ora, più di un prigioniero al minuto. Numeri senza precedenti anche per l’oliata macchina giudiziaria egiziana e che rendono vana qualsiasi aspirazione a un processo giusto o alla tutela dei diritti della difesa. Lo sottolineano gli avvocati presenti all’agenzia indipendente egiziana Mada Masr: “Il giudice chi avrebbe dovuto ascoltare? Quali casi meritavano uno sguardo?”. Zero possibilità di aprire bocca per i legali, costretti - in alcuni casi con i loro clienti - ad ammassarsi in tribunale in piena pandemia, la stessa usata dal regime per negare per mesi le udienze e le visite familiari. Tutte le detenzioni sono state rinnovate, tra cui quella della nota avvocata Hoda Abdel Moneim e dell’ex candidato presidente Abdel Moneim Abouel Fotouh, trasportato in aula in ambulanza: “Tenere una sessione con un tale numero di imputati e rinnovare a tutti la prigione non la rende che un esercizio simbolico - spiega un legale - Che senso ha impostare una difesa se alla fine la corte rinnoverà detenzioni violando la legge?”. La legge c’è, ma negli anni post-golpe ha subito modifiche così sostanziali da essere stata adeguata alle necessità repressive del regime. In ogni caso, viene violata. Ad accendere un’altra luce sulle carceri è l’associazione Committee for Justice, basata a Ginevra: dal 2013, anno del colpo di Stato, in Egitto sono morte in detenzione 1.058 persone, di cui 100 tra gennaio e ottobre 2020. Nel rapporto “I Giulio Regeni d’Egitto”, il Cfj ha raccolto tutti i casi di decesso per età, struttura detentiva e motivi: torture (144), mancanza di cure (761), suicidio (67), cattive condizioni in cella (57) e altre ragioni (29). Il rapporto è uscito nel giorno in cui, in Italia, la Procura di Roma dava conto della chiusura delle indagini sulle torture e l’omicidio del giovane ricercatore italiano e dell’intenzione di chiedere il rinvio a giudizio per quattro agenti della National Security del Cairo. Di uno di loro, si è saputo venerdì, ora è noto anche il volto: è lui che aiutò il sindacalista Mohammed Abdallah a spegnere la telecamera fornita dai servizi segreti dopo aver registrato il viso e le parole di Giulio Regeni il 7 gennaio 2016. In quell’occasione Abdallah parlò con Giulio dei fondi della Fondazione Antipode, 10mila sterline che secondo la Procura sono state il movente del sequestro e l’omicidio del ricercatore. In tale contesto arriva la notizia della condanna a tre anni comminata ieri a nove poliziotti accusati della tortura e l’omicidio del venditore di pesce 53enne Magdy Makeen, avvenuti nella stazione di polizia al-Amiriya al Cairo a fine 2016. Una rarità nell’Egitto di al-Sisi. Ucraina. Reporter pavese ucciso, in campo i russi: “Ogni strada per avere giustizia” di Nicoletta Pisanu Il Giorno, 13 dicembre 2020 Il caso di Andy Rocchelli. La famiglia dopo l’assoluzione del miliziano ucraino: non molliamo. “Abbiamo appreso dai media dell’iniziativa giudiziaria russa e ne seguiremo certamente l’evoluzione”. La famiglia del fotografo pavese Andrea Rocchelli ha accolto così l’incriminazione per omicidio mossa dal tribunale russo Basmanny di Mosca nei confronti del sergente della Guardia nazionale ucraina Vitaliy Markiv, già condannato in Italia in primo grado a ventiquattro anni di reclusione e poi assolto in Appello per l’omicidio del reporter. Markiv in Italia era accusato di essere stato coinvolto nell’attacco in cui Rocchelli aveva perso la vita insieme al giornalista russo Andrej Mironov il 24 maggio 2014, mentre si trovava in Ucraina nelle vicinanze della città di Sloviansk per testimoniare le condizioni dei civili nel corso della guerra tra nazionalisti e indipendentisti filo-russi. Nello stesso evento era stato ferito il reporter francese William Roguelon, chiamato poi a testimoniare durante il processo di primo grado a Pavia. Secondo il servizio stampa del tribunale moscovita, riportato dall’agenzia di stampa statale Tass, la corte avrebbe accolto “la mozione per l’arresto in contumacia di Markiv ai sensi dell’articolo 105 del codice penale russo - omicidio di due o più persone”. Secondo i media russi, qualora quindi Markiv dovesse essere fermato o estradato dovrebbe scontare una custodia cautelare di due mesi. Intanto in Italia si attendono le motivazioni della decisione dei giudici di secondo grado, che hanno assolto il militare italo-ucraino: “La sentenza ha ritenuto non sufficientemente provate le responsabilità di un sergente della Guardia Nazionale, ma ciò non significa che il caso sia stato risolto, né che la dinamica dei fatti accertata, a nostro avviso, con grande rigore dalle autorità inquirenti, sia stata smentita - spiegano in una nota Rino Rocchelli, il padre del reporter, Lucia la sorella ed Elisa Signori, la madre. La nostra determinazione nel richiedere giustizia per l’attacco efferato contro Andrea Rocchelli, Andrej Mironov e William Roguelon è pertanto inalterata”. Per questo motivo dunque, “d’intesa con la nostra avvocata Alessandra Ballerini non mancheremo di percorrere ogni possibile via per raggiungere questo obiettivo”, concludono i familiari del fotografo pavese. Il dossier sul caso è stato avviato anche in Russia in quanto Mironov, giornalista, attivista per i diritti umani e interprete di Rocchelli sul campo, era cittadino russo. Lo stato dell’Ucraina nel corso del processo italiano si è schierato dalla parte di Markiv, il ministro dell’Interno Arsen Avakov aveva anche presenziato in udienza, così come i Radicali italiani. Vitaliy Markiv era stato arrestato in Italia dal Ros dei carabinieri nel 2017. Rinviato a giudizio l’anno seguente, era stato poi condannato nel luglio 2019: è stato scarcerato il mese scorso in seguito alla sentenza di assoluzione della Corte d’Assise d’Appello di Milano. Iran. Impiccato il giornalista Ruhollah Zam: “Spia americana” di Farian Sabahi Il Manifesto, 13 dicembre 2020 Condannato a morte dopo l’ultima sentenza della Corte suprema, il fondatore del sito di informazione Amad News era stato catturato un anno fa in Iraq dai pasdaran. Già arrestato durante il movimento verde contro Ahmadinejad, pubblicava notizie sulle proteste nel paese e sulla sua dirigenza. Di questi tempi, i pasdaran si muovono utilizzando le tecniche del Mossad: attirano la preda in un luogo, tendono la trappola e la catturano. Nel caso degli iraniani, decisiva è la complicità di altri paesi. A fine gennaio a mettersi nei guai era stato il rapper underground iraniano Amir Tataloo. Particolarmente critico e offensivo nei confronti della dirigenza di Teheran, il trentunenne era finito in manette mentre si trovava in Turchia. Se non era stato deportato nella Repubblica islamica, è stato grazie all’intervento della comunità internazionale che ha fin da subito acceso i riflettori sul suo caso. In ogni caso, dalla cella era uscito malconcio. Ora, la vittima dei pasdaran è il giornalista dissidente Ruhollah Zam. Attirato con l’inganno in Iraq dove avrebbe voluto incontrare il grande Ayatollah al-Sistani, Zam è stato catturato in un’operazione dei corpi speciali al-Qods delle Guardie rivoluzionarie, ovvero di quelle unità incaricate delle operazioni all’estero di cui il generale Soleimani, assassinato a gennaio da un drone americano, era il comandante in capo. I pasdaran l’hanno preso e portato in Iran. Un processo sommario, la confessione estorta con la tortura e mandata in onda dalla tv di Stato della Repubblica islamica. Dopodiché, la condanna a morte. Ruhollah Zam è finito sulla forca sabato mattina. Impiccato, dopo che la condanna è stata confermata dalla Corte suprema per la “gravità dei crimini” commessi contro la Repubblica islamica dell’Iran. Ruhollah Zam gestiva il sito di informazione d’opposizione Amad News. Amad è l’acronimo persiano di conoscenza, lotta e democrazia. Anche noto con il nome di Seday-e Mardom (la voce della gente), il sito ha oltre un milione di followers su Telegram, dove diffonde video delle proteste e informazioni riservate sulla dirigenza iraniana. Il giornalista è stato accusato di spionaggio a beneficio dei servizi di intelligence di “Stati uniti, Francia, Israele e di un paese della regione” per far cadere la Repubblica islamica. È stato condannato “per aver agito in modo da minare la sicurezza dell’Iran all’interno del paese e all’estero, disseminando menzogne e danneggiando il sistema economico del paese”. Così ha riferito la tv di Stato. Nato a Teheran nel 1978, Ruhollah Zam era figlio del religioso riformista Muhammad Ali Zam. I legami con il clero sciita non sono però stati sufficienti a salvargli la pelle. Nel corso degli anni aveva partecipato a manifestazioni contro la Repubblica islamica dell’Iran. Nel 2009 era stato arrestato per aver militato nel movimento verde di protesta durante le contestate elezioni presidenziali in cui l’ultraconservatore Ahmadinejad aveva vinto grazie ai brogli. Zam era stato poi accolto come rifugiato in Francia. Era spesso ospite dell’emittente radiofonica Voice of America. Tra il dicembre 2017 e il 2018 era stato attivo su Telegram durante le proteste in Iran scatenate dall’aumento del prezzo del carburante. Il 14 ottobre 2019 era stato in visita in Iraq e, lì, le forze speciali dei pasdaran lo hanno fatto prigioniero e deportato in Iran. Prendendo anche possesso del suo canale Telegram. Albania. Non si fermano gli scontri, allarme minori di Alessandra Briganti Il Manifesto, 13 dicembre 2020 Dopo le dimissioni del ministero degli Interni, la piazza chiede a gran voce quelle del capo della Polizia di Stato Ardi Veliu, richiesta respinta seccamente dal primo ministro albanese Edi Rama. Resta teso il clima in Albania dopo la terza notte di proteste che attraversano il Paese da giorni. I cittadini sono nuovamente scesi in piazza per chiedere giustizia per Klodian Rasha, un giovane di 25 anni ucciso da un agente di polizia, Nevaldo Hajdaraj, martedì scorso per aver violato il coprifuoco. Mentre il poliziotto invoca la legittima difesa, per i manifestanti quell’omicidio è figlio della cultura di violenze che permea le forze dell’ordine. Così venerdì notte e nella giornata di ieri i cittadini hanno continuato a protestare per le vie di Tirana, Durazzo, Scutari, Alessio. Dopo le dimissioni del ministero degli Interni, la piazza chiede a gran voce quelle del capo della Polizia di Stato Ardi Veliu, richiesta respinta seccamente dal primo ministro albanese Edi Rama. Si sono registrati momenti di forte tensione, atti di vandalismo e scontri con la polizia. Ieri a Scutari centinaia di manifestanti, tra cui alcuni membri dell’opposizione, hanno marciato per le vie della città. Alcuni giovani, tra cui diversi minorenni, invece hanno fatto irruzione nella sede del partito socialista dando alle fiamme computer, sedie ed altri oggetti che si trovavano all’interno dello stabile. La sindaca Voltana Ademi, esponente del partito democratico, ha fatto poi sapere di aver denunciato la polizia per non essere intervenuta per fermare le violenze nonostante ne avesse fatto richiesta. Dura la reazione di Rama che in un tweet ha denunciato la strumentalizzazione dei minori da parte dell’opposizione che secondo il primo ministro, sarebbe dietro all’organizzazione delle proteste di questi giorni che peraltro hanno luogo nonostante il coprifuoco in vigore per contenere la pandemia. Accuse respinte al mittente dal leader del partito democratico, Lulzim Basha che ha condannato “l’incitamento all’odio del premier e la brutalità e la violenza della polizia contro minori e giornalisti” e chiesto nuovamente che si faccia luce su quanto accaduto in modo da assicurare alla giustizia i responsabili dell’omicidio. Intanto un rapporto del difensore civico albanese rivela che nelle sole giornate di mercoledì e giovedì la polizia ha fermato 124 persone, di cui 57 minori, alcuni di loro sotto i 14 anni. Al momento dell’ispezione effettuata dall’Ombudsman risultavano ancora 52 persone in stato d’arresto di cui due minori, uno di 16, l’altro di 17 anni. “Tutti coloro che sono stati arrestati, si legge nel rapporto, sono stati interrogati per il comportamento tenuto durante le proteste. Alcuni di loro hanno affermato di aver preso parte alle manifestazioni, ma che non hanno commesso atti violenti. Altri ancora hanno dichiarato di essersi trovati lì di passaggio e di non aver preso parte alle proteste. I due minorenni, alla domanda se durante l’interrogatorio fosse presente un avvocato o uno psicologo, hanno risposto che erano stati interrogati soltanto dall’ufficiale di polizia” aggiungendo che quest’ultimo “aveva fatto loro pressioni perché ammettessero di aver commesso atti vandalici. (I due minori) hanno poi riferito che l’avvocato è arrivato in un secondo momento e ha firmato il rapporto della polizia” Nel rapporto si riferisce inoltre che durante i primi due giorni di proteste sono rimasti feriti 19 agenti di polizia e quattro manifestanti. “Gli agenti di polizia, prosegue il rapporto, hanno riportato per lo più ferite causate dal lancio di pietre e altri oggetti. Uno di loro, che aveva subito lesioni agli occhi, presentava una condizione più grave. Dalla verifica delle cartelle cliniche è risultato che tutte le persone di cui sopra hanno ricevuto le cure necessarie e hanno lasciato l’ospedale, ad eccezione di un poliziotto che aveva riportato lesioni alle gambe”. Yemen. Oxfam denuncia: “4 civili ogni giorno vengono feriti o uccisi” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 13 dicembre 2020 A Taiz e Hodeidah, principale porto dello Yemen, ogni giorno 4 persone inermi vengono ferite o uccise. È il drammatico bilancio a due anni dagli accordi di pace di Stoccolma, firmati il 13 dicembre 2018, che avrebbero dovuto alleviare le sofferenze di un Paese duramente colpito dalla guerra. L’allarme diffuso da Oxfam rivolge un appello urgente alla comunità internazionale per un immediato cessate il fuoco che consenta alle organizzazioni umanitarie di soccorrere la popolazione stremata da carestia, colera e ora pandemia da coronavirus, del tutto fuori controllo con la metà delle strutture sanitarie distrutte da quasi 6 anni di conflitto. “Dalla firma degli accordi di Stoccolma, sono stati colpiti oltre 2.600 civili nei due governatorati. - spiega Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia - Nonostante qualche timido progresso nel dialogo tra le parti in conflitto, ossia gli Huthi e il governo internazionalmente riconosciuto sostenuto dalla coalizione a guida saudita, siamo ancora molto lontani da una soluzione che porti alla pace. Una situazione drammatica di cui fa le spese per prima una popolazione stremata da un conflitto che ha già causato oltre 100 mila vittime di cui 12 mila civili, con le organizzazioni umanitarie che devono affrontare enormi difficoltà per portare aiuti”. L’escalation degli scontri da ottobre a Hodeidah minaccia la sopravvivenza di oltre 24 milioni di persone che dipendono dagli aiuti umanitari in tutto lo Yemen, visto che da qui transitano l’80% del cibo, delle medicine e del carburante che entrano nel paese. A causa degli scontri centinaia di famiglie sono state costrette ad abbandonare le loro case nelle ultime settimane, mentre in città le forniture d’acqua sono state tagliate per far spazio alle trincee. La popolazione sta letteralmente restando senza acqua e cibo e le organizzazioni umanitarie non possono soccorrerle a causa dei blocchi alla circolazione imposti dalle parti in conflitto. Una situazione che potrebbe significare carestia per altri milioni di persone, in un paese in cui già in 7 milioni e mezzo, tra cui 1,2 milioni di bambini, soffrono la fame. Voci dall’inferno di Taiz - Ci sono pochi altri luoghi in Yemen in cui il conflitto ha distrutto così tante vite come a Taiz, dove si sono raggiunti livelli di violenza mai visti prima. Una città sotto assedio, dove la guerra continua a costringere alla fuga dalla morte, che può arrivare dal cielo o via terra. Basti pensare che dall’inizio del conflitto oltre il 30% dei circa 22 mila raid aerei della coalizione saudita hanno colpito obiettivi civili in tutto il Paese, mentre solo Taiz è stata colpita da oltre 2.600 bombardamenti di cui più della metà diretti ad obiettivi non militari. Mohammed (nome di fantasia) vedovo, a 50 anni ed è scappato ad inizio novembre da Taiz. Sua figlia ha visto morire suo marito sotto le bombe. Così quando gli scontri si sono intensificati di nuovo ha deciso di fuggire assieme ai suoi 4 figli e ai nipoti, tra cui il più piccolo di appena 6 mesi, in un campo profughi temporaneo allestito in una scuola nel distretto di Ash Shamayteen. “Abbiamo trovato rifugio nella tenda di un’altra famiglia, ma adesso siamo in 10, costretti a sopravvivere senza cibo, acqua, servizi igienici. - racconta - Presto dovremo andarcene di nuovo, anche se non sappiamo dove. Avevo un lavoro a Taiz che ho perso e se adesso, come dicono, sposteranno il campo lontano dal mercato, non avremo più nemmeno la possibilità di elemosinare qualche avanzo di cibo”. “Spesso io e mio marito andiamo avanti per giorni e giorni solo con po’ di pane e acqua per provare a comprare le medicine di cui ho bisogno, che il più delle volte non si trovano”, aggiunge Jamila (nome di fantasia), a cui è stato diagnosticato un cancro al seno prima dello scoppio della guerra nel 2015. Lei come milioni di suoi connazionali deve fare i conti con un sistema sanitario al collasso, che adesso è anche alle prese con la pandemia da Covid, senza nessuno strumento per affrontarla. “In tutto lo Yemen ci sono già oltre 4 milioni di sfollati e più di 20 milioni di persone non hanno accesso a cure di base, mentre le grandi potenze mondiali continuano a trarre profitto dalla vendita di armi alle parti in conflitto - conclude Pezzati. Nemmeno l’appello per un cessate il fuoco globale lanciato dalle Nazioni Unite ha sortito effetto in Yemen. Rilanciamo perciò un appello urgente, perché tutto questo finisca al più presto e si arrivi ad un immediato cessate il fuoco tra le parti, prima che il paese piombi in una catastrofe umanitaria da cui non potrà rialzarsi”. L’Italia faccia la sua parte - “Anche l’Italia può fare di più - conclude Pezzati - Innanzi tutto aumentando gli sforzi diplomatici per arrivare ad una soluzione politica della crisi e aumentando i fondi per la risposta umanitaria fermi a poco più di 5 milioni l’anno. E’ inoltre fondamentale - visto che la sospensione all’export votata nel giugno 2019 scadrà a gennaio 2021- che il Parlamento rinnovi lo stop alla vendita di armamenti questa volta però verso tutti i paesi della coalizione saudita, senza fermarsi solamente a bombe e missili”. La risposta di Oxfam in Yemen - Dal luglio 2015 Oxfam ha soccorso oltre 3 milioni di yemeniti in nove governatorati. Dalla conferma dei primi casi di coronavirus ha rafforzato inoltre il proprio intervento per rispondere alla pandemia, distribuendo kit igienico-sanitari alle famiglie più vulnerabili e portando acqua pulita nei campi profughi, realizzando inoltre campagne di sensibilizzazione sulle norme di prevenzione del contagio tra la popolazione. Per rispondere all’emergenza alimentare in corso, sta soccorrendo circa 280 mila persone fornendo aiuti per l’acquisto di cibo, e offrendo lavoro per la riabilitazione di infrastrutture idriche e stradali, rimaste distrutte nel conflitto.