Caro Mattarella, ti racconto le carceri dove muore il diritto di Rita Bernardini Il Riformista, 12 dicembre 2020 Egregio Signor Presidente della Repubblica, Le scrivo mentre sto vivendo il mio trentunesimo giorno di sciopero della fame per richiedere a Governo e Parlamento interventi immediati volti a deflazionare le presenze in carcere. Ritengo, con il Partito Radicale nonviolento transnazionale transpartito e con l’Associazione Nessuno Tocchi Caino, che si tratti di una questione di legalità tanto più in questo momento storico di diffusione della pandemia da Covid-19. Questione di legalità costituzionale, se è vero, come è vero, che la nostra Costituzione stabilisce: le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Accade che, dalla prima a questa seconda fase della pandemia, il numero delle persone positive al virus che si trovano nei nostri istituti di pena (sia fra i detenuti che fra il personale e soprattutto agenti di Polizia penitenziaria), sia notevolmente aumentato, quasi triplicato. Accade che da quasi dieci mesi le persone detenute non possono riabbracciare i propri congiunti più stretti, figli minori compresi. Accade che in molti istituti sia impossibile assicurare quel distanziamento raccomandato dalle disposizioni anti-Covid perché non ci sono gli spazi adeguati a questa misura. Accade che la sanità penitenziaria, già carente in tempi normali, sia letteralmente al collasso e costretta a non occuparsi di casi urgenti che richiederebbero controlli diagnostici e addirittura interventi chirurgici. Accade che le attività trattamentali (studio, lavoro, corsi professionali, intervento di volontari) - anch’esse già gravemente insufficienti in tempi ordinari - siano tutte pressoché sospese, cosicché i detenuti trascorrono quasi interamente in cella il tempo dell’intera giornata. Accade che per giorni e giorni mogli, mariti, madri e padri di persone detenute non riescano a ottenere informazioni sullo stato di salute del proprio congiunto perché, nonostante gli sforzi dei direttori e dei responsabili sanitari, non ci sono le risorse umane per affrontare le numerose richieste e sollecitazioni. L’angoscia è tanta sia fra i familiari sia fra i detenuti. Angoscia e stress che spesso si tramutano in disperazione. Lo stato di degrado e di abbandono delle zone che negli spazi penitenziari sono state ricavate per l’isolamento dei “casi Covid”, è a volte umiliante non solo per le persone recluse, ma per tutto il personale (soprattutto agenti e medici) che è costretto a frequentarli. Egregio Presidente, Le sottopongo alcuni dati che fotografano la situazione al 30 novembre 2020 (ultima data utile per conoscere la popolazione detenuta istituto per istituto; il prossimo report mensile fornito dal Ministero della Giustizia, infatti, sarà quello del 31 dicembre 2020). Altri dati, complessivi, fanno il punto fino al 9 dicembre. Dati al 30 novembre 2020: TASSO POSITIVI SU TOTALE POPOLAZIONE NAZIONALE = 1,30% Popolazione italiana: 60.360.000 - positivi: 788.471 TASSO POSITIVI SU TOTALE POPOLAZIONE DETENUTA = 1,74% Detenuti presenti nei 189 istituti penitenziari: 54.368 (non tiene conto delle licenze e dei permessi) - positivi: 949 Dati al 3 dicembre 2020: TASSO POSITIVI SU TOTALE POPOLAZIONE NAZIONALE = 1,26% Popolazione italiana: 60.360.000 - positivi: 759.982 TASSO POSITIVI SU TOTALE POPOLAZIONE DETENUTA = 1,82% Detenuti presenti nei 189 istituti penitenziari: 53.330 (fonte: Ministero della Giustizia; tiene conto delle licenze e dei permessi) - positivi: 975 Dati al 9 dicembre 2020: TASSO POSITIVI SU TOTALE POPOLAZIONE NAZIONALE = 1,17% Popolazione italiana: 60.360.000 - positivi: 710.515 TASSO POSITIVI SU TOTALE POPOLAZIONE DETENUTA = 1,96% Detenuti presenti nei 189 istituti penitenziari: 53.266 (fonte: Garante nazionale; tiene conto delle licenze e dei permessi) - positivi: 1.049 Mi sembra che questi dati sfatino il luogo comune per il quale “il carcere è il luogo più sicuro che c’è” rispetto alla possibilità di infettarsi di Covid. I morti in carcere - Un altro aspetto che intendo sottoporre alla Sua attenzione è quello delle morti in carcere in questo 2020 non ancora terminato. Secondo i dati forniti dall’Osservatorio carceri di Ristretti Orizzonti, le persone detenute morte nelle carceri al 6 dicembre sono state 151; di queste, ben 55 si sono suicidate. Per trovare cifre analoghe, dobbiamo andare indietro nel tempo al 2013 (l’anno della condanna dell’Italia da parte della Corte EDU), quando i morti in tutto l’anno furono 153, di cui 49 suicidi. Veniamo ora, Signor Presidente, all’annosa questione del sovraffollamento. Alcuni giorni fa, quando il Ministro della Giustizia ha fornito i dati al 3 dicembre, pubblicamente ha affermato che il sovraffollamento era al 105,5%, ricavabile dalla presenza di 53.330 detenuti e 50.568 posti regolamentari. La realtà è però ben diversa, perché dai singoli “posti disponibili” occorre sottrarre i “posti inagibili” e quindi “non utilizzabili”. Esaminando una a una le schede trasparenza dei 189 istituti penitenziari (che, come Partito Radicale, siamo riusciti a ottenere quando il Capo del Dap era il Dott. Santi Consolo) scopriamo che i singoli posti inagibili sono 999 e che a questi occorre aggiungere le 1.751 “stanze detentive” inagibili. Purtroppo i dati non sono omogenei, perché alcuni istituti forniscono il dato dei singoli posti inagibili mentre altri quello delle “stanze detentive” inagibili, le quali - evidentemente - corrispondono a più posti (nei nostri istituti le celle singole sono una rarità, tanto che vengono negate a molti ergastolani che ne avrebbero diritto). Dai 50.568 posti regolamentari occorre dunque sottrarre almeno 4.000 posti inagibili. Ed ecco che il sovraffollamento passa dal 105,5% al 114,5%. Ma c’è di più. La realtà della nostra edilizia penitenziaria è fatta di 189 istituti di pena, e diversi di essi hanno più posti regolamentari disponibili che presenze di detenuti. Si va dall’ICAM di Lauro (Istituto a custodia attenuata per le detenute madri) che registra solo 6 presenze su 27 posti disponibili, a Rebibbia III Casa dove su 161 posti disponibili vivono 81 persone detenute. E, attenzione: nella fascia dei 74 istituti che non presentano evidenze “formali” di sovraffollamento, in realtà troviamo diversi istituti che hanno un numero spropositato di posti o stanze detentive inagibili. Clamoroso il caso del Carcere di Modena: il report di novembre ci dice che 238 detenuti stanno belli larghi in 366 posti, ma dalle schede del ministero risulta che su 261 stanze detentive ben 130 sono inagibili. Anche la piccola realtà di Arezzo dà presenti 30 persone detenute in 103 posti, ma se andiamo a vedere le schede degli istituti penitenziari, scopriamo che i posti inagibili sono 84 e quindi i posti disponibili per le 30 persone detenute sono solo 19! Nella seconda fascia dei 115 istituti sovraffollati troviamo realtà come quella del carcere di Bari, dove in 288 posti (dai quali occorrerebbe sottrarre 3 stanze detentive) vivono 406 persone detenute (con un sovraffollamento del 141%; come il carcere di Monza dove in 334 posti (403 - 69 posti inagibili) vivono 585 detenuti (sovraffollamento al 175%); come il carcere di Firenze-Sollicciano dove in 473 posti (491 - 18 posti inagibili) vivono 724 persone detenute (sovraffollamento al 153%); come Roma - Regina Coeli, dove in 603 posti disponibili (606 -3) vivono 964 detenuti (sovraffollamento al 160%); come Taranto, dove in 307 posti disponibili vivono 595 detenuti (sovraffollamento al 194%). Singolare è il fatto che a Taranto è stato costruito ed è pronto da anni un padiglione da 200 posti che non è stato mai aperto e reso disponibile dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Un ultimo dato che intendo sottoporLe, Signor Presidente: non ha un valore statistico convalidato ma forse può avere una sua rilevanza. Dall’analisi dei numeri, sembra che dove è maggiore il sovraffollamento, è in qualche misura più alto il tasso di positività al Covid. TASSO DETENUTI POSITIVI NEI 115 ISTITUTI CON SOVRAFFOLLAMENTO SUPERIORE AL 100% = 2,63% Detenuti presenti al 30 novembre nei suddetti 115 istituti penitenziari: 40.477, i quali vivono in 32.383 posti regolamentari disponibili. Detenuti positivi al 30 novembre: 854. Personale (soprattutto agenti) positivi al 30 novembre negli stessi 115 istituti: 702 TASSO DETENUTI POSITIVI NEI 74 ISTITUTI SENZA SOVRAFFOLLAMENTO = 0,68% Detenuti presenti al 30 novembre nei suddetti 74 istituti penitenziari: 13.891, i quali vivono in 18.185 posti regolamentari disponibili. Detenuti positivi al 30 novembre: 95. Personale (soprattutto agenti) positivi al 30 novembre negli stessi 74 istituti: 254 Tornando alle ragioni di questa lettera e della mia iniziativa nonviolenta che, oltre a me che la sto conducendo da 31 giorni, vede impegnati in una mobilitazione ugualmente pacifica e nonviolenta 3.340 detenuti, 650 liberi cittadini, 202 professori di diritto e procedura penale che hanno sottoscritto l’appello lanciato da Giovanni Fiandaca e Massimo Donini, e personalità quali il Prof. Luigi Manconi e gli scrittori Sandro Veronesi (vincitore di due Premi Strega) e Roberto Saviano. Come ci ha insegnato Marco Pannella, la nonviolenza non è mai ricattatoria. Si chiede - e noi chiediamo - che i rappresentanti istituzionali accettino questa forma di dialogo affinché facciano ciò di cui sono intimamente convinti. Noi pensiamo che quando sono in gioco diritti umani fondamentali sia obbligo delle istituzioni intervenire, come fece il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il suo (ahinoi inascoltato) messaggio alle Camere dell’8 ottobre 2013. Come il Presidente Napolitano, noi invochiamo da allora un provvedimento serio di amnistia e indulto che riporti nella legalità costituzionale sia l’esecuzione penale, sia la mole immensa dei procedimenti penali pendenti che affollano (e ancor di più oggi con la pandemia) i Tribunali di tutta Italia determinando l’irragionevole durata dei processi, in violazione dell’art. 111 della Costituzione. Per l’oggi, chiediamo intanto che si intervenga per ridurre la popolazione detenuta con provvedimenti adeguati (quelli finora varati non lo sono) per non aggiungere ulteriore pena e disperazione a chi è ristretto nelle nostre carceri. Chiediamo altresì che si manifesti un impegno istituzionale per la ripresa del percorso di riforma dell’Ordinamento penitenziario che ha preso le mosse dagli Stati Generali dell’esecuzione penale, che tante speranze aveva destato nell’intera comunità penitenziaria, e nella società libera, perché puntava a fare del carcere, finalmente, una extrema ratio sostituendolo ove possibile con pene e misure alternative molto più efficaci ai fini dell’abbassamento dei tassi di recidiva. Egregio Signor Presidente, ricordo ancora con emozione la Sua telefonata che mi raggiunse mentre ero in sciopero della fame e in visita al Carcere di Catania Piazza Lanza. Era il 12 novembre del 2016. Non credo che lo stesso possa accadere oggi, ma - Le assicuro - cerco di animare come posso la mia speranza. La lascio, Signor Presidente, con le parole di Marco Pannella (1998), che continuano a essere la cifra del nostro impegno politico: “Occorre volere e potere rischiare la vita, contro non il rischio, ma la certezza della morte del diritto, dei diritti, della speranza democratica, di un minimo di regole civili.” Con i miei più sentiti saluti e con il conforto della sottoscrizione di questa lettera delle massime cariche del Partito Radicale: il Segretario Maurizio Turco e la Tesoriera Irene Testa. Sfiducia nella giustizia senza certezza della pena e della riabilitazione di Michela Di Biase* huffingtonpost.it, 12 dicembre 2020 In questo anno segnato dalla pandemia e dalla crisi economica a essa legata, sembra che tutti i settori della vita pubblica e istituzionale siano completamente ipnotizzati da quest’unica notizia. A scapito purtroppo di storie solo apparentemente minori con le quali presto ci troveremo a fare i conti perché attengono al nostro vivere civile e al progetto di Paese che vogliamo costruire. Per questo utilizzo il mio blog per rilanciare la denuncia fatta in questi giorni praticamente in solitaria da Stefano Anastasia, Garante per le persone private della libertà di Umbria e Lazio, dalle colonne del Riformista. Anastasia ha raccontato pubblicamente la storia di una ragazza di 28 anni che chiameremo Anna, madre di due figlie piccole, che a quattro mesi dalla fine della pena che sta scontando, non ha visto autorizzare da parte del Tribunale di sorveglianza di Roma il suo affidamento in prova ai servizi sociali. La donna vive da tre anni nella Casa famiglia Protetta di Roma in detenzione domiciliare per “varie condanne per furto”. Mancano 4 mesi alla fine della sua pena che ha scontato da detenuta modello, ma neanche il buon senso e la sua condotta ineccepibile hanno reso possibile che questa giovane donna cominciasse a vivere di nuovo cercando di reinserirsi in un contesto sociale e lavorativo. Perché? La motivazione ufficiale del Tribunale di sorveglianza è che “l’istanza non è minimamente supportata da una proposta lavorativa stabile”. Quindi visto che non può lavorare stabilmente, la giustizia scarica ancora una volta su di lei la colpa, anche se stavolta non è stata Anna a macchiarsene. Ma se il fine della pena deve necessariamente essere quello di recuperare il cittadino che ha commesso il reato, reinserendolo in un contesto sociale soprattutto tramite il lavoro, è evidente che il sistema presenta criticità che vengono scaricate ingiustamente, ancora una volta, sui più deboli. Gli ultimi tra gli ultimi, i detenuti. “Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile. Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali”: lo scriveva duecento anni fa Cesare Beccaria che in un altro importante passo della sua opera prosegue dicendo che “ogni atto di autorità di uomo su uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico”. Non c’è necessità che Anna resti nella casa famiglia privata del diritto a reinserirsi, e questo non ha nulla a che fare con la certezza della pena, ma con la sua proporzionalità all’offesa arrecata e soprattutto con la sua finalità. È necessario più che mai dare spazio a questa storia, perché da essa come da decine di altre simili deve svilupparsi al più presto un dibattito pubblico teso a dare rilievo alle condizioni dei detenuti e al modello penitenziario e riabilitativo che lo Stato deve assicurare attraverso un’ottica nuova. Non sono storie minori, non sono diritti meno importanti di quello alla salute o all’istruzione. Fa tutto parte di un complesso puzzle che non funzionerà mai se perdiamo anche un solo pezzo per strada. Mettere in crisi uno dei poteri fondamentali dello Stato, quello giudiziario, attraverso una continua mancanza di credibilità dovuta al non rispetto di quel patto stipulato con i cittadini che scontano una pena, rappresenta una costante molto grave che alla lunga depotenzia non solo l’istituto penitenziario, ma la giustizia nel suo complesso. In molti sostengono che i cittadini perdono fiducia nella giustizia perché troppo spesso in Italia manca la certezza della pena, ma bisogna dire con la stessa nettezza che i cittadini perdono questa fiducia anche quando manca la certezza della riabilitazione. E se il cittadino perde la sua fiducia nello Stato, verrà meno anche quella spinta a migliorarsi e a rispettare le regole, che sono più giuste quanto più sono capite dal cittadino e non subite. Se lo Stato non fa tutto quello che è in suo potere per accompagnare i detenuti verso il recupero, rimuovendo tutti gli ostacoli burocratici e non solo che impediscono questo processo, a perdere non sarà solo Anna, ma tutti noi. *Consigliera regionale PD Come stanno le carceri italiane dopo un anno di pandemia di Enrico Pitzianti wired.it, 12 dicembre 2020 Alcuni vecchi problemi, come il sovraffollamento, sono accentuati, i dati dei contagi sono parziali e per evitare focolai le visite dei parenti sono ancora proibite: piccola inchiesta sulle strutture dimenticate dall’Italia alle prese col virus. Cosa sta succedendo nelle carceri italiane durante questi mesi di pandemia? Sono, o no, dei luoghi sicuri? La domanda è importante perché il sistema carcerario ha il ruolo di prevenire i crimini e rieducare chi li ha commessi, quindi se fosse un luogo pericoloso o mal organizzato lo stato rischierebbe non solo di dimostrarsi inadeguato a garantire la sicurezza e la salute di chi ha in custodia, ma anche di offrire una forte leva propagandistica alla criminalità organizzata. Alla domanda su come la pandemia sia ricaduta sulle carceri, però, è difficile rispondere. Per provare a farlo abbiamo raccolto dati e li abbiamo verificati con alcuni osservatori ed esperti del sistema penitenziario italiano, e questo che segue è il risultato. Quanti sono i detenuti? Stando agli ultimi dati diffusi dal ministero della Giustizia le persone in carcere in Italia, al momento, sono 54.132, ridotte di quasi settecento unità nello scorso mese. Il numero è superiore a quello dei posti totali disponibili, che è di 50.568, quindi ci sono circa 3.600 detenuti in eccesso. Per questo motivo si parla di sovraffollamento delle carceri, un problema esistente già prima dell’inizio della recente pandemia da Covid-19 ma che quest’ultima ha evidenziato con più forza: i luoghi sovraffollati, infatti, abbiamo imparato essere particolarmente esposti al contagio da nuovo coronavirus. Nelle carceri non c’è un numero fisso di detenuti, il flusso è continuo sia in entrata che in uscita, e questo ha due effetti: rende il conteggio dei presenti variabile e allo stesso tempo espone chi si trova all’interno al contagio da parte dei nuovi giunti. Nelle strutture penitenziarie naturalmente non ci sono solo carcerati, ma anche lavoratori come dipendenti della sicurezza, della polizia penitenziaria e altre figure che, di fatto, entrano ed escono dal carcere quotidianamente. Questo aumenta il rischio e rende particolarmente difficile il tracciamento. Per arginare il pericolo di nuovi focolai nelle carceri, con il decreto del 9 marzo il governo ha deciso di sospendere le visite dei parenti dei carcerati proprio con l’obiettivo di limitare la diffusione del virus. Meno persone vanno e vengono dai penitenziari meno sono le possibilità che il virus entri negli istituti, ma a farne le spese in questo modo è la socialità dei detenuti, e quindi il loro benessere psicologico e fisico. Proprio a seguito della decisione del governo lo scorso marzo, durante la prima ondata di contagi, in alcune carceri italiane ci sono state violente proteste che hanno portato alla morte di 13 detenuti. Sempre per prevenire il contagio nelle carceri si sono prese delle altre precauzioni: i nuovi detenuti vengono isolati fino al doppio tampone negativo e solo a quel punto trasferiti in cella con gli altri. Nel caso di positività scatterebbe l’isolamento e il tampone di chiunque sia venuto a contatto col positivo, ma questo, riferisce una fonte a Wired, avviene solo in teoria, sia perché il tracciamento è particolarmente difficile senza app né libertà di comunicare tra detenuti, sia per semplice scarsità di tamponi. Nonostante i nuovi carcerati stiano in isolamento preventivo, il pericolo che le carceri siano un luogo di contagio rimane. Il problema riguarda soprattutto gli spazi e il distanziamento: le attività sociali come lo sport e il lavoro, essenziali per il benessere psico-fisico dei detenuti come per il loro successivo reinserimento in società, sono a rischio. Stando a quanto ha riferito Maurizio Somma, segretario nazionale per il Lazio del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria “Sappe”, a novembre nel Reparto G8 del carcere di Rebibbia molti detenuti “si sono rifiutati di rientrare dal cortile passeggio per problemi legati alla positività al Covid 19 di due loro compagni e al conseguente isolamento sanitario cautelativo di altri che erano stati a diretto contatto”. Nello stesso carcere romano per riuscire a isolare i positivi si è optato per gli spazi della lavanderia, ma la conseguenza, come denuncia la madre di un detenuto, è “che non cambiano più le lenzuola da tre settimane perché non possono più lavarle”. In carcere, insomma, vigono le stesse regole di cautela che valgono all’esterno: distanziamento sociale e isolamento, solo che le celle sovraffollate rendono difficilmente praticabili entrambi. Come ha scritto Riccardo De Vito, giudice di sorveglianza al Tribunale di Sassari e Presidente di Magistratura Democratica “la creazione di “zone filtro” di isolamento - per i nuovi ingressi, per i casi sospetti, per i positivi sintomatici e per quelli asintomatici - è inattuabile […] a meno di non voler paralizzare la prigione e interrompere anche le attività essenziali”. Nemmeno i regimi di carcere duro, dove il detenuto è fisicamente separato dagli altri, si sono dimostrati una sicurezza per i possibili contagi. Si sono registrati contagi da Covid-19 anche tra i detenuti in isolamento: i carcerati in regime di 41bis presenti nella struttura carceraria di Tolmezzo, per esempio, sono risultati tutti positivi. Quanti sono i contagiati? I positivi in carcere, al momento, sono 1049 e si trovano in 86 diversi istituti penitenziari. Tra questi in 90 presentano sintomi da Covid-19 (erano 65 a fine novembre) e in 41 sono in condizioni più serie che hanno reso necessario il trattamento ospedaliero (erano 27 a fine novembre). Questi numeri vengono dal ministero della Giustizia e sul sito del Garante nazionale dei detenuti vengono riportati e interpretati in un report periodico. La situazione dei contagi sembra essere molto mutevole. Ci sono carceri in cui i contagiati diminuiscono, altri in cui, rapidamente, si sviluppano nuovi focolai. Sappiamo dal Garante dei detenuti che nelle scorse settimane a Napoli-Poggioreale erano stati registrati circa un centinaio di casi, e circa settanta a Terni, numeri che oggi si sono ridotti, “ma, parallelamente, si sono sviluppati nuovi focolai a Trieste, Monza, Sulmona, Bologna e nei giorni precedenti a Tolmezzo”. I numeri dei contagi, però, vanno considerati come parziali e provvisori, come del resto lo sono quelli che inquadrano la situazione fuori dal carcere. Sono provvisori perché la situazione dei contagi cambia rapidamente e un focolaio, come sappiamo, può estendersi a velocità esponenziale. In questo senso i numeri appena citati - risalendo all’ultimo dei report stilati dal Garante dello scorso 9 dicembre - potrebbero essere cambiati completamente nel giro di una sola settimana. Mentre sono parziali perché a risultare positive sono per forza di cose solamente le persone testate, che non sono tutte quelle presenti nelle carceri italiane. Questo avviene per la carenza di tamponi, che soprattutto nella fase iniziale della pandemia erano numericamente carenti in quasi tutte le regioni, e quindi anche nei rispettivi istituti penitenziari. Il problema dei numeri dei contagi, però, è che sono parziali anche perché nel riportarli ci si limita a quelli dei detenuti. In carcere però ci sono anche insegnanti, educatori, poliziotti penitenziari, volontari e molte altre figure che hanno riscontrato contagi. I numeri, quindi, andrebbero considerati rispetto alla popolazione carceraria e sommati a quelli di chiunque lavora nelle strutture, e in questo modo sarebbero decisamente diversi. L’esempio del medico del carcere di Secondigliano Raffaele Di Iasio, morto di Covid-19 lo scorso novembre, dimostra che il virus presente nelle carceri italiane non mette a repentaglio soltanto i detenuti. Ed è qui che alcuni problemi strutturali delle carceri italiane riemergono spinti dalla crisi sanitaria: il sovraffollamento rende più probabili i contagi e più difficile l’isolamento e il tracciamento. Ma anche la carenza di personale oggi è più problematica che in passato. Nel solo carcere di Bologna, dice a Wired Italia Elia de Caro, avvocato e difensore civico dell’associazione Antigone, ci sono oltre 700 detenuti su 500 posti di capienza massima (a inizio del 2020 hanno raggiunto quasi le 900 unità), con soltanto 8 educatori, 2 funzionari contabili e 2 appartenenti al personale. Nella stessa struttura si è avuto un morto per Covid e almeno 15 sanitari risultati positivi. Ecco perché anche se la situazione, considerando i numeri, non è “allarmante dal punto di vista strettamente medico”, come afferma il Garante dei detenuti, “è invece da guardare con evidente preoccupazione dal punto di vista della gestione, sia per la necessità di spazi (…) sia per l’incidenza che il contagio ha sugli operatori penitenziari, il cui numero di positivi è attorno al migliaio”. Il dibattito sulle possibili soluzioni - I sindacati di polizia penitenziaria, come anche il Garante dei detenuti e le associazioni che si occupano di carcere, credono che la soluzione sia quella di ridurre il sovraffollamento. Riccardo de Vito riassume questa posizione affermando che bisognerebbe “da un lato sospendere l’ordine di carcerazione nei confronti dei condannati a pena inferiore a quattro anni” dall’altro invece intervenire con la “liberazione anticipata speciale, portando da 45 a 75 giorni a semestre i giorni di riduzione della pena”. Questo, però, non è l’unico approccio al problema del sovraffollamento, e quindi della prevenzione di nuovi focolai. Nel dibattito pubblico e politico esistono due approcci opposti: da una parte, come abbiamo appena visto, quello di diminuire il numero dei carcerati, dall’altro quello di costruire nuove carceri. Un recente scambio di opinioni interno al Fatto quotidiano, con da una parte l’editorialista Gad Lerner dall’altra il direttore Marco Travaglio, è utile per riassumere le due posizioni. Secondo Travaglio “contro un virus che si combatte con l’isolamento, chi è già isolato è avvantaggiato rispetto a chi non lo è; e rimetterlo in circolazione non riduce il rischio che si contagi, ma lo aumenta”, di conseguenza “le carceri restano il luogo più sicuro, protetto e controllato del Paese”. Secondo Lerner invece bisognerebbe “studiare misure alternative alla detenzione, e infine denunciare il sovraffollamento delle carceri per quello che è: una realtà incivile e criminogena”. La differenza tra l’opinione dei due giornalisti è squisitamente politica: da una parte si dà la priorità alla certezza della pena, e si rifiuta l’idea di amnistie e sconti di pena. Dall’altra la priorità è invece il diritto alla salute e al benessere dei carcerati che, va sottolineato, riguarda da vicino anche chi carcerato non lo è, visto che i focolai in carcere rischiano di coinvolgere medici, membri della polizia penitenziaria, educatori, volontari e altre persone che lavorano a contatto con i detenuti. Ancora più a monte è vero anche che, visto il continuo flusso in uscita dalle carceri, una situazione fuori controllo all’interno avrebbe conseguenze anche all’esterno. Cosa accadrà adesso? - Non è facile ipotizzare quale dei due approcci abbia, oggi, più possibilità di prevalere, sappiamo però che, anche se entrambi trovano rappresentanza all’interno del governo, il ministro della Giustizia in carica, Alfonso Bonafede del Movimento 5 stelle, pare essere più vicino alla posizione di Travaglio che a quella di Lerner. Il problema delle carceri, in ogni caso, non sembra essere soltanto quello del sovraffollamento, ma più in generale sembrano strutturalmente poco adeguate a un periodo pandemico. Le carceri, infatti, rientrano nella categoria delle cosiddette istituzioni totali, come le Rsa e i Centri per l’immigrazione, tutte strutture messe in crisi dalle infezioni da Covid-19. Al momento, comunque la si pensi sulle possibili soluzioni, il rischio è che situazioni come quella di Angelo Esposito, cardiopatico e asmatico, recluso dal 10 gennaio scorso in una cella insieme ad altre 14 persone in uno spazio di circa 20 metri quadrati con un solo bagno e una sola finestra, rimangano inaffrontate. Sos Covid in carcere. Contagi in aumento tra i detenuti di Giacomo Galeazzi La Stampa, 12 dicembre 2020 I sindacati della Polizia penitenziaria lanciano l’allarme. Superati i mille casi di positività negli istituti di pena. Allarme Covid dietro le sbarre. “In controtendenza rispetto all’andamento del virus nel Paese, salgono i contagi da coronavirus fra i detenuti, tra i quali si contavano alla data di ieri sera ben 1.017 positivi, secondo i dati censiti dall’ufficio attività ispettiva e di controllo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”, avverte Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-pa Polizia penitenziaria, spiegando invece che “continua a calare il numero degli affetti da Covid-19 negli operatori, che si attestava, sempre alla data di ieri sera, a 852 positivi (il Dap non fornisce più, però, il dato sugli operatori sanitari contagiati). Quest’ultima circostanza, peraltro, sembra confermare una tendenza inversa fra popolazione libera e detenuta”. La mappa del contagio negli istituti penitenziari - La situazione complessiva, secondo i sindacati di polizia penitenziaria, “considerata anche l’assoluta prevalenza del numero degli asintomatici, è ancora sotto controllo, ma la propagazione del virus non si arresta e, anzi, sembra aumentare fra i detenuti a dispetto di ciò che avviene nel Paese e, in questa fase, anche fra gli operatori”. Per quanto riguarda appunto i detenuti, destano “particolare preoccupazione”, afferma ancora De Fazio, i “focolai di Trieste (85), Sulmona (83), Milano Opera (79), Bologna (64), Monza (57), Busto Arsizio (56), Tolmezzo (54) e, in ragione della contenuta dimensione del carcere, anche Lucera (36). Fra gli operatori, invece, il numero più elevato di contagiati continua a registrarsi a Napoli Secondigliano (50)”. Misure necessarie - Tutto questo, prosegue il leader della Uilpa Pp, “deve indurre non solo a continuare a tenere alta la guardia, ma soprattutto ad adottare per tempo misure ulteriori pure per contenere la preannunciata, e ormai certa secondo la comunità scientifica, terza ondata del contagio, considerando anche la circostanza che in carcere, fra i detenuti, non sembra attenuarsi la seconda: sarebbe secondo noi utile e interessante provare a calcolare l’indice di contagio (Rt) in carcere e soprattutto, al di là della meritoria opera, pur con qualche eccezione territoriale, del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Perciò, sostiene De Fazio, urgono “interventi governativi che muovano principalmente verso tre direttrici: deflazionamento della densità detentiva, potenziamento e migliore equipaggiamento della Polizia penitenziaria e rafforzamento del servizio sanitario espletato in carcere”. Vaccino anti-Covid, i detenuti non sono tra le categorie prioritarie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 dicembre 2020 Vaccino anti-Covid, il presidente dei Garanti territoriali Stefano Anastasìa: i detenuti non ci sono tra le categorie prioritarie nel piano vaccinale. Nel momento in cui divampano nuovi focolai all’interno dei penitenziari, l’emergenza Covid 19 nelle carceri diventa sempre più drammatica. Ora è la volta del carcere Rocco D’Amato di Bologna, dove attualmente risultano 64 detenuti positivi al Covid, tra i quali 3 sono finiti in ospedale. Nonostante le accortezze, che rispetto alla prima ondata sono migliorate, qualcosa però non avrebbe funzionato a causa di una possibile avvenuta sottovalutazione nei confronti di un detenuto della sezione D del secondo piano: avrebbe avuto dei sintomi che sarebbero stati sottovalutati dal medico e solo dopo giorni, grazie all’insistenza dei compagni di sezione, gli avrebbero fatto il tampone con esito positivo. Il condizionale è d’obbligo visto che per ora si tratta soltanto di ipotesi denunziata tramite un esposto in Procura effettuato da alcuni detenuti del carcere Bolognese, finiti tutti in quarantena. L’accaduto in un esposto - Il Dubbio ha potuto visionare l’esposto sottoscritto da un detenuto e dove ha segnalato, con nome e cognome, altri reclusi pronti a testimoniare l’accaduto. Tutto sarebbe iniziato a fine novembre quando un detenuto, da Bologna, è stato trasferito in un altro Istituto penitenziario. Dopo il trasferimento, il suo compagno di cella ha cominciato a sentirsi male. Difficoltà a respirare, febbre e tosse. A quel punto ha chiesto aiuto ai detenuti di sezione e agli agenti, i quali l’hanno prontamente portato dal medico. Quest’ultimo, secondo quanto riportato nell’esposto, dopo averlo visitato avrebbe concluso che si trattava di una semplice influenza, tenendo conto che il suo compagno di cella trasferito era negativo al tampone. A quel punto i compagni di sezione hanno cominciato a fare pressione affinché gli fosse fatto il tampone. Anche perché, nei suoi spostamenti in carcere pe fare i colloqui con gli avvocati, sarebbe entrato in contatto con altri detenuti di altra sezione che erano risultati infetti dal Covid. Ma nulla di fatto. Eppure, di giorno in giorno, secondo quanto denunciato, il detenuto sarebbe peggiorato. Solo il 9 dicembre, a distanza quindi di quasi dieci giorni, sono stati effettuati tamponi a tutta la sezione riscontrando la positività del detenuto. Se tutto sarà riscontrato, sarebbe paradossale una sottovalutazione da parte del medico nel momento in cui, in altre carceri, sono esplosi consistenti contagi. Perché non fare il tampone visto i sintomi che il recluso presentava? Ovviamente, sarà la procura ad accertare i fatti e una eventuale negligenza da parte dei medici. 1.017 detenuti positivi al Covid 19 - Nel frattempo i dati generali non sono riassicuranti. Secondo l’ultimo aggiornamento del Dap, risalente a giovedì, si è giunti a 1017 detenuti positivi al Covid 19. “La propagazione del virus non si arresta - denuncia Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria -, anzi, sembra aumentare fra i detenuti a dispetto di ciò che avviene nel Paese”. Prosegue sempre il leader della Uilpa: “Questo deve indurre non solo a continuare a tenere alta la guardia, ma soprattutto ad adottare per tempo misure ulteriori pure per contenere la preannunciata, e ormai certa secondo la comunità scientifica, terza ondata del contagio, considerando anche la circostanza che in carcere, fra i detenuti, non sembra attenuarsi la seconda”. I detenuti non ci sono tra le categorie prioritarie della campagna vaccinale - A ciò si aggiunge la denuncia del presidente dei garanti territoriali Stefano Anastasìa che ha fatto notare la mancanza dei detenuti nell’elenco tra le categorie prioritarie della campagna vaccinale contro il Covid-19. Il Garante Anastasìa ha sottolineato il fatto che in questi mesi stanno vivendo la più dura delle carcerazioni, impediti in gran parte delle attività e dei contatti con l’esterno. “Le carceri - osserva il Garante -, si dice, sono come le Rsa. D’altronde, se l’età media è più bassa, la diffusione delle patologie pregresse è certamente importante e le condizioni igienico-sanitarie degli istituti di pena sono certamente peggiori di quelle delle Residenze sanitarie assistenziali. E allora perché i detenuti non sono compresi tra le categorie prioritarie della campagna vaccinale?” A ciò si aggiunge l’inconsistenza delle misure deflattive del decreto Ristori. Da ricordare che c’è Rita Bernardini del Partito Radicale giunta al 32esimo giorno dello sciopero della fame, assieme a più di 4000 detenuti che hanno aderito all’azione nonviolenta. Questo per chiedere al governo e Parlamento di adoperarsi per inserire misure più efficaci per alleggerire la popolazione penitenziaria. Ieri, assieme a Irene Testa, si è recata al Quirinale per consegnare una sua lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per metterlo non solo a conoscenza della sua azione non violenta, ma anche dei dati sulle condizioni illegale delle carceri sulla diffusione del Covid. Ma c’è un muro, innalzato dal M5s e dal silenzio del guardasigilli, che sembra insormontabile. Vaccini anti-covid: che strano, si sono dimenticati il carcere di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 12 dicembre 2020 La denuncia dell’Osservatorio dell’Unione camere penali e del garante dei detenuti del Lazio, Anastasia. I numeri del contagio restano alti. Un piano operativo per la vaccinazione anti-Covid dei detenuti, della polizia penitenziaria e del personale amministrativo e socio-sanitario in servizio nelle circa 200 carceri italiane. A invocarlo è l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane (Ucpi) che, in un documento ufficiale, stigmatizza l’inerzia delle istituzioni sul fronte della tutela sanitaria di chi vive e lavora in prigione. Una denuncia condivisa da Stefano Anastasia, garante dei detenuti della Regione Lazio, che si chiede: “Come mai i detenuti e le detenute non sono elencati tra le categorie alle quali l’antidoto al Covid-19 sarà somministrato con priorità?”. L’emergenza negli istituti di pena è conclamata dai numeri. L’ultimo report stilato dall’Osservatorio Carcere sulla base dei dati forniti dal Ministero della Giustizia, infatti, parla di 958 detenuti positivi al coronavirus di cui 868 asintomatici, 52 sintomatici gestiti internamente e 38 ricoverati in ospedale. Nella polizia penitenziaria e nel personale amministrativo, invece, le persone che hanno contratto il Covid sono rispettivamente 810 e 72. Eppure di un piano vaccinale per detenuti e personale non c’è ancora traccia. Tra le categorie alle quali l’antidoto al Covid sarà somministrato prioritariamente figurano medici e infermieri, ultrasessantenni, malati cronici, pazienti affetti da più patologie, addetti ai servizi essenziali come insegnanti e forze dell’ordine e chiunque viva in condizioni nelle quali non possa essere garantito il distanziamento fisico. A nessuno, però, interessano i detenuti, nonostante questi siano particolarmente esposti al Covid a causa del sovraffollamento delle celle, che ostacola qualsiasi forma di distanziamento, e delle pessime condizioni igieniche di molti penitenziari, che favorisce la diffusione delle malattie. “È ora che il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria stilino un piano per la vaccinazione delle oltre 100mila persone che vivono e lavorano in carcere e, oltre a essere personalmente a rischio, sono potenziali diffusori del virus”, ammonisce il penalista Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Ucpi. Opinione condivisa da Stefano Anastasia: “I detenuti - spiega il garante laziale - stanno vivendo la più dura delle carcerazioni, impediti in gran parte delle attività e dei contatti con l’esterno, finanche con i familiari che possono vedere di persona una volta al mese e separati da una barriera di plexiglas. Le carceri, si dice, sono come le residenze sanitarie assistenziali. Ma se l’età media è più bassa, la diffusione delle patologie pregresse è senz’altro importante e le condizioni igienico-sanitarie degli istituti di pena sono certamente peggiori di quelle delle Rsa. Perciò bisogna intervenire subito”. Appello per il vaccino Covid-19 ai detenuti e al personale dell’amministrazione penitenziaria camerepenali.it, 12 dicembre 2020 Pubblichiamo il documento della Giunta e dell’Osservatorio Carcere affinché, una volta disponibile il vaccino anti Covid 19, sia data la priorità di somministrazione anche ai detenuti e coloro che lavorano nella amministrazione penitenziaria. In allegato il documento. Il vaccino sembra stia per giungere in Italia anche se, quando arriverà, non sarà disponibile per tutti. Sarà necessario stabilire delle priorità. Da quello che apprendiamo dai media, la precedenza sarà data, giustamente, ai cittadini più vulnerabili e più esposti. Tra questi, i lavoratori del settore sanitario, gli ultra sessantenni, i malati cronici, i pazienti con più malattie, i lavoratori dei servizi essenziali, come insegnanti, forze dell’ordine, in pratica chiunque viva in situazioni dove non possa essere garantito il distanziamento fisico. Non abbiamo letto, né sentito - augurandoci di essere stati distratti - tra i destinatari del vaccino le persone detenute che, da un punto di vista sanitario, erano già vulnerabili ben prima dell’arrivo del Covid 19 e oggi vivono in uno stato di esposizione “naturale” - o meglio “innaturale” - al virus, per il ridottissimo spazio a loro disposizione, nella maggior parte dei casi, estremamente carente dal punto di vista igienico e, quindi, foriero di ogni tipo di malattia. Donne e uomini affidati allo Stato, che deve punirli sì, ma anche “rieducarli”, salvaguardandone l’integrità fisica, assicurando loro piena ed effettiva inclusione nelle misure adottate all’esterno per risolvere, in via definitiva, il flagello virale. Nemmeno il personale dell’amministrazione penitenziaria che, per ragioni di lavoro, è a diretto contatto con la comunità ristretta, sembra essere nell’elenco delle priorità. Dai dati regionali che pervengono all’Osservatorio Carcere dell’Unione dalle Camere Penali, da quelli locali e nazionali che, finalmente, il Ministero della Giustizia ha reso pubblici, l’infezione si sta diffondendo in maniera esponenziale e a macchia di leopardo in tutti gli istituti di pena. Al 7 dicembre scorso, i positivi tra i detenuti erano 958 (868 asintomatici, 52 sintomatici gestiti internamente, 38 gestiti in strutture ospedaliere), tra il personale di polizia penitenziaria 810 (771 in degenza presso il proprio domicilio, 25 presso le caserme, 14 presso strutture ospedaliere), tra il personale amministrativo e la dirigenza 72 (71 in degenza presso il domicilio, 1 in struttura ospedaliera). Va anche ricordato che il pianeta carcere vive di continui contatti con l’esterno. Per quanto siano stati eliminati o comunque limitati i colloqui in presenza tra detenuti e familiari, gli agenti di polizia penitenziaria devono necessariamente, in alcuni momenti, essere vicino ai detenuti e, spesso, in spazi angusti. Agenti che usciranno per tornare alle loro famiglie, con la paura e il concreto pericolo di poter diffondere il virus. La prevenzione all’interno degli istituti di pena risponde, pertanto, non solo al dovere di tutelare la salute dei detenuti, ma anche ad evitare micidiali focolai che possono minacciare, mettendola ancor più a dura prova, la comunità esterna. Senza tener conto della circostanza che il distanziamento personale in carcere è impraticabile e sono pochissimi gli istituti che possono consentire l’isolamento di chi ha contratto il virus. La politica e la stragrande maggioranza dei media ritengono che nei circa 200 istituti di pena italiani vi sia una sorta di extraterritorialità e che coloro che vivono all’interno delle mura - ristretti o comunque lavoratori liberi - non debbano essere presi in considerazione. Un mondo a parte di cui nessuno si vuole fare carico. Non ci meraviglia, pertanto, che nel dibattito sulle modalità di somministrazione del vaccino, il luogo dove vi sono le persone più vulnerabili e più esposte - dopo il personale sanitario e gli anziani chiusi nelle case di riposo - sia stato ignorato, ma ci auguriamo che la presa in carico avvenga in tempi brevi, nel rispetto di quel patto sociale rappresentato dalla nostra Costituzione. Attendiamo che il Ministro della Giustizia, unitamente al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, predisponga immediatamente il piano operativo per la vaccinazione dei detenuti e di tutti coloro che lavorano negli istituti di pena. Si tratta di oltre 100.000 persone, che vanno immediatamente protette perché quotidianamente a rischio personale e in quanto potenziali diffusori del virus. Ministero-Università di Napoli: intesa per la riqualificazione edilizia delle carceri di Antonella Barone gnewsonline.it, 12 dicembre 2020 Sono al via le attività di studio e progettuali previste dal protocollo d’intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia e il Dipartimento di Architettura (Diarc) dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. L’accordo, che rientra tra le collaborazioni promosse dall’Amministrazione con centri universitari per studi e ricerche nel settore dell’edilizia penitenziaria, è stato firmato da Massimo Parisi, direttore generale del personale e delle risorse del Dap, e da Michelangelo Russo, direttore del Diarc. Oggetto generale della convenzione l’analisi del patrimonio edilizio penitenziario e la proposta d’interventi per il suo recupero, anche in termini di manutenzione e trasformazione. Durante la prima fase del piano concordato tra i due enti saranno classificate le tipologie delle strutture penitenziarie esistenti, approfondita la conoscenza di materiali e tecniche costruttive adottate e dei percorsi di riqualificazione degli edifici. Dopo l’attività analitica e di studio, il Diarc si occuperà di definire linee guida per le possibili trasformazioni delle strutture, in collaborazione con l’ufficio coordinamento tecnico e gestione dei beni immobili della Direzione generale del Personale e delle risorse del Dap. Il protocollo ha durata annuale e, alla scadenza potrà essere rinnovato sulla base una relazione valutativa dei risultati raggiunti e degli obiettivi futuri. Mannino assolto; il processo trattativa traballa, ma spunta il pentito Riggio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 dicembre 2020 La sentenza della Cassazione è un’ulteriore tegola sul processo trattativa e sulle accuse nei confronti degli ex ufficiali dei Ros e di Marcello Dell’Utri. La trattativa Stato-mafia non c’è stata. La Cassazione, considerando inammissibile il ricorso presentato dai procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, ha sigillato la sentenza di assoluzione nei confronti dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino. L’accusa nei sui confronti si rifà all’articolo 338 del codice penale, ovvero “minaccia a corpo politico dello Stato”. Quella stessa accusa che è stata fatta nei confronti degli ex ufficiali dei Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, così come nei confronti dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Tutti loro, attualmente, stanno celebrando il processo d’appello. Calogero Mannino, come sappiamo, è l’unico degli imputati del processo sulla Trattativa Stato-mafia ad aver scelto il rito abbreviato. Che poi, tanto breve non è stato visto che sono passati quasi 7 anni per avere una sentenza definitiva. Con la sua assoluzione definitiva, compresa quella di Nicola Mancino nel primo grado del processo ordinario, di fatto la Prima Repubblica esce fuori dalla “Trattativa”. Accade così che si ritrovano sul banco degli imputati solo i carabinieri e i condannati definitivi per mafia, a incarnare l’avvio della trattativa fra Stato e Cosa nostra, svoltasi, secondo la sentenza di condanna, fra il 1992 e il 1993, giungendo al massimo ai primissimi mesi dell’anno successivo. In sostanza, rimane solo Dell’Utri che rappresenta la Seconda Repubblica. Ma è arrivato dopo. Secondo il teorema è Mannino ad aver dato l’avvio al patto sporco. Senza di lui rimangono i Ros che avrebbero agito, quindi, senza alcun mandato politico. Chiaro che qualche problema di logica emerge con tutta chiarezza. L’accusa nei confronti di Mannino - In realtà, entrambi le sentenze di assoluzione sono motivate non solo scagionando Mannino, ma anche decostruendo l’intero impianto del teorema trattativa. Perché? Basterebbe partire dall’accusa nei suoi confronti. Mannino, temendo che la mafia lo volesse morto, nei primi mesi del 1992 avrebbe cercato contatti con esponenti di apparati investigativi, affinché acquisissero informazioni da uomini collegati a Cosa nostra e si aprisse con i vertici della stessa organizzazione criminale la trattativa Stato-mafia, finalizzata a sollecitare eventuali richieste da parte di quest’ultima per far cessare la programmata attuazione della strategia omicidiario-stragista, già avviata con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, e che prevedeva l’eliminazione tra gli altri di vari esponenti politici e del governo, fra cui appunto lo stesso Mannino. Non solo. È stato accusato di avere esercitato, in epoca successiva, in relazione alle richieste frattanto ricevute da Cosa nostra, indebite pressioni, col fine di condizionare a favore dei detenuti mafiosi la concreta attuazione dei decreti applicativi del 41 bis, agevolando così lo sviluppo della trattativa Stato-mafia e quindi rafforzando il proposito criminoso di Cosa nostra di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista. Chi avrebbe fatto da ponte per la trattativa? Don Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo. Su spinta di Mannino, sarebbe stato agganciato dagli ex Ros per agevolare l’instaurazione di una comunicazione con i capi del sodalizio criminale, finalizzato appunto a sollecitare loro eventuali richieste per fare cessare la strategia stragista. Decostruita la trattativa Stato-mafia - Tutto chiaro, no? Nient’affatto. I giudici, assolvendo Mannino, hanno anche spiegato - con fatti e dati in mano - cosa sia in realtà accaduto. Raccontiamoli. Quando nel ‘92 imperversava l’attacco stragista deliberato dai capi corleonesi di Cosa nostra, dopo che era stato consumato l’omicidio di Salvo Lima e anche la strage in cui aveva perso la vita Giovanni Falcone, il capitano De Donno e il suo superiore colonnello Mori pensarono di andarsi a rivolgersi al politico mafioso corleonese Vito Ciancimino, i cui affari e storici legami con Riina e Provenzano erano ad essi noti in ragione della loro professione. I due ufficiali proposero a Ciancimino una interlocuzione diretta alla cattura dei latitanti. Tale colloquio con Vito Ciancimino nacque da una spontanea e indipendente iniziativa dei Ros e abortì sul nascere, essendosi interrotta in uno stadio in cui si era arrivati a discutere con Ciancimino della mera ipotesi di un contatto con i capi corleonesi, e avrebbe avuto come reale finalità l’acquisizione di informazioni utili al progresso delle indagini, la cattura dei grossi latitanti, senza alcuna concessione o compromesso con l’organizzazione criminale. Tale iniziativa, in realtà, era il segreto di pulcinella. Secondo i giudici che hanno assolto Mannino, dei contatti tra i Ros e Ciancimino ne erano a conoscenza lo stesso Borsellino, la dottoressa Liliana Ferraro e anche Luciano Violante. Senza contare che nel 1993, appena se ne andò l’allora capo procuratore Pietro Giammanco, di questi contatti ne venne a conoscenza anche la Procura di Palermo. Sconfessata l’unica “prova” - Ma è stata decostruita anche l’unica “prova” dell’avvenuta trattativa. Ovvero il mancato rinnovo del 41 bis a centinaia di detenuti. La vicenda - come ha chiarito il collegio della corte d’Appello presieduto da Adriana Piras, a latere Massimo Corleo e Maria Elena Gamberini - è originata dall’invio della nota del 29 ottobre, finalizzata ad aprire - dopo la sentenza della Corte costituzionale che invitava il governo a valutare il 41 bis caso per caso - un’articolata istruttoria con le autorità giudiziarie e di polizia competenti, per acquisirne i relativi pareri. Così avvenne. Nelle motivazioni di assoluzione si evidenziano diversi dati oggettivi che smentiscono la tesi basata sul fatto che l’omessa proroga dei 336 decreti applicativi del 41 bis sia stato effetto della cosiddetta trattativa. Punto primo. Tale mancata proroga era stata posta in essere dall’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, il quale giustamente non è stato indagato per questo. Punto secondo. Se fosse stato frutto della “trattativa”, non si capisce quale vantaggio avrebbe avuto Cosa nostra a fronte delle cosiddette “stragi di continente”. I giudici hanno anche sottolineato che dei 336 detenuti non sottoposti al rinnovo, soltanto 18 appartenevano alla mafia (a sette dei quali, peraltro, nel giro di poco tempo, nuovamente riapplicato). Dunque gli aderenti a Cosa nostra erano pari a meno del 5,5% di tutti i detenuti con decreto in scadenza. Ma non solo. I giudici scrivono che “né dalla Procura di Palermo, all’uopo interpellata, né dalla Dia, né dalla Dna, né dalle altre forze politiche richieste di parere, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro”. Arriva in soccorso il pentito Pietro Riggio - In realtà, durante il processo d’appello principale, quello presieduto dal giudice Angelo Pellino, grazie al susseguirsi di varie deposizioni sono state già chiarite molte cose. A partire dalla mancata proroga del 41 bis fino ai colloqui dei Ros con Ciancimino. A ciò si aggiunge la sentenza di assoluzione nei confronti di Mannino sugellata dalla Cassazione che, di fatto, entra nel processo principale. Tutto l’impianto accusatorio sembra, appunto, franare. D’altronde a questo serve un processo: deve occuparsi di fatti, illuminando le ombre. E proprio mentre tutto sembra dipanarsi, ecco che giunge come un fulmine a ciel sereno il pentito Riggio, ex agente penitenziario diventato mafioso di rango. Con la sua testimonianza, dove fa cambiare in corso d’opera la tesi originale visto che mette in mezzo addirittura la Dia e i sevizi segreti libici, l’accusa nei confronti degli ex Ros e Dell’Utri sembrerebbe riacquistare linfa vitale. Eppure, le sue testimonianze - vere o meno - sono tutte de relato. Potranno mai avere valore, visto anche i racconti illogici che sono trasparsi fin dai primi verbali di interrogatorio? Saranno i giudici della Corte d’appello a emettere l’ardua sentenzia. Calogero Mannino: “Da trent’anni difendo la mia innocenza” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 12 dicembre 2020 Intervista a Calogero Mannino dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato la sua assoluzione in appello nel processo stralcio sulla trattativa Stato-mafia. “Innanzitutto voglio ringraziare Nostro Signore e lo Spirito Santo che illumina gli uomini alla ricerca della verità”. Calogero Mannino lo ripete più volte. È stato definitivamente assolto dall’accusa di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato nel processo stralcio sulla trattativa Stato mafia. I giudici della Sesta sezione della Corte di Cassazione hanno dichiarato ieri inammissibile il ricorso della Procura generale di Palermo, confermando quindi la sentenza di assoluzione del processo di Appello, emessa il 22 luglio dello scorso anno. L’ex politico della Dc, difeso dall’avvocato Grazia Volo, era già stato assolto in primo grado e in appello. Contattato telefonicamente, la voce non riesce a nascondere l’emozione. Presidente Mannino, è finita... È stata una lunga via crucis durata trent’anni. Per i giudici la tesi della Procura di Palermo non era solo “infondata”, ma anche “totalmente illogica e incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”... Sono convinto che in Italia ci sia ancora speranza perché ci sono magistrati liberi che procedono secondo le regole e rendono testimonianza di verità. Dice così perché è stato assolto? Qualcuno potrebbe pensare che dico ciò solo perché ho trovato negli anni e in diversi processi e gradi di giudizio magistrati che mi hanno assolto, fino alla Cassazione che si era pronunciata altre due volte sempre in favore della mia innocenza. Invece, pur essendo evidente il gravissimo problema del funzionamento della giustizia in Italia e in particolare del funzionamento di alcune Procure o meglio di gruppi di magistrati all’interno di queste, in questo Paese esistono ancora magistrati liberi dai condizionamenti. Magistrati che, ripeto, procedono secondo le regole e rendono testimonianza di verità a chi sopporta il processo, soprattutto una testimonianza di lealtà alle istituzioni. Su questo aspetto ci torniamo dopo. Parliamo dei suoi processi... Almeno in sede storica bisognerà affrontare il problema di 30 anni di processi con ben oltre 10 sentenze tutte di assoluzione. Hanno tenuto inchiodato me a un processo unico e alla stessa narrazione menzognera che dal 1991, con salse diverse, mi viene rovesciata addosso con una ossessione persecutoria che pure dovrà trovare delle spiegazioni. Ma non ho tentazioni polemiche in questo momento. Onorevole Mannino, lei aveva scelto l’abbreviato, a differenza dei suoi coimputati. Come mai questa scelta? Nel 2012 avevo scelto di essere processato con il rito abbreviato. Rito che si basa solo sugli elementi di prova portati dall’accusa. Ero certo dalla mia innocenza. Nel 2015 sono stato assolto in udienza preliminare per non aver commesso il fatto. La Procura aveva presentato appello. I pm di Palermo sono convinti da sempre che io abbia nel corso della mia vita intessuto rapporti con Cosa nostra. È una narrazione, come ho più volte detto, “funambolica” che si è trascinata per anni. Crede che ciò sia opera di magistrati ideologizzati? Che esista un teorema? Qui è diverso. Quando si parla di magistrati ideologizzati si pensa sempre a quelli aderenti a Magistratura democratica. Io, vorrei ricordarlo, sono stato amico personale del dottor Marco Ramat (scomparso nel 1985, fra i fondatori di Md, membro del Csm e militante nel Partito comunista, ndr). Lui lavorava a Firenze dove c’era un centro politico in cui era molto attivo e che ho anche frequentato. Quindi l’ideologia non c’entra? Lei democristiano contro le toghe di sinistra? Guardi, da ministro della Marina mercantile feci una legge per la difesa del mare. Bene, come presidente della commissione che doveva redigere il testo misi il dottor Gianfranco Amendola, un altro storico esponente di Md, all’epoca uno dei pretori “d’assalto”, con grande scandalo di tutti. Mi vuole dire che con i magistrati di Md ha sempre avuto ottimi rapporti? Sì. In questo processo, invece, c’è chi ha fatto l’antimafia per “giocarci”. Quale bilancio si sente di fare Calogero Mannino? Questa sentenza segna la fine della “storia d’Italia” scritta da Giancarlo Caselli e Antonio Ingroia. Un fine definitiva. I giudici hanno riconosciuto il suo impegno nella lotta alla mafia... Io mi sono sempre adoperato per il contrasto alla mafia. È emerso dalla sentenza assolutoria che fossi una vittima designata della mafia, proprio a causa della mia specifica azione di contrasto a Cosa nostra quale esponente del governo del 1991. E qui si arriva alla tesi della trattativa Stato-mafia... I magistrati hanno riconosciuto la mia estraneità a questa cosiddetta trattativa Stato- mafia ed hanno ricostruito la lunga fase della mia vita politica, dal 1979 al 1992, che è stata caratterizzata da un impegno di contrasto alla criminalità e dalla piena mia adesione alla linea che lo Stato andava apprestando per affrontare il problema della mafia. I pm di Palermo, però, non le hanno mai creduto. Anzi... I pm di Palermo sono convinti da sempre che io abbia nel corso della mia vita intessuto rapporti con Cosa nostra. Solo la mia forza d’animo mi ha aiutato ad andare avanti in tutti questi anni. Il tema del contrasto a Cosa nostra, lo sottolineo con forza ancora una volta, è stato un punto qualificante della mozione presentata dalla Dc alla fine del 1979, poi discussa ed approvata in Parlamento il 2 febbraio 1980. In quella mozione si approvavano le conclusioni della Commissione antimafia. Nessuno può smentirlo. Servirebbe, adesso, una analisi lucida e senza preconcetti di quella stagione politica dove lei, onorevole Mannino, è stato uno dei protagonisti insieme a Rino Nicolosi e all’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella... Non soltanto si è fatta una vittima innocente, ed io non ho mai voluto né voglio assumere animi vittimistici, ma, al di là di questo esito personale, si è tentato di consolidare una narrazione che falsa tutta la storia politica della Sicilia e dell’Italia per due decenni. Questi processi hanno contribuito a spazzare via la Dc... Questo è il vero problema storico politico, tralasciando la mia assoluzione, che rimane da affrontare quando, speriamo presto, saremo usciti dalla attuale pandemia. È ora di difendersi non “nel” processo ma “dal” processo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 12 dicembre 2020 Calogero Mannino è stato assolto 14 volte. Oggi ha più di 80 anni, quando è diventato preda ne aveva 50. Aveva ancora una vita politica davanti che è andata distrutta. Il processo è già di per sé tortura. Calogero Mannino esce definitivamente dalla scena giudiziaria dopo trent’anni, trascinando con sé il castello di sabbia del processo “Stato-mafia”, ventiquattr’ore dopo la fine dei tormenti durati sette anni per Nunzia De Girolamo. Due imputati dal comportamento esemplare, secondo il canone di chi crede nella giustizia e nella lineare difesa dentro il processo. Pure tutti e due, e tanti prima di loro, compresi quelli che alla fine sono stati condannati, come Ottaviano Del Turco che di “giustizia” sta morendo, sono stati uccisi molto prima delle sentenze, negli anni di tortura loro erogati prima del processo e anche dal processo stesso. Nel mondo dei Predatori, che non danno scampo. Se c’è la preda, c’è anche il predatore. Proprio come non esisterebbe la caccia se non ci fossero i cacciatori. Ma non si pensi che sia predatore solo chi tiene la propria vittima in una stanza per venti ore. Lo è anche chi tiene sotto sequestro la vita di una persona per anni, magari sette o magari anche trenta. A volte la vita si spegne prima che il predatore abbia terminato l’opera, in un’estrema forma di autodifesa, come ha fatto Enzo Tortora. Altre volte la mente e il corpo della preda si chiudono in un bozzolo di straniamento, una sorta di sedazione che tiene lontano dal dolore, come sta facendo Ottaviano Del Turco. E tutti gli altri? Tutti gli altri sono costretti ad aspettare. Aspettare che il finanziere che ha svegliato all’alba te e la tua famiglia finisca la perquisizione. Aspettare che dai palazzi di giustizia cessino di uscire le carte a valanga destinate a planare nelle edicole e nei tubi catodici. Aspettare che i tuoi figli possano tornare a scuola senza essere colpiti da sguardi peggiori di lame. Aspettare che i vicini di casa smettano di evitarti. E poi aspettare tutto: gli interrogatori, il rinvio a giudizio, il processo, la sentenza. Aspettare quanto tempo e quanti processi? Calogero Mannino è stato assolto quattordici volte. Oggi ha più di ottant’anni, quando è diventato preda ne aveva cinquanta. I cinquantenni oggi vengono spesso considerati ragazzi, chi di loro è entrato nel mondo politico ritiene di avere molto tempo davanti a sé prima di pensare alla pensione: Giuseppe Conte ha 56 anni, Zingaretti 55, i due giovanotti Renzi e Salvini rispettivamente 45 e 47. Provi ciascuno di loro a chiudere gli occhi e a immaginarsi fra trent’anni. Provino a pensare di trascorrerli nel modo che abbiamo sopra descritto, con uno stress continuo che non ti fa dormire la notte, che a tratti è vera paura, perché la vittima non può che temere il suo predatore. Predatore non è la singola persona. Predatore è il contesto. Troppo facile pensare che la perfidia di un pubblico ministero non vada mai a braccetto con un giudice delle indagini preliminari dopo essersi già coricata con un ufficiale giudiziario ed essersi poi accompagnata a un cronista giudiziario o a un direttore di giornale. Era o no predatore, per esempio, quel contesto che si era creato a Palermo quando il direttore del Fatto Quotidiano era sceso appositamente in Sicilia per “fare il guitto” con uno spettacolo teatrale offensivo e ridicolo, per mettere in berlina un imputato mentre tutti i pm cosiddetti “antimafia” erano seduti in prima fila e, come dice Mannino, parevano quasi aver tratto ispirazione, “a parte le sgrammaticature” dallo spettacolo per scrivere la requisitoria? Era o no predatore il contesto vissuto da Nunzia De Girolamo, quando subì una registrazione clandestina nella casa di suo padre dove si svolgeva una riunione politica, in seguito guardata con sospetto, che le costò le dimissioni da ministro e poi un rinvio a giudizio e un pm d’aula che, contraddicendo il suo collega che ne aveva chiesto l’archiviazione, ha auspicato che lei dovesse passare otto anni e passa della sua vita futura all’interno di un carcere? La storia di Calogero Mannino, che oggi del suo predatore dice “Hanno distrutto un Paese”, è storia di caccia grossa. Il contesto di predazione risale addirittura ai tempi dei reati di mafia a Palermo. All’inizio si chiamava “Sistemi criminali”, un fiume carsico che andò dentro e fuori dagli uffici giudiziari, basato su un teorema che vedeva insieme un gruppo eterogeneo di soggetti che andavano dalla massoneria deviata a Cosa nostra, eversione nera e corpi dello Stato, che avrebbero messo in atto un tentativo di destabilizzazione del Paese. Storia folle che non poteva che trovare nella follia della persona più inattendibile che sia mai circolata nelle aule giudiziarie, Massimo Ciancimino, il proprio padrino, il sigillo del contesto, il processo “Stato-mafia”, la Trattativa, la regina dei contesti di predazione. Il patto scellerato che nel corso di tutti gli anni Novanta avrebbe unito ai boss di Cosa Nostra persino un politico come Calogero Mannino che della lotta alla mafia aveva fatto una delle ragioni di vita. L’ex ministro democristiano si è ribellato al progetto dei predatori di processarlo insieme ai mafiosi e ha scelto un rito alternativo e solitario. Mentre altre persone perbene venivano nel frattempo condannate in primo grado (a dimostrazione che nei contesti predatori non esistono solo i pm), lui è stato sempre assolto. E ha avuto la soddisfazione di leggere nelle motivazioni dei giudici d’appello che le indagini preliminari avevano costruito un castello fatto di “incongruenze”, “inconsistenza” e “illogicità” dell’accusa. Il castello è ormai franato, dopo che la cassazione e lo stesso rappresentante dell’accusa hanno ridicolizzato l’estremo tentativo dei procuratori generali Fici, Barbiera e Scarpinato. I quali non avevano più argomenti per il ricorso, se non violando il principio della doppia conforme che consente, in presenza di due sentenze di assoluzione dell’imputato, alla pubblica accusa di ricorrere in cassazione solo con argomenti inoppugnabili. Ed erano quindi ricorsi a una sorta di trucco, chiedendo ai supremi giudici di dichiarare l’illegittimità costituzionale di quella legge che a loro parere legava le mani all’accusa. Volevano il processo eterno. Se trent’anni vi sembran pochi… Vorrebbero processi eterni tutti i predatori del contesto. Ecco perché non è più sufficiente difendersi NEL processo. Il processo, solo in quanto esiste, è già sofferenza e tortura. È un insieme di atti predatori che lasciano la vittima in una continua spasmodica attesa, come l’animale che se ne sta accucciato nella speranza che il cacciatore non lo veda, che il cane non ne riconosca l’odore o che arrivi una pioggia a cancellarne le tracce. È ora che si cominci a imparare a difendersi anche DAL processo. Non per sottrarsi alla giustizia, ma per denunciare il Predatore. Che non è solo quello che tiene la sua vittima prigioniera in una stanza per venti ore. Ma anche quello che sequestra la tua vita per trent’anni. O anche per un solo giorno. Ecomafie: crescono i reati del 23%, affari dei clan per 20 miliardi di Antonio Maria Mira Avvenire, 12 dicembre 2020 I preoccupanti dati dell’annuale dossier di Legambiente. Crescono i traffici di rifiuti ed è boom dell’abusivismo edilizio. Aumentano gli illeciti al Nord e in particolare in Lombardia. È boom dell’illegalità ambientale. Quattro reati accertati ogni ora nel 2019. Rifiuti sequestrati pari a una colonna di 95mila tir lunga 1.293 chilometri. Ventimila nuove costruzioni abusive, il 17,7% del totale delle nuove costruzioni. E a crescere sono anche le regioni del Nord a conferma che ormai questa criminalità non conosce confini. Disastri ambientali e ricchi affari. Il business potenziale complessivo dell’ecomafia, è stimato in 19,9 miliardi di euro per il solo 2019, e dal 1995 a oggi ha toccato quota 419,2 miliardi. A spartirsi la torta, insieme ad imprenditori, funzionari e amministratori pubblici collusi, sono stati 371 clan (3 in più rispetto all’anno prima), attivi in tutte le filiere: dal ciclo del cemento a quello dei rifiuti, dai traffici di animali fino allo sfruttamento delle energie rinnovabili e alla distorsione dell’economia circolare. È decisamente preoccupante il “Rapporto ecomafia 2020” di Legambiente presentato solo oggi a causa della pandemia. I numeri degli affari a danno dell’ambiente, del territorio e della salute sono impressionanti: 34.648 i reati accertati con un incremento del 23,1% rispetto al 2018. Campania, Puglia, Sicilia e Calabria le regioni dove si commettono più reati ambientali, ben il 44,4%. E non è una novità, visto che si tratta delle regioni a tradizionale e asfissiante presenza mafiosa. Ma suona il campanello per la Lombardia che colleziona più arresti per reati ambientali, 88 in tutto l’anno, più di Campania, Puglia, Calabria e Sicilia messe insieme, che si fermano a 86 (secondo il Lazio con 62). In testa gli illeciti nel ciclo del cemento con 11.484 (+74,6% rispetto al 2018), che superano quelli contestati nel ciclo di rifiuti che arrivano a 9.527 (+10,9%). Impennata anche dei reati contro la fauna arrivati a 8.088 (+10,9%) e quelli connessi agli incendi boschivi con 3.916 illeciti (+92,5% rispetto al 2018). E nella Terra dei Fuochi, nel 2019 sono tornati a crescere di circa il 30% rispetto al 2018 i roghi censiti sulla base degli interventi dei Vigili del fuoco, arrivati quasi a quota 2mila. E anche nel 2019 il ciclo dei rifiuti resta il settore maggiormente interessato dai fenomeni più gravi di criminalità ambientale: sono ben 198 gli arresti (+112,9%) e 3.552 i sequestri con un incremento del 14,9%. A guidare la classifica per numero di reati è la Campania, con 1.930 reati, seguita a grande distanza dalla Puglia (835) e dal Lazio, che con 770 reati sale al terzo posto di questa classifica, scavalcando la Calabria. Per quanto riguarda le inchieste sui traffici illeciti di rifiuti: dal primo gennaio 2019 al 15 ottobre del 2020 ne sono state messe a segno 44, con 807 persone denunciate, 335 arresti e 168 imprese coinvolte. Ma a preoccupare è la persistenza dell’abusivismo edilizio. “La causa - spiega Enrico Fontana, responsabile Osservatorio nazionale ambiente e legalità Legambiente - è duplice: le mancate demolizioni da parte dei Comuni e i continui tentativi di riproporre condoni edilizi da parte di Regioni, ultima in ordine di tempo la Sicilia, leader e forze politiche. Per questo diventa indispensabile, oggi più che mai, lanciare una grande stagione di lotta all’abusivismo edilizio, prevedendo in particolare un adeguato supporto alle Prefetture nelle attività di demolizione, in caso di inerzia dei Comuni, previste dalla legge 120/2020; la chiusura delle pratiche di condono ancora giacenti presso i Comuni; l’emersione degli immobili non accatastati”. E c’è allarme per gli investimenti in appalti e opere pubbliche, anche alla luce delle ingenti risorse in arrivo col Next generation Eu. Non solo un rischio. In tutti i casi di scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose (29 quelli ancora oggi commissariati, dei quali ben 19 sciolti soltanto nel 2019) il principale interesse dei clan è proprio quello di condizionare gli appalti di ogni tipo, dalla manutenzione delle strade alla gestione dei rifiuti. E a crescere è, non a caso, anche il numero di inchieste sulla corruzione ambientale. Quelle rilevate da Legambiente dal primo giugno 2019 al 16 ottobre 2020 sono state 134, con 1.081 persone denunciate e 780 arresti (nel precedente Rapporto le inchieste avevano toccato quota 100, con 597 persone denunciate e 395 arresti). Il 44% ha riguardato le quattro regioni a tradizionale insediamento mafioso, con la Sicilia in testa alla classifica (27 indagini). Da segnalare, anche in questo caso, il secondo posto della Lombardia, con 22 procedimenti penali, seguita dal Lazio (21). Il “virus” dell’ecomafia non si arresta né conosce crisi. Ma ci sono anche buone notizie. Anche la pressione dello Stato non si arresta. Si confermano la validità delle leggi sugli ecoreati e contro il caporalato. Con il primo provvedimento, entrato in vigore a fine maggio del 2015, l’attività svolta dalle Procure, secondo i dati elaborati dal ministero della Giustizia, ha portato all’avvio di 3.753 procedimenti penali con 10.419 persone denunciate e 3.165 ordinanze di custodia cautelare emesse. Grazie alla legge sul caporalato, nel 2019 le denunce penali, amministrative e le diffide sono state complessivamente 618, contro le 197 del 2018 (+313,7%) e sono più che raddoppiati gli arresti, passati da 41 a 99. E sempre nel settore agricolo un’attenzione particolare meritano i risultati dei controlli effettuati contro l’utilizzo illegale di pesticidi e altri prodotti chimici, compresi quelli messi al bando perché cancerogeni: 268 i reati penali e gli illeciti amministrativi contestati, 162 persone oggetto di denunce e diffide, 23 sequestri e 216 sanzioni penali e amministrative emesse. Da Legambiente arriva un appello alla politica. “Non bisogna abbassare la guardia - avverte il presidente Stefano Ciafani - perché le mafie in questo periodo di pandemia si stanno muovendo e sfruttano proprio la crisi economica e sociale per estendere ancora di più la loro presenza. Per questo è fondamentale completare il quadro normativo: servono nuove e più adeguate sanzioni penali contro la gestione illecita dei rifiuti, i decreti attuativi della legge che ha istituito il Sistema nazionale protezione ambiente, l’approvazione delle leggi contro agromafie e saccheggio del patrimonio culturale, archeologico e artistico, una forte e continua attività di demolizione degli immobili costruiti illegalmente per contrastare la piaga dell’abusivismo, l’introduzione di sanzioni penali efficaci a tutela degli animali e l’accesso gratuito alla giustizia per le associazioni che tutelano l’ambiente”. “Quell’uomo non era in sé, il delitto d’onore non c’entra niente” di Simona Musco Il Dubbio, 12 dicembre 2020 Uxoricidio di Brescia, il Tribunale contro la gogna mediatico-giudiziaria. “Notizie fuorvianti”. Il Tribunale di Brescia decide di non alimentare la gogna mediatico-giudiziaria. Decide di chiarire, senza assecondare gli appetiti giustizialisti tipici del Paese, quanto accaduto nel caso di uxoricidio di Brescia. Il delitto d’onore, assicura il presidente della prima Corte d’Assise Roberto Spanò, non è stato ripristinato. Antonio Gozzini, l’80enne assolto per l’omicidio della moglie Cristina Maioli, 62 anni, tramortita con un martello e poi accoltellata alla gola, non era capace di intendere e di volere. Perché affetto, secondo le perizie dei consulenti di accusa e difesa, da quella che in psicologia viene chiamata “Sindrome di Otello”, nota anche come gelosia delirante. Una sindrome psicopatologica caratterizzata dalla convinzione che il proprio partner sia infedele, convinzione che in alcuni casi come in quello di Gozzini, stando alla sentenza - può arrivare ad assumere la forma di un vero e proprio delirio. La precisazione è d’obbligo. Perché la notizia, veicolata giornalisticamente come se si trattasse di un classico delitto passionale e, quindi, di un caso di femminicidio, ha scatenato polemiche politiche. Comprensibili, alla luce della forma assunta dalla notizia. Fino alla decisione, da parte del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, di acquisire gli atti per comprendere quanto accaduto in corte d’Assise. “Il ministro non ha inviato gli ispettori in Tribunale - fanno sapere fonti di via Arenula - bensì ha chiesto di acquisire gli atti del processo, per capire quanto è emerso durante il dibattimento. Quando saranno disponibili verranno lette anche le motivazioni. Ma è una procedura attivata già in altre occasioni”. Nessun intento di travalicare i confini previsti tra il potere esecutivo e quello giudiziario, assicurano. Nessuna volontà di invadere il campo. Ma l’avvocatura si schiera dalla parte dei giudici del tribunale di Brescia, denunciando l’ennesima distorsione mediatica a danno non solo del diritto di difesa, ma anche dell’indipendenza della magistratura. Per Gozzini, attualmente detenuto nel carcere di Milano Opera con diagnosi di Covid, è stata disposta, stante il persistente stato di pericolosità, la misura di sicurezza della restrizione in una residenza per l’esecuzione di misure di sicurezza. La patologia delirante, afferma il presidente Spanò, è stata riconosciuta, nel corso delle indagini, sia dal consulente del pm sia da quello della difesa, concordi nel riconoscere all’imputato l’incapacità di intendere e volere con specifico riferimento all’omicidio della moglie. Il consulente della parte civile, invece, ha deciso di lasciare aperta l’ipotesi che il delitto non sia stato commesso in preda ad un’alterazione psicologica, suggerendo approfondimenti investigativi che, però, non sono stati effettuati. Ma non solo: i fratelli della vittima, che in un primo momento si erano costituiti parte civile, hanno deciso di non prendere parte al processo. Nel corso del dibattimento, afferma il presidente del Tribunale, è stato comunque a lungo approfondito il tema della lucidità di Gozzini, “tramite l’accurata escussione del consulente della parte civile non più costituita (che ha ammesso di non aver partecipato per intero alle operazioni peritali ed, in particolare, ai passaggi più significativi) e della difesa”. Il pm, nonostante il parere del proprio consulente, ha deciso di chiedere la condanna all’ergastolo dell’imputato, sostenendo la sua capacità di intendere al momento dell’omicidio, spinto da motivi di conflitto di natura estemporanea, “eludendo in tal modo, egli stesso, di fatto, che si fosse in presenza di una dinamica sottostante tipica di un processo di ‘femminicidio’ che, com’è noto, non riguarda l’uccisione di una donna in sé e per sé considerata, quanto piuttosto ‘l’uccisione di una donna in quanto donna”“. “Non c’era un motivo particolare per cui ho deciso di uccidere mia moglie. So solo che stavo malissimo: in depressione possono succedere queste cose”, ha detto Gozzini nel corso dell’interrogatorio in cui ha confessato l’omicidio. L’uomo è infatti affetto, da tempo, da disturbo bipolare e depressivo. E si era convinto di essere stato tradito. Per il pm Claudia Passalacqua, che ha già annunciato di voler impugnare la sentenza, Gozzini avrebbe compiuto l’omicidio “per vendetta, perché la moglie voleva farlo ricoverare in ospedale per la sua depressione”. Spanò si trova, ora, costretto a dribblare un’altra accusa: quella di sottovalutare il valore culturale che sottende, troppo spesso, casi aberranti come l’omicidio. Una vera e propria emergenza, in Italia, come dimostrano i dati quotidiani, che però nulla avrebbe a che fare con il caso in questione. Precisando che, “proprio in ragione di tale concezione distorta del rapporto di coppia nel recente passato ha irrogato in due occasioni la pena dell’ergastolo”. Permesso premio legittimo anche in caso di ergastolo ostativo giurisprudenzapenale.com, 12 dicembre 2020 Tribunale di Sorveglianza di Perugia, Ordinanza, 10 dicembre 2020 (ud. 3 dicembre 2020). Presidente Restivo, Estensore Gianfilippi. Segnaliamo ai lettori l’ordinanza n. 2020/1239 del Tribunale di Sorveglianza di Perugia del 3 dicembre, depositata il 10 dicembre 2020, con cui il Collegio ha concesso il primo permesso premio ad un ergastolano ostativo (c.d. “fine pena mai”), accogliendo il reclamo del detenuto dichiarato inammissibile dal Magistrato di Spoleto. Non un caso qualsiasi: si tratta infatti dell’accoglimento del reclamo di quel detenuto che aveva portato alla sospensione del procedimento con rimessione degli atti alla Corte costituzionale. Con sentenza n. 253 del 2019, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità della disciplina “ostativa” ai benefici penitenziari e alle misure alternative anche per gli autori dei reati che non hanno mai prestato utile collaborazione ai sensi dell’art. 58-ter della legge sull’ordinamento penitenziario, o, che non hanno mai beneficiato di un accertamento positivo della collaborazione c.d. impossibile, inesigibile o irrilevante ex art. 4-bis, co. 1-bis ord. penit. Gli esiti della sentenza, epocale, sono stati ampiamente commentati anche su questa Rivista. La concessione del permesso premio al condannato all’ergastolo ostativo non collaborante di Maria Brucale* penaledp.it, 12 dicembre 2020 Trib. Sorv. Perugia, 3 dicembre 2020, n. 1239, Restivo, Presidente, Gianfilippi, Relatore. Con ordinanza n. 2020/1239, il tribunale di sorveglianza di Perugia ha accolto il reclamo di un detenuto, condannato all’ergastolo ostativo e non collaborante, avverso il provvedimento di inammissibilità del magistrato di sorveglianza di Spoleto, volto ad ottenere la misura del permesso premio ex art. 30 ter O.P. In data 23 maggio 2019, il tribunale di sorveglianza di Perugia aveva sospeso il procedimento e sollevato questione di legittimità dell’art. 4 bis O.P. in relazione ai permessi premio chiedendo alla Consulta di valutare la compatibilità con la Costituzione ed in particolare, con gli artt. 3 e 27, di una normativa che stabilisce preclusioni assolute all’accesso a un beneficio penitenziario, il permesso, la cui natura è considerata del tutto peculiare. Il permesso premio è concepito, infatti, come un momento trattamentale. Fa parte del programma di rieducazione del condannato e costituisce il primo approccio con l’esterno e la vita libera finalizzato alla verifica della effettiva rivisitazione critica da parte del ristretto dei propri errori e della raggiunta capacità di essere reintrodotto in società. L’impossibilità per il detenuto di accedere a tale opportunità in virtù di un meccanismo di sbarramento normativo appariva, infatti, incongruente in rapporto alla vocazione rieducativa di ogni pena anche in ragione della constatazione che, oltre alla collaborazione con la giustizia, sussistono per il ristretto che non abbia più collegamenti con la criminalità organizzata, altri modi per dimostrare in modo fattivo la propria presa di distanza dal malaffare ed il proprio autentico ravvedimento. La Corte Costituzionale ravvisava la dedotta incostituzionalità pur apportando specifiche e puntuali precisazioni. Richiamava la sentenza n. 306 del 1993 che, pur dichiarando non fondate le questioni allora sollevate sull’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit, in relazione all’art. 27, terzo comma, Cost., aveva osservato “che inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una “rilevante compressione” della finalità rieducativa della pena: “la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di “tipi d’autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita” in caso di mancata collaborazione” (C. Cost. sent. 253 del 22.10.2019 G. Cannizzaro, A. Pavone). “Non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima, afferma la Corte. Non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria. Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. - agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione - una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. Ciò sotto tre profili, distinti ma complementari. In un primo senso, perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante. In un secondo senso, perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost. In un terzo senso, perché l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza. Dal primo punto di vista, il congegno normativo inserito nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, è espressione di una trasparente opzione di politica investigativa e criminale. In quanto tale, essa immette nel percorso carcerario del condannato - attraverso il decisivo rilievo attribuito alla collaborazione con la giustizia anche dopo la condanna - elementi estranei ai caratteri tipici dell’esecuzione della pena. La disposizione in esame, infatti, prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario. Per i condannati per i reati elencati nella disposizione censurata, infatti, è costruita una disciplina speciale (sentenza n. 239 del 2014), ben diversa da quella prevista per la generalità degli altri detenuti. Essi possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. Se tale collaborazione non assicurino, ai benefici in questione non potranno accedere mai, neppure dopo aver scontato le frazioni di pena richieste quale ordinario presupposto per l’ammissione a ciascun singolo beneficio (previste per il permesso premio dall’art 30-ter, comma 4, ordin. penit.). E se invece collaborino secondo le modalità contemplate dal citato art. 58-ter, a tali benefici potranno accedere senza dover previamente scontare la frazione di pena ordinariamente prevista, in forza della soluzione interpretativa già individuata, sia da questa Corte (sentenze n. 174 del 2018 e n. 504 del 1995), sia dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 3 febbraio 2016, n. 37578 e 12 luglio 2006, n. 30434). La disciplina in esame, quindi, a seconda della scelta compiuta dal soggetto, aggrava il trattamento carcerario del condannato non collaborante rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi, oppure, al contrario, lo agevola, giacché, in presenza di collaborazione, introduce a favore del detenuto elementi premiali rispetto alla disciplina ordinaria. Ma, alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato e perciò socialmente pericolosa” (C. Cost. sent. 253 del 22.10.2019 G. Cannizzaro, A. Pavone, § 8.). […] La giurisprudenza di questa Corte (in particolare sentenza n. 149 del 2018) ha del resto indicato come criterio costituzionalmente vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari (in proposito anche sentenza n. 436 del 1999), sottolineando che essa è particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del 2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sentenza n. 255 del 2006). Le ragioni di carattere investigativo e repressivo, prosegue la Corte, “sono di notevolissima importanza e non si sono affatto affievolite in progresso di tempo. Nella fase di esecuzione della pena”, tuttavia, afferma la Corte: “assume invece ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere, ed è questa situazione che induce a riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso premio. […]”. Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l’associazione criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista più, perché interamente sgominata o per naturale estinzione. La Corte Costituzionale, dunque, rappresenta come ineludibili le esigenze di sicurezza e di protezione sociale del sistema ordinamentale da fenomeni criminali (Volume Amicus Curiae 2019: “Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti”, in Quaderni Costituzionali, Rassegna) violenti e pervicaci. Richiede, pertanto, un regime probatorio che definisce ‘rafforzato’, da assolvere utilizzando tutte le informazioni degli organi di controllo quali le Procure delle Direzioni Distrettuali Antimafia e le Questure, un obbligo che “deve altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali”. Di entrambi tali elementi - esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro ripristino - grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica allegazione” (C. Cost. sent. 253 del 22.10.2019 G. Cannizzaro, A. Pavone, § 9). In ultima analisi, la Corte Costituzionale, nel dichiarare illegittima la norma di cui all’art. 4 bis O.P. laddove esclude la concessione di permessi a chi non collabora con la giustizia, premette la persistenza di un giudizio di pericolosità qualificata delle persone condannate per i delitti indicati nella norma in discorso ma ne sancisce una possibilità di superamento diversa dalla collaborazione con la giustizia, ferma la necessità di appurare la interruzione dei collegamenti con i sodalizi di origine e la impossibilità di ripristino di essi. La presunzione, dunque, resiste ma da assoluta che era, è ora relativa e ammette un superamento attraverso un onere di allegazione che ricade sul ristretto al quale è chiesta la dimostrazione e della rescissione dei contatti e della impossibilità di ripristino. Una prova negativa che per non divenire probatio diabolica deve trovare ristoro da un lato nel contributo dell’osservazione degli operatori del carcere, dall’altro nell’approccio critico del magistrato di sorveglianza cui è restituita la funzione valutativa del percorso trattamentale non più inibita dalla preclusione del titolo di reato in espiazione. Il Tribunale di sorveglianza di Perugia fa buon governo di tali principi e, all’esito di una istruttoria capillare ed esaustiva, perviene ad accogliere il reclamo del richiedente, detenuto ininterrottamente da oltre 25 anni, ed a concedergli le prime ore di libertà. L’ordinanza appare estremamente rigorosa nell’allinearsi ai criteri guida forniti dalla Corte Costituzionale. Il collegio, assunte le informazioni dagli organi di controllo, quali le direzioni distrettuali antimafia - che rappresentavano la perdurante pericolosità del soggetto in ragione della gravità oggettiva dei crimini commessi, della mancata collaborazione con la giustizia, della persistenza di fenomeni delinquenziali nei territori di appartenenza, dei legami affettivi con soggetti attinti da contestazioni di fattispecie associative - ne valutava la effettiva attualità e la capacità di incidere negativamente sul percorso detentivo compiuto dal reclamante. Lo stesso, infatti, come relazionato dagli operatori intramurari, già nel 2005, aveva ottenuto la revoca del regime detentivo derogatorio ex art. 41 bis, co. II, O.P. con un giudizio di interruzione dei collegamenti con il sodalizio delinquenziale; successivamente era stato ulteriormente declassato dal d.a.p. in virtù di una ravvisata attenuazione della pericolosità; aveva preso coscienza dell’orrore delle proprie condotte e manifestato nel tempo il convinto ripudio delle scelte del proprio passato ormai remoto; si era dedicato con passione agli studi, alla scrittura e alla poesia; si era intimamente avvicinato alla religione cattolica; aveva esplicitato le ragioni della mancata collaborazione nel terrore delle conseguenze drammatiche che ne sarebbero potute scaturire sul territorio per i propri familiari. Nella lunghissima detenzione, mai aveva intrattenuto contatti indebiti o era stato segnalato per atteggiamenti anche vagamente sospetti. I soggetti indicati nelle note informative come tuttora partecipi di consessi sodali ed in contatto con il richiedente erano risultati, in realtà, destinatari di provvedimenti di revoca delle misure di prevenzione in ragione di giudizi di cessata pericolosità. I rapporti, soltanto epistolari, erano, altresì, talmente sporadici da non poter risultare significanti. Ancora, il rango partecipativo del soggetto, all’epoca dei fatti, era di mero esecutore, non di rango apicale, il che agevolava ulteriormente la valutazione di piena estromissione dal contesto associativo. Alla luce di tali elementi tratti dall’osservazione del detenuto compiuta per oltre 25 anni dai soggetti a ciò deputati - che con lo stesso erano in costante contatto all’interno delle mura carcerarie e avevano modo di verificarne il comportamento, l’atteggiamento, le relazioni, il vissuto, il tenore di vita - il tribunale di sorveglianza esprimeva un giudizio di recisione del vincolo con il sodalizio di originaria appartenenza e di impossibilità di ripristino dello stesso e riteneva opportuno ed in linea con la tensione costituzionale di ogni pena alla restituzione dell’individuo in società, concedere al reclamante “la chiesta esperienza premiale, che costituirà ulteriore passaggio significativo del percorso intramurario dell’istante, che deve proseguire sotto il profilo dell’approfondimento della riflessione critica, e che consentirà di valutare, dopo una così lunga detenzione, la capacità del condannato di rispettare le prescrizioni ?mpostegli” (Trib. Sorv. Perugia, ord. 2020/1239, p. 11). Si tratta di una pronuncia estremamente importante che si allinea con l’indirizzo ormai costante della giurisprudenza della Corte Edu a partire dalla sentenza ‘Vinter c. Regno Unito’, che, già nel 2013, aveva affermato il diritto alla speranza come valore fondamentale in difetto del quale la pena è contraria al senso di umanità (CEDU, Grand Chamber, Vinter v. Regno Unito 9 luglio 2013, § 108). Coerentemente, nel ricorso ‘Viola c. Italia’, in data 13.06.2019, la Cedu ha ravvisato una violazione dell’art. 3 della Convenzione poiché una pena senza fine si traduce in una menomazione della dignità umana che “è nel cuore del sistema istituito dalla Convenzione e impedisce la privazione della libertà di una persona con la coercizione senza allo stesso tempo lavorare per reintegrarla e per fornirle una possibilità di recuperare questa libertà un giorno” (CEDU, Sez. I, sent. Viola v. Italia, 13.06.2019, § 43). *Avvocato Puglia. 687mila euro da Regione per reinserimento detenuti Gazzetta del Mezzogiorno, 12 dicembre 2020 Il progetto “Ripartiamo Insieme” è reso possibile grazie al Protocollo d’intesa firmato tra Regione Puglia e Cassa delle Ammende. È stato pubblicato l’Avviso pubblico per la selezione degli enti di formazione cui spetterà il compito di formare 60 detenuti pugliesi - con sei classi da dieci, una classe per ciascuna provincia - così da attuare gli obblighi previsti dalla legge sull’inclusione sociale e il reinserimento lavorativo. Le risorse messe in campo ammontano a 687.050 euro. Il progetto “Ripartiamo Insieme” è reso possibile grazie al Protocollo d’intesa firmato tra Regione Puglia e Cassa delle Ammende, ente giuridico facente capo al ministero della Giustizia che ha tra i suoi obiettivi anche i programmi di reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. “La rieducazione al rispetto della legge e il recupero sociale di chi è stato condannato dal nostro sistema giudiziario - spiega l’assessore Sebastiano Leo - devono basarsi sulla creazione dei presupposti necessari al reinserimento. La formazione professionale dei detenuti è parte integrante della funzione rieducativa della pena. L’Avviso intende dar luogo ad importanti ricadute, sia in termini di potenziamento delle competenze professionali per i destinatari detenuti, sia in termini di miglioramento delle relazioni e dei rapporti interpersonali, premesse indispensabili per favorire i processi di inclusione sociale e di inserimento lavorativo dei ristretti”. Napoli. Il Cardinale Sepe digiuna per ricordare a tutti che anche i detenuti hanno una dignità di Viviana Lanza Il Riformista, 12 dicembre 2020 Il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, padre Alex Zanotelli e don Tonino Palmese, da anni impegnati come preti di frontiera, don Enzo Cozzolino, direttore della Caritas diocesana di Napoli, i cappellani del carcere di Poggioreale e quelli del carcere di Secondigliano, don Antonio Loffredo, della Fondazione San Gennaro, don Maurizio Patriciello, parroco nella Terra dei Fuochi, i frati francescani della provincia di Napoli e una serie di associazioni, dalla Comunità Sant’Egidio alla onlus Carcere possibile, passando per associazioni di volontariato che si occupano di detenuti, hanno aderito all’appello del garante regionale e dei garanti cittadini e scelto di partecipare alla staffetta dello sciopero della fame sabato 19 dicembre indetto per sollevare l’attenzione di politica e opinione pubblica sul dramma che si vive nelle carceri, ancor di più in periodo di pandemia. “Fame di giustizia e sete di verità” è la sintesi dell’iniziativa. Anche la Chiesa, dunque, si mobilita a favore dei diritti dei detenuti. Come i penalisti e i garanti e seguendo l’iniziativa lanciata un mese fa da Rita Bernardini del Partito Radicale, osserveranno domani un giorno di sciopero della fame per chiedere misure urgenti per il mondo penitenziario. “Un giorno di digiuno per la dignità dei detenuti”. Una dignità che passi innanzitutto per il diritto alla salute. “In questi mesi - è la motivazione alla base dell’iniziativa - tutti noi abbiamo conosciuto la paura e il timore per un virus che ha cambiato le nostre vite. Abbiamo imparato a usare le mascherine, a igienizzare le mani, a mantenere la distanza gli uni dagli altri. Tutte misure indispensabili che rispettiamo con rigore, in attesa di un vaccino. Ma chi è in cella con altre dieci persone e un solo bagno come fa? In queste settimane il mondo penitenziario sta pagando un prezzo altissimo a causa del Covid”. Il garante regionale Samuele Ciambriello e i garanti cittadini Pietro Ioia, Emanuela Belcuore e Raffaele Riberto, così come proposto anche dai penalisti e come ribadito l’altro giorno dal presidente del Consiglio regionale Gennaro Oliviero in occasione della presentazione di un report aggiornato sullo stato delle carceri campane, chiedono che quando sarà avviata la campagna di vaccinazione vengano coinvolti con priorità anche detenuti e chi lavora all’interno degli istituti di pena. “Sono categorie a rischio”, ricordano descrivendo le condizioni di vita e di lavoro in carcere. Intanto, in attesa di un vaccino, il grido di allarme per la situazione nelle celle diventa sempre più forte. È un grido a cui si unisce ora la Chiesa, con il cardinale Sepe, parroci e frati da sempre impegnati per i giovani a rischio, contro la criminalità e a favore della giustizia sociale. Tutti uniti nella protesta simbolica che si terrà domani. In mattinata è previsto anche un presidio dinanzi al carcere di Poggioreale: “Porteremo la nostra fame di giustizia e la nostra sete di verità - spiegano i garanti - ognuno con la propria storia e la propria visione del mondo, ma tutti insieme per gridare forte che non è più tempo di perdere tempo e che c’è bisogno di intervenire subito, altrimenti la detenzione equivale ad una pena di morte”. Al Governo si chiede di adottare misure per alleggerire il peso del sovraffollamento e svuotare le celle dove si ora si vive anche in dieci, e per consentire una migliore gestione della pandemia fra chi è sottoposto a misure restrittive della libertà personale. Attualmente il bollettino Covid nelle carceri campane fa registrare 49 detenuti contagiati, 15 dei quali a Poggioreale, 29 a Secondigliano, tre a Benevento, due a Salerno. Un detenuto è ricoverato al Cotugno e un altro all’ospedale di Salerno. Resta intanto alto il numero di positivi al Coronavirus tra il personale di polizia penitenziaria e gli operatori sociosanitari: 160 casi di contagio. Milano. Dimesso dall’ospedale perché negativo è in isolamento senza terapie oncologiche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 dicembre 2020 La denuncia dell’associazione Yairaiha Onlus su un detenuto nel carcere di Opera. Ha un tumore, era stato ricoverato perché positivo al Covid, ma una volta negativizzato è stato posto nuovamente in isolamento al carcere di Opera e, secondo quanto denunciano i familiari, non gli verrebbe data la possibilità di seguire le terapie prescritte. Parliamo del detenuto Carmine Multari e a segnalare la vicenda alle autorità, è ancora una volta Sandra Berardi, la presidente dell’Associazione Yairaiha Onlus. Sempre in prima fila per quanto riguarda i diritti dei detenuti, soprattutto quelli “impresentabili”, perché macchiati di reati gravi. Ma siamo in uno Stato dove vige la Costituzione più bella del mondo, quella dove parla di dignità della pena e tutela della salute. Diritto primario che non può essere compresso da qualsiasi tipologia di detenzione. La compagna di Multari ha riferito all’associazione Yairaiha la carenza di comunicazione sulle effettive condizioni di salute sia durante la permanenza in ospedale (prima a Cremona e poi al San Paolo di Milano) sia dal rientro nel carcere di Opera. Inoltre è molto preoccupata per l’inosservanza delle prescrizioni mediche trattandosi di soggetto con un quadro clinico complesso. “Ad aumentare la preoccupazione - segnala sempre l’associazione - c’è il fatto che è stato dimesso dall’ospedale San Paolo e riportato in carcere, presumibilmente perché nel frattempo negativizzato, ma è stato messo in isolamento e non gli viene data la possibilità di seguire le terapie prescritte, né di avere l’assistenza del piantone, né la dotazione della carrozzina, né di essere visitato”. Il detenuto Multari non riuscirebbe a uscire dalla cella neanche per fare una doccia, tant’è che gli viene portato un secchio con acqua calda per lavarsi in cella. “Il 4 dicembre - prosegue Yairaiha - avrebbe dovuto presenziare ad una udienza ma le condizioni fisiche glielo hanno impedito; continua ad accusare dolori diffusi e malessere generale. All’avvocato di fiducia è stato negato il colloquio perché pare che il detenuto sia in una sorta di “zona rossa” all’interno della struttura penitenziaria”. Multari ha subito un intervento oncologico di recente e già prima di contrarre il Covid presentava un quadro clinico complesso che non sarebbe stato sufficientemente affrontato all’interno della struttura penitenziaria. “Ci sembra - osserva l’associazione - che allo stato attuale le condizioni del signor Multari che, ribadiamo, è oltretutto in attesa di sentenza definitiva, siano molto lontane dalla dignità e dall’umanità richiamate dall’art. 27 della nostra Costituzione; anche il diritto fondamentale alla salute ci sembra essere compromesso dalle carenze sanitarie strutturali che con la pandemia sono esplose in maniera drammatica determinando il collasso definitivo delle strutture sanitarie penitenziarie e pubbliche”. Da ricordare che ai primi di marzo si era visto rigettare l’istanza per i domiciliari, perché secondo i giudici non avrebbe corso il rischio Covid. Non è stato così. Milano. Cosima Buccoliero, direttrice di Bollate: “In pandemia siamo diventati invisibili” di Roberta Scorranese Corriere della Sera, 12 dicembre 2020 Direttrice, il 7 dicembre scorso le hanno dato l’Ambrogino d’Oro, riconoscimento che si conferisce a chi ha fatto del bene a Milano... “È andato al carcere di Bollate e al “Beccaria” e alle nostre attività di apertura verso l’esterno. Dai laboratori artigianali al ristorante. Qui c’è vita, non solo pena. Da sempre questo è stato il mio mantra: il carcere deve aprirsi, non chiudersi alla società”. La pandemia però (ri)chiude. Le attività di formazione dei detenuti, per cominciare, quel lento reinserimento che comincia proprio dal carcere. “È vero. Per noi è stato come aver fatto cento passi indietro. Questo ha ripercussioni nella vita dei detenuti che è difficile comprendere per chi sta fuori. Perché in carcere già solo l’atto di immaginare una seconda vita, una seconda chance dopo aver sbagliato, richiede impegno, volontà. Fantasia, anche. Se poi persino quello stretto pertugio verso l’esterno, aperto a fatica, viene chiuso, si rischia di non crederci più”. Cosima Buccoliero, 52 anni, pugliese di origine, è la direttrice (uscente) del carcere di Bollate e del “Beccaria”, istituto penale minorile di Milano. A gennaio andrà a fare la vice nel penitenziario di Opera, ma dal 2004 lavora a Bollate - è alla guida da quasi tre anni -, un carcere “modello” per molti aspetti. Qui i detenuti lavorano, studiano, fanno sport, scrivono e dipingono, sono molto integrati con la società. E tra le numerose, terribili, ricadute della pandemia da coronavirus ci sono anche gli effetti su un mondo di cui si parla poco: quello dei carcerati. Se ne parla pochissimo. “Guardi, non voglio fare un paragone con le Rsa, ci mancherebbe. Ma è come se fossimo diventati invisibili. Faccio solo notare una contraddizione evidente: come si fa a chiedere ai detenuti di mantenere le distanze quando ci sono carceri con evidenti problemi di sovraffollamento?”. Che cosa significa per un detenuto non poter condividere nemmeno un breve lasso di tempo con gli altri? “In un mondo dove non c’è nessuna forma di privacy, quegli spazi di contatto “scelti”, “voluti”, con questo o quel compagno di detenzione sono preziosissimi, perché sono le uniche volte in cui si può discernere. Tra quello che ci piace e quello che non ci piace. Tra ciò che ci fa stare bene e ciò che ci mette a disagio. Se spariscono anche quelli si annulla la volontà di un individuo. E il nostro è un compito delicatissimo: far comprendere loro che le restrizioni sono necessarie”. Forse nella nostra cultura non si è mai davvero affermato il concetto di carcere come “rieducazione” e resiste invece quello di carcere come “punizione e basta”? “Credo che ci sia del vero in questo. La detenzione è, sì, lo sconto della pena ma deve essere anche una fase di preparazione ad una seconda possibilità. È questo il difficile. Molti di quelli che arrivano da noi non hanno i giusti strumenti per pensarsi di nuovo “fuori”, di nuovo liberi. Il mio lavoro è accompagnarli all’uscita”. Quando pesa la cosiddetta “cultura forcaiola”, quelli che incitano alla punizione e basta, senza pietà? “Moltissimo, mi creda. Incide anche sul sentire del resto della società, che così tende a vedere i detenuti come esseri di un altro pianeta, persi per sempre. È il contrario”. Le detenute con figli piccoli. Che cosa si può fare? “Non dovrebbero esistere detenute con figli piccoli”. A Bollate avete un nido per questo. Quanti bambini ci sono adesso? “Due. Ma dal 2015, anno in cui è stato fondato il nido, abbiamo avuto solo due mesi senza bambini. Questo è allarmante. Perché è vero che si tratta di una struttura di assistenza, però il fatto che un bambino piccolo conosca il carcere e percepisca le inevitabili tensioni che ci sono al suo interno, secondo me è pericoloso”. Durante la pandemia si sono anche ridotti - in alcuni momenti annullati - i contatti con i familiari. “Ecco, ancora una volta facciamo uno sforzo di immaginazione: all’ansia di ammalarsi si aggiunge l’ansia di non sapere come sta tuo padre, tua madre, tuo marito, tua figlia. E per le donne è anche peggio”. Perché? “Perché molto spesso le donne sono il centro di una famiglia. Lo dico attingendo alla mia esperienza, sia chiaro. Senza di loro tutto crolla. Ecco perché, paradossalmente, per le detenute è meglio non avere dei familiari là fuori”. Se conoscono il carcere da piccoli, sempre stando alla sua esperienza, i bambini hanno molte probabilità di tornarci, da adulti? “Non saprei. Di certo ho incontrato tanti detenuti i cui genitori hanno fatto l’esperienza della detenzione. Ne ricordo uno, che raccontava sempre di essere nato a Regina Coeli. E senza mai aver conosciuto suo padre”. Che sentimenti nascono, in prevalenza, tra detenuti? “Ci sono numerose storie d’amore, ma poi, là fuori, per la maggior parte non durano. E secondo me non sono da incoraggiare più di tanto”. Perché? “Perché qui dentro l’amore spesso nasce come un’àncora di salvataggio. Già il solo pensare che a poca distanza da te c’è qualcuno che ti sta pensando, a volte ti salva la vita. Però poi, quando si esce, la visione del mondo cambia. E per fortuna. Se uno dei due resta in carcere e l’altro lo va a trovare non è un bene per chi ha riacquistato la libertà. Io lo dico sempre: una volta fuori bisogna cercare di non tornare più qui”. Mi racconta una storia di autentico riscatto? “Una storia esemplare. Un ragazzo con numerosi problemi, faceva fatica a trovare la sua seconda possibilità. Poi da noi ha studiato informatica (a Bollate è attiva la Cisco Network Academy, un programma di formazione, ndr), si è specializzato. Quando è uscito ha trovato lavoro e sa dove? Presso un sistema di sicurezza bancaria!”. Direttrice, quanto è difficile convincersi che potrebbe capitare a chiunque di finire dietro le sbarre? “Più di quanto si immagini. Spesso si tende a figurarsi un detenuto come il prodotto di una famiglia problematica, un figlio del disagio. Ma non è sempre così. Si finisce in carcere per ingenuità, per eccesso di fiducia in se stessi, per disattenzione, per ignoranza, per avidità. Quest’ultima condizione la riscontro sempre più spesso nei giovani. Al “Beccaria” non arrivano solo ragazzi cresciuti in situazioni difficili. Spesso arrivano i ragazzi di buona famiglia, in ottime condizioni economiche ma che hanno commesso reati perché volevano di più. Più soldi, più successo, più tutto”. La maggior parte di chi commette violenza contro le donne viene da contesti considerati “normali”? “Non ho le statistiche qui, ma sì, certo, sono frequenti i casi in cui “l’orco” non è quello che ti aggredisce di notte, all’angolo della strada. Nella maggior parte dei casi chi commette violenza è il vicino d’appartamento, il parente, persino il familiare”. Me la racconta un’altra bella storia di riscatto? “Sì, avevamo un detenuto non più giovanissimo, che aveva rotto i legami con la famiglia. Il figlio maggiore non voleva più sentirlo. Però in carcere quest’uomo ha fatto un percorso molto bello. Ha studiato, lavorato, ha stretto amicizia con altri. Così, quando è morto, sono stati i suoi compagni di detenzione che mi hanno chiesto di incontrare la sua famiglia. Volevano mostrare - soprattutto al figlio grande - i lavori del padre, le sue lettere, i suoi progressi. Per raccontargli chi è stato davvero”. Voghera. La Casa circondariale di ancora al fianco del Banco Alimentare Onlus Ristretti Orizzonti, 12 dicembre 2020 La Fondazione Banco Alimentare Onlus opera attivamente da oltre trent’anni sul territorio nazionale attraverso una rete di 21 banchi regionali e il 30 novembre u.s. si è tenuta la Giornata Nazionale della Colletta del Banco Alimentare. Ancora una volta questa Casa Circondariale ha inteso partecipare con il calore di sempre alla raccolta di generi alimentari da destinare alle famiglie più fragili del territorio. In un’ottica di solidarietà e cooperazione sociale, animati dalla consapevolezza che l’emergenza epidemica in corso ha pesantemente compromesso le condizioni già disagiate delle persone più deboli, gli operatori penitenziari e le persone detenute hanno colto l’iniziativa con entusiasmo e dal 30 novembre al 2 dicembre sono stati raccolti in totale n. 34 scatoloni di alimenti. Le persone detenute e tutto il personale operante in Istituto, acquistando con generosità prodotti di prima necessità, hanno mostrato di comprendere il valore e il senso dell’iniziativa, rivelando altruismo, empatia e sensibilità. Gesti piccoli, ma capaci di fare del bene a persone e famiglie in situazione di difficoltà. Ci piace pensare di aver fatto la nostra piccola parte. Un particolare ringraziamento al Sig. Maurizio Barbieri del Banco Alimentare di Alessandria che porta avanti l’iniziativa benefica con particolare devozione e disponibilità, coinvolgendo molteplici realtà del territorio, e a tutti gli operatori e agli ospiti di questo Istituto che hanno creduto e reso possibile la realizzazione del progetto. Il Direttore della Casa Circondariale di Voghera Stefania Mussio e lo staff Al lavoro, ma poveri. L’onda dei sottopagati che spaventa l’Italia di Giuseppe Bottero La Stampa, 12 dicembre 2020 Solo in Ungheria e Inghilterra sono aumentati di più: “Colpa di precariato, Covid e part-time involontari”. Una delle motivazioni è l’avanzata hi-tech che erode le occupazioni di qualità. Giovani, migranti, precari sfiancati da anni di rinnovi intermittenti. E adesso l’ex classe media aggredita dal Covid, la tragedia che rischia di dare la mazzata finale, con gli stipendi che precipitano, un blocco dei licenziamenti destinato a infrangersi all’inizio di marzo, gli assegni sbranati dalla cassa integrazione, arrivata a livelli mai visti eppure insufficiente per mettere tutti al riparo. Nell’Italia che in silenzio vede sfumare un quarto dei contratti a termine, “i più fragili e svantaggiati”, ricordava ieri l’Istat, alzando ancora l’asticella della disoccupazione - 2, 5 milioni a casa, seicentomila in più rispetto ad un anno fa - c’è un’emergenza che finora è rimasta quasi nascosta: quella dei “working poor”, i nuovi poveri con diploma, magari laurea, e un posto di lavoro. “Uno scandalo” denuncia Esher Lynch, vicesegretario generale della European Trade Union Confederation (Eutc), la confederazione europea dei sindacati, che ha fotografato dieci anni di diseguaglianze. Partendo dai dati dell’Eurostat, e da una constatazione tanto semplice quanto dolorosa: tutto quello che abbiamo imparato - studia, cerca un buon impiego, trovalo e pensa a crescere - non basta più. In Europa, spiega l’Etuc, tra il 2010 e il 2019 il numero di lavoratori a rischio povertà è aumentato del 12 per cento, con picchi in Ungheria (+58%), Gran Bretagna (+51%), Estonia (+43%) e Italia (+22%). Nel nostro Paese fa fatica ad arrivare alla fine del mese il 12,2 per cento di chi ha un contratto. “La situazione è peggiore rispetto al culmine della crisi finanziaria, nonostante l’economia abbia ripreso a svilupparsi” dice Lynch, che chiede un’azione coordinata “a livello europeo”. Auspica che le discussioni sul salario minimo vadano avanti, che quanto finora è sulla carta si trasformi in realtà. Ma potrebbe non bastare, avverte Andrea Garnero, economista della direzione per l’Occupazione, il Lavoro e gli Affari Sociali dell’Ocse. “Uno dei grandi problemi - racconta - è legato al part-time, spesso involontario. Un fenomeno che in Italia è esploso”. Per Garnero ormai “avere un lavoro non è più sufficiente per garantirsi un reddito adeguato. E l’emergenza virus è destinata a peggiorare la situazione - ragiona. Quando l’economia è in difficoltà la prima reazione è tagliare ore di lavoro e contratti a termine”. Pensiamo, dice, ai collaboratori domestici, una delle voci su cui le famiglie potrebbero risparmiare. C’è un altro fattore che preoccupa gli economisti. Nei mesi dei lockdown, nel nostro Paese, le buste paga sono scese più che altrove. “I salari ristagnano da vent’anni ma è in questa fase che il reddito disponibile si è ristretto maggiormente - spiega. Uno dei problemi è la cassa integrazione. Paga male, tra 800 e 1200. Se in un nucleo famigliare lavora una persona sola, la situazione può degenerare in fretta. Inoltre, il welfare protegge bene chi ha contratti standard e poco gli autonomi”. Sotto accusa c’è anche un sistema sempre più legato al digitale e alle logiche dei suoi colossi. “L’automazione non ha spazzato via il lavoro, ma sta scomparendo l’occupazione di qualità e i salari scendono. È una pressione al ribasso” dice Antonio Aloisi, docente del diritto del lavoro, che insieme a Valerio De Stefano ha appena pubblicato con Laterza il saggio “Il tuo capo è un algoritmo”. L’avanzata tech rischia di creare un effetto paradossale: si salva la manodopera e non si investe più sulla ricerca e lo sviluppo. “È una bolla preoccupante: troppe persone impiegano tempo ed energie ma non ottengono abbastanza”. All’orizzonte c’è un rischio: i nuovi robot, quelli che ci spaventavano, oggi siamo noi. Il Senato non fermi il Decreto Immigrazione di Filippo Miraglia Il Manifesto, 12 dicembre 2020 Facciamo appello alla maggioranza affinché anche il Senato approvi velocemente in via definitiva questa legge. Nel caso in cui il DL non venisse convertito per l’intervento dilatorio della Presidente Casellati, il governo dovrebbe reiterare il DL con il testo uscito dalla Camera. ll testo di conversione del DL Immigrazione (DL 130/2020) approvato oggi (ieri 9/12/2020) alla Camera, va nella direzione che, come associazioni di promozione dei diritti degli stranieri, abbiamo auspicato, nonostante limiti e contraddizioni. Dopo più di venti anni, una riforma legislativa sull’immigrazione prevede un ampliamento, seppur limitato, della sfera dei diritti e non una loro riduzione. Dal 2002, anno di approvazione della terribile Bossi Fini, ancora in vigore - è bene ricordarlo - si sono susseguite numerose modifiche del TU sull’immigrazione, spesso inserite strumentalmente in provvedimenti che riguardavano la sicurezza, volte tutte a diminuire i diritti degli stranieri. Tra i provvedimenti di questa natura, anche leggi volute da governi di centro sinistra, come la cosiddetta Minniti Orlando, prima legge della Repubblica a introdurre una discriminazione strutturale nell’accesso al sistema giudiziario, cancellando l’appello e l’obbligo del dibattimento davanti al giudice ordinario per una categoria di persone fragili quali i richiedenti asilo. In questa nuova riforma sono invece previste alcune novità importanti e la modifica di un certo numero di norme introdotte dai decreti Salvini, che non sono cancellati ma certamente fortemente ridimensionati. Tra le novità importanti è utile ricordare: 1. la conversione di alcune tipologie di permessi temporanei in permessi di lavoro, incluso quello per cure mediche, introdotto con un emendamento della maggioranza al DL130/2020; 2. il raccordo tra l’art.5 comma 6 e l’art.19, che stabilisce la non espellibilità in alcuni casi e il rilascio del relativo permesso di soggiorno per protezione speciale, il che eviterà confusione e discrezionalità. Con questa norma l’Italia dovrebbe tornare a un numero di esiti positivi delle domande d’asilo simile alla media europea (dopo i decreti ‘propaganda’ di matrice leghista il numero si è dimezzato, con effetti pesanti sull’aumento dell’irregolarità e dei ricorsi); 3. il ripristino dell’accoglienza pubblica da parte dei Comuni (ex SPRAR ora SAI - Sistema Accoglienza e Integrazione) per i richiedenti asilo e quindi la cancellazione della separazione tra richiedenti e titolari di una forma di protezione, che criminalizzava il diritto d’asilo; 4. Si riapre la possibilità di ingressi per lavoro con i decreti flussi, bloccati da anni. Se gli stranieri potessero rivolgersi allo Stato per entrare in Italia e non fossero obbligati da leggi proibizioniste a rivolgersi ai trafficanti, si combatterebbe efficacemente l’irregolarità e le sue conseguenze. Un ulteriore passo avanti sarebbe rappresentato dalle modifiche proposte dalla legge di iniziativa popolare della campagna Ero straniero - L’umanità che fa bene. 5. Con un po’ di coraggio in più, anche le modifiche sulla cittadinanza avrebbero potuto restituire fiducia alle famiglie e, soprattutto, ai giovani di origine straniera nelle nostre istituzioni. Ma su questo fronte speriamo si possa tornare presto, rilanciando la proposta della campagna “L’Italia sono anch’io” Permangono scelte sbagliate sulle navi delle ONG che svolgono attività di ricerca e salvataggio in mare, anche se le multe sono previste solo dopo l’intervento dei tribunali, che finora hanno sempre accolto le ragioni di chi salva vite umane. E certamente si sarebbero potute modificare più efficacemente le norme in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, soprattutto in una fase nella quale le polemiche sull’immigrazione, e i razzisti di professione, non hanno un grande spazio nel dibattito pubblico, occupato a fronteggiare la pandemia. Facciamo appello alla maggioranza affinché anche il Senato approvi velocemente in via definitiva questa legge. Nel caso in cui il DL non venisse convertito per l’intervento dilatorio, a gamba tesa, della Presidente Casellati, il governo dovrebbe reiterare il DL con il testo uscito dalla Camera. Pensiamo che, dopo questa prima importante riforma, acquisire alcuni concreti risultati parziali, ad esempio sulla cittadinanza e sugli ingressi regolari per ricerca di lavoro, sia più utile che tentare di avviare una stagione di riforma complessiva nella quale il parlamento rischia di impantanarsi per mesi o anni. Tornare a legiferare in materia d’immigrazione per migliorare le condizioni di vita delle persone, senza intenti propagandistici e senza la paura di perdere consensi, è un buon segno, nonostante i tempi difficili e le difficoltà evidenti della classe politica e di governo. Lo Stato di diritto e la corruzione di Paola Severino La Stampa, 12 dicembre 2020 L’accordo faticosamente raggiunto dall’Europa con i Paesi sovranisti che rifiutavano di condizionare la distribuzione del recovery fund al rispetto dello Stato di diritto rappresenta un fondamentale passo avanti nel cammino comune che l’Europa sta compiendo. L’intesa infatti non solo ha sbloccato il piano di finanziamenti eccezionali, ma ha mantenuto fermo il principio che tutti i Paesi membri devono rispettare le regole dello Stato di diritto (libertà di stampa, indipendenza della magistratura, diritti umani), pena comunque la sottoposizione al giudizio della Corte di Giustizia. Per comprendere meglio i termini del dibattito occorre chiedersi perché sia tanto importante, per assicurare una corretta distribuzione dei fondi, verificare la tenuta democratica del Paese che li riceve. È a tutti noto che le dittature si accompagnano spesso a fenomeni estesi di corruzione, consentiti da apparati di controllo privi di autonomia. La corruzione è un reato che si nutre di omertà, in cui il patto occulto è tenuto accuratamente nascosto dal corrotto e dal corruttore. Per scoprirla, occorre attrezzarsi con organi investigativi ben preparati e a loro volta non corruttibili. Questi organi investigativi devono essere guidati da magistrati che sappiano seguire le tracce del denaro nero e dei reati-presupposto che ne alimentano il flusso (ad esempio fatture per operazioni inesistenti), che siano completamente indipendenti dagli altri poteri e che possano dunque indagare e giudicare in piena autonomia. Nei numerosi viaggi che ho compiuto come Rappresentante della Presidenza Osce per la lotta alla corruzione ho potuto constatare che l’Italia viene considerata davvero esemplare, anche se gli stessi italiani non ne sono pienamente consapevoli. Negli ultimi anni, infatti, il nostro Paese non solo ha apprestato uno degli apparati normativi più completi per la prevenzione e la repressione della corruzione, ma è anche dotato di un sistema giudiziario fortemente presidiato da garanzie di indipendenza, di un apparato di polizia giudiziaria competente e costantemente aggiornato, di organismi autonomi, come l’Anac, creati per svolgere attività di prevenzione fondamentali quando si devono valutare appalti pubblici. Un assetto da preservare soprattutto in momenti come questo, in cui l’eccezionalità della crisi economica in atto potrebbe portare a semplificare i processi di selezione, ma non deve far abbassare il livello di vigilanza preventiva sulla meritevolezza di erogazioni e di controllo successivo sulla destinazione del denaro. A noi italiani appare scontato che i casi di corruzione nella magistratura e nei corpi di polizia siano davvero rare eccezioni. Ma non è così. In tanti Paesi nei quali le cosiddette “velvet revolutions” hanno portato, grazie alle proteste della società civile, al rovesciamento di regimi dittatoriali corrosi dalla corruzione, il tentativo di introdurre leggi di contrasto al fenomeno non ha prodotto i frutti sperati, a causa di assetti giudiziari e di polizia contaminati da anni di corruzione e da un sistema di nomine politiche che ha fortemente inciso sulla indipendenza del potere giudiziario. Per non parlare di una stampa spesso condizionata dal governante o dal potentato di turno e quindi privata della libertà di denunciare questa situazione di radicata illiceità. Il nuovo faro della lotta alla corruzione deve quindi accendersi sul tema della democrazia che, tutelando l’autonomia della magistratura e la libertà di stampa, rappresenta l’antidoto più efficace al diffondersi della corruzione. L’Italia presiederà quest’anno il G20 e all’interno di esso darà grande visibilità al tema della lotta alla corruzione. L’auspicio è che in occasione di questo importantissimo incontro multilaterale i temi della rule of law e del law enforcement rappresentino il punto centrale di discussione sui mezzi di contrasto ai fenomeni di approfittamento illecito di risorse pubbliche e private. Il legame che ha unito i Paesi europei in un Trattato pone i principi dello Stato di diritto a fondamento dell’Unione e basa quindi i progetti comuni non solo su motivazioni economiche ma anche ragioni di diritto rendendo doveroso impedire che finanziamenti costruiti sulle risorse dei cittadini europei finiscano nelle mani di Nazioni che non garantiscono la tutela di valori fondamentali come l’autonomia della magistratura e la libertà di stampa. Il corpo di Giulio specchio dei diritti di Donatella Di Cesare La Stampa, 12 dicembre 2020 Dovremmo forse cominciare a credere che la questione sia una subdola e inconfessabile complicità tra Stati. Una complicità, per cui l’uccisione di un cittadino può essere in fondo trascurata per un certo “interesse comune” - economico, politico, istituzionale - che viene fatto valere più o meno tacitamente. Così si spiega l’alternanza tra proclami altisonanti, con cui si promette verità, e gli esiti del tutto inconsistenti. Non si tratta di un’ambiguità morale, ma di una costitutiva doppiezza politica. La storia drammatica di Giulio Regeni ci insegna con chiarezza che il passaggio da cittadino a vita sacrificabile è molto più breve di quel che non si immagini. Ciascuno dovrebbe riflettere su questo. Non basta inquietarsi, non è sufficiente sentirsi chiamati in causa dal suo corpo orrendamente martoriato, che chiede ancora giustizia. Occorre una riflessione politica più profonda, dato che quella sorte spietata potrebbe toccare a un altro cittadino. “Giulio, uno di noi” significa proprio questo: Giulio come noi, noi come Giulio. La questione riguarda allora il rapporto tra cittadino e Stato: il cittadino che finisce per diventare inerme e lo Stato che, spinto a esercitare la propria sovranità nelle zone più oscure del diritto di polizia, da protettore passa a sbirro e aguzzino. Quale Stato è colpevole verso Giulio? Certo, il carnefice è lo Stato egiziano. Ma complice è ormai anche lo Stato italiano la cui doppiezza in questi giorni, come d’altronde negli anni precedenti, nessuno potrebbe negare. E che dire poi anche degli altri? L’immagine di Al Sisi che riceve la Gran Croce della Legion d’Onore dalle mani di Macron ne è una conferma. L’autocrate con le mani insanguinate si presenta come leader occidentalizzato, anzi come baluardo laico contro la barbarie islamista. Perciò lo si riceve a corte e si concludono cospicui affari. La celebrazione dei diritti umani appare allora grottesca. Oggi non si capisce più neppure che cosa significhi questa formula sempre più vuota. Sappiamo bene che in questo mondo ripartito tra Stati nazionali un essere umano nella sua nudità, privo di un drappo che lo protegga, non conta nulla e in effetti rientra in quell’umanità superflua che si può semplicemente lasciar morire senza doverne neppure rispondere. Mai come ora un essere umano appare privo di diritti. Il caso di Giulio ci dice che ciò può avvenire anche a un cittadino. In questo frangente è venuta alla luce la repressione che, con brutale sistematicità, gli apparati di sicurezza egiziani esercitano contro i movimenti di opposizione. Ma casi di tortura si verificano anche nelle democrazie, dove la tortura è una pratica amministrativa. Non possiamo dimenticare la storia recente del nostro Paese e i tanti casi in cui lo Stato, per mano di un suo agente, ha perso legittimità violando il corpo di un cittadino. Eppure, la tortura è anche una tecnica attraverso cui un regime privo di fiducia ottiene un simulacro di credibilità. Sulla pelle della vittima pretende di stilare il consenso e restaurarsi. Ed è quanto è avvenuto al regime di Al Sisi. Il torturato paga per gli altri, paga per noi. Sono i cittadini che devono mobilitarsi - in Italia e, cosa ben più difficile, in Egitto. Non basta sapere i nomi degli agenti. È necessaria la condanna anche e soprattutto come gesto politico simbolico. Finché non ci sarà, il corpo di Giulio, lavagna dell’orrore, dove gli aguzzini hanno tracciato le lettere del loro fatuo potere, deve diventare, come ha detto la madre Paola Regeni, “specchio” eloquente dei diritti umani nel mondo. Il realismo accattone di Daniele Raineri Il Foglio, 12 dicembre 2020 Chi confonde il cinismo con il “realismo politico” sul delitto Regeni e al Sisi sta parlando a vanvera. Spesso quando si parla del caso Regeni si cita la categoria del realismo politico come modo di intendere gli affari internazionali. Per guidare il paese, si dice, occorre anche fare calcoli cinici: la morte del giovane ricercatore italiano è una tragedia, ma l’Egitto del presidente Abdel Fattah al Sisi è un paese strategico per molte questioni, dall’energia alla sicurezza nel Mediterraneo, e “in nome del realismo” l’Italia deve considerare tanti fattori, non soltanto la ricerca assoluta della verità. Mario Del Pero è professore di Storia internazionale a SciencesPo di Parigi e dice al Foglio che chi la pensa così sul caso Regeni e l’Egitto non ha capito cos’è il realismo e lo cita a sproposito. “La funzione prima, primitiva, primordiale, dello stato è quella di garantire i diritti fondamentali dei propri cittadini e il primo di questi diritti è quello alla vita. In un mondo dove ci si muove sempre di più questo vuol dire saper proiettare questa capacità di garantire la sicurezza dei propri soggetti anche al di fuori dei confini. Lo stato protegge i suoi cittadini. E’ la ragione per cui gli americani quando aprono basi militari in tutto il mondo si preoccupano come prima cosa di fare accordi politici con le autorità del posto in modo da garantire ai propri soldati l’immunità dal potere locale. E’ il concetto che i romani esprimevano con il detto ‘civis romanus sum’. Quella frase da sola era sufficiente: sono un cittadino romano, quindi badate bene a cosa fate, il corpo del cittadino dell’impero che viaggia è comunque e sempre un pezzetto dell’impero”. “La forza e la credibilità di uno stato - continua Del Pero - si misurano dalla capacità di offrire questa garanzia di sicurezza e protezione ai propri cittadini. E se applichiamo questo concetto al caso Regeni ne consegue che la forza e la credibilità dell’Italia si misurano dalla capacità di chiedere conto all’Egitto di quello che è successo al ricercatore italiano”. E quindi cosa rispondere a quelli che dicono, a volte senza usare parole chiare ma si capisce lo stesso, che è necessario “essere realisti”? “C’è un equivoco molto comune e diffuso, si scambia il realismo con il cinismo. Ma il realismo nelle relazioni internazionali ha un connotato etico forte: si è realisti perché si vuole ottenere uno scopo e questo scopo è alto e nobile. Altrimenti si ha quello che chiamo ‘realismo accattone’, perché è un realismo compromissorio, che si adegua al compromesso. Ma viene da chiedersi se sia vero realismo quello che nel corso di quattro anni, tanti ne sono passati, non ha ottenuto nulla dal governo egiziano. I quattro anni di cosiddetto realismo dopo l’assassinio di Regeni non hanno portato nulla all’Italia. Verrebbe da pensare che almeno l’Egitto dovrebbe comportarsi con noi con una cautela speciale dopo quello che è successo e invece il caso di Patrick Zaky, lo studente egiziano dell’Università di Bologna da più di trecento giorni in carcere come prigioniero politico che è diventato un caso anche in Italia, dimostra che non è così. Invece di essere trattati meglio ci è toccata un’altra umiliazione”. Cosa potremmo fare? “E’ chiaro che non abbiamo agito con forza. Ci sono opzioni che non abbiamo voluto scegliere. L’Italia non è riuscita a mobilitare e coinvolgere con efficacia i partner europei e l’Unione europea sul caso Regeni. Non è successo. Potevamo espellere dall’Italia gli agenti dell’Egitto sotto copertura diplomatica, come si sa ogni ambasciata ha un numero di dipendenti che sono diplomatici soltanto di facciata e invece fanno altro e i nostri servizi sanno benissimo chi sono. Nemmeno questo passo semplice è stato intrapreso”. C’è un rischio maggiore per gli italiani che vanno in giro per il mondo adesso? “Non è automatico, ma in generale se uno stato non è forte e credibile i suoi cittadini sono più in pericolo perché godono di una protezione minore”. E la definizione del regime egiziano come di un baluardo contro i gruppi terroristici la convince? “L’assenza di libertà politica nei paesi arabi sul breve termine ci sembra sia efficace contro i gruppi terroristici. In realtà favorisce le ideologie estremiste e l’islamismo e la destabilizzazione e quindi fa alzare il rischio terrorismo”. Giulio Regeni, i rimorsi e le bugie della prof di Cambridge. Il Pm: “Non ha aiutato le indagini” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 dicembre 2020 La professoressa Abdelrahman: “Ho mandato un ricercatore alla morte”. L’accusa dei pm anche al sindacalista egiziano Mohamed Abdallada: “Era lui l’esca degli agenti della National security”. Della professoressa Maha Mahfouz Abdelrahman, docente di Giulio Regeni all’università di Cambridge che ne seguiva il lavoro in Egitto, i magistrati della Procura di Roma denunciano “l’assenza di volontà di contribuire alle indagini relative al sequestro, la tortura e l’omicidio di un suo studente; quali siano le ragioni di siffatta anomala condotta non è stato possibile, sino ad oggi, accertare”. Così ha scritto il pubblico ministero Sergio Colaiocco nell’atto finale dell’inchiesta arrivata anche nel Regno Unito. Tuttavia dal computer della professoressa, acquisito tramite l’autorità giudiziaria britannica, è saltata fuori una e-mail inviata a una collega canadese il 7 febbraio 2016, quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio, in cui scriveva: “Ho mandato un giovane ricercatore verso la sua morte... Indicare alle persone come fare ricerca è qualcosa che, penso, sento di non dover più fare”. Poche parole “rivelatrici - secondo il pm - non solo del rimorso della docente per la sorte toccata al suo ricercatore, ma anche della leggerezza che aveva caratterizzato la sua gestione del dottorando Regeni, soprattutto nella fase di invio sul campo”. Il computer di Giulio - Dal computer di Giulio messo a disposizione dai suoi genitori (“una miniera di dati preziosissima per ricostruire i fatti, dimostrare la correttezza delle sue azioni in Egitto, smentire falsi testimoni e comprendere il movente dei fatti”, sottolinea la Procura) è venuto fuori, ad esempio, che era stata proprio Abdelrahman a suggerirgli di focalizzare studi e ricerche in Egitto sul “ruolo dei lavoratori nella rivoluzione nell’era post-Mubarak”, e in particolare sul ruolo dei sindacati autonomi, mentre lei ha affermato che fu un’iniziativa di Regeni. Altre “contraddizioni” riguardano la scelta della tutor al Cairo, sulla quale Giulio nutriva perplessità, e soprattutto l’idea di chiedere un finanziamento alla ricerca di 10.000 sterline alla Fondazione inglese Antipode. “È un bando che Maha mi ha inviato un po’ di tempo fa”, scrisse lo studente alla madre il 14 novembre 2015. La fondazione Antipode - Nella ricostruzione della Procura di Roma, quel finanziamento rappresenta un punto di svolta nel destino di Giulio. L’attenzione delle forze di sicurezza egiziane s’è moltiplicata dopo la scoperta che dietro i suoi contatti con gli ambulanti del Cairo poteva esserci Antipode. Lo disse anche il maggiore della National security Magdi Ibrahim Sharif, quando confessò al collega kenyota di aver arrestato Regeni: “Era appartenente alla Fondazione Antipode che spingeva per l’avvio di una rivoluzione in Egitto”. Non era vero, ma il solo fatto che Giulio parlasse di questa ipotesi “che non si concretizzerà mai” è diventato, per l’accusa, “una delle concause della sua tragica fine”. Il ruolo del sindacalista - Il ricercatore italiano condivise la possibilità di quel finanziamento anche con Mohamed Abdallah, leader del sindacato autonomo degli ambulanti. Il quale intravide la possibilità di guadagnarne qualcosa per sé, ma anche un sospetto da riferire agli agenti della National security. L’11 dicembre 2015 Regeni assiste a una riunione con oltre cento sindacalisti in cui si discute su come “arginare le manovre del governo Al Sisi tese a contrastare le sigle indipendenti”. C’è Abdallah e c’è pure una ragazza, coperta dal velo, che scatta una foto a Giulio; un episodio che lo preoccupò molto, secondo la testimonianza del suo amico e collega Francesco De Lellis. Una settimana dopo, il 18 dicembre, il maggiore Sharif chiede a Abdallah di approfondire la provenienza delle 10.000 sterline di cui gli ha parlato Regeni. Il sindacalista incontra Giulio, parlano dei soldi, e a sera Giulio annota sul suo computer: “Umana miseria... Mi ha chiesto che cosa ne verrebbe fuori per lui... Sono rimasto scioccato e gli ho risposto che ne sarebbe rimasto fuori per il fatto che è un sindacalista che lavora per i venditori ambulanti”. Dal ricercatore italiano Abdallah ha ottenuto una copia del bando, che Sharif manda a ritirare il 20 dicembre. L’intercettazione - Per le vacanze di Natale Giulio rientra a casa dai genitori, torna in Egitto il 4 gennaio e la National security riconvoca il sindacalista. Concordano un nuovo incontro tra lui e Regeni, che stavolta sarà registrato. I due si vedono la sera del 7 gennaio e al termine dell’intercettazione audio-video, nota da tempo, resta incisa la voce di Abdallah che chiama la caserma della National security per concordare la restituzione del microfono. Per la Procura di Roma questo episodio è “con tutta evidenza un’operazione degli apparati di sicurezza egiziani con la finalità di documentare l’attività “eversiva” di Regeni, che non solo ha tradito le aspettative, ma anche certificato la totale estraneità dell’italiano a qualsivoglia tentativo di sovvertire l’ordine costituito egiziano”. La tagliola che si stava chiudendo intorno a Giulio, però, non s’è fermata. Quello stesso 7 gennaio Regeni incontrò pure la professoressa Abdelrahman, in trasferta al Cairo. Lei ha sostenuto che tra il settembre 2015 e il 25 gennaio 2016 (giorno del sequestro) “non vi sono stati contatti significativi con Giulio”. Un’altra bugia per la Procura di Roma, che commenta: l’indagine ha accertato che in quel periodo ci furono “molti contatti, alcuni particolarmente significativi”. Stati Uniti. Trump non ferma il boia: a morte il più giovane detenuto in 70 anni Avvenire, 12 dicembre 2020 Continuano le esecuzioni federali anticipate per volere del presidente prima dell’insediamento del successore Joe Biden a gennaio. Brandon Bernard aveva 18 anni quando venne arrestato per omicidio Brandon Bernad aveva 40 anni, è stato ucciso nel carcere di Terre Haute nell’Indiana. L’Amministrazione americana di Donald Trump uccide ancora. L’America ha infatti effettuato la sua nona esecuzione federale dell’anno, uccidendo un membro di una banda di strada del Texas coinvolto nelle uccisioni di una coppia nell’Iowa più di vent’anni fa: Brandon Bernard aveva 18 anni quando prese parte a un duplice omicidio nel 1999. Altre quattro esecuzioni federali, inclusa una oggi, sono previste nelle settimane prima dell’insediamento del presidente eletto Joe Biden. Uno è stato effettuato a fine novembre. Altri tre condannati a morte sono afroamericani mentre la quinta a finire sul patibolo sarà il 12 gennaio 2021 una donna, Lisa Montgomery, che diventerebbe la prima donna a subire la pena capitale in circa 70 anni. Il caso di Brandon Bernard, che ha ricevuto un’iniezione letale di fenobarbital in una prigione americana a Terre Haute, nell’Indiana, è stata una rara esecuzione di una persona che era adolescente quando il suo crimine è stato commesso. È il più giovane ad essere messo a morte dal governo federale in quasi 70 anni. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump non ha così fermato le condanne a morte e la Corte Suprema ha respinto la richiesta all’ultimo minuto per rinviare l’esecuzione di Brandon Bernard di due settimane. Gli avvocati di Bernard avevano infatti chiesto che venisse loro concesso il tempo necessario a elaborare una petizione per salvargli la vita. Ma i giudici della Corte Suprema Stephen Breyer, Sonia Sotomayor ed Elena Kagan hanno respinto la richiesta. Molti dubbi rimanevano infatti nella ricostruzione dei delitti per i quali Bernard è stato condannato. Dopo essere stati rinchiusi nel bagagliaio, Todd e Stacie Bagley, marito e moglie, vennero uccisi con due colpi alla testa da un complice di Bernard, Christopher Vialva. Bernard diede poi fuoco alla macchina. Secondo i giurati, una delle due vittime, Stacie Bagley, morì per le esalazioni provocate dall’incendio, ma un medico indipendente assunto dalla difesa ha stabilito che la donna era già morta prima dell’incendio. A settembre Vialva è stato messo a morte con un’iniezione letale. Si tratta anche della prima esecuzione in 130 anni nel periodo di transizione tra un presidente e l’altro negli Stati Uniti, la nona federale da luglio quando Trump ha messo fine a una moratoria in corso da 17 anni. L’esecuzione di giovedì sera è stata la nona a livello federale da luglio, quando Donald Trump ha concluso una pausa di 17 anni nelle esecuzioni federali. Ha rivolto le sue ultime parole alla famiglia della coppia che ha ucciso. “Mi dispiace”, ha detto. “Sono le uniche parole che posso dire che catturano completamente come mi sento ora e come mi sono sentito quel giorno”, ha affermato. Trump ha ricevuto diverse petizioni per salvare la vita di Bernard, incluso un appello della star televisiva Kim Kardashian West, che in precedenza aveva rivolto un appello al presidente per conto delle persone incarcerate. Iran. Eseguita la condanna a morte del giornalista dissidente Ruhollah Zam Corriere della Sera, 12 dicembre 2020 Era stato arrestato nel 2019 dopo un periodo da rifugiato in Francia. Aveva 42 anni ed era il fondatore del canale Amad News, un milione di seguaci su Telegram: era accusato di averlo usato per fomentare le proteste del 2017. Il giornalista iraniano dissidente Ruhollah Zam, fondatore del canale Telegram Amad News, è stato giustiziato oggi all’alba in un carcere del suo Paese. Lo ha comunicato l’agenzia di stampa governativa Irna: Zam è stato impiccato, dopo la condanna a morte emanata a giugno al termine di un processo per “corruzione” che Reporters Sans Frontières aveva definito “estremamente ingiusto”. Il canale Telegram di Zam aveva più di un milione di seguaci, anche presso la stampa straniera che lo utilizzava spesso come fonte attendibile, ad esempio durante le proteste di piazza del 2017-2018, che Zam ora era accusato di avere fomentato. L’account era stato sospeso nel 2018, ma lui aveva ripreso le comunicazioni con un diverso nome. Ruollah Zam aveva 42 anni ed era figlio di Mohammad Ali-Zam, un riformista che ebbe incarichi politici negli anni Ottanta e Novanta. Era stato arrestato nel 2019, al ritorno in Iran dopo un periodo da rifugiato in Francia, dove era stato messo sotto protezione dal governo di Parigi. Già prima della fuga all’estero era stato per alcune settimane in prigione per aver contestato l’establishment iraniano al potere dopo le elezioni presidenziali del 2009. A ottobre 2019 la tv di Stato aveva trasmesso una sua “confessione”: Zam, provato e prigioniero, era apparso in video per “ammettere i miei errori” e chiedere perdono. In tv, per la prima volta, aveva “ammesso” che “la missione del canale Amad News era attentare al governo”. A giugno 2020, la condanna: l’accusa era di aver incitato le proteste di piazza che infiammarono il Paese nel 2017 e nel 2018 e che hanno rappresentato una seria minaccia al potere costituito nel Paese. Nel processo che poi ha portato alla sua condanna a morte, Zam è stato accusato anche di avere collaborato direttamente con il governo degli Stati Uniti, “per interferire nel sistema economico del Paese”; di lavorare come spia per l’intelligence francese, e anche di “condurre operazioni di spionaggio per un’intelligence straniera nella nostra regione”. Mizan, l’organo di informazione della magistratura, riporta che Zam “ha attentato alla sicurezza del popolo iraniano con il suo canale Telegram antagonista e le sue operazioni di spionaggio”. I suoi crimini “hanno portato alla morte di un gran numero di nostri compatrioti”.